Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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IL COMUNISTA

BENITO MUSSOLINI

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

Da Molfettadiscute.com

Da Malpensanews.it

Da Skepticism

Da Biografieonline.it

Da Francolondei.it

Da Ilgiornale.it

Da i45.tinypic.com

Da Wikimedia.org

Da Ilduce.net

Da Dagospia.com

Da Repubblica.it

 

 

LA MAFIA TI UCCIDE, TI AFFAMA, TI CONDANNA

IL POTERE TI INTIMA: SUBISCI E TACI

LE MAFIE TI ROVINANO LA VITA. QUESTA ITALIA TI DISTRUGGE LA SPERANZA

UNA VITA DI RITORSIONI, MA ORGOGLIOSO DI ESSERE DIVERSO

 

SOMMARIO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

COMUNISTA/FASCISTA A CHI?

INTRODUZIONE. PIU’ COMUNISTA DI COSI’.

DIO, PATRIA, FAMIGLIA.

LA PROPAGANDA E L'OSSESSIONE ANTIFASCISTA.

L’APOLOGIA DEL FASCISMO.

CONTRO LA CONGIURA DEL SILENZIO E DELLA MENZOGNA.

IL COROLLARIO DI PERSONAGGI.

I REGIMI TOTALITARI FIGLI DEL SOCIALISMO/COMUNISMO.

LA MASSONERIA ED IL NAZI-FASCISMO-COMUNISMO.

GLI ACCORDI SEGRETI DEI GERARCHI.

IL MUSSOLINI LIBERALE.

BENITO MUSSOLINI. UN COMUNISTA UCCISO DAI COMUNISTI.

QUANDO I NAZISTI CORTEGGIAVANO IL DUCE.

ALCUNE CITAZIONI DI BENITO MUSSOLINI

IL DUCE COMUNISTA.

IL DUCE ISLAMISTA.

IL FEDIFRAGO BENITO MUSSOLINI.

IL BENITO ROMANZIERE.

IL BENITO DRAMMATURGO.

MUSSOLINI GIORNALISTA. ODIERNO COMUNISTA.

IL FASCISMO E' DI SINISTRA!

CHI HA UCCISO BENITO MUSSOLINI?

MUSSOLINI. MORO, CRAXI. COME MUORE UNO STATISTA ITALIANO NON COMUNISTA.

LA ZONA GRIGIA. LA LOTTA DI CLASSE, LA REPUBBLICA SOCIALE (SALO’) ED IL REGNO DEL SUD.

25 APRILE. DATA DI UNA SCONFITTA.

L’ITALIA DELLE MENZOGNE.

E LA CHIAMANO DEMOCRAZIA…

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

L'UGUAGLIANZA E L’INVIDIA SOCIALE.

BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.

BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.

L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?

L’OLOCAUSTO COMUNISTA.

LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

REVISIONISMO STORICO.

REVISIONISMO. IL LINCIAGGIO DI RENZO DE FELICE.

REVISIONISMO. IL LINCIAGGIO DI GIAMPAOLO PANSA.

SIAM TUTTI FIGLI DI FASCISTI. I VOLTAGABBANA E L’INTELLETTUALE COLLETTIVO.

IL TRAVESTITISMO.

IL MINISTERO DELLA CULTURA POPOLARE (MINCULPOP) FASCISTA/COMUNISTA.

IL FASCISMO E GLI EROI DI CARTONE.

IL TRIBUNALE DEL DUCE. IL TRIBUNALE SPECIALE PER LA DIFESA DELO STATO.

LE LEGGI RAZZIALI FASCISTE.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

 c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

 ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori. 

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!      

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande

Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,

non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.

Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,

però potevo nascere in Africa od in Albania.

Siamo italiani, della provincia tarantina,

siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.

Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,

quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.

Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,

i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.

Le donne e gli uomini sono belli o carini,

ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.

 

Abbiamo il castello e pure il Torrione,

come abbiamo la Giostra del Rione,

per far capire che abbiamo origini lontane,

non come i barbari delle terre padane.

 

Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,

le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.

 

Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,

il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.

Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,

di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.

Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,

per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.

Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,

per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.

Però qua votano se tu dai,

e non perché se tu sai.

 

Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,

ma qua pure i marescialli si sentono generale.

 

Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,

se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.

Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,

questi sanno più della laurea che hai.

Su ogni argomento è sempre negazione,

tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.

Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,

per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.

Se i diamanti ai porci vorresti dare,

quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.

 

Abbiamo la piazza con il giardinetto,

dove si parla di politica nera, bianca e rossa.

Abbiamo la piazza con l’orologio erto,

dove si parla di calcio, per spararla grossa.

Abbiamo la piazza della via per mare,

dove i giornalisti ci stanno a denigrare.

 

Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,

e dove rimettiamo tutti i peccati.

Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,

da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.

 

Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,

come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.

Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,

se ci ricordiamo di loro solo per la festa.

Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,

come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.

 

Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,

li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.

 

Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,

mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.

 

Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,

abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.

 

Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,

i padroni pagano poco, ma basta per campare.

 

Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,

con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.

I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,

mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??

Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,

sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.

 

Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,

lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.

Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,

e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.

 

Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,

ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.

Anche se qua si sentono alti pure i nani,

che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.

Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,

a chi mi vuole male, neanche li penso,

pure che loro mi assalgono,

io guardo avanti e li incenso.

Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,

sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.

Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,

anche se i miei paesani non hanno sapore.

Il denaro, il divertimento e la panza,

per loro la mente non ha usanza.

Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,

per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.

Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,

Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.

Se non lasci opere che restano,

tutti di te si scordano.

Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,

il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.

 

 

 

La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande

Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,

no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.

Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,

però putia nasciri puru in africa o in Albania.

Simu italiani, ti la provincia tarantina,

simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.

Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,

quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.

Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,

Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.

Li femmini e li masculi so belli o carini,

ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.

 

Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,

comu tinumu la giostra ti li rioni,

pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,

no cumu li barbari ti li padani.

 

Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,

li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.

 

Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,

lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.

Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,

ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.

Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,

pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.

Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,

cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.

Però quà votunu ci tu tai,

e no piccè puru ca tu sai.

 

Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,

ma qua puru li marescialli si sentunu generali.

 

Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,

ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.

Cu parli cu li villani no cunvieni,

quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.

Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,

tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.

Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,

pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.

Ci li diamanti alli puerci tai,

quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.

 

Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,

do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.

Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,

do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.

Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,

donca ni sputtanunu li giornalisti amari.

 

Tinimu li chiesi donca pari simu amati,

e  donca rimittimu tutti li piccati.

Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,

di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.

 

Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,

comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.

Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,

ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.

No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,

comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.

 

Tinimu l’oratori do si portunu li fili,

li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.

 

Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,

mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.

 

Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,

tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.

 

Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,

li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.

 

Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,

cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.

Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,

ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??

Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,

so cattivi puru cu li frati e li soru.

 

Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,

ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.

Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,

e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.

 

Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,

ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.

Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,

ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.

Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,

a cinca mi oli mali mancu li penzu,

puru ca loru olunu mi calunu,

iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.

Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,

sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.

Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,

puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.

Li sordi, lu divertimentu e la panza,

pi loro la menti no teni usanza.

Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,

cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.

Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,

l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.

Ci no lassi operi ca restunu,

tutti ti te si ni scordunu.

Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,

lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.

Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.

 

 

 

  

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba

Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".

(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).

Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.

Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.

Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.

Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.

Quando ritardano anni una sentenza.

Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.

Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.

Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.

Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.

Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.

Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.

Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.

Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.

Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.

Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.

Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.

Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.

Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.

Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.

Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.

Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.

Quando si inventano i reati per finire sui giornali.

Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.

Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.

Quando indagano sui politici per ideologia.

Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.

Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.

Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.

Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.

Quando non indagano sui colleghi che delinquono.

Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.

Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.

Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.

Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.

Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.

Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.

Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.

Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.

Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.

Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.

Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.

Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.

A proposito di interdittive prefettizie.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.

Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.

Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.

La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.

A proposito di sequestri preventivi giudiziari.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

 Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.

Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio".  I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?

Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.

PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.

Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.

UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.

L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.

LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.

Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.

L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.

LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.

LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.

I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.

IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato.  Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».

Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?

«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».

E sull’indifferenza…

«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”

E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?

“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.

"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".

Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...

"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»

Come commenta...

«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».

Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.

«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».

Concludendo?

«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti»

L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.

Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.

Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.

Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.

DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".

Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.

«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.

I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:

Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);

Troppi pubblicisti;

Troppa informazione web;

Troppi italiani non leggono.

La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici.  Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.

FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.

Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.

COMUNISTA/FASCISTA A CHI?

Salvini, Di Maio o Renzi? Gli elettori del PD alla Leopolda non distinguono le dichiarazioni dell'ex leader politico del partito. Gli elettori del PD alla Leopolda non distinguono Matteo Renzi da Matteo Salvini. Scrive Saverio Tommasi il 23 ottobre 2018 (Video pubblicato su Striscia La Notizia di Canale 5 il 31 ottobre 2018. Sono stato alla Leopolda di Matteo Renzi per provare un esperimento sociale: sottoporre agli elettori del PD le dichiarazioni di Matteo Renzi, ma senza dire loro che le aveva pronunciate proprio il loro leader: Renzi.  Così le ho lette e ho chiesto loro di indovinare se le avesse pronunciate Luigi Di Maio o Matteo Salvini, attribuendo così la loro autenticità a uno dei due, invece che al loro vero autore: Matteo Renzi. Gli elettori di Matteo Renzi avranno riconosciuto l'autore delle dichiarazioni che abbiamo sottoposto loro? O le avranno attribuite davvero a Salvini e Di Maio? E quali saranno stati i loro commenti su tali dichiarazioni, non sapendo che le aveva pronunciate il loro leader Renzi, ma i due avversari politici Matteo Salvini e Luigi di Maio? Tutte le risposte le trovate nel video. IMPORTANTE: il video è sostanzialmente un gioco, teso soprattutto a mostrare come molti leader parlino in modo simile, con dichiarazioni talvolta interscambiabili. Non c'è nessuna volontà di presa in giro di elettori ed elettrici che anzi partecipano attivamente alla vita democratica di un partito o di un movimento, e questo è sempre un bene, qualunque sia quel partito o quel movimento. La volontà è invece quella di spingerci verso la memoria, per non scordare quello che i leader - di qualunque partito - dichiarano o promettono. Video di: Giampaolo Mannu e Saverio Tommasi.

Il fascistometro a premi. 24 domande per sapere da dove veniamo, chi siamo e dove andiamo, scrive il 31 Agosto 2014 Domenico Maltoni dalla sezione delPartito Comunista Lavoratori Romagna. Vi proponiamo il solito giochetto estivo, per passare il tempo ma anche per esercitare il senso critico: il Fascistometro. Un questionario per misurare la quantità di autoritarismo attualmente presente nel nostro paese. Il fascismo fu il livello massimo di autoritarismo dello Stato mai raggiunto in epoca moderna, per cui ci appare lontano più di quanto lo sia realmente negli anni. Ma il fascismo, come tutti i sistemi di governo e di potere, non è ciò che appare ai posteri ma ciò che appariva e come veniva percepito a livello di massa nel periodo in cui c’era. Dobbiamo infatti considerare che qualsiasi sistema politico, una volta stabilizzato, (il fascismo durò vent’anni), non si regge mai sulla pura coercizione ma anche su una certa quantità di consenso, non solo fra le classi dirigenti ma anche a livello popolare. Ma pure il consenso va qualificato; il consenso di massa al fascismo fu passivo, conformista e organizzato dall’alto con tecniche pubblicitarie assolutamente all’avanguardia per i tempi. Insomma quando c’era il fascismo la maggior parte della gente non sapeva che ci fosse, nel senso che quello era la realtà e non poteva esistere nient’altro. Questo fu possibile perché il fascismo si affermò con la sconfitta del movimento operaio, anzi fu lo strumento della borghesia e delle classi medie per reprimere le rivendicazioni dei movimenti proletari, operai e contadini. Lascio a voi le conclusioni: rispondendo alle domande del Fascistometro potrete misurare la quantità di fascismo che, secondo voi, è attualmente in vigore nel nostro paese. Ad ogni domanda rispondete dando un punteggio da uno a dieci. Una volta risposto a tutte le domande fate la somma e dividete per 24. 

Più basso sarà il punteggio medio ottenuto più alto risulterà il fascismo presente oggi in Italia. Se il Fascistometro avrà successo fra i nostri “visitatori”, colui/colei che si sarà avvicinato/a di più al punteggio medio di tutti i questionari inviati riceverà a casa gratuitamente un libro e l'ultimo numero della rivista teorica del PCL: “Marxismo Rivoluzionario”. 

1 Quanto l'attuale Governo risponde ai bisogni di tutti i cittadini? 

2 Quanta è la differenza ideologica e programmatica fra i partiti di governo e quelli di opposizione rappresentati in parlamento? 

3 A quale livello situate la rappresentanza dei lavoratori dipendenti nelle istituzioni nazionali e locali? 

4 Le attuali leggi elettorali maggioritarie, in che misura influenzano il risultato finale delle elezioni? Sotto i sei punti influenzano il risultato finale.

5 Durante le campagne elettorali, in che misura i mezzi di informazione di massa, soprattutto le televisioni, concedono uguale spazio ad ogni forza politica (par condicio)? 

6 Fra i poteri dello Stato, quale prevale fra potere esecutivo (governo) e potere legislativo (parlamento). Sotto i sei punti prevale l'esecutivo.

7 Quanta fiducia riponete nelle elezioni come mezzo per cambiare le cose? 

8 Quanto la giustizia è davvero uguale per tutti? 

9 In che misura le forze dell'ordine si comportano nella stessa maniera nei confronti di tutti? 

10 Le leggi in vigore tutelano di più i ricchi o i poveri? Sotto i sei punti tutelano i ricchi.

11 Secondo voi, quanto è presente fra gli italiani la solidarietà nei confronti degli immigrati? 

12 I Sindacati confederali (CGIL-CISL-UIL) quanto rappresentano veramente i lavoratori? 

13 Che voto daresti all'ultimo contratto della tua categoria? 

14 Sta migliorando o peggiorando il potere di acquisto dei salari degli stipendi e delle pensioni? Sotto i sei punti sta peggiorando.

15 I diritti dei lavoratori stanno migliorando o peggiorando? Sotto i sei punti peggiorano.

16 Quanto conta l'opinione dei lavoratori all'interno delle imprese? 

17 La sanità pubblica migliora o peggiora? Sotto i sei punti sta peggiorando.

18 La scuola pubblica migliora o peggiora? Sotto i sei punti sta peggiorando.

19 Quanto il governo opera per la tutela dell'ambiente naturale? 

20 Quanto il governo finanzia l'arte, la cultura e la ricerca scientifica per fini sociali? 

21 Il Governo e le forze politiche in parlamento, in che misura agiscono autonomamente dalle posizioni della chiesa cattolica? (laicità dello stato)

22 Che voto dareste al nostro Governo come operatore di pace nel mondo? 

23 In che misura è diffusa fra gli Italiani la conoscenza della propria storia? 

24 A che livello ponete la conoscenza politica degli italiani?

Il fascistometro di Michela Murgia: scopri la sinistra tragicomica, scrive Eugenio Palazzini il 31 ottobre 2018 su ilprimatonazionale.it. Michela Murgia scriveva romanzi. Poi si ricordò il passato nell’Azione Cattolica e decise che l’impegno politico era cosa buona e giusta, ma soprattutto fonte di salvezza. Rilasciò così qualche intervista estemporanea e fece subito capire a tutti di saperci fare anche con il realismo: auspicò l’indipendenza della Sardegna. Forte degli entusiasmanti successi elettorali del suo straripante partito, Progetu Repùblica de Sardigna, si convinse allora che l’isola c’è ed è italiana, ma qualcun altro più che altro ci fa e vorrebbe non esserlo. D’un tratto la fulgida figura della Murgia si ritrovò sulla copertina de L’Espresso insieme al compagno di folgorazioni Zerocalcare, con tanto di spiegone Damilano: “Ribelliamoci alla destra egemone. Perché nessuno possa dire: non avete fatto niente”, tuonava il settimanale del cristallino De Benedetti. Apriti sesamo, la scrittrice ex insegnante di religione cattolica ha spalancato le porte del magico regno della sinistra materialista. Ci siamo signori, nel deserto del tartaro ideologico si può adesso sguazzare ed emergere. Nessun punto di riferimento, nessuna credibilità, distacco totale da quel maledetto popolino che non ci segue più. Siamo pronti per “raccontare le parole perdute da ritrovare”, novelli Pollicino contro i vigliacchi oziosi sordi a ogni sofferenza. Caro Sancho, solo i cinici e i codardi non si svegliano all’aurora, eccoti serviti i nuovi Don Chisciotte (Cervantes ci perdoni per l’ignobile paragone). Pronti così a lanciarsi contro i mulini a vento in sella all’antifascismo ronzinante e armati del libello rosso dell’avvenire: “Istruzioni per diventare fascisti”. Perbacco Sancho, è un capolavoro questo saggio che ti propone in fin di sermone un bel test: “Scopri quanto sei fascista”. Il fascistometro della Murgia, pubblicato convintamente da L’Espresso, segnerà un’inaspettata svolta nella liquida irrealtà esistenziale di sinistra. “Spunta le frasi che ti sembrano di buon senso”, vi chiede la scrittrice sarda. Potrete leggere una sequela di esternazioni che quel maledetto popolino osa dire e pensare. Poi all’improvviso eccola, la frase delle frasi, quella che vi farà sobbalzare dalla sedia: “Il suffragio universale è sopravvalutato”. Fermi tutti, ma non era il Barbapapà di Repubblica Scalfari a dire di farla finita con questa “trovata” troppo democratica? Nossignori, secondo la Murgia è il popolo che vota male, ovvero non come vorrebbe lei. Lo stesso che urla (si legge nel fascistrometro) che “un paese senza confini non è un paese”. Perbacco fortuna che la Sardegna di confini ne è priva, altrimenti sai gli indipendentisti. E che straparla di “radici cristiane da difendere”, perché acciderbolina mica siamo all’Azione Cattolica adesso. Il resto delle presunte frasi in bocca al popolo pronto a diventare fascista potete gustarvele sul settimanale debenedettino. Vi serviranno ad ammirare la banalità del presunto bene di cui si ammantano i detentori della morale, gli stessi che si dilettano a citare il “male” della Arendt, quasi sempre avendone letto giusto la quarta di copertina sugli scaffali della Feltrinelli. Un coacervo di stereotipi e caricature del popolo, quella massa prima osannata e oggi appunto relegata a popolino che si fa abbindolare dal populismo. Sul piedistallo del disprezzo si finisce disprezzati e non resta che il tempus loquendi proprio quando urge il tacendi. Ma la sinistra ha smesso di voltarsi indietro alla ricerca di se stessa, ormai è fuori dal tempo e cerca solo castagne marce nel paniere dell’avversario. Eppure l’avversario gioca ormai una partita in solitaria, senza il piacere di trovarsi di fronte un giocatore, come in un settimo sigillo privo di cavalieri ma stracolmo di saltimbanchi che sembrano non accorgersi della tragedia che li circonda. Eugenio Palazzini

Mi costituisco: "Io sono un fascista". Lo ha detto la Murgia. Il test radical chic sull'Espresso: basta non essere fan dell'immigrazione per essere schedati come fascisti, scrive Francesco Maria Del Vigo, Venerdì 2/11/2018 su "Il Giornale". Mi costituisco: sono fascista. Le forze dell'ordine chiamino pure la segreteria del Giornale che darà loro i miei estremi. Tra l'altro abito a Milano, quindi ci mettono un attimo a tradurmi in piazzale Loreto. Sono fascista a mia insaputa. D'altronde c'è chi aveva le case a sua insaputa, figurarsi se io non posso avere il cuore nero, a mia insaputa. Sono fascista al 54,5 per cento, lo so con precisione, perché me lo ha detto la Murgia. Michela Murgia, la scrittrice che con la scusa di andare in tv a smarchettare i suoi libri propala tonnellate di buonismo. Spettacolo al contempo disgustoso ed esilarante. La Murgia, essendo di professione denunciatrice di fascismi (con un lievissimo ritardo di 73 anni), vede ovunque camicie nere e fasci littori. Ha così paura di rimanere senza lavoro - cioè senza camerati - che si è anche premurata di dare alle stampe un libro dal titolo chiarissimo: «Istruzioni per diventare fascista». Lei pensa di essere provocatoria e invece è inconsapevolmente sincera: foraggia il settore sul quale lucra. La Murgia sta al fascismo come il servizio di pompe funebri sta alla morte. Il primo non si augura esplicitamente il secondo, ma diciamo che gli fa comodo. Così, non essendoci fascismo in Italia, lei se lo inventa. Vede fascisti in ogni dove. In calce al suo libro, per fugare ogni dubbio, ha messo un test: il fascistometro. Prontamente ripreso dal sito dell'Espresso e immediatamente spernacchiato in rete. «Come direbbe Forrest Gump: fascista è chi il fascista fa. Ma pensaci un attimo: quanto puoi dirti davvero fascista? (...). Perciò meglio non rischiare: esegui questo test, scopri qual è il tuo livello di fascismo e segui le istruzioni per migliorarti puoi sempre farlo, non c'è limite al fascismo», recita il testo. E poi il trappolone, perché, ovviamente, lo scopo del questionario è farti sentire anche solo un briciolo fascista. E quindi sbagliato. «Spunta le frasi che ti sembrano di buon senso», mi esorta la Murgia. E giù una lenzuolata di sessantacinque dichiarazioni: alcune surreali, altre naïf, molte banali e tante condivisibili. «Non abbiamo il dovere morale di accoglierli tutti», «in Italia chiunque può dire No e bloccare un'opera strategica», «prima dovrebbero venire gli italiani», «i bambini dovrebbero fare i bambini e le bambine le bambine», «facile parlare quando hai il culo al caldo e l'attico in centro», «uno vale uno», «non sono profughi, sono migranti economici», «penso ai nostri ragazzi delle forze armate», «c'erano quelli dei centri sociali» e via discorrendo. Alla Murgia piace vincere facile, è evidente. Perché mentre spunto il questionario in modo furtivo, guardando che alle spalle non arrivi una brigata partigiana per rastrellarmi, mi rendo conto che secondo il Murgia-pensiero tutto ciò che non è ipocrita melassa radical chic è fascismo. Ma proprio tutto: da Forza Italia al Pd, passando per il Movimento 5 Stelle e ovviamente la Lega. Praticamente rimangono fuori solo lei, quattro gatti di Leu e due vecchi arnesi di Potere al popolo. Basta mettere, anche solo minimamente, in dubbio l'accoglienza indiscriminata, lamentarsi della sicurezza e magari difendere gli interessi del proprio Paese e in un battibaleno ci si ritrova con gli stivaloni, il fez e la camicia nera. Finito l'estenuante test, clicco in fondo alla pagina e dopo qualche secondo di interminabile attesa ho il responso: sono fascista al 54,5 per cento. Con la mano sinistra blocco il braccio destro, perché qui - d'istinto - stava per partirmi un saluto romano. Avrei dato una gioia alla Murgia. Non la merita. E poi io credo nel libero mercato, penso che lo Stato sia un male (necessario) che debba stare il più possibile alla larga da me, sono garantista e libertario, ho pure i capelli lunghi e la barba. Cosa vuole la Murgia dalla mia vita? Non ho manco fatto il militare. Mussolini mi avrebbe mandato direttamente al confino. Che poi, se penso a quello di Curzio Malaparte, non era neppure così male eh... Accidenti, ma allora sono davvero fascista? Una delle affermazioni del questionario era proprio «non ha ucciso nessuno, al massimo mandava la gente in vacanza al confino». E io non l'ho nemmeno spuntata, altrimenti salivo all'80 per cento nel fascistometro. Il problema è che la Murgia, e quelli come lei, vorrebbero mandare al confino, morale e intellettuale, tutti quelli che non la pensano come loro. Da un altro punto di vista, però, il fascistometro è uno strumento formidabile. Perché si trasforma in un radicalchiccometro che ci restituisce perfettamente tutto l'odio e il distacco che quel che resta della sinistra ha per la pubblica opinione. Per usare il dizionario della Murgia: c'è odore di fascismo in questo aristocratico complesso di superiorità. Va beh, chiudo il computer e vado a farmi due salti nei cerchi infuocati.

Lenin è di destra. Lo dice il demenziale fascistometro, scrive il 2 novembre 2018 Diego Fusaro, Filosofo, su "Il Fatto Quotidiano". L’antifascismo in assenza di fascismo come alibi delle sinistre per non essere anticapitaliste in presenza di capitalismo è già abominevole di suo. Ma non bastava. Ecco recentemente: “È un cane fascista. L’interrogazione del consigliere Pd di Monza”. Il logos è perduto e, con esso, anche la dignità. Ma, anche in questo caso, non bastava. Ed ecco ora che arriva il termometro che misura la temperatura fascista nascosta in ciascuno di noi. È il fascistometro, il culmine dell’idiozia delle sinistre che si dilettano nel fare le antifasciste, finché il fascismo non c’è, per poter essere lietamente al servigio del capitale, quando esso c’è. E così possono tranquillamente condannare il manganello mussoliniano, che per fortuna non c’è più, e insieme accettare e legittimare il manganello invisibile dell’Unione europea e delle politiche di austerità liberista, che sta massacrando le classi lavoratrici e i popoli d’Europa. Secondo il fascistometro, di fatto figura come fascista chiunque non sia ortodosso rispetto ai dogmi del pensiero unico mondialista liberal-libertario. Fascista chi crede nella sovranità nazionale democratica dell’Italia. Fascista chi difende la famiglia. Fascista chi vuole proteggere i diritti dei lavoratori contro il mercato cosmopolita. Fascista chi non rinunzi al concetto di patria. Insomma, secondo il demenziale fascistometro sarebbero fascisti financo Lenin e Togliatti, Gramsci e il Che Guevara di Patria o Muerte. L’abbiamo capito. Il fascistometro è un’arma, per quanto risibile, nelle mani dei dominanti, a cui procura consenso e legittimazione. L’ho detto e lo ridico. Il benemerito ed eroico antifascismo di Gramsci era patriottico, anticapitalista e in presenza reale di fascismo. L’antifascismo patetico e vile odierno delle sinistre è globalista, ultracapitalista e in assenza totale di fascismo. Quando poi il fascismo torna, le suddette sinistre lo appoggiano in pieno. Ricordate il colpo di Stato in Ucraina nel 2014? Secondo la Russia, era appoggiato dagli Usa e dalla Ue, desiderosi di destabilizzare gli ex spazi sovietici e di atlantizzarli. Ordunque, le sinistre erano con l’Ucraina e contro Putin, che si batté contro i nazifascisti ucraini (Svoboda, Pravi Sektor) mentre per i nostri antifascisti è il fascista per eccellenza. Di tutto ciò ovviamente non v’è traccia nel demenziale fascistometro messo a punto da qualche intellettuale che ha messo la propria testa al servizio del capitale e della sua classe di riferimento.

Oddio, siamo tutti fascisti (oppure il Fascistometro è rotto), scrive "L'Inkiesta" l'1 novembre 2018. Il test per determinare il quoziente di fascismo legato al libro di Michela Murgia offre risultati imbarazzanti. E fa capire molti argomenti e ragionamenti considerati fascisti fanno parte in modo radicato dei valori e delle idee di sinistra. Il Professor G.C., uno che studia storia dell'Urss da tutta la vita e non nasconde la nostalgia per l'Est prima della caduta del Muro, ammette di essere ai limiti: punteggio 15,2, la soglia che divide i «democratici incazzati» dai fascisti. Il compagno A.D.L il limite l'ha superato e sta a 28,6, cioè pronto per il fez e l'orbace. B.C. Ha in bacheca foto di Che Guevara e però sta a quota 17, «neofita o proto-fascista», e viene ammonito: «Sei consapevole di quanto il metodo fascista sia efficace ma lo consideri un'opzione tra le altre». Il test allegato all'ultimo libro di Michela Murgia (“Istruzioni per diventare fascisti”, Einaudi, pp. 112, euro 12) suscita più apprensione a sinistra che a destraperché, cliccando sulle 65 domande riproposte dall'Espresso online, anche i più tenaci democratici scoprono di coltivare segrete pulsioni autoritarie e nostalgie innominabili. Il questionario è effettivamente illuminante. Leggendolo, è chiaro che una volta stabilito l'assioma populismo = fascismo, toccherà promuovere a Quadrumviri un buon numero di democratici doc. «Lo stupro è più inaccettabile se lo commette uno straniero»? La prima a dirlo fu Debora Serracchiani, all'epoca governatrice Pd del Friuli. «Le indennità parlamentari sono un insopportabile privilegio»? Opinione largamente condivisa da Leu a Fratelli d'Italia. «Rottamiamoli»? Sicuramente Made in Matteo Renzi. «Le quote rosa sono offensive per le donne»? Lo pensano soprattutto i deputati del Pd, furono loro nel 2014 ad affossare il capitolo dell'Italicum che le prevedeva. «Le quote rosa sono offensive per le donne»? Lo pensano soprattutto i deputati del Pd, furono loro nel 2014 ad affossare il capitolo dell'Italicum che le prevedeva. Insomma, a guardare il Fascistometro, «Vogliamo i Colonnelli» lo gridano un po' tutti, destra, sinistra, centro. Persino sul tema degli stranieri, cartina al tornasole dei tempi, l'eventuale consenso all'espressione «aiutiamoli a casa loro» mette insieme affondatori di barconi e terzomondisti convinti, simpatizzanti del Ku Klux Klan e vecchi supporter della guerriglia del Frelimo, per non parlare di Marco Minniti e di Matteo Salvini, entrambi convinti della validità dell'opzione. Tutti fascisti, nessuno fascista o cosa? Il paradosso della situazione è che la sinistra, per demolire la narrazione della maschia gioventù dovrebbe scavalcarla proprio sul piano della fascisteria. Terre incolte in concessione per vent'anni alle famiglie? Il fascismo le terre diede in proprietà ai braccianti, dopo aver espropriato il latifondo ai principi, abbiate il coraggio di fare altrettanto. Premi alla natalità? Tirate fuori un'Opera Maternità e Infanzia, una tassa sul celibato, un prestito matrimoniale a tasso zero, un premio di natalità per tutte (500 lire, un mese di stipendio di un impiegato qualificato). Grandi opere? Non basta un ponte, una pedemontana, un tunnel per farsi belli, fateci vedere una bonifica pontina. Ma ovviamente questo incasinerebbe ulteriormente le cose perché i signori G.C., A.D.L. E B.C., con i loro trascorsi sicuramente democratici e progressisti, si ritroverebbero a polemizzare col fascismo alle vongole in nome del fascismo storico. Roba da psichiatra. L'eventuale consenso all'espressione «aiutiamoli a casa loro» mette insieme affondatori di barconi e terzomondisti convinti, simpatizzanti del Ku Klux Klan e vecchi supporter della guerriglia del Frelimo, per non parlare di Marco Minniti. Qualche giorno fa in un editoriale molto discusso Paolo Mieli, giusto in coincidenza con la fatal data del 28 ottobre, invitava a riflettere sull'uso improprio delle accuse di fascismo, nel tempo rivolte da sinistra a qualsiasi avversario: da Gronchi a Segni, e in seguito anche Saragat, Leone, Cossiga, Fanfani e persino Scelba (quello che firmò la legge che vietava la ricostituzione del Pnf), per non parlare di Andreotti, Craxi, Berlusconi e ogni leader straniero non-amico a cominciare da Charles De Gaulle, che pure guidò la resistenza francese al nazismo. Attenzione – concludeva Mieli – ad agitare fantasmi, si rischia di non capire «la specificità di movimenti nuovi che vanno individuate in ogni epoca senza indulgere alle evocazioni facilone». A quel tipo di pericolo se ne aggiunge adesso uno nuovo. A furia di allargare la definizione di fascismo, di estenderla a ogni manifestazione dell'autorità che non ci piace, ecco, tra un po' scopriremo che è fascista pure il fidanzato appena tornato dalla convention di Zingaretti, la moglie andata in piazza con “Tutti per Roma”, per non parlare dell'amica del cuore che cento volte ha scritto sulla sua bacheca «Vi ricordo che questa gente vota» (voce n. 40 del Fascistometro).

Da “Circo Massimo - Radio Capital”, 1 novembre 2018. Un test che fa arrabbiare tutti. Alla fine dell'ultimo saggio di Michela Murgia "Istruzioni per diventare fascisti" (Einaudi) c'è il fascistometro, un questionario che misura quanto si è fascisti: "È una raccolta di 65 frasi veramente pronunciate da politici negli ultimi vent'anni. Potrebbero essere state dette dalla stessa persona, ma alcune le ha pronunciate Salvini e altre Serracchiani", racconta Murgia a Circo Massimo, su Radio Capital, "Persone che ideologicamente dovrebbero essere contrapposte. Come Renzi e Salvini, che hanno utilizzato due parole, rottamazione ruspa, che appartengono alla stessa area semantica: entrambe vedono l'altro come un detrito, un rifiuto". Quel fascistometro, però, ha fatto arrabbiare tanti. Anzi, tutti: "Tante persone di sinistra che hanno fatto il test si sono infuriate perché sono risultate simpatizzanti", rivela la scrittrice, "ma mi hanno scritto anche militanti di Casapound indignati perché risultavano fascisti solo al 47%". Critico anche Massimo Gramellini, risultato protofascista: "Avrei detto un punteggio più alto", scherza Murgia, che poi risponde al vicedirettore del Corriere della Sera: "Sbaglia quando dice che misurare il fascismo altrui è un gesto fascista, perché quel test serve a misurare il mio fascismo, e anche il suo, in termini di metodo. Ideologicamente, siamo tutti d'accordo, quelli di sinistra, di non essere fascisti; il problema è quando ci ritroviamo a fare le stesse cose che fanno gli altri, come quando alcune persone di di estrema sinistra aggredirono un nazifascista". Il risultato di Massimo Gramellini, fra l'altro, è lo stesso proprio di Michela Murgia: "Anch'io sono risultata protofascista, ma secondo me perché non sono stata del tutto sincera. Chiaro che all'esito della brexit ho guardato i risultati e ho pensato che il suffragio universale fosse sopravvalutato, poi però mi fermo un attimo e ragionando mi rendo conto che non vorrei un mondo in cui il voto fosse solo di pochi oligarchi illuminati".  

CONFESSIONI DI UN PROTOFASCISTA. Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” l'1 novembre 2018. Ho risposto alle sessantacinque domande del fascistometro, l'illuminante test pubblicato da Michela Murgia nel suo ultimo saggio Einaudi per misurare il tasso di fascismo presente in ciascuno di noi, e sono preoccupato. Risulto appartenere al profilo «protofascista». Non ancora un gerarca con l'orbace, ma un insincero democratico che considera il ricorso alla dittatura una delle opzioni possibili. E tutto perché ho spuntato alcune voci che, nella mia ingenuità (altro sintomo, temo, di protofascismo), consideravo ovvie. Per esempio che in Italia ci sono troppi parlamentari: il doppio degli Stati Uniti, cinque volte più popolati di noi. O che la gran parte dei richiedenti asilo sono migranti economici e non rifugiati politici: affermazione non attribuibile al Ku Klux Klan, ma ai report del ministero dell'Interno. Oppure che, nella patria dei Tar, chiunque può bloccare un'opera pubblica con ricorsi infiniti. Non si tratta di opinioni, ma di fatti. A meno che, per meritarsi l'appellativo di fascista, in alcuni casi basti dire la verità. Quando verrò chiamato a rispondere dei miei crimini, proverò a difendermi così. Non tutto ciò che pensa la maggioranza è reazionario. I luoghi comuni diventano tali anche perché ogni tanto sono veri. E se il fascismo è sopraffazione, conformismo e inflessibile mancanza di senso dell'ironia, alle sessantacinque voci del fascistometro bisognerebbe aggiungere la numero 66: «Scrivere un test per misurare il fascismo altrui».

IL FASCISTOMETRO BUONISTA TRASFORMA TUTTI IN CAMICIE NERE di Francesco Maria Del Vigo per “il Giornale” l'1 novembre 2018. Mi costituisco: sono fascista. Le forze dell'ordine chiamino pure la segreteria del Giornale che darà loro i miei estremi. Tra l'altro abito a Milano, quindi ci mettono un attimo a tradurmi in piazzale Loreto. Sono fascista a mia insaputa. D'altronde c' è chi aveva le case a sua insaputa, figurarsi se io non posso avere il cuore nero, a mia insaputa. Sono fascista al 54,5 per cento, lo so con precisione, perché me lo ha detto la Murgia. Michela Murgia, la scrittrice che con la scusa di andare in tv a smarchettare i suoi libri propala tonnellate di buonismo. Spettacolo al contempo disgustoso ed esilarante. La Murgia, essendo di professione denunciatrice di fascismi (con un lievissimo ritardo di 73 anni), vede ovunque camicie nere e fasci littori. Ha così paura di rimanere senza lavoro - cioè senza camerati - che si è anche premurata di dare alle stampe un libro dal titolo chiarissimo: «Istruzioni per diventare fascista». Lei pensa di essere provocatoria e invece è inconsapevolmente sincera: foraggia il settore sul quale lucra. La Murgia sta al fascismo come il servizio di pompe funebri sta alla morte. Il primo non si augura esplicitamente il secondo, ma diciamo che gli fa comodo. Così, non essendoci fascismo in Italia, lei se lo inventa. Vede fascisti in ogni dove. In calce al suo libro, per fugare ogni dubbio, ha messo un test: il fascistometro. Prontamente ripreso dal sito dell'Espresso e immediatamente spernacchiato in rete. «Come direbbe Forrest Gump: fascista è chi il fascista fa. Ma pensaci un attimo: quanto puoi dirti davvero fascista? Perciò meglio non rischiare: esegui questo test, scopri qual è il tuo livello di fascismo e segui le istruzioni per migliorarti puoi sempre farlo, non c' è limite al fascismo», recita il testo. E poi il trappolone, perché, ovviamente, lo scopo del questionario è farti sentire anche solo un briciolo fascista. E quindi sbagliato. «Spunta le frasi che ti sembrano di buon senso», mi esorta la Murgia. E giù una lenzuolata di sessantacinque dichiarazioni: alcune surreali, altre naïf, molte banali e tante condivisibili. «Non abbiamo il dovere morale di accoglierli tutti», «in Italia chiunque può dire No e bloccare un'opera strategica», «prima dovrebbero venire gli italiani», «i bambini dovrebbero fare i bambini e le bambine le bambine», «facile parlare quando hai il culo al caldo e l'attico in centro», «uno vale uno», «non sono profughi, sono migranti economici», «penso ai nostri ragazzi delle forze armate», «c' erano quelli dei centri sociali» e via discorrendo. Alla Murgia piace vincere facile, è evidente. Perché mentre spunto il questionario in modo furtivo, guardando che alle spalle non arrivi una brigata partigiana per rastrellarmi, mi rendo conto che secondo il Murgia-pensiero tutto ciò che non è ipocrita melassa radical chic è fascismo. Ma proprio tutto: da Forza Italia al Pd, passando per il Movimento 5 Stelle e ovviamente la Lega. Praticamente rimangono fuori solo lei, quattro gatti di Leu e due vecchi arnesi di Potere al popolo. Basta mettere, anche solo minimamente, in dubbio l'accoglienza indiscriminata, lamentarsi della sicurezza e magari difendere gli interessi del proprio Paese e in un battibaleno ci si ritrova con gli stivaloni, il fez e la camicia nera. Finito l'estenuante test, clicco in fondo alla pagina e dopo qualche secondo di interminabile attesa ho il responso: sono fascista al 54,5 per cento. Con la mano sinistra blocco il braccio destro, perché qui - d' istinto - stava per partirmi un saluto romano. Avrei dato una gioia alla Murgia. Non la merita. E poi io credo nel libero mercato, penso che lo Stato sia un male (necessario) che debba stare il più possibile alla larga da me, sono garantista e libertario, ho pure i capelli lunghi e la barba. Cosa vuole la Murgia dalla mia vita? Non ho manco fatto il militare. Mussolini mi avrebbe mandato direttamente al confino. Che poi, se penso a quello di Curzio Malaparte, non era neppure così male eh... Accidenti, ma allora sono davvero fascista? Una delle affermazioni del questionario era proprio «non ha ucciso nessuno, al massimo mandava la gente in vacanza al confino». E io non l'ho nemmeno spuntata, altrimenti salivo all' 80 per cento nel fascistometro. Il problema è che la Murgia, e quelli come lei, vorrebbero mandare al confino, morale e intellettuale, tutti quelli che non la pensano come loro. Da un altro punto di vista, però, il fascistometro è uno strumento formidabile. Perché si trasforma in un radicalchiccometro che ci restituisce perfettamente tutto l'odio e il distacco che quel che resta della sinistra ha per la pubblica opinione. Per usare il dizionario della Murgia: c'è odore di fascismo in questo aristocratico complesso di superiorità. Va beh, chiudo il computer e vado a farmi due salti nei cerchi infuocati.

Il giorno in cui ci siamo svegliati tutti fascisti, grazie a Michela Murgia. Il “fascistometro” della scrittrice doveva stabilire il grado di fascismo in noi, ma ci ha fatto capire cosa considera fascista lei: più o meno tutto. E se tutto è fascista, niente è fascista, scrive Manuel Peruzzo il 2 novembre 2018 su Wired. Non sapevo d’essere fascista. Michela Murgia ha inventato un nuovo format col quale indagare il nostro grado di violenza politica, è il fascistometro, un test sull’Espresso con 65 frasi da bar che sembra servire più a promuovere il suo nuovo libro Istruzioni per diventare fascisti, Einaudi, che a stabilire quanto siamo nei guai. Tra le domande ci sono frasi da bar (“loro sono i primi che rubano”; “Non rispettano le nostre tradizioni”; “E i nostri figli laureati costretti a emigrare!”), ci sono i tormentoni leghisti (“è finita la pacchia” “l’ideologia gender sta rovinando le famiglie” “li raderei al suolo e spianerei con una ruspa”), i mantra grillini (“uno vale uno” “Non sono profughi, sono migranti economici” “sono laureato all’università della vita”) e pure la quota Pd (“rottamiamoli tutti”). Ci sono anche frasi generiche, alcuni luoghi comuni che diventano tali perché effettivamente hanno un fondo di verità, frasi su cui si può discutere: ma bollare come fascista chiude le porte a qualsiasi tipo di discorso, ovviamente. Per Murgia c’è del proto fascismo in tutti. “Il suffragio universale è sopravvalutato”, uno degli enunciati presenti nel fascistometro murgiano, è una frase che possiamo trovare in Contro la democrazia di Jason Brennan, filosofo analitico e libertario, che sostiene in questo saggio la possibilità di superare la democrazia grazie a un sistema nel quale il potere politico è ripartito sulla base della conoscenza; “il cittadino medio è come un bambino di 12 anni non troppo intelligente”, non è altro che l’esito di numerosi studi: lo scienziato politico Larry Bartels osserva che “l’ignoranza politica degli elettori americani è uno dei tratti meglio documentati della politica contemporanea”, il teorico della politica Jeffrey Friedman che “il pubblico è estremamente più ignorante di quanto gli accademici e i giornalisti che lo osservano possono immaginare” (e in Italia le cose non vanno meglio). Ancora, proseguendo nel questionario della scrittrice, “non abbiamo il dovere morale di accoglierli tutti” non significa solo, sempre e necessariamente che non si debba prestare soccorso a chi naufraga, ma può anche assumere una prospettiva che richiede un minimo di realismo: non si può effettivamente accogliere chiunque senza una politica, dei mezzi, una certa dovuta organizzazione; “le quote rosa sono offensive per le donne”, è una frase che suona diversa a seconda di chi la pronuncia: se a dirlo sono Camille Paglia e Emma Bonino è un conto, se è MachoLatino85 su internet del tutto un altro. La cattiva fede di chi esprime una frase ambigua non deve però screditare o portare a facili assolutismi (tipici dei regimi totalitari, peraltro): in quest’ultimo caso, il principio che si può intendere è che l’autodeterminazione femminile, per alcune femministe, passa per l’equità nel merito e non per aiuti speciali in quote percentuali. Murgia riesce anche a sostenere che se uno dice “ci vorrebbe il presidenzialismo” è un po’ fascista (Pannella si starà rivoltando nella tomba). Non resta che chiederselo: cos’è il fascismo? Prendere a scarpate gli appunti del commissario europeo agli Affari economici, indossare una maglietta con la scritta Auschwitzland a Predappio, concedere terreni coltivabili e da bonificare alle famiglie che fanno il terzo figlio, essere conservatori sul ruolo della donna nella società, negare diritti all’aborto, alle coppie di fatto, all’eutanasia, forse. Ma forse no. Facendo di tutta l’erba un fascio (ops), in ogni caso, si rischia di svuotare la parola fascismo del suo significato: se tutto è fascismo non lo è più nulla. Una destra conservatrice, cattolica, bigotta non è necessariamente fascista. Una donna in gita a Predappio forse sarà fascista, ma è soprattutto penosa e grottesca. Non lo era di certo Renzi quando cercava il ricambio generazionale, e probabilmente non lo sono neppure i grillini. Sono qualcos’altro, e il problema è adattare lenti interpretative vecchie a fenomeni nuovi, finendo per deformare tutto. Il fascistometro di Murgia più che stabilire il grado di fascismo in noi, qualsiasi cosa voglia dire, ci fa capire cosa considera fascista lei: più o meno tutto. Se credi nel presidenzialismo, sei fascista; se sai che l’elettorato è mediamente ignorante e vota senza cognizione, sei fascista; se dai ascolto ai dati e sai che i migranti sono soprattutto economici, sei fascista; se dai una possibilità all’epistemocrazia e pensi che la democrazia possa essere migliorabile, sei fascista. E se non sei fascista puoi diventarlo perché alcuni fascisti secondo Murgia erano democratici (forse si riferisce ai comunisti: che non erano democratici). Come manovra di marketing funziona, tutti ne parlano e si sentono in colpa, ma dal punto di vista storico e interpretativo è un ottusometro. Murgia mi ha convinto, per capire meglio il fascismo meglio i libri di Renzo De Felice, Sergio Luzzatto ed Emilio Gentile. 

Michela Murgia e il "fascistometro". La vergogna rossa sull'Espresso, come insulta gli italiani, scrive il 2 Novembre 2018 Gianluca Veneziani su "Libero Quotidiano". Gentili signori della corte rossa, giudici del Tribunale del Pensiero Unico, lo confesso: sono un fascista. Ho ripetutamente difeso la famiglia naturale, ho creduto che i bambini debbano fare i bambini e le bambine le bambine, ho scritto di radici cristiane dell'Europa e mi sono convinto che un Paese, per essere tale, debba avere dei confini; ho perfino sostenuto la bontà della legittima difesa, ho polemizzato contro le quote rosa, ho sottolineato la differenza tra migranti economici e profughi e ho addirittura elogiato l'operato delle Forze Armate. Sì, lo so, non vado ancora in giro con fez e camicia nera, non ostento saluti romani né grido in pubblica piazza «Viva il Duce»; sono ancora un fascista immaturo, un proto-fascista, come risulta dall' illuminante test del «Fascistometro», pubblicato sul sito dell'Espresso, cui mi sono volontariamente sottoposto, per tirar fuori il fascista nascosto che è in me. Devo migliorare, ne sono consapevole, ma in questo percorso di formazione mi aiuterà il vademecum per riconoscersi camerati a propria insaputa, ossia l'imperdibile "Istruzioni per diventare fascisti" (Einaudi, pp. 100, euro 12) della nostrissima Michela Murgia. Questo testo servirà a me e tutti voi, cripto-fascisti, a identificare non solo latenti nostalgie del Ventennio, ma soprattutto a riconoscere metodi, linguaggi, stile e approccio alla vita di un uomo nato con la camicia (nera). Perché, fa sapere l'autrice attingendo al filosofo Forrest Gump, fascista è chi il fascista fa.

EJA EJA ALALÀ - Ad esempio, siete soliti utilizzare la parola «capo» anziché «leader», o cercate qualcuno da cui essere guidati e non solo ispirati? Ebbene, siete dei fascisti! Osate sostenere che gli italiani si sono impoveriti e che gli anziani debbano essere sostenuti con contributi materiali? Non fate altro che attingere alla retorica già adottata da zio Benito. Ancora: siete favorevoli all' uso della forza da parte dello Stato per tutelarci dai malviventi, oppure, in assenza dello Stato, siete disposti a difendervi da soli con le armi? Non lo ammettete, ma in entrambi i casi siete fascisti appassionati di violenza. Se poi vi siete stancati del linguaggio politicamente corretto, e avete preso a chiamare le cose col loro nome, tipo «rottura di coglioni» una seccatura e «troie» le mestieranti di strada, allora voi parlate da fascisti, perché nell' animo in fondo lo siete. Molto più banalmente, se pensate che la famiglia naturale sia composta da maschio e femmina, se ritenete pericolosa l'ideologia gender, o se ricorrete alla parola scandalosa «madre», allora in modo implicito state dichiarando la vostra nostalgia del regime mussoliniano.

Sì, perché come già faceva notare l'autrice in tv, se «la donna viene protetta ed esaltata solo in quanto madre», «se tu riduci l'interesse su una donna al suo utero, ti stai comportando secondo le istruzioni che caratterizzano il metodo fascista». Siete avvisati, bimbi e bimbe, che vi ostinate a dire «mamma» come prima parola. Potreste essere presto tacciati di apologia di fascismo.

La Ducessa - Ma attenti anche a quando fate i piacioni e cercate il consenso di un gruppo di persone: inconsapevolmente state facendo i fascisti. Come insegna la Murgia, «se volete essere fascisti, siate prima di tutto seduttori», compiacete cioè tutti e tutte; e allora lodate le piccole imprese del Nord, che hanno saputo far grande il made in Italy (tipico discorso da gerarchi col fascio), oppure sollecitate l'autostima dei meridionali, sostenendo che sono accoglienti e veraci (e quale fascista non li ha conquistati così!). Sui temi politici, poi, occhio a come screditate l'avversario, che per voi è sempre un nemico da eliminare: se sostenete che non è buono ma solo buonista, o che fa il comunista col Rolex, allora siete sulla buona strada per gridare Eja Eja Alalà. Ma anche se affermate la necessità di una riforma presidenzialista, o tifate per le grandi infrastrutture, disprezzando chi dice a prescindere No, ci risiamo: avete da qualche parte nascosta la tessera del Pnf. In base a questo prontuario, praticamente siamo tutti fascisti potenziali, incoscienti ma in fin dei conti convinti (perfino chi non condivide nessuna delle frasi del Fascistometro, secondo il test, è comunque un «aspirante» fascista). E lo deve essere verosimilmente anche l'autrice di questo libro, alla quale proponiamo un accordo: noi ci impegniamo per diventare fascisti-modello seguendo le sue istruzioni, ma lei si candida a essere la nostra nuova Leader, pardon, il nostro nuovo Capo. Facciamo Michela Murgia Ducessa del risorto Fascismo 3.0. E il 28 ottobre, in suo onore, al posto della Marcia, organizzeremo la Murgia su Roma. 

IL TEST. E tu quanto sei fascista? Scoprilo con il fascistometro di Michela Murgia pubblicato il 29 ottobre 2018 su "L'Espresso". Il provocatorio saggio della scrittrice, “Istruzioni per diventare fascisti” pubblicato da Einaudi, propone in conclusione un test: per misurare il grado di apprendimento raggiunto e i progressi fatti. Sessantacinque frasi, luoghi comuni, slogan. Spuntate quelle che vi sembrano di buon senso e leggete il risultato finale.

1 Il suffragio universale è sopravvalutato.

2 Non abbiamo il dovere morale di soccorrerli tutti.

3 Il cittadino medio è come un bambino di 12 anni non troppo intelligente.

4 Basta partiti e partitini.

5. Come può fare il ministro uno che non ha manco il diploma.

6 Sono laureato all’università della vita.

7 In Italia chiunque può dire NO e bloccare un’opera strategica.

8 Lo stupro è più inaccettabile se commesso da chi chiede accoglienza.

9 I bambini facciano i bambini, le bambine facciano le bambine.

10 Prima dovrebbero venire gli italiani.

11 Con la cultura non si mangia.

12 L’Italia è un paese ingovernabile.

13 Una donna, per quanto in vista, deve sempre dare luce ad un uomo.

14 Ci sarà una ragione se la cultura occidentale è quella che ha plasmato il mondo.

15 Davvero ci serve un altro tavolo di concertazione?

16 Le indennità dei parlamentari sono un insopportabile privilegio.

17 Non ha ucciso nessuno, al massimo mandava la gente in vacanza al confino.

18 Facile parlare quando hai il culo al caldo e l’attico al centro.

19 E comunque esiste una famiglia naturale.

20 Non ricordo tutta questa solidarietà per i nostri terremotati

21 La lobby gay adesso sta esagerando con le pretese.

22 Bisogna capire che la gente è stanca.

23 Abbiamo le radici cristiane da difendere.

24 A questi manca la cultura del lavoro.

25 Ci rubano il lavoro.

26 I sindacalisti sono dei servi venduti.

27 Il femminismo ha insegnato alle donne ad odiare gli uomini.

28 La prima cosa è diminuire il numero dei parlamentari.

29 Questa non è bontà, è buonismo.

30 Un paese senza confini non è un paese.

31 Rottamiamoli tutti.

32 Sarebbe meglio aiutarli a casa loro.

33 Un paese civile non può dare diritto di voto a gente che ieri stava sugli alberi.

34 Non sono profughi, sono migranti economici.

35 Se lo Stato non mi protegge, devo proteggermi da solo.

36 Le quote rosa sono offensive per le donne.

37 E’ razzismo al contrario.

38 Destra e sinistra ormai sono uguali.

39 Uno vale uno.

40 Vi ricordo che questa gente vota.

41 I giornalisti sono tutti servi del potere.

42 Noi siamo violenti per necessità, non per cultura.

43 Anche i partigiani comunque non erano stinchi di Santo.

44 Penso ai nostri ragazzi delle Forze Armate.

45 E il radical chic che dà lezioni col Rolex al polso?

46 E i nostri figli laureati costretti ad emigrare!

47 Non si fa nulla per il problema delle culle vuote.

48 Nei loro paesi questo a noi non lo lasciano fare.

49 C’erano gli anarcoinsurrezionalisti dei centri sociali.

50 L’ideologia gender sta rovinando le famiglie.

51 Ma il Parlamento a che serve?

52 E’ finita la pacchia.

53 Comunque è vero che ha fatto cose buone.

54 Non rispettano le nostre tradizioni.

55 Quando ti imporrano il burqa non lamentarti.

56 Certo, se vai in giro conciata così un po’ te la cerchi.

57 Basta con quelli che dicono di NO a tutto.

58 Bisogna sapere quanti sono, censirli.

59 Senza vincolo di mandato i parlamentari cambiano casacca ogni volta che vogliono.

60 Loro sono i primi che rubano.

61 I nostri nonni emigravano con già un lavoro.

62 Questa è giustizia ad orologeria.

63 Ci vorrebbe il Presidenzialismo.

64 Li raderei al suolo e poi spianerei con la ruspa.

65 Se ti piacciono tanto, portali a casa tua.

LA SINISTRA CHE ROSICA. Fascio-test? E allora ecco lo "zeccometro". Sull'Espresso un elenco di luoghi comuni per stabilire il tasso "mussoliniano" nei lettori. E noi replichiamo col misura-comunismo, scrive Pietro De Leo il 2 Novembre 2018 su "Il Tempo". Un «fascistometro» per scoprire quanto di «ducesco» alberga in noi. È l’ultima discutibile iniziativa dell’Espresso che, con la collaborazione della scrittrice Michela Murgia, ha coniato un test basato su 65 luoghi comuni considerati, evidentemente, indice di fascismo. A seconda di quanti vengono considerati condivisibili dal lettore, il test rivela un profilo che può spaziare da «aspirante» (o fascista primordiale) a «proto fascista», da «non sono fascista ma...» a «Militante consapevole», fino al livello massimo: «Patriota». L’iniziativa, già comica di suo, diventa ancora più paradossale se si dà uno sguardo alla assoluta indeterminatezza delle frasi proposte, totalmente sganciate da ogni contesto. Per quelli dell’Espresso, insomma, basterebbe condividere un pensiero come «questo è razzismo al contrario» o «con la cultura non si mangia» per essere, in fondo all’animo, un po’ fascisti. E allora Il Tempo ha deciso di accettare il livello - basso, a dir la verità - del ragionamento e di proporre un test uguale e contrario. Scoprite anche voi, attraverso il nostro «comunistometro», se sotto i vostri vestiti si nasconde un radical chic con rolex e attico in centro.

Spunta le frasi che ti sembrano di buonsenso:

1) Accogliere tutti gli immigrati è una dimostrazione di umanità.

2) Se Salvini vola nei sondaggi è perché gli italiani sono un popolo di ignoranti.

3) Con la vittoria di Trump è tornato il suprematismo bianco.

4) Si dice «ministra».

5) Se i rom rubano è colpa nostra che non li sappiamo integrare.

6) Ah, se fosse passata la riforma di Renzi!

7) Serve un partito di «competenti».

8) Non è vero che gli immigrati delinquono di più, ma è solo percezione.

9) Dobbiamo accoglierli perché scappano dalla guerra.

10) Lo Ius soli è una misura che va incontro ai diritti di migliaia di bambini nati in Italia da genitori stranieri e parlano italiano, tifano squadre italiane e mangiano cibo italiano.

11) Gli immigrati sono risorse.

12) Con le unioni civili, l’Italia si è adeguata al resto del mondo.

13) Meglio cresciuto da una coppia di gay che in un orfanotrofio.

14) L’aborto garantisce la libertà delle donne.

15) Finalmente Papa Francesco!

16) Gli immigrati ci pagano le pensioni.

17) Dagli immigrati possiamo imparare tantissimo.

18) Il fascismo può sempre tornare.

19) Embe’? Perché, forse gli italiani non stuprano?

20) In uno Stato laico il crocifisso a scuola non ha senso.

21) Il presepe a scuola offende i figli dei musulmani.

22) La Festa della Mamma e la Festa del Papà offendono i bambini di coppie omosessuali.

23) Non si dice «sesso», si dice «genere».

24) Sui documenti pubblici, invece di «madre» e «padre» è meglio indicare Genitore 1 e Genitore 2.

25) Abbiamo il dovere di accogliere, ma purtroppo non ho spazio per ospitarne uno a casa mia.

26) Di questo passo finiremo come la Grecia.

27) Il mio eroe civile è Mimmo Lucano, sindaco di Riace.

28) Non è un caso che il Decreto Sicurezza arrivi 80 anni dopo le Leggi Razziali.

29) La ragazza era già tossicodipendente e aveva brutte compagnie, se anche è stata ammazzata da un gruppo di africani l’immigrazione non c’entra niente.

30) Il movimento Metoo è una straordinaria affermazione dei diritti della donna.

31) Contro le donne esiste anche la «molestia percepita».

32) Dire «è finita la pacchia» agli immigrati è un abominio.

33) Le Ong sono indispensabili per salvare le vite.

34) George Soros sotenitore delle migrazioni di massa è una fake news.

35) Il Pd perde le elezioni per colpa delle fake news.

36) C’è un clima da Weimar.

37) Il sovranismo può portare ad una nuova stagione di conflitti bellici.

38) La bocciatura a scuola è un’umiliazione diseducativa per i ragazzi.

39) I bulli non vanno puniti ma vanno comprese le ragioni del loro disagio.

40) Ricordare i delitti dei partigiani nel triangolo rosso il 25 Aprile è demagogia revisionista.

41) Nel mio Pantheon ideale voglio Steve Jobs e Nelson Mandela.

42) L’Islam con l’Isis non c’entra niente.

43) La responsabilità dei naufragi nel Mediterraneo è di chi vuole chiudere i porti.

44) Non lo dico apertamente, ma in fondo un’altra Piazzale Loreto non sarebbe poi così male.

45) Rivedere l’istituto della «protezione umanitaria» significa rispedire donne e bambini nelle zone di guerra.

46) Ha ragione Saviano.

47) L’Italia è diventato un Paese razzista.

48) Gli odiatori del web sono tutti del M5S.

49) Salvini cominciasse a restituire i 49 milioni.

50) L’Unione Europea è l’unica garanzia di libertà.

51) Quasi quasi era meglio Berlusconi.

52) La flat tax aiuta i super ricchi.

53) Fortuna c’è Mattarella.

54) Da quando c’è Salvini al governo, le violenze contro gli stranieri sono aumentate.

55) …E allora le Crociate dei cristiani?

56) Le pubblicità in cui è la mamma che porta a tavola sono sessiste.

57) Liberalizzare la cannabis sconfiggerebbe lo spaccio.

58) Riformare la legittima difesa è un regalo alla lobby delle armi.

59) Con questo governo l’Italia non conta più niente in Europa.

60) Putin finanzia tutti i partiti della destra europea.

61) Bisognerebbe vietare la vendita dei gadget del Ventennio.

62) Chi pensa che il fascismo abbia prodotto anche opere positive è un fascista.

63) Bisognerebbe abbattere l’obelisco Mussolini.

64) Lo stupro commesso da un immigrato non è più condannabile di uno commesso da un italiano.

65) Non è vero che il Corano invita alla sottomissione.

66) Il primato della famiglia tradizionale è un retaggio anacronistico.

67) Il velo islamico non è un’anomalia perché anche le nostre nonne sessant’anni fa si coprivano il capo con un fazzoletto.

68) Si dice «Spianata delle Moschee», non Monte del Tempio.

69) Ha ragione l’Europa.

70) È doveroso inserire menù etnici nelle mense scolastiche.

71) Serve una grande mobilitazione di resistenza civile.

72) Stefano Cucchi era un geometra.

73) Carlo Giuliani è morto da eroe.

74) Alessandra Mussolini, con quel cognome, dovrebbe solo tacere.

Attribuisci un punto per ogni espressione spuntata e controlla i risultati.

Da 1 a 15 - Medioprogressista d’assalto. “Proprio comunista no. Vede, io sono medioprogressista”, rispondeva il Mega Direttore alla domanda di uno stralunato Fantozzi su quale fosse il suo orientamento politico. Hai i tuoi punti fermi di legge e ordine, ma un piedino nel mare del politicamente corretto lo metti. Magari per non sfigurare nelle tue frequentazioni altolocate dove guai a confondersi con “quelli di destra”. Diciamola tutta. Pure a te urta l’immigrato che ti tormenta fuori dal supermercato, o spaccia nel parco dove giocavi da bambino. Il “torna a casa tua” ti balla sul palato ma te ne guardi bene, perchè in certe occasioni “la solidarietà” fa figo e peraltro non vuoi fare la figura di un troglodita nei tuoi apericena alla moda. Tranquillo, anche se ti sgamano, nessuno dei tuoi compari dirà mai nulla. Perché la pensano esattamente uguale.

Da 16 a 35 - Osservatore coinvolto. Il mondo di colpisce dalla poltrona di casa. Ti senti coinvolto, vorresti fare qualcosa, ma tanto da solo che cambieresti? E comunque, quelli di là, quelli del non accogliere, della sicurezza, della famiglia tradizionale, un microscopico dubbio te lo mettono. Allora meglio farsi le proprie letture, da “selezionare” attentamente sul web per non incappare nelle fake news, aspettare che questi “tempi bui, signora mia” finiscano. Però guai intavolare con te una conversazione che abbia come tema l’immigrazione, il multiculturalismo, la famiglia tradizionale. Da Clark Kent ti trasformi in un Superman di logorrea politicamente corretta. E ti schieri, sì, ti schieri, slegato dalle inibizioni, travolgendo il malcapitato interlocutore.

Da 36 a 50 - Militante irreggimentato. Non te ne perdi una: gli editoriali di Saviano, le vignette di Vauro, le sortite dell’attore tal dei tali contro Salvini. E’ il tuo momento, anche tu fai parte della Resistenza. Lavori molto sui social, posti, condividi. Spesso scrivi pensierini seriosi, perché tu ti senti ampiamente calato nella Storia di cui vuoi essere protagonista, convinto che “se tutti noi nel nostro piccolo ecc.”. A vederti fare la spesa sembri uno così a modo. Ma ti trasformi al cospetto del tuo nemico numero uno, l’elettore salviniano. Se lo identifichi, lo guardi storto. Se ti tocca salutarlo perché lo conosci, lo fai a mezza bocca. Se lo punti sul web, lì c’è il rischio che ti scappi la frizione, e la bontà ostentata lascia il posto al rancore autentico. Tu, una Piazzale Loreto, la vuoi eccome. Ah, se sei donna, inutile discutere con te: contraddirti significherebbe essere sessista.

Da 51 a 74 - Zecca irrecuperabile. Qui la politica non c’entra nulla, sei completamente ottenebrato da un’ideologia abbracciata con una superficialità tale da spingere gli altri a vergognarsi per te. Hai la foto di Mussolini a Piazzale Loreto come sfondo del Desktop, la tua bandiera non è il tricolore ma quella arcobaleno. Nuoti nella contraddizione. Ti dichiari per la libertà della donna, ma tolleri l’arrivo di quelli che la costringono al velo. Odi l’Occidente, ma col cavolo che andresti a vivere nel Terzo Mondo. Se sei giovane, frequenti i centri sociali, e manifestando non disdegni gli scontri con “gli sbirri”. Perché ovviamente ti dichiari anche non violento. Talmente non violento da augurare di “penzolare” a chi non la pensa come te, a cui apponi in automatico il timbro di “fascio”. 

IL DEMOCRATOMETRO, scrive il 02.11.2018 G. P. su conflittiestrategie.it. Picchiavano sulla teste i comunisti, picchiavano i fascisti, picchiava la polizia al servizio dei liberali, quest’ultimi i più codardi di tutti perché violenti per procura, sempre dietro ad una cattedra o una cadrega, protetti dai corpi speciali della Bestia Statale (come la chiamano in sede economica). Lenin invocava la rottura dei crani, Mussolini quella delle reni, Hitler quella di tutte le ossa. I liberali, dall’alto ideale, sganciavano la bomba mortale, oltre a tutto il resto dell’arsenale. Siamo tutti canaglie, quando obbligati dal flusso conflittuale della società a lottare per primeggiare. Dare del fascista ad uno non aggiunge ne’ sottrae nulla all’infinita cattiveria di cui siamo capaci. Anzi, i fascisti che distribuivano gratis olio di ricino erano dei buonisti rispetto agli americani che distribuiscono ancora gas in giro per il mondo, in nome della libertà, la loro. Non c’è gente più violenta dei democratici, per questo hanno vinto le guerre. Per stigmatizzare qualcuno di carattere violento bisognerebbe dirgli “sei un democratico”. La definizione sarebbe assoluta e non attualmente superabile. I democratici sono in cima alla catena alimentare della predazione intraspecifica. Se volete insultare veramente qualcuno chiamatelo democratico e se volete proprio esagerare anche liberal-democratico. Al momento la specie umana non offre esseri più ferali. Altro che fascisti e comunisti! Il fascistometro non misura più nulla se non l’ignoranza di certi letterati.

Ps. I crimini si reiterano perché chi li ha commessi ha una giustificazione da offrire, chi li ha subiti dei torti da cancellare e tutti sempre dei pretesti da utilizzare all’occorrenza, per avere ragione della ragione. Così va la Storia, un po’ si è vittime, un po’ carnefici, un po’ opportunisti, dipende dall’epoca.

INTRODUZIONE. PIU’ COMUNISTA DI COSI’.

Ecco il vero racconto della caduta del Duce. Un «verbale ufficioso» consente di ricostruire i momenti drammatici del 25 luglio 1943, scrive Giancristiano Desiderio, Mercoledì 19/12/2018, su "Il Giornale". Come cadde realmente il fascismo e cosa accadde nella drammatica seduta del Gran Consiglio del 24-25 luglio 1943? Sappiamo che la Monarchia, tramite Dino Grandi, svolse un ruolo decisivo. Sappiamo che anche il Vaticano, con Galeazzo Ciano, fece la sua parte. Sappiamo, naturalmente, che il controllo delle Forze armate che aveva il generale Badoglio fu determinante. Ciò che non sappiamo è come andarono effettivamente le cose nella seduta del Gran Consiglio perché il verbale ufficiale fu distrutto dai gerarchi Guido Buffarini Guidi e Carlo Scorza. Non lo sapevamo almeno fino ad ora. Lo storico Antonio Alosco ha scovato una «documentazione finora inedita» tra le carte del Regno del Sud e «conservata nell'Archivio privato di Pasquale Schiano, all'epoca segretario del Centro Meridionale del Partito d'Azione» che può essere considerato un «verbale ufficioso» della seduta in cui Mussolini fu messo in minoranza e fu arrestato. Il documento, infatti, narra in modo molto dettagliato e con dovizia di particolari la riunione dell'organo supremo del regime fascista: non solo episodi ed aneddoti che potevano essere conosciuti solo da chi partecipò alla seduta del Gran Consiglio, ma anche il modo in cui i congiurati riuscirono a controllare la Polizia, i Carabinieri Reali e la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Per questo motivo, il verbale «probabilmente fu redatto da un componente del Gran Consiglio rifugiatosi nel Meridione all'ombra della monarchia»: il grande avvocato e giurista Alfredo De Marsico - noto anche per il motto fulminante: «meglio essere un ex che una x» - che rivide il testo dell'ordine del giorno Grandi, che andrebbe meglio definito ordine Grandi-De Marsico. Lo studioso Alosco, che da collaboratore di Renzo De Felice non è nuovo a ritrovamenti di documenti storici così importanti, illustra l'importante scoperta filologica nel libro Socialismo tricolore. Da Garibaldi a Bissolati. Da Mussolini a Craxi (grauseditore) nel capitolo dedicato, appunto, alla caduta del regime mussoliniano. Ciò che viene fuori è una sorta di cronaca di quell'ultima riunione del Gran Consiglio che smentisce le ricostruzioni finora tentate che, forse, troppo facilmente sulla base di memorie hanno avvalorato l'idea che il regime di Mussolini si sciolse come neve al sole. Il documento, infatti, non trascura neanche qualche aneddoto curioso ma secondario o addirittura tragicomico «come il doppio svenimento con relativo pianto a dirotto» di Carlo Pareschi che poi «trovò la forza alla fine per votare a favore dell'ordine del giorno Grandi, di cui peraltro era firmatario». Pareschi, che fu ministro dell'Agricoltura dal 1941 al 1943, venne poi arrestato, sommariamente processato, condannato e fucilato con De Bono, Ciano, Marinelli e Gottardi. Un momento particolare della seduta riguarda il voto, contrario a Mussolini, di Giovanni Balella, presidente della Confindustria: «Il voto non rappresentava una sua opinione prettamente personale, ma l'opinione dell'intera organizzazione degli industriali». Il verbale ufficioso parla di una «breve interruzione» e dell'ingresso dell'usciere che comunicò a Balella che «egli era stato cercato telefonicamente in continuazione per tutta la notte». Il presidente della Confindustria uscì per parlare al telefono e la sua uscita mise in allarme i firmatari dell'ordine Grandi che sospettavano una contro-mossa o, come scrive Alosco, «un perfido contro complotto». Non a caso proprio Dino Grandi disse: «Attenzione, si sta preparando il nostro assassinio». I principali artefici della congiura furono Grandi e Luigi Federzoni, con il contributo importante di De Marsico. Grandi e Federzoni erano stati insigniti del Collare dell'Annunziata ed erano, dunque, cugini del re. Anche Ivanoe Bonomi ricevette la stessa onorificenza e appoggiava il colpo di Stato dall'esterno e di lui, non a caso, si parlò inizialmente come del futuro capo del governo, ma erano della partita anche Vittorio Emanuele Orlando e Alberto Bergamini. La discussione del Gran Consiglio, dopo la fase introduttiva, divenne drammatica tra invettive e offese. Mussolini ricorse alle minacce e rivolto al segretario del Pnf, Scorza, gli disse: «Forse dovrò darvi l'ordine di arrestare questi messeri». Avvenne il contrario: si giunse alla votazione e il Duce fu messo in minoranza. Ma la riuscita della congiura fu opera di Badoglio e Carmine Senise, ex capo della Polizia. Quest'ultimo la mattina stessa del 25 luglio, su ordine di Badoglio e senza che fosse avvisato l'allora capo della Polizia, Renzo Chierici, ritornò al comando della Polizia. I Carabinieri, che erano rimasti orfani del generale Azolino Hazon, devotissimo di Mussolini, che morì il 19 luglio nei bombardamenti di Roma, erano sotto il controllo di Badoglio. Di fatto nelle mani di Mussolini vi era solo la Milizia comandata dal generale Galbiati che gli fu fedele. Proprio Galbiati, prevedendo il peggio, aveva predisposto «uno schema di telegramma circolare» da inviare «a tutti i comandanti della Milizia di tutte le città d'Italia»: il messaggio dava «l'ordine di mobilitazione di tutti i militi e tenersi pronti per ogni eventualità». Ma qui avvenne il doppio colpo di scena. Il generale Galbiati «era convinto che il suo telegramma avesse raggiunto i destinatari e che poteva disporre di tutta la Milizia fascista d'Italia, invece, Senise prima impedì che partisse il telegramma di Galbiati e poi, con Badoglio, ne inviò uno scritto da lui «con la firma apocrifa di Galbiati» che comunicava «che per il futuro la Milizia faceva parte integrante dell'Esercito». Con questo stratagemma, raccontato nel «verbale ufficioso», tutte le Forze armate di ogni ordine e grado erano sotto il controllo di Badoglio, del nuovo governo e del re. Più una sorta di cambio di dittatore che di regime.

La dura sorte del «conte mollo» Esce in Francia una biografia di Ciano, scrive Martedì 19/06/2007 Il Giornale. Michel Ostenc, italianista di lungo corso, pubblica dalle Editions du Rocher una biografia francese di Galeazzo Ciano, la prima da molti anni, che è forse la migliore mai dedicatagli Oltralpe. Sin dal sottotitolo Ostenc si muove sulla linea interpretativa di Renzo De Felice, definendo Ciano «un conservatore di fronte a Hitler e Mussolini». Non fu infatti mai un vero fascista, era e rimase fino allultimo un conservatore di provincia, borghese e cattolico. Non riusciva ancora a convincersi di avere ai suoi piedi una Roma, allora (come sempre) capitale corrotta, dove tra i suoi nomignoli il più azzeccato era «il conte mollo» a imitazione di un celebre ponte. Le cose cambiarono nei giorni della non belligeranza, quando Ciano da commesso viaggiatore dellAsse si trasformò nel suo più visibile oppositore. Ma lindignazione che echeggia da quel momento nel suo diario non va presa troppo alla lettera, anche a prescindere dalla tesi mai provata, secondo cui il testo sarebbe stato rimaneggiato dopo il rimpasto del febbraio 1943, quando Mussolini trasferì il genero di cui non si fidava più allambasciata presso la Santa Sede. Luomo si era però accorto che Hitler e Ribbentrop usavano lalleanza con lItalia a loro piacimento, sorvolando sugli impegni presi quando faceva loro comodo, si trattasse dellAnschluss, della spartizione cecoslovacca dopo Monaco, dellaccordo con la Russia o della decisione di attaccare la Polonia. Tuttavia, senza lassenso del Duce, Ciano non avrebbe mai potuto pronunciare il discorso alla Camera del 16 dicembre 1939, in cui veniva addirittura reso omaggio alla resistenza dei polacchi. Questa battaglia sfortunata che costò a Ciano lodio mortale dei tedeschi, è al centro della biografia molto documentata di Ostenc. Il ritratto che ne emerge è quello di un uomo troppo giovane e inesperto per limmenso potere che sfiorò senza conquistarlo, buono ma debole, intelligente ma superficiale, irretito da una vita di mondanità da cui il suocero (né buono né superficiale) si teneva alla larga. Come tutti gli insicuri adorava essere adulato e corteggiato, ma fu meno clientelare della media dei gerarchi politici di allora (e di dopo). Quando la guerra si avvicinò, intuì che il regime saliva su di un treno impazzito. Ma come molti italiani medi era convinto di essere furbo, anzi il più furbo di tutti. La tendenza allintrigo lo portò ad architettare una serie di disastri, come la sciagurata politica albanese, e a consegnarsi poi al carnefice, convinto fino allultimo di poter giocare una partita molto più grande di lui tra tedeschi, ultrà di Salò e alleati. Ottenne solo di morire bene, appena quarantenne, dopo aver vissuto troppo spesso male.

Sì, Galeazzo Ciano tradì (la verità nel suo "Diario"). Grecia, golpe di Franco, Patto d'Acciaio e non solo Documenti inediti rivelano omissioni e falsità, scrive Giampietro Berti, Venerdì 30/11/2018, su "Il Giornale". Sul fascismo la bibliografia è ormai sterminata. Non c'è momento, aspetto e problema del suo manifestarsi che non sia stato indagato sotto i più diversi angoli visuali. Tanto da poter dire che l'interesse verso la sua storia ha assunto forme enfatiche, per non dire parossistiche, quasi a significare che i conti con la sua esperienza siano ancora lontani dall'esser chiusi. Eppure il fascismo, come il comunismo, è morto; anzi, stramorto. Il significato della sua parabola si delinea ormai in modo inequivocabile relativamente al suo posto e al suo peso nel bilancio complessivo del secolo trascorso. Certo, la conoscenza di tutto quello che esso ha prodotto non può che risultare «inesauribile», come «inesauribile», ovviamente, risulta ogni evento del passato, specialmente se questo si pone, come nel caso del fascismo, al centro di un crocevia fondamentale della storia novecentesca. Su questa inesauribilità getta ora nuova luce lo studio fondamentale di Eugenio Di Rienzo dedicato a Galeazzo Ciano, uscito oggi presso la casa editrice Salerno (Ciano. Vita pubblica e privata del «genero di regime» nell'Italia del Ventennio nero, pagg. 696, euro 34) che si basa su una ricca documentazione inedita proveniente dagli archivi italiani, vaticani, britannici, francesi, nipponici, tedeschi, statunitensi. Attraverso questa imponente e accuratissima biografia, Di Rienzo ricostruisce i passaggi decisivi del regime fascista, soprattutto a partire dal momento in cui il genero di Mussolini assume, nel 1936, la guida della politica estera nella grande scacchiera delle relazioni internazionali che comprendevano non solo tutto l'Occidente, ma anche il Mar Rosso, i Balcani, l'Egitto, il Medio Oriente, l'Afghanistan, l'India, l'Asia orientale, l'America meridionale. Come ministro degli Esteri, Ciano prese sul serio l'esortazione del Conte di Cavour («Essere presenti sempre e dappertutto!»), proiettando il suo protagonismo politico e diplomatico con grande impegno, senza risolvere tuttavia il problema storico, o piuttosto il dramma, della politica estera italiana, rimasto immutato dal 1870 al 1943, quello, cioè, di una nazione provvista di una potenza virtuale molto più elevata di quanto la sua potenza effettiva le consentisse di esercitare, e per quest'anomalia indotta ad assumere decisioni a volte azzardate e apparentemente irrazionali. Oltre a far luce sull'azione politico-diplomatica, l'importanza di questo studio consiste nel fatto che Di Rienzo pone al centro della sua ricerca il Diario, redatto dal genero di Mussolini dal 9 giugno 1936 al 6 febbraio 1943, fonte documentaria alla quale hanno dato credito quasi tutti i suoi biografi e la maggioranza degli analisti dell'ultima fase del regime fascista (non escluso Renzo De Felice e buona parte della sua scuola) perché testo considerato genuino e addirittura inoppugnabile. Per Di Rienzo, invece, il Diario è in gran parte inautentico e contraffatto, come lo sono le tante testimonianze apologetiche che moltissimi protagonisti del regime (Bottai, Grandi, Bastianini) hanno consegnato ai posteri. Già Allen Welsh Dulles (direttore a Berna della «Divisione Europa» dell'Office of Strategic Services) e Gaetano Salvemini, presa visione del manoscritto del Diario, riscontrarono in esso inesattezze, errori di datazioni, contraddizioni cronologiche e fattuali, cancellature e sostituzioni, vistose lacune inerenti alcuni momenti cruciali della politica estera italiana. Espressero un analogo giudizio anche il ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop, quello spagnolo Ramón Serrano Súñer, l'ambasciatore francese a Roma dal 1938 al 1940 André François-Poncet, il direttore del «giornale di famiglia» dei Ciano, Giovanni Ansaldo. Anzi fu proprio Ansaldo a scrivere che non bisognava «credere che Ciano, pur considerando il diario la sua valvola di sfogo, pur riservandosi di servirsene, un domani, anche contro Mussolini, fosse sincero nella sua stesura». In conclusione, per Di Rienzo il Diario costituisce, nella sua interezza, una testimonianza infedele, dove appare evidente il gioco della simulazione, della dissimulazione e della mistificazione sistematica, dato che esso fu deliberatamente vergato al solo fine di separare le responsabilità del suo autore da quella del Duce. Ad esempio, solo scarsi accenni sono fatti alla riunione del 15 ottobre 1940 nella quale Mussolini, Ciano e Badoglio pianificarono l'aggressione della Grecia, mentre sono state distrutte e sostituite le pagine originali sul disastro militare che fece seguito a quella decisione. Nessun riferimento è poi fatto al ruolo giocato dal governo fascista per la preparazione, l'attuazione e il sostegno al golpe di Franco, né ovviamente al cosiddetto Gabinetto Ufficio Spagna, che permise a Ciano di coordinare, subordinando alla sua iniziativa l'azione del Ministero della Cultura Popolare e dei dicasteri economici e militari, l'intervento fascista a favore delle forze golpiste guidate dal Caudillo. Di enorme rilevanza sono, infine, le omissioni e le falsificazioni del Diario, portate alla luce da Di Rienzo, per ciò che concerne la decisione di occupare l'Albania, il convegno di Milano del 6-7 maggio 1939 tra Ciano e von Ribbentrop, la firma del Patto d'Acciaio del 22 seguente, l'intero periodo della «non belligeranza» (settembre 1939-giugno 1940), le reazioni di Mussolini subito dopo il disastroso fallimento dell'offensiva del Regio Esercito in Epiro. Partendo da queste constatazioni e da queste premesse metodologiche, è possibile quindi vedere con occhi diversi e più disincantati alcuni momenti centrali della storia del fascismo, e comprendere con maggiore profondità analitica le scelte fondamentali fatte da Mussolini riguardo il periodo successivo all'invasione dell'Etiopia, la guerra di Spagna, l'asse Roma-Berlino, il conseguente Patto d'Acciaio con la Germania nazista, l'entrata in guerra dell'Italia, i rovesci militari italiani in Grecia, Russia, Nord d'Africa, la caduta del regime.

È morta Frau Beetz, la spia che doveva rubare i diari di Ciano. Aveva 90 anni, la leggenda vuole che si innamorò del conte prigioniero a Verona. Aiutò Edda Mussolini a fuggire in Svizzera e salvare le carte del marito, scrive Luigi Mascheroni, Mercoledì 31/03/2010, su "Il Giornale". Hildegard Burkhardt, l'ex spia tedesca incaricata dal regime nazista di impossessarsi dei diari del conte Galeazzo Ciano mentre si trovava in prigione, è morta lunedì a Bonn all'età di 90 anni. La notizia è stata riportata dal sito internet tedesco Trauer.de. Secondo la leggenda, da spia si trasformò nell'amante del genero di Mussolini, aiutando infine la fuga di Edda Ciano in Svizzera, dove riuscì a mettere in salvo i diari del marito. Passata alla storia come Frau Felizitas Beetz, fu segretaria del tenente colonnello Wilhelm Hottl, capo del servizio segreto tedesco in Italia. Controverso e misterioso personaggio, dotata di ottima cultura e di notevole padronanza della lingua italiana (si era laureata in letteratura italiana all'Università Lipsia), ricevette, all'età di 22 anni, l'incarico di tentare di farsi consegnare da Galeazzo Ciano i suoi diari, considerati compromettenti per gli alti gerarchi nazisti (in particolare da Joachim von Ribbentrop) oltre che da Adolf Hitler. Per raggiungere il suo scopo, Frau Beetz frequentò assiduamente la cella numero 27 del carcere in cui fu rinchiuso Ciano, arrestato perché tra i componenti del Gran Consiglio del Fascismo che il 25 luglio del 1943 determinarono la caduta del regime fascista. Invece di impegnarsi a trovare i diari di Ciano, alla fine Beetz cercò di salvare il conte Galeazzo, marito di Edda, figlia di Benito Mussolini. Felicitas Beetz partecipò a tutte le udienze del processo di Verona, ritornando ogni sera al carcere degli Scalzi per rincuorare Galeazzo. Assistette Ciano fino all'ultimo momento, fin quando questi venne trasferito al poligono di Porta Catena per l'esecuzione. Dopo la fucilazione di Ciano (11 gennaio 1944), fu Frau Beetz a consegnare gli ultimi oggetti di Ciano alla madre - Carolina - ricoverata, perché ammalata di cuore, nella casa di salute "La Quiete" di Varese. In occasione di quell'incontro, Frau Beetz confidò a Carolina Ciano: «Io ho amato Galeazzo, contessa. E lo amo ancora. È stato il grande amore della mia vita». Sembra che Edda Mussolini avesse visto nella spia tedesca, più che una rivale, un'alleata. Questa circostanza appare confermata anche nelle sue memorie, in quanto Felicitas, insieme al conte Emilio Pucci, aiutò Edda a fuggire con i bambini in Svizzera. La fuga in Svizzera di Edda e la sua famiglia consentirono che gli esplosivi diari di Galeazzo Ciano potessero essere salvati e consegnati alla storia. Dopo la seconda guerra monduale, Hildegard Burkhardt lasciò l'Utalia e ritornò in Germania. Dopo aver divorziato dal primo marito, Gerhard Beetz, si risposò con Carl-Heinz Purwin, dal quale ebbe un figlio, Ulrich. In seguito intraprese una brillante carriera di giornalista con il nome di Hilde Purwin. Fu, tra l'altro, corrispondente del quotidiano «Neue Ruhr Zeitung» da 1951 fino a 1984.

Quando Nenni consolò Edda Ciano con una mela e Spadolini era vittima di Missiroli. «Un bambino e la storia» di Ugo Intini: la vita sotto le bombe degli «Alleati», la ricostruzione, l'alba della Repubblica. I fenomenali ricordi raccolti dall'ex direttore dell'«Avanti!» partendo dagli occhi di un bimbo per ritrovare la strada smarrita di una «memoria condivisa» da tutti, scrive Roberto Scafuri, Giovedì 21/10/2010, su "Il Giornale". Mica facile scrivere della memoria. Pescare all'interno di sé, nel profondo, bagliori di ciò che abbiamo vissuto. A volte arrivano su, all'amo che abbiamo innescato, ricordi persino inattesi, prima inafferrabili, che misteriosamente si fanno avanti senza pudore. Altre volte, a dispetto dei potenti fasci di luce inviati giù, la ricerca di un particolare che ci sembrava fondamentale invece stenta a venir fuori. E quando magari sbuca, ecco che svapora nella risalita, appare meno importante o del tutto ininfluente. È uno sforzo imponente dell'anima - dell'Io, se si preferisce - andare a pesca nella memoria. Peggio, se si è nati nel 1941 e ci si trova, per coerenza e completezza, a interrogare ciò che resta di eventi storici capitati soltanto due anni dopo. Eppure Ugo Intini - già direttore dell'Avanti!, deputato socialista di lungo corso, uno dei pochi a essere uscito intero, specchiato e a testa alta dal ciclone di Tangentopoli - ci riesce. Da qui, dai bombardamenti feroci del terzo anno di guerra, decide di partire per la sua ultima fatica, «Un bambino e la storia - 1941-50: memoria per unire. I bombardamenti, la guerra civile, la ricostruzione» (Ponte Sisto, 16 euro). Libro uscito già da un po', ma davvero insolito per il timbro da saggista politico che aveva dominato i precedenti lavori di Intini, e forse più congeniali all'uomo e giornalista che ha vissuto l'intera vita profondamente «calato» nelle vicende del Paese. Segno di un impegno civile probabilmente oggi non più «di moda». Il fortuito passaggio per il paesino del Torinese nel quale la sua famiglia era «sfollata» durante la guerra, Balangero, pare folgorarlo e richiamare alla sua mente flash del passato, la «macchina del tempo» che lo risucchia e magicamente lo convince che «avevo visto abbastanza per poter andare indietro, ricostruire e far rivivere frammenti del periodo tumultuoso in cui è nata l'Italia. Non da storico, perché non lo sono, ma da spettatore bambino prima, da ascoltatore poi». Già, perché per ben raccontare occorre sapere ben ascoltare. Ed è anzitutto per questo, che il libro andrebbe fatto adottare nelle scuole, o almeno in qualche scuola di giornalismo: per la capacità di raccogliere testimonianze, di costruire ricordi sbiaditi o impossibili (considerata l'età dell'autore all'epoca di molti degli eventi), di documentarli da giornalista vero (persino fin troppo accurato, verrebbe da dire, laddove dati e numeri interrompono il fluire della memoria). Esempio di metodo, ed esempio di impegno civile anch'esso, questo lavoro certosino che ormai certa «liquidità» tecnologica fa ritenere superato, e invece costituisce il sale della vita pubblica (e privata). Andrebbe proposto ai giovani di oggi, questo volume di 259 pagine dalla prosa fluida ma non per questo leggera. Anche per illuminare, in modo sicuramente più interessante di certi libri di storia, l'alba della nostra Repubblica, dove cominciano a muoversi personaggi che saranno Padri della Patria, dove certe dinamiche spiegano il dispiegarsi successivo dei fatti, dove l'obbiettività maniacale è quasi sempre foriera di giudizi condivisibili proprio perché non calati dall'alto, bensì dimostrati e dimostrabili. Oggi che prevale il «sapere superficiale» dei «nuovi barbari» cantati da Baricco (o almeno non abbastanza vituperati), un libro del genere rappresenterebbe in maniera lampante perché non gettare il bimbo con l'acqua sporca, perché doversi impegnare ancora, perché - come vorrebbe in un impeto di giovanile entusiasmo dell'autore - gli italiani dovrebbero ritrovare la possibilità di una "pacificazione". Di un sentire comune che inviti ciascuno ad assumere il punto di vista anche dell'avversario, e che invece proprio oggi appare inattuale più che mai. Ma come non ascoltare incantati il racconto della vita di guerra nella Milano martoriata dalle bombe di coloro che diventeranno gli «Alleati»? Come non condividere le ragioni - ricostruite con dovizia - che portarono i guerreggianti, ma in particolar modo proprio coloro che si sarebbero arrogati il diritto di diventare «giudici dei vinti», a utilizzare i bombardamenti proprio per terrorizzare la popolazione, e dunque come dei veri e propri «terroristi»? Forse interrompono il fluire dei ricordi, le tante considerazioni dell'autore, e danno al libro uno strano timbro, a metà tra la testimonianza che cattura il cuore e il ragionamento che conquista la mente. Ma come fare a non incedervi, di fronte all'enormità dello sdegno, a certe delusioni postume, alla falsità delle ricostruzioni di comodo? Intini non resiste, si vede che la natura del politico prende il sopravvento sull'aneddotica che pure abbonda di particolari gustosissimi. Come quello, per esempio, della carriera del giovane Spadolini dovuta, secondo Afeltra, alle cospicue «pacche sulle cosce» regalategli dal direttore Missiroli nei lunghi giri notturni per la città a bordo dell'automobile del Corriere della Sera. O alle altrettanto lunghe passeggiate notturne del sindaco socialdemocratico di Milano, Cassinis, che al termine del Consiglio comunale chiamava il giovane ma combattivo assessore (all'Economato) Bettino Craxi intimandogli: «Vieni qui, Bettino, vieni a fare una passeggiata con me, ché mi racconti cosa succede in politica!». Sparivano nelle vie del centro fino quasi all'alba, per poi magari ritrovarsi con qualche giornalista in un'osteria di via Cadore che apriva alle quattro del mattino per offrire una «trippa favolosa» agli scaricatori del mercato al primo turno. O ancora: il già vecchio Pietro Nenni che «dava importanza alle piccole cose come chi viene da una tradizione di povertà contadina» e s'informa degli alberi di mele della fattoria di Italo Pietra (poi direttore del Giorno), chiedendogli di mandargliele. E che alla sfortunata Edda Ciano, in visita alla moglie nel Dopoguerra, consegna una di queste mele per lui così importanti dicendole: «Ci prenderanno a torsoli», che per Nenni significava il riconoscimento di un errore e il timore per la potenziale impopolarità. Un Nenni che sembra di vedere, assorto a dettare un pezzo per l'Avanti!, virgole comprese, al giovane Intini. O che, sempre a occhi chiusi, come disfatto dagli eventi, comunica al collega il titolo su Piazzale Loreto, dove s'era fatto scempio del cadavere del suo antico compagno di cella Mussolini, con voce sottile e distante: «Giustizia è fatta». Tale e tanta, la messe di ricordi personali - dal Pertini deputato che dorme con la moglie nel suo ufficio al Lavoro di Genova al giovane Cossutta che rifiuta la comunione di Schuster in carcere - che non si può far torto all'autore raccontandone soltanto accenni. Sembra quasi di rompere quell'incanto della memoria che illumina il passato, che ci fa piombare nel rimpianto di una Milano irripetibile e gravida d'ogni energia. Nel rammarico, condiviso con l'autore, di un Paese che ha smarrito la sua strada.

La legge anti-caporalato? La fece il fascismo nel 1926. E la abolì Badoglio, scrive Antonio Pannullo, mercoledì 8 agosto 2018, su "Il Secolo d’Italia". Il “caporale” è la figura di intermediatore illegale tra latifondista e manodopera non specializzata. È una piaga presente da sempre, e in Italia si è saldata con la criminalità organizzata, soprattutto nel centrosud. La parola “caporalato” è tornata in questi giorni sotto i riflettori a causa degli incidenti che hanno visto coinvolti lavoratori stagionali stranieri in Puglia, ma è un male antico, un male “liberale”. Nel 2016 la Camera approvò la cosiddetta legge anti-caporalato, che però evidentemente non ha avuto effetto sul fenomeno, probabilmente a causa degli scarsi controlli da parte delle autorità. La rivista e blog Italia coloniale però, diretta da Alberto Alpozzi, ci ricorda che il caporalato fu combattuto e sconfitto, come la mafia del resto, dal fascismo, che nel 1926 varò la legge 563, detta “legge sindacale”, perfezionata e modificata fino al 1938 con altre norme tese a “contemperare secondo equità gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori tutelando, in ogni caso, gli interessi superiori della produzione”. Italia coloniale ricorda anche che queste rivoluzionarie normative, inserite nel Codice corporativo e del lavoro fascista, valevano oltre che in Italia anche nelle colonie, cosa che contribuì ad abolire nell’Africa italiana la schiavitù e la servitù della gleba, fiorenti fino alla conquista da parte dell’Italia dell’Africa orientale.

Il caporalato era completamente scomparso. In particolare, racconta ancora l’Italia coloniale, due furono i provvedimenti più incisivi: “i contratti collettivi di lavoro e gli uffici di collocamento gratuiti per i lavoratori disoccupati. I primi dovevano essere obbligatoriamente redatti e approvati dal Sindacato di categoria (ente che provvedeva anche al continuo miglioramento della formazione professionale dei lavoratori attuata attraverso gli organi d’istruzione professionale) prima di iniziare qualsiasi rapporto di lavoro subordinato”, provvedimenti non esistenti nella precedente legislazione liberale. Insomma, l’imprenditore poteva assumere la manodopera soltanto per mezzo di tali uffici, scegliendo tra gli operai iscritti; viceversa quest’ultimi, per cercare un impiego, avevano l’obbligo di avvalersi degli stessi: in caso contrario erano previste sanzioni pecuniarie per entrambi, dice ancora la rivista storica. In nessun caso l’imprenditore poteva assumere operai attraverso intermediatori privati, considerati dal fascismo né più né meno che parassiti sociali. Inoltre, ci dice l’Italia coloniale, le richieste di manodopera non potevano essere nominative ma numeriche, per evitare qualsiasi tipo di clientelismo. Se un lavoratore veniva licenziato senza motivo, poteva ricorrere alla Magistratura del Lavoro. Caporalato e mafia, quest’ultima grazie al prefetto Cesare Mori, furono bandire per qualche anno dall’Italia. Fino al settembre 1944, quando il governo Badoglio con il decreto 287 abolì tutte le leggi della Carte del Lavoro con le conseguenze che oggi ci troviamo a combattere.

Caporali e Operai. La legge fascista anti caporalato valida in Italia e nell’Africa Orientale, scrive Alberto Alpozzi il 18 luglio 2017 su Italiacoloniale.com. (Di Maria Giovanna Depalma). Il Caporale è una figura storica che da sempre si occupa sia di intermediazione tra proprietà agricola e manodopera – rigorosamente poco specializzata – che di reclutamento, organizzazione del lavoro, gestione delle paghe. Un sodalizio che spesso unisce la criminalità organizzata e lo sfruttamento dei lavoratori. Un giro d’affari da 17 miliardi di euro che oggi coinvolge 400 mila braccianti in tutto il territorio nazionale, pagati in media 3 euro per ogni occasione. A seguito di diverse denunce che hanno confermato una larga diffusione del fenomeno, nell’ottobre del 2016, la Camera dei Deputati ha approvato in via definitiva la legge anti-capolarato che prevede la descrizione del comportamento punibile e l’inasprimento delle pene già previste dall’articolo 603-bis (intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro). C’è da dire, però, che questa pratica criminale è una vecchia piaga del sistema liberale, già conosciuta e combattuta dal Governo italiano a partire dal 1926 grazie alla legge n. 563 ovvero la “Legge Sindacale”. Attraverso l’attuazione dell’Art. 16 della predetta legge e di una serie di norme giuridiche varate tra il 1926 e il 1938 atte a “Contemperare secondo equità gli interessi dei datori di lavoro con quelli dei lavoratori tutelando, in ogni caso, gli interessi superiori della produzione” venne attuata una vera e propria rivoluzione sia in campo economico che sociale. Ovviamente queste leggi -previste dal Codice Corporativo e del Lavoro – valevano sia nella Madre Patria che nelle Colonie, sia per i lavoratori coloni che per gli autoctoni, abolendo così anche forme di schiavitù o servitù della gleba nell’Africa Orientale Italiana. Furono due, in particolare, i provvedimenti più incisivi in termini di organizzazione del lavoro e tutela dei lavoratori (non contemplati nel sistema liberale vigente in precedenza): i contratti collettivi di lavoro e gli uffici di collocamento gratuiti per i lavoratori disoccupati. I primi dovevano essere obbligatoriamente redatti e approvati dal Sindacato di categoria (ente che provvedeva anche al continuo miglioramento della formazione professionale dei lavoratori attuata attraverso gli organi d’istruzione professionale) prima di iniziare qualsiasi rapporto di lavoro subordinato. Gli elementi essenziali di questi contratti stabilivano: il periodo di prova del lavoratore, la misura e le modalità di pagamento della retribuzione, l’orario di lavoro, il riposo settimanale, il periodo annuo di riposo feriale retribuito, i rapporti disciplinari, la cessazione dei rapporti di lavoro per licenziamento senza colpa, il trattamento dei lavoratori in caso di malattia o richiamo alle armi (Legge n.1130/1926). Invece per combattere il fenomeno del caporalato, seguendo i principi sanciti dalle dichiarazioni XXII e XXX della “Carta del Lavoro”, si utilizzarono gli uffici di collocamento (Legge n. 1103 del 28 marzo 1928). Questi enti funzionavano a 360 gradi: servivano sia a controllare il fenomeno dell’occupazione e della disoccupazione (indice complessivo della produzione e del lavoro) che a tutelare gli operai dai caporali. L’imprenditore, infatti, poteva assumere la manodopera soltanto per mezzo di tali uffici, scegliendo tra gli operai iscritti; viceversa quest’ultimi, per cercare un impiego, avevano l’obbligo di avvalersi degli stessi: in caso contrario erano previste sanzioni pecuniarie per entrambi. In tal modo l’imprenditore non poteva più assumere gli operai attraverso dei mediatori privati, che lucrando sui bisogni dei lavoratori, esercitavano una vera e propria funzione di parassiti. Per di più, con la “Riforma del Collocamento” attuata con il decreto-legge n. 1934 del 21 dicembre 1934, gli uffici assunsero anche la funzione pubblica di controllo: attraverso gli organi territoriali preposti, accertavano che l’obbligo di avviamento al lavoro per il tramite degli uffici di collocamento fosse rispettato da tutti i lavoratori. Solo in casi di urgente necessità (allo scopo di evitare danni alle persone alle materie prime, o agli impianti) fu data facoltà ai datori di lavoro di assumere direttamente la mano d’opera con l’obbligo, però, di darne comunicazione entro tre giorni all’ufficio di collocamento competente. Successivamente, nel 1935, il Governo sancì un’ulteriore regola per gli imprenditori: la richiesta di manodopera non doveva essere più nominativa ma numerica, indispensabile ai fini di un’equa distribuzione del lavoro tra gli operai ed evitare qualsiasi rapporto di clientelismo. Per i datori di lavoro, tra l’altro, vigeva l’obbligo di denunciare entro 5 giorni, sempre presso gli uffici competenti per territorio e per categoria, i lavoratori che per qualsiasi motivo cessavano il rapporto di lavoro. Anche in questo caso l’azione dello Stato fu lungimirante: se il lavoratore veniva licenziato ingiustamente aveva facoltà di ricorrere presso la “Magistratura del Lavoro”, organo competente nella risoluzione delle controversie tra datore di lavoro e operai. Tutto questo cessò di esistere il 14 settembre 1944 quando il Governo Badoglio con il decreto n. 287 abolì tutte le leggi (comprese quelle anti-capolarato) che avevano preso forma nella Carta del Lavoro attuando la rivalsa del sistema liberale nei confronti di quello corporativo e ripristinando quel principio economico basato sull’espansione del singolo individuo – senza limitazioni di sorta pur di accrescere la propria ricchezza – anche a scapito della collettività e della giustizia sociale. Di Maria Giovanna Depalma.

In una circolare fascista la tutela dei lavoratori somali che i sindacati di oggi dovrebbero leggere, scrive Alberto Alpozzi il 29 maggio 2017 su Italiacoloniale.com. A Genale, poco a sud di Mogadiscio, quando la Somalia era chiamata italiana, vi era la sede dell’Azienda Agricola Sperimentale. Qui, negli ’20 e ’30 del ‘900, si trovava una vasta zona di concessioni agricole, sorrette dal Governo italiano. Le concessioni si estendevano su 30.000 ettari per la coltura del cotone, resa possibile dalla grande diga di sbarramento dell’Uebi Scebeli e dalle numerose canalizzazioni che il Regno d’Italia aveva realizzato. Vi si coltivavano, oltre al cotone, anche la canna da zucchero, il sesamo, il ricino, il granoturco, la palma, il capok e soprattutto le banane. La prima azienda sperimentale a Genale venne creata nel 1912 da Romolo Onor che vi condusse i primi studi tecnici ed economici sull’agricoltura in Somalia. Nel 1918, alla sua morte l’Azienda cadde in disgrazia e quasi abbandonata. Fu il primo Governatore fascista, il Quadrumviro della marcia su Roma, Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon che ne intuì l’importanza e la risollevò, facendone un grosso centro di colonizzazione unico nel suo genere. Fu infatti il primo esperimento di colonizzazione sorretto totalmente dallo Stato, assegnando i terreni a coloni italiani. L’Ufficio Agrario e l’ufficio di Colonizzazione ordinavano e disciplinavano le concessioni e curavano e distribuivano l’acqua per l’irrigazione. Il Governatore de Vecchi fece studiare anche un nuovo sistema di irrigazione in derivazione del fiume Uebi Scebeli per distribuire omogeneamente l’acqua in tutto il comprensorio, facendo realizzare una nuova diga, lunga 90 metri, in sostituzione di quella vecchia ormai fatiscente. Insieme alla diga, inaugurata il 27 Ottobre 1926, vennero realizzati un nuovo canale principale di 7 chilometri e cinque secondari, creando complessivamente una rete di 55 chilometri di nuove canalizzazioni, insieme a 200 chilometri di strade camionabili terminate poi nel 1928. Parallelamente alle opere per l’irrigazione l’intero comprensorio, circa 18 mila ettari, venne indemaniato, inquadrato e colonizzato, suddividendolo in 83 concessioni divise in cinque zone. Ma come funzionava la manodopera nelle concessioni e quali erano le direttive del governatore fascista per gestire il comprensorio?

Così scriveva il de Vecchi in una CIRCOLARE del 14 GIUGNO 1926 (vedi “Orizzonti d’Impero”, Mondadori 1935, pagg. 320-327)indirizzata al Residente di Merca: “Le popolazioni indigene hanno risposto allo sforzo dello Stato con una ubbidienza, una disciplina ed uno slancio, di cui non si può a meno di tenere conto oggi ed in avvenire, quando si ricordi che appena poco più di due anni addietro il Governo stentava a mettere assieme in questa regione duecento uomini per il lavoro dei bianchi, che si rassegnavano a lasciar perire ogni impresa per la deficienza della mano d’opera, mentre oggi abbiamo al lavoro nella zona circa settemila persone, senza che mai avvenga il benché minimo incidente da parte delle masse lavoratrici, buone, serie e fedeli; si deve avere ragione di profondo compiacimento, sia per i risultati della politica compiuta, sia per il giudizio sulle popolazioni.” […] Molti dei concessionari, invece di comprendere tutto ciò e di sforzarsi di rimanere nella loro funzione, materialmente la più proficua senza dubbio, di parti di una grande macchina, sono portati da un male inteso individualismo, dominato da un egoismo gretto e da non poca protervia, a credersi ciascuno creatore, operatore e centro della risoluzione di un problema che invero è stato risolto soltanto dal dono fondamentale dell’acqua, della terra e della organizzazione delle braccia che la lavorano, e cioè della Stato per tutti. […] Il Governo ed il Governatore hanno un solo interesse: quello del popolo italiano e cioè quello di tutti. Ogni singolo è parte dello Stato. […] Ho riservata da ultima la questione delle mano d’opera. Ho detto più sopra che il Governo della Colonia ha creduto opportuno di organizzare e guidare questo servizio, ottenendo così quello che può essere ritenuto un miracolo in confronto ai convincimenti prima radicatasi in Colonia ed in Patria nella materia. La soluzione, così pronta e così ferma, del problema ha indotto la massima parte dei concessionari ad attendersi tutto dal Governo ed a credersi in diritto di pretendere che quegli vi provveda ora e sempre, secondo aliquote fisse o variabili createsi nella fantasia degli interessati. Avviene assai spesso di sentir parlare di “proprio spettanza”, di “propria mano d’opera”, di “assegnazione ordinaria o straordinaria”, di “gente che scappa”, di “forza presente”, come se ciascun bianco che arriva qui dall’Italia, per la semplice ragione di aver fatto un viaggio per mare e di aver ottenuto in uso un pezzo di terreno, avesse pieno diritto di tenere per forza al suo servizio un certo numero di indigeni e di pagarlo o non pagarlo se e come crede, e di trattarlo… come purtroppo è avvenuto. Non mi fermo sulla questione del trattamento limitandomi a ricordare che in Somalia vige per legge il Codice penale italiano per bianchi e neri; che il Giudice della Colonia conosce molto bene il suo dovere e che io sono fermamente deciso a non ammettere da chicchessia la benché minima violazione della legge. Ma la precisa informazione che qui intendo dare perché tutti la conoscano, si è che non tarderanno molto tempo ad essere emanate altre chiare disposizioni di legge protettive del lavoro e quindi della mano d’opera anche agricola nella intera Colonia, e che la organizzazione e l’impiego dell’ascendente enorme del Governo e del Governatore sugli indigeni hanno lo scopo umanitario, disciplinare e fascista di un graduale avviamento al lavoro di queste popolazioni, e non mai di qualsiasi coazione che crei larvate schiavitù o servitù della gleba, e meno che mai a semplice uso od abuso e servizio di privati.” Singolare come nessun libro di storia coloniale abbia mai ripreso questa circolare fascista, fascistissima, del 1926 del Governatore de Vecchi a tutela dei lavoratori somali, affinché non venissero sfruttati e maltrattati, che non si creasse una qualsivoglia forma di sfruttamento o di caporalato e che sottolineava come in Colonia vigesse il Codice Penale italiano e che era valido per bianchi e neri.

DIO, PATRIA, FAMIGLIA.

Il tragico obiettivo di forgiare gli italiani. In un discorso al Consiglio nazionale del Pnf Mussolini rivelò il suo piano, scrive Giordano Bruno Guerri, Domenica 26/08/2018, su "Il Giornale". Dopo la conquista dell'impero, nel 1936, da profeta e duce Mussolini si trasformò in una specie di divinità. Voleva l'adesione religiosa non più soltanto dei fascisti ma di tutta la nazione, esigeva non più la fedeltà ma la fede. La fede si dimostra cambiando i propri istinti e sacrificando la ragione ai dogmi: fu questo il senso di provvedimenti irreali e insieme formalissimi, come il passaggio dal «lei» al «voi» (più consono alla vena maschia del regime e scevro dal «servilismo» del «lei»), il «passo romano», che imponeva ai soldati italiani, dalle gambe mediamente corte, un'imitazione del «passo dell'oca» dei più longilinei tedeschi. Nel quadro della «fascistizzazione integrale» si inserì anche la scelta razzista, solo in parte stimolata dall'alleanza con la Germania e dal problema di doversi distinguere, dopo la conquista dell'Etiopia, da una popolazione «inferiore» e dalla pelle scura. Popolo tradizionalmente non razzista, gli italiani si limitavano a una sorta di (...) (...) diffidenza pregiudiziale sugli ebrei, insufflata dalla Chiesa. Erano stati i papi a creare i ghetti, a imporre agli ebrei di portare un cappello giallo, a fare mestieri umilianti come quello degli stracciaroli, odiosi come quello degli usurai. Dall'Ottocento era la gesuitica Civiltà cattolica a infierire su di loro. Il razzista Roberto Farinacci poté dichiarare: «Se, come cattolici, siamo divenuti antisemiti, lo dobbiamo agli insegnamenti che ci furono dati dalla Chiesa durante venti secoli». «È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti», dichiarava il Manifesto della razza, pubblicato il 14 luglio 1938 da un gruppo di modesti studiosi. Fino a quel momento il regime era stato piuttosto indifferente ai problemi della razza, a parte le remore naturali di un movimento nazionalista. Mussolini non era antisemita e come lui moltissimi gerarchi. Quasi nessuno credette davvero alla «differenza biologica»: riviste come La difesa della razza, di Telesio Interlandi, rappresentavano soltanto il fanatismo di qualche intellettuale. Nella logica del fascismo, però, il razzismo era uno strumento per «forgiare» - verbo che allora piaceva molto - i nuovi italiani: che dovevano sentirsi geneticamente superiori agli altri popoli, quindi dovevano eliminare ogni possibile «contaminazione», come quella ebraica. Il primo settembre 1938 venne istituito presso il ministero degli Interni il Consiglio superiore per la demografia e per la razza; lo stesso giorno si stabiliva con un decreto legge che gli ebrei residenti in Italia da dopo il 31 dicembre 1918 dovevano andarsene; veniva revocata la cittadinanza italiana agli ebrei stranieri che l'avevano ottenuta dopo quella data. A tutti venne vietato di porre la propria residenza entro i confini del regno, agli italiani furono vietati i matrimoni con gli ebrei e ai dipendenti statali con qualsiasi straniero. Venne vietato di accogliere nelle scuole gli studenti ebrei, di conferire incarichi e supplenze a docenti di razza ebraica, di usare libri di testo di autori ebraici, di accettare lasciti o donazioni per borse di studio da parte di ebrei; per non creare un analfabetismo razziale di Stato si istituirono sezioni particolari e a volte anche intere scuole per l'istruzione degli ebrei e si consentì agli universitari di terminare gli studi. Gli odiosi provvedimenti colpirono duecento insegnanti, 4.400 studenti elementari, mille delle medie e duecento universitari. Le uniche personalità di spicco che avversarono davvero i provvedimenti furono Italo Balbo, Massimo Bontempelli e Filippo Tommaso Marinetti. Enrico Fermi, premio Nobel per la Fisica proprio nel 1938, avendo sposato un'ebrea lasciò per protesta l'Italia. Gli altri intellettuali e gerarchi si adattarono all'antisemitismo al pari del popolo, forse soltanto perché c'era qualcuno su cui riversare la responsabilità e il malcontento per la stretta economica subita con le guerre d'Etiopia e di Spagna, con le sanzioni imposte dalla Società delle nazioni. Chi disapprovava limitò il dissenso a episodi di pietismo individuale. Non soddisfatto, il 25 ottobre 1938 Mussolini tenne al Consiglio nazionale del Pnf un discorso che non volle diffondere, però invitò i presenti a trasmetterlo «per diffusione orale»: «Alla fine dell'anno XVI ho individuato un nemico, un nemico del nostro regime. Questo nemico ha nome borghesia». (Solo nel 1941 arrivò a una definizione che egli stesso giudicò «definitiva» del borghese: «Il borghese è quella persona che sta bene ed è vile») Contro questo nemico si dettero i tre «poderosi cazzotti nello stomaco», secondo le parole del duce, dell'abolizione del «lei», dell'introduzione del passo romano e - appunto - del razzismo. È dunque errato il luogo comune per cui ai ripugnanti provvedimenti si arrivò per pedissequa imitazione della Germania nazista: facevano già parte della logica evoluzione del regime, e se influenza ci fu si dovette alla necessità di mettere l'Italia fascista al passo con i totalitarismi che sembravano sul punto di contendersi il mondo, quello hitleriano ma anche quello staliniano. Oltre ai «fascisti religiosi» anche molti giovani furono entusiasti. Cresciuti nel regime, suggestionati dalla propaganda, dagli esempi delle guide intellettuali e politiche, vennero affascinati soprattutto dalla visione di una nuova cultura in funzione antiborghese che sarebbe nata dal concetto di razza: solo dei «puri» e dei «forti» potevano permettersi di sentirsi razzialmente superiori. Alla borghesia era piaciuto il fascismo perché condivideva i suoi stessi valori (Dio, patria, famiglia), l'aveva difesa dagli attacchi del proletariato e - almeno così si faceva credere - dagli interessi del grande capitale. Le era piaciuto essere titillata nell'orgoglio nazionalistico e nei propri meriti di buon comportamento civile: non le poteva piacere, adesso, venire indicata - senza avere cambiato il proprio modo di essere, anzi avendo fatto sempre quel che il regime voleva - come la bestia nera del fascismo, da combattere e rieducare. La guerra alla borghesia, lo staracismo e l'assurda pretesa di intervenire in ogni aspetto della vita privata furono - più del razzismo - un vero e proprio boomerang per il regime: insieme all'alleanza con la Germania e alle difficoltà economiche danneggiarono il miraggio di rifondazione del fascismo e del popolo italiano dopo la conquista dell'impero, compromettendo il consenso accumulato.

Gli «insospettabili» difensori della razza. Da Scalfari a Bocca, da Moro a Fanfani. Ecco i loro imbarazzanti articoli, scrive Roberto Festorazzi, Domenica 26/08/2018, su "Il Giornale". A ottant'anni dal varo delle leggi antisemite in Italia, proviamo a offrire un breve repertorio del pensiero di insospettabili apologeti e teoreti del razzismo. Il diciottenne Eugenio Scalfari, su Roma Fascista, il 24 settembre 1942, alla vigilia di un grande raduno a Venezia delle rappresentanze giovanili di Italia, Germania e Giappone, scrisse: «Il convegno di Venezia ha un significato essenzialmente politico; esso riunisce le forze migliori del Tripartito, quelle che sono depositarie e garanti dell'avvenire delle tre nazioni, quelle cui spetterà il compito gigantesco dell'Impero». Un fattore nuovo della storia del mondo, l'Impero, che il futuro fondatore della Repubblica descriveva come «tenuto insieme da un fattore principale e necessario: la volontà di potenza quale elemento di costruzione sociale; la razza quale elemento etnico, sintesi di motivi etici e biologici che determina la superiorità storica dello Stato nucleo e giustifica la sua dichiarata volontà di potenza». E il giornalista Giorgio Bocca, sulla Provincia Grande - Sentinella d'Italia, foglio della Federazione fascista di Cuneo, il 14 agosto 1942, così si esprimeva: «Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa prima della guerra attuale. La vittoria degli avversari solo in apparenza, infatti, sarebbe una vittoria degli anglosassoni e della Russia; in realtà sarebbe una vittoria degli ebrei. A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l'idea di dovere in un tempo non lontano essere lo schiavo degli ebrei? È certo una buona arma di propaganda presentare gli ebrei come un popolo di esseri ripugnanti o di avari strozzini, ma alle persone intelligenti è sufficiente presentarli come un popolo intelligente, astuto, tenace, deciso a giungere, con qualunque mezzo, al dominio del mondo. Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell'Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù». Da parte sua, il giovane Giovanni Spadolini, sulla rivista fiorentina Italia e Civiltà del 15 febbraio 1944, denunciava la crisi progressiva del fascismo, iniziata nel 1936, «sicché esso perse a poco a poco il suo dinamismo rivoluzionario. Si cristallizzò in un partito borioso e pletorico, proprio mentre riaffioravano i rimasugli della massoneria, i rottami del liberalismo, i detriti del giudaismo». In ambito cattolico, non furono rare le teste d'uovo che professarono idee razziste. Il ventitreenne Giulio Andreotti, sul numero di ottobre-novembre 1942 della Rivista del Lavoro, edita dalla Confederazione fascista dei lavoratori dell'industria, riferiva del Congresso della Società italiana per il progresso delle scienze. Riassumendo la relazione del filosofo del diritto Widar Cesarini Sforza, su «Stato e individuo nell'ordine politico e sociale moderno», il Divo Giulio affermava: «La società viene così concepita come un tutto, un corpo omogeneo, di cui lo Stato costituisce l'organizzazione giuridica trovando nelle finalità supreme della nazione o della razza la giustificazione perentoria della propria autorità, quella giustificazione che è viceversa impossibile trarre dalla società, quando questa è concepita, liberisticamente, come molteplicità di fini e di voleri. Poiché dunque l'autorità, e quindi la giustificazione dell'autorità, ossia di un volere superiore ai voleri individuali, non può essere ricavata da questi ultimi, gli Stati totalitari la ricavano dall'entificazione della società come un tutto, il che permette di dare un ordine unitario alla molteplicità dei voleri e dei fini particolari, e fornisce un criterio di valore assoluto per risolvere i problemi della convivenza sociale». Significativo il contributo che Aldo Moro forniva all'elaborazione del concetto giuridico di razza, da lui definita «l'elemento biologico che, creando particolari affinità, condiziona l'individuazione del settore particolare dell'esperienza sociale, che è il primo elemento discriminativo della particolarità dello Stato». Nel 1943, il leader democristiano poi rapito e ucciso dalle Brigate Rosse qualificava la guerra come una «tipica realizzazione di giustizia», e aggiungeva: «In definitiva l'anima più profonda della guerra, il suo significato vero, il suo valore, sono in questo suo immancabile protendersi verso l'armonia dei popoli che essa, nella forma provvisoria della lotta, dà opera a costruire. Per questo la guerra può essere grandissima e umanissima cosa; per il suo immancabile anelito verso l'unità e la giustizia, per il suo accettare ogni prova, e quella suprema del sangue, perché la giustizia sia, talché proprio nella guerra della verità universale si afferma il supremo valore, se proprio per realizzarla gli Stati, e cioè gli uomini che sono gli Stati, accettano tutte le prove e tutti i dolori». Amintore Fanfani, più volte segretario della Dc e primo ministro, in un suo libro del 1941, illustrava «il problema della difesa della Razza come necessità biologica e come fatto spirituale di fronte all'urgente necessità di distruggere quel fenomeno dell'ebraizzazione che dall'unità d'Italia in poi dilagò in tutti i campi della cultura, della economia, della politica». E mentre la futura medaglia d'oro della Resistenza Paolo Emilio Taviani redigeva uno studio intitolato Come il nazionalsocialismo risolve il problema classista, un altro partigiano bianco, Benigno Zaccagnini, segretario dello Scudocrociato dal 1975 all'80, l'11 febbraio 1939 firmava, sull'organo del Gruppo universitario fascista di Ravenna, un articolo contro il meticciato. L'onesto Zac definiva la razza come «un termine intermedio e di legame tra l'individuo e la specie, ossia fra due termini opposti di ordine massimamente particolare l'uno e di ordine sommamente unitario e generale l'altro; intendendo la specie, nel suo significato biologico, come la somma di tutti gli individui capaci di dar fra loro incroci fecondi». Ne derivava una dura condanna della mescolanza tra etnie, considerata «un tentativo di rompere l'equilibrio nella direzione di una eccessiva dilatazione dei confini razziali». Zaccagnini aggiungeva: «I pericoli e i danni del meticciato sono innanzitutto di ordine genetico», e si manifestano nella «comparsa di figli notevolmente disarmonici e portatori di più o meno gravi squilibri genetici». Infine: «Il meticcio, per il suo carattere intermedio fra le razze d'origine, viene da entrambi i genitori riguardato in genere come qualcosa di estraneo e finisce per crescere fuori da ogni ambiente come un reietto o un rifiuto per tutti. Ciò si risolve da un lato in un grandissimo rallentamento di ogni vincolo familiare e dall'altro in un'assoluta mancanza di educazione morale e intellettuale di questi infelici, non solo, ma in una continua eccitazione dei loro più bassi istinti (odio, vendetta, furto) da parte di un ambiente universalmente ostile». Scioccante il giudizio di entusiastica approvazione espressa da un giovanissimo Carlo Lizzani, futuro regista comunista, riguardo a Süss l'ebreo («film ottimamente riuscito»), di Veit Harlan, concentrato di puro veleno ideologico. Si tratta, infatti, della tristemente celebre pellicola del Terzo Reich, voluta dal ministro della Propaganda, Joseph Goebbels, ed eretta a simbolo del razzismo di quel regime, tanto da incitare all'assassinio in nome della purezza etnica. Il critico cinematografico Morando Morandini, nel 1942, su Gioventù Lariana, foglio della Gil (Gioventù italiana del littorio), si dichiarò a favore dell'eugenetica, allo scopo di «salvaguardare e migliorare sul piano biologico, qualitativo, estetico la fisionomia del popolo italiano, risanando ambienti e individui, potenziando i caratteri ereditari validi, cercando di modificare o di eliminare quelli tarati o patologici per ricondurre ad una unità e individualità organica le caratteristiche etniche e morali della Nazione e per restituire alla razza la totale responsabilità storica del suo destino». Roberto Festorazzi

Fiano camerata a sua insaputa, scrive il 14 settembre 2017 Francesco Maria del Vigo su "Il Giornale". Non so voi, ma io non avevo mai visto così tante immagini del Ventennio come in questi giorni sciocchi nei quali è stata approvata alla Camera la legge Fiano. Emanuele Fiano, deputato del Pd, di professione pare che faccia l’antifascista. Che nel 2017 è un po’ come fare l’acchiappafantasmi, perché di fascisti in giro se ne vedono pochi e male assortiti. Ma soprattutto non sembrano essere in alcun modo pericolosi per la tenuta democratica del nostro Paese, tanto sono residuali. Per Fiano, e quindi anche per il governo e per il Partito Democratico, sono invece una priorità assoluta. Dato che Montecitorio, dopo la lunga pausa estiva, ha aperto i lavori proprio con questo ddl. Ddl che, diciamo la verità, non ha poi così tante speranze di essere approvato anche al Senato, così come tante altre leggi – ben più importanti di questa – che moriranno insieme a questa legislatura. Però il risultato paradossale della legge Fiano è aver messo al centro della cronaca un fenomeno nato nel 1919, 98 anni fa. Se non conoscessimo Fiano potremmo dire che ha fatto da agit prop ai nipotini di Mussolini. A sua insaputa. Anche perché una legge che impedisce la diffusione di un’idea e dei suoi simboli combacia perfettamente con l’idea di fascismo che la sinistra ci ha raccontato fino a oggi. E pensare di fare una legge “fascista” contro il fascismo è piuttosto bizzarro. E, soprattutto, finisce per sortire l’effetto opposto: qual è il miglior modo per rendere affascinante un’idea? Ma ovviamente vietarla. Principio elementare che, tuttavia, non riesce a entrare nella testa di una sinistra rancorosa e con la bava alla bocca, sempre con la testa voltata al passato e pronta a prendere a calci la bara di qualche vinto. Perché, da qualunque lato si guardi la questione, l’antifascismo al giorno d’oggi è una battaglia contro i cadaveri. O i fantasmi, come dicevamo prima. Emanuele Fiano avrebbe fatto bene a ricordare la recente lezione della corte federale tedesca che non ha messo al bando l’Npd, il partito di estrema destra neonazi, perché “mancano delle concrete e pesanti indicazioni che possano far sembrare possibile un seguito significativo ai loro comportamenti”. Se al posto del livore ci fosse stato un po’ di buon senso avremmo seguito l’esempio tedesco, gettando acqua e non benzina sul fuoco. Sarebbe stata una lezione di democrazia.

LA PROPAGANDA E L'OSSESSIONE ANTIFASCISTA.

"Pd ipocrita, non basta definirsi antifascisti per essere democratici". È il retaggio culturale degli eredi del Partito comunista mettere all'indice tutte le idee a loro contrarie. Compresa la famiglia, scrive Matteo Forte, Consigliere comunale, martedì 19/12/2017, su "Il Giornale". È tornata la parolina magica che la sinistra milanese rispolvera in vista della prossima campagna elettorale: antifascismo. Ed ecco che a Palazzo Marino viene presentata una bella mozione che di più democratiche non ce n'è. La mozione, firmata in pompa magna da tutti i consiglieri di maggioranza, sottomette la concessione di spazi pubblici, contributi e patrocini ad una dichiarazione in cui il richiedente certifica il suo antifascismo e il suo essere contro il razzismo, le discriminazioni di genere e d'orientamento. A più di settant'anni, però, è giunto il momento che qualcuno di insospettabile dica una cosa che ormai anche nella storiografia più recente è stata sdoganata: non basta essere antifascisti per dirsi democratici. Il concetto di antifascismo fu egemonizzato fin da subito dall'Unione sovietica di Stalin che, vedendo nel fascismo nient'altro che l'ultimo stadio dello stato borghese, lo faceva coincidere con l'anticapitalismo. Da allora è passata l'idea che antifascisti, e quindi sinceramente democratici, sono solo quelli di sinistra. Tale retaggio culturale affligge ancora oggi gli eredi del Pci, quelli che il «comunismo italiano era un'altra cosa» e i loro giovani nipotini dem. I democratici di oggi finiscono per rigettare nel campo del fascismo tutte le idee che loro osteggiano. È fascista chi, per esempio, si oppone alla «colonizzazione ideologica» nelle scuole medie statali da parte di esponenti dell'Arcigay, com'è capitato all'assessore Deborh Giovanati del Municipio 9. Lei ha sollevato il caso di sedicenti «corsi contro la discriminazione» in cui si parlava a ragazzini adolescenti di «pansessualismo» e si invitava una consigliera Pd a presentare il suo libro su Islam e integrazione. Giovanati ha chiesto semplicemente se i genitori fossero stati opportunamente informati e se, nel caso, fosse prevista una pluralità di voci su temi così delicati in cui risulta violento andare contro le convinzioni più intime delle famiglie. Apriti cielo. Sono fioccati interventi sdegnati di parlamentari Pd contro la presunta ingerenza del Municipio nell'autonomia della scuola. Sono fioccate mozioni di censura contro l'assessore. È intervenuta l'Anpi zonale durante una seduta dell'ex consiglio di zona. La libertà è solo quella di poter esprimere le idee politicamente corrette e più accreditate. Le altre sono semplicemente fasciste. Ecco perché nella mozione liberticida ancora in discussione a Palazzo Marino si richiede l'autocertificazione pure contro le discriminazioni di genere e d'orientamento sessuale. Del resto non è un caso che la madrina delle unioni civili, la senatrice Cirinnà, abbia espressamente minacciato: «L'intuizione del grande sociologo Bauman è ormai da tempo una dura realtà: la società liquida, nella quale abbiamo dovuto abituarci a vivere, ci pone quotidianamente di fronte a nuove sfide culturali, sociali, intellettuali, per cui il tema della libertà d'espressione è indubbiamente la nuova frontiera che dobbiamo definire». In un regime sotto il Patto di Varsavia non avrebbero saputo fare di meglio. Per questo ancora oggi non basta dirsi solo antifascisti per difendere la libertà.

I comunisti e i fan del politicamente corretto sono sostenitori morali anche del terrorismo, scrive il 16 dicembre 2017 Andrea Pasini su "Il Giornale". Esiste un confine, netto, tra l’umana paura ed il sostegno morale al terrorismo. Oggi quel confine è stato varcato da migliaia di persone. In ogni canale mediatico, in centinaia di discussioni ed in milioni di coscienze è sbocciato un nuovo fiore del male. È il loto che erode la percezione. Cancella la memoria, annebbia i fatti. Ci suggerisce che la soluzione migliore sia arrendersi. Dialogare. Ci dice che queste cose sono inevitabili, che qualsiasi cosa facciamo è inutile. E fa guardare a chi lotta, a chi non si arrende, a chi chiama le cose col proprio nome come ad un molesto provocatore. Una voce da soffocare nella diffamazione. Negli anni ’70 le Brigate Rosse divennero un mostro perché nessuno ebbe il coraggio di riconoscerle. Decide di morti sulla loro scia, nel silenzio e l’assenso dei molti, della porporata intellighenzia di sinistra. Oggi viviamo la stessa fase di rimozione. In tanti cominciano con i distinguo e le profonde analisi politologiche. Tutto pur di non affrontare la realtà. Riecheggiano le auliche parole. I grandi ragionamenti si sprecano. Con il sangue ancora caldo ci dicono che chi ha sparato, chi si è fatto esplodere o chi con un camion ha investito e ucciso decine e decine di persone sono un caso isolato. Un pazzo senza matrice razziale. Rifiutano il fatto che il terrorismo sia, in diversi di questi casi, di matrice islamica. Un terrorismo figlio dell’odio religioso. No. Basta, è ora di cominciare a dire la verità. Urlarla per le strade. Dalle finestre. Sui social network. I morti in Francia, Belgio, Spagna e Regno Unito sono vittime del terrorismo islamico. Chi ha sparato era devoto all’Islam. Non satanisti sotto mentite spoglie. Non sono alieni, ma nuovi barbari. Sono uomini con un passato ed un presente forgiato nei nostri Paesi. Figli dell’oblio culturale frutto del tramonto dell’Occidente, per dirla citando Oswald Spengler. Alcuni di loro sono stati nostri vicini di casa. Frutto di quel melting pot culturale che riecheggia fin dagli anni ’80 ed è esploso, in questi giorni, con la generazione Erasmus. Erano assistiti dallo Stato, che li imboccava, sparsi per l’Europa, con sussidi, ma non nutriva la loro anima lasciandoli, per dirla questa volta alla Massimo Fini, allo scoperto del nostro vizio oscuro dell’Occidente. Erano tra noi. Come lo erano gli attentatori di Charlie Hebdo. Come lo erano i terroristi di Londra. Ammetterlo è il primo passo. Serve per rendere onore ai morti, seppellendoli senza bugie e false parole. Raccontare ai loro cari la realtà, sono morti per le negligenze di questa società, complice di chi è armato dalla fede islamica. È rendere un servizio ai vivi. Indicando il nemico e dando ad ognuno la possibilità di difendersi. Questo aspetto ad alcuni fa paura. Ma come, si domandano questi soloni, come possiamo permettere che la gente sappia e si tuteli? La violenza potrebbe diffondersi. Il razzismo rinascere. Per questo dobbiamo negare. Dobbiamo distinguere. Spiegare. Catechizzare all’amore incondizionato verso il diverso. Ma soprattutto sradicare, eliminare e tacitare di razzismo chiunque denunci questo malcostume. La gente, libera di vedere, diverrebbe una belva. Questo pensano i buonisti. Questo pensano i complici. Ora basta, guardiamo in faccia la realtà. Chi difende i terroristi per elevare la radicazione di una cultura informe rispetto alla nostra non è un libero pensatore, ma semplicemente un venduto. Sulle sue mani c’è il sangue dei caduti. Dei nostri fratelli. Parliamo di un vile Caino. L’odio contro di noi come occidentali, come cristiani, come europei e come uomini e donne liberi esiste. Fatevene una ragione. Se vogliamo che questo odio non ci conduca nell’abisso non arrenderci è la soluzione. Dobbiamo combattere. Putin, nei giorni scorsi, a mezzo stampa dopo essere stato in Siria ha dichiarato: “Abbiamo sconfitto Isis, ora ritiro truppe”, ma dobbiamo ricordarci che siamo un bersaglio. Siamo il bersaglio di chi vuole mettere in ginocchio il nostro stile di vita. Dobbiamo con coraggio e lealtà reagire per non farci sottomettere e conquistare. Questo tipo di Islam non è nostro amico. Non resta che tenere la guardia alta, lo sguardo concentrato per non cadere nella trappola del nemico che ci vuole gambizzati. Caduti nell’oblio del nulla. 

Le Reali Tombe del Pantheon, scrive Camporotondo. Il Pantheon sorge in Piazza della Rotonda, a Roma; è così chiamato perchè era un tempio dedicato a più divinità. La costruzione venne iniziata nel 27 a.C. dal console Marco Agrippa, ma durante gli incendi dell'80 e del 110 d.C. venne distrutta; essa fu ricostruita nel 118 d.C. dall'imperatore Adriano. Fu restaurato da Domiziano ed è arrivato fino a noi quasi integro nella ricostruzione eseguita da Adriano nel 130 d.C. L'imperatore Foca donò nel 608 il Pantheon al Papa Bonifacio IV, il quale lo trasformò in una chiesa cristiana con il nome di Santa Maria dei Martiri. Il monumento è formato da un cilindro che sostiene la più grande cupola mai costruita in muratura: il suo diametro infatti misura 43,3 metri. La cupola è decorata da cinque file di cassettoni concentrici che degradano verso l'alto e terminano in un'apertura circolare di 9 metri di diametro; ogni anno, alle 12 del 21 giugno, in occasione del solstizio d'estate, un raggio di sole attraversa “l'oculus” irradiandosi all'interno della costruzione. Il pavimento presenta il disegno che aveva in origine: per costruirlo furono adoperati gli stessi materiali usati per le decorazioni architettoniche, ossia i marmi tipici delle costruzioni romane: il granito, il porfido, il pavonazzetto, il giallo antico. Nel gennaio del 1878, in occasione della morte del primo Re d'Italia Vittorio Emanuele II, il Pantheon fu scelto quale dimora delle salme dei Reali d'Italia. Attualmente accoglie le spoglie mortali di Re Vittorio Emanuele II, Re Umberto I e della Regina Margherita di Savoia. Sono destinate ad esservi sepolte anche le salme dei Reali d'Italia ancora sepolti in esilio: Vittorio Emanuele III, La Regina Elena, Re Umberto II e la Regina Maria Josè.

Al Pantheon i geni, non i supini, scrive il 18 dicembre 2017 Luca Nannipieri su "Il Giornale". Ma se mettessimo davvero la salma del re Vittorio Emanuele III dentro al Pantheon a Roma, accanto alla tomba eterna di Raffaello, le salme di Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Giorgio De Chirico, Giuseppe Ungaretti, Gabriele D’Annunzio, Italo Svevo, Vittorio De Sica, dove le avremmo dovute mettere? Avremmo dovuto dedicare uno speciale mausoleo per ciascuno di loro. Perché è vero che nel Pantheon è sepolto anche un altro re d’Italia, ma col tempo, con il turismo globalizzato che si concentra a milioni ogni anno in visita a questo tempio, il Pantheon ha smesso di essere il luogo di sepoltura di reami e dinastie, e può diventare il luogo per eccellenza dove seppellire le massime vette del genio italiano. Anche nella lingua comune, pantheon è luogo delle rarissime eccellenze che hanno la forza di essere riconosciute come fondatori e padri spirituali di un popolo. Già nei primi del Novecento lo storico dell’arte Alois Riegl teorizzò la metamorfosi delle funzioni dei monumenti: un monumento non è statico, immobile, ma il suo significato varia a seconda delle epoche e dei valori che in esso si agitano. Re Vittorio Emanuele III è un padre spirituale? Neanche lontanamente. Accettò le leggi razziali, con la stessa supina accondiscendenza con cui don Abbondio, nei Promessi Sposi, si inchina ai bravi. Il Pantheon sia il luogo dei padri fondatori come Raffaello, non dei don Abbondio della storia.

Il Pantheon no. A proposito di Vittorio Emanuele, scrive il 18 dicembre 2017 Marco Valle su "Il Giornale". Torni dall’Egitto e riposi in pace Vittorio Emanuele. Riposi nel suo Piemonte. Riposi accanto ad Elena, il suo amore montenegrino. Finalmente, nel silenzio di una antica abbazia sabauda, “Curtatone e Montanara” — la definizione è degli Aosta, il ramo cadetto ed impertinente della dinastia — possano dormire assieme. Bene. Torni in Patria Vittorio, il re che seppe difendere nel 1917 a Peschiera, all’indomani di Caporetto, l’onore dell’Italia. Venga sepolto lassù, tra langhe, colline e montagne, il sovrano che nell’ottobre del 1922 impedì una guerra civile e poi, di malavoglia, accettò una modernizzazione autoritaria forgiata dal figlio di un fabbro di Predappio. Vittorio, borbottando, firmò ogni sua legge: la scuola di Gentile, le riforme sociali, le “città nuove”, le pensioni, l’orario di lavoro, i diritti delle madri, la salvaguardia dell’ambiente di Bottai e molto altro. Tante firme, anche sui provvedimenti più stupidi ed odiosi. Gli errori del Fascismo. La storia è nota. Inutile aggiungere note superflue. Basta leggere De Felice. Per un ventennio lui e tutti i Savoia preferirono crogiolarsi nel ventre caldo del regime, accettando cariche, piume, soldi e corone (Etiopia, Albania). Un bel gioco. Poi, la guerra. Nel giugno del 1940 Vittorio chiese al Duce — sempre De Felice — Nizza, Savoia, il confine al Var. La “roba” che Cavour aveva barattato con Napoleone III in cambio dell’Unità. Piccoli calcoli dinastici in una guerra mondiale. Con l’età gli orizzonti dell’uomo si erano erano ristretti tra le sue monete (era un numismatico compulsivo), la famiglia e gli egoismi di casta. Poi, le vittorie (poche) e le sconfitte (tante) sino al 25 luglio del 1943. Il crollo. La classe dirigente fascista — una folla di gerarchi, ministri, di “fedelissimi” e, persino, il genero — decise di suicidarsi offrendo al sovrano il pretesto per arrestare Mussolini e imbarcalo in un’ambulanza. Poi, con il “generalissimo” Badoglio — massone, affarista e cretino — il re organizzò, nel modo peggiore possibile, l’armistizio. L’8 settembre 1943. Una data pesantissima che, giustamente, Galli della Loggia, ha definito la “morte della Patria”. Poi la fuga ad Ortona e l’imbarco di reali e gallonati sulla corvetta Baionetta — la “zattera della Medusa” della dinastia — verso Brindisi. L’usbergo graziosamente concesso dagli invasori al monarca. Un piccolo ricordo. Tanti, troppi anni fa, con mio padre scoprivo Alessandria d’Egitto. Arrivati alla Cattedrale cattolica ci accolse un padre francescano. Al termine della visita chiese se volevamo visitare la tomba del Savoia. Babbo s’inalberò. «No, no. Lui ci ha traditi, ci ha abbandonato, ci ha umiliato». Non l’avevo mai visto così adirato. Una volta usciti dal tempio mi raccontò il suo 8 settembre ’43. La flotta salpata da La Spezia — corazzate, incrociatori, caccia — per la “battaglia dell’onore”. Lo scontro decisivo e finale contro gli anglo-americani nel mare di Salerno. Un beau geste. In navigazione arrivò, invece, l’ordine di mettere a prua verso sud e innalzare pannelli neri come segno di resa. Poche ore dopo i tedeschi affondarono la “Roma”, il gioiello della nostra Marina. Poi l’umiliazione a Malta. Babbo era imbarcato sul cacciatorpediniere Grecale, una delle prime unità a cui gli inglesi consentirono di rientrare a Taranto. Quel giorno, mentre una banda raffazzonata suonava l’inno del Piave, i marinai scorsero sulla banchina il re e suo figlio. Dalla tolda una tempesta di fischi e insulti salutarono i reali. Storie vecchie. Vittorio Emanuele torni pure dall’Egitto. Lo si chiuda nel suo sepolcro alpino. Dorma in pace. Chi vuole lo pianga, sventoli bandiere, indossi i palandrani dei vari sodalizi sabaudi. Chi vuole suoni la “Marcia reale”. I defunti vanno rispettati. Sempre. Ma non si chieda per Vittorio la sepoltura al Pantheon. La meriterebbe, piuttosto, Carlo Alberto — in ogni caso un personaggio centrale del processo unitario — e, forse, forse — Umberto II, ma non il “re sciaboletta”. No, lui no. No.

Le polemiche sulle sepolture dei Savoia sono vecchie di 140 anni. Torna in Italia la salma di Vittorio Emanuele III, dopo quella della moglie Elena. Sarà sepolto a Cuneo, ma secondo gli eredi gli spetterebbe il Pantheon, scrive "Agi" il 16.12.2017. Finisce l'esilio postmortem di Vittorio Emanuele III di Savoia e della moglie Jelena Petrovic Njegos. Dopo che la salma della Regina Elena, in gran segreto, era stata traslata dal cimitero di Montpellier, in Francia, dove fu inumata il 28 novembre 1952, è arrivata al santuario di Vicoforte, nei pressi di Mondovì, nel cuneese, anche il feretro del consorte, che riposava invece ad Alessandria d'Egitto. Un trasferimento, che, come era previsto, ha sollevato polemiche, date le responsabilità storiche di Vittorio Emanuele III nella tragica avventura bellica dell'Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Elena aveva seguito il marito in esilio ad Alessandria e, rimasta vedova, si era trasferita in Francia per curare i gravi tumori dei quali soffriva.

"Profonda gratitudine a Mattarella". La notizia è stata data, a traslazione avvenuta, dalla nipote Maria Gabriella con un comunicato all'agenzia France Presse: "A nome dei discendenti della coppia reale che ha vissuto i suoi 51 anni di matrimonio insieme agli italiani, nella buona e nella cattiva sorte, esprimo la più profonda gratitudine al Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, che ha favorito il trasferimento in Italia". Il Quirinale in una nota ha confermato di essersi mosso "sul piano diplomatico" per il rientro delle spoglie mortali degli ex regnanti.  "Confido che il ritorno in Patria della Salma di Elena di Savoia, la Regina amata dagli italiani, concorra alla composizione della memoria nazionale nel 70esimo della morte di Vittorio Emanuele III (28 dicembre 1947) e nel Centenario della Grande Guerra", ha aggiunto Maria Gabriella. E alcuni quotidiani sostengono che proprio in quella data la salma del re potrebbe essere rimpatriata. A confermarlo a Repubblica il rettore della basilica, don Meo Bessone, che ha celebrato ieri la cerimonia per la sepoltura della regina nel santuario che, nelle intenzioni dei duchi di Savoia, avrebbe dovuto diventare il mausoleo della casata. Chissà se vi troveranno posto in futuro anche Umberto II e Maria José, che regnarono un solo mese prima della proclamazione della Repubblica e riposano nell'abbazia di Heutecombe, in Savoia. 

"I re e le regine d'Italia debbono riposare al Pantheon". Un gesto di conciliazione che non tutti gli eredi hanno apprezzato. "La mia bisnonna, l'amata regina Elena seppellita a Cuneo? Mio padre Vittorio Emanuele, capo di Casa Savoia, è rimasto sconvolto dall'iniziativa della sorella Maria Gabriella e soprattutto dai modi della traslazione della salma della regina d'Italia, in gran segreto. Ma perché?" è subito sbottato Emanuele Filiberto di Savoia, che al 'Corriere della Sera' spiega i motivi della tensione con la zia Maria Gabriella che ha preso "in autonomia" la decisione di far rientrare in Italia le spoglie. "Farla tornare adesso di nascosto, quasi fosse stata una terrorista, per noi Savoia è un insulto. La nostra battaglia è sempre stata quella di far tornare le salme degli ex re nell'unico luogo deputato alla loro sepoltura, il Pantheon a Roma. Non in una tomba qualsiasi in Piemonte".

Chi riposa al Pantheon. Il Pantheon conserva le tombe dei due primi re d'Italia, Vittorio Emanuele II e suo figlio Umberto I. La tomba di Vittorio Emanuele II si trova nella cappella centrale a destra. In realtà la destinazione della salma del re al Pantheon fu oggetto di un'accesa discussione: in molti, infatti, volevano che fosse inumata nella Basilica di Superga, luogo tradizionale di sepoltura dei Savoia. Alla fine tuttavia prevalse la volontà del presidente del Consiglio Agostino Depretis e del ministro dell'Interno Francesco Crispi. Come sacrario di casa Savoia nel 1882 sorsero immediate le proteste per impedire che venisse inumata nel Pantheon la salma di Giuseppe Garibaldi. Esattamente sul lato opposto del Pantheon sorge la tomba di re Umberto I e della sua consorte, la regina Margherita. Le tombe reali vengono mantenute in ordine da volontari delle organizzazioni monarchiche. Il servizio di guardia d'onore è reso dai volontari dell'Istituto nazionale per la guardia d'onore alle reali tombe del Pantheon. Non solo Savoia, però: nel Pantheon riposano i pittori Raffaello e Carracci, l'architetto Baldassarre Peruzzi e il musicista Arcangelo Corelli. Anche per il principe Serge di Jugoslavia, bisnipote della regina, l'ultima dimora dei reali d'Italia non può che essere il Pantheon. "Nonno Umberto II e il bisnonno Vittorio Emanuele III si rivolterebbero nella tomba", dichiara al Corriere, "i re e le regine d’Italia debbono riposare al Pantheon a Roma, e soltanto lì. È dal 1998, quando Vittorio Emanuele ed Emanuele Filiberto hanno potuto far ritorno in Italia che mi faccio portavoce di questa battaglia: i sovrani d’Italia debbono poter riposare tutti al Pantheon. E poi in famiglia le decisioni si prendono discutendo, e invece in questo caso, se i fatti stanno così, nessun altro in famiglia ne era al corrente. Mia madre, Maria Pia, con me non ne sapeva nulla, neppure zio Vittorio Emanuele e tantomeno Emanuele Filiberto con i quali ho parlato: siamo tutti contrariati da questa iniziativa".

Vittorio Emanuele III, i Monarchici rispondono all’Ucei: “Leggi razziali? Non interessano più”, scrive Alfonso Raimo su "Dire" il 17-12-2017. “La storia è storia. A distanza di 70 anni lasciamo in pace i morti. Questo vale anche per Vittorio Emanuele III. Il piccolo grande re. Il re della vittoria. Non ci ricordiamo le leggi razziali, che non furono ascrivibili alla sua volontà. Ricordiamo quel che fu ascrivibile alla sua volontà: la riscossa dopo Caporetto”. Alessandro Sacchi, presidente dell’Unione Monarchica italiana, in un’intervista all’agenzia DIRE replica alla presidente delle comunità ebraiche Noemi Di Segni, che ha chiesto di non procedere alla traslazione della salma di Vittorio Emanuele III al Pantheon perchè il re porta “il peso di decisioni che hanno gettato discredito e vergogna su tutto il paese” a cominciare dalla firma delle leggi razziali. “Cominciamo col dire che da oggi in poi i Pantheon sono due: uno a Roma e uno a Vicoforte. Il Pantheon, infatti, è là dove è sepolto il re. E siccome il re è a Vicoforte, lì è il Pantheon”, premette Sacchi. Noemi Di Segni ha un’opinione specularmente opposta. “Massimo rispetto ma non sanno cosa significhi essere un re parlamentare e costituzionale, ruolo che Vittorio Emanuele III conservò anche durante il periodo fascista”, risponde il presidente dei monarchici. L’aspetto più controverso è la firma delle leggi razziali. “Ma un re deve controfirmare gli atti del governo. Capisco bene la loro posizione e me ne posso dispiacere tanto e considerare le leggi razziali un abominio. Ma non furono decise da Vittorio Emanuele III, che da capo costituzionale non poteva fare altro che firmare. Sì è vero: avrebbe potuto rifiutarsi e salvarsi la coscienza con l’abdicazione. Dopo di che Mussolini avrebbe fondato la repubblica fascista e promulgato comunque le leggi razziali. Del resto è quello che i fascisti hanno fatto a Salò, no?”. Ma qual è il suo giudizio sui rapporti tra il re Savoia e il regime? “Senza Vittorio Emanuele III non ci sarebbe stato il freno nei confronti del fascismo che comunque c’è stato”, risponde Alessandro Sacchi, presidente dell’Unione Monarchica italiana. “Ma io - aggiunge - non pensavo che ancora oggi, dopo 70 anni, avrei dovuto fare la difesa d’ufficio dalle accuse di vicinanza al fascismo. Per me la monarchia è il futuro. Tutto nella storia ha una sua giustificazione, anche la firma delle leggi razziali. Che senso ha parlarne oggi?”. In che senso dice che tutto ha una giustificazione? “Qualunque atto umano trova una sua ratio. Da che sono il capo dei monarchici italiani- aggiunge Sacchi - passo una parte del mio tempo per spiegare delle cose che tutto sommato non interessano più nessuno, come la marcia su Roma, le leggi razziali, la fuga di Pescara. Ci sarebbe, invece, molto da dire sulla funzione che hanno oggi le monarchie nel consesso dei popolo democratici. Le più belle democrazie sono oggi monarchie costituzionali. Di questo vorrei parlare e non perdere tempo a domandarsi dopo 70 anni quali responsabilità ebbe la monarchia in questo o quel frangente. Ripeto: tutto ha una giustificazione e una ratio”. Il giudizio complessivo sul re è più che positivo. “Vittorio Emanuele III è stato il più intelligente dei capi dell’Italia unita dal 1861. E soprattutto quello che più di chiunque altro ha rispettato lo Statuto. Una cosa che gli è costata anche cara, visto che anche i suoi consiglieri volevano farlo abdicare già nel 1943 e lui non volle, perchè sosteneva che abdicando avrebbe implicitamente ammesso di aver commesso degli errori. Cosa che non fu. Neppure quando diede l’incarico a Mussolini per formare il governo. Ci si dimentica che fu il parlamento italiano ad affidarsi a Mussolini. Che nel primo governo Mussolini c’erano anche i popolari. Si vorrebbe Vittorio Emanuele III colpito da una damnatio memoriae. Ma è stato un grande re”.

Ma i re non si smacchiano dalla storia, scrive Marcello Veneziani su "Il Tempo" il 18 dicembre 2017. Abbiate pietà per il piccolo Re. Abbiate pietà per i morti, per la storia, per l’Italia. Riattivate quel sentimento nobile e pudico che si chiama carità di patria. Accogliete le salme dei reali come si deve. Non solo a Torino ma anche a Roma, al Pantheon, dove ci sono le salme dei loro avi. Perché sono pezzi di storia patria, e non potete adottare fratture, salti, amnesie. Se volete riscrivere la storia, cancellare e modificare il nostro passato, allora via a eliminare in tutte le città d’Italia gli omonimi corsi, le omonime piazze dedicate a Vittorio Emanuele. Non a lui, beninteso, ma a suo nonno, che benché II° fu il primo re d’Italia. Cos’è questa fobia, questa paranoia che si abbatte sul passato, questa voglia di abbattere monumenti, cancellare memorie e paternità, disconoscere eventi storici? E magari tenersi qualche viale Lenin, viale Unione Sovietica, persino Stalingrado, oltre a svariati viali Togliatti, e cancellare tutto il resto. Anche il re viene vituperato in nome dell’antifascismo. Ma questo paese avrebbe bisogno di antirabbica più che antifascismo: troppo livore, troppi rancori. Su Re Vittorio Emanuele III diciamo due o tre cose. Fu il Re più duraturo nella storia d’Italia. Cominciò da ragazzo, quando gli uccisero il padre, Umberto I, a Monza, agli albori del ‘900 e rimase re fino a maggio del ’46, quando abdicò in favore di suo figlio Umberto II. Sarà stato un mezzo re quanto a statura, o un re dimezzato quando dovette coabitare con l’ingombrante duce, ma durò mezzo secolo sul trono. E un mezzo secolo in cui l’Italia combattè due guerre mondiali, alcune guerre coloniali, un paio di guerre civili, dal biennio rosso alla guerra civile fascio-partigiana, e in cui un paese contadino e analfabeta si modernizzò, si istruì, in massa. Fu un buon soldato, re sciaboletta, una persona triste, un po’ introversa, non maestosa ma sommessa. Commise alcuni errori, alcuni cedimenti. Dal fascismo subì non solo gli oltraggi, la marcia su Roma, le leggi liberticide o razziali; ma ebbe anche prestigio mondiale e nazionale, un impero, una storia. Non finì bene, la sua fuga resta una macchia nera nella sua biografia: magari non lo fece per salvarsi la pelle ma per salvare un regno anche se non vi riuscì. Conosco le giustificazioni, ma non fu una bella pagina. Fu perfino più grave del pastrano tedesco con cui fu preso Mussolini. Ma la storia è la storia. Si prende sulle proprie spalle la croce del tuo paese, insieme agli onori e ai ricordi. E si storicizzano gli eventi raccontandoli nel bene e nel male, e non vietandoli, smacchiandoli come tracce di unto, addirittura negando onorata sepoltura. La monarchia sabauda in Italia fu una monarchia breve per un paese antico, durò meno della vita di un uomo, ottantasei anni. Poco per un paese di millenarie tradizioni come il nostro. E i Savoia, dissi una volta con un filino di perfidia, seguono la via dell’involuzionismo, ossia il figlio è sempre peggio del padre o se preferite una formulazione più indulgente, il padre è sempre meglio del figlio. Carlo Alberto era meglio di Vittorio Emanuele II, e questi era meglio di Umberto I, e Umberto meglio di lui, il piccolo Re. E lui meglio di Umberto II e questi meglio di Vittorio Emanuele IV. Che temo sia meglio di Emanuele Filiberto… Poi ci sono gli Aosta, ma è un altro discorso. Mille aneddoti e maldicenze gremiscono la storia di Vittorio Emanuele III; ci piace ricordarne solo una, più innocuo. Quando Italo Balbo, a Tripoli, dov’era governatore, fece travestire il piccolo Leo Longanesi da Re e lo fece scorrazzare nella città su un’auto scoperta. Poi furono chiamati a rapporto da Mussolini che voleva punirli per il goliardico vilipendio, ma a sentire il racconto il ducione non riuscì a trattenere una fragorosa risata…In Italia le nostalgie monarchiche oggi toccano più i Borboni, gli Asburgo, e altre dinastie, più che i Savoia. Ma è giusto che le salme dei Savoia, di lui e della regina Elena, vadano accanto agli avi nel Pantheon. Perché il rapporto dei Savoia con l’Italia è lo stesso delle salme sabaude col Pantheon. L’Italia è una grande civiltà, una grande nazione, con uno stato storto, piccolo e recente, e dunque una monarchia breve e controversa. Così come il Pantheon è un luogo più importante dei re sabaudi che accoglie; c’è la romanità, c’è la Tradizione, c’è l’Impronta di Grandi Imperatori e c’è la dedica a tutti gli dei che grandeggia sulle vicende della storie, come l’eternità rispetto al secolo. Così in quell’ombelico del mondo (omphalos mundi), un posto spetta ai re d’Italia, uno spicchio di storia che non possiamo cancellare di un Paese che fu una grande civiltà e un modesto regno. Riportate il Re in famiglia oltreché in Patria.

Ma per la morte di Stalin il popolo dei moralisti impose il lutto all'Italia. Quante inutili polemiche sul re tenero con il fascismo. Con il dittatore sovietico invece..., scrive Matteo Sacchi, Martedì 19/12/2017, su "Il Giornale". Tante polemiche per il rientro in Italia del corpo di Vittorio Emanuele III, un re che ebbe la colpa di non sapere fermare l'ascesa della dittatura fascista. E un re che, quando dal fascismo si staccò, ebbe la colpa di non riuscire in nessun modo a prevenire la reazione tedesca. Eppure il nostro Paese, in altri casi, non si è fatto mancare giganteschi rituali di lutto collettivo, per tiranni ben peggiori, e che per altro italiani non erano. Basta pensare a come venne accolta la morte di Stalin, nel 1953. L'occhiello della prima pagina, bordata di nero, dell'Unità di venerdì 6 marzo 1953 così recitava: «Gloria eterna all'uomo che più di tutti ha fatto per la liberazione e il progresso dell'umanità». Venne anche organizzato un subitaneo lutto collettivo, imposto o no che fosse. Ecco come lo raccontava un altro degli organi di stampa più letti della sinistra dell'epoca, Rinascita: «La luttuosa notizia della morte del Capo amato dei lavoratori ha trovato la prima eco dolorosa nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro di tutta Italia. In centinaia e centinaia di aziende, dai grandi complessi alle piccole officine, in ogni provincia, il lavoro è stato spontaneamente sospeso per qualche minuto. Le maestranze si sono raccolte in assemblea, hanno commemorato la figura e l'opera di Giuseppe Stalin; negli stabilimenti, nei reparti, nei cortili sono apparse le prime bandiere abbrunate, i primi ritratti, i primi registri per la raccolta delle firme». E fu solo l'inizio. In onore del «Grande combattente della pace» le manifestazioni si moltiplicarono rapidamente: raccolte di firme da spedire in Urss, lezioni sospese in moltissime scuole, intere città, come le rossissime Livorno e Cerignola, vennero parate a lutto. Si arrivò anche a iniziative più bizzarre: ad Ancona si decise la diffusione di ventimila copie del discorso di Stalin al XIX congresso del Pcus; a Sbarre (Reggio Calabria) venne costituito, nel nome di Stalin, un nuovo reparto di Pionieri (l'organizzazione giovanile comunista). E qualcuno si precipitò verso il territorio sovietico più vicino e reperibile. Così di nuovo su Rinascita: «Gruppi di cittadini si recano a bordo delle navi sovietiche ancorate nei porti italiani, a recare agli ufficiali e ai marinai dell'Urss l'espressione del cordoglio e della solidarietà del nostro popolo». Non si fece mancare nulla nemmeno il mondo politico: sia alla Camera sia al Senato, la seduta fu sospesa per un'ora in segno di lutto. Anche non comunisti, come il socialista Pietro Nenni, usarono toni a dir poco apologetici: «Onorevoli colleghi, nessuno fra i reggitori di popoli ha lasciato dietro di sé, morendo, il vuoto che ha lasciato Giuseppe Stalin». Non bastando l'apologia collettiva partì la caccia ai pochi che ebbero il coraggio di dire, se non la verità sull'ideatore delle purghe più sanguinarie, almeno di correggere l'enormità di alcune di quelle bugie. Alcide De Gasperi si limitò a puntualizzare che: «Da vivo, il dittatore non mostrò per il nostro Paese né comprensione né considerazione...». Venne sottoposto a un vero e proprio linciaggio morale. Certo, si può ovviamente dire che nel 1953 non tutta la verità sul sistema concentrazionario era stata rivelata. L'Italia però non si fece mancare una nutrita delegazione ai funerali di Tito nel 1980. E anche in quel caso, seppure in tono minore, partì l'elogio collettivo (con poche eccezioni). Eppure sulle foibe non c'era molto da scoprire. Evidentemente su un re che ebbe molte colpe, ma anche qualche merito, come la condotta specchiata durante la prima guerra mondiale, la tolleranza è minore.

Fascismo, selfie della nazione, scrive Fulvio Abbate il 12 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Come la più ottusa delle scimmie, il suo riflesso è potenzialmente presente dentro ciascuno di noi. Il fascismo ci riguarda tutti da vicino. Come la più ottusa delle scimmie, il suo riflesso è potenzialmente presente dentro ciascuno di noi: ci basta scoprire che hanno fregato il deflettore dell’auto per sognare il ritorno di un sistema poliziesco degno di Pinochet e dei “voli della morte”, delle camere a gas, del razzismo. Ed è sbagliato sostenere che si tratti di una questione strumentale nel frangente delle elezioni. Il fascismo è il selfie della nazione. Più che la sua “autobiografia”, parafrasando Piero Gobetti. Perché il fascismo ci riguarda tutti da vicino. Infatti, come la più ottusa delle scimmie, il suo riflesso è potenzialmente presente dentro ciascuno di noi (sia detto senza offesa per King Kong, creatura che, come pochi, sapeva invece amare), ci basta scoprire che hanno fregato il deflettore dell’auto per sognare il ritorno di un sistema poliziesco degno di Pinochet e dei “voli della morte”, delle camere a gas, del razzismo. Senza scomodare ciò che spiegava Gramsci – «Il fascismo si è presentato come l’anti- partito, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano» – va detto però che questa riflessione sembra andare bene anche per il dispositivo mentale di altre compagini politiche recenti, come il M5S. D’altronde, assodato che il fascismo è semplificazione, l’opinione che Mussolini aveva di Gobetti non sfigurerebbe in un tweet di CasaPound: “segaiolo incarognito”, prosa da mattinale di questura e fureria. Proseguendo nel racconto della subcultura neofascista sarà bene aggiungere un ricordo personale: era il giorno dell’uscita nelle sale di Jesus Christ Superstar, 1973, e i fascisti stavano già lì a piantonare i cinema, accusando quel film di “blasfemia”. La fantasia di un musical a fronte di una ventina di figli di una piccola borghesia ottusa, i capelli tagliati dal “Kociss” delle caserme. I neofascisti, in questo accompagnati dai convinti d’altre sigle politiche perfino democratiche, di fronte a ogni obiezione spostano sempre l’oggetto della discussione, come al baretto rionale. Se provi a far notare che non si può iscrivere Anne Frank al campionato calcistico italiano 2017- 2018, loro ribattono: «… e allora le foibe?». Oppure: «E allora il comunismo?». «E allora la bomba degli anarchici ai carabinieri di San Giovanni?». Prendiamo ad esempio la bandiera del secondo Reich esposta in una cameretta della caserma dei carabinieri a Firenze. In questo caso basterà leggere i molti commenti contro la ministra Pinotti, accusata di essere ignorante in fatto di vessilli imperiali germanici, per comprendere l’analfabetismo “civile” che contraddistingue sia la zona nera sia la “zona grigia” benevolente verso certe forme di violenza e autoritarismo endemiche. Lo stesso vale per l’appello alla privacy: «Sia denunciato piuttosto il giornalista che con la sua telecamera si è introdotto in un presidio militare!». Questo genere di mistificazione si nutre talvolta di care memorie familiari: ampi strati del Paese privo di sentire democratico, ancora adesso ringraziano il duce per avere loro donato un’uniforme da capo- fabbricato, e con quella, i nonni e le nonne al momento opportuno, forti di un decreto emesso dal regime nel 1938, avrebbero denunciato i condomini ebrei del secondo e quarto piano, è accaduto proprio in un civico di fronte a una delle mie residenze romane. Obiezione: «E allora i comunisti che nel mondo hanno fatto più vittime di tutti?». Il neofascista, in cuor suo, con animo da modellista di stukas e V2, piange ancora adesso sulla sconfitta dell’esercito tedesco nella seconda guerra mondiale, l’assunto del lutto è facile a dirsi: con la disfatta del “Reich millenario”, ai loro occhi, avviene “la morte dell’Europa”. I neofascisti hanno ancora l’orgoglio identitario e sovranista, cioè «non vogliono stranieri in casa propria». Probabilmente, anche i nostri più ottusi cognati o generi o suocere o cugini, magari acquirenti furtivi di tallio per far fuori i consanguinei, gli appaiono comunque migliori dei “negri”. La legittimazione dei neofascisti come una cosa che «non è che poi fosse tanto male, eh?» è avvenuta con Tangentopoli, a un certo punto, anche a sinistra, si è cominciato a dire che «saranno pure fascisti, però sono onesti, mica come i Dc e i socialisti di Craxi!». Ricordando, metti, che Leonardo Sciascia sempre citava una relazione di minoranza dei missini nella Commissione antimafia. Mi direte che la legge Fiano non risolve il problema e si accanisce perfino sugli inoffensivi collezionisti di cimeli del Ventennio, vero, e infatti secondo alcuni il neofascismo insorgente andrebbe distrutto con le armi dell’ironia, così i più sarcastici, commentando l’irruzione di Forza Nuova sotto la redazione di Repubblica con bandiere e fumogeni hanno scritto: «Non sono fascisti, semmai appassionati della storica tradizione degli sbandieratori che difendono questa antica arte folkloristica strenuamente» . Bene, occorre ironia! Poi però ti guardi intorno e scopri che nulla o quasi è cambiato dal tempo in cui andavi da ragazzino al doposcuola – che sarà stato, il 1969? e il nipote, tuo coetaneo, del prof di aritmetica, già capomanipolo, diceva: «Perché i comunisti hanno ammazzato il duce, lo hanno appeso a testa in giù a piazzale Loreto, partigiani assassini, vergogna!». Allora provavi a spiegargli che il fascismo, restando in ambito familiare, aveva mandato tuo padre a combattere dichiarandolo volontario a sua insaputa (accadde con la classe del 1921) così papà, a 19 anni, era finito in guerra. «Eh, ma queste sono cose vecchie! Il fascismo è finito una vita fa!». Impossibile spiegare a questa gente che, al di là del dato storico, il fascismo è un modus vivendi, la scimmia che si risveglia davanti al deflettore dell’auto rotto, davanti al gommone del migrante. Diceva Pasolini: «Il fascismo è stato una banda di criminali al potere». Già, chi veste una divisa potrà mai esserlo? Obiettano quegli altri, ripensando ancora una volta al nonno con la camicia nera e i galloni da capofabbricato. A quel punto, provandole tutte, gli fai notare che la destra, metti, francese, è, sì, quella che mandava i suoi celerini, i “Crs”, a manganellare gli studenti nel maggio ’ 68 e ancor prima gli algerini, tuttavia era la stessa che anni prima aveva combattuto in prima fila i nazisti occupanti. Neppure l’argomento sulla propensione criminale propria dei fascisti, dalle vicende della banda della Magliana al caso di “Mafia capitale”, fino agli Spada a Ostia, neppure questo sembra smuoverli. Alla fine resta una domanda, che è poi la stessa che ci poniamo di fronte alle tiepide reazioni di sdegno da parte dell’opinione pubblica musulmana davanti alle stragi di “Charlie Hebdo” o del “Bataclan”, ma ci sarà una destra civile che voglia marcare la propria distanza assoluta dallo squadrismo mafioso neofascista? Se sì, ne attendiamo le parole. E Pietrangelo Buttafuoco, ospite di Myrta Merlino a La7, non dica che ciò che sta accadendo sono tutte “minchiate” ( sic), poiché definirle in questo modo è ingiusto e sa di mistificazione su gravi episodi che si ripetono in modo esponenziale, dalle aggressioni ai ragazzi romani da parte dei giovani neofascisti del Fronte della Gioventù che reputano di dover presidiare il territorio secondo un principio squadristico, all’immagine dei pacchi alimentari consegnati da Casa Pound a Ostia sotto le elezioni, tra negazione del principio della dignità al voto di scambio. «E allora perché non ci pensa il Pd, eh?». O ancora, tornando alla bandiera, ripetere, come se fossimo tutti sciocchi, che «quella non è una bandiera nazista e il ministro della Difesa non può essere digiuna di storia militare». Spalleggiato dai giornali del blocco leghista e berlusconiano che a loro volta minimizzano perché in cuor loro un certo modo di agire razzista dà calore e conforto a ogni ben pensante. Evidentemente, chi lo fa reputa il fascismo un bene rifugio di famiglia e tutto il resto un fatto secondario. Il fascismo è diventato il selfie della nazione. Chiedere a queste persone di elaborare il concetto di democrazia è evidentemente troppo. «E allora che dobbiamo dire del comunismo?».

Ps: Sostenere che si tratti soltanto una questione strumentale nel frangente delle elezioni è da analfabeta incapace di riflettere su un nodo storico e culturale che prescinde dalla contingenza e dai piccoli espedienti di una sinistra in difficoltà. E perfino il filosofo Slavoj Žižek sembra semplificare la questione per proprio narcisismo.

Fascismi giudiziari e aggravanti televisive, scrive Vittorio Sgarbi, Martedì 21/11/2017, su "Il Giornale". Assistiamo da anni a una aggressione giudiziaria, di stampo fascista. Penso agli insensati scioglimenti di Comuni per mafia, all'arresto plateale (seguito dall'incongrua liberazione) di Cateno De Luca, ai processi illegittimi come quello a Contrada, alle condanne arbitrarie di Dell'Utri e di Cuffaro, alle indagini su Berlusconi, e alla farsa degli alimenti a Veronica, conclusa con un risarcimento di lei a lui (in un impressionante squilibrio dei collegi giudicanti), al processo infondato per Mafia capitale, all'arbitrario arresto, fino a farlo morire, dell'innocente sindaco di Campobello di Mazara, Ciro Caravà, all'inverosimile metodo Woodcock, all'abuso di Cantone su Carla Raineri. Una lunga serie di veri e propri errori, per ignoranza o malafede. Fino all'arresto di Spada, per «testata» con l'aggravante di mafia, in un carcere di massima sicurezza. «Ha sbagliato, ma non ci scordiamo che Sgarbi schiaffeggiò la Mussolini in diretta televisiva», ricorda il cugino di Spada. Ricorda male. Fu lei a farmi cadere gli occhiali, e io le dissi semplicemente: «Fascista». Vero invece, e più pertinente al caso Spada, che io spaccai il tapiro in testa a Staffelli. Certo un cattivo esempio. Il cugino osserva: «Ma dove sta questa mafia? La mafia ve la state inventando voi». Ha evidentemente ragione. Roberto Spada, nella sua aggressione era solo, e la mafia prevede una associazione. La sola aggravante è quella televisiva.

Dal Lago: «Dell’Utri: Popolo e giudici gridano insieme “vendetta, vendetta!”», scrive Giulia Merlo il 13 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". “La sinistra si è persa in un incomprensibile degrado giustizialista. Da anni subisce il fascino dei leader magistrati: prima si chiamavano De Magistris, Ingroia e Di Pietro, oggi Piero Grasso”. «La nostra giustizia penale è vendicativa e l’opinione pubblica lo è altrettanto». Alessandro Dal Lago, sociologo e intellettuale di sinistra, interviene sulla vicenda penale di Marcello Dell’Utri e condanna non solo il sistema giudiziario ma anche il silenzio assordante della sinistra.

Professore, il nostro sistema penale è vendicativo?

«La giustizia penale nel mondo occidentale e soprattutto in Italia ha caratteri evidentemente vendicativi, anche quando la nostra Costituzione prevede la funzione rieducativa della pena. Eppure l’attuale situazione delle carceri italiane contrasta ampiamente con questa previsione e le retoriche pubbliche e politiche sono per lo più forcaiole e punitive. Ma attenzione, l’opinione pubblica non è da meno».

Gli italiani sono figli di questo sistema?

«Guardi, io ho scritto un post sulla mia pagina Facebook in cui ho sostenuto che la scelta del Tribunale del Riesame contro la scarcerazione di Dell’Utri fosse priva di umanità. Ho ricevuto alcuni commenti terrificanti, la cui cifra ultima è che Dell’Utri è il nemico e per lui non c’è alcuna pietà: una visione che fa rabbrividire nel Ventunesimo secolo».

L’opinione pubblica italiana confonde la politica con la giustizia?

«Chiariamoci, Marcello Dell’Utri è un mio avversario politico da sempre, ma ciò non può fare di lui un nemico da distruggere e nemmeno giustifica un accanimento nei suoi confronti. Oggi l’opinione pubblica si indigna contro chi ne sostiene la liberazione, mentre invece non fa una piega quando lo stesso Dell’Utri dichiara che si lascerà morire di fame».

Come se lo spiega? L’Italia è un paese giustizialista?

«Basta un dato: in Italia il 30% degli elettori vota per un partito che mette la legalità sopra a tutto. Oggi, nel nostro Paese, c’è ancora chi vuole una giustizia che sia esemplare».

E nel caso di Dell’Utri lo è stata?

«Mi limito a commentare la sentenza e parto dal presupposto della fiducia in ciò che scrivono i medici. Per questo mi indigna il fatto che un Tribunale sia passato sulla testa di tre specialisti che hanno valutato come grave la situazione di salute di Dell’Utri: la legge permette a un magistrato di non tener conto delle valutazioni dei periti».

Quanto c’entra la politica nella vicenda di Dell’Utri?

«Molto, a partire dal fatto che dopo Mani pulite l’esaltazione della giustizia penale è diventata un principio centrale. Non solo, però. Forse è solo un’impressione, ma non mi sento di escludere che la decisione dei giudici del Tribunale delle Libertà sia stata condizionata dal fatto che Dell’Utri sia un uomo di Berlusconi. Allo stesso modo, l’insurrezione dell’opinione pubblica è in parte motivata proprio dall’avversione per il berlusconismo».

Spiega così la mobilitazione della stampa orientata a destra in favore di Dell’Utri?

«Una mobilitazione quantomeno contraddittoria. Quotidiani come il Giornale, il Tempo e Libero lanciano una petizione in favore di Dell’Utri e ora tirano in ballo lo stato delle carceri, ma sono gli stessi giornali che da sempre predicano la frusta contro reati irrisori. La destra si mobilita per Dell’Utri, ma non lo avrebbe mai fatto per i tanti poveracci che condividono la sua stessa sorte. La loro è un’indignazione moralista e populista: ora dicono che quella contro Dell’Utri è tortura, sono stati loro i primi ad opporsi a una legge contro la tortura».

La sinistra, invece, è rimasta in silenzio.

«La sinistra si è persa in un incomprensibile degrado giustizialista. Dalle elezioni del 2013 subisce il fascino dei leader magistrati, che allora si chiamavano Di Pietro, De Magistris e Ingroia e oggi Piero Grasso. Questo è il lungo effetto di Mani pulite, che ha fatto perdere alla sinistra i principi garantisti».

Non esiste garantismo, quindi, nella sinistra italiana?

«Da quando Berlusconi è diventato un avversario giudiziario oltre che politico, la giustizia è diventata il faro della sinistra. In questo modo si è perso l’atteggiamento di critica minima nei confronti della legge e del sistema penale e ci si è dimenticati la cultura dei diritti umani e civili, che sono stati invece il cuore della sinistra. L’unica a restare garantista è Emma Bonino, ma la sua è una posizione marginale nella galassia della sinistra».

Come pensa che finirà la vicenda Dell’Utri?

«Se davvero Dell’Utri dovesse continuare fino alle estreme conseguenze lo sciopero della fame, sarebbe una botta tremenda per il giustizialismo di Stato. Io credo, però, che non si arriverà a questo punto: sul piano politico sarebbe un disastro e qualcuno di sicuro interverrà per aggiustare la situazione».

E’ una lotta tra la giustizia e la politica?

«No, io non ne faccio una questione politica ma di diritti umani: valgono per tutti, devono valere anche per Dell’Utri. Di più, io sono convinto che i diritti umani siano superiori alla giustizia. Bisogna smetterla di pensare che il diritto penale sia il criterio supremo di giudizio: esistono valori superiori come quello di umanità, che è un valore politico nel senso più alto del termine».

Il vero fascismo. Che patologia più grave di un grave tumore aveva Sofri rispetto a Dell'Utri, da essere trattato in modo così diverso? La risposta è semplice: era di sinistra, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 08/12/2017, su "Il Giornale". Devo ricredermi, ha ragione La Repubblica a lanciare l'allarme su un pericoloso rigurgito di fascismo in Italia. Ma non perché - come enfatizza il quotidiano diretto da Mario Calabresi - cinque cretini di Forza Nuova leggono un volantino in un centro culturale pacifista e altrettanti agitano fumogeni sotto la sede del suo giornale mascherati manco fosse carnevale. Stiamo diventando un Paese fascista perché un anziano e malato detenuto viene tenuto in carcere nonostante i medici abbiano certificato che le sue condizioni di salute sono senza dubbio incompatibili con il regime di detenzione. Anzi, per la verità Mussolini gli oppositori politici li mandava al confino nella splendida isola di Ventotene o in esilio, come capitò anche a Indro Montanelli, futuro fondatore di questo Giornale. La decisione di ieri del tribunale di sorveglianza di negare cure adeguate in luoghi adeguati a Marcello Dell'Utri, 76 anni, malato di tumore e ad alto rischio cardiopatico, suona come una condanna a morte di Stato. Condanna che l'imputato ha accettato annunciando di sospendere volontariamente e da subito anche le poche terapie che gli vengono somministrate in carcere. Noi quella condanna non la accettiamo e la cosa dovrebbe fare inorridire anche i sinceri democratici antifascisti che si agitano tanto per le pagliacciate di quattro ragazzotti in cerca di pubblicità (facendo così peraltro il loro gioco) ma che appaiono indifferenti alle violenze fasciste della giustizia. Tanto accanimento, direi odio, nei confronti di Dell'Utri non può che avere radici politiche, perché il codice penale permetterebbe ben altre soluzioni. Tipo quelle trovate per Adriano Sofri, icona della sinistra salottiera e rivoluzionaria, che condannato per l'omicidio del commissario Calabresi (padre dell'attuale direttore della Repubblica) scontò metà di una misera pena (15 anni) nel comodo di casa sua per «motivi di salute». Chiedo ai signori giudici: che patologia più grave di un grave tumore aveva Sofri rispetto a Dell'Utri (che per di più non ha mai ucciso nessuno), da essere trattato in modo così diverso? La risposta è semplice. Sofri era di sinistra (e che sinistra), Dell'Utri è stato a lungo il braccio destro di Berlusconi, e per questo può morire in cella come un cane. Se dovesse succedere, e mi auguro di no, chiunque può fare qualche cosa per fermare questo «fascismo» giudiziario - dal ministro della Giustizia al presidente della Repubblica - e se ne lava le mani dovrà risponderne. Agli uomini liberi da pregiudizi e alla propria coscienza, per tutta la vita.

Pasquino: «Ha ragione Bersani: Il M5S è un partito di centro sinistra», scrive Rocco Vazzana il 14 Aprile 2017 su "Il Dubbio".  Intervista a Gianfranco Pasquino: «Mi auguro che i 5 Stelle si impegnino: meno dichiarazioni, spesso abbastanza stupide, e più riflessioni». «Meno dichiarazioni, spesso abbastanza stupide, e più riflessioni». È questa, per Gianfranco Pasquino, la strada che il Movimento 5 Stelle deve imboccare se vuole conquistare Palazzo Chigi.

Professore, dopo Ivrea Beppe Grillo ha scritto sul Blog: «Non è più tempo di manifestazioni in piazza a carattere provocatorio, facili a sfogare nella violenza, è diventato il tempo di disegnare il nostro futuro». È iniziata la fase 2 del M5S?

«Che si stiano preparando a governare il Paese lo do per scontato, sarebbe sbagliato se non lo facessero. Dopo l’esperienza di Roma dovrebbero aver imparato che è meglio arrivare preparati invece di fare i dilettanti, o le dilettanti, allo sbaraglio. Anzi, mi auguro che si impegnino di più su questo terreno: meno dichiarazioni, spesso abbastanza stupide, e più riflessioni. Ma non basta organizzare convegni ben frequentati, un partito con ambizioni di governo deve anche essere presente in piazza, Grillo lo sa benissimo. Il Movimento ha bisogno dell’elemento spettacolare».

E come convinceranno la parte “mite” del Paese a votare Movimento 5 Stelle?

«Dovranno trovare alcune persone di cui non si possa dire “uno vale uno” ma che valgano molto più degli altri. Servono personalità che conoscano come funziona l’economia di un Paese, il sistema scolastico, il mercato del lavoro, che non propongano soluzioni sbagliate e che abbiano una biografia professionale che parli per loro. Devono trovare almeno quattro o cinque persone per vincere. Credo sia un’operazione fattibile».

Lo scouting è iniziato a Ivrea?

«Ivrea secondo me è stato un inizio, ma bisognerà andare avanti.

Per governare serve anche una legge elettorale che consenta di farlo. I 5 Stelle vorrebbero di estendere l’Italicum corretto dalla Consulta al Senato, dove però il premio di maggioranza viene assegnato su base regionale. Come si aggira l’ostacolo?

«È possibile fare tutto. Il Parlamento è sovrano. Le leggi elettorali deve scriverle il Parlamento, non il governo con voto di fiducia o la Corte costituzionale. Ma secondo me, la proposta dei 5 Stelle è sbagliata. L’Italicum deve essere buttato nel cestino della spazzatura e le Camere devono riflettere a fondo guardando a due modelli che funzionano: il sistema tedesco, se si preferisce il proporzionale, il Mattarellum o il sistema francese, se si preferisce il maggioritario. Tutte le altre proposte sono operazioni propagandistiche».

Pd e 5 Stelle fanno solo propaganda?

«Entrambi vogliono dire: “è colpa loro se abbiamo questa brutta legge elettorale”. Giocano a fare lo scaricabarile per non rimanere ultimi col cerino in mano. Ma quando si parla di riforma elettorale non è un problema di cerino ma di libri, di analisi comparata. Bisogna rendersi conto che una democrazia vera quando sceglie un sistema elettorale lo utilizza per molto tempo».

Dunque, discorso rimandato alla prossima legislatura?

«La mia intelligenza istituzionale mi dice che lei ha ragione, non ce la faranno a cambiare legge elettorale adesso, la mia volontà gramsciana dice che debbono farcela se vogliono avere una democrazia decente».

Esiste la possibilità che i 5 stelle si alleino con altre forze politiche?

«La storia politica italiana prevede anche la formazione di governi di minoranza appoggiati dall’esterno. Quindi, se il Movimento dà una grandissima prova di sé da un punto di vista elettorale, trova un personaggio adeguato per fare il presidente del Consiglio e si presenta dal Capo dello Stato esplicitando anche i punti programmatici, il Presidente della Repubblica potrebbe anche acconsentire al tentativo di formazione di un governo nella speranza di individuare alleati esterni. Oppure, al contrario, il Movimento potrebbe sostenere un governo a guida Pd a patto che i democratici accettino una parte delle proposte politiche dei pentastellati».

Non sarebbe più naturale cercare un’intesa con la Lega dopo il voto?

«La troverei molto complicata e non so neanche se numericamente sufficiente. Ma poi su cosa riuscirebbero a trovare un’intesa? Sul fatto che sono entrambi sovranisti? Sul no all’Euro e all’Unione europea? Ma si può fare un governo basandosi su dei no?»

Lei ha sempre contrastato chi sostiene la fine della distinzione destra/ sinistra perché i cittadini alla fine sanno sempre riconoscere le forze politiche e catalogarle in base a questo schema. Dove colloca allora il Movimento 5 Stelle? Destra o sinistra?

«Grosso modo dove si trovano adesso: in parte seduti a sinistra del Pd, in parte sopra e in parte verso il centro. Non vanno sui banchi della destra. Certo, al loro interno ci sono anche esponenti di destra. Come definire altrimenti Virginia Raggi? Però, credo che il Movimento 5 Stelle sia votato soprattutto da colo i quali sono insoddisfatti del Pd. Aveva ragione Bersani a provare di fare scouting. Ma non tra gli eletti, tra gli elettori».

In definitiva, elettori a parte, per lei il M5S è di destra o di sinistra?

«Io lo definirei un partito di centro sinistra, sta da quelle parti lì. E i suoi elettori stanno da quelle parti lì. Per intenderci, credo che Salvini non prenda neanche un voto dagli elettori insoddisfatti dal Movimento 5 Stelle».

Però il Movimento 5 Stelle vuole prendere i voti di Salvini. Su sicurezza, immigrazione ed Europa, ad esempio, Grillo strizza molto l’occhio all’elettorato della Lega.

«Questo è possibile. Se qualcuno riesce a rubare i voti alla Lega va bene, poi bisogna vedere come declinano il tema della sicurezza».

E come si declina il tema del lavoro. Pochi giorni fa sul Blog è iniziata la discussione sul programma di governo in cui i 5 Stelle si invocano un ridimensionamento dei sindacati. In questo Grillo insegue la destra o Renzi?

«Credo che scimmiotti Renzi, ma non ha capito che l’idea non funziona. Perché comunque il sindacato mantiene una sua forza e una sua presenza. Se uno vuole costruire un percorso di sinistra riformista può solo ispirarsi all’esperienza socialdemocratica. Ma lo si fa soltanto col consenso dei sindacati. Magari sfidandoli, portandoli su posizioni riformiste».

«CARA SINISTRA, MUORI UN PO’ PER POTER VIVERE…», scrive Rocco Vazzana il 10 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Intervista a Fausto Bertinotti: “Oggi il Parlamento è la cassa di risonanza del governo, non ha nessun appeal. Le elezioni non hanno alcuna incidenza sulla vita delle persone. E la sinistra reale si comporta come se tutto questo non esistesse”. La sinistra per rinascere dovrebbe saltare almeno «un giro elettorale». Fausto Bertinotti è convinto che tutte le proposte politiche in campo, fuori dal Pd, soffrano di un vizio d’analisi imperdonabile: il governo a ogni costo. Una prospettiva che costringe la sinistra «in una prigione» da cui è impossibile uscire senza ribaltare lo schema.

Presidente, partiamo dal tentativo fallito di Pisapia di unire il centrosinistra. Si aspettava che avrebbe gettato la spugna?

«Faccio una premessa, altrimenti tutti i miei giudizi risultano fuorvianti: io guardo a queste vicende come a una realtà lontana ed estranea a ciò che io considero necessario alla politica. Ciò che avviene sulla scena della rappresentanza delle forze della sinistra istituzionale non può portare a nulla di positivo per il destino della sinistra. La scena su cui si esercita la politica delle alleanze è inquinata, ci si muove dentro a una prigione».

Inquinata da cosa?

«Dalla morte della sinistra istituzionale che ha depositato i residui sul terreno, rendendolo inquinato. Non c’è niente da fare. La sinistra può rinascere solo fuori da questo recinto».

Cosa intende con sinistra istituzionale?

«La sinistra reale che occupa oggi la scena, anche se il termine sinistra risulta inutilizzabile. La sinistra ha subito una mutazione genetica che l’ha trasformata irrimediabilmente. È un problema enorme, basti guardare alla gerarchia delle priorità: governo, assunzione cioè del paradigma della governabilità; centralità della presenza politica solo sul terreno della democrazia rappresentativa; costituzione del soggetto politico; e infine la società. Questa gerarchia è mortifera, andrebbe completamente rovesciata. Il governo è stata una grande opportunità ma oggi si rivela nel suo contrario. Facciamo un esempio: la Spd tedesca. Per un partito in crisi drammatica l’unica ricetta per rinascere poteva essere il ricostituente dell’opposizione. Il ritorno alla grande coalizione equivale al ritorno nella tomba. Il problema è che la democrazia rappresentativa non è più centrale. Oggi il Parlamento è la cassa di risonanza del governo, non ha nessun appeal. Le elezioni sono diventate, come diceva Sartre, un’attività seriale, priva di qualunque incidenza sulla vita delle persone. È così vero che metà della popolazione non va a votare. E la sinistra reale si comporta come se questo elemento non ci fosse».

Il progetto di Pisapia non ha tenuto conto di questo elemento?

«È un vizio che riguarda tutta la sinistra. In termini diversi e con diversi gradi questa è la cultura delle sinistre istituzionali, si differenziano solo per il tasso di adesione a questa concezione. Non c’è nessuna forza di sinistra che pensa di rinascere fuori da questo campo, come invece hanno fatto altri soggetti in Europa come Podemos. Il fallimento delle alleanze a sinistra non è il prodotto delle caratteristiche psicopolitiche dei dirigenti, ma della natura del progetto: un’alleanza elettorale solo per influenzare il governo è un delirio. Se sei nel deserto devi dotarti di una risorsa per poterlo attraversare, non inseguire il miraggio. Per questa ragione sono convinto che sarebbe stato meglio saltare questo giro elettorale. Solo così si può ricostruire la gerarchia delle priorità: conflitto, soggettività politica, rappresentanza e poi, semmai, il governo».

Quando è iniziata questa mutazione genetica?

«A mio avviso inizia grosso modo all’inizio degli anni Ottanta, quando le borghesie si ribellano e puntano alla demolizione del ciclo inaugurato nel ‘ 68 e la sinistra risponde in maniera inadeguata a questa controffensiva. Lì muore la sinistra come espressione del movimento operaio.»

La sinistra ha bisogno di stare nel conflitto per definirsi tale?

«Esattamente. O la sinistra è una parte del conflitto, in contrapposizione a un’altra, o non è.»

E la sinistra che si organizza attorno a Piero Grasso che sinistra è?

«Non c’è un paradigma diverso rispetto a quello che attraversa il Pd, non ci sono soggetti in grado di fuoriuscire dalla mutazione genetica. E infatti si definiscono per differenza da Renzi, non per alternativa di visione sociale. Ci sono varie formazioni, ma come mai nessuna si chiama sinistra? C’è un senso di colpa dichiararsi di sinistra?»

Dicono dipenda dalla necessità di allargare il campo…

«Senza rendersi conto che il campo che ambiscono ad allargare è quello inquinato. La maggioranza del popolo sta fuori da questo recinto.»

Ci sono somiglianze tra Liberi e Uguali e la sua Sinistra arcobaleno?

«No, perché la sinistra arcobaleno, per quanto disastrosa, poggiava su una resistenza lungamente praticata. È vero, venivamo da una brutta esperienza di governo che ci aveva logorato, ma prima noi eravamo a Genova, nei movimenti altermondisti, in quelli pacifisti, eravamo dentro al conflitto. A differenza di Liberi e Uguali che non ha nessuna di queste radici, nessuna esperienza di scontro praticato. Basti pensare che il più grande movimento degli ultimi anni, quello delle donne, non è mai entrato neanche per sbaglio nell’agenda politica. O ancora, per la prima volta in Italia c’è uno sciopero in un luogo che sembrava precluso al conflitto, Amazon, qualcuno se n’è occupato? No, dobbiamo pensare alle alleanza secondo l’agenda parlamentare.»

Quindi crede che lo scontro tra Pd e Liberi e Uguali sia solo tattico?

«Lo scontro c’è ma è all’interno di un campo arido. Un tempo c’erano due sinistre con due approcci diversi: da una parte i blairiani e dall’altra gli antagonisti, grosso modo. Oggi ci sono due centrosinistra: uno che vuole governare in continuità con i precedenti esecutivi e uno che si candida a governare secondo una logica emendativa rispetto al passato. I secondi si rifanno al ritorno alle origini del centrosinistra ma chi rimpiange quella stagione non si rende conto che rimpiange l’origine dell’eutanasia della sinistra.»

Ma c’era anche la sua Rifondazione in quel centrosinistra…

«No, abbiamo sostenuto governi di centrosinistra ma non facevamo parte del centrosinistra. Abbiamo sempre rifiutato quella cultura politica della governabilità. La rottura con Prodi da dove nasce se non da questo? La cultura prodiana non c’è mai appartenuta».

Avete partecipato al secondo governo Prodi…

«Abbiamo sempre avuto in mente la centralità del conflitto e l’idea rispetto al governo è sempre stata strumentale. Ricordo che il primo Prodi condusse un’intera campagna elettorale contro di noi ma non aveva i numeri per governare. Fu costretto ad accettare il soccorso rosso. Noi sostenemmo il suo esecutivo senza entrarci, senza un ministro, senza un sottosegretario, senza un usciere».

In altre occasioni, alle Politiche del 2001, Rifondazione decise una desistenza unilaterale. Per quale motivo?

«C’era una legge elettorale asimmetrica. Alla Camera era consentito il voto disgiunto e al Senato no. Al Senato ci candidammo dappertutto, ma alla Camera decidemmo di presentarci solo al proporzionale e non nei collegi uninominali, per non favorire le destre. Era un atto unilaterale per ridurre il danno. Un gesto di generosità irripetibile».

Invece Liberi e Uguali e Pd si faranno la guerra. I bersaniani non escludono di aprire un dialogo col Movimento 5 Stelle dopo il voto…

«Il Pd di Bersani tentò già quel percorso. È un meccanismo in qualche modo scontato. Con questo sistema elettorale bisogna farsi piacere gli altri per tentare delle alleanze. Ma è un meccanismo figlio di un errore politico di partenza: il governo a ogni costo».

Liberi e Uguali è il partito di D’Alema o di Piero Grasso?

«Proporrei per un momento di fare a meno concettualmente di Massimo D’Alema. E proverei anche a pensare meno a Piero Grasso, nonostante lo stimi molto. Vedo una sinistra che si presenta sulla scena abdicando alla sua identità politica. L’idea per cui bisogna portare a termine un’operazione mimetica per presentarsi all’elettorato, attraverso uno schermo ieri Prodi, oggi Grasso – è sinonimo di debolezza. Chiamare qualcuno d’oltrefrontiera, in questo caso un ex magistrato, a rappresentarti è una manifestazione di fragilità».

Pisa, il simbolo di «Lotta Continua» nell’ufficio del funzionario della Questura. Un pugno chiuso su sfondo rosso al secondo piano dell’ufficio di polizia della provincia storicamente legata alla formazione extraparlamentare di cui leader è stato Adriano Sofri. Qualcuno ha fotografato il simbolo che ora sta facendo il giro del web, scrive Marco Gasperetti il 12 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Dietro la scrivania del funzionario di polizia, una donna, in un ufficio al secondo piano della questura di Pisa, un pugno chiuso su sfondo rosso “saluta” tutti coloro che entrano nella stanza. E’ il simbolo di Lotta Continua, la formazione extraparlamentare che negli anni Settanta polarizzò parte della sinistra di orientamento operaista e rivoluzionario e fece lavorare non poco la Digos. In quell’ufficio della questura, il simbolo di Lotta Continua è stato incorniciato in primaria evidenza, accanto a un gagliardetto del Pisa Calcio e del crocifisso. Che cosa ci sta a fare? «E’ un cimelio di una quarantina d’anni – rispondono fonti della Questura – nessun poliziotto lo ha appeso in quanto simpatizzante o nostalgico di quegli anni. E’ solo storia». Resta il fatto che qualcuno quel cimelio, un po’ atipico per abbellire un ufficio della questura, lo ha fotografato e lo ha spedito ad alcuni siti e quotidiani. E la notizia in poco tempo ha fatto il giro della Rete. Anche perché Pisa è storicamente legata alla formazione extraparlamentare di cui leader è stato Adriano Sofri, accusato e condannato per l’omicidio del commissario Calabresi, delitto del quale Sofri si è sempre proclamato innocente. Così, dopo le polemiche sulla bandiera del Secondo Reich appesa in una camerata nella caserma dei carabinieri di Firenze, ecco il Pugno Chiuso della questura di Pisa. Sarebbe quasi un derby se non ci fossero dubbi sull’opportunità e qualche sospetto (per il caso di Firenze) di simpatie.

Perché la sinistra non piace più…, scrive Riccardo Paradisi l'8 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La nascita di “Liberi e uguali”, il tentativo fallito di Pisapia, il Pd di Renzi in mezzo al guado: in crisi è il rapporto con il proprio elettorato. La sinistra perde pezzi e soprattutto consenso. Non sa più chi è, cosa deve essere. Come in mezzo a un guado non sa se andare avanti o tornare indietro. L’esperimento fallito o almeno interrotto di Renzi ha incoraggiato il ricomporsi d’un blocco socialdemocratico che affida le sue sorti a un magistrato, Renzi fa loro gli auguri ma risponde che sulla riforma del lavoro non si torna indietro, intanto però si sgancia anche Pisapia, perché in nome della realpolitik lo Ius soli è stato di fatto derubricato dall’agenda di fine legislatura. Ma questa è cronaca di palazzo, nella società, nel mondo del lavoro, nelle periferie, là dove la sinistra fino a un paio di decenni fa c’era e svolgeva un ruolo egemonico, adesso non c’è più. Perché? Cosa è accaduto? Sociologo, docente di analisi dei dati all’università di Torino, Luca Ricolfi è un ricercatore che lascia parlare dati, numeri e fatti senza piegarli a un teorema ideologico stabilito a priori. Al campo liberal e progressista dedica libri che ai destinatari non son risultati troppo graditi. Nel 2008 Ricolfi dedicò alla sinistra il suo Perché siamo antipatici (Longanesi), descrivendo il complesso dei migliori che non ha mai smesso di affliggere il campo progressista. Adesso arriva l’altro affondo: Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi (Longanesi, 288 pagine, 16,90 Euro). Qui Ricolfi, che non è un uomo di destra, spiega perché oltre ad essere antipatica la sinistra tradizionale è ormai anche priva di consenso. Ricolfi muove dalla constatazione dell’estinzione delle categorie di destra e sinistra, contestando però alla sinistra di avere usato fino ad oggi questa assiologia a suo favore come discrimine tra il bene e il male. La maggiore responsabilità di questa divisione manichea riguarda, secondo Ricolfi, soprattutto Norberto Bobbio e in particolare un suo libro di successo di 90 pagine pubblicato nel 1994 dal titolo Destra e sinistra.

Un testo chiave dove il filosofo torinese sostiene che la sinistra rappresenta il progresso e dunque il bene, la destra la reazione e dunque il male. La sintesi è semplificatoria ma rispecchia il pensiero di Bobbio che scrive: “Proprio perché i due termini descrivono un antitesi, la connotazione positiva dell’uno implica necessariamente la connotazione negativa dell’altro. Ma quale dei due sia quello assiologicamente negativo non dipende dal significato descrittivo, ma da opposti giudizi di valore che vengono dati sulle cose descritte” Le cose descritte sono eguaglianza e libertà e di queste due idee solo la sinistra, per Bobbio, è la legittima proprietaria. Non solo: siccome eguaglianza e libertà sono i massimi ideali che l’umanità si è data c’è una sola parte politica, la sua, che li incarna entrambi; le altre posizioni politiche sono fuorigioco. Per Bobbio la destra moderata, per dire, è solo conservazione: il suo unico merito è accettare la democrazia. Uno schematismo manicheo secondo Ricolfi che non ha certo aiutato la sinistra a orientarsi nel mondo nuovo ma l’ha bloccata in un riflesso narcisistico e autocompiaciuto di rappresentare comunque la parte giusta, il reale movimento delle cose, il progresso e l’emancipazione, qualsiasi cosa queste cose vogliano dire. Il problema è che, nell’era della globalizzazione, non c’è un solo discrimine ma ve ne sono due. Il discrimine più importante – sostiene infatti Ricolfi è fra forze dell’apertura, che accettano o promuovono ogni tipo di scambi (merci, servizi, capitali, informazioni), e forze della chiusura che invece invocano qualche tipo di chiusura, economica o sociale, comunque basata sull’idea che gli stati debbano riprendersi alcune prerogative, dal controllo delle frontiere a quello della moneta. In questo quadro il discrimine fra destra e sinistra resta, ma assume un carattere più sfumato, e soprattutto è trasversale alla dicotomia fra forze dell’apertura e forze della chiusura. In entrambi i campi sinistra significa una maggiore attenzione ai diritti e alla lotta alle diseguaglianze, destra significa maggiore attenzione ai doveri, alla tradizione e alla difesa della libertà, soprattutto in campo economico. Ma è piuttosto comune che questi più o meno nobili ideali subiscano contaminazioni e ibridazioni: la sinistra, ad esempio, sta sempre più diventando la paladina dei garantiti e dei ceti medi, la destra oscilla tuttora fra il polo conservatore e quello liberista.

Il divorzio tra sinistra e popolo tuttavia non nasce recentemente. Ricolfi lo fa addirittura risalire agli anni sessanta del Novecento con l’inizio della crisi dell’era del welfare. Il punto di svolta, l’arco temporale in cui è avvenuta l’inversione di tendenza, viene collocato da Ricolfi fra il 1970 e il 1975. Nel biennio 70- 71 il tasso di crescita delle economie avanzate subisce un rallentamento per poi precipitare nel biennio 74- 75, l’anno della prima recessione globale del secondo dopoguerra. Da allora non c’è più stato un periodo in cui le economie dei paesi avanzati siano tornate a crescere come negli anni centrali dell’età dell’oro: i decenni del secondo dopoguerra. “E da allora le istituzioni del welfare non sono più state le stesse, se non altro perché – con il passare degli anni – si è fatta sempre più strada l’idea che alla lunga non fossero sostenibili”. Tuttavia la fine dell’età dell’oro del welfare non coincide con il suo smantellamento. Anzi gli anni settanta, ricorda Ricolfi, sono anni di aspettative crescenti in tutta la sfera occidentale del pianeta. Le richieste dei cittadini nei confronti dello Stato si moltiplicano e la risposta dei governi è positiva anche se in deficit: più servizi sanitari, più sussidi, più istruzione. Insomma la crisi fiscale dello stato, che intanto è acclarata, non ne provoca lo smantellamento anzi ne segna il suo trionfo, “e questo nonostante la torta del prodotto nazionale cresca sempre più lentamente impigliata com’è nelle spire della stagflazione”. Qual è il segreto? Semplice il trionfo del welfare viene finanziato dall’aumento della pressione fiscale, dalla spesa pubblica in deficit e dalla riduzione del peso degli investimenti pubblici sulla spesa totale dello stato. Si innesta così un circuito vizioso il cui risultato è che all’espansione della sfera pubblica e dello stato sociale non corrisponde un aumento altrettanto rapido e sufficiente del prodotto, dell’occupazione e dei consumi privati. La realtà presenterà presto il conto ovviamente. E infatti fra la fine degli anni settanta e i primi ottanta “vengono meno tutti i meccanismi che hanno surriscaldato gli anni della stagflazione: la disoccupazione raffredda le rivendicazioni salariali, i deficit pubblici raffreddano la domanda di welfare, la recessione raffredda i prezzi”. È il primo momento della regressione. Il secondo momento, ancora più devastante, arriva con l’avvento della globalizzazione dei mercati che fa entrare nel gioco della competizione gli esclusi dell’Asia e delle Americhe. E ancora una volta la sinistra liberal, che della globalizzazione si fa alfiere dopo essersi intestata l’espansione del welfare, prende il secondo fatale abbaglio. Dalla fede nella socialdemocrazia i liberal passano a quella nel mercato globale: un entusiasmo quello dell’unificazione del mondo sotto le insegne della libertà di mercato che porterà a sottovalutare i rischi di un processo di integrazione troppo rapido e soprattutto poco sorvegliato. Vengono liberalizzate le importazioni dall’estero mentre si ingessa il mercato interno con un surplus di regolamenti, vincoli e proibizioni. Per la verità Giulio Tremonti già nel 1995, l’anno di nascita del Wto, inascoltato aveva lanciato l’allarme: “I salari occidentali entrano in concorrenza con quelli orientali senza che i salariati orientali debbano immigrare e venire a lavorare nelle nostre fabbriche. Non occorre che gli operai si muovano. A muoversi ci pensano infatti i capitali occidentali che direttamente o indirettamente finanziano le fabbriche orientali. La convenienza a investire capitali dove la manodopera costa pochissimo fa infatti scattare su scala mondiale la concorrenza salariale”. Insomma i lavoratori occidentali si trovano stretti nella morsa tra salari orientali e costi occidentali. Del resto avrebbe dovuto mettere qualche sospetto il fatto che se per integrare il mercato europeo ci sono voluti alcuni decenni altrettanti se non di più ce ne sarebbero occorsi per trasformare l’intero mondo in un mercato unico con le adeguate prudenze, laddove invece per la globalizzazione sono bastati cinque anni. Di più: la liberalizzazione dei movimenti di capitali si è accompagnata a una imponente finanziarizzazione dell’economia con la rapida diffusione di nuovi strumenti di gestione delle transazioni. Da qui il terzo colpo: il ripetersi di bolle speculative e la crisi finanziaria globali. E così, scrive Ricolfi, “coltivato per due decenni nei più raffinati laboratori del pensiero progressista il sogno di una sinistra amica del mercato si trasforma in un incubo nel 2008, allo scoppio della crisi, quando ci si avvede che non si tratta di una normale recessione ma della crisi di un paradigma che la sinistra riformista aveva adottato dopo il 1989, abbagliata dai successi del capitalismo che ora tende a rinnegare”.

Il divorzio tra sinistra e realtà, tra sinistra e popolo dunque si è prodotto nell’arco di quasi mezzo secolo. Decenni in cui la sinistra di sistema ha oscillato come un pendolo cercando di assecondare le realtà che però intanto la lasciava sempre dall’altra parte, in ritardo, scoperta di tutto tranne che del proprio sussiego e snobismo: persuasa malgrado tutto d’essere dalla parte della ragione malgrado la realtà, in ciò confortata dalla lezione in fondo rassicurante di Norberto Bobbio. L’altra ragione, ulteriore all’incapacità di leggere la realtà e di farle fronte politicamente, per cui il popolo non trova più nella sinistra la sua voce e la sua espressione è ancora più semplice: l’establishment di sinistra non ama il popolo, disprezza profondamente la gente comune, di cui non capisce né le ansie né i drammi quotidiani considerati materia volgare rispetto alle problematiche dei ceti medi riflessivi. I quali sempre evocati non sono mai stati precisamente definiti tanto da lasciar immaginare che siano una cosa di mezzo tra gli impiegati statali e le professoresse che leggono Repubblica. La realtà, dice Ricolfi, è che la sinistra ha perduto la capacità d’analisi: con Machiavelli e Gramsci il senso reale delle cose; con Marx la percezione della struttura sociale continuando invece a ragionare “come se i problemi fossero rimasti quello del mondo sostanzialmente chiuso dei primi decenni del dopoguerra, quando l’80% del Pil mondiale era prodotto da appena una ventina di paesi e la dinamica dell’economia dipendeva dalle decisioni di pochi leader”. La realtà invece è che la torta occidentale non aumenta più ma diminuisce a vista d’occhio e la sinistra non sa fare a meno della torta della crescita, perché da quella traeva l’idea della redistribuzione. Da qui la crisi della sinistra, crisi culturale e politica ma prima ancora crisi di rappresentanza. Da qui l’emersione prepotente dei populismi, fenomeno che la sinistra attribuisce alla destra non vedendo come molto consenso populista proviene proprio dai suoi ranghi. Se gli operai votano in Italia Lega o Cinquestelle o Marie Le Penin Francia – il fatto che il Fronte nazionale sia stato bloccato nell’ascesa all’Eliseo non toglie che sia la seconda forza francese – qualcosa vorrà pur dire. Come vorrà pur dire qualcosa che le forze populiste raccolgono consensi altissimi nei quartieri popolari, anche in grandi città come Roma e Torino un tempo roccaforti della sinistra. Certo al netto dello snobismo e della riottosità all’autocritica la soluzione del dilemma della sinistra non è affatto facile. La sinistra, per costituzione favorevole all’eguaglianza e all’internazionalismo, non può negare ai nuovi protagonisti della scena globale economica, l’accesso alle opportunità del mercato globale, ma al tempo stesso deve rispondere delle istanze dei popoli occidentali schiacciati dal dumping sociale e impoveriti da disoccupazione e delocalizzazione. Il rischio è che la contraddizione sia insanabile.

La sinistra è morta all’Ilva di Taranto. Quella dell’impianto siderurgico pugliese è una vicenda enorme, che coinvolge decine di migliaia di lavoratori e il diritto alla salute di una comunità. In tutto questo, le due sinistre italiane - né Renzi, né Grasso - hanno una posizione chiara. Avanti così, verso l'irrilevanza, scrive Francesco Cancellato il 4 Dicembre 2017 su "L'Inkiesta". Sulla vicenda Ilva sappiamo tante cose. Sappiamo che è complessa, innanzitutto. Perché se un’azienda decide di mettere 2,4 miliardi in investimenti industriali e progetti ambientali nell’acciaieria più grande d’Europa, col corollario di 10mila nuovi posti di lavoro, è indubbiamente un’ottima notizia. Allo stesso modo, però, l’allungamento dei tempi del piano di recupero ambientale è una brutta notizia – certificata dall’Arpa e sottoscritta da un profondo conoscitore della vicenda Ilva come l’ex ministro dell’ambiente Corrado Clini - soprattutto per gli abitanti del quartiere Tamburi, a poche centinaia di metri dal campo minerario, le cui scuole non aprono ogni volta che tira vento, per evitare che i bambini respirino veleno. Nel frattempo, mentre tutto questo accade, si sente dire che serve la sinistra. Che serve per combattere le onde nere, i fascismi di ritorno, i populisti, le destre vere e quelle mascherate. Perfetto: ma come la mettiamo con l’Ilva? Che opinione avete in proposito? Vanno bene 10mila nuovi posti di lavoro e 2,4 miliardi di investimenti o ha ragione Emiliano a ricorrere al Tar contro il decreto ministeriale per difendere, qui e ora, la salute dei tarantini? Va bene tornare a produrre acciaio, a costo di inquinare – meno ma comunque un bel po’ – l’aria, oppure è meglio importarlo dalla Cina, dall’India e da ovunque vi siano governi che non si pongono certe remore? Di fronte a questa domanda, la sinistra non sa, o comunque non risponde. Non sa Renzi, che evidentemente ritiene molto più importante – bontà sua – occuparsi di fake news e bufale online. E se non lo sa il suo segretario, figurarsi se lo sa la base: così, mentre il sottosegretario Teresa Bellanova sta con il ministro Calenda e contro Emiliano, i consiglieri regionali pugliesi sono usciti dall’aula o si sono astenuti quando un loro collega ha promosso un ordine del giorno che prevedeva, tra le altre cose, il ritiro del ricorso al Tar promosso dalla Regione contro il decreto del Governo. Di fronte a questa domanda, la sinistra non sa, e comunque non risponde. Non sa Renzi, che evidentemente ritiene molto più importante – bontà sua – occuparsi di fake news e bufale online. E anche dalle parti di “Liberi e Uguali”, nel giorno della fondazione del nuovo soggetto politico a sinistra del Pd, tutto tace sulla vicenda Ilva. Nemmeno a sinistra del Pd il quadro è chiaro. Nel giorno della nascita del nuovo soggetto politico “Liberi e Uguali” tutto tace sulla vicenda Ilva. Il neo leader Piero Grasso parla di dignità del lavoro, di diritti e di doveri, di Falcone e Borsellino - e di Renzi, ovviamente - ma non risulta abbia rilasciato memorabili dichiarazioni programmatiche sul sito tarantino, così come del resto i suoi compagni di viaggio. La stessa Cgil ha le idee un po’ confuse, se è vero che Susanna Camusso ha definito il ricorso di Emiliano «un gioco da bambini», sebbene la Fiom di Maurizio Landini sarà l’unica sigla sindacale che non parteciperà al presidio sotto la sede della Regione Puglia per convincere Emiliano e compagni a ritirare il ricorso al Tar. Motivo? «Non è utile per raggiungere l’obiettivo», disse l’uomo che meno di un mese fa ha occupato l’Ilva di Genova, perché «lo Stato ci costringe a fare i matti». Mistero. Di certo c’è che su vicende come questa una linea ce la dovete avere, care sinistre in cerca d’autore. E se non ce l’avete, se pensate che siano più importanti le fake news o la distanza dal Pd del destino di 35mila lavoratori – sommando addetti, indotto e nuove assunzioni previste -, o che un feticcio giuslavorista come l’articolo 18 sia più meritevole d’attenzione delle politiche industriali non è che non siete di sinistra. Semplicemente, non siete. E qualunque colore va bene, alla gente, persino il nero pece, se l’alternativa è trasparente.

Nonostante ciò, c’è qualcuno, ancora, che continua a fare propaganda comunista.

Diego Bianchi debutta su La7: "Ormai in Italia si fa solo propaganda. E allora ecco la nostra", scrive Cinzia Marongiu il 28 settembre 2017. Cambia la rete, cambia la collocazione in palinsesto, cambia il nome, ma la squadra, quella che ha fatto nascere “Gazebo e che lo ha fatto diventare una delle più interessanti e originali realtà tv, è rigorosamente la stessa. Diego Bianchi, lo “Zoro” nato sul web con i suoi video esilaranti sulle mille divisioni della sinistra, dopo cinque stagioni di Rai3, arriva a La7 e conquista la prima serata. Il debutto di “Propaganda Live”, questo il nome del programma è fissato per venerdì 29 settembre ma già in conferenza stampa Diego Bianchi e Andrea Salerno, nella duplice veste di direttore di rete ma anche di collaboratore storico prima di Gazebo e ora del nuovo programma, ne danno un assaggio spassoso. Si tratta di alcune pillole video della “Scuola Bianchi”, “cioè la scuola che immigrati devono frequentare per diventare come noi”, sottolinea ironico Diego Bianchi. “Quello dell’immigrazione sarà sicuramente uno dei temi al centro di Propaganda Live, così come lo è da mesi al centro di una becera propaganda politica”, dice nella videointervista concessa a Tiscali.it. “Perché il titolo? Abbiamo scelto qualcosa che rappresentasse al meglio il periodo che viviamo. Cinque anni fa la politica italiana era piena di gazebo. Ora invece siamo nella fase della propaganda, che con la campagna elettorale crescerà. Noi ci buttiamo nell'agone e facciamo la nostra”. Gli ingredienti sono i reportage dello stesso Bianchi (si comincia con uno a bordo di una nave di una ong), il racconto della realtà attraverso i social media, gli ospiti (si parte a razzo con Roberto Saviano che farà un riassunto della propaganda estiva”), ma anche la satira e la musica, con la band dal vivo di Roberto Angelini. Immancabile il disegnatore Maccox, ovvero Marco Dambrosio, che con una delle sue dissacranti strisce animate festeggerà i compleanni di Silvio Berlusconi e di Pierluigi Bersani. Nella videointervista a Tiscali.it Diego Bianchi spiega anche perché ha lasciato la Rai: "Con il passaggio di Andrea Salerno a La7 non avremmo potuto più lavorare insieme. E poi qui abbiamo un altro spazio, quello dela prima serata che ci permette di raccontare la realtà con un respiro più ampio. La striscia quotidiana di "Gazebo" ci schiacciava troppo sull'attualità. Io finivo per leggere le classifiche social e non potevo fare più reportage". Infine una battuta: "Tranquilli. Morto un hashtag se ne fa un altro".

Propaganda Live, Gasparri contro Zoro e Makkox: «Falliti, provocatori senza ascolti», scrive sabato 21 ottobre 2017 14:58 Marco Leardi su Davide Maggio”. Quelli di Propaganda Live dovevano aspettarselo. Chiamando in causa Maurizio Gasparri, avrebbero innescato una sua replica via social. Ad ogni azione corrisponde una reazione: e infatti così è stato. Ieri sera, durante il programma di La7 condotto da Zoro, è stata trasmessa una vignetta di Makkox (la riportiamo in apertura) che ridicolizzava il senatore forzista e quest’ultimo – che non stava nemmeno seguendo la diretta – non ha esitato a rispondere su Twitter prendendo di mira i protagonisti della trasmissione ed i loro ascolti. Gasparri si trovava in Sicilia per un incontro politico e non stava davanti alla tv, ma qualcuno lo ha informato che su La7 era appena stata proposta una sua caricatura disegnata dal vignettista Makkox. Il senatore a quel punto si è trattenuto: che fanno i parassiti di #propagandalive? Io sto tra la gente per elezioni in Sicilia, non sono senza pubblico come @makkox. Su Twitter l’esponente di Forza Italia ha punzecchiato direttamente Makkox, con un frecciatina sull’assenza di pubblico riferita con ogni probabilità agli ascolti disastrosi di Skroll, il programma a cura del vignettista laziale (qui la nostra recensione), che La7 ha recentemente spostato dalla fascia preserale a notte fonda (ora va in onda all’1.40) proprio a motivo dello scarso share. Mentre a Propaganda Live si sghignazzava per la freddura su Gasparri, questi tornava alla carica a più riprese. "Pare che io sia l’ossessione di questi falliti @makkox e @zdizoro saluti dalla Sicilia dove noi abbiamo voti, voi 0 ascolti #propagandalive", ha twittato nuovamente il senatore, definendo quelli di Propaganda Live “provocatori senza ascolti”. E ancora: "il vignettista è ossessionato da me. Disse che non mi aveva mai disegnato, invece l'aveva fatto e continua a farlo. Ascolti zero, coerenza zero". Nella passata esperienza a Rai3, Zoro e la sua banda si erano scornati più volte con Angelino Alfano. Stavolta ad alzare la voce è stato Gasparri, il quale però non è nuovo ad impetuosi (ma paradossalmente pure innocui) sfoghi su Twitter. Nel 2016, ad esempio, il senatore forzista se l’era presa sempre con Zoro definendolo un “astioso comunista”. Pane per i denti del videomaker romano, che su questi contenuti social ci ha costruito un programma.

Gasparri contro Diego Bianchi su Twitter: "Zoro comunista astioso e fallito", scrive il 9/04/2016 "L'Adnkronos.com". La lezione social di Diego Bianchi, in arte Zoro, in trasferta al Festival del giornalismo di Perugia con la sua "compagnia di giro" manda su tutte le furie il vicepresidente del Senato Maurizio Gasparri (Fi). Zoro si è soffermato sui tweet "sgrammaticati" del senatore azzurro, provocandone la reazione stizzita su Twitter: "@zdizoro si crede spiritoso, è un astioso comunista sul cui fallimento umano la sua famiglia riflette, solidarietà ai parenti #fallito".

"Mi diffama": Alfano denuncia Gazebo, che risponde così..., scrive il 20/05/2017 "Adnkronos.com". "Ieri, con i soldi degli italiani -due milioni e mezzo di euro per il 2017! - si è consumata la consueta diffamazione. Quel che è più grave è che essa è stata perpetrata da parte del servizio pubblico. Il presidente di Alternativa Popolare, Angelino Alfano, annuncia, dunque, di avere dato mandato ai propri legali per denunciare autori e conduttori di Gazebo in sede civile e in sede penale". E' quanto si legge in un comunicato di Ap. "Alla denuncia -prosegue- Alfano allegherà i riferimenti diffamatori a lui rivolti durante gli ultimi tre anni di puntate televisive di Gazebo, per dimostrare ciò che sarà facile dimostrare: non si è trattato di un singolo atto diffamatorio - che sarebbe stato comunque grave - ma di una intera campagna diffamatoria durata anni a spese del contribuente e con una pervicacia diffamatoria che rende plateale il dolo, l'intenzionalità, la tenace volontà di creare un danno alla persona e all'area politica che rappresenta". "Il punto - continua la nota - è reso ancor più grave dall'enorme sproporzione che vi è, all'interno del servizio pubblico, tra lo spazio dedicato alla diffamazione da questa trasmissione e lo spazio dedicato alla informazione, in altre trasmissioni Rai, sulla medesima area politica e sulla stessa persona che la rappresenta. Infine, è stata la stessa Rai 3, pochi giorni fa, a sottolineare che tale trasmissione è un mix tra informazione e satira, con questa frase contenuta nella nota che era stata diffusa e che riportiamo qui fedelmente: "... programma caratterizzato dal mix di satira e informazione che ne definiscono l'identità...". "Quindi - continua la nota - se è già stato ampiamente superato il confine della satira traducendosi in diffamazione, a maggior ragione tutto ciò nulla ha avuto a che fare con l'informazione. Ultima considerazione amara: questa diffamazione non può che essersi svolta con la azione o la dolosa e persistente omissione di una intera catena di comando che, dalla rete sino ai vertici massimi, ha consentito questi abusi". "Anche costoro, nei limiti del legalmente consentito, saranno, da Alfano, chiamati a rispondere sia nel giudizio civile che nel giudizio penale. Alfano fa presente, infine, di essere giunto a questa amara determinazione dopo tre anni di paziente sopportazione di questo scempio che ha fatto il servizio pubblico, nella speranza - è la conclusione - che vi fosse un operoso ravvedimento nella diffamazione". E la replica? Sull'account Twitter della trasmissione, è stata pubblicata integralmente la nota di Alternativa Popolare. Poco dopo è arrivato il cinguettio di Diego Bianchi, alias Zoro: una sola parola, "pervicacia", abbinata all'hashtag #gazebo e al retweet del messaggio inviato dall'account del programma.

Perdita gravissima, Angelino Alfano: Non mi ricandido. Zoro disperato. Il ministro degli Esteri a sorpresa lo ha detto durante la registrazione di “Porta a Porta”. Anche Ap, il suo partito, è sotto choc: non aveva avvertito nessuno, scrive il 6 dicembre 2017 "Ragusa News". Diego Bianchi, in arte "Zoro", storico conduttore di "Gazebo", su Rai Tre, e ora di "Propaganda", su La 7, è disperato. Il conduttore televisivo ha fondato molta della sua fortuna sull'attuale Ministro degli Esteri. Angelino Alfano non si ricandiderà alle prossime elezioni politiche. L’annuncio è arrivato nel corso della registrazione di Porta a Porta: «Non starò seduto tra i banchi del prossimo Parlamento, perché ho deciso di non ricandidarmi alle prossime elezioni. Dimostrerò che si può fare politica anche fuori dal palazzo». Il ministro degli Esteri ha aggiunto: «Ritengo - spiega - che ci siano dei momenti in cui vadano fatti dei gesti, voglio dimostrare che tutto ciò che abbiamo fatto è stato motivato da una profonda responsabilità verso il paese». Un annuncio arrivato a sorpresa su una notizia che persino i suoi fedelissimi non sapevano: «L'ho detto a mia moglie che condivide, anzi di più e a mio padre e a mia madre. Solo a loro tre. Non avvertito nessun altro. Non l’ho detto a Renzi? Non avevo dovere di comunicazione con lui». Una notizia dunque che ha messo in subbuglio il suo partito, Ap che alcuni definiscono ora sotto choc. Angelino ha del resto spiazzato tutti. Ma ora ne parlerà direttamente, a quanto si apprende, alla segreteria del partito convocata nella sede di via del Governo vecchio. La decisione del ministro degli Esteri cade anche in un momento particolare, data la direzione nazionale convocata per lunedì prossimo al romano hotel Flora. Una Direzione che dovrebbe votare tra le opzioni in campo in vista delle politiche: alleanza con il Pd o corsa solitaria. Al momento l’appuntamento risulta confermato.

La rinuncia di Angelino Alfano. Zoro legge Ragusanews su La 7. E son soddisfazioni, chiosa "Ragusa News" l'8 dicembre 2017.

Nemo e Gazebo si salvano. Come Alfano, scrive Marco Castoro Venerdì 9 Giugno 2017 su "Ill Messaggero. I numeri contano. Non solo in matematica. Lo sanno tutti che per andare avanti ci vogliono i numeri. E a volte basta un numero per cavarsela. Ora che la legge elettorale con lo sbarramento al 5% sembra solo un incubo passato, Angelino Alfano può tirare un bel sospiro di sollievo. Lo stesso sospiro di sollievo possono tirarlo Gazebo e Nemo. Ebbene, per ironia della sorte, sia il programma di Zoro-Bianchi su Raitre sia quello di Enrico Lucci su Raidue, non amati da Alfano, sono andati molto bene, superando entrambi (alla grande!) lo sbarramento del 5%. Diego Bianchi ora se ne va a La7 e Daria Bignardi dovrà inventarsi un nuovo programma per sostituire il format e il conduttore. Mentre Nemo - che nel frattempo ieri sera ha superato il 7%, crescendo di settimana in settimana rispetto agli esordi col 3% - è stato confermato dal direttore di Raidue Ilaria Dallatana anche per la prossima stagione. Del resto il 7% per Alfano alle elezioni resta un sogno. Nemo e Gazebo lo sbarramento l'hanno superato. 

Un triste "Gazebo" tra conformismo e battute scontate. C'è una trasmissione su Rai 3 che vale la pena di vedere una volta senza correre il rischio di vederla una seconda, scrive Vittorio Feltri, Domenica 04/10/2015, su "Il Giornale". Il titolo è Gazebo, che evoca raccolte di firme per referendum e roba simile. Niente di strano. Ciò che è popolare a noi non disturba, forse perché non siamo di sinistra. Il conduttore è Diego Bianchi, nome d'arte (si fa per dire): Zoro, nientemeno. Credo che sia romano de Roma, dato che, presentando il suo primo capolavoro stagionale, domenica 27 settembre ha esordito con questa parola: «puntada». Che sta per puntata. Anche qui, niente di strano. Ciascuno parla come mangia, lui mangia i «bucadini». Il programma si avvale del supporto di un batterista, un chitarrista e altri musicanti; c'è pure il pubblico: una ventina di facce da studenti fuori corso, barbe a strafottere. Solo un volto ci è abbastanza familiare: quello di Marco Damilano, vicedirettore di fresca nomina dell'Espresso. Dato che è un bravo giornalista, ci domandiamo che ruolo abbia al Gazebo. Transeat. Si comincia con un pistolotto di Zoro che fa lo spiritoso. Mostra delle foto di vari personaggi e li prende in giro. Un esempio, Roberto Maroni accanto al Gabibbo. Commento che dovrebbe essere esilarante: di questi due il grande politico è il Gabibbo. Però, che battuta. Compare un'istantanea di Daniela Santanchè. Alla signora si attribuisce la seguente invocazione: marò liberi. Non è nuova, ma si presta a un'altra battutona di Diego Bianchi: piuttosto che incontrare la Santanchè, i marò rimangono in India tutta la vita. Quando si dice la satira raffinata della sinistra. L'arguto conduttore termina la carrellata esibendo in effigie Giorgia Meloni, rassicurando gli utenti Rai che la signora «non è lesbica». Notizia della quale sentivamo un urgente bisogno. Poi gli intellettuali di Gazebo informano che è morto Pietro Ingrao a cento anni suonati. Non ci viene il dubbio che egli sia perito soffocato dalla balia; apprendiamo con sgomento che è stato un poeta di alto livello e un comunista inflessibile, tant'è che disse ai compagni in procinto di chiudere la bottega del Pci e di aprire quella del Pds: «Non mi avete convinto». Cosicché Ingrao rimase fedele all'utopia della dittatura del proletariato sino all'ultimo respiro. Sbagliare è umano, perseverare è diabolico. Aforisma abusato, però rende l'idea di quale tempra fosse il de cuius. Esaurita questa parte, va in onda un reportage realizzato da due signori che in auto si avventurano in Ungheria, attraversando mezza Italia (partenza dalla Capitale), la Slovenia, la Croazia e la Serbia. Le telecamere registrano le freddure dei due reporter in viaggio tra qualche difficoltà, quindi riprendono le scene dei migranti (o profughi, scelgano i lettori) alle prese con gli ostacoli che impediscono loro di recarsi in Paesi teoricamente ospitali, non funestati dalla guerra e dalla miseria. Immagini toccanti che sarebbero anche interessanti se fossero inedite, mentre le abbiamo viste scorrere sul video per giorni e giorni e ci siamo assuefatti ad esse. Indubbiamente, la documentazione audiovisiva del doloroso fenomeno della migrazione in massa ferisce il cuore di chiunque abbia un minimo di sensibilità. Centinaia, migliaia di persone che marciano appesantite da fagotti, seguendo i binari del treno, per sfuggire ai disastri della loro patria, commuovono. Stupisce inoltre la quantità dei bambini, con gli occhi pieni di paura, che camminano esausti accanto ai genitori. Ma trattasi di repliche di filmati logori. Una curiosità tetra. Come mai fra i marciatori non ci sono vecchi e neppure anziani? Sono stati lasciati dai figli sotto le bombe e in balia dell'Isis. A quelli di Gazebo non frega nulla. E Damilano? Non ha fiatato. Ha fatto di tutto per rendersi inutile. Meglio così.

Il pericolo farsista, scrive Marcello Veneziani. MV, Il Tempo 3 dicembre 2017. Siamo alla paranoia ideologica virale. Una bandiera del Secondo Reich, che era una monarchia costituzionale ottocentesca, tenuta in caserma da un ragazzo carabiniere di vent’anni, diventa il pretesto del giorno per gridare al Nazismo risorgente, che non c’entra un tubo con la bandiera e con la storia del secondo Reich. L’uso fake della storia sconfina nel delirio persecutorio. Ma non basta. In pieno autunno del 2017, un benemerito compagno ha scoperto una cosa tremenda: il 20 maggio del 1924, la città di Crema conferì su proposta della giunta locale la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. L’orrenda scoperta ha subito compattato il valoroso popolo de sinistra – enti, associazioni, partiti e sindaca, oltre l’ineffabile Anpi – che ha intimato di provvedere subito a ritirare l’atto osceno in luogo pubblico. Togliendo la cittadinanza onoraria di Crema a Mussolini avremo finalmente un Duce scremato. Tempestivo, non c’è che dire, se ne sentiva l’urgenza, 93 anni dopo. Ma come dice un proverbio politicamente corretto, Chi va piano va Fiano e va lontano. E’ tutta una gara in Italia per scoprire e revocare la cittadinanza onoraria al Duce in un sacco di comuni. Pensavo a questo eroico atto di ribellione al fascismo da parte della città cremosa mentre leggevo per il terzo giorno consecutivo commenti, anatemi e mobilitazioni contro il pericolo fascista dopo la sconcertante “azione squadrista” compiuta a pochi chilometri da Crema, a Como. La Repubblica, per esempio, ha schierato il suo episcopato per condannare il fascismo risorgente e chiamare a raccolta l’antifascismo eterno. Sui tg c’è stato un tripudio di demenza militante a reti unificate. Non avevo intenzione di scriverne, mi pareva immeritevole d’attenzione, ma la paranoia mediatico-politica non accenna a scemare.

1) Ora, per cominciare, quell’irruzione in un’assemblea pro-migranti non è di stampo squadrista semmai di stampo sessantottino. Gli squadristi, come i loro dirimpettai rossi, non irrompevano per leggere comunicati e andarsene senza sfiorare nessuno. L’abitudine di interrompere lezioni, assemblee, lavori è invece tipicamente sessantottina e poi entrò negli usi degli anarco-situazionisti, della sinistra rivoluzionaria, dei centri sociali, ecc. Gli “skin” in questione ne sono la copia tardiva, l’imitazione grottesca.

2) Secondo, i comunicati. Trovate pure demente e mal recitato, quel comunicato che gli impavidi neofascisti hanno letto interrompendo la riunione filo-migranti. A me fa sorridere, se penso ai comunicati degli anni di piombo. Vi ricordate? Davano notizie o annunci di assassini, accompagnavano attentati ed erano a firma Br, Primalinea e gruppi affini. Quando penso a quei comunicati, deliranti ma corrispondenti ad azioni deliranti e sanguinose, trovo farsesco il remake a viso aperto di quattro fasci e l’allarme mediatico che ne è seguito.

3) Terzo, la violenza di irrompere e interrompere. Succede ancora, nelle università, in luoghi pubblici, verso chi non piace ai movimenti di sinistra radicale, lgbt, centri sociali o affini. È capitato anche a me, girando l’Italia, di trovare aule universitarie e luoghi pubblici in cui non riesci a parlare o parli sotto scorta, tra interruzioni, proclami e incursioni. Di questo teppismo i giornali e i tg non ne parlano mai. E nessuna di queste anime belle che gridano indignate al pericolo fascista, ha mai espresso una parola di solidarietà e di condanna. Lo dico anche al pinocchietto fiorentino che esorta la comunità nazionale a indignarsi tutta e non solo la sua parte politica, per l’episodio di Como, anzi per la strage virtuale: lui non ha mai speso una parola per stigmatizzare episodi di segno opposto, assai più numerosi e più violenti e pretende che l’Italia insorga compatta per una robetta del genere? Diamine, ci sono ogni giorno storie di violenza e di morti, aggressioni in casa, e la comunità nazionale intera deve mobilitarsi unita di fronte a un episodio verbale così irrilevante? In realtà, voi informazione pubblica, voi governativi, voi giornaloni e associati, siete i primi spacciatori di bufale o fake news. Perché prendete una minchiata qualsiasi e la fate diventare La Notizia della Settimana, ci imbastite teoremi, prediche, rieducazioni ideologiche, campagne e mobilitazioni antifasciste. Se il pericolo che corrono le nostre istituzioni ha tratti così farseschi, allora il primo pericolo è la ridicolizzazione della storia e della democrazia da voi operata quando sostenete che sono messe a repentaglio da episodi così fatui e marginali. Non sapete distinguere tra una bomba e una pernacchia. E finirete spernacchiati.

Fascismo e antifascismo tra retorica e opportunismo, scrive Leonardo Agate l'8/12/2017 su "TP24". Francamente mi comincia a stare sulle scatole tutta questa retorica antifascista che riempie i mezzi di comunicazione di massa ogni giorno. Sia chiaro che non sono un fascista, e per questo sono antifascista, ma non mi sento di identificarmi con l’antifascismo di maniera, che è quello che non sopporto. Come, per altro aspetto, sono per la lotta alla mafia ma non faccio professione di antimafia. Il fascismo e l’antifascismo, come li abbiamo conosciuti in Italia dopo il crollo del fascismo, sono le due facce della stessa medaglia. Nel passaggio dal Regno alla Repubblica ci fu una corsa sfrenata per salire sul carro del vincitore. Il popolo fu, per fede, per opportunità o per quieto vivere, quasi interamente fascista finché il fascismo rappresentò sviluppo economico e sociale. Il limitato antifascismo crebbe con la creazione dell’asse politico Roma – Berlino, con le leggi razziali e con l’ingresso del nostro Paese nella Seconda Guerra Mondiale. A parte la limitata opposizione al fascismo, proveniente soprattutto dalla sinistra socialista e comunista, fino al 1936 il nostro Paese era massicciamente fascista. Era un regime totalitario, e fece le sue vittime fra gli oppositori, ma nulla a paragone di quello che avveniva in altre regimi totalitari come in Germania o in Russia. Si deve distinguere tra il popolo che inneggiò a Mussolini fino alla creazione dell’Impero, e il limitato antifascismo che il regime perseguì e fece soffrire. Quando il corso della Storia cominciò a cambiare, con l’avvicinamento dell’Italia alla Germania, il nascosto movimento antifascista si ingrossò, fino a sfociare nella Resistenza quando le truppe alleate cominciarono a risalire per lo Stivale. Il crollo definitivo del Regno e del regime fascista con la vittoria degli alleati diede la stura alla più veloce trasformazione degli italiani da fascisti ad antifascisti. Come se nessun consenso il regime mussoliniano avesse avuto fino al 1936, ed anche oltre, gli italiani si scoprirono in massa antifascisti. L’antifascismo che sostituì il fascismo portava nel suo DNA il virus fascista che lo aveva accompagnato per circa un ventennio. Cosicché si poteva dire che in Italia ci sono stati due tipi di fascisti: i fascisti veri e propri e gli antifascisti che li hanno sostituiti. La retorica degli uni è simile, anche se opposta, a quella degli altri. Lo abbiamo visto e sentito in ogni ricorrenza del 25 aprile. L’antifascismo di professione è quello che in queste ultime settimane vuol farci credere che ci sia un pericolo fascista da prendere in seria considerazione, solo perché un gruppo di stupidi estremisti di destra, della sigla “Veneto fronte skinhead”, ha interrotto l’assemblea della rete di associazioni pro migranti “Como senza frontiere”, per leggere un proclama contro l'invasione dei migranti. L’estate scorsa uno stabilimento balneare della riviera toscana è stato per settimane agli onori della cronaca perché il suo titolare esponeva simboli del ventennio fascista e faceva discorsi contro gli immigrati. A Predappio, dove Mussolini aveva la casa, si vendono ricordini del Ventennio, e se ne fa una questione di alta politica. Il deputato Fiano, Pd, ha presentato una proposta di legge per perseguire in modo più radicale i simboli e i comportamenti ritenuti fascisti, come se le norme della Costituzione e quelle della legge Scelba e della legge Mancino non fossero sufficienti ai giudici per perseguire e condannare i colpevoli di reati legati al possibile risorgere di movimenti fascisti. Il fatto è che l’antifascismo è una professione indolore e redditizia per chi gli si dedica: esclude una seria ricostruzione storica del periodo prima fascista e poi repubblicano; è una nuova patacca da mettersi al petto; si tratta ormai di un classico di moda, che dura ininterrottamente da oltre 70 anni. E’ stata un’autoassoluzione che ha sostituito l’orbace con la camicia bianca, mantenendo dentro il petto il pressapochismo e l’opportunismo di sempre.

“Blitz a Repubblica più grave di bomba a carabinieri”. La frase shock di Gabrielli scrive Davide Romano l'8 dicembre 2017 su "Primato nazionale". L’emergenza democratica causata dall' “onda nera” ricorda un po’ il caso Weinstein. Ovvero dopo la prima denuncia di molestie contro il produttore hollywoodiano, qualsiasi cosa, anche una semplice avances o uno sguardo equivoco, veniva innalzato al grado di “molestia sessuale” dall’ultima “vittima” in cerca di notorietà. L’antifascismo ai tempi della propaganda di Repubblica è al pari di una giornata mondiale contro la violenza di genere o ad un hashtag come #metoo. Non serve più nessun aggancio alla realtà per indignarsi o lanciare “l’allarme”. Basta la lettura di un volantino, una bandiera appesa in una caserma e un blitz di 8 persone con 4 fumogeni sotto un giornale per gridare ai quattro venti che “la democrazia è in pericolo”. E il vero pericolo è che a questo tipo di montatura diano fiato e corda il ministro della Giustizia e quello dell’Interno, oltre ad altri esponenti di peso nelle istituzioni. L’ultimo è il capo della Polizia Franco Gabrielli, un tempo noto, oltre che per l’assenza di scrupoli, anche per un certo pragmatismo. Per questo le sue ultime dichiarazioni rispetto alla dimostrazione di Forza Nuova sotto la sede di Repubblica e l’Espresso lasciano di stucco. Commentando l’ordigno esploso davanti ad una caserma dei carabinieri nel quartiere San Giovanni di Roma ha dichiarato: “È un fatto grave ma non dobbiamo amplificarlo oltremodo. Questi episodi sono avvenuti anche in passato. Vorrei quindi dare un messaggio di rassicurazione. Per certi aspetti ritengo molto più grave la piazzata che è stata fatta ieri nei pressi della redazione di un gruppo editoriale importante”. Un ordigno esploso davanti ad una caserma dei carabinieri con tanto di rivendicazione anarchica, è meno grave di una piazzata. Il primo va minimizzato, il secondo amplificato. Questo ci sta dicendo il capo della Polizia, senza tanti giri di parole. Se un tempo la prassi era la distorsione della realtà da parte dei media, ormai siamo arrivati alla sostituzione della realtà, ovvero ciò che è reale lo decide Repubblica e le istituzioni seguono. In questo modo “vale tutto”, eliminato il reale dall’informazione, dalla politica, dalle istituzioni e dal diritto, qualsiasi provvedimento, anche il più illiberale e ingiusto, può essere giustificato. Mala tempora currunt.

Il petardo neofascista contro “Repubblica” e i veri pericoli. L’indignazione per la dimostrazione di Forza Nuova? Ennesimo esempio di un’ansia comprensibile ma non giustificabile, scrive l'8 dicembre 2017 Corrado Poli su "Vvox" (Primaonline.it). Quattro disadattati fanno esplodere un petardo davanti alla sede di Repubblica e immediatamente non par vero che si possa sollevare un’indignazione antifascista fuori misura. Come se migliaia di drappelli marciassero su Roma per occupare le “aule sorde e grigie” del Parlamento. Basta il poco fumo di un petardo di Capodanno per ravvivare la nostalgia della ormai usurata contrapposizione tra fascisti e antifascisti e confondere ancor più le idee. Ci si domanda se si tratti di un fenomeno di ansia patologica o di strumentalizzazione di fatti quasi irrilevanti. L’ansia è comprensibile. Il fascismo rievoca le grandi tragedie del Novecento e sul linguaggio antifascista è cresciuta la riconquistata democrazia e la sua successiva retorica. Il tempo passa e la democrazia è invecchiata; fascismo e guerra li conosciamo solo per sentito dire. L’ansia invece è una patologia e va curata altrimenti ci si concentra su pericoli immaginari e ci si distrae dalle questioni reali. I veri pericoli in Europa vengono dallo s-fascismo delle destre demagogiche di oggi con il solo programma della conquista del potere; e dalluogocomunismo delle sinistre che, essendo state progressiste oltre mezzo secolo, oggi ripetono insignificanti lotte, vecchi slogan e narrazioni nostalgiche. Così ci battiamo contro un inesistente neoliberismo che è invece un corporativismo travestito come nel progetto degli autentici fascisti; ed è allo stesso tempo uno statalismo simile al comunismo sovietico. Entrambi pervadono le soi disantes democrazie liberali occidentali. Di liberista non c’è nulla in Europa se non le piccole imprese, i lavoratori a contratto e i professionisti – quelli che ho definito i prof-letari. Sono cittadini politicamente non rappresentati e quindi davvero potenzialmente rivoluzionari sebbene non violenti. In assenza di un’ideologia solida, a stento si accorgono della loro condizione e il loro voto vaga a casaccio tra l’astensionismo, la destra demagogica e la sinistra luogocomunista. In Italia si avvicina in parte crescente ai Cinque Stelle, l’unico partito europeo alternativo ma “di centro” che prescinde da vecchi modelli politici (anzi politologici). Un Movimento che però non ha ancora elaborato un sistema di pensiero il cui consolidamento ne faciliterebbe la comprensione da parte di un più ampio e stabile elettorato potenziale. Così succede che l’ansia e i vecchi linguaggi portino a confondere un petardo con il pericolo fascista e i ripetitivi congressi delle plurisinistre luogocomuniste con un partito che crede di essere progressista mentre in realtà insegue i fantasmi del futuro di ieri. Purtroppo il progetto economico e sociale comunista e fascista ha già sconfitto le liberal-democrazie che per fortuna conservano ancora il pluralismo politico. Oggi, secondo il progetto economico totalitario fascio-comunista – che potremmo definire di modernizzazione integrale, un obiettivo quasi generale degli anni trenta del novecento – s’è affermato lo strapotere delle grandi imprese, di immense banche, quello delle corporazioni sindacali e di categoria, delle mastodontiche burocrazie autoreferenziali e infine degli eserciti che per ora – non si sa per quanto – stanno tranquilli (ma Berlusconi ha già fatto il nome di un generale come capo del governo)! Lasciamo perdere Forza Nuova e i quattro violenti di sinistra: se delinquono, se ne occupi la polizia e la politica li ignori. I veri pericoli sono da una parte lo sfascismo che induce al totalitarismo di destra; dall’altra una bieca conservazione luogocomunista che vuole trasformare l’Italia in una casa di riposo. Le forze vitali del Paese e dell’Europa sono da una parte il conservatorismo decente delle grandi coalizioni che consente la stabilità. Dall’altra la formazione di movimenti autenticamente progressisti con al centro dei loro programmi una politica federale e comunitaria solidale che ponga al centro la questione ambientale e avvicini al cittadino semplici e legittime istituzioni. Costoro, sia che vadano al governo (contenuti dall’opposizione e dalle strutture burocratiche) sia che restino all’opposizione (incalzando la conservazione) possono svolgere un ruolo fondamentale di progresso civile, intellettuale e in definitiva riformare una democrazia e un’economia sempre più scandenti. Senza lasciarci distrarre da infantili petardi e molotov che svegliano solo i nonni sordi.

L’ossessione per il fascismo del gruppo L’Espresso ora è preoccupante, scrive Giorgio Nigra il 28 luglio 2017 su "Il Primato Nazionale". Appena qualche settimana fa, l’Espresso se ne usciva con una copertina eloquente: il disegno di Grillo, Salvini e Berlusconi vestiti da squadristi, che avanzano minacciosi, manganelli in mano, in un vicolo buio. Titolo: “Ci rifanno neri”. Ecco il livello dell’argomentazione: il consenso dei grillini? La popolarità mediatica di Salvini? L’eterno galleggiamento di Berlusconi? Non servono analisi politologiche, studi sui cambiamenti avvenuti nella nostra società e magari autocritiche sull’incapacità della sinistra di saper comprendere le priorità e le sofferenze del popolo italiano. È solo l’eterno fascismo che rialza la testa. Per sconfiggerlo, quindi, basta il solito richiamo alla “Costituzione nata dalla resistenza” e l’appello a tutti i “sinceri democratici” affinché si uniscano contro la marea nera montante. Non contenti di aver fornito tali indispensabili chiavi al dibattito della società civile, domani quei simpaticoni dell’Espresso se ne usciranno con un numero la cui copertina è tutta un programma: “Nazitalia”, scritto in caratteri gotici. Il tutto in campo rosso, con al centro un cerchio bianco dentro cui campeggiano due Italie sovrapposte nere a formare una rudimentale svastica. L’Italia del 2017, insomma, vive molto semplicemente sotto il nazismo. Non sappiamo cosa ci sia dentro, ma possiamo immaginarlo: il solito dossier con i soliti numeri sparati a caso, le solite interviste all’Osservatorio democratico contro le nuove destre. Insomma, un eterno dejà vu. Come quello che si ha leggendo l’ennesima inchiesta su Repubblica di Paolo Berizzi (un giornalista già autore di gaffe e falsificazioni tali che, in un Paese normale, farebbe da tempo il correttore di bozze nel giornalino della parrocchia). Quale notizia inedita ha generato questo articolo, rispetto all’ultimo, esattamente identico, di poche settimane fa? La foto, postata sui social, di una cena di alcuni esponenti di CasaPound con altri di Lealtà Azione. Caspita, stupisce che il New York Times non vi abbia dedicato una copertina dal titolo “Anche i fascisti cenano”. Si tratta, peraltro, di una foto liberamente diffusa dai diretti interessati. Nulla di nascosto, nulla di segreto, nulla di misterioso. Ma, all’occhio vigile del giornalista democratico, una cena fra amici si rivela per ciò che essa segretamente è: un patto di sangue, un segnale para-mafioso, un messaggio in codice, il simbolo dell’ora delle decisioni irrevocabili finalmente giunta per portare l’eversione in Italia. Qual è il senso di questa cosa? Qual è il valore euristico, anche per chi è di sinistra, di servizi come questi? Quanto fanno avanzare la coscienza democratica del Paese? Si tratta, come è ovvio, di puro scandalismo, di qualunquismo a buon mercato. Spararla grossa per solleticare il pubblico, esattamente come altre testate fanno su altri argomenti. Fa tutto parte di questa estate pazza, in cui per giorni la prima notizia dei giornali è stata la “spiaggia fascista” di Chioggia. E poi l’exploit elettorale dei Fasci italiani del lavoro in un paese di 7000 abitanti, la prof che inneggia al Duce su facebook, l’assurda “pista nera” per i delitti del Mostro di Firenze, le campagne di Fiano e Boldrini contro i monumenti fascisti, i saluti fascisti, gli accendini fascisti. Tutto concorre strumentalmente a rendere l’idea di una emergenza, di una situazione da sanare. Come? Ma è ovvio con una bella legge speciale, con una bella norma liberticida. È tutto così dannatamente chiaro…

Laura Boldrini ossessionata dal fascismo, scrive il 27/09/2017 Emma Moriconi su "Il Giornale d’Italia". Nuovo attacco alle pagine di facebook, paternali infinite e coccole ai partigiani: ecco le pene della presidente della Camera dei Deputati. Laura Boldrini non trova pace, la sua "crociata", la sua "guerra santa" contro il Fascismo sembra un'ossessione, non passa giorno che non ne dica una delle sue. Ieri in occasione dell’incontro con una delegazione di sindaci e delle associazioni partigiane nel 73° anniversario dell’eccidio del Grappa, dopo aver salutato "i sindaci e le sindache" (insistendo sulla femminizzazione esasperata di ogni cosa), ha dichiarato che i cittadini di quelle terre, "insieme ai cittadini di Marzabotto, di Sant'Anna di Stazzema, ai romani che ricordano le Fosse Ardeatine" hanno "la responsabilità di ricordare cosa è stato il nazifascismo, la brutalità con la quale i nazisti trattarono i nostri giovani, la brutalità con la quale tenevano sotto scacco il nostro Paese, il loro disprezzo nei confronti degli italiani". Poi si è lanciata in una disquisizione linguistica (lei, si) sui termini "patriottismo" e "nazionalismo". Lei, Laura Boldrini. Che però Marzabotto, Sant'Anna di Stazzema e le Fosse Ardeatine furono scientemente provocate proprio dai partigiani non lo ha detto. Peccato. Non contenta, non paga, sempre nella giornata di ieri ha voluto precisare: "Abbiamo già rivolto ad aprile a Zuckerberg, accogliendo l'invito dell'Anpi, la richiesta di bloccare le molte pagine Facebook apologetiche del fascismo. Sono almeno 300, a dimostrazione che non si tratta di un fenomeno locale. In Italia l'apologia e' reato, quindi anche su Facebook dovrebbe esserlo. Dobbiamo insistere con facebook- ha detto ancora - che non può continuare a dire che non si occupa di fenomeni locali. Il nazifascismo è un fenomeno mondiale e bisogna dunque evitare di fomentare razzismo e xenofobia. Ispirarsi a questi principi è una minaccia all'assetto democratico". Questi i pensieri che assillano quotidianamente l'animo della "presidenta" della Camera Laura Boldrini, ogni giorno ha un pensiero da dedicare a questo argomento, del resto in effetti in Italia di problemi ve ne sono pochi, c'è giusto il tempo e l'opportunità di dedicarsi a un po' di sana demagogia. L'ossessione, poi, si intensifica sempre di più ogni giorno che passa, quello che vive l'omonima di Bulow è un vero e proprio incubo, un chiodo fisso dal quale non riesce proprio ad affrancarsi. Non riesce, la seconda carica dello Stato, a identificare con esattezza le epoche storiche, vive il Fascismo come se fosse ancora in atto, non le riesce di canalizzarlo nella storia di questa Nazione (Nazione, Patria, Paese, potremmo fare una lunga dissertazione linguistica pure noi, a dire il vero). Sorge il sospetto che questo tormentone antifascista sorga dalla consapevolezza che il suo mandato sta per giungere al termine, e siccome per l'Italia questa signora non ha fatto nulla di buono se non difendere i partigiani, questi siano diventati ormai il solo zoccolo duro che le resta nel Paese (o Patria, o Nazione, faccia lei). Un corpo elettorale assottigliato, però. E pure un po' muffito. 

"Il fascismo è l'ossessione di chi non sa vivere senza nemici e rancore". L'intellettuale: "Si appigliano a leggende metropolitane per rianimare la mobilitazione", scrive Davide Brullo, Mercoledì 12/07/2017, su "Il Giornale". Sul grottesco parapiglia in cui si è arenata la discussione parlamentare sul reato di apologia di fascismo abbiamo chiesto un parere a Marcello Veneziani, un intellettuale abituato a pensare oltre i meri spot ornamentali, elettorali. La proposta di legge di Fiano e del suo partito di mandare al carcere chi vende gadget fascisti o divulga in rete immagini del Duce nasconde una insana nostalgia verso le ideologie. Nelle pagine di Storia non ci sono innocenti e non si possono eleggere «giusti» per legge. Lei come la pensa?

«C'è innanzitutto qualcosa di sproporzionato, di mostruoso, nel demonizzare per 72 anni (e non è finita) un'esperienza che è durata poco più di venti. C'è poi una ricerca ossessiva di rassicurazioni identitarie per rianimare la sinistra dispersa: l'antifascismo funziona in questo senso da sala rianimazione, restituisce un nemico assoluto a un'area che non sa vivere senza un rancore verso qualcuno (Berlusconi, la destra, il populismo) e appena ne declina uno, bisogna rimettere in piedi l'Eterno Fascismo (Ur-fascismo diceva Eco). E non si distingue più tra il neofascismo politico di una volta e il folclore, il vintage, la civetteria di esibire cimeli fascisti che non hanno alcuna ricaduta politica, ma solo sentimentale e commerciale. Cominciai a seguire la politica nei primi anni Settanta. Da allora ciclicamente ma ininterrottamente, sento parlare di un imminente pericolo fascista che serpeggia nella società. Una leggenda metropolitana che serve per rianimare la mobilitazione antifascista».

Perché fa così paura il Ventennio? Perché non studiamo a dovere cosa è stato il fascismo? A proposito, cosa è stato?

«Il fascismo non si può ridurre solo a qualcosa di criminale. Non lo farei neanche per il comunismo che per estensione, durata, vicinanza temporale, numero di vittime (in tempo di pace, si badi bene) ha prodotto crimini inarrivabili. C'è poi da chiedersi perché ancora tanta gente ha un giudizio positivo del fascismo. Non si può ricordare del fascismo la violenza, la guerra, la persecuzione razziale (che riguarda il nazismo e solo di riflesso, in modo infame e caricaturale l'ultima fase del fascismo) dimenticando le opere realizzate, la tutela sociale, l'integrazione nazionale, i passi da gigante compiuti dall'Italia nel segno della modernizzazione, la forte passione ideale e civile, il consenso... Durante il fascismo gli italiani ebbero in assoluto il maggior attaccamento allo Stato e maggior fiducia nelle istituzioni, e potrei continuare. Il fascismo fu una rivoluzione conservatrice che modernizzò il paese nel nome di valori e primati tradizionali, cercando di accordare l'avvenire del socialismo con l'eredità della nazione».

Perché, poi, simili posizioni non si esprimono nei riguardi dell'apologia del comunismo o dell'islamismo, a questo punto?

«Il paradosso è che questa ennesima ondata contro il fascismo sorge nell'anno in cui ricorrono i cent'anni dalla Rivoluzione bolscevica. Sul piano storico, è il comunismo il tema di quest'anno, la sua parabola, i suoi orrori, la stretta linea di continuità tra Lenin e Stalin, il fallimento di ogni comunismo in ogni paese e in ogni tempo, i residui tossici che sono rimasti, il passaggio dal Pc al Pd, nel senso del politically correct, il comunismo dei nostri anni. Invece il comunismo è totalmente rimosso, confinato in una dimenticata antichità, salvo qualche reperto mitico, come il Che o da noi come Gramsci e Berlinguer. Gli unici miti spendibili perché sono due comunisti che (per fortuna) non andarono al potere. Come diceva Gomez Davila, gli unici comunisti da rispettare sono quelli che non sono andati al potere».

Le manganellate contro l'apologia di fascismo ricordano simili punizioni inflitte a personaggi ritenuti scomodi. La cultura è ancora strumentalizzata per puri fini di partito ed elettorali?

«La cultura strumentalizzata rientrava ancora in una fase eroica in cui si riteneva che annettersi un autore o condannarne un altro avesse un'incidenza effettiva, e un significato. Oggi la cultura è considerata una zavorra molesta e obsoleta, irrilevante. E nei confronti degli intellettuali non riconducibili alla dominazione corrente non si pratica più la denuncia e la demonizzazione ma, peggio, il silenzio, la finzione d'inesistenza, la non considerazione come autori e scrittori. Non potendo più eliminare fisicamente il dissidente o il nemico, come accadeva ai tempi di Florenskij e di Gentile, lo si elimina moralmente, si certifica con il silenzio la sua morte civile...».

La Boldrini ha dichiarato che i monumenti fascisti urtano la sensibilità dei partigiani. Non ci resta che distruggere i monumenti e l'arte fascista, giusto?

«Se dovessimo realizzare il proposito della Boldrini dovremmo dichiarare inagibili quasi tutte le città italiane. Ovunque c'è l'impronta del fascismo e persino nelle zone rase al suolo dal sisma hanno resistito solo gli edifici fascisti. Se non c'è riuscito un terremoto ad abbatterli, figuriamoci se ci riesce un coccodè, sia pure isterico».

EMANUELE FIANO IL "DEMOLITORE". Scrive il 17 Settembre 2017 Claudio Scaccianoce su “L’Inkiesta". Premessa. Io non sono leghista, piddino, forzista, penta stellato, centrista, radicale, verde, giallo o blù… (rossonero si!). Non sono assolutamente un qualunquista ma cerco di non farmi influenzare dalle mie opinioni quando scrivo. Nessuna sponsorizzazione occulta quindi in questo mio scritto. Guardate, vi prego, alla luna e non al dito che la indica. Dito che in questo frangente è la mia tastiera. Emanuele Fiano è un parlamentare del PD. Uno che pesa alla Camera dei Deputati. Non è uno dei cosiddetti peones, ma è un esponente di primo piano nella compagine renziana. Ha la personalità giusta per fare il frontman quando si devono affrontare con fermezza i temi più delicati, quelli che spaccano, quelli che scatenano azioni e reazioni anche borderline. Non me vorrà Fiano, ma non posso non notare che ha anche un’altra caratteristica. Riesce a risultare a pelle antipatico a moltissime persone che lo vedono per la prima volta, sui social oppure in televisione. Ed infatti è uno dei bersagli preferiti degli haters da tastiera e dei militanti di base delle opposte parti politiche. Probabilmente lo è perché parla con pochi ammortizzatori verbali e punta sempre al cuore del problema. Atteggiamento onesto ma pruriginoso. E poi, in video sorride troppo poco alle telecamere. Lo conosco un cicinin essendo di Milano e rossonero come me ed avendolo intervistato (per i non milanesi un cicinin significa … un pochino) e posso dire che invece è un uomo cordiale anche se non particolarmente espansivo, ed è un uomo decisamente ironico.

Allora, come dicevamo, Fiano è per moltissime persone uno dei più illustri iscritti - suo malgrado - al club “i più odiati dagli italiani”, insieme alla Boldrini, alla Fornero etc etc. Ultimamente si è fatto promotore di una legge che rende illegale la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli fascisti etc etc. Facciamo così. Riportiamo integralmente il testo della proposta di legge, così non lasciamo adito ad interpretazioni sul testo stesso: "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque propaganda i contenuti propri dell'ideologia del Partito fascista e del Partito nazionalsocialista tedesco, ovvero dei relativi metodi sovversivi del sistema democratico, anche attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero fa chiaramente propaganda richiamandone pubblicamente la simbologia o la gestualità, è punito con la reclusione da 6 mesi a un anno. La pena di cui al primo comma è aumentata di un terzo se il fatto è commesso attraverso strumenti telematici o informatici.”

Non l’avesse mai fatto. Il web, i giornali, i social si sono riempiti di commenti ironici, di commenti crudi, di attacchi politici e personali. I meme sono fioriti come primule a primavera. Se ascoltiamo queste voci Fiano vorrebbe demolire gli obelischi del ventennio. Abbattere il quartiere Eur, demolire la Stazione Centrale di Milano. Radere al suolo Latina (ex Littoria), Sabaudia, Pomezia e Guidonia. E si dice, vietare per legge il colore nero per vetture motocicli. E meno male che gli italiani disegnano male, altrimenti avremmo il web pieno anche di novelli Vauro o Krancic (che però deo gratias oltre ad una bella mano hanno anche un bel cervello ed un senso della satira molto sviluppato). Ovviamente ai più queste sparate del web sono subito apparse affidabili quanto le migliori fake news, ma purtroppo qualche benpensante se ne è servito per fare battaglia d’opinione. Era già da qualche giorno che pensavo di contattare Emanuele Fiano per sentire e riportare un suo commento diretto. Ma due ore fa ha pubblicato direttamente lui una nota a margine su FB. Bene mi ha risparmiato una telefonata, nel giorno che abitualmente amo dedicare alla famiglia ed al mio Milan. Riporto le sue parole.

"Questo è il testo della mia Legge, parliamo di questo, non di altre interpretazioni. In questo testo di Legge approvato alla Camera non c'è nessun riferimento alla libera espressione di un opinione, giustamente difeso dall'Art. 21 della Costituzione. Se uno oggi in Italia o domani qualora fosse approvata questa Legge, si dichiarasse fascista, non infrangerebbe nessuna legge, starebbe esprimendo la sua opinione, sarebbe all'interno di uno dei cardini della Democrazia. Se domani qualcuno comprasse o vendesse, francobolli dell'epoca o bottiglie o busti, ma per scopo personale, non starebbe facendo propaganda, non ricadrebbe in questa Legge. In questo testo di Legge, non c'è nessun riferimento a beni culturali o architettonici, di qualsiasi tipo, né alla cancellazione di scritte o altro. Non propongo e non voglio cancellare niente. Non è il mio pensiero. Mi interessa la propaganda fascista non altro. In questo nostro tempo in cui un contesto sociale fragile e disagiato, con tanti problemi irrisolti, produce rabbia e protesta, io voglio impedire che antiche cattive lezioni propongano ancora le loro terribili soluzioni. Per quanto riguarda chi mi dice che ci sono altre priorità, rispondo che nel corso di questa legislatura sono stato relatore della Legge sulla riforma del PA, sull'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, sulla riforma costituzionale, sulla Legge elettorale, sul riordino delle carriere delle FFOO, dei VVFF, ho seguito la Legge antiterrorismo, la legge per il contrasto alla radicalizzazione islamica, la Legge sulla Sicurezza Urbana, la Legge sull'immigrazione Minniti-Orlando, la legge sul conflitto d'interessi, la Legge sui Partiti. Due anni fa ho presentato questa Legge. Dirmi che non mi occupo d'altro è folle. Detto questo, il compito di contrastare la propaganda di valori legati a quelle ideologie, che la nostra costituzione contrasta, può essere assolto unicamente con dei divieti? Certo che no. Sono la cultura, la formazione e la capacità politica di soluzione dei problemi che devono offrire l'antidoto più determinante in questo campo. Questo vuol dire che allora non c'è bisogno di alcun divieto? Non è la mia opinione. In 72 anni in Germania è rinata una delle nazioni più forti del mondo, la Democrazia tedesca prima nella parte Ovest, con la sua classe dirigente socialdemocratica, ha associato dall'inizio del dopoguerra in poi, una grande capacità di investimento culturale e politico sulla Democrazia ad alcuni ferrei limiti al propagarsi della cultura neonazista. Nessuno ha mai pensato che ciò fosse lesivo della Libertà o della Democrazia. A chi mi risponde che questo divieto già esisteva rispondo che non è così. La Legge Scelba punisce l'apologia di fascismo ma solo nel caso si riferisca ad un progetto di ricostituzione del partito fascista. Oggi il nostro paese conta troppi episodi di propaganda fascista di persone che non hanno nessuna intenzione di organizzare un Partito, e allora? Gliela lasciamo fare? Io non sono ossessionato dal fascismo. Anzi vorrei personalmente uscire dalla dinamica di contrapposizione permanente tra parti. Lo auspico, ma questo può avvenire solo con un lavoro culturale e pubblico di grande profondità, onesto, che faccia quello che in Germania hanno fatto sul Nazismo. La capacità autentica da parte di tutti di guardare alla Storia con onestà. In Italia la conclusione del fascismo e del coinvolgimento degli apparati dello Stato si celebrò con una famosa amnistia. Una cancellazione. È invece un discorso su questo paese e la sua storia che sarebbe più utile, invece che qualsiasi cancellazione. La Libertà di espressione di ognuno di noi non si tocca certo, ma va appunto difesa dalla propaganda di quelle ideologie che vorrebbero negarla, giacché noi rimaniamo figli della definizione di Matteotti, che li fascismo non fu un'idea, ma un crimine. Difendiamo la libertà, difendiamoci dai crimini."

SIC ET SIMPLICITER. Io non aggiungo alcun commento, positivo o critico. Il suo pensiero si può condividere, si può criticare, si può osteggiare con ogni mezzo democratico, si può rilanciare cum laude. Ho deciso di riportarlo solo perché da cronista odio senza mezze misure le fake news e le pseudo testate che distribuiscono spazzatura, animate da falsi giornalisti che pensano che il termine deontologia professionale rappresenti un ingrediente per lo sformato di vitello alla bulgara. Buona domenica.

Vittorio Sgarbi e il fascismo, disintegra Fiano e Laura Boldrini: "Pensate ai comunisti", scrive il 27 Settembre 2017 "Libero Quotidiano". Un Vittorio Sgarbi "a braccio teso" contro la Legge Fiano, Laura Boldrini e chi vive ogni giorno con l'ossessione per il Fascismo di 80 anni fa. Nella sua rubrica quotidiana sul Quotidiano nazionale, "Sgarbi vs Capre", il critico più famoso d'Italia non va per il sottile e svela tutte le ipocrisie della "inutile legge sulla propaganda fascista che ricalca la legge Scelba". Perché, invece, suggerisce, non "perseguire gli imperterriti difensori del comunismo reale"? La proposta del professore è semplice ed efficace: "Richiamare gli ambasciatori italiani da Cuba e Pechino, gli atti di queste dittature sono oggettivamente identici alle violenze contro i diritti umani perpetrate dal fascismo". E anche le ingerenze in Italia sono insopportabili: ad esempio, quando Milano ha ricevuto il Dalai Lama tra le minacce e le intimidazioni del governo cinese. "Ma Fiano - ironizza Sgarbi - si preoccupa delle scritte fasciste sulla spiaggia di Chioggia".

Sala lancia l'allarme nazi. E scorda i centri sociali. Sindaco: "I neofascisti a Milano si rafforzano". Il centrodestra: "No global liberi di occupare", scrive Chiara Campo, Domenica 03/12/2017, su "Il Giornale". «Senza drammatizzare, ma la situazione credo che sia grave. Anche a Milano ci sono segni che il mondo neonazista e neofascista si sta rafforzando e sta entrando nelle fasce più deboli». Il sindaco Beppe Sala lancia l'allarme naziskin. Parteciperà «senz'altro» se potrà alla manifestazione organizzata dal Pd a Como il 9 dicembre dopo il blitz di un gruppo di ultradestra veneto nella sede di un'associazione pro migranti e ha già appoggiato la mozione che approderà domani in Consiglio (primo firmatario David Gentili di Insieme x Milano) che chiede alla giunta di non concedere spazi e patrocini a chi non sottoscrive una carta dei valori antifascisti. Il Comune non potrà vietare le piazze perchè è competenza della questura e Sala si adegua, «solleciterò alla massima attenzione. É chiaro che non possiamo pensare a una città militarizzata ma serve grande vigilanza perchè questi movimenti non prendano piede». Incalza «tutti i partiti, dalla Lega a M5S» sulle liste, «siccome siamo vicini alle elezione dico che queste persone non vanno fatte entrare, da una parte e dall'altra». E ricorda la polemica che scoppiò intorno al nome di Stefano Pavesi, consigliere vicino a Lealta è Azione eletto con la Lega nel Municipio 7. «Leggo anche sui quotidiani che lo hanno trovato a fare il bagarino. Siede ancora in consiglio, continua a chiedermi di dimettermi, ma si dimetta lui». Si riferisce al Daspo inflitto una decina di giorni fa a Pavesi dai vigili, lo avrebbero colto a vendere biglietti per una partita di hockey sul ghiaccio in via Piranesi. Se la propaganda antifascista di Sala scalda la platea della sinistra riunita alla «leopoldina» promossa ieri in zona Certosa dal candidato Pd in Regione Giorgio Gori, il centrodestra richiama invece a concentrarsi sulle priorità e ad accorgersi anche di quei movimenti no global cari alla sinistra che occupano indisturbati palazzi e capannoni. Il capogruppo della Lega Alessandro Morelli intanto difende Pavesi con «le stesse parole che usò Sala quando fu pizzicato sulle varie amnesie nella dichiarazione dei redditi, se ci sarà una multa da pagare la pagherò, Pavesi farà lo stesso anche se mi pare che abbia fatto ricorso contro il Daspo. E mi sembra singolare che il sindaco invochi il garantismo nei propri confronti e non lo pratichi sugli altri». Invece «di demonizzare alcuni ambienti su cui la questura non ha mai ritenuto di intervenire - avverte -, il sindaco e la sinistra pensino piuttosto a sgomberare il centro sociale Cantiere che occupa da anni una sede del Comune e ha pure un ristorante completamente abusivo. L'Annonaria stranamente non se ne è accorta nonostante le numerose denunce. O sgomberi Cascina Ronchetto, la Lega ha depositato anche un esposto in Procura». Il Carroccio boccerà la mozione antifascista perchè «esiste già una legge nazionale e non spetta certo al commissario Gentili il compito di dare in maniera discrezionale la bolla di fascista o oltranzista ai vari gruppi». Il capogruppo Fdi in Regione Riccardo De Corato richiama il sindaco: «La città è ostaggio dei clandestini, i centri sociali fanno il bello e il cattivo tempo, siamo in fondo alle classifiche della sicurezza nelle città e l'unica fissazione di Sala è imbavagliare l'estrema destra».

Skinhead a Como, Meloni: «Intimidazione, ma la violenza è dei centri sociali», scrive Mariano Folgori giovedì 30 novembre 2017 su "Il Secolo D’Italia". «Secondo me quello è un atto di intimidazione e per me l’intimidazione è inaccettabile. Mi consenta però di dire che trovo abbastanza ridicolo l’appello di Matteo Renzi, perché la violenza non è oggettivamente quello che ieri si è visto a Como: è un atto di intimidazione ma non è un atto di violenza». Giorgia Meloni invita a vedere nella giusta dimensione, senza strumentalizzazioni politiche e forzature ideologiche, l’irruzione di un gruppo di naziskin venetia Como in un centro pro migranti. «La violenza – afferma la Meloni a L’Aria che tira – noi l’abbiamo invece vista un sacco di volte dai compagni dei centri sociali, quelli che distruggono intere città e bruciano le macchine degli italiani, e nessuno ha mai fatto gli appelli per la condanna delle violenze dei centri sociali. Quello si può fare. Perché è gente di sinistra e le città si possono distruggere, si può dare fuoco alle macchine della gente, si può dare fuoco alle edicole».  La leader di FdI risponde a Renzi che ha tentato di rilanciare l’ennesima mobilitazione antifascista. «Qualsiasi gesto di violenza – ha detto il leader del Pd va condannato senza se e senza ma. Intimidazioni e provocazioni di segno fascistoide vanno respinti non solo dalla sinistra ma da tutta la comunità politica nazionale, senza eccezione alcuna. Su questi temi non si scherza». Salvini: «Il problema è Renzi non i presunti fascisti». Sulla la stessa linea della Meloni è Matteo Salvini: «Il problema dell’Italia è solo Renzi, non i presunti fascisti. Lui – dice Salvini – si occupa di fake news e del ritorno del fascismo che non esiste». «Certo che entrare in casa di altri non invitati non è elegante – ma il tema dell’invasione dei migranti sottolineato dai skinheads è evidente».

Appello Renzi, Meloni: e Centri sociali? Scrive il 30 novembre 2017 "Rai News". "Secondo me è un atto di intimidazione e per me l'intimidazione è inaccettabile. Ma trovo abbastanza ridicolo l'appello di Renzi, perchè la violenza non è oggettivamente quello che ieri si è visto a Como". Così la leader di FdI. Il blitz dei naziskin in un circolo Pd di sostegno ai migranti "è un atto di intimidazione, non di violenza. La violenza noi invece l'abbiamo vista un sacco di volte dai compagni dei Centri sociali che distruggono intere città e bruciano le macchine degli italiani e nessuno ha mai fatto appelli...".

Bologna, raid dei centri sociali: uova e minacce su sede di destra. Il blitz dei centri sociali del Collettivo Polvere Rossa contro la sede di Azione Universitaria a Bologna, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 01/12/2017, su "Il Giornale". Un raid notturno dei centri sociali. Mentre a sinistra si sgolano per "l'irruzione" di Veneto Fronte Skinheads all’assemblea di Como Senza Frontiere, nella rossa Bologna la sede di Azione Universitaria in via Turati viene presa d'assalto dal Collettivo Polvere Rossa. Questa mattina i militanti dell'associazione universitaria di destra si sono ritrovati la porta imbrattata dalle uova con annesso volantino minaccioso, già rimosso dalla Digos. "Non è che un pretesto per concedervi dieci minuti di riflessione - si legge nel proclama - Perché mentre pulirete questa vetrina, anche solo per dieci secondi, vi sentirete disprezzati e non tollerati, proprio nello stesso modo in cui voi fate sentire chi diverge dalla vostra idiozia. Non ci aspettiamo che voi capiate e tantomeno che cambiate. Ci basta lasciarvi questo messaggio con la coscienza di chi anche di giorno vi affronta a viso aperto, con il divertimento di chi vi mette alla berlina in una fredda notte d'autunno. Italiano è chi ha fede nella Costituzione. Italiano è che ha memoria degli ideali della Resistenza. Italiano è chi lotta per il progresso della Patria. Fuori i fascisti da Bologna". La sede di via Turati 25 a Bologna è un luogo storico di aggregazione della destra. Soprattutto in ambito universitario. Dibattiti, discussioni politiche, volantini da stampare, colla e bandiere. Poi la foto di Almirante rivolta verso i presenti e la scritta: "Noi possiamo guardarti negli occhi". Niente di pericoloso insomma, chi scrive lo sa per esperienza. Nessun "rigurgito fascista", onde nere, nazismi alle porte. Anzi: tutto democratico, visto che AU da anni partecipa alle elezioni studentesche, eleggendo pure propri rappresentanti. "Due mesi fa abbiamo subìto un'intimidazione ad un nostro convegno sulla Siria e nessuno è stato punito - racconta Dalila Ansalone, Responsabile Azione Universitaria Bologna - A quanto ci risulta, nessuna Istituzione ha preso provvedimenti seri nei confronti di questi soggetti che vivono nell'illegalità permanente. Visto che nessuno gli si oppone, si sentono onnipotenti e tranquilli nel compiere atti di violenza senza subire alcun tipo di sanzione". Il timore è che le azioni degli antagonisti possano degenerare. "Se non la pensi come loro, usano la violenza - attacca Stefano Cavedagna, Dirigente Nazionale Azione Universitaria - Esattamente come facevano i partigiani in queste zone rosse dopo la guerra. Se non eri con loro, facevi una brutta fine. Non abbiamo timore, rimaniamo solo molto tristi nel vedere fino a dove si possono spingere certi soggetti che fanno della libertà di pensiero il loro mantra, ma poi con la violenza cercano di reprimere idee differenti dalle loro". E mentre sugli skinhead i quotidiani discettano da giorni e Matteo Renzi chiede addirittura "condanna unanime" del gesto, difficilmente il raid degli antagonisti scatenerà pari indignazione e preoccupazione. Si sa: alcune uova e minacce risultano meno aggressive di altre. Sono politicamente corrette. "La Repubblica dice che con acqua e sapone si rimedia, come se il gesto intimidatorio non esistesse e non ci fosse nulla da condannare - attacca Galeazzo Bignami, capogruppo in Regione di Forza Italia - Chissà cosa sarebbe successo se degli estremisti di Destra avessero lanciato delle uova marce contro Repubblica. Avremmo già i manifesti firmati dagli intellettuali radical chic, girotondi arcobaleno, manifestazioni antifasciste e così via". Per la senatrice Anna Maria Bernini (FI) si tratta di "un grave atto intimidatorio, che meriterebbe un'indignazione profonda" e invece "viene curiosamente minimizzato, declinato ad 'una ragazzata'". Solito doppiopesismo della sinistra. "Le forme di intimidazione e violenza - dice infatti Maurizio Gasparri - vanno condannate in egual misura dalle istituzioni e da tutti coloro che credono nei valori della democrazia e della legalità". Duro anche il deputato di Forza Italia Elio Massimo Palmizio, che definisce il raid degli antagonisti "inaccettabile" tanto da costituire "una grave compressione della liberta' di espressione individuale e collettiva garantita dalla nostra Costituzione".

EIA EIA, MA VA' LA. Il Duce unisce più di Renzi: bastano quattro cretini per fare gridare la sinistra al nuovo Ventennio. Ma è silenzio sulle violenze dei centri sociali, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 01/12/2017, su "Il Giornale". Ogni tanto, ma sempre più spesso, scatta l'allarme dell'«all'armi son fascisti». Questa estate la goliardia canaglia di un bagnino di Chioggia che aveva tappezzato il suo lido con frasi mussoliniane era stata spacciata come l'inizio di un nuovo Ventennio. Il malcapitato ha perso il lavoro e si è riciclato come opinionista di avanspettacolo destrorso nelle radio e tv venete dopo essere stato completamente scagionato dai magistrati che avevano aperto un'inchiesta. Nessun tentativo di ricostituire il Partito fascista - hanno concluso i saggi pm - ma solo una gigantesca burla. Adesso ci risiamo con la storia dei quattro ragazzotti di destra che hanno fatto irruzione in un circolo pacifista di Como per leggere ai presenti un comunicato sulla «patria minacciata dagli immigrati». Deplorevole (la violazione di domicilio privato), ridicolo (il gesto), a tratti delirante (il testo), ma comunque fatto anche questo ascrivibile più all'idiozia giovanile che alla fascistizzazione dell'Italia. Il codice penale attuale mi sembra attrezzato a punire eventuali reati che questi ragazzotti possano avere commesso, con i fatti e con le parole, e la cosa dovrebbe finire lì. E invece no, puntuale come la morte arriva da Repubblica il grido di allarme sul pericolo destre. E la panna monta, manco stessimo parlando di un attentato dell'Isis. Facendo una ricerca con Google si scopre che dall'inizio dell'anno i giornali del gruppo Espresso hanno fatto scattare «l'allarme fascismo» 492 volte. Siamo cioè all'antifascismo militante che amplifica ed esalta stupidi episodi e persone ignoranti che sono numericamente, politicamente e socialmente più che marginali. Certamente meno significativi dell'allarme che dovrebbero destare le occupazioni, gli abusi e a volte le devastazioni urbane di quei simpatici ragazzi dei centri sociali; sicuramente meno preoccupanti delle milizie di estrema sinistra che impediscono con la forza la presentazione dei libri di Giampaolo Pansa sul revisionismo della Resistenza, di Magdi Allam sull'islam o una conferenza di Angelo Panebianco all'università di Bologna perché «professore non abbastanza pacifista». Più stupidi dei neofascistelli ci sono solo i tromboni dell'antifascismo a tempo pieno, i quali non si indignano che il leader della Lega Matteo Salvini - democraticamente eletto - possa apparire in pubblico solo se scortato, a volte blindato. A questi tromboni andrebbe ricordato - ironia della sorte - che ancora oggi il nostro codice penale a pagina uno porta in grassetto la firma di chi l'ha promulgato, cioè «Sua Eccellenza Benito Mussolini», come ben sanno studenti di giurisprudenza e addetti ai lavori. Che facciamo, chiudiamo i tribunali, mettiamo al rogo in piazza la tavola delle leggi e proclamiamo la mobilitazione generale? La verità è che il Duce riesce dove ha fallito Matteo Renzi. Cioè unire la sinistra, che - non avendo né presente né futuro - per dare l'impressione di esistere deve per forza attaccarsi ai fantasmi del passato. Diciamolo, i veri nostalgici sono proprio loro.

Assalti, censure e violenze in università. I blitz dei centri sociali non scandalizzano. Da Pansa zittito a Panebianco contestato, le vittime dell'intolleranza rossa, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 1/12/2017, su "Il Giornale".  Clima da Repubblica di Weimar, nazismo alle porte, l'ombra nera sull'Italia. Il blitz degli skinhead ha svariati precedenti, ma a sinistra. La sinistra unita solo con la caccia al fascista. Aggressioni, minacce, lanci di uova, però più politicamente corretti rispetto a quattro teste rasate, e quindi non meritevoli di allarme per la democrazia in pericolo. Eppure a lungo, per un giornalista come Giampaolo Pansa colpevole di aver messo in discussione la vulgata partigiana sulla guerra civile italiana dopo l'8 settembre, è stato quasi impossibile presentare un semplice libro, considerato negazionista dall'estremismo rosso che accoglieva le presentazioni con insulti, minacce, propaganda a pugni chiusi. Qualche cenno di solidarietà in privato dai leader di sinistra, ma mai pubblico, perché Pansa è un diffamatore della Resistenza, un nemico del popolo. Identica sorte toccata ad Angelo Panebianco, editorialista del Corriere e docente all'Università di Bologna: «Fuori i baroni dalla guerra», gli hanno urlato i collettivi lo scorso febbraio, durante la sua lezione. «Panebianco cuore nero», la scritta lasciata dai centri sociali sulla porta del suo ufficio anni fa. Imbarazzo, silenzio e poco altro anche per Salvini, nel mirino dei centri sociali, più violenti degli skin head, ma col lasciapassare politico. Il leader della Lega è stato aggredito più di una volta, a Bologna gli hanno sfasciato il vetro dell'auto, in Umbria gli antagonisti lo hanno accolto a sputi e cori «stronzo», a Napoli hanno scatenato una guerriglia con sassi e molotov, violenze annunciate con la massima tranquillità alla vigilia («Non assicuriamo un corteo pacifico») senza creare indignazione, anzi (il sindaco de Magistris è con i centri sociali). A Milano sempre i centri sociali hanno distrutto un gazebo della Lega e malmenato due militanti. Scene che si ripetono, senza che mai si parli di un «allarme centri sociali», mentre quattro skin bastano per mobilitare le massime istituzioni. A Daniela Santanchè, donna di destra quindi meno rispettabile, ha raccontato in diretta, mentre discuteva di ius soli con Fiano del Pd (il deputato che vuol mettere in carcere chi ha una immagine di Mussolini in casa) di aver ricevuto un tremendo insulto più minaccia di morte come se niente fosse («Mi è appena arrivato su Twitter Sei una put... da uccidere»). Ancora a Napoli l'ex candidato sindaco di centrodestra, Gianni Lettieri, denunciò un'aggressione per strada da parte degli attivisti di una casa occupata. Ne sanno qualcosa gli ex ministri Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, bersaglio prediletto degli attivisti e centri sociali per le battaglie sui furbetti della pubblica amministrazione e sulla scuola, feudo della contestazione di sinistra. Brunetta, durante un convegno, fu vittima di un blitz della «Rete dei precari» fischi, insulti, striscioni a cui replicò definendoli «l'Italia peggiore». Non l'avesse mai fatto: «Diecimila post di insulti, minacce, addirittura pallottole, sul mio profilo Facebook. Molti legati anche alla mia statura fisica» calcolò l'allora ministro, sempre preciso anche nella contabilità degli insulti ricevuti. Per la Gelmini, si inventò persino un No Gelmini Day, con i collettivi studenteschi in piazza, al grido «Ci vogliono ignoranti, ci avranno ribelli», ma pure senza un chiaro nesso logico «Siamo tutti antirazzisti e antifascisti». Coi fumogeni e i lanci di uova. Tanto i fascisti sono solo a destra.

Ecco il dossier "centri sociali": quelli pericolosi sono 200. Dal Veneto alla Sicilia la mappa delle occupazioni pubbliche e private. E i delinquenti napoletani fermati dopo gli scontri sono già liberi, scrive Luca Rocca su "Il Tempo” il 14 Marzo 2017. Anacronistici ma violenti. Devastano le città, le vetrine dei negozi e quelle delle banche. Picchiano duro, infieriscono sui "nemici", impediscono di parlare. Scendono in piazza rabbiosi, lanciano molotov e bombe-carta. Imbracciano mazze e danno fuoco alle auto. Picchiano i poliziotti nascondendo il volto dietro il passamontagna. Finiscono spesso sotto processo, ma non mollano. Riscendendo per le vie con la loro brutalità. Sono i "centri sociali" più pericolosi sparsi in tutta Italia che negli ultimi anni si sono resi protagonisti di inaudite violenze. Circa 200 strutture autogestite, quelle monitorate dall’Antiterrorismo. Ma sono migliaia i luoghi dove nasce l’odio e cresce la violenza. Negli ultimi tempi a far parlare prepotentemente di sé sono stati quelli di Milano (Conchetta, Cantiere, Soy Mendel, Mandragola), Cremona (Dordoni), Napoli (Insurgencia, Ex Opg Occupato-Je so pazzo), Roma (Macchia Rossa innanzitutto, ma nella Capitale ce ne sono 65, 27 dei quali controllati più da vicino da polizia e carabinieri), Torino (Askatasuna), Palermo (Spazio Anomalia-Ex Karcere), Padova (Pedro), Rimini (Casa Madiba), Brescia (Magazzino 47) e molti altri ancora sparsi in tutta la Penisola. Sono dappertutto e vogliono comandare. Al di là della legge, al di là delle regole. Dei 200 della black list l’Antiterrorismo evidenzia 11 centri in Lombardia, 7 in Piemonte, 4 nelle Marche, 12 in Veneto e altrettanti in Emilia, 10 in Toscana, 4 in Puglia, 8 in Liguria, 4 in Trentino, oltre 20 in Campania, 6 in Calabria e 3 in Sicilia.

CENTRI (POCO) SOCIALI. Solo rifacendoci agli ultimi due anni e mezzo, ad esempio, gli "antagonisti" si sono resi protagonisti di scorribande devastanti. Due anni fa a Cremona gli appartenenti al centro sociale "Dordoni" si scontrano con quelli di CasaPound. Molti sono i feriti. Gravissimo un antagonista, Emilio Visigalli (che poi verrà arrestato poco prima della sua rappresaglia). Otto persone finiscono indagate (e un militante bresciano del collettivo "Magazzino 47" arrestato). Pochi giorni dopo oltre 2mila persone, in testa i "black bloc", scendono in strada per solidarizzare coi loro "compagni", lanciando pietre, bottiglie e bombe-carta contro le forze dell’ordine. Nelle stesse settimane, stavolta a Padova, alcuni componenti del centro sociale «Pedro», nell’ambito di un’inchiesta sull’aggressione a un dirigente della Squadra Mobile, subiscono l’obbligo di dimora (uno finisce ai domiciliari). Nel corso delle perquisizioni nelle loro abitazioni la polizia trova fumogeni, una maglia metallica anti-coltello, fionde e un’arma giapponese usata nelle arti marziali. Stesso dicasi per l’operazioni nei confronti di 17 componenti del movimento antagonista "Spazio Anomalia/Ex Karcere" che ricevono l’obbligo di firma (poi annullata dal giudice) per aver devastato alcuni esercizi commerciali a Palermo (ferendo alcuni poliziotti). I reati contestati: associazione a delinquere finalizzata alla commissione di una serie di delitti contro l’ordine pubblico, violenza, minaccia, lesioni personali.

VIOLENZA "ANTAGONISTA". Nello stesso periodo otto componenti del centro sociale "Cantiere" di Milano vengono condannati per gli scontri scoppiati nel dicembre del 2010 durante una manifestazione in occasione della "prima" della Scala, mentre alcuni esponenti milanesi di Forza Italia subiscono delle intimidazioni subito dopo lo sgombero del "Soy Mendel". A rendersi protagonista, per anni, di scontri violentissimi, è il centro sociale di Torino "Askatasuna", che nell’ultimo biennio non ha cambiato abitudini. Sempre in prima linea nei cortei No-Tav, uno dei suoi militanti, nel dicembre scorso, finisce in carcere per aver violato i domiciliari ottenuti per gli scontri con la polizia in Val di Susa. Pochi mesi prima sette manifestanti legati alla sinistra antagonista No-Tav vengono identificati durante una protesta e fra essi ancora militanti di Askatasuna. Che di violenti ne sforna a iosa, tanto da subire arresti, fermi, indagini, condanne. Quando poi il leader della Lega Nord Matteo Salvini si reca a Macerata per una visita elettorale, gli appartenenti al centro sociale "Sisma" lo accolgono com’è loro tradizione. Lo scontro con la polizia è inevitabile. Il maggio 2015 è segnato dalle manifestazioni No-Expo alle quali partecipano i membri del "Mandragola". Bastoni in mano, passamontagna in testa e la devastazione di Milano è assicurata.

RABBIA "COLLETTIVA". Nell’agosto del 2015 la Digos di Bologna notifica un divieto di dimora per Gianmarco De Pieri, leader del centro sociale "Tpo", che nel corso degli scontri con le forze dell’ordine, avvenuti in seguito allo sgombero di una villa occupata, aveva aggredito un sostituto commissario e lanciato una grossa trave contro un agente. Poche settimane dopo cinque giovani di Askatasuna vengono raggiunti da misure cautelari per le violenze messe in atto durante un comizio di Salvini a Torino, mentre la procura di Bologna punterà i fari su15 appartenenti al centro sociale "Tpo", protagonisti di violenze scatenate durante la manifestazione degli "Indignati". Passa poco tempo e sono ancora i militanti di "Askatasuna" a mettere in atto scontri violentissimi nell’Università di Torino. Di sé fa parlare anche l’"Ex Opg Occupato-Je so pazzo" di Napoli (fra i movimenti antagonisti anti-Salvini dei giorni scorsi), che mesi fa ha portato in piazza i "suoi" per lanciare uova e pietre verso la Mostra d’Oltremare dove l’allora premier Matteo Renzi stava per recarsi. Gli stessi militanti si sono scontrati e pestati con quelli di CasaPound. Rissa violenta, anche quella scatenata, nell’aprile scorso, dai membri del centro sociale "Casa Madiba" di Rimini contro gli esponenti di Forza Nuova.

"MACCHIA" FURIOSA. E proteste rabbiose anche da parte degli appartenenti a "Insurgencia" di Napoli e dei membri di "Macchia Rossa" a Roma, che nel novembre scorso, armati di mazze, spranghe e bombe-carta, si sono scontrati con quelli di Forza Nuova. Nel gennaio tati condannati due appartenenti al centro sociale "Kavarna" di Cremona. A febbraio scorso, infine, i militanti del centro sociale "Zam" e "Cantiere" di Milano si sono azzuffati con la polizia all’esterno del Municipio 4, dove era in corso un incontro sul Giorno del ricordo delle Foibe. Stesso episodio, ma con protagonisti da una parte CasaPound e dall’altra militanti del centro sociale "Bruno", anche a Trento. Ancora una volta per infangare i morti delle Foibe.

Centri sociali: sono legali? Scrive Mariano Acquaviva il 7 dicembre 2017. Breve analisi di un fenomeno controverso: i centri sociali sono legali? Negli ultimi tempi si sente sempre più parlare di centri sociali, soprattutto in riferimento ad episodi di violenza e vandalismo. Cosa sono i centri sociali? In senso generico, si tratta di associazioni che intendono fornire alla collettività alcuni servizi socialmente utili, come ad esempio attività ricreative, culturali o sportive. Nella pratica, però, non è sempre così. In Italia, i centri sociali nascono quale centro di aggregazione politica extraistituzionale, cioè con sede diversa da quella parlamentare. Lo spirito che li agita è sicuramente di protesta ma, come vedremo, bisogna distinguere la protesta pacifica da quella illegale. In realtà, i centri sociali individuano anche un altro fenomeno: quello di un movimento indipendente, di ribellione all’ordine costituito, che si concretizza in atti ai limiti della legalità, quali occupazioni di spazi pubblici o privati, manifestazioni non autorizzate e contestazioni varie. Purtroppo è proprio l’aspetto più riprovevole dei centri sociali ad essere messo in risalto dai mass media, a causa della spirale di violenza che innescano. Analizziamo meglio il fenomeno e spieghiamo se i centri sociali sono legali.

Centri sociali e diritto ad associarsi. Secondo la Costituzione italiana, i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale. Sono però proibite tutte le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare. La Costituzione è chiara: tutti hanno il diritto di associarsi liberamente, senza seguire nessuna procedura particolare (salva quella prevista dal codice civile e dalle leggi speciali per ottenere la personalità giuridica), purché l’associazione non persegua scopi penalmente illeciti. Il codice penale, infatti, punisce l’associazione che abbia quale scopo quello di commettere delitti. Perciò, fino a quando i centri sociali assumono la forma di associazione o, comunque, di libera aggregazione per finalità culturali, sportive o, in senso più ampio, pacifiche, la loro esistenza sarà perfettamente legale. Diversamente accade se i centri sociali nascono per perseguire scopi sovversivi o violenti: in questo caso l’associazione sarebbe illegale e perseguibile secondo le norme penali. In Italia, molti centri sociali sono stati legalizzati pur avendo origini tutt’altro che lecite: si pensi a quei centri che si sono visti assegnare le strutture che, in precedenza, avevano abusivamente occupato.

Il problema è che difficilmente un centro sociale sarà costituito con lo scopo dichiarato di compiere reati; normalmente, la nascita di questi organismi avverrà per perseguire finalità perfettamente lecite. Si ricordi, poi, che la contestazione pacifica è sempre ammessa, in quanto rientra tra le espressioni del principio di libera manifestazione del proprio pensiero. Pertanto, un movimento di opposizione alla maggioranza politica, ad esempio, non sarà sicuramente perseguibile dalla legge.

Centri sociali e diritto di riunirsi. La Costituzione riconosce a tutti i cittadini il diritto di riunirsi, purché pacificamente e senza armi. Per le riunioni non è richiesto preavviso, salvo per quelle organizzate in luogo pubblico: in questo caso, le autorità possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica. Anche in questo caso, i cortei e gli assembramenti, quando pacifici, sono assolutamente legali; l’unico limite è quello dell’evento organizzato in luogo pubblico, per il quale la legge chiede sia dato un preavviso di almeno tre giorni alla questura competente. Ma quando una manifestazione può diventare sediziosa e, perciò, illegale? Secondo la legge, quando, in occasione di riunioni o di assembramenti in luogo pubblico o aperto al pubblico, avvengono manifestazioni o grida rivoltose o lesive del prestigio dell’autorità, o che comunque possono mettere in pericolo l’ordine pubblico o la sicurezza dei cittadini, ovvero quando nelle riunioni o nei cortei predetti sono commessi delitti, le riunioni e gli assembramenti possono essere disciolti. È sempre considerata manifestazione sediziosa l’esposizione di bandiere o emblemi, che sono simbolo di sovversione sociale o di rivolta o di vilipendio verso lo Stato, il governo o le autorità. È manifestazione sediziosa anche la esposizione di distintivi di associazioni faziose. Per la giurisprudenza, è sedizioso quell’atteggiamento che implica ribellione, ostilità, eccitazione al sovvertimento delle pubbliche istituzioni, ovvero che esprime ribellione, sfida e insofferenza verso i pubblici poteri e verso gli organi dello Stato a cui è demandato il compito di esercitarli.

Centri sociali: sono legali? Da quanto detto finora si evince che i centri sociali sono legali se perseguono le loro attività conformandosi ai basilari principi di non violenza del nostro ordinamento. In caso contrario, essi devono ritenersi assolutamente illegali e, pertanto, non hanno diritto di esistere. La questione è che, molte volte, lo Stato tollera il modo di agire dei centri sociali, tanto che, come sopra detto, è successo più volte che i beni abusivamente invasi fossero poi assegnati agli occupanti stessi. Alcune di queste aggregazioni, poi, sono diventate dei movimenti politici a tutti gli effetti. Il vero problema, allora, è la risposta che lo Stato intende dare al fenomeno in questione.

La sindrome del compagno che sbaglia. L'indignazione non si registra mai quando i No Tav aggrediscono le forze dell'ordine, quando i "ragazzi" dei centri sociali devastano le città, scrive Francesco Maria Del Vigo, Sabato 9/12/2017, su "Il Giornale". Ci sono cretini e cretini. Alla macabra borsa dei crimini, secondo Repubblica, un fumogeno lanciato da quattro cretini contro la propria sede vale molto di più di una bomba fatta esplodere da altri loro colleghi cretini contro i carabinieri. Perché, dicevamo, ci sono cretini e cretini e i cretini fascisti - chissà come mai! - sono sempre più pericolosi di quelli anarchici o di quelli comunisti. Così ieri il quotidiano di Mario Calabresi ha dedicato 3 pagine 3 al ritorno dell'«onda nera», grande battaglia mediatica che vede Repubblica impegnata nel tentativo di riportare il calendario del Paese agli Anni Venti. Invece le bombe contro i carabinieri di giovedì a Roma, rivendicate dagli anarchici come un atto «di guerra contro lo Sato» sono scivolate in un misero articolo a pagina 26. Tra i fattacci di cronaca nera. Come se l'eversione anarchica o rossa, quella che piazza l'esplosivo e prende a sassate i poliziotti, non fosse un problema politico, ma una bagattella, lo sfogo di quattro teste calde. Ognuno, legittimamente, ha la propria gerarchia di notizie, la propria scala di valori, ma è bene sapere che, dunque, un braccio teso mette a rischio la democrazia più di una bomba potenzialmente letale. Il giornale fondato da Scalfari è dalla scorsa primavera impegnato nella creazione di una grande fake news: il ritorno del fascismo. Tutto ebbe inizio con l'emergenza democratica dello stabilimento balneare di Chioggia, il lido fascista che per settimane ha tenuto banco come se fosse il trailer dell'arrivo delle squadracce nere pronte a marciare sulla capitale. Un allarme talmente infondato che persino la procura ha archiviato il caso come folklore. E da lì in poi un crescendo quotidiano di allarmi per la tenuta democratica del Paese: dalla vendita di gadget del Ventennio all'irruzione a Como. Atto idiota e deprecabile ma - non prendiamoci in giro - non certo il preludio di un ritorno delle camicie nere. E, a forza di insistere, la fake news si è auto avverata e quattro cretini in maschera si sono presentati sotto la sede di Repubblica per leggere i loro proclami deliranti. Solidarietà e indignazione generale. Giustamente. Peccato che questa indignazione non si registri mai quando i No Tav aggrediscono le forze dell'ordine, quando i «ragazzi» dei centri sociali devastano le città distruggendo auto e vetrine di incolpevoli cittadini e quando gli anarchici mettono le bombe per diffondere le loro idee criminali. Perché quelli, alla fine, sono sempre compagni che sbagliano e comunque sbagliano sempre meno dei camerati. Ma sottovalutare il pericolo dei cretini è proprio da cretini.

Salvini: "No ai naziskin, ma i volontari non fanno un buon servizio".  Matteo Salvini a "Otto e Mezzo" parla degli ultimi episodi che hanno visto protagonisti i naziskin e nega che oggi esista un pericolo fascismo, scrive M. Ribechini su "Blastingnews.com". In occasione della puntata di questo giovedì 7 dicembre di "Otto e Mezzo" su La7 è intervenuto Matteo Salvini, leader della #Lega Nord. Vediamo le parti salienti di quello che ha dichiarato. Salvini si sente più vicino ai naziskin oppure ai volontari dei centri di accoglienza? "Né agli uni, né agli altri". A una specifica domanda di Lilli Gruber sul fatto che la Lega chiede o meno il voto ai neofascisti, Salvini ha risposto: "Io chiedo il voto a sessanta milioni di Italiani, non mi interessa il voto dei #naziskin, non chiedo il loro voto. La gente voterà per noi perché siamo l'unico argine all'#immigrazione clandestina, ma lo facciamo senza far casino andando in giro coi fumogeni a interrompere le riunioni o minacciare i giornalisti: noi lo facciamo coi Sindaci e con i Governatori. Noi portiamo avanti il "prima gli italiani" democraticamente. Penso ai terremotati e ai disabili, non mi interessano le pagliacciate: le violenze vanno condannate da qualsiasi parte arrivino. Che ci sia un problema sull'immigrazione clandestina è un problema evidente". Mentre alla domanda della conduttrice, se si senta più vicino ai naziskin che hanno fatto irruzione a Como oppure ai volontari dei centri di accoglienza, Salvini ha risposto: "Né agli uni, né agli altri. Perché non si interrompono le riunioni altrui e non si entra in casa altrui senza essere invitati, così come non stanno facendo un buon servizio agli italiani e agli immigrati perbene tutte quelle associazioni e cooperative che dicono 'avanti tutti'. Io non ho la testa rasata e non entro in casa altrui, il fascismo e il comunismo sono morti e condannati della storia. Vanno condannati tutti quelli che usano violenza, come gli anarchici che oggi hanno lanciato una bomba davanti a una stazione dei carabinieri". Riguardo all'avvicinamento alla destra più radicale verso le prossime elezioni, Salvini ha detto: "Ma davvero si pensa che ci sia il pericolo del fascismo e del nazismo in Italia? Si pensa che nel 2018 ci sia l'invasione dei fascisti, degli alieni o dei russi? Io non credo. Io escludo che ci sia il pericolo del fascismo, del nazismo e del comunismo in Italia. Punto a capo. Anzi ritengo che qualcuno usi questi argomenti per non parlare di altri problemi: tasse, mutui, lavoro e pensioni. Comunque mi ha fatto specie anche il sindaco di Milano che si è fatto il selfie col pugno chiuso: il comunismo ha fatto centinaia di milioni di morti. Lasciamo stare fascismo e comunismo, torniamo alla vita vera".

Fascisti e comunisti sono tornati (e se li ghettizzate gli fate un favore). Anche in Italia, così come in tutta Europa, le ideologie simbolo del Novecento, che credevamo sepolte dalla Storia, stanno tornando. Chi pensa basti ignorare o reprimere, però, commette un grave errore. Farci i conti vuol dire innanzitutto ragionare sulle cause che le hanno rigenerate, scrive Francesco Cancellato su “L’Inkiesta” il 5 Dicembre 2017. «Il problema vero non sono quattro ragazzi, ma l'immigrazione fuori controllo». Così Matteo Salvini ha commentato l’irruzione compiuta qualche giorno fa dai militanti del Veneto Fronte Skinhead a Como, durante una riunione della rete di associazioni impegnata nell’assistenza ai migranti. Un’affermazione sgradevole, non c’è dubbio. Strumentale, sicuramente. Ma con un fondo di verità che faremmo bene a non sottovalutare e, anzi, a piantarci bene in testa. Che anziché scandalizzarci degli effetti, dovremmo occuparci delle cause che scatenano fenomeni politici nuovi. Ecco, per l’appunto: l’ascesa delle destre nazionaliste e xenofobe a discapito delle destre liberali è un fenomeno politico nuovo. Così come lo è, del resto, pure l’ascesa delle sinistre radicali e anti-sistema. Così come lo è, pure, la nuova improvvisa popolarità di istanze autonomiste e indipendentiste come quelle scozzesi, catalane, corse, lombardo-venete. Fate pure finta di non vederle, ma questo è quel che sta accadendo. Chiamatelo come volete, destra e sinistra, fascismo e socialismo, coscienza di luogo e coscienza di classe, ciò che credevamo irrimediabilmente novecentesco e sepolto dalla Storia sta tornando. A destra, con Orban e Jobbik in Ungheria, Duda in Polonia, Alba Dorata in Grecia, Marine Le Pen in Francia, Alternative fur Deutschland in Germania. E a sinistra, con Tsipras e Varoufakis in Grecia, Pablo Iglesias e Podemos in Spagna, Antonio Costa in Portogallo, Jean Luc Melenchon in Francia. Ognuno di loro non è che un frammento - grande o piccolo, giovane o vecchio, con molteplici gradazioni di estremismo - di un medesimo fenomeno continentale. Figlio a scoppio ritardato dello scongelamento dell’Europa a seguito della caduta del muro di Berlino, e poi della globalizzazione e dalla doppia recessione del 2008 e del 2011: l’allargamento dello spettro politico oltre i confini della liberaldemocrazia e della socialdemocrazia e delle loro ormai endemiche grandi coalizioni. È un problema? Sì, lo è. Perché queste due ideologie - e lo sappiamo bene, l’abbiamo vissuto – portano fisiologicamente con loro lo scontro sociale, azione e reazione, tra popoli o tra classi, tra cittadini e stranieri, tra poveri e ricchi, giusti o sbagliati che siano. E a noi europei occidentali che abbiamo vissuto cinquanta e rotti anni di pace – anni di piombo esclusi, Jugoslavia esclusa - e che pensavamo di perpetrare questa condizione sine die grazie alla chimera dell’Europa Unita, ci ritroviamo al punto di partenza, spaventati e inorriditi dall’inevitabile ciclicità della Storia, maestra di vita fino a un certo punto. Spoiler: quell’Europa è morta. Ed è finita la nostra infanzia felice di popoli rinati dalle ceneri di due conflitti mondiali. Oggi siamo nel pieno di una turbolenta adolescenza senza punti di riferimento, né ancoraggi sociali, siano essi la fabbrica, la famiglia, il partito, il popolo, la nazione, la razza. Siamo meticci e inermi. E poco ci importa, in fondo, se il mondo nel suo complesso sta meglio, se l’economia gira, se non c’è mai stato tanto lavoro, se tutto sommato si tiene botta con l’assistenza sociale più generosa del pianeta e una speranza di vita che tira verso i cento anni, inimmaginabile solo poche decine di anni fa. È il come che non funziona e ci destabilizza. Perché siamo inermi di fronte a processi più grandi di noi – la libera circolazione dei soldi, delle merci, delle persone, delle fabbriche – e perché affrontiamo tutto questo da soli, incapaci di trovare una rappresentazione collettiva in cui rifugiarci. Spoiler: quell’Europa è morta. Ed è finita la nostra infanzia felice di popoli rinati dalle ceneri di due conflitti mondiali. Oggi siamo nel pieno di una turbolenta adolescenza senza punti di riferimento, né ancoraggi sociali, siano essi la fabbrica, la famiglia, il partito, il popolo, la nazione, la razza. Siamo meticci e inermi. E poco ci importa, in fondo, se il mondo nel suo complesso sta meglio. Ed ecco allora che tutto torna: le vecchie bandiere, i vecchi slogan, le vecchie ideologie. Non solo a destra, peraltro: dal nuovo, vecchio Labour di Jeremy Corbyn che anche nella sua iconografia riprende i temi e le immagini delle antiche lotte sindacali degli anni ’70 e ’80, prima che Blair rompesse con le Trade Union, sino alla testuggine di Casa Pound, le bandiere prussiane che sventolano nei cortei tedeschi e troneggiano appese nelle caserme fiorentine, la bandiera verde della falange nazional radicale polacca degli anni ’30, dalle forti connotazioni antisemite, sventolata nel maxi corteo di Varsavia contro l’invasione straniera – in un Paese che ha meno del 2% di stranieri residenti – dello scorso 11 novembre. Spoiler, parte seconda: l’approdo alla nostra età adulta, l’esito della nostra perturbante adolescenza, dipende da come sapremo reagire a questi sommovimenti. Di fronte abbiamo due strade, nessuna delle quali è esente da rischi. Se li ghettizzeremo come scarti del passato, se ne negheremo la cittadinanza politica fino a escluderli da ogni rappresentazione politica e mediatica, se rifiuteremo di misurarci con loro, daremo loro un formidabile strumento di legittimazione tra le masse impaurite, rancorose e rabbiose. Se invece daremo loro piena legittimità a esistere, accettando il confronto con le loro idee e con le loro ricette estreme dovremo essere capaci, da liberaldemocratici e socialdemocratici, di essere all’altezza del dibattito. Altrimenti, senza scomodare il passato, rischiamo di finire come l’Ungheria e la Polonia. Non è una scelta semplice, ma la risposta giusta esiste ed è la seconda. Perché ci impone di agire sulle cause dello stato in cui siamo, anziché semplicemente biasimarne gli effetti. Intendiamoci: agire sulle cause non vuol dire non reprimere chi predica o pratica la violenza e l’intolleranza verso le idee altrui. Nè vuole dire, banalmente, buttare a mare la globalizzazione e il libero mercato. Né chiudere le frontiere e rispedire tutti i migranti a casa loro. Al contrario, consiste nel guardare in faccia alla realtà, nell’accettare il fatto che qualcosa non abbia funzionato, che la Storia non è finita, che il malessere ha più di qualche fondamento. E avere il coraggio di correggere quel qualcosa che non va, anche a costo di generare nuovi squilibri, anche a costo di buttare a mare qualche dogma e qualche certezza. Ad esempio, far pagare le tasse ad Apple e Amazon è una buona idea, tanto per cominciare. E organizzare un sistema di accoglienza dei richiedenti asilo come si deve, senza lasciare che sia un prefetto che decida di ammassarli a caso nell'albergo o nel rudere sfitto del primo palazzinaro che si offre volontario, pure. Non abbiamo abbastanza lungimiranza, né tantomeno una visione politica all’altezza di questa sfida, ma sappiamo che va affrontata. Per farlo bisogna ascoltare pure loro, i nuovi estremisti? Probabilmente sì. È necessario dialogarci, anche a costo di diventarne cassa di risonanza? Altrettanto. È rischioso? Sì, molto. Ma non c’è adolescenza che non lo sia. E non c’è adulto che è realmente tale senza esserci in qualche modo passato in mezzo. Oggi tocca a noi. Prima ce ne facciamo una ragione, meglio è.

Beppe Grillo e il fascismo sessantottino, scrive di Fabio Cammalleri su "Lavocedinewyork.com" il 28 Febbraio 2014. Qualsiasi espressione di dispotismo evoca Mussolini, ma nel caso del Movimento Cinque Stelle bisogna guardare agli anni ’70. Il popolo grillino sa più di assemblearismo scolastico e di fabbrica. Ma la memoria a breve termine è troppo scomoda. È comprensibile che generalmente si tenti di spiegare il Movimento 5 Stelle senza il Movimento 5 Stelle. Perché l’Italia è un Paese antico e perciò i paralleli, le analogie, le suggestioni rampollano dal suo vastissimo passato con naturale facilità. E, nonostante non manchi mai il dubbio “sull’utilità e il danno della storia per la vita”, resta questa facilità di evocazione e di confronto. Meno comprensibile che l’indagine nel tempo susciti risonanze obbligate. Se Grillo si muove in modo dispotico e plebiscitario, a chi si pensa? Al fascismo, naturalmente, sia pure al fascismo in statu nascendi. È una suggestione. Ma se anche non fosse, è l’unico paragone possibile? Forse no. Forse se ne può svolgere un altro più stringente, più comprensibile. Per farlo, però, bisogna uscire da quelle risonanze obbligate. Proviamo. Secondo lo storico Arthur Schlesinger Jr., che fu anche consigliere di John Kennedy, per comprendere i caratteri e le aspirazioni di una realtà politica, sia essa una singola personalità o un gruppo, bisogna considerare gli anni della sua giovinezza, quelli in cui coloro che gli diedero anima e sangue si affacciarono al mondo: gli anni dell’università o del primo lavoro. Espose questa teoria in un saggio, significativamente intitolato: I cicli della storia americana. I giovani di Roosevelt sarebbero stati la società adulta di JFK, la Nuova Frontiera, figlia del New Deal; e il ritenuto conservatorismo degli anni di Reagan, sarebbe derivato da quello degli anni di Ike, della Guerra Fredda entrata a regime. E così via. S’intende che è uno schema molto generale, ed anche generico, ma rende l’idea. Seguendo questa traccia, per capire Grillo non ci serve Mussolini, ci serve l’Italia repubblicana, ci servono gli anni ’70. Si potrebbe obiettare che molti dei “cittadini” non hanno vissuto quel periodo, e non ne potrebbero avere ereditato i caratteri. Se è per questo, non hanno vissuto neanche il fascismo, come nessuno di noi. E poi, essendo il Movimento smaccatamente personalistico, è sulla persona del Capo che occorre soffermarsi, proprio e mentre più protesta la sua fungibilità, la sua non indispensabilità. Perciò, il criterio gioventù-maturità, stretto all’arco della “generazione”, appare quanto mai appropriato. Giacché costringe a soffermarsi sulle persone in carne ed ossa, senza cedere alle comode vie di fuga di un’astrazione che, di fronte ad un quadro, guarda solo alla figura e mai all’autore. Così, il popolo casaleggesco del web, sa più di assemblearismo scolastico e di fabbrica in sedicesimo che di “adunate oceaniche”; più di una compulsione petulante e narcisistica, solo preoccupata di sé e col solo problema di lasciare il segno della parola più forte, della frase più figa, che di uno stazionamento attonito e ammutolito sotto un balcone oracolante; emana un monadismo delle coscienze chiuso nella mera contiguità, sazia e galleggiante, di abitudini inerti e modaiole, più che la tragica comunione di un’autentica povertà che, sperando di superarsi, si inabissa. E non è un caso che il paradigma-Mussolini sia così ampiamente sponsorizzato. Ora che Occupy-Parlamento mima indimenticate occupazioni universitarie e di fabbrica; ora che le espulsioni on line tradiscono il lezzo settario dei “venduti” e “servi del sistema”; ora che la violenza verbale tende sempre più frequentemente a concretarsi, come accadde con l’affabulazione esaltata della “controinformazione”, fattasi poi “lotta continua”, quindi “salto di qualità nella lotta”, e infine “lotta armata” e tutto il resto; ora che i “Poteri Forti” sembrano assolvere alla stessa funzione già attribuita al “terrorismo di stato” e all’ “imperialismo capitalistico”, l’infame funzione di cui ogni deliquio massificato, facinoroso e irresponsabile ha sempre bisogno, la funzione di autogiustificarsi; ora che siamo a questo, che c’entra Mussolini? C’entra, secondo quelle risonanze obbligate. Infatti, per parlare di un secolo fa, per la memoria a lungo termine, c’è sempre spazio. Ma il rispecchiamento imbarazzante, quello che si potrebbe subire appena passando da una stanza all’altra, estraendo il cassetto del comodino e avendo il coraggio di sfogliare il diario del liceo, no; la memoria a breve termine, mai. Meglio la luna. Perché lì, così vicino, c’è tutta la violenza, tutta la viltà, tutta la rozzezza, tutta la miseria, tutto il trasformismo che si attribuiscono all’Orco fascista. Solo che l’Orco fascista, dopo il liturgico richiamo di giornata, sfuma inevitabilmente in una rarefazione fiabesca, in una comoda inattualità. Mentre quel sordo rancore, quella truce disposizione d’animo, possono riprendere a gonfiarsi, ad agire, ad offendere dicendosi offesi, a colpire dicendosi colpiti. E ad inseguire palingenesi e carriere.

Il vero fascismo. Che patologia più grave di un grave tumore aveva Sofri rispetto a Dell'Utri, da essere trattato in modo così diverso? La risposta è semplice: era di sinistra, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 08/12/2017, su "Il Giornale". Devo ricredermi, ha ragione La Repubblica a lanciare l'allarme su un pericoloso rigurgito di fascismo in Italia. Ma non perché - come enfatizza il quotidiano diretto da Mario Calabresi - cinque cretini di Forza Nuova leggono un volantino in un centro culturale pacifista e altrettanti agitano fumogeni sotto la sede del suo giornale mascherati manco fosse carnevale. Stiamo diventando un Paese fascista perché un anziano e malato detenuto viene tenuto in carcere nonostante i medici abbiano certificato che le sue condizioni di salute sono senza dubbio incompatibili con il regime di detenzione. Anzi, per la verità Mussolini gli oppositori politici li mandava al confino nella splendida isola di Ventotene o in esilio, come capitò anche a Indro Montanelli, futuro fondatore di questo Giornale. La decisione di ieri del tribunale di sorveglianza di negare cure adeguate in luoghi adeguati a Marcello Dell'Utri, 76 anni, malato di tumore e ad alto rischio cardiopatico, suona come una condanna a morte di Stato. Condanna che l'imputato ha accettato annunciando di sospendere volontariamente e da subito anche le poche terapie che gli vengono somministrate in carcere. Noi quella condanna non la accettiamo e la cosa dovrebbe fare inorridire anche i sinceri democratici antifascisti che si agitano tanto per le pagliacciate di quattro ragazzotti in cerca di pubblicità (facendo così peraltro il loro gioco) ma che appaiono indifferenti alle violenze fasciste della giustizia. Tanto accanimento, direi odio, nei confronti di Dell'Utri non può che avere radici politiche, perché il codice penale permetterebbe ben altre soluzioni. Tipo quelle trovate per Adriano Sofri, icona della sinistra salottiera e rivoluzionaria, che condannato per l'omicidio del commissario Calabresi (padre dell'attuale direttore della Repubblica) scontò metà di una misera pena (15 anni) nel comodo di casa sua per «motivi di salute». Chiedo ai signori giudici: che patologia più grave di un grave tumore aveva Sofri rispetto a Dell'Utri (che per di più non ha mai ucciso nessuno), da essere trattato in modo così diverso? La risposta è semplice. Sofri era di sinistra (e che sinistra), Dell'Utri è stato a lungo il braccio destro di Berlusconi, e per questo può morire in cella come un cane. Se dovesse succedere, e mi auguro di no, chiunque può fare qualche cosa per fermare questo «fascismo» giudiziario - dal ministro della Giustizia al presidente della Repubblica - e se ne lava le mani dovrà risponderne. Agli uomini liberi da pregiudizi e alla propria coscienza, per tutta la vita.

L’arrestocrazia e il potere del “Coro antimafia”, scrive Piero Sansonetti l'11 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Dal caso De Luca al caso Spada, quando l’arresto mediatico e a furor di popolo conta più le regole del diritto. E chi dissente è considerato un complice dei farabutti. Ieri pomeriggio Cateno De Luca è stato assolto per la quattordicesima volta. Niente concussione, nessun reato. A casa? No, resta agli arresti perché dopo 15 accuse, 15 processi e 15 assoluzioni, martedì scorso era arrivata la 16ima accusa. E ci vorrà ancora un po’ prima che sia assolto di nuovo. Stavolta l’accusa è evasione fiscale. Non sua, della sua azienda. Cateno De Luca è un deputato regionale siciliano. Era stato eletto martedì. Lo hanno ammanettato 24 ore dopo. L’altro ieri sera invece era stato fermato Roberto Spada. Stiamo aspettando la conferma del suo arresto. Lui è in una cella a Regina Coeli. Roberto Spada è quel signore di Ostia che martedì ha colpito con una testata – fratturandogli il naso – un giornalista della Rai che gli stava facendo delle domande che a lui sembravano inopportune e fastidiose. È giusto arrestare Spada? È stato giusto arrestare Cateno De Luca? A favore dell’arresto ci sono i giornalisti, gran parte delle forze politiche, una bella fetta di opinione pubblica. Diciamo: il “Coro”. Più precisamente il celebre “Coro antimafia”. Che ama la retorica più del diritto. Contro l’arresto c’è la legge e la tradizione consolidate.

Prendiamo il caso di Spada. La legge dice che è ammesso l’arresto preventivo di una persona solo se il reato per il quale è accusata è punibile con una pena massima superiore ai cinque anni. Spada è accusato di lesioni lievi (perché la prognosi per il giornalista è di 20 giorni) e la pena massima è di un anno e mezzo. Dunque mancano le condizioni per la custodia cautelare. Siccome però il “Coro” la pretende, si sta studiando uno stratagemma per aggirare l’ostacolo. Pare che lo stratagemma sarà quello di dare l’aggravante della modalità mafiosa. E così scopriremo che c’è testata e testata. Ci sono le testate mafiose e le testate semplici. Poi verrà il concorso in testata mafiosa e il concorso esterno in testata mafiosa.

Mercoledì invece, dopo l’arresto di Cateno De Luca, non c’erano state grandi discussioni. Tutti – quasi tutti – contenti. Sebbene l’arresto per evasione fiscale sia rarissimo. Ci sono tanti nomi famosi che sono stati accusati in questi anni di evasione fiscale per milioni di euro. Alcuni poi sono stati condannati, alcuni assolti. Da Valentino Rossi, a Tomba, a Pavarotti a Dolce e Gabbana, a Raul Bova e tantissimi altri. Di nessuno però è stato chiesto, ovviamente, l’arresto preventivo. Perché? Perché nessuno di loro era stato eletto deputato e dunque non c’era nessun bisogno di arrestarlo. L’arresto, molto spesso, specie nei casi che più fanno notizia sui giornali, dipende ormai esclusivamente da ragioni politiche. E il povero Cateno ha pagato cara l’elezione. I Pm non hanno resistito alla tentazione di saltare sulla ribalta della politica siciliana. Comunque qui in Italia ogni volta che qualcuno finisce dentro c’è un gran tripudio. L’idea che ormai si sta affermando, a sinistra e a destra, è che l’atto salvifico, in politica, sia l’arresto. Mi pare che più che in democrazia viviamo ormai in una sorta di “Arresto- Crazia”. E che la nuova aristocrazia che governa l’arresto-crazia sia costituita da magistrati e giornalisti. Classe eletta. Casta suprema.  Gli altri sono colpevoli in attesa di punizione. Poi magari ci si lamenta un po’ quando arrestano i tuoi. Ma non è niente quel lamento in confronto alla gioia per l’arresto di un avversario. Il centrodestra per esempio un po’ ha protestato per l’arresto pretestuoso di Cateno De Luca. Il giorno prima però aveva chiesto che fosse sospesa una fiction in Rai perché parlava di un sindaco di sinistra raggiunto da avviso di garanzia per favoreggiamento dell’immigrazione. Il garantismo moderno è così. Fuori gli amici ed ergastolo per gli avversari. Del resto la sinistra che aveva difeso il sindaco dei migranti ha battuto le mani per l’arresto di Cateno.

L’altro ieri intanto è stato minacciato l’avvocato che difende il ragazzo rom accusato di avere stuprato due ragazzini. L’idea è quella: “se difendi un presunto stupratore sei un mascalzone. Il diritto di difesa è una trovata farabutta. Se uno è uno stupratore è uno stupratore e non serve nessun avvocato e nessunissima prova: condanna, galera, pena certa, buttare la chiave”. Giorni fa, a Pisa, era stato aggredito l’avvocato di una ragazza accusata di omicidio colposo (poi, per fortuna, gli aggressori hanno chiesto scusa). Il clima è questo, nell’opinione pubblica, perché questo clima è stato creato dai politici, che sperano di lucrare qualche voto, e dai giornali che un po’ pensano di lucrare qualche copia, un po’, purtroppo, sono scritti da giornalisti con doti intellettuali non eccezionali. E se provi a dire queste cose ti dicono che sei un complice anche tu, che stai con quelli che evadono le tasse, che stai con quelli che danno le testate. Il fatto che magari stai semplicemente col diritto, anche perché il diritto aiuta i deboli mentre il clima di linciaggio, il forcaiolismo, la ricerca continua di punizione e gogna aiutano solo il potere, beh, questa non è nemmeno presa in considerazione come ipotesi. Tempo fa abbiamo pubblicato su questo giornale “La Colonna Infame” di Manzoni. Scritta circa due secoli fa. Due secoli fa? Beh, sembra ieri…

P. S. Ho letto che Saviano ha detto che Ostia ormai è come Corleone. Corleone è la capitale della mafia. A Corleone operavano personaggi del calibro di Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano. Corleone è stato il punto di partenza almeno di un migliaio di omicidi. Tra le vittime magistrati, poliziotti, leader politici, sindacalisti, avvocati. Paragonare Ostia a Corleone è sintono o di discreta ignoranza o di poca buonafede. Ed è un po’ offensivo per le vittime di mafia. P. S. 2. Il giornalista Piervincenzi, quello colpito con la testata da Spada, ha rilasciato una intervista davvero bella. Nella quale tra l’altro, spiega di non essere stato affatto contento nel sapere dell’arresto di Spada. Dice che lui in genere non è contento quando arrestano la gente. Davvero complimenti a Piervincenzi. Io credo che se ci fossero in giro almeno una cinquantina di giornalisti con la sua onestà intellettuale e con la sua sensibilità, il giornalismo italiano sarebbe una cosa sera. Purtroppo non ce ne sono.

"La Petacci una maiala". La sinistra non s'indigna per le offese di Gnocchi. Il silenzio delle femministe dopo la battuta del comico da Floris. La Mussolini: «Verme», scrive Paolo Bracalini, Giovedì 18/01/2018, su "Il Giornale". Le donne vanno sempre rispettate, quasi, a volte, dipende, anche per quelle uccise. Un maiale, anzi una scrofa che grufola nella spazzatura romana, video postato da Giorgia Meloni per descrivere la Roma governata dai grillini, ispira al comico Gene Gnocchi la seguente battuta: «È una femmina, un maiale femmina, si chiama Claretta Petacci». Risate del conduttore Floris, applausi dello studio di La7. La battuta sulla Petacci, amante di Mussolini fucilata (e prima violentata) dai partigiani a Giulino il 28 aprile 1945, poi appesa a testa in giù (tra sputi e oltraggi vari al cadavere) a piazzale Loreto, non suscita alcuna replica nel fronte delle paladine delle donne, solitamente pronto a scattare come una molla al più lieve sospetto di infrazione maschilista. Quel che fu un «caso palese di femminicidio aggravato da un cieco desiderio di vendetta» come ha scritto Vittorio Sgarbi su questo Giornale («non ci fu pietà verso questa innocente barbaramente uccisa, la cui unica responsabilità era di essere stata fino all'ultimo vicina a Mussolini») e che diventa oggetto di una battuta inelegante in un talk show, invece, non provoca la minima reazione. Tranne sui social network che già pochi minuti dopo il paragone tra la Petacci e il maiale, si riversano sul profilo Twitter di Gene Gnocchi per insultarlo («Ma credi che il tuo sia umorismo? Hanno fatto bene alla Domenica sportiva a licenziarti anche se tardivamente», è uno dei messaggi meno duri all'indirizzo del comico). Anche nel mondo ex An l'uscita di Gnocchi disturba molto. Per il Secolo d'Italia, storica testata della destra post-missina, Gnocchi è «Genio più che Gene perché ha capito che nell'Italia dei Fiano e delle Boldrini non esiste rifugio più comodo dell'antifascismo. Soprattutto quando, come nel suo caso, l'antifascista è solo un comico fallito». L'ex deputata finiana Flavia Perina suggerisce a Gnocchi altri modi per dare del «maiale fascista» a qualcuno, al posto di prendersela con la Petacci che «è pur sempre una donna fucilata senza processo e appesa per i piedi, e non è che fa tanto ridere (noto solo ora la risatina di Floris: pure lui se la poteva risparmiare)». L'europarlamentare azzurra Alessandra Mussolini ritwitta il post del vignettista Krancic: «Gene Gnocchi, tu sei un verme! Paragonare il maiale che gira per Roma alla Petacci è una merdata che solo uno st.. come te poteva partorire». Mentre il presidente dell'associazione no profit «Campo della Memoria», che si è occupata del restauro della tomba della Petacci al Verano di Roma, fa sapere che stanno raccogliendo le firme «per chiedere l'allontanamento di Gnocchi dalla trasmissione». Una pagina buia della storia italiana, che ha indignato anche storici esponenti della sinistra e della Resistenza, come Ferruccio Parri vice comandante del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, che definì piazzale Loreto «macelleria messicana». Sulle ultime ore di Clarice Petacci, compagna segreta di Mussolini dai primi anni '30, fascista per amore di Mussolini ma priva di responsabilità politiche, si è scritto molto. La testimonianza del partigiano comunista Walter Audisio, esecutore materiale - secondo la storiografia ufficiale - dell'assassinio del Duce, racconta che la Petacci «gridò enfatica: Mussolini non deve morire», prima di essere fucilata anche lei, aggrappata alle gambe del morto. L'ex missino Giorgio Pisanò ha indagato e aggiunto ricostruzioni raccapriccianti sullo stupro («È stata più volte violentata da Martino Caserotti», un partigiano che conservò scarpe e foulard della Petacci) e sulla questione della biancheria intima mancante. Una storia tragica, una battuta da pessima osteria.

Com’è triste quell’uscita, caro Gene…, scrive il 18/01/2018 Emanuele Beluffi su "Il Giornale". Ma che cosa gli è passato per la testa? Lo difenderemo sempre perché è un grande attore comico, ma non possiamo proprio evitare di commentare la sua uscita dell’altra sera nel salotto compassato di Giovanni Floris come “voce dal sen fuggita”: niente niente Gene Gnocchi ti dice che Claretta Petacci è un maiale. Bon, un passo indietro: la foto del famoso suino romano mentre rovista nell’immondizia resa virale (ora si dice così) da Giorgia Meloni come “commento plastico” dell’incapacità (ma va?) del sindaco Virginia Raggi a gestire quel che ormai s’è fatto ingestibile non solo ha scatenato l’ovvio “alzamiento” indignato dei “grilletti” al potere nell’Urbe, ma ha dato la stura “ex post” a Gene Gnocchi per una battuta che non fa ridere perché non ha senso. In nessun senso: «E’ un maiale femmina. Si chiama Claretta Petacci». E ‘sti cazzi??! Cosa c’entra? Perché? Caro Gene, eri forse ospite di un collettivo politico indietro nel tempo al 1977? Dovevi far bella figura perché eri in una casa occupata e fuori c’erano i celerini? Volevi affascinare la ragazza col pugno chiuso dietro le barricate? O forse ti sentivi in un’area protetta (Floris) e quindi ti pensavi libero di sparare le meglio cazzate? Ma dai, questi arditismi da presidio democratico contro i rigurgiti fascisti (brrrr…..) te li perdoneremmo se fossimo nel pieno degli scontri fra sanbabilini (dal nome di Piazza San Babila a Milano) e autonomi negli anni Settanta, ma oggi? Dai Gene, perfino una deputata Dem ti ha castigato, non ricordo il suo nome ma ricordo benissimo che ti ha detto che le donne non si toccano: di qualunque colore politico, le donne non si toccano! E nemmeno i morti, di qualunque fede! E poi, scusa Gene, ma lo sai che la povera Petacci fu uccisa perché la sua unica colpa era stata quella di aver amato Mussolini? Che bisogno avevi? L’hai fatta fuori dal vasino, sei passato dalle stelle alle stalle anzi alle porcilaie che lasciano tutti, ma proprio tutti, AGGHIACCIATI: Perfino Floris è rimasto senza parole, non sapeva che dire. Ma chi sono io maschietto per darti il benservito? “Siamo tutte maiale !!! #GeneGnocchi“, leggo in un tweet sul profilo di Nina Moric, la quale in quanto donna ti ha risposto con una di quelle rasoiate che solo le donne sanno dare: “#GeneGnocchi è l’unico essere umano la cui voce nonostante la R moscia, invece di risultare eccitante è una delle principali cause di secchezza vaginale“. Tiè! Indignati caro Gene, ma mi sa che ora sei rimasto tu senza parole.

Petacci, Gnocchi non si pente: "Rivendico diritto di fare satira". Dopo la bufera il comico Gnocchi precisa: "Sulla Petacci solo un malinteso". Ma rivela: "Non mi sento in colpa", scrive Gabriele Bertocchi, Giovedì 18/01/2018 su "Il Giornale". La bufera che si è abbattuta su Gene Gnocchi dopo la "battuta" infelice e di poco gusto su Claretta Petacci - definita in tv come "un maiale" - durante un commento a un video postato da Giorgia Meloni pare non assopirsi. Gene Gnocchi in diretta su Circo Massimo, programma di Radio Capital è tornato sulla questione Petacci: "È un malinteso. Mai e poi mai infierirei su dei morti, lontanissima da me l'idea di dileggiare Claretta Petacci". Ma ci tiene a sottolineare che "mi dispiace se qualcuno si è sentito toccato, ma non mi sento in colpa e rivendico il diritto di fare satira". Eugenio Ghiozzi (nome di battessimo del comico) precisa che l'obiettivo della battuta "era Giorgia Meloni: pubblicava tante foto sui social e sembrava come quando si smarrisce un gatto o un cane, e pensando a lei ho dato quel nome al maiale. E lei, che è una donna intelligente, non ha reagito. È una cosa lieve, minima come idea di base". Il 62enne fa sapere però che ha ricevuto minacce da ambienti dell'estrema destra: "Stamattina ho trovato manifesti intimidatori di Forza Nuova sotto casa mia". Inoltre ha spiegato che "hanno minacciato di manganellarmi. Il loro sito dice che non ho la scorta e posso essere manganellato". Gnocchi poi ricorda che "bisogna vedere riconosciuta l'assoluta indipendenza da qualunque schieramento. A diMartedì prendiamo in giro tutto l'arco costituzionale. Posso avere delle simpatie, ma questo non mi esime dal fare il mio lavoro e dal prendere in giro tutti". "E' una brutta campagna elettorale, queste polemiche da Orietta Berti a questa non sono un buon abbrivio".

Gene Gnocchi, Claretta Petacci e il maiale, rivolta a destra. "Boldrini, perché non...?", il brutto sospetto, scrive il 17 Gennaio 2018 "Libero Quotidiano". "Signora Presidente Laura Boldrini: nulla da dire sulla performance di Gene Gnocchi e Floris?". Il tweet di Massimo Corsaro, deputato di Fratelli d'Italia, riassume al meglio il delirio scatenatosi dopo la discutibile copertina "satirica" del comico emiliano a DiMartedì, su La7. A far impazzire di rabbia il popolo della destra è stata la battuta su Claretta Petacci. L'amante di Benito Mussolini è stata paragonata al maiale che razzola tra i rifiuti a Roma, protagonista di una polemica politica innescata da Giorgia Meloni contro l'amministrazione Raggi. "Continuo ad apprezzare l'ironia brillante del comico e conduttore televisivo emiliano. Certo è che il periodo elettorale, il crollo del Pd nei sondaggi, debbono far perdere la testa e la giusta ironia", è la reazione (signorile) di Rachele Mussolini, nipote del Duce e consigliere comunale di Roma della Lista Civica Con Giorgia. "L'espressione greve, il riferimento inopportuno e sciatto di linguaggio, ancor più grave in quanto televisivo, dimostrano la rabbia e l'acredine che è in uso nel panorama politico in Italia. Situazioni del genere, deprecabili, servono esclusivamente a fomentare ed esacerbare gli animi. Questa non è satira e neppure ironia, quella di Gene Gnocchi su Claretta Petacci è basso turpiloquio televisivo. Dispiace per la sua caduta di stile e ancor di più per le offese ad una defunta". Meno composta la reazione di sua sorella, Alessandra Mussolini, che a proposito di Gene Gnocchi ha parlato di "verme, stronzo e merdata".

[La polemica] L'assurda battuta di Gene Gnocchi sulla "Petacci maiala" e il silenzio imbarazzante delle femministe. L'infelice uscita del comico parmigiano ci consegna un Paese ancora diviso a metà, con la destra sdegnata e inferocita e la sinistra e le femministe distratte e assenti, scrive Ugo Maria Tassinari, giornalista e studioso, il 18 gennaio 2018 su Tiscali notizie. La pessima battuta di Gene Gnocchi sul maiale che gira per Roma (“è femmina e si chiama Claretta Petacci”) ci consegna un Paese diviso a metà. Nello studio “Di martedì” hanno riso o sorriso tutti, a cominciare dal conduttore. Da ieri mattina, invece, a una unanime indignazione, con tratti di autentica rabbia e di insulti minacciosi nei confronti del comico parmigiano, della stampa e del “popolo di destra” ha fatto da contrappeso un silenzio abbastanza omogeneo a sinistra. 

L'ira della Mussolini. Decisamente sopra le righe la replica di Alessandra Mussolini, che parla di “verme, stronzo, merdata” mentre insolitamente pacato è l'intervento del deputato di centrodestra Massimo Corsaro, più volte stigmatizzato per tweet razzisti e antisemiti: "Signora Presidente Laura Boldrini: nulla da dire sulla performance di Gene Gnocchi e Floris?” Una domanda legittima visto che la presidente della Camera della lotta alle offese verso le donne e al linguaggio sessista ha fatto un cavallo di battaglia, a partire dalle campagne di autentico odio sociale e di fake news che ripetutamente le ha mosso contro la destra populista. Stavolta, invece, ha taciuto. 

Due voci controcorrente. Eppure, a prescindere dal giudizio storico sui fatti di piazzale Loreto, niente incarna meglio l'archetipo di questa violenza verbale del dare della “troia” a una donna, peraltro stuprata prima di essere “giustiziata”. Due soltanto i giornalisti che hanno rotto il fronte “antifascista”: il direttore del Dubbio, Pietro Sansonetti, un garantista che ama navigare controcorrente, e Mattia Feltri. L'editorialista della Stampa ricorda che anche un leader partigiano inossidabile come Sandro Pertini, uno dei capi della Resistenza che decisero la condanna a morte di Mussolini e l'esecuzione del suo seguito, si vergognava talmente dell'uccisione della donna da commentare, nel 1988: “La sua unica colpa è di aver amato un uomo”. E se ieri mattina l'hashtag #GeneGnocchi è entrato nella top ten di Twitter, oggi dilaga su Facebook la rubrica di Feltri jr: più di 13mila like, quasi tremila condivisioni. Tra queste c'è anche quella di Enrico Mentana, che chiosa: “Meglio di così non lo si poteva scrivere”.

Il silenzio delle donne. Inquietante il silenzio delle donne, anche delle femministe ancora fresche dell'aspro confronto sul “manifesto francese”, firmato dalle tre Caterine (Deneuve, Millet, Robe Gillet) e da cento protagoniste della cultura e dello spettacolo in difesa del diritto dei maschi al corteggiamento “pesante”. Eppure la questione la definisce molto chiaramente la giornalista Flavia Perina, L'ex parlamentare finiana, proveniente dai ranghi dell'estrema destra rautiana ma da tempo approdata a una posizione aperta, fuori da ogni steccato ideologico, dedica poche righe al caso: “Volendo dire 'maiale fascista' avrei da suggerire a Gene Gnocchi un sacco di modi al posto della citazione del nome di Claretta Petacci da lui proposta ieri sera in associazione con foto di maiale tra i rifiuti, che in fondo è pur sempre una donna fucilata senza processo e appesa per i piedi, e non è che fa tanto ridere. (Upgrade: noto solo ora la risatina di Floris: pure lui se la poteva risparmiare)”.

La toppa più imbarazzante della battuta. Imbarazzante, infine, la toppa messa da chi ha provato a circoscrivere il danno spiegando che no, Gnocchi non voleva offendere Claretta Petacci ma semplicemente punzecchiare, colpendola nel suo immaginario sentimentale, Giorgia Meloni. E' stata infatti la leader di Fratelli d'Italia ad aver diffuso sul suo network social le immagini del maiale che grufola. Decisamente una toppa peggiore del buco. 

TV SPAZZATURA, scrive il 17/01/2018 Cristina Di Giorgi su "Il Giornale d’Italia". Claretta Petacci e le battute (a sproposito) di Gene Gnocchi. Il comico ha dato il nome della donna che morì con Mussolini al maiale che grufola tra i rifiuti della Capitale. Nel Paese dei vari Fiano, Boldrini e compagnia starnazzante, dove tutto e il contrario di tutto è lecito in nome di un “antifascismo da operetta” che si tinge ogni giorno di più di ridicolo, è perfettamente normale che un comico o presunto tale si permetta di offendere una donna stuprata, massacrata e appesa, da morta, a testa in giù. Una donna il cui unico torto è stato quello di amare l'Uomo più odiato dalle cosiddette “anime belle” (che belle non lo sono nemmeno un po') di ieri e di oggi. E' accaduto infatti che tal Gene Gnocchi, in qualità di “comico”, intervenendo in diretta tv nella puntata del 16 gennaio del programma “Di Martedì”, commentando le immagini di un video che mostra una scrofa grufolante tra i rifiuti a Roma, abbia avuto l'idea di dire: “E' un maiale femmina. Si chiama Claretta Petacci”. Una battuta sottolineata dalle risate del conduttore della trasmissione Giovanni Floris e seguita, sui social, da una valanga di reazioni indignate e commenti (giustamente) tutt'altro che teneri indirizzati al suddetto “giullare del politicamente corretto”, che hanno in vario modo criticato l'offensivo e rivoltante riferimento alla donna che ha amato Benito Mussolini così tanto da decidere di morire insieme a lui. Nonostante da quel sangue versato siano passati più di settant'anni, è purtroppo evidente (e la battuta di Gene Gnocchi è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare in tal senso) che le anime marce nelle quale hanno trovato radici l'odio cieco e violento, che non si ferma nemmeno davanti alla morte, hanno continuato a nutrirsi di astio e risentimento. All'offesa terribile rivolta a Claretta, in cui le risate del conduttore di “Di Martedì” appaiono gravi quanto le parole del “comico” ospite della trasmissione, è andato poi ad aggiungersi nelle ore successive, un ulteriore insulto. Il silenzio assordante di tutti i personaggi di solito pronti a dire la loro sull'importanza del rispetto dei diritti delle donne e a far piovere strali di indignazione su tutto quanto non risulta conforme al pensiero unico antifascista.

Il silenzio degli indecenti su una gag da porcile. Claretta Petacci paragonata a un maiale. Lei che volle stare a fianco del suo uomo anche nella cattiva sorte, scrive Marcello Veneziani il 18 Gennaio 2018 su "Il Tempo". Ma non provate vergogna, voi della Sette, Floris, Mentana e voi Autorità Vigilanti, Presidenti di Camere, Senato, Anpi, Femministe, davanti alla schifosa, incivile battuta di Gene Gnocchi – se questo è un comico – sulla scrofa che razzola tra i rifiuti romani e che lui ha battezzato con la genialità di un demente malvagio, Claretta Petacci? Non stiamo parlando della macabra e bestiale macelleria di Piazzale Loreto, che fa vergognare ogni paese civile; non parliamo nemmeno di feroce vendetta contro un dittatore, un regime, una guerra. Qui parliamo di una donna che per amore solo per amore volle stare a fianco del suo uomo anche nella cattiva sorte, fino a condividere la morte, e prima lo stupro e poi lo scempio del cadavere. Non ebbe responsabilità durante il fascismo, Claretta Petacci, non trasse profitto, non consigliò mai Mussolini su nessuna scelta né lo spinse a commettere errori, non fece cerchio magico intorno al Duce. Fu amante appassionata e devota, spesso tradita, sempre ferita dall'essere comunque l'altra rispetto alla moglie e alla madre dei suoi figli. E persino lei, la sanguigna, verace Rachele, non ebbe parole di odio per la donna che restò al fianco di suo marito fino a farsi trucidare con lui, ma si lasciò sfuggire un moto sommesso di affetto e perfino di dolcissima invidia, perché avrebbe voluto essere stata lei al suo posto. I versi di un grande poeta come Ezra Pound su Ben e Clara appesi per i calcagni resteranno nei secoli. Del resto ognuno ha il cantore che si merita: c'è chi ha Ezra Pound e c'è chi ha Gene Gnocchi. Ricordo anni fa che uno storico divulgatore, di cui per carità verso un defunto taccio il nome, scrisse un libro sugli amorazzi di Mussolini, sulle sue amanti e i suoi figli illegittimi e per promuovere il libro organizzò una cena in tema. Nel menù c'era “petto di tacchino farcito alla Claretta”. Mi parve allora bestiale quell'allusione spiritosa al petto della Petacci e soprattutto alla farcitura che poi nella realtà fu una sventagliata di proiettili. Ma quella spiritosaggine triviale sembra oggi una delicatezza da gentleman rispetto alla battuta da porcile di Gnocchi. Femminicidio, violenza alle donne, sessismo, che considera l'amante femminile sempre una troia, volgarità in tv, correttezza di linguaggio: vanno tutti a puttane nel silenzio generale, col sorrisino compiaciuto di Floris, davanti a quell'atroce, feroce porcata di Gnocchi. Mi auguro che sia solo un frutto di abissale ignoranza, anche se è difficile pensare che uno anziano come Gnocchi non sappia almeno per sommi capi la storia. Un’ignoranza becera, comunque aggravata dal fatto che insultare i fascisti, calpestare i cadaveri loro e dei loro congiunti, è facile, hai dalla parte tua le istituzioni, i media, il conformismo della cultura, i parrucconi e i maestri censori. Magari ti scappa un contratto, una menzione, un elogio per il tuo intrepido coraggio antifascista. Mi auguro che la gente lo cancelli definitivamente dal novero dei comici; che resti a fare le sue serate comiche nei centri sociali, ma di quelli antagonisti feroci, o all'Anpi che non ha mai un moto di umanità verso i morti, i vinti e i trucidati o nelle sette sataniche. Che racconti a loro le sue troiate. E che finisca lui tra i rifiuti della tv spazzatura, insieme alla scrofa di cui ha meritato la parentela.

Da Mussolini alla Dc, il sesso ai tempi del potere. Napoleone e Vittorio Emanuele II si facevano portare donne per rapporti brevissimi. Col Duce si mettevano in fila. La Democrazia cristiana faceva tutto con discrezione: gestiva l’amante di Scelba e l’omosessualità di alcuni suoi esponenti di punta col riserbo di un grande partito, scrive Alessandro Marzo Magno il 22 Maggio 2011 su "Il Tempo". Il sesso compulsivo dei potenti non è certo una novità: la storia rigurgita di personaggi che badano solo alla quantità, che praticano un sesso onanistico mirato all'autosoddisfazione e che non ha alcun riguardo per la donna in quel momento coinvolta. Una contessa veneziana racconta di esser stata un sera portata (consenziente) nella stanza occupata in quel momento da Napoleone Bonaparte, al tempo semplice generale, che aveva appena messo fine alla millenaria storia della Serenissima. Bonaparte è assiso alla sua scrivania, quando la donna entra nemmeno si volta, le dice di spogliarsi e sistemarsi nel letto, cosa che la tapina fa. A un certo punto il generale corso si alza, si congiunge per un tempo brevissimo (minuti? Più probabilmente secondi) con la contessa, si riassetta, si rimette alla scrivania e invita la nobildonna a rivestirsi e a levarsi dai piedi. La scena si ripeteva più o meno ogni sera. Un vero e proprio malato di sesso è Vittorio Emanuele II. Non passa giorno senza che il primo re d'Italia grugnisca in piemontese di portargli una donna, cosa che gli efficienti servizi di sicurezza di Casa Savoia fanno. Gli consegnano una donna purchessia con la quale re Vittorio ha un velocissimo rapporto e poi, saziato all'istante, la paga e la manda via. Ma chi fa giungere al parossismo questo tipo di bulimia sessuale è Benito Mussolini. Come andassero le cose lo spiega Mimmo Franzinelli, storico del fascismo, a Gorizia per è Storia, che ha curato l'edizione dei diari di Claretta Petacci 1939-40 appena uscita con Rizzoli. «La novità di Mussolini – spiega – è il culto della personalità. Non aveva bisogno che la polizia segreta gli procurasse le donne, perché gli si offrivano spontaneamente. L'Archivio centrale dello Stato, a Roma, conserva una quantità di lettere di femmine in delirio che gli chiedono un incontro». A gestire il traffico è il segretario del duce, Quinto Navarra, che conoscendo gusti e attitudini del capo sceglie tra le lettere le donne che più si avvicinino alle sue esigenze. Gli incontri avvenivano a Palazzo Venezia, spesso truccati da udienze. Le donne venivano introdotte nell'ufficio del capo del governo, dove veniva consumato un rapporto di natura conigliesca sulla scrivania, sul tappeto, sul divano. In questo modo Mussolini vedeva rassicurata la sua mascolinità con donne che non avrebbe mai più rivisto. E cambia anche il rapporto delle donne con lui: sono soddisfatte di esser state toccate, di averlo visto da vicino, di aver subito una sorta di imposizione taumaturgica da parte del maschio più maschio d'Italia. Erano donne di tutte le classi sociali, dalla popolana alla principessa, in deliquio per aver soddisfatto le voglie del simbolo della virilità. Tutto ciò accadeva mentre Mussolini aveva Claretta Petacci come amante e Rachele come moglie. «Nemmeno una donna giovane e desiderabile come la Petacci lo soddisfaceva», sottolinea Franzinelli. In compenso non disdegnava di prendersi ulteriori extra, come la giornalista francese (e spia tedesca) Magda de Fontanges che, ammaliata dal maschio latino, gli si concede durante un'intervista. La Petacci è gelosissima, nonostante questo (o forse proprio per questo) Mussolini la informa regolarmente delle altre, facendola infuriare. Claretta scrive nei suoi diari che Mussolini continua ad avere rapporti, seppur molto diradati, con Rachele. La moglie ogni tanto lo cerca, imponendogli di adempiere ai doveri coniugali e lui si concede purché lei si levi di torno e lo lasci in pace. «Avevano anche un gergo», osserva Franzinelli, «Mussolini diceva alla Petacci: “Oggi ho pagato il tributo”, lei capiva, lo insultava, piangeva, si disperava perché lo voleva tutto per lei». Nel dopoguerra, con i democristiani cambia tutto. Nelle zone più bianche, tipo Veneto, se un politico diccì si fa l'amante viene convocato in Curia e il vescovo in persona gli impone di tornare all'ovile. Questo testimonia due cose: che si stava ben attenti alla non ricattabilità dei politici e che i veri capi della Dc erano i vescovi. C'erano eccezioni, naturalmente: Mario Scelba ha per amante una signora romana dalla quale ha avuto anche una figlia segreta. Ma quando il “ministro di polizia” non è più in posizione tale da poter far saltare qualche testa e si oppone al neonato centrosinistra, si vede recapitare in busta chiusa una foto di lui con l'amante al tavolino di un bar. Sono i servizi segreti: gli vogliono far capire che sanno e che è meglio se ne stia buono. Ma gli amori etero non fanno storia nella Dc. Ben più importanti sono i rapporti gay. Emilio Colombo proprio per questo non sarà mai candidato alla presidenza della Repubblica, pur avendo le carte in regole per aspirare alla carica. Nessuno, mai, si incaricherà di opporsi alla sua candidatura, semplicemente nessuno, mai, lo candiderà (la Dc era così, per chi non se lo ricordasse). Emilio Colombo, Mariano Rumor e Fiorentino Sullo erano soprannominati le “Sorelle Bandiera” e neanche tanto riservatamente, se in un famoso congresso Dc i delegati hanno apertamente applaudito alle “Sorelle Bandiera”. Il vicentino Mariano Rumor arriva a fare il Presidente del consiglio e si narra che nel suo studio privato romano avesse un balcone con una splendida vista sulla città e che invitasse i giovani virgulti ad affacciarsi per poterne poi contemplare le forme. Fiorentino Sullo, originario della provincia di Avellino, diventa più volte ministro, ma l'ostracismo di Amintore Fanfani verso di lui si fa talmente forte che abbandona la Dc per passare al Psdi. Ormai da qualche anno non è più un segreto che Bettino Craxi abbia a lungo avuto per amante Ania Pieroni, un'attrice romana, e che abbia avuto una più breve relazione con la pornostar Moana Pozzi. Ben più misteriosa è invece la storia di un politico della Seconda repubblica che avrebbe avuto una crisi dovuta a un'overdose di Viagra durante un rapporto con una show girl.

L’APOLOGIA DEL FASCISMO.

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

100 ANNI DALLA RIVOLUZIONE: MALEDETTO OTTOBRE ROSSO. Russia, niente feste per i 100 anni della Rivoluzione: Putin non mette in discussione la stabilità prima del voto. Il Cremlino ha deciso da tempo: in vista delle presidenziali niente festeggiamenti ma spazio ad eventi culturali, mostre e dibattiti. La decisione non ha comunque fermato i preparativi del Partito Comunista: dal 1 all’8 novembre riunioni, serate di gala sia a San Pietroburgo che a Mosca. Nel pomeriggio la consueta parata attraverserà la centrale via Tverskaya per concludersi davanti alla statua di Marx dietro la Piazza Rossa, scrive Maria Michela D'Alessandro il 7 novembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Fare i conti con il passato in Russia non è mai stato facile, e Vladimir Putin lo sa bene. Glielo hanno insegnato a scuola, da giovane, nel Kgb e persino in famiglia: meglio guardare al presente e al futuro, senza però dimenticare il passato. Ricordare sì ma facendo attenzione. Cento anni fa la presa del Palazzo d’inverno nella capitale di allora San Pietroburgo cambiò per sempre la storia della Russia, e del mondo. Nella notte tra il 6 e il 7 novembre del 1917 – 24 e 25 ottobre secondo il calendario giuliano – c’era però un altro Vladimir al comando: il Partito bolscevico iniziò l’azione armata contro il governo provvisorio e l’insurrezione portò i rivoluzionari alla formazione di un governo presieduto da Vladimir Il’ič Ul’janov, per tutti Lenin. Quella Rivoluzione d’ottobre che segnò il crollo dell’impero russo e la nascita della Repubblica sovietica. Il no di Putin – A 100 anni da quel fatidico giorno, è difficile mettere d’accordo i russi sulla rivoluzione, tra l’indifferenza di alcuni e la nostalgia di altri. A mettere a tacere tutti è stato ancora una volta Vladimir Putin, da 18 anni il solo uomo al comando della “nuova” Russia: niente festeggiamenti ma spazio ad eventi culturali, mostre e dibattiti presieduti da professori universitari. Del resto anche il portavoce del Cremlino aveva chiarito che non ci sarebbe stato nulla da festeggiare, giustificando l’assenza di un programma ufficiale, seguito dalle dichiarazioni dello stesso Putin che, durante l’intervento al Valdai Club di Sochi, aveva definito i risultati della Rivoluzione di ottobre non univoci, ed oggi strettamente intrecciati a conseguenze sia negative che positive. Eppure, le tracce dell’ottobre 1917 sono indelebili. La festa dei comunisti – “Prima degli anni Novanta, era grande festa nazionale, tutti i cittadini erano quasi obbligati a partecipare alle celebrazioni”, spiega Andrey, un signore di mezza età cresciuto ai tempi dell’Unione Sovietica. Durante il mandato di Boris Eltsin i carri armati non sfilavano più ma gli uffici rimanevano comunque chiusi e si festeggiava quella festa diversa solo per il nome, diventata il “Giorno della Riconciliazione Nazionale”. Infine nel 2005 fu sostituita con la festa dell’Unità Nazionale, spostata al 4 novembre in ricordo della vittoria dei russi sui polacchi del 1612. “Oggi per me non c’è niente da festeggiare, la rivoluzione fu una tragedia”, conclude Andrey. Anche se a pensarla così non sono le migliaia di persone atterrate a Mosca in questi giorni: 120 delegazioni arrivate da tutto il mondo, dalla Cina al Venezuela, dalla Corea del Nord all’Italia passando per il Vietnam, tutti per ricordare la rivoluzione e gli eventi legati ad essa. Domenica mattina in tanti hanno fatto la fila per visitare il mausoleo di Lenin, vedere la salma del padre della rivoluzione d’ottobre e deporre garofani sulla tomba del milite ignoto e la sua fiamma eterna che onora la memoria di oltre 20 milioni di sovietici caduti nella guerra contro il nazi-fascismo. La decisione di Putin non ha comunque fermato i festeggiamenti del Partito Comunista guidato da Gennadij Andreevič Zjuganov: dal 1 all’8 novembre riunioni, serate di gala sia a San Pietroburgo che a Mosca. Nel pomeriggio di oggi la consueta parata attraverserà la centrale via Tverskaya per concludersi davanti alla statua di Marx dietro la Piazza Rossa. E questa sera saranno tutti all’hotel Renaissance di Mosca per una cena speciale o forse solo piena di nostalgia. Paura della rivoluzione – Tutti tranne Vladimir Putin. Per paura, per bisogno di stabilità in vista delle elezioni presidenziali del prossimo marzo, o forse per cancellare quella parola tanto odiata. Dal latino revolutio, revolutionis, la rivoluzione da sempre significa mutamento radicale di un ordine statuale e sociale, nei suoi aspetti economici e politici. E secondo Putin “la rivoluzione è sempre risultato di un deficit di responsabilità”. Secondo un sondaggio del Vciom, il Centro di Ricerca di opinione pubblica russa, pubblicato all’inizio del mese di ottobre, su 1.800 persone intervistate, il 57% ha definito la ‘rivoluzione’ come un evento storico inevitabile. Se il 38% dei partecipanti al sondaggio ritiene che gli effetti della rivoluzione siano stati positivi nel suo complesso, per il 92% sarebbe inaccettabile una nuova rivoluzione in Russia, così come i “rivoluzionari” pronti a prenderne parte, solo il 27%. La stessa ricerca ha rivelato come negli ultimi anni la simpatia nei confronti di Lenin, Stalin e Nicola II siano in aumento, passando da un 37% nel 2005 ad un 52% nel 2017 per il rivoluzionario georgiano, e dal 42% al 60% per l’ultimo imperatore di Russia. Quanto a Putin, se per una volta è stato escluso dal sondaggio del centro, altre ricerche, prime quelle del Levada Center, lo danno ancora in netto vantaggio su altri ipotetici candidati, se mai ce ne dovessero essere.

I russi non sanno come festeggiare la Rivoluzione d’ottobre (e Putin si tiene alla larga). Il 7 novembre saranno cento anni dalla rivoluzione guidata da Lenin che portò alla nascita dell'Urss. Putin non parteciperà alla marcia anche per non alimentare le opposizioni interne. Tra serie tv sull’ex nemico “Trockij” e film su Nicola II adulterino, la Russia non sa come affrontare il passato, scrive Andrea Fioravanti il 27 Ottobre 2017 su “LInkiesta”. Nel 1917 un Vladimir ha cambiato la Russia e il mondo facendo una rivoluzione nel mese di ottobre. Cento anni dopo un altro Vladimir non ha nessuna voglia di celebrare quell’evento per evitare che accada di nuovo. Il prossimo 7 novembre (il calendario non è più giuliano, ma gregoriano ormai) sarà passato un secolo esatto da quando Vladimir Ul'janov, in arte Lenin, a capo dei bolscevichi instaurò il regime comunista con un colpo di stato, rovesciando il governo provvisorio che aveva fatto abdicare lo zar Nicola II qualche mese prima. Dopo due guerre mondiali, una guerra fredda, sei segretari del partito comunista, un muro caduto e un decennio di disordine politico e sociale, il potere lo ha preso un altro Vladimir: Putin. E il presidente della Federazione russa non vede l’ora di togliersi il prima possibile questo impiccio. Per affrontare il più grande grattacapo istituzionale degli ultimi anni, il Cremlino ha una strategia chiara: festeggiare il meno possibile. Secondo il Financial Times, Vladimir Putin non parteciperà alla marcia del 7 novembre e l'evento serale sarà organizzato al Renaissance, un hotel nella periferia nord di Mosca, lontano dal Cremlino. Una decisione strana, in apparenza. Putin ha costruito la sua figura politica soprattutto partecipando ai grandi eventi di commemorazione della storia russa come la "Giornata della vittoria", festeggiata in pompa magna ogni 9 maggio, per celebrare la vittoria contro i nazisti nella seconda guerra mondiale. Putin vuole una festa onesta: «È inammissibile speculare su una tragedia che ha colpito tutte le famiglie russe non importa da quale lato delle barricate. Non può esserci la divisione, la malizia, il risentimento, l’amarezza del passato nella nostra vita di oggi e nei nostri interessi politici» ha detto in un discorso rivolto alla nazione dal Cremlino, una settimana fa. Il presidente russo vuole evitare speculazioni politiche con il presente ma anche ricordare che il nemico non è tra i nostalgici del regime o i putiniani, ma là fuori: «Ricordiamoci che siamo un solo popolo e che siamo soli». Già, soli contro l’occidente. È su questa scia che Putin ha costruito la sua figura di padre della nazione e restauratore dell’ordine dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica e il caos politico e sociale dell'era Eltsin. Ad ascoltare in prima fila il discorso di Putin c’era anche un altro Vladimir, Gundjaevil (Cirillo I) capo della chiesa ortodossa russa, istituzione lasciata ai margini dal regime sovietico e ripescata da Putin per sostenere la sua presidenza votata all’ideologia nazionalista. Putin si è posto come leader ed erede di un impero millenario che parte dal 988 e arriva fino all'annessione forzata della Crimea nel 2014. Nel mezzo alti e bassi, zar illuminati e pazzi, terribili e grandi. Sono loro a fare la storia con i generali e le guerre, non gli uomini comuni o i politici. In questo gigantesco (e semplificato) quadro storico l'Unione sovietica è considerata solo una piccola parentesi della storia, da ripescare solo per celebrare la vittoria contro i nazisti nel 1945. Anche per questo nel 2005 Putin ha cancellato l’anniversario della rivoluzione d’ottobre del 7 novembre (nel 1992 rinominata “Giorno della conciliazione”) per introdurre la “festa dell’Unità nazionale”. Putin ha voluto che si festeggiasse ogni 4 novembre l’anniversario della liberazione di Mosca dall’occupazione dei polacchi, avvenuta nel 1612 per dare un senso di continuità con la storia degli zar. Nel 1613 salì al potere lo Michele I che diede inizio alla dinastia dei Romanov, durata poco più 300 anni fino alla destituzione di Nicola II, proprio nel 1917. Non solo una festa, ma un simbolo politico. Per capirci, il 4 novembre dell’anno scorso il Governo ha fatto erigere davanti alle porte del Cremlino una statua di 17 metri di un altro Vladimir, il grande, considerato il fondatore della Russia e della Chiesa ortodossa nel 988 d.C. Un simbolo di una Russia unita che ignora il passato comunista per ricollegarsi alle origini della sua storia. Secondo un sondaggio del 2014 dell’istituto indipendente Levada Center, solo il 54% dei russi intervistati ha identificato il nome corretto della festa dell’Unità nazionale e il 16% ha detto di non conoscerla. Anche se la celebrazione del 7 novembre è stata sospesa negli ultimi anni, il centenario non si può ignorare per tante ragioni. In fondo si tratta di un evento che non ha cambiato solo la storia nazionale russa ma anche quella del mondo intero. Ignorarla completamente sarebbe impossibile. Ed è impossibile visto che ogni strada, monumento, piazza è intrisa della storia dell'Unione sovietica. Sempre Putin ha detto che la rivoluzione russa «ha avuto conseguenze positive e negative». Un’analisi ambigua e indicazioni poco chiare del governo su come celebrare la rivoluzione ha lasciato ai russi molti dubbi se festeggiare o meno.

Il primo canale russo, Tv1, manderà a inizio novembre una serie tv sulla rivoluzione russa. Protagonista: Lev Troctkij. Sì, proprio lui: il teorico della rivoluzione comunista permanente, braccio destro di Lenin e nemico di Stalin che lo fece prima esiliare in Messico, poi uccidere e subire una damnatio memoriae. La “rai” russa, controllata dal governo, ha scelto di riabilitare l’uomo più odiato dal regime staliniano per raccontare la rivoluzione del 1917. Un altro modo ancora per il governo di smarcarsi da quel periodo storico. Finalmente la Russia è riuscita a storicizzare il proprio passato? Non proprio. Ieri è uscito al cinema “Matilda” un film sulla storia d’amore tra lo zar Nicola II e Matilda Kshesinskaya, ballerina del Teatro imperiale di S.Pietroburgo. Il film ha scatenato polemiche per le scene di sesso tra i due definite oltraggiose da molti, compresa la deputata Natalia Poklonskaya. La 37enne, dal 2014 al 2016 procuratrice generale della Repubblica autonoma della Crimea, mandata dal governo russo dopo l’annessione forzata della regione, ha chiesto di proibire il film nelle sale. La dichiarazione del volto ufficiale del regime alla Duma, il parlamento russo, è una rassicurazione alla chiesa ortodossa russa che ha santificato Nicola II. Ora, nel film Nicola Romanov non era ancora diventato zar e compare in poche scene, anche se la maggior parte di sesso, ma questo non ha impedito a molti cinema di rifiutare la proiezione. E in quello dove si è svolta l'anteprima, la polizia ha controllato che non ci fossero delle bombe in sala. A Ekaterinenburg, il principale centro economico dell’area degli Urali, il 4 settembre un uomo ha incendiato due macchine davanti alla sede dell'avvocato di Alexey Uchitel, regista del film. Da occidentali è difficile capire perché i russi si affidino ancora a lui dopo 17 anni di potere. Questo ex agente del Kgb con la passione per gli sport estremi e le pose da macho ha ereditato un Paese nel caos istituzionale, politico e sociale e gli ha garantito ordine e sicurezza. Sono queste le due ragioni principali. Tutto il resto è propaganda occidentale o del Cremlino. Per farlo Putin ha usato metodi duri, non democratici ma per la maggioranza dei russi era l’unico modo possibile e accettabile per non far crollare tutto il sistema. «Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente» è una massima attribuita al leader comunista cinese Mao Zedong (o Tse tung, se preferite). In Russia la confusione culturale e storica rimane, quella politica non ancora. Ma la situazione non sembra favorevole, almeno per Putin. Da occidentali è difficile capire perché i russi si affidino ancora a lui dopo 17 anni di potere. Questo ex agente del Kgb con la passione per gli sport estremi e le pose da macho ha ereditato un Paese nel caos istituzionale, politico e sociale e gli ha garantito ordine e sicurezza. Sono queste le due ragioni principali. Tutto il resto è propaganda occidentale o del Cremlino. Per farlo Putin ha usato metodi duri, non democratici ma per la maggioranza dei russi era l’unico modo possibile e accettabile per non far crollare tutto il sistema. La situazione negli ultimi anni è cambiata. Il principale oppositore del Cremlino, Alexei Navalny è stato definito da molti un blogger ma è una definizione riduttiva. Navalny è un avvocato, finanziere e giornalista che ha usato un blog (e non solo) per mobilitare i giovani russi. Come tutti i nati dopo la caduta del muro di Berlino non guardano la tv, sono sempre su internet e non hanno vissuto l’Unione sovietica. Putin ha portato sicurezza e ordine ma per farlo non ha potuto impedire la corruzione. È su questo pertugio di critica al sistema e non solo a Putin che Navalny ha costruito il suo movimento formato in gran parte da giovani e punta a vincere le elezioni il prossimo marzo. Non ci riuscirà. Anche perché c'è una terza e nuova candidata: Ksenia Sobchak. La figlia dell’ex sindaco di S.Pietroburgo e mentore di Vladimir Putin, fa la giornalista e ha un programma in tv. Come Navalny vuole prendere il voto dei giovani che protestano contro il sistema corrotto. Basta avere qualche rudimento di politica per sapere che divisi si perde. Putin ha avallato la candidatura di Sobchak proprio per dividere le opposizioni. Non solo Navalny e Sobchak, ma anche i nazionalisti russi che come sostiene il Carnegie Moscow Center sono sempre più fuori controllo. E l’attentato di Ekaterinenburg. Putin ancora non ha annunciato la sua candidatura e secondo alcuni potrebbe farlo proprio il 7 novembre. Ma il grande orso della politica russa rischia di inciampare tra i tanti piccoli nani politici ed estremisti che ha contribuito a creare. Anche per questo il centenario della rivoluzione russa del 1917, scoppiata per colpa di governanti incapaci di capire le istanze di cambiamento della popolazione è il peggior anniversario possibile da festeggiare.

La gita dei nostalgici comunisti Tutti a Mosca per la Rivoluzione. Una delegazione di politici di Pc e Rifondazione in Russia. Mummie con il pugno chiuso da Rizzo ad Alboresi, scrive Tony Damascelli, Mercoledì 08/11/2017, su "Il Giornale". I compagni si sono ritrovati tutti come quel giorno di cento anni fa. Cantando e marciando con il pugno chiuso verso la Cattedrale del Salvatore sul Sangue Versato a San Pietroburgo, la chiesa che venne eretta nel luogo dove venne ammazzato lo zar Alessandro II e ancora il treno di Lenin e la stazione ferroviaria Finlyandsky, dove Lenin tornò dopo l'esilio, e la fermata della metropolitana Gorkouskaya, dedicata allo scrittore Gorky, il palazzo museo della politica Kshesinskayaj e poi a Mosca, il Cremlino, la piazza Rossa, siti di nostalgia e di fede, falce e martello, la barba di Lenin e il suo copricapo agitato nell'aria gelida di novembre, poi i baffoni di Stalin e, ancora a San Pietroburgo, il museo galleggiante dell'incrociatore Aurora dal quale partì il colpo di cannone che segnò la conquista del Palazzo d'Inverno. Fedeli nel secolo, i comunisti di ogni dove, si sono visti, rivisti, conosciuti e riconosciuti, infine radunati, venendo da Cuba e dal Vietnam, dalla Corea del Nord e dalla Cina, Paesi dove la rivoluzione ha lasciato segni e sogni, eroi e vittime ma nel silenzio e con la propaganda che si deve ai regimi, tutti ma quelli di estrema sinistra con il privilegio particolare. Vladimir Putin si è tenuto alla larga da bandiere e icone, lontano dai cortei, dagli altri siti delle celebrazioni, niente falce e martello, fine di un'epoca, non della storia, la nuova Russia non dimentica ma evita il ricordo drammatico. I morti si contano, non si cancellano con la propaganda ma la memoria cerca di onorarli diversamente. In contemporanea ai cortei nostalgici, l'altra Mosca ha celebrato, con la consueta parata, i 76 anni della marcia dell'Armata Rossa che, il 7 novembre del '41, partiva verso il fronte per opporre resistenza al nemico. Sul fronte russo contemporaneo si sono presentati i nostalgici comunisti nostrani, di ogni sezione e cellula, Rifondazione, Pci, Pc dei lavoratori, con a capo, si fa per dire, Marco Rizzo e con lui Maurizio Acerbo, Marco Consolo, Mauro Alboresi, ultimi bolscevichi, in verità menscevichi, non più maggioranza ma ormai minoranza, coda di un tempo che fu, festival malinconico dell'Unità, smarrita non soltanto nelle edicole. Il compagno Lenin è sempre presente fra loro e nei manifesti, nei quadri, nei fogli d'epoca, ovviamente nel mausoleo, sotto una teca di cristallo, cadavere imbalsamato, monumento di se stesso, cioè di una filosofia e di un'azione politica poi devastata dai suoi successori come testimonia un sondaggio effettuato dal Levada center, un centro studi non governativo, anzi marchiato come «agente straniero». Secondo il 23% degli intervistati, Lenin ha portato il Paese sulla via del progresso e della giustizia, il 21% pensa che i successori, Stalin basta e avanza, abbiano distrutto il sogno e il 15% ritiene che Lenin abbia invece portato alla Russia morti e disgrazie. Lenin non si tocca ma c'è chi vorrebbe seppellirlo, portarlo via dalla Piazza Rossa, togliere quel macabro sito e trasformarlo in un museo perché la gente di Russia è ormai stanca delle tragedie. I nostri combattenti della falce e del martello, stimolati dal tovarisch Gennady Zjuganov, primo segretario dell'unione dei partiti comunisti, non la pensano così, sono imbalsamati, come il compagno Vladimir Ilic, sventolano idee, drappi e parole impolverate e polverose, residuati dell'altro secolo, non c'è più l'albergo Lux, dove i rivoluzionari si radunarono per l'assalto, oggi il viaggio tutto compreso, prevedeva albergo a tre stelle, escursioni con pranzo, trasferimento aeroporto-hotel-stazione, viaggio in treno Sapsan (collega ad alta velocità Mosca a San Pietroburgo, Sapsan significa «Falco» ed è la Freccia Rossa, guarda un po' le combinazioni cromatiche, delle ferrovie russe), tutto per euro 700, volo dall'Italia escluso. Non si resta più in coda per tre ore al controllo passaporti, scomparse le Zighuli si viaggia su vetture lussuose, le lampadine cimiteriali sono state sostituite con luci a cento watt, gli alberghi sono carichi di euro e dollari, il cambio al mercato nero è una barzelletta antica, così le calze di nylon e le penne bic, la mafia domina, la classe operaia spera nel paradiso in terra. Cento anni dopo, la Russia è ancora viva, da Lenin a Putin, sempre cinque lettere in testa a tutti, il Paese rivoluzionario è rivoluzionato. Il gruppo vacanze nostalgia dei comunisti nostrani rientra ai rispettivi domicili, con il selfie di un Paese che non è più quello dei loro sogni. Sabato prossimo il Partito Comunista dei Lavoratori terrà una conferenza per il centenario della Rivoluzione di Ottobre. Il sito: Reggio Calabria. Boia chi molla.

23 agosto - una data storica, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Il 23 agosto 1991, i telespettatori sovietici assistono increduli a uno spettacolo che mai avrebbero immaginato di vedere. All’onnipotente segretario generale dell’onnipotente Partito comunista dell’Unione Sovietica, Michail Gorbacev, appena liberato da una residenza estiva in cui i ribelli l’avevano imprigionato, viene intimato pubblicamente di tacere. Quell’interlocutore dal cipiglio vendicatore e imperioso è l’eroe del giorno Boris Eltsin, ex membro del Politburo, il quale si è sorprendentemente dimesso dal partito l’anno precedente ed è stato trionfalmente eletto a suffragio universale presidente della Repubblica di Russia. Umiliato, politicamente sconfitto, il giorno successivo Gorbacev e costretto ad annunciare le proprie dimissioni dalla direzione del Partito comunista e, soprattutto, il divieto dell’intromissione di quello stesso partito nell’esercito e negli organismi di Stato. Il 25 dicembre dello stesso anno, alle 19,30, la bandiera rossa con falce e martello, che sventolava sul Cremlino dal 1917, è sostituita dal vessillo tricolore russo. Muore così, dopo settantaquattro anni di potere assoluto, il primo regime comunista, trascinandosi dietro quello che Annie Kriegel aveva definito il «sistema comunista mondiale».

Cos'è il comunismo? Scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Il termine "comunismo", nato in Francia nel 1840, ma ha acquisito il significato corrente solo nel 1918, quando Lenin, dopo aver preso il potere in quello che era l'impero russo, ha chiamato il suo partito comunista. Fino alla pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista nel 1848, i termini socialismo e comunismo erano considerati intercambiabili. Marx ed Engels operano la suddivisione tra «socialismo utopistico» e «socialismo scientifico», che essi chiamano anche comunismo e che sarà la base ideologica di tutte le dittature comuniste. Il comunismo è una variante del socialismo. Mentre i socialisti credono nella democrazia e vogliono conquistare il potere democraticamente, i comunisti credono nella dittatura del proletariato e intendono arrivare al potere con la rivoluzione. In un'occasione, Lenin francamente ha definito il comunismo come la dittatura del proletariato, un potere non limitato da nulla, da nessuna legge, non condizionato da alcuna regola, che si basa sulla coercizione. Una definizione che descrive perfettamente ciò che è avvenuto sotto il suo regime. I comunisti, come i socialisti e gli anarchici, affermano che la loro dittatura è solo un regime temporaneo, istituito per distruggere le classi possidenti e l'intero ordine socio-politico borghese. Una volta che la borghesia sia stata schiacciata, lo stato sarà "appassito" ed è destinato a cedere il posto a una libera associazione di comunità. Ma questo obiettivo non è mai stato raggiunto da alcun regime comunista. La lotta di classe è stata intesa a partire da Lenin nel più drastico dei modi: l'eliminazione fisica di tutti quelli ritenuti incompatibili con l'edificazione del comunismo (tecnici, ingegneri, professionisti attivi sotto il governo zarista, contadini proprietari kulaki, religiosi e devoti). Questo sterminio ha raggiunto il suo apice con Stalin, e successivamente in Asia con Mao Tse-tung, e Pol Pot. Ovunque i comunisti abbiano preso il governo, la proprietà dei mezzi di produzione e dei terreni agricoli, è stata trasferita allo stato (nota: non agli operai, non ai contadini, ma allo STATO). La borghesia è stata annientata (non solo tramite l'espropriazione ma anche fisicamente tramite omicidi, persecuzioni, deportazioni) ma ad essa si è sostituita una nuova casta con difetti ancora peggiori: una nomenclatura improduttiva, vorace, ignorante che si è arrogata diritti e privilegi che fingeva di voler combattere. I regimi comunisti, quando non sono crollati per il fallimento economico o nel tentativo di riformarli (ed è il caso dell'Unione Sovietica) si sono atrofizzati. Cuba e la Corea del Nord sono due esempi evidenti di questa incapacità di evolversi. L'Unione Sovietica, si è disgregata con il tentativo di riformarla in senso democratico. Si vedano gli articoli: 23 agosto - una data storica - Soltanto Stalin. La Cina rimane una feroce dittatura comunista che sopravvive solo perché ha abbracciato l'economia di mercato: arricchirsi è glorioso (Deng Xiaoping). Tutte le esperienze di questo secolo indicano che un regime comunista non può essere cambiato democraticamente dal basso, dalla volontà popolare ma unicamente dalle classi dirigenti. Brano di Stéphane Courtois dal capitolo "I crimini del Comunismo" da "Il libro nero del comunismo" (Mondadori)

I crimini del comunismo, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Di che cosa parleremo, quindi? Di quali crimini? Il comunismo ne ha commessi moltissimi: crimini contro lo spirito innanzi tutto, ma anche crimini contro la cultura universale e contro le culture nazionali. Stalin ha fatto demolire decine di chiese a Mosca; Ceausescu ha sventrato il centro storico di Bucarest per costruirvi nuovi edifici e tracciarvi, con megalomania, sterminati e larghissimi viali; Pol Pot ha fatto smontare pietra dopo pietra la cattedrale di Phnom Penh e ha abbandonato alla giungla i templi di Angkor; durante la Rivoluzione culturale le Guardie rosse di Mao hanno distrutto e bruciato tesori inestimabili. Eppure, per quanto gravi possano essere a lungo termine queste perdite, sia per le nazioni direttamente coinvolte sia per l'umanità intera, che importanza hanno di fronte all'assassinio in massa di uomini, donne e bambini?

URSS, 20 milioni di morti,

Cina, 65 milioni di morti,

Vietnam, un milione di morti,

Corea del Nord, 2 milioni di morti,

Cambogia, 2 milioni di morti,

Europa dell'Est, un milione di morti,

America Latina, 150 mila morti,

Africa, un milione 700 mila morti,

Afghanistan, un milione 500 mila morti,

Movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere, circa 10 mila morti.

Il totale si avvicina ai 100 milioni di morti. Questo elenco di cifre nasconde situazioni molto diverse tra loro. In termini relativi, la palma va incontestabilmente alla Cambogia, dove Pol Pot, in tre anni e mezzo, è riuscito a uccidere nel modo più atroce - carestia generalizzata e tortura - circa un quarto della popolazione. L'esperienza maoista colpisce, invece, per l'ampiezza delle masse coinvolte, mentre la Russia leninista e stalinista fa gelare il sangue per il suo carattere sperimentale, ma perfettamente calcolato, logico, politico.

Brano di Stéphane Courtois dal capitolo "I crimini del Comunismo" da "Il libro nero del comunismo" (Mondadori)

Soltanto Stalin

Il progetto di Gorbaciov di trasformare l’Unione Sovietica in una confederazione di Stati sovrani fallì dopo la secessione di varie Repubbliche. Nel settembre del 1991 l’Urss, già parzialmente disintegrata si dissolse.

Soltanto Stalin, scrive Indro Montanelli il 28 novembre 1988. Ero in Israele, anni cinquanta, quando dalla Russia di Kruscev cominciarono a giungere i primi segni di disgelo e di qualche apertura di frontiere. «Ne sarete contenti», dissi a Golda Meir, «ora anche i vostri potranno avere il passaporto.» «Contenti?» rispose lei. «Ne siamo atterriti. Quei popoli lì la prima libertà che si prendono quando gliene danno qualcuna è di ammazzare gli ebrei e poi di ammazzarsi fra loro.» Non è necessario essere un cremlinologo — razza fortunatamente in estinzione — per capire cosa sta succedendo in Russia e perché succede solo ora. Basta un po’ di Storia (e mi scuso per l’ovvietà del suoi suggerimenti). Quel Paese non ha mai conosciuto la democrazia — e temiamo che non possa conoscerla nemmeno nel prossimo futuro— non per qualche celeste maledizione ma perché, per tenere insieme le popolazioni che si è messa da secoli in corpo, ha sempre avuto bisogno di un potere centrale di ferro, secondato da una Polizia occhiuta e invadente. Lo fu quello degli zar, che cadde quando accennò a smettere di esserlo. Lo è stato quello di Lenin, di Stalin [si veda anche: Lenin maestro di Stalin nella pratica del terrore NRD] e dei suoi successori, fino a Breznev. Non vuole più esserlo quello di Gorbaciov, e la prima libertà che gli azerbaigiani sì prendono è quella di ammazzare gli armeni. Tanto per cominciare. Forse i padri della rivoluzione erano in buona fede quando dettero al loro Stato il nome di Urss, che significa Unione delle repubbliche sovietiche socialiste con pieno riconoscimento delle vari etnie che la compongono. Erano convinti di aver trovato un mastice più efficace della coazione poliziesca: l'ideologia. A furia di scrivere e di ripetere che i nazionalismi sono soltanto creazioni e inganni del capitalismo, è probabile che abbiano finto per crederci. Soppresso il capitalismo nei ceti sociali che lo incarnavano, i popoli proletari si sarebbero sentiti fratelli al di sopra di ogni differenza di sangue, di lingua, di cultura, di religione. La verifica l'abbiamo sotto gli occhi. Certamente Gorbaciov aveva previsto le tremende resistenza che la sua perestrojka avrebbe trovato nella cosiddetta nomenklatura, detentrice del potere con il diritto di abusarne, e quindi ben risoluta a difenderlo. Ma forse non immaginava che la minaccia più grossa al suo riformismo decentratore sarebbe venuta dall'esplosione dei nazionalismi, che ora rischiano di travolgerlo. Alcuni commentatori sostengono che ad accendere la miccia ed a propagare l’incendio siano proprio gli elementi conservatori (quelli che si riconoscerebbero, non so con quanta pertinenza, in Ligaciov), per dimostrare che i nazionali si combattono in un modo solo, quello di Stalin, e provocare così un ritorno ai suoi metodi. Può darsi. Ma la domanda che si pongono — ne siamo sicuri — i nostri lettori è se ce la farà Gorbaciov a domare l’incendio coi metodi suoi. Purtroppo, è una domanda cui nemmeno lui è in grado, ora come ora, di rispondere. Noi siamo convinti della sua buona fede. Così come lo siamo della sua capacità di manovra. L’uomo è di stazza. Ha visione strategica e coraggio da vendere. E se riuscisse a realizzare solo una metà di ciò che evidentemente ha in testa passerebbe alla Storia come il più grande protagonista di questo secolo, che pure di grandi protagonisti — nel bene e nel male — ne ha visti passare parecchi. Ma da dilettanti, a naso, e nella speranza di sbagliarci - non gli diamo più del trenta per cento di probabilità. Comunque due lezioni ci sembra di poter trarre sin d’ora da questa vicenda. La prima è che se settant’anni d’Internazionalismo proletario praticato senza esclusione di colpi non sono bastati a debellare i nazionalismi, vuoi dire che il sangue la lingua, la religione la cultura sono più forti dell'ideologia. La seconda è che i totalitarismi sono più facili o meno difficili da montare che da smontare. A liberalizzare la Russia e a guarirla dallo Stalinismo poteva forse riuscire un uomo solo: Stalin.

Le persecuzioni del comunismo alla religione, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". I teorici del comunismo non hanno mai nascosto il loro odio verso la religione. Marx ed Engels la definiscono “oppio dei popoli” ; Lenin la chiama “acquavite spirituale” ; Il comunista sardo Gramsci definisce la religione “puro narcotico per le masse popolari” . Il “socialismo scientifico” non va giudicato però nelle sue affermazioni teoriche, ma nelle sue realizzazioni pratiche, perché è nella prassi, come spiega Marx, che i filosofi dimostrano la verità del loro pensiero.

L'origine delle persecuzioni comuniste alla religione trova ispirazione nella rivoluzione francese: qui la persecuzione del cristianesimo si inquadrò in un più generale tentativo di sradicare completamente tutte le tradizioni dell'Ancien regime, con aspetti singolari come il culto della "dea Ragione" o la sostituzione dei nomi dei mesi del calendario. Sul piano giuridico, la posizione del comunismo nei confronti della religione è quella riassunta dall’art. 124 della Costituzione sovietica del 1936 secondo cui: “la libertà di praticare culti religiosi e la libertà di propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini”. Religione e antireligione non sono sullo stesso piano. La libertà religiosa è ristretta al culto privato, alla coscienza interiore del singolo e di fatto vanificata. L’antireligione ha invece il diritto di propaganda e l’appoggio dello Stato. L’ateismo deve espandersi occupando lo spazio pubblico, mentre la religione deve estinguersi, anche perché il sistema comunista nega la dimensione privata dell’individuo in nome del primato del pubblico e del collettivo. L’ateismo militante costituì, di fatto, il motore del sistema sovietico. Tutto ciò che apparteneva alla Chiesa, non solo proprietà e beni economici, ma seminari, scuole, orfanotrofi, ospedali, vennero nazionalizzati. Fu vietato l’insegnamento della religione e l’uso visibile di simboli religiosi, come icone e croci, perfino sulle tombe. Tutte le funzioni religiose e le manifestazioni pubbliche della religione, quali battesimi, matrimoni, funerali, dovevano essere prive di ogni riferimento religioso.

Cattedrali, chiese e cappelle destinate al culto furono trasformate in stalle per animali, in magazzini, in fabbriche, in sale cinematografiche. Si organizzarono “carnevali antireligiosi” nel periodo delle grandi feste liturgiche. Furono prodotti film antireligiosi e creati musei dell’ateismo, spesso nelle chiese. L’insegnamento e lo studio dell’ateismo venne reso obbligatorio nelle Università e nelle scuole di ogni ordine e grado. Anche la radio dell’Associazione degli Atei militanti trasmetteva su tutte le stazioni sovietiche in 14 lingue e, nel 1970 in URSS erano 4500 le stazioni radio che diffondevano la propaganda. La Chiesa ortodossa russa, prima del 1917 contava circa 210.000 membri del clero, tra monaci e preti diocesani, negli anni del Terrore, dal 1917 al 1941, ne vennero fucilati circa 150.000. Sempre nel 1917 i vescovi russi erano 300 e di essi 250 furono assassinati dai bolscevici. Dopo il crollo dell’impero, nel 1917 i cattolici erano forse 2 milioni e mezzo, i vescovi 14, i sacerdoti 1350, le chiese circa 600. Nel 1941 rimanevano aperte solo due chiese, una a Mosca e l’altra a Leningrado (appartenenti all’ambasciata francese) e vivevano nel Paese solo 1 vescovo (straniero) e 20 sacerdoti in libertà. I preti fucilati erano stati quasi 300, gli altri costretti ad emigrare. La campagna di ateizzazione proseguì, dopo la morte di Stalin (1953), sotto Kruscev e i suoi successori. Il rapporto Ilicev sull’educazione atea del novembre 1963 ribadì l’inconciliabilità di scienza e religione e la necessità di un sistema di coerente educazione scientifica atea. “Fra poco tempo – disse Kruscev – la religione finirà di esistere, la gente dimenticherà cosa è la religione ed io vi mostrerò l’ultimo sacerdote cattolico”. L’assalto alle Chiese dopo il 1945 La conferenza di Yalta sancì la spartizione dell’Europa in due zone di influenza: con il consenso dei governi occidentali, il comunismo sovietico divenne padrone assoluto dell’Europa orientale. Iniziò quindi la persecuzione contro i cristiani che vivevano nei Paesi dell’Europa orientale. Vanno ricordate le grandi figure di prelati cattolici che si opposero al comunismo in quegli anni terribili. Uno dei primi fu l’arcivescovo uniate di Leopoli in Ucraina, Joseph Slipyi. Quando i sovietici gli offrirono di divenire patriarca ortodosso di Mosca, purché rompesse con Roma, egli preferì continuare la sua vita nei gulag dove trascorse 17 anni e poi in esilio. Con lui va ricordato il beato Alessio Zaryckji (1912-1963), di nazionalità ucraina, deportato a Karaganda in Kazakistan, dove morì martire della fede nel 1963. Anche la Jugoslavia ebbe un suo simbolo eroico in Monsignor Alòjzije Stepìnac (1898-1960), arcivescovo di Zagabria, arrestato il 18 settembre 1946. Era accusato di condiscendenza verso il nazismo, ma il reale movente era la lettera pastorale del 23 settembre 1945, con cui l’episcopato da lui guidato rivelava che 243 membri del clero erano stati uccisi, 169 imprigionati e 89 scomparsi. Sottoposto a processo, fu condannato a sedici anni di lavori forzati, trasferito al carcere di Lepoglava e successivamente al domicilio coatto nel suo villaggio natale di Krašiæ, dove rimase strettamente sorvegliato dalla polizia fino alla morte per avvelenamento nel 1960. Fu beatificato nel 1998 da Giovanni Paolo II. In Ungheria, l’arresto del cardinale Jozsef Mindszenty (1892-1975), il 26 dicembre 1948, manifestò le intenzioni del regime. I comunisti lanciarono contro di lui una campagna di diffamazione analoga a quella lanciata contro Stepinac. A causa della sua eroica opposizione fu torturato per quaranta giorni consecutivi e costretto a firmare documenti di cui non conosceva il contenuto. Tutti gli ordini religiosi furono dichiarati fuorilegge (1950) e circa diecimila religiosi furono costretti a trovare altri modi di vivere. Nel 2009 è stato beatificato mons. Zoltan Meszlenyi (1892-1951), vescovo ausiliario di Esztergom, successore del cardinale Mindszenty, morto in campo di concentramento nel 1951. E’ il primo beato della dittatura comunista ungherese. Due altri nomi celebri sono quelli del cardinale Stéfen Wyszinski (1907-1981) arcivescovo di Varsavia e Primate di Polonia e del cardinale Josef Beran (1888-1969), arcivescovo di Praga, in Cecoslovacchia. Quando il cardinale Beran, arcivescovo di Praga, morì, nel 1969, fu segretamente fatto cardinale Stephan Trochta (1905-1974), che morì, a sua volta, nel 1974 dopo un brutale interrogatorio. Con lui va ricordato il Beato Vasil Hopko (1904-1970), greco-cattolico, arrestato e torturato, e il vescovo clandestino, Jan Korec, nato nel 1923, oggi cardinale, animatore della resistenza cattolica in Slovacchia. In Lituania, la “terra delle croci”, dal 1972, la rivista clandestina “Cronaca della Chiesa cattolica in Lituania” ha documentato gli atti di arbitrio e di violenza commessi contro il popolo lituano. Ancora negli anni Ottanta, in Lituania, i sacerdoti venivano minacciati, picchiati, uccisi, come padre Bronius Laurinavicius (1913-1981) e padre Juozas Zdebskis (1929-1986). In Albania, preti e laici furono uccisi a migliaia dai comunisti di Enver Hoxha, passato negli anni Sessanta, dal comunismo filo-sovietico a quello cinese. I gerarchi del Partito comunista si compiacevano ad affermare che l’Albania fosse divenuta “il primo Stato ateo del mondo”, come si legge nella costituzione approvata nel 1976. Tra le figure di spicco della resistenza va ricordato padre Mikel Koliqui (1902-1997), creato cardinale da Giovanni Paolo II nel 1994. Era stato condannato ai lavori forzati nel 1945, con l’accusa di ascoltare le radio straniere. In Bulgaria, paese a larga maggioranza greco-ortodosso, la Chiesa ortodossa bulgara divenne nel 1950, un organismo pubblico, al servizio dello Stato. Padre Eugenio Bossilkov (1900-1952), oggi Beato, fu arrestato, torturato, condannato a morte e gettato in una fossa comune nel 1952. In Romania, le chiese, le scuole, gli ospedali cattolici vennero chiusi o trasferiti agli ortodossi. Mons. Iuliu Hossu (1885-1970), nominato cardinale in pectore da Paolo VI, rifiutò di rinnegare la propria fede e morì in prigione, come il servo di Dio Anton Durcovici (1888-1951), vescovo di Iasi. In Moldavia, i vescovi Aron Marton (1896-1980) di Alba Iulia e il padre Alexandru Todea (1912-2002), poi cardinale passarono la loro vita in prigione e agli arresti. Sono in corso i processi di beatificazione di mons. Vladimir Ghika (1873-1954), morto in un carcere comunista, in seguito alle torture della Securitate e quello del francescano padre Clemente Gatti (1880-1952), anch’egli morto in seguito ai maltrattamenti ricevuti in carcere. In Romania vi fu qualcosa peggio di Auschwitz. Nessun lager o gulag eguagliò il carcere di Pitesti, a nord di Bucarest, tra il 1949 e il 1952, vero e proprio teatro degli orrori, dove il carceriere Eugen Turcanu aveva inventato i supplizi più efferati, per rieducare i prigionieri attraverso la tortura fisica e psichica, praticata a vicenda tra i detenuti politici. Ai seminaristi veniva infilata ogni giorno la testa in un secchio pieno di urina e di escrementi, mentre le guardie inscenavano una parodia del rito battesimale: Turcanu li obbligava i seminaristi a partecipare a messe nere, che lui stesso organizzava, specialmente durante la settimana santa e il venerdì santo. L’ombra dell’imperialismo comunista, fin dagli anni Trenta, si diffuse nel mondo. Come dimenticare l’olocausto rosso in Spagna, dove il numero dei preti e dei religiosi martirizzati è stato almeno di 6832, fra i quali trenta vescov. La maggioranza dei martiri del XX secolo finora beatificati dalla Chiesa risale soprattutto ai primi sei mesi della guerra civile spagnola, dal luglio 1936 al gennaio 1937. Anche l’Italia conobbe una “guerra civile” tra il 1943 e il 1945. È stata documentata la morte di 129 sacerdoti ammazzati dai partigiani comunisti tra l’8 settembre 1944 e il 18 aprile 1945. Tra questi, è stato beatificato don Francesco Bonifacio (1912-1946), ucciso dalle milizie di Tito nel 1946. C’è anche un seminarista di 14 anni, Rolando Rivi (1931-1945) per cui è avviata la causa di beatificazione. Il 18 gennaio 1952 Papa Pio XII nella Lettera apostolica Cupimus imprimis non esitò a paragonare la situazione dei cattolici e dell’intero popolo della Cina comunista a quella dei cristiani delle prime persecuzioni dell’epoca romana.

L’imponente libro Mao, "La Storia Sconosciuta" di Jon Halliday e Jung Chang , descrive dettagliatamente le pene patite dai seguaci di tutte le religioni in Cina nel secondo dopoguerra del Novecento. Nel 2000 è morto il cardinale Ignatius Kung Pin-Mei, l’arcivescovo di Shangai che ha passato 30 anni nei lager, 2 agli arresti domiciliari e 13 in esilio. Accanto al suo nome va ricordato quello del servo di Dio François-Xavier Nguyen Van Thuan, vescovo di Saigon (1928-2002) in Vietnam, imprigionato per 13 anni, dal 1975 al 1988, poi creato cardinale nel 2001. La persecuzione incruenta in Occidente Il comunismo è morto? I rapporti dell’Aiuto alla Chiesa che soffre documentano che la persecuzione continua da Cuba alla Corea del Nord, oltre che in Cina, dove i Laogai, inaugurati da Mao nel 1950, sono oggi ancora operanti, per annientare gli oppositori politici e fornire al regime un’enorme forza lavoro a costo zero. Non possiamo dimenticare però che accanto alla persecuzione cruenta, esiste quella incruenta, non meno feroce, che si serve del linciaggio mediatico e dell’isolamento morale. Esso fa parte della guerra culturale e psicologica del comunismo, che in Occidente ha trovato in Antonio Gramsci il suo maggiore teorico. L’anticristianesimo di Gramsci è sofisticato ma implacabile. Compito del comunismo, per Gramsci, è portare al popolo quel secolarismo integrale, che l’illuminismo aveva riservato a ristrette élite. Sul piano sociale, questo secolarismo ateo viene attuato mediante una eliminazione di fatto del problema di Dio, realizzata, secondo le parole del comunista sardo, da una “completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume” , cioè attraverso un’assoluta secolarizzazione della vita sociale, che permetterà alla “prassi” comunista di estirpare in profondità le stesse radici sociali della religione. Lo Stato “laico”, a differenza degli Stati atei del passato, non ha bisogno di professarsi esplicitamente ateo. Dio, ormai espulso totalmente da qualsiasi ambito sociale, non dev’essere nominato neppure per negarlo. Il Cristianesimo deve essere rimosso dalla memoria storica e dallo spazio pubblico, per evitare qualsiasi forma di autocomprensione cristiana della società. C’è quindi una stretta coerenza tra la richiesta, recentemente fatta all’Italia, di rimuovere il Crocifisso dai luoghi pubblici e l’espunzione di ogni richiamo al Cristianesimo dal Preambolo del Trattato di Lisbona. La nuova Europa, in cui non c’è posto né per Dio né per il Cristianesimo, realizza il piano gramsciano di secolarizzazione integrale della società. Il cuore ideologico del comunismo è il materialismo dialettico: la concezione del mondo secondo cui tutto è materia in trasformazione e la dialettica è la legge del perenne divenire. I regimi comunisti sono caduti, ma il relativismo professato e vissuto dall’Occidente si fonda sui medesimi presupposti del materialismo e del relativismo, ovvero sulla negazione di ogni realtà spirituale e di ogni elemento stabile e permanente nell’uomo e nella società. Dobbiamo prendere atto del fatto che la profezia di Fatima, secondo cui la Russia avrebbe diffuso i suoi errori nel mondo, si è avverata. La decomposizione del comunismo ha putrefatto l’Occidente. Il comunismo non è riuscito però a distruggere il Cristianesimo e in esso, e solo in esso, l’Europa può ancora trovare le ragioni della sua vita e della sua speranza. Roberto De Mattei, Convegno “The Fall of Communism Conference: 1989-2009 – Lessons learned” Zagabria – 4 dicembre 2009.

Evoluzione del comunismo: la distruzione della famiglia tradizionale, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Le teorie economiche dei comunisti si sono rivelate fallimentari: ovunque applicate hanno prodotto enormi catastrofi. Tuttavia alcune idee dei socialisti e dei comunisti sulla società, sulla famiglia, sull'educazione dei figli continuano a circolare, producendo danni altrettanto gravi e una aberrante povertà morale nelle società occidentali. L'estrema deriva di questo pensiero è l'ideologia gender che sostiene la non-esistenza di una differenza biologica tra uomini e donne determinata da fattori scritti nel corpo, ma che gli uomini e le donne sono uguali da ogni punto di vista. C'è, per l'ideologia gender, una differenza morfologica ma non conta nulla ed è superabile. Per gli ideologi gender, la differenza maschile / femminile è una differenza esclusivamente culturale: gli uomini sono uomini perché sono educati da uomini, le donne sono donne perché sono educate da donne. C'è secondo Stefano Zecchi (scrittore, filosofo ed ex comunista) un motivo culturale che conduce a propagandare la filosofia gender e cioè che l’estremismo radicale con cui prima la sinistra affermava che il comunismo era la salvezza per i popoli è stato trasferito nella convinzione che i generi vadano aboliti. “Dire che i generi non sono più maschio e femmina – afferma – ma addirittura 56 tipi diversi diventa la battaglia per un’identità politica. Come prima credevano sinceramente che il comunismo salvasse il genere umano e si riconoscevano nella moralità ineccepibile, così oggi sostengono che il gender salva dall’abbrutimento. Ma così la politica diventa biologismo, selezione della specie, darwinismo deteriore. Basta leggere i loro testi”.  Sempre Zecchi sull'indottrinamento dei bambini all'ideologia gender fin dalle scuole elementari: «Mette i brividi questo tentativo di sottrarre i bambini all’educazione dei genitori, contrapponendo ai valori e alle tradizioni della loro famiglia, qualcosa di imposto dallo Stato e di aleatorio». «Una cosa degna del peggior comunismo stalinista».

Comunisti contro la famiglia. Marx e Engels avevano le idee chiare sulla famiglia. Distruggerla. E l'hanno scritto ben chiaro nel Manifesto del partito comunista, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Abolire la famiglia! Sino i più radicali s’indignano a questa esecrabile intenzione dei comunisti. Quale è la base della famiglia borghese dell’epoca nostra? Il capitale e il guadagno individuale. La famiglia non esiste allo stato completo che per la borghesia, ma essa si completa nella prostituzione pubblica, e nella soppressione delle relazioni di famiglia per il proletario. La famiglia del borghese sparisce naturalmente colla scomparsa del suo completamento necessario, e l’uno e l’altro scompaiono coll’abolizione del capitale. Ci rimproverate di volere abolire l'educazione dei fanciulli fatta dai loro parenti? Confessiamo il delitto. Voi pretendete che sostituendo l’educazione sociale all’educazione domestica si spezzano i vincoli più cari. La vostra educazione non è forse essa pure determinata dalla società, dalle condizioni sociali, nelle quali voi allevate i vostri fanciulli, dall’intervento diretto od indiretto della società coll’aiuto delle scuole, ecc.? I comunisti non inventano l’influenza della società sull’educazione, essi ne cambiano soltanto il carattere e strappano l’educazione all’influenza della classe dominante.

Comunismo e diritto all'aborto, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Le cifre sull'aborto forzato in Cina (la politica del figlio unico) sono impressionanti: si stimano 400 milioni di morti da quando è entrato in vigore l'obbligo di generare un solo figlio. In anni recenti si sono superati i 13.000.000 di aborti all'anno. Il grafico illustra bene il divario con gli altri paesi. L’aborto libero e legale, cioè riconosciuto dalla Legge come diritto, come cosa giusta, appare per la prima volta nella Storia con la Rivoluzione comunista del 1917: il comunismo parte dal presupposto arbitrario che la famiglia non sia un istituto naturale, ma un portato della Storia, un istituto artificiale. La famiglia sarebbe tipica di un mondo ingiusto e corrotto, quello "borghese", che riconosce la proprietà privata dei beni materiali e quella che per i comunisti è la «proprietà privata degli affetti», la famiglia, appunto. Per Vladimir Lenin (1870-1924), che si colloca sulla scia dei pensatori social-comunisti - Dom Deschamps (1716-1774), Étienne-Gabriel Morelly (1717-1778), Babeuf (Settecento), Charles Fourier (1772-1837) e Karl Marx (Ottocento) - abolizione della proprietà privata significa dunque anche abolizione dei rapporti familiari moglie-marito, genitori-figli: per questo introduce, coerentemente, il divorzio e l'aborto. L'aborto per i comunisti è giustificabile anche alla luce di un altro cardine del pensiero comunista: il materialismo. L'uomo, e così pure il bimbo nel ventre materno, è pura materia, senza anima e destino immortali. Le conseguenze pratiche non tardano a manifestarsi. Françoise Navailh, nella sua Storia delle donne: il Novecento, a cura di Françoise Thebaud, (Ed. Laterza 1992), scrive: «L'instabilità matrimoniale e il rifiuto massiccio dei figli sono i due tratti caratteristici del tempo. Gli aborti si moltiplicano, la natalità cala in modo pauroso, gli abbandoni dei neonati sono frequenti. Gli orfanotrofi sommersi, diventano dei veri mortori. Aumentano gli infanticidi e gli uxoricidi. Effettivamente, i figli e le donne sono le prime vittime del nuovo ordine delle cose. I padri abbandonano la famiglia, lasciando spesso una famiglia priva di risorse». Gli effetti di tale politica divorzista e abortista si vedono ancor oggi: basti pensare quanti e quanto grandi sono gli orfanotrofi negli ex Paesi comunisti (Romania, Ucraina, Bielorussia, Russia, ecc…), da cui vengono presi gran parte dei bambini adottati in Europa (adozioni internazionali). In Russia si arrivava al punto, come ha raccontato Olga Kovalenko, olimpionica in Messico nel 1968, che, come lei, «anche altre ginnaste nell'URSS venivano indotte a concepire e poi abortire, perché con la gravidanza l'organismo femminile può produrre più ormoni maschili e sviluppare più forza. Se rifiutavano, niente Olimpiadi».

Il comunismo e l'ideologia "gender", scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". In campo di morale sessuale il comunismo ha fatto una completa inversione ideologica: sotto Stalin, Mao, e altri tiranni comunisti gli omosessuali venivano imprigionati, deportati e costretti ai lavori forzati. Ora, sotto le bandiere del partito comunista, ancheggiano pederasti, lesbiche, trans e ogni altra possibile categoria di persone appartenenti a qualche devianza sessuale. Le sedi di Sel / PD / Rifondazione comunista sono piene di bandiere arcobaleno, che capovolte sono diventate l'emblema dei "gay". Sono state rimosse le foto ufficiali di Stalin, (probabilmente non quelle di Lenin o di Mao) ma campeggiano in bella vista i ritratti di Pasolini. Uno degli artefici di questa tendenza della sinistra a farsi portatrice delle rivendicazioni di sodomiti e altri deviati è Mario Mieli. Mario Mieli [Mario Mieli: comunismo e depravazione] filosofo, pederasta e comunista italiano scriveva: Il maschilismo dimostra di essere il più grave impedimento alla realizzazione della rivoluzione comunista: esso divide il proletariato e – quasi sempre – fa dei proletari eterosessuali i tutori della Norma sessuale repressiva di cui il capitale necessita per perpetuare il proprio dominio sulla specie. Gli eterosessuali maschi proletari sono corrotti: essi accettano di farsi pagare la misera moneta fallofora del sistema per tenere a freno, in cambio delle gratificazioni meschine che ne traggono, la potenzialità rivoluzionaria transessuale delle donne, dei bambini e degli omosessuali. «Noi checche rivoluzionarie sappiamo vedere nel bambino non tanto l'Edipo, o il futuro Edipo, bensì l'essere umano potenzialmente libero. Noi, sì, possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo fare l'amore con loro. Per questo la pederastia è tanto duramente condannata: essa rivolge messaggi amorosi al bambino che la società invece, tramite la famiglia, traumatizza, educastra, nega, calando sul suo erotismo la griglia edipica». In un brano del "saggio" “Gay rivoluzionario” di Mario Mieli, eroe – simbolo dell’omosessualismo, icona dell’ideologia gender in Italia: “Noi sodomizzeremo i vostri figli, simboli della vostra mascolinità debole, dei vostri sogni superficiali e delle vostre volgari menzogne. Li sedurremo nelle vostre scuole, nei vostri dormitori, nelle vostre palestre, nei vostri spogliatoi, nelle vostre arene, nei vostri seminari, nei vostri gruppi giovanili, nei bagni dei vostri teatri, nelle vostre caserme, nei vostri parcheggi, nei vostri club maschili, nelle vostre camere del Congresso, ovunque gli uomini sono insieme ad altri uomini. I vostri figli diventeranno i nostri lacchè e faranno ciò che vogliamo. Saranno plasmati di nuovo a nostra immagine. Ci desidereranno e ci adoreranno”. Mieli abbracciò il marxismo, cercando di rimodularlo sulle istanze della lotta di liberazione ed emancipazione omosessuale e ritenendo la società capitalista intrinsecamente omofoba. E' considerato il "filosofo" di riferimento di tutti quelli che si riconoscono sotto la sigla lgbt (lesbico – gay – bisex – trans).

I 100 ANNI DELLA RIVOLUZIONE. I comunisti di oggi peggio di quelli veri. I custodi del politically correct eredi dei marxisti. Vogliono un mondo di fantasia, e sono pronti a tutto per eliminare chi si oppone, scrive Marcello Veneziani il 7 Novembre 2017 su “Il Tempo”. Il 7 novembre di cent'anni fa il comunismo andò al potere a Mosca. E la storia del mondo cambiò, in peggio. Tutti celebrano da giorni la rivoluzione bolscevica, raccontano il clima e gli accadimenti di quei giorni ma nessuno ha osato fare un bilancio storico dei frutti tragici di quella Rivoluzione. Eppure il costo umano del comunismo supera quello di ogni altro regime, movimento, evento storico e perfino delle guerre mondiali. Ricordando giorni fa la Marcia su Roma i media si sono spinti fino alla Shoah che storicamente c'entra poco con l'Italia fascista del '22; parlando della Rivoluzione d'ottobre invece hanno osservato l'omertà totale sui gulag, le repressioni, i massacri, il regime totalitario e tutta la storia che seguì a quella presa del potere. Stasera, di questo e di altri Tramonti, dialogheremo a Roma con Fausto Bertinotti, comunista non pentito ma mente onesta e appassionata. Della rivoluzione bolscevica si sono registrate in questi giorni due significative rivendicazioni nostalgiche. Da una parte Mario Tronti, lucido teorico dell'operaismo, ha elogiato in Parlamento la rivoluzione leninista mentre i suoi colleghi erano presi dalla legge elettorale e lo vedevano come un marziano. La sua nota così vistosamente stonata, così fuori luogo e fuori tempo, ha acquisito perlomeno la nobiltà della sconfitta e il valore di una testimonianza decisamente fuori moda. Ancor peggio, sfidando la parodia, ha fatto Marco Rizzo, esponente dell'ultimo comunismo, che ha marciato su Mosca in una replica virtuale dell'assalto al Palazzo d'Inverno per onorare la memoria della rivoluzione russa. C'è qualcosa di grottesco, di patetico ma anche di rispettabile in questi ultimi “conati sovietici” in pieno nichilismo globale. Anche se è l'esatta applicazione di una celebre massima di Marx secondo cui la storia si presenta la prima volta come tragedia e poi si ripete come farsa. Ma come ricordare oggi il comunismo, a cent'anni dalla nascita e dopo il suo tramonto, più qualche grosso residuo come il comunismo tecno-capitalista in versione cinese? A parte la tragica contabilità delle vittime, qual è il suo bilancio storico? Quando il comunismo va al potere in ogni parte del mondo fallisce, si fa apparato poliziesco e regime repressivo, ovunque genera vittime e profughi: questo vuol dire che il difetto non è nelle singole realizzazioni o nei singoli artefici ma è proprio nell'essenza stessa del comunismo. Qual è allora il vizio d'origine del comunismo che lo ha destinato a produrre ovunque catastrofi e atroci fallimenti? È la pretesa di cambiare la natura umana, il mondo, l'umanità, di sacrificare l'uomo reale all'uomo futuro che non verrà. È la contrapposizione radicale tra la società imperfetta ma reale in cui viviamo e la società perfetta dell'utopia comunista. È l'abolizione del mondo reale per far posto al mondo migliore e venturo. Finita l'utopia e l'attesa messianica della rivoluzione salvifica, è rimasta un'eredità del comunismo: la pretesa di correggere l'umanità si è fatta politicamente corretto. Dal PC al PC, dal partito comunista al politically correct. Quello è il viaggio di ritorno del comunismo, a cui ho dedicato un'ampia parte del mio libro Tramonti, uscito il mese scorso. Dopo il comunismo, è venuto fuori questo canone ideologico ed etico, questo codice progressista dell'ipocrisia che risponde a una nuova lotta di classe dal sapore razzista: noi siamo i custodi, missionari e portatori del Politicamente corretto e chi non si conforma è fuori dalla modernità e dalla democrazia, dal progresso e dal consesso civile, merita disprezzo ed esclusione. Chi non fa parte della razza illuminata del nuovo PC merita l'infamia, va cancellato o demonizzato, e se va al potere, anche democraticamente, va processato e poi scacciato.

Questa è l'eredità primaria del comunismo, della lotta di classe, della guerra finale tra il mondo migliore e il mondo reale. Nel politicamente corretto spicca il tema dell'accoglienza. Il nuovo proletariato sono i migranti, accoglierli è la missione del comunismo prossimo venturo. O, se preferite, del catto-comunismo. Bisogna abbattere ogni frontiera, espiantare ogni legame territoriale, non porre limiti a nessun diritto, come a nessun desiderio. È il diritto di avere diritti, separato da ogni dovere. Il rigurgito dell'utopia calpesta la realtà, la natura, i legami comunitari, l'appartenenza a una civiltà, a una nazione, a una città. Il comunismo è morto ma le sue eredità sono molto pesanti. Ma dove confluiscono oggi le speranze del comunismo, i miti di Gramsci, Berlinguer e Che Guevara? Convergono sulla figura di Papa Bergoglio, visto come una specie di misericordioso vendicatore del comunismo, di don Milani giunto al pontificato, di paladino dei migranti, dei poveri e come demitizzatore, se non demolitore della tradizione cattolica. Lui visto come l'antiTrump, l'anti-Curia, lui, leader delle Ong. Su Bergoglio converge la simpatia sia dei fautori del Politically correct che i reduci del comunismo, sia gli Eugenio Scalfari che i Bertinotti. Atei si ma papisti... I sorprendenti voltafaccia della storia.

Nazismo e comunismo, scrive "Il Museo degli orrori del Comunismo". Scrive Stéphane Courtois nel capitolo introduttivo de "Il libro nero del comunismo": Il terrore nazista ha impressionato per tre motivi. Innanzi tutto perché ha toccato direttamente gli europei. In secondo luogo perché, in seguito alla sconfitta del nazismo e al processo di Norimberga ai suoi dirigenti, i suoi crimini sono stati ufficialmente designati e stigmatizzati come tali. Infine, la rivelazione del genocidio degli ebrei ha sconvolto le coscienze per il suo carattere apparentemente irrazionale, la sua dimensione razzista e la radicalità del crimine. Non è nostra intenzione istituire in questa sede chissà quale macabra aritmetica comparativa, né tenere una contabilità rigorosa dell'orrore o stabilire una gerarchia della crudeltà. Ma i fatti parlano chiaro e mostrano che i crimini commessi dai regimi comunisti riguardano circa 100 milioni di persone [si veda Il comunismo in cifre e I crimini del comunismo], contro i circa 25 milioni di vittime del nazismo. Questa semplice constatazione deve quantomeno indurre a riflettere sulla somiglianza fra il regime che a partire dal 1945 venne considerato il più criminale del secolo e un sistema comunista che ha conservato fino al 1991 piena legittimità internazionale, e che a tutt'oggi è al potere in alcuni paesi e continua ad avere sostenitori in tutto il mondo. E anche se molti partiti comunisti hanno tardivamente riconosciuto i crimini dello stalinismo, nella maggior parte dei casi non hanno abbandonato i principi di Lenin e non si interrogano troppo sul loro coinvolgimento nel fenomeno del Terrore. I metodi adoperati da Lenin e sistematizzati da Stalin [si veda Lenin maestro di Stalin nella pratica del terrore] e dai loro seguaci non soltanto ricordano quelli nazisti, ma molto spesso ne sono il precorrimento. A questo proposito Rudolf Hess, incaricato di creare il campo di Auschwitz, che sarebbe poi stato chiamato a dirigere, ricorda significativamente che la direzione della Sicurezza aveva fatto pervenire ai comandanti dei campi una documentazione dettagliata sui campi di concentramento russi, in cui, sulla base delle testimonianze degli evasi, erano descritte nei minimi particolari le condizioni che vi vigevano, ed emergeva come i russi annientassero intere popolazioni impiegandole nei lavori forzati. Il fatto che il grado e le tecniche di violenza di massa fossero state inaugurate dai comunisti e che i nazisti abbiano potuto trarne ispirazione non implica comunque, a nostro avviso, che si possa stabilire un rapporto diretto di causa ed effetto fra l'ascesa al potere dei bolscevichi e la comparsa del nazismo. [...] «Per ammazzarli bisognava annunciare: i kulak non sono esseri umani. Proprio come dicevano i tedeschi: gli ebrei non sono esseri umani. Così anche Lenin e Stalin: i kulak non sono esseri umani». E Grossman conclude, a proposito dei figli dei kulak: «Sì, proprio come i tedeschi, che soffocavano i bambini degli ebrei con il gas, perché loro non avevano il diritto di vivere, loro erano ebrei». La futura società nazista doveva essere costruita attorno alla razza pura, la futura società comunista attorno a un popolo proletario depurato da qualsiasi scoria borghese. La ricostruzione di queste due società venne progettata allo stesso modo, anche se i criteri di esclusione non furono gli stessi. E', quindi, un errore sostenere che il comunismo sia una dottrina universalistica: è vero che il progetto ha una vocazione mondiale, ma una parte dell'umanità è dichiarata indegna di esistere, esattamente come nel nazismo. L'unica differenza consiste nel fatto che la società comunista, invece di essere divisa su base razziale e territoriale come quella nazista, è stratificata in classi sociali.

No, la rivoluzione d’ottobre aveva un’idea il fascismo no, scrive Piero Sansonetti il 7 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il giudizio sull’aspetto sanguinario del comunismo non cambia quello sulla spinta che modifica il rapporto tra economia e giustizia sociale in tutto il mondo. Enrico Berlinguer, il 15 dicembre del 1981, dichiarò la fine della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre. Erano passati 64 anni dalla caduta del “palazzo d’Inverno” e dalla presa del potere da parte di Lenin e dei bolscevichi. Berlinguer si riferiva alla stretta autoritaria in Polonia, voluta dai russi, che seguiva l’invasione sovietica dell’Afghanistan, avvenuta due anni prima, e la repressione di 13 anni prima in Cecoslovacchia e molti altri episodi simili. Probabilmente però Berlinguer si riferiva anche a qualcos’altro: la svolta in atto in Occidente con la strategia del reaganismo e del thatcherismo che prendeva il posto della strategia socialdemocratica europea, e del New Deal di Roosevelt, e della nuova frontiera di Kennedy e della Great Society di Jonhson. Il mondo era entrato nell’epoca del neoliberismo, che poi è l’epoca nella quale stiamo ancora vivendo. La vittoria del neoliberismo decretava la fine dell’egemonia comunista. E modificava tutti i termini della lotta politica. Il discorso di Berlinguer, in televisione – rispondendo alla domanda di un giornalista del Messaggero, Sergio Turone – precedeva di quattro anni la svolta di Gorbaciov e di otto la caduta e la fine del comunismo. Non si può negare una capacità di intuizione e anche di analisi notevole, che sorreggeva questa presa di posizione del capo del Pci. Ma la spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre era realmente esistita? Io credo di sì. E non penso che per riconoscerla sia necessario negare, o attenuare, gli orrori del comunismo, e non solo dello stalinismo. Né che in alcun modo riflettere su questa spinta possa giustificare la crudeltà e l’ampiezza del fenomeno dittatoriale. Il leninismo, lo stalinismo, il maoismo, e le loro ricadute (Pol Pot, Ceaucescu, Deng, i vari Kim che si sono succeduti) sono sicuramente responsabili di stragi devastanti, di persecuzioni, di infamie tra le più gravi della storia dell’umanità, forse inferiori solo all’Olocausto nazifascista. Ma non è un giudizio storico o etico su quest’aspetto cupo e sanguinario del comunismo, figlio di quella rivoluzione, a poter cambiare il giudizio sulla spinta propulsiva. La rivoluzione d’ottobre, che fu la realizzazione, più o meno rozza, della teoria marxista, modifica il rapporto tra economia e giustizia sociale in tutto il mondo, e soprattutto nel mondo occidentale. Non solo in Russia: non tanto in Russia. E lo modifica per un periodo di lunga durata: circa 70 anni. Io mi pongo questa domanda: cosa sarebbe oggi il capitalismo nel quale viviamo se non ci fossero stati il rooseveltismo e la socialdemocrazia? E poi mi pongo questa seconda domanda: in che misura la socialdemocrazia e poi la corrente politica liberal americana, sono state influenzate dal comunismo, dalle sue teorie, persino dai suoi successi storici?

Credo che nessuno possa rispondere immaginandosi un capitalismo che si sviluppava in modo autonomo, senza essere influenzato dalla spinta della rivoluzione d’ottobre. Quella spinta, e il messaggio ideale (o ideologico) che portava con sé, avviluppò e condizionò l’intera politica mondiale, ed ebbe una influenza fortissima nell’orientare il liberismo e il riformismo fino all’avvento di Reagan. La guerra fredda certamente fu una lotta molto dura tra le due grandi potenze e tra le due opzioni politiche che erano in campo. E anche tra i due grandi valori che portavano: da una parte la libertà, dall’altra l’uguaglianza. I motivi per i quali quella guerra fu vinta in modo clamoroso e inequivocabile dal liberismo, sono tanti. Ma uno di essi sicuramente è la differenza nel modo con il quale i due “campi” si misurarono con l’avversario e con le sue idee. Il campo comunista non solo rifiutò di imitare l’occidente del suo culto della libertà (e della democrazia, che ne è una conseguenza), ma si chiuse ancor di più, finì per considerare la libertà il vero nemico del socialismo e dell’uguaglianza. L’occidente fece esattamente il contrario: si aprì ed entrò in competizione con il comunismo proprio sul suo terreno: quello delle politiche che tendevano a ridurre le diseguaglianze e a combattere le povertà. Non solo il riformismo europeo e americano fu profondamente influenzato dalla spinta della rivoluzione d’ottobre, ma lo stesso capitalismo ne fu fortemente condizionato e modificò su molti aspetti la sua stessa natura. E allora mi pongo un’altra domanda: quanto c’entra la crisi verticale della socialdemocrazia, e in genere della sinistra, in tutto l’Occidente, con la fine del comunismo? Io credo che c’entri molto. Perché la sinistra riformista aveva costruito se stessa come variante democratica del comunismo. La fine del comunismo l’ha lasciata senza punti di riferimento e senza la capacità di reimmaginarsi, di costruire una nuova prospettiva. Per questo non ho mai creduto che si possano mettere sullo stesso piano la rivoluzione d’ottobre e il fascismo, o il nazismo. Non perché ci siano grandi differenze nella furia totalitaria e nella ferocia dei massacri. Ma perché mi pare che sia sbagliato mettere sullo stesso piano un movimento puramente reazionario e violento, privo di una strategia, di una visione – di una utopia – come fu il nazismo, con un gigantesco fenomeno rivoluzionario, fallito, ma ricco di esperienze, d’idee, di possibilità.

Maledetto Ottobre rosso! 100 anni fa la rivoluzione russa, scrive Corrado Ocone il 7 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il comunismo ha in comune con il fascismo e il nazismo molto più di quanto le storiografie compiacenti abbiano voluto far credere. Avvalorando la tesi che il comunismo sarebbe un “bene” realizzato male, mentre il nazismo e il fascismo un male assoluto. No, entrambi sono una reazione al mondo borghese e capitalistico. Comunismo e nazismo, due totalitarismi Non dite che sono diversi! “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”, come li ebbe a definire il giornalista americano John Reed, autore di un racconto “in presa diretta” degli avvenimenti che portarono i bolscevichi di Lenin a conquistare il potere il 7 novembre di un secolo fa (25 ottobre secondo il vecchio calendario gregoriano russo), furono veramente sconvolgenti. Anche e soprattutto perché, da quel preciso momento, la storia del Novecento non fu più la stessa. Non solo in Russia, ma anche in Occidente. “Breve”, come voleva Eric Hobsbawm, o “non breve” che sia, il Ventesimo secolo ha comunque una cifra ben definita: è il secolo delle idee al potere, dell’ideologia che si fa ideocrazia, dei politici che sono intellettuali, della crisi delle società e delle istituzioni liberali e dell’avvento delle masse sulla scena del potere, del potere totalitario, della tragedia delle guerre e degli stermini di massa ( delle tante “uova rotte”, per usare una metafora di Lenin ripresa da Isaiah Berlin, senza riuscire a fare una “frittata” che a ben vedere sarebbe stata, se realizzata, indigeribile). Tutto questa storia inizia lì, in Russia, in quei giorni. Anche gli autoritarismi di destra, i nazionalismi, i fascismi, il nazionalsocialismo tedesco, generano da quel momento e da quell’episodio. E con l’operato dei comunisti sovietici, di Lenin prima e di Stalin poi, hanno molti più elementi in comune di quanto le storiografie compiacenti abbiano voluto far credere. Avvalorando addirittura la tesi che il comunismo sarebbe un “bene” realizzato male, mentre il nazismo e il fascismo un male assoluto. No, in verità, entrambi sono momenti di una comune reazione al mondo borghese e capitalistico. Né il fascismo può essere affatto considerato, giusta l’interpretazione della stessa storiografia, come una reazione di cui i capitalisti si son serviti per combattere il comunismo quando le armi della democrazia formale o borghese sono risultate spuntate. L’alleanza con le forze padronali, o meglio conservatrici, dei fascismi ci fu ma fu contingente. E, in ogni caso, essi hanno invece sempre avuto un’impronta socialista che derivava loro dal modello originale (si legga, per farsene un’idea, il capitolo intitolato Le radici socialiste del nazismo ne La via della schiavitù di Friedrich von Hayek.) Già nel 1921, quando il movimento fascista di Mussolini muoveva i primi passi in Italia, Guido de Ruggiero, che avrebbe poi pubblicato una Storia del liberalismo europeo (1925) di vasto successo internazionale, scriveva: «In verità, io, tra il rosso e il nero, non so riconoscere se non una distinzione ottica: tutto il resto è indiscernibile». Fu in ambito italiano, prima (in senso negativo) con Giovanni Amendola e poi (in senso positivo) con Giovanni Gentile che fu d’altronde usato per la prima volta, proprio in quegli anni, il termine “totalitarismo”, che dopo il secondo conflitto mondiale i cosiddetti “liberali della guerra fredda”, in primis Hannah Arendt, avrebbero reso popolare e introdotto nel comune linguaggio scientifico. Nel 1927, dal canto suo, Benedetto Croce aveva affermato, in un’intervista all’Observer, che giudicava i «nazionalismi e autoritarismi, che si oppongono al socialismo e comunismo, come un’imitazione a rovescio». Aggiungendo però, da quello studioso profondo che era stato di Marx, di cui aveva apprezzato la proposta di un canone di interpretazione storica, da usare accanto ad altri e non in modo unilaterale, e il realismo politico ( lo aveva definito il “Machiavelli del proletariato”), che, fra i due totalitarismi, «la forma seria e coerente e fondamentale rimane sempre quella marxistica». Ancora nel 1950, nel pieno della “guerra fredda”, il filosofo napoletano scriverà che «l’abito della dittatura e della rinunzia alla libertà hanno trovato una nuova forma in un partito che fu avversario del fascismo ma di cui il dittatore italiano, già comunista rivoluzionario, si era nutrito, in modo che la sua era stata un’imitazione del comunismo, dalla quale era agevole risalire all’originale. Solo gli accidenti e le avventure portarono il Mussolini a diventare nemico del comunismo, al quale sarebbe volentieri tornato se avesse potuto e se ne avesse avuto il tempo». Ovviamente, chi più di tutti, nell’ambito della storiografia, si è impegnato a sottolineare le affinità e la dipendenza genetica fra i due totalitarismi è stato, nel secondo dopoguerra, lo storico tedesco Ernst Nolte, che non a caso, dopo aver definito “guerra civile europea” quella scatenata nel 1917 dalla Rivoluzione d’ottobre e durata fino al 1945, ha parlato del secondo dopoguerra, fino alla definitiva caduta nel 1989 del comunismo, come di un periodo di “guerra civile mondiale” ( seppur “fredda”). Resta così confermato che il “socialismo reale”, il comunismo realizzato, ha segnato l’intero secolo, con la sua presenza oppressiva e sempre più ampia (interessando molti altri Paesi al di fuori dell’Unione Sovietica). Esso non solo ha soffocato la libertà individuale dei cittadini delle nazioni che l’hanno conosciuto, ma non ha nemmeno realizzato nessuna delle promesse di giustizia che aveva fatto. Non è un caso: il comunismo, lungi dall’essere «un umanismo di giustizia sociale» (sic!), come ha recentemente scritto una sprovveduta firma del Corriere della sera (Donatella Di Cesare, 17 luglio), è un progetto, nella sua essenza, antivitale e antiumano. E che, pertanto, è corrotto nell’essenza, ab origine (l’autrice, per corroborare le sue tesi, osserva ovviamente che «la corruzione di un progetto non è il progetto stesso»). Ora, a parte il fatto che Marx non ha inteso mai essere un “puro filosofo”, e anzi ha instaurato un rapporto di stretto legame dialettico fra teoria e prassi, continuato un po’ da tutti i suoi epigoni, a cominciare da Lenin, non si può certo dire che il comunismo che egli aveva in testa fosse altra cosa rispetto a quello effettivamente messo in pratica dai bolscevichi e in genere nel Novecento. Il quale tutto è da considerare fuorché una perversa deviazione dalla via maestra o da un presunto “comunismo vero” e, casomai, come dicono alcuni, ancora tutto da realizzare. Certo, instaurando un rapporto necessitante fra pensiero e azione, è pur vero che Lenin (sulla scia di pensatori come Giovanni Gentile) sviluppa il marxismo in una determinata direzione, che potremmo definire attivistica e rivoluzionaria. Quella direzione era però già presente in Marx come una delle possibili e legittime. Il fatto che il marxismo si sia dimostrato errato, e foriero di fallimenti tragici “in pratica”, chiama in causa la “teoria” e non significa affatto che essa errata non fosse e che in qualche modo possa essere “salvata”. «Il male nel caso del marxismo scrivevo in conclusione del mio Karl Marx pubblicato per Luiss nel 2007- non è tanto nella mente e nelle azioni degli epigoni ma è già tutto nel pensiero e nell’azione del suo padre fondatore». Il “peccato originale” del marxismo è, da una parte, di ordine logico, dall’altra, di natura antropo- ontologica, diciamo così. Dal primo punto di vista, l’esperienza sovietica ci ha mostrato nella “prassi” ciò che è vero in “teoria”: cioè che ogni “costruttivismo” politico o “economia di piano”, come ci hanno insegnato, fra gli altri e meglio degli altri, i pensatori della “scuola austriaca” dell’economia (da Carl Menger a Ludwig von Mises e Hayek), è tanto impossibile quanto irrazionale. Oltre a presupporre di necessità l’introduzione di quella forma di coercizione che Marx aveva previsto, definendo “dittatura del proletariato”, e che nei paesi del comunismo realizzato è diventata prassi politica comune. Marx e i comunisti, d’altra parte, non hanno però fatto i conti fino in fondo nemmeno con la “natura” dell’essere umano, tanto che, io credo, soprattutto da questo punto di vista, l’Ottobre deve, a cento anni di distanza, fungere per tutti noi da ammonimento. Essi hanno infatti elaborato un sistema di pensiero e di azione “che indica come obiettivo da realizzare una società senza più conflittualità. Un obiettivo non solo irrealistico, ma alla fine nemmeno auspicabile. Una realtà conciliata con se stessa sarebbe una realtà senza più spirito vitale”, cioè in cui è venuta meno quella molla che fa andare costantemente avanti, ed essere e vivere, l’umanità”. Spostando poi il discorso, altre domande sorgono naturali. L’Ottobre ha almeno favorito il progresso delle condizioni materiali e morali delle masse nel mondo intero? Ha contribuito alla diminuzione della povertà assoluta e delle ingiustizie relative a cui pure, fra tante tragedie, abbiamo assistito nel corso del secolo scorso? In molti, in questi giorni, affermeranno questa tesi. Ed è indubbio che, tenendosi nella realtà tutto, anche la “rivoluzione comunista”, infiammando e spingendo all’azione, o semplicemente per reazione da parte di chi aveva il potere, ha finito per contribuire ai progressi del secolo. Ha funzionato come mito e come elemento utopico, senza dubbio. Quei progressi si sono però tutti o quasi tutti realizzati nella cornice della “società aperta” e delle istituzioni liberal- democratiche. Non poteva essere altrimenti. Ed è comunque un fatto, “duro e solido” come era sempre per Marx la realtà. Un fatto che non può continuare ad essere rilevante per tutti gli uomini pensanti e responsabili.

Radici giacobine del Fascismo. «Di quale “contemporaneità” Spengler ritenesse degna la mia rivoluzione, non mi spiegò (...) Sarei stato fiero se egli avesse appaiato temporalmente, ideologicamente, il fascismo ai sogni giacobini di Robespierre, di Saint-Just, di Rossel, di Cipriani, i puri della rivoluzione militante (…)». B. Mussolini, in Y. De Begnac, "Taccuini mussoliniani", Bologna 1990, pag. 598

«Mussolini non si stanca di celebrare sempre di nuovo la Comune di Parigi, “sangue fecondo, sangue che ci è sacro”. Solo il sangue porta avanti la storia (…) Per Mussolini quella che Marx e Lenin considerano una visione scientifica del corso necessario della storia (…) si costituisce come una “fede” (…) “Nessuna vita senza spargimento di sangue”». E. Nolte, "Il giovane Mussolini", Varese 1993, pp. 22-63.

«Non sorprende che, nelle conversazioni con Emil Ludwig, Mussolini citi Blanqui. Il rivoluzionario francese, una citazione della quale sarà da lui posta come motto nella testata del “Popolo d’Italia” nel 1915, non è forse l’erede di una sinistra giacobina incarnata da Babeuf in Francia e da Buonarroti in Italia, e che coniuga radicalismo repubblicano, comunismo utopistico e patriottismo rivoluzionario?» P. Milza, "Mussolini", Roma 2000, pp. 42-43

Le radici del fascismo, scrive Marxpedia. Gramsci è il primo all'interno del partito socialista a formulare la possibilità dell'affermarsi della reazione fascista. E se questo avviene, è perché il gruppo dell'Ordine Nuovo è l'unico nell'intero partito socialista a rendersi conto dell'importanza della sconfitta subita dal proletariato nell'aprile del 1920 a Torino. Una sconfitta che non dice la parola fine sulle possibilità rivoluzionarie in Italia, ma da cui è necessario trarre tutte le conseguenze. Sull'Ordine Nuovo dell'8 maggio 1920, viene pubblicata la nota “Per un rinnovamento del partito socialista”: La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: - o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa di produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria o governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito Socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i Sindacati e le Cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese. Quanto scritto troverà una drammatica e rapida conferma. Ciò che è successo a Torino ad aprile, si ripete in tutta Italia a settembre con un'ondata di occupazioni di fabbriche. La sconfitta di tale movimento per le mancanze della direzione del partito socialista, insieme alle numerose sconfitte subite dai contadini nelle campagne, apre le porte all'improvvisa ascesa dello squadrismo fascista. Il fascismo quindi non è una fatalità storica. Né è il frutto della natura reazionaria di un solo particolare blocco della borghesia. E' la convulsione del sistema in crisi, la reazione di fronte alla possibilità di una rivoluzione. Ma tale reazione non si attenua con lo scemare del movimento rivoluzionario, come la fiamma del fornello si abbassa diminuendo il gas. E' costante illusione del riformismo che la controrivoluzione si limiti, limitando la rivoluzione. Ma entrambe sono la dimostrazione del fatto che gli equilibri sono rotti. La società è condannata ad un balzo in avanti o alla peggiore regressione. E' nel solco di questa idea che Gramsci inizia ad analizzare la decadenza della democrazia borghese italiana. Scrive alla nascita del Ministero Giolitti: la democrazia parlamentare perde le sue basi di appoggio, il paese non può essere più governato costituzionalmente, non esiste e non potrà più esistere una maggioranza parlamentare capace di esprimere un ministero forte e vitale, che abbia cioè il consenso dell’ “opinione pubblica”, che abbia il consenso del “paese”, cioè delle classi medie. La democrazia borghese è solo una delle forme di dominio del capitalismo. La piccola borghesia è il principale lubrificante di tale particolare meccanismo di Governo. L'arena della piccola borghesia non può essere la grande lotta sociale, perché su questo terreno essa non ha alcuna grande controparte. Non ha sotto di sé enormi masse di proletari da affossare, né può lottare direttamente contro il grande capitale la cui oppressione le si presenta sotto la forma impersonale del mercato. Il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato le impediscono di crescere e trasformarsi in grande capitale. Il rafforzamento del grande capitale la conducono al fallimento e la proletarizzano. La via economica le è dunque preclusa. Per questo, scarica la propria energia - e nella gran parte dei casi la propria frustrazione - sul terreno della politica. Per questo l'unico terreno che le appare degno di conquista è quello dello Stato. Lo tira per la giacchetta in un senso o nell'altro. E' anarchica quando lo Stato deve sparire per lasciare spazio ad un mondo privo di tasse. Ed è allo stesso tempo la sostenitrice di uno Stato forte, perché i suoi piccoli affari non possono sopportare lunghi periodi di turbamenti. Tale ceto si autoproclama medio, perché ritiene di non avere né i difetti dei lavoratori salariati né quelli del grande capitale, pur sentendosi dotato delle qualità di entrambi i poli della società. Si ritiene l’anello di congiunzione in grado di rappresentare l'intera società. Ma in questo suo rappresentare tutti, c'è in realtà il suo non rappresentare nulla. Ogni qual volta si tratta di grandi lotte economiche e sociali, torna a rivelarsi uno zero. Ha un reddito insufficiente per impossessarsi delle leve economiche della società, ma sufficiente per sostenere la propria promozione sociale. Dal suo seno vengono notabili, avvocati, giornalisti. Per ogni grande avvocato al servizio di un grande capitalista, per ogni parlamentare in contatto con i salotti dell'alta borghesia, per ogni amministratore di una grande azienda, esistono migliaia di piccoli avvocati, notabili, consiglieri comunali e piccoli tecnici d'azienda. Un intero pulviscolo atmosferico che non vive di vita propria, ma riesce a depositarsi in ogni poro della società. E in questo sta la sua utilità. Pur non potendo giocare alcun ruolo indipendente, permea la società e trasmette capillarmente l'ideologia dominante ai ceti oppressi.

La crisi della democrazia borghese è quindi prima di tutto la crisi della piccola borghesia. La delusione per la prima guerra mondiale e le sue sirene nazionaliste, l'enorme aumento del carico fiscale, la spietata concorrenza del grande capitale in crisi, determinano un distacco della piccola borghesia dal meccanismo democratico e parlamentare. Scrive Gramsci nel 1921: La piccola borghesia perde ogni importanza e scade da ogni funzione vitale nel campo della produzione con lo sviluppo della grande industria e del capitale finanziario: essa diventa pura classe politica e si specializza nel “cretinismo parlamentare”. (...) [Ma] il Parlamento diviene una bottega di chiacchiere e di scandali, diviene un mezzo al parassitismo. Corrotto fino alle midolla, asservito completamente al potere governativo, il Parlamento perde ogni prestigio presso le masse popolari. Le masse popolari si persuadono che l'unico strumento di controllo e di opposizione agli arbitrii del potere amministrativo è l'azione diretta, è la pressione dall'esterno. Tra il 1919 e il 1920 la piccola borghesia si avvicina alla rivoluzione socialista. E' disponibile a dare credito all'azione del proletariato e della sua organizzazione politica, ad aiutare o semplicemente restare neutra di fronte ai tentativi di rovesciare l'ordine esistente. Quando la rivoluzione fallisce, però, la classe operaia non perde solo per sé, ma perde anche l'appoggio di tutti i settori oppressi della società: [la piccola borghesia] avendo visto che la lotta di classe non è riuscita a svilupparsi e a concludersi, nuovamente la nega, nuovamente si diffonde la persuasione che si tratti di delinquenza, di barbarie, di avidità sanguinaria. La reazione, come psicologia diffusa, è un portato di questa incomprensione. La piccola borghesia non può tollerare di essere stretta a lungo nella morsa tra lotta operaia e dominio del grande capitale. Per sopravvivere alla crisi, ha bisogno che una di queste due forze vinca in maniera definitiva. O con il proletariato per liberarsi dall'oppressione dello Stato e dei debiti verso le banche, o con la grande borghesia contro qualsiasi forma di sciopero o rivendicazione sindacale: questo è il bivio. Nel 1920 la rivoluzione è fallita, dimostrandosi incapace di sciogliere questo nodo. Per la piccola borghesia non vi è nessun ritorno al vecchio parlamentarismo, ma direttamente il passaggio alla controrivoluzione. Qua sta la peculiarità del fascismo. Per la prima volta, la piccola borghesia sembra trovare una propria forza autonoma nella società. Egemonizza l'esasperazione sociale dei ceti oppressi con una fraseologia ribelle e pseudo-rivoluzionaria. Con tale fraseologia incendia l'immaginazione e avvolge i settori più arretrati del movimento operaio e contadino, lega a sé il sottoproletariato. Il disoccupato entrando nelle bande fasciste sente di poter dominare la società. Da reietto è improvvisamente invitato a mangiare al tavolo del padrone. Da ricercato della polizia, ha improvvisamente accesso alle sue grazie. Tuttavia né piccola borghesia né sottoproletariato possono giocare un ruolo autonomo. Il loro ruolo non è in ultima analisi preponderante in una società basata sui grandi mezzi di produzione. Il piccolo commerciante dipende dalla banca, vende nel proprio negozio i prodotti della grande produzione e non ha potere di determinare le scelte di un intero Stato come fanno i grandi gruppi industriali. Il sottoproletario può costituirsi in banda fascista ma ha bisogno di una forza esterna che lo finanzi. La sua azione può mantenersi indipendente solo per un periodo breve: [la piccola borghesia] scimmieggia la classe operaia, scende in piazza (...). si era asservita al potere governativo attraverso la corruzione parlamentare, muta [ora] la forma della sua prestazione d'opera, diventa antiparlamentare e cerca di corrompere la piazza. (...) il proprietario per difendersi, finanzia e sorregge una organizzazione privata la quale per mascherare la sua reale natura deve assumere atteggiamenti politici “rivoluzionari”. (...) [Ma] Sviluppandosi il fascismo si irrigidisce intorno al suo nucleo primordiale, non riesce più a nascondere la sua vera natura. (...) La piccola borghesia anche in questa ultima incarnazione politica (...) si è dimostrata nella sua vera natura di serva del capitalismo e della proprietà terriera, agente della controrivoluzione. Dunque il fascismo non è una forza borghese qualunque. E' “un movimento sociale, l'espressione organica della classe proprietaria in lotta contro le esigenze vitali della classe lavoratrici”. [6] Non attacca le organizzazioni del movimento operaio per ciò che dicono o per ciò che vogliono, ma direttamente per ciò che sono. Eppure il fascismo non minaccia solo le organizzazioni della classe ma anche la democrazia borghese che indirettamente ne permette l'esistenza. Non deve solo spezzare i picchetti operai con lo squadrismo, ma anche abrogare il diritto di sciopero. Non deve solo colpire la stampa operaia, ma anche il diritto democratico borghese alla libertà di stampa. La sua azione si pone fuori dalla legalità esistente, seppure tale legalità rimanga solo e soltanto di origine borghese. Non esiste quindi una contraddizione tra i fascisti e il parlamentarismo borghese, tra Mussolini e Giolitti? Non esiste uno scontro tra squadrismo e forza pubblica statale? Non devono i comunisti difendere la seconda in contrapposizione al primo? Non devono in ultima analisi allearsi con la democrazia borghese contro la repressione fascista? La risposta di Gramsci è categoricamente negativa. La democrazia borghese non entra in crisi perché minacciata dal fascismo, ma è la decomposizione stessa della democrazia borghese a fornire la base della minaccia fascista. Il fascismo è l'annuncio che per la borghesia anche la propria stessa democrazia rappresenta un costo eccessivo. Legandosi mani e piedi alla borghesia democratica, le forze del movimento operaio non possono che essere travolte dal suo stesso processo di disgregazione: il partito socialista (...) è oggi il massimo esponente e la vittima più cospicua del processo di disarticolazione (...) che le masse polari italiane subiscono come conseguenza della decomposizione della democrazia. Gramsci si spinge a dire: “è una premessa necessaria per la rivoluzione che anche in Italia avvenga la completa dissoluzione della democrazia parlamentare”. Ma forse finché resiste Giolitti non c'è speranza di evitare l'avvento di Mussolini? Finché resiste il diritto borghese democratico, con il suo contorno di Carabinieri, Polizia, guardie regie, non si può sperare che tutto questo funga da barriera contro l'illegalità fascista? La democrazia borghese non può fermare l'avanzata fascista perché non ha forze su cui contare. Ha perso l'appoggio della piccola borghesia e non ha i favori del grande capitale. Quest'ultimo ha deciso ormai per l'opzione fascista. Nel campo del parlamentarismo, rimangono solo generali senza esercito: vecchi senatori, grandi intellettuali che hanno speso la propria vita a reprimere il proletariato in nome della legalità costituita e che ora invocano l'intervento del proletariato stesso a difesa di tale legalità. La loro ultima funzione consiste nel proporre una tregua al movimento operaio, immobilizzandolo; propagandano l'illusione che, difendendo lo Stato, si convincerà lo Stato a rivolgere le proprie armi contro il fascismo. Ma ribadisce Gramsci: Giolitti è impotente (...) perché a Bologna, a Milano, a Torino, a Firenze, i suoi funzionari sostengono il fascismo, armano i fascisti, si confondono coi fascisti; perché in tutti questi centri il fascismo si confonde con la gerarchia militare, perché tutti in questi centri il potere giudiziario lascia impunito il fascismo. E di fronte al Governo Bonomi insiste: Il nuovo presidente del Consiglio, onorevole Bonomi, è il vero organizzatore del fascismo italiano. (...) egli viene dal socialismo. La borghesia si affida a questi uomini appunto perché hanno militato e capeggiato nel movimento operaio; essi ne conoscono le debolezze e sanno corrompere gli uomini. L'avvento di Bonomi al potere, dopo l'ingresso dei fascisti in Parlamento, ha questo significato: la reazione italiana contro il comunismo da illegale diventerà illegale. Tra Stato e partito fascista, tra squadrismo e Carabinieri, tra legalità democratico borghese e illegalità fascista, non vi è totale identità. Ma non vi è nemmeno contrapposizione frontale. Vi è un rapporto dialettico. L'una si trasforma nell'altra. Si sorreggono, si compenetrano, per arrivare ad una sintesi reciproca: Il fascismo è la fase preparatoria della restaurazione dello Stato (...); il fascismo è l'illegalità della violenza capitalistica: la restaurazione dello Stato è la legalizzazione di questa violenza: è nota legge storica che il costume precede il giudice. (...) Il fascismo ha assaltato le Camere del Lavoro e i municipi socialisti: lo Stato restaurato scioglierà “legalmente” le Camere del Lavoro e i municipi che vorranno rimanere socialisti. Il fascismo assassina i militanti della classe operaia: lo Stato restaurato li manderà “legalmente” in galera e, restaurata anche la pena di morte, li farà “legalmente” uccidere. E ancora: La conquista del suffragio alle masse popolari è apparsa agli occhi degli ingenui ideologi della democrazia liberale la conquista decisiva per il progresso sociale dell'umanità. Non s'era mai tenuto conto che la legalità aveva due facce: l'una interna, la sostanziale, l'altra esterna, la formale. (...) La realtà ha mostrato nel modo più evidente che la legalità è una sola ed esiste fin dove essa si concilia con gli interessi della classe dominante (...). Il giorno in cui il suffragio ed il diritto di organizzazione sono divenuti mezzi di offesa contro la classe padronale, questa ha rinunziato ad ogni legalità formale. (...) E' sorto così il fascismo, il quale si è affermato ed imposto, facendo dell'illegalità la sola cosa legale. Deve quindi il movimento operaio rinunciare alla difesa della democrazia, seppur borghese? No, ma deve avere chiaro che tale difesa non significa perdere la propria indipendenza di classe a favore di un'alleanza con le forze democratico-borghesi. Queste sono solo un'ombra del passato. Lo Stato “democratico” passa armi e bagagli al fascismo. Le rivendicazioni democratiche sono proprio per questo da includere con ancora più forza nel programma comunista. Ma lo scopo di tale inclusione non è quella di ravvivare nuovamente le illusioni democratiche delle masse, ma al contrario di demolirle. Facendo propria la lotta democratica, i comunisti dimostrano che solo la lotta contro il capitalismo può fornire una base al mantenimento della democrazia. Il bivio è lo stesso delineato nell'aprile del 1920, o fascismo o rivoluzione: Ed ecco giustificata la tesi comunista che il fascismo, come fenomeno generale, come flagello che supera la volontà e i mezzi disciplinari dei suoi esponenti, con le sue violenze, coi suoi arbitri mostruosi, con le sue tanto sistematiche quanto irrazionali distruzioni, può essere estirpato solo da un nuovo potere di Stato, da uno Stato “restaurato” come intendono i comunisti, cioè da uno Stato il cui potere sia in mano al proletariato, l'unica classe capace di riorganizzare la produzione e quindi tutti i rapporti sociali che dipendono dalla produzione. Nel 1921 non ci sono dubbi su cosa Gramsci intenda per “nuovo potere di Stato”: uno Stato operaio basato su una democrazia di natura consiliare e sulla nazionalizzazione dei principali mezzi di produzione. Cambiò idea a riguardo? Era quella solo una concezione infantile destinata ad essere abbandonata con il tempo? Se c'è stato un momento in cui tale abbandono sarebbe potuto sembrare giustificato, questo momento è l'Aventino. Nel 1924, infatti, sembra destarsi un fronte democratico borghese in opposizione al fascismo. Non era quindi il caso di abbandonare ogni analisi precedente e lanciarsi nelle braccia di un blocco nazionale democratico?

Lo Stato corporativo e le radici socialiste del fascismo italiano, scrive Giuseppe Comper il 28 ottobre 2015 su "Il Secolo trentino". Destra e Sinistra, fascismo e socialismo: oggigiorno, soprattutto nella nostra Italia, quando vengono nominate queste due ideologie socio-politiche le si accostano a precise immagini mentali e concettuali, oltre che iconografiche, in riferimento al proprio soggettivo punto di vista: c’è chi parla del fascismo con nostalgia e chi ne parla con veemenza nei suoi confronti, come c’è chi racconta il socialismo con fierezza ed orgoglio e chi invece criticandolo sotto ogni aspetto. Interessante è constatare che ancora oggi spesso (non sempre) chi si identifica con la Destra necessariamente e a priori attacca la Sinistra, così come chi si colloca a Sinistra aborra tutto ciò che viene dalla Destra. Come se fascismo e socialismo fossero due mondi opposti e inconciliabili tra loro, come se non avessero nulla in comune e nulla di che spartire culturalmente l’uno con l’altro. Pensiero pressoché errato, guidato da luoghi comuni e leggende metropolitane createsi intorno a queste due ideologie, poiché se si studia più in profondità la materia si vedrà che fascismo e socialismo, Destra e Sinistra, non sono sempre e comunque poi così diversi. E la storia offre molti spunti da cui partire nell’analisi di questa riflessione. In politica economica infatti lo Stato fascista italiano di Benito Mussolini e quello socialista russo di Vladimir Lenin non differivano in quasi nulla: entrambi i modelli presentavano una forte centralizzazione del potere statale, nonché la progressiva nazionalizzazione delle imprese economiche. In ambedue i sistemi insomma lo Stato si faceva carico della vita civile ed economica della società – non per nulla si parla di “capitalismo di Stato”, non diversamente dall’attuale Cina comunista. Infatti nel 1939 l’Italia risultava essere uno tra i Paesi con il più alto numero di imprese nazionalizzate – seconda solo alla Russia, appunto. Sia nello Stato corporativo fascista sia in quello socialista il concetto di “individuo assestante” era sostituito da quello di “individuo all’interno ed al servizio dello Stato”, ossia della propria comunità. Così come, vicendevolmente, lo Stato doveva porsi al servizio dei cittadini. «Il cittadino nello Stato fascista non è più un individuo egoista che detiene il diritto antisociale di ribellarsi contro ogni legge della Collettività», scriveva infatti lo stesso Mussolini nella sua autobiografia del 1928, rendendo immancabilmente chiara la sua avversione al capitalismo liberale. Difatti nell’Italia fascista scioperi e serrate erano vietati per legge, poiché lo Stato doveva porsi come coordinatore delle relazioni lavorative all’interno delle aziende: i conflitti sociali andavano gestiti e risolti, non accentuanti con scontri violenti e che minassero all’unità nazionale. Non solo: molte delle riforme economiche attuate dal fascismo italiano e dal socialismo russo sono state riprese nel Dopoguerra non solo dai due Paesi interessati, ma anche da altre nazioni occidentali. Per fare solo un esempio, la nascita del Welfare State, o Stato Sociale, nella democraticissima Inghilterra, misura economica che prevedeva l’assistenza e la sussistenza dei cittadini da parte dello Stato, con un ovvio incremento della spesa pubblica a discapito (leggero o pesante) dell’imprenditoria privata. Misura economica elaborata e messa in pratica non dalla Destra conservatrice, ma dalla Sinistra laburista britannica. Non è da scordarsi che Benito Mussolini proveniva in effetti dal mondo della matrice di Sinistra italiana, dei quali ideali lo stesso Duce rivendicò di non aver mai abbandonato: iniziato come militante dello storico PSI, divenne in seguito direttore del giornale di partito Avanti!. La sua carriera all’interno del Partito Socialista arrivò a concludersi quando venne espulso per i suoi moniti interventisti e nazionalisti durante la Prima Guerra Mondiale. Ma la cultura di cui si era fatto portavoce in epoca giovanile la si può osservare anche e soprattutto quando arrivò al governo del Paese, tant’è che il modello di Stato corporativo di cui il PNF si fece ideatore intendeva porsi come “terza via” tra lo Stato liberale individualistico e quello socialista, tentando di abbattere i limiti di entrambi i modelli. In conclusione, la lezione che questa volta la storia insegna è di non farsi ingannare dai nomi e dai colori politici. Spesso e volentieri bianco e nero – o, in questo caso, Rosso e Nero – non sono poi così diversi l’uno dall’altro: possono mostrare sfumature che accomunano più idee, seppur provenienti da mondi apparentemente agli antipodi. Giuseppe Comper

Socialismo nazionale. Nazionalismo di sinistra. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il socialismo nazionale, parte del nazionalismo di sinistra, è una forma di socialismo sorta come ideologia politica per la prima volta in Italia alla vigilia della prima guerra mondiale. Interessò soprattutto il primo Novecento in Europa e in Italia trovò in parte rappresentanza con il fascismo delle origini e successivamente con la RSI. Nel dopoguerra, è stato presente all'interno della galassia del neofascismo, del socialismo italiano, del giustizialismo e del socialismo arabo. A livello mondiale è stato o è principalmente rappresentato da alcuni nazionalismi, ad esempio dal socialismo italiano di stampo garibaldino, dal peronismo argentino o dall'estremizzazione del nazionalsocialismo tedesco (seppure fosse realmente portato avanti solo dall'ala sinistra del NSDAP, poi confluita nel Fronte Nero di Otto Strasser).

Dottrina. L'ideologia si proponeva di coniugare socialismo e nazionalismo, con una posizione definita "nazional-rivoluzionaria" in contrapposizione sia al capitalismo nella politica economica, sia all'internazionalismo marxista (definito “nemico delle patrie e dei più elementari valori nazionali"). L'ideologia riprendeva elementi del pensiero del nazionalismo sociale di Enrico Corradini, del sindacalismo rivoluzionario del francese Georges Sorel e del socialismo patriottico di Carlo Pisacane. Con il Fascismo ebbe riferimenti nella Carta del Lavoro, nel sindacalismo fascista, e nella legislazione sociale fascista, mentre nella "Repubblica Sociale Italiana" mantiene le radici legate agli aspetti rivoluzionari e anticapitalisti, nell'ambito della ricerca della "terza via". Nel secondo dopoguerra fu identificato come la linea politica seguita dal Partito Socialista Italiano di Bettino Craxi in Politica estera. La versione "craxiana" del Socialismo nazionale si configurò come una dottrina di stampo patriottico legata agli ambienti della sinistra democratica.

In Italia. In Italia già nel 1910 Enrico Corradini, parlò di un nazionalismo che doveva anche essere "nazionale" in economia. I fermenti “social-nazionalistici” si manifestarono oltre che con la guerra italo-turca del 1912, soprattutto alla vigilia della prima guerra mondiale da parte di esponenti socialisti che in rottura con il partito si proclamarono interventisti, rivendicando ideali patriottici della tradizione risorgimentale, con l'obiettivo di completare l'unificazione dell'Italia, sia in quanto ritenevano che soltanto dalla guerra vittoriosa sarebbe potuta nascere la scintilla della rivoluzione sociale, che avrebbe completamente annientato il sistema “borghese” ottocentesco della Belle Époque. Tra coloro che si fecero notare in prima linea nella “battaglia” social-nazionale, figurarono oltre all'ex socialista massimalista Benito Mussolini, altri personaggi di spicco, tra cui sindacalisti come Filippo Corridoni, esponenti del Futurismo come Filippo Tommaso Marinetti, socialisti irredentisti come Cesare Battisti, che si raccolsero intorno al nuovo giornale diretto da Benito Mussolini, Il Popolo d'Italia, e nella formazione da lui stesso formata, il Fascio d'azione rivoluzionaria, nato per cercare di riunire tutta la sinistra nazionale interventista. Dopo la prima guerra mondiale il cosiddetto "socialismo nazionale" sviluppò l'idea della vittoria mutilata e rivolse attenzione alle condizioni dei reduci. Tali idee si concretizzarono nel 1919 nella fondazione a Milano dei Fasci italiani di combattimento mussoliniani, e nel suo manifesto. Il programma di San Sepolcro, dove oltre a rivendicare Fiume e la Dalmazia, si tratteggiavano politiche di profondo cambiamento: tutti valori riproposti altresì con l'Impresa di Fiume e la Carta del Carnaro di Gabriele D'Annunzio. Fra il '19 e il '22 il movimento fascista, consolidatosi attraverso l'appoggio del grande capitale industriale e degli agrari, lanciò un'offensiva violentissima contro sedi, organi di stampa e dirigenti del movimento socialista, dei partiti della sinistra e delle organizzazioni dei lavoratori e dei contadini. Dopo la Marcia su Roma del 1922 (simbolo della Rivoluzione fascista) e la fusione con i conservatori nazionalisti dell'Associazione Nazionalista Italiana (ANI), il regime perse la sua connotazione socialista indirizzandosi verso la creazione di un vero e proprio Stato totalitario-corporativo, adottò in campo socio-economico il corporativismo, con la Carta del Lavoro del 1927, invece che il socialismo. In materia estera il regime fascista puntò alle colonie, con una chiara l'ambizione imperialistica e anche per dare una valvola di sfogo alla disoccupazione e alle misere condizioni di larga parte dei contadini, che il regime non era in grado di migliorare. Allo stesso tempo il secondo conflitto mondiale fu dipinto dalla retorica fascista come lo scontro dell'"Italia proletaria e fascista", del “sangue contro l'oro”, ossia agitando la “bandiera” della "guerra rivoluzionaria" delle Nazioni proletarie; Italia e Germania, contro le “plutocrazie reazionarie” occidentali. Dopo la caduta del regime nel 1943, con la creazione della Repubblica Sociale Italiana e con la nascita del nuovo Partito Fascista Repubblicano i principi "antemarcia" del fascismo, furono ripresi nel Manifesto di Verona dove vennero bruscamente riprese le antiche istanze para-socialisteggianti e movimentiste del vecchio programma di San Sepolcro. È forse opportuno ricordare fra l'altro, che proprio all'interno della Repubblica Sociale Italiana, Mussolini appoggiò, la nascita di un Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista (R.N.R.S.); con a capo l'ex socialista Edmondo Cione, e altri ex socialisti "mussoliniani" come Carlo Silvestri, sindacalisti rivoluzionari come Pulvio Zocchi, che nonostante non si dichiarassero apertamente fascisti, e dichiarassero autonomia dal PFR, cercavano di fornire una copertura "da sinistra" al nuovo regime montato dal Terzo Reich. O come Nicola Bombacci, uno dei fondatori del Partito Comunista d'Italia. A tale Raggruppamento, fu anche concesso dal governo e da Mussolini la stampa di un proprio quotidiano politico l' "Italia del Popolo"; (nome consigliato dallo stesso Mussolini, per ricordare il vecchio giornale di Giuseppe Mazzini).

La RSI aveva nel suo programma la riforma della socializzazione delle imprese e dell'economia, per la cui stesura Mussolini aveva attivato Bombacci, che sarà poi fucilato a Dongo insieme a Mussolini.

In Germania. In Germania il socialismo tedesco ha spesso coniugato anche la visione nazionalistica del Pangermanismo, con Oswald Spengler che nel suo "Socialismo e Prussianesimo" nel 1919 vagheggiava di un "socialismo antiegualitario, gerarchico, comunitario", come Arthur Moeller van den Bruck o Werner Sombart nel suo "Socialismo tedesco". Negli anni venti nasce in Germania anche il Nazionalbolscevismo. Ma è il Nazionalsocialismo, che trae origine dal partito politico guidato dal suo ideologo principale Adolf Hitler, l'NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, "Partito operaio nazionalsocialista tedesco"), ed è basato su un programma politico indicato da questi nel libro Mein Kampf a incarnare il "Socialismo nazionale" tedesco. Il nazismo esprime una forma nazionalista e totalitaria con mire operaiste, opposta al socialismo internazionale di stampo marxista e si concretizzò quale reazione alla disuguaglianza economica nella società liberista tedesca della Repubblica di Weimar. Come per il fascismo, anche nel nazismo delle origini è presente - anche se non egemone - una componente ideologica di stampo collettivistico e socialisteggiante, che attirò consensi addirittura da parte di militanti del Partito Comunista Tedesco. Il partito nazionalsocialista era contro il potere delle corporazioni transnazionali. Questa semplice posizione anti-corporativa è condivisa da molti partiti di centro-sinistra così come da molti gruppi politici che si rifanno al socialismo libertario. L'abolizione degli interessi sui prestiti all'agricoltura e il divieto di tutte le speculazioni sulla terra." Tra i punti programmatici i principi del “Blut und Boden” (“Sangue e terra”) e del “Brot und Arbeit” (“Pane e Lavoro”) che vedeva nello stato il garante supremo della prosperità economica della nazione, della sicurezza lavorativa dei cittadini, dell'abolizione delle disparità salariali, del mantenimento della pace sociale, del giusto profitto degl'industriali, del controllo ferreo delle banche e delle finanze.

Altri paesi. Le esperienze italiane e tedesche ispirarono il sorgere di un socialismo nazionale anche in altre nazioni, In Spagna, nel 1931, nacquero le JONS. In Francia l'ex segretario dei giovani comunisti Jacques Doriot fondò il Partito Popolare Francese, mentre in Romania si affermava il movimento anticapitalista e nazionalista della Guardia di Ferro. Altro movimento che coniugava socialismo e nazionalismo fu il Partito Giustizialista di Juan Domingo Perón e quello Ba'th del siriano Michel Aflaq e dal suo conterraneo alā al-Dīn al-Bīār nel mondo arabo.

Dopoguerra italiano. Nel secondo dopoguerra i contenuti del socialismo nazionale furono ripresi in nome della "Terza via" all'interno di partiti come il Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale (quanto meno i primi tempi: dal '46 ai primi anni cinquanta), quando era identificato soprattutto con i reduci della RSI. Nel 1952 nacque il Raggruppamento Sociale Repubblicano, che poi divenne Partito del Socialismo nazionale. Nel 1957 confluirono nel Partito Nazionale del Lavoro di Ernesto Massi. I gruppi di “Pensiero nazionale”, capeggiati da Stanis Ruinas, erano invece ex fascisti finiti nell'orbita del Partito Comunista Italiano. Giano Accame, intellettuale della destra postfascista, ha avvicinato alcuni temi della politica (soprattutto estera) di Bettino Craxi, leader del Partito Socialista Italiano negli anni '80 al socialismo nazionale. Sempre Accame coniò la definizione "socialismo tricolore" per identificare il Socialismo nazionale del PSI craxiano. Sempre nell'ambito del PSI, agiva la cosiddetta corrente "autonomista" che dava ampio risalto ai valori dell'identità nazionale italiana. In tempi recenti il Fronte Sociale Nazionale nato negli anni '90, ha fatto riferimento ai valori del socialismo nazionale. Distaccatosi dal Fronte Sociale Nazionale (confederatosi nel 2008 con il partito La Destra guidato da Francesco Storace), dopo una prima costituzione in Centro Studi Socialismo Nazionale, si rifà a questo progetto il movimento politico extraparlamentare, denominato "Unione per il Socialismo Nazionale", nato nell'ottobre del 2011.

L'eterno fascismo italico, scrive Giorgio Bocca il 17 ottobre 2008 su "L’Espresso”. Le favole menzognere ma consolatrici sono meglio della verità. L'attivismo più apparente che reale aiuta a campare. Le paure irrazionali ma diffuse sono più importanti della realtà. Il quotidiano "il Giornale" ha pubblicato una lunga lettera di "un ragazzo di Salò", un professore emerito di ordinamento giudiziario dell'università di Bologna, Giuseppe di Federico, il quale racconta che a dodici anni, nel 1944, voleva arruolarsi nelle brigate nere di Salò per riparare al disonore di aver cambiato alleato, la Germania nazista, nel corso della guerra. Il professore rivendica di aver scelto la fedeltà a un alleato razzista, imperialista, stragista, che Benedetto Croce definiva "nemico dell'umanità", come "fedeltà nelle cose in cui credo senza curarmi troppo delle convenienze". Nel caso, senza curarsi del fatto che gli alleati nazisti stessero mandando nelle camere a gas milioni di innocenti. Sul tema del tradimento dell'alleato molti italiani a Salò e dopo Salò si rifiutarono di capire che la fedeltà a un'alleanza criminale è iniqua e che il suo tradimento è giusto e doveroso. Forse perché da millenni la cultura del potere predica la rassegnazione dei sudditi, degli 'ometti', dei cittadini comuni, dei sottoposti. Ma il diritto esiste, è un diritto naturale che non ha bisogno di essere codificato, è il diritto insopprimibile di ribellarsi al dispotismo quando esso arriva alla malvagità totale, alla rottura di ogni contratto sociale, all'ingiustizia imposta e proclamata. Chi rifiuta, come il professore emerito, il diritto degli italiani occupati dai nazisti a tradire l'alleanza voluta da Mussolini per paura e convenienza, più che per ragioni ideologiche, rifiuta il diritto umano a scegliere tra il giusto e l'iniquo. Il professore emerito dice a sua scusa che lui non sapeva delle atrocità del nazismo, che solo "quando tornò dall'America un mio zio ci disse che le atrocità erano vere e a lui non potevamo non credere. Fu un vero shock per tutti noi". Ma dietro al ritorno attuale di un modo di sentire, più che di pensare, neofascista, c'è qualcosa di peggio del non sapere, c'è un'affinità al fascismo eterno e in particolare al fascismo italiano che il berlusconismo rappresenta in modo spontaneo: le favole menzognere ma consolatrici sono meglio della verità, l'attivismo più apparente che reale aiuta a campare, le paure irrazionali ma diffuse sono più importanti della realtà. Le statistiche dicono per esempio che l'Italia è uno dei paesi più sicuri del mondo, con il più basso numero di rapine e di omicidi? Non importa, la gente coltiva le sue paure; il metodo più semplice per vincerle era quello usato dal fascismo che ignorava i delitti nell'informazione, oggi invece si pecca in senso opposto, ma sono due facce della stessa falsificazione della realtà. Il ritorno al fascismo eterno congenito degli italiani è un dato di fatto che è sotto gli occhi di tutti: tutto ciò che si lega in qualche modo a quell'archetipo, a quello stampo, a quello stile ha fortuna, tutto ciò che gli si oppone è nel migliore dei casi superato, noioso, retorico. Fascista l'Italia di oggi? Ma dove? Ma come? Tutti o quasi pronti a negare l'evidenza: che l'informazione economica, politica, criminale è sempre più asfittica, legata ai padroni, che quella televisiva che dipende dalla pubblicità, cioè dal potere economico, è quasi inesistente, ridotta alle pillole informative incomprensibili e contraddittorie dei telegiornali, che il parlamento è esautorato, che il il governo può fare e dire tutto quello che gli fa comodo, anche di aver impedito la terza guerra mondiale, anche di aver ripulito il paese dalle sue soverchianti immondizie, anche di garantire i risparmiatori da qualsiasi crisi mondiale, e gli italiani ci stanno, come ai tempi in cui il duce sfidava il mondo stando su un mucchio di letame.

Mussolini: “Italiani, popolo di voltagabbana!”, scrive l'11/07/2017 Giovanni Terzi su “Il Giornale". Non si danno pace neanche l’estate gli antifascisti di professione. Evidentemente devono coprire il buco lasciato dal loro crollo elettorale. Ormai se la prendono pure con gli stabilimenti balneari. Sono rimasti ancora al ‘900 a prendersela col Duce. Visto che a loro piace la storia, gli proponiamo un tuffo nel passato, con questa intervista a Benito Mussolini. Colloquio virtuale con un personaggio storico tra domande attuali e risposte attinte dalla sua vita, dalle opere di cui è autore e da quelle che lo riguardano. Tra le fonti per questa intervista: “Colloqui con Mussolini” di Emil Ludwig Mondadori 1950, “Dux” di Margherita Sarfatti, Mondadori 1982, “Mussolini l’uomo e l’opera “di Giorgio Pini e Duilio Susmel, La Fenice, Firenze 1955.

Duce, posso darle del “lei”? il “voi” è acqua passata. E come debbo chiamarla?

«Mi dia del “lei” e mi chiami Benito. Lo so era il nome di un rivoluzionario sudamericano, ma la mia famiglia era rivoluzionaria da sempre, socialista e di sinistra ed anch’io lo sono stato».

Quando?

«Fin dalla mia prima gioventù. Ero iscritto al partito socialista ma nel settembre del 1911, quando il governo Giolitti decise di invadere la Libia, mi ribellai anche ai vertici del mio partitoa Filippo Turati e a Claudio Treves che, riunitisi a Milano, nell’appartamento di Anna Kulishoff, in piazza Duomo, avevano deciso di dichiararsi solidali con Giolitti».

Fu quando guidò la rivolta di piazza a Forlì, assieme a Pietro Nenni?

«Sì, il 25,26,27 settembre 1911. Fui arrestato e processato. Al processo mi risentii moltissimo. Ammettevo tutto meno l’ultimo capo d’imputazione che respinsi con tutto me stesso “atto indegno di un combattente”. Che vergogna!»

E quanto le dettero?

«Cinque mesi di reclusione. Dopodiché me ne andai in Svizzera ma da lì a poco tornai in Italia, a Milano perché il partito mi aveva affidato la direzione dell’Avanti.»

Durò poco però. Nel famoso libro “Dux” di Margherita Sarfatti si legge “si congedò dall’Avantisenza volere l’indennità giornalistica e neppure lo stipendio in corso, e persino rifiutando quel migliaio di lire che la direzione del partito lo supplicava di accettare per i bisogni della famiglia. Eppure, fondava ora un giornale proprio. Per i suoi detrattori aveva accettato “l’oro francese”: un’accusa un po’ dura …

«Ma neanche per sogno era arrivato il momento di scendere in campo con le armi in pugno contro l’impero austriaco, nostro oppressore da secoli. Fondai il Popolo d’Italia e lo chiamai “quotidiano socialista”».

Lei si sentiva più uomo politico capo del governo o più giornalista?

«Le rispondo con le esatte mie parole che riportò Margherita Sarfatti nel suo “Dux”: andando al governo, spesso e volentieri prendevo dei fogli e scrivevo qualche cosa che poteva interessare agli italiani. Ciò aveva l’apparenza di solenne delle note ufficiose o ufficiali che dir si voglia. Erano in realtà dei piccoli articoli».

A proposito di Margherita Sarfatti brillante giornalista bella signora ebrea che per molti anni fu legata a lei da passione amorosa, che opinione aveva di lei come uomo?

«Nell’ultima edizione di “Dux” si legge “…benché abbia dato alle donne, con molta generosità, il diritto di suffragio amministrativo, al condottiero romagnolo la donna appare tuttavia sempre, da egoista maschile, bella e destinata a piacere”».

Benito è vero che il famoso giudizio “Governare gli italiani non è impossibile ma inutile” lei lo copiò da Giovanni Giolitti?

Ma neanche per sogno! Il giudizio è mio e la frase è mia. Ed è anche la verità. Del resto basta girarsi indietro e dare uno sguardo alle vicende degli italiani nei secoli: sempre divisi, sempre pronti a passare da una barricata all’altra e sempre pronti a cambiare bandiera ai primi accenni di maltempo».

Lei cita continuamente “Dux”. Ma nel 1938, quando furono varate le leggi razziali, il Ministero dell’educazione nazionale lo fece ritirare da tutte le librerie, e la Sarfatti dovette fuggire negli Stati Uniti.

«Perché insiste su questo tasto? Io ho sempre avuto la massima considerazione per gli ebrei. Il Ministro degli Interni del mio primo governo, Finzi, era ebreo, l’amministratore del Popolo d’Italiaera ebreo, tra i fascisti della prima ora molti erano ebrei. Ma ciò che mi fece optare per le leggi razziali fu l’ostilità della finanza mondiale dominata dalle lobby ebraiche, nei confronti dell’Italia…»

A proposito di ebrei anche l’altro celebre libro a lei dedicato e destinato a restare nella storia, fu scritto da un ebreo.

«Sta parlando dei “Colloqui con Mussolini” scritto da Emil Ludwig, grande scrittore e storico tedesco di stirpe e religione ebraica. Mi feci intervistare nel 1932 per due settimane gli dedicai un’ora ogni pomeriggio».

Ci può ricordare alcune risposte che diede alle domande di Ludwig?

«Incominciamo da quella sull’amicizia. Gli dissi che non potevo avere amici sia per il mio temperamento sia per il mio concetto degli uomini. Gli precisai che gli amici più fedeli erano quelli più lontani; erano chi non aveva mai voluto niente».

Nel libro c’è anche un capitolo dedicato alla fede…

«In gioventù ogni misticismo mi era estraneo ma negli ultimi anni era cresciuto in me il convincimento che potesse esservi una forza divina nell’universo. A Ludwig precisai che “divina” non significava per forza “cristiana”».

La pensa sempre così?

«No ora so che Dio è il Cristo. Ma lo sapevo già a Gargnano quando, pochi giorni prima della fine, ricevetti l’assoluzione dopo essermi confessato».

Con riferimento alla crisi economica del ’29 Ludwig le chiese” perché data la sua battaglia contro le barriere doganali, non fonda l’Europa?” che cosa rispose a questa domanda?

«Risposi così: sono vicino a questa idea, ma il tempo non è ancora maturo. Vedremo nuove rivoluzioni e solo da esse sorgerà il nuovo europeo».

Mussolini e l’estate dei morti viventi, scrive il 10 luglio 2017 Luigi Iannone su “Il Giornale”. Questa estate gravata dalla calura e grondante di barconi che preannunziano l’invasione prossima ventura, sarà pure ricordata come quella dei ‘morti viventi’. Quella nella quale saranno riesumati i defunti del 1945: da Mussolini ai gerarchi di Salò fino ai ‘Padri della Patria’ …tutti fuori dalle tombe utili a tempestare di noiosi déjà vu le nostre giornate. Priorità nel dibattito pubblico saranno lunghe sedute parlamentari per mettere a punto codicilli e commi da cui poter poi prendere spunto per legiferare su un reato inafferrabile e fantomatico quale “l’apologia del fascismo”. Frutto acidulo di una antica e sempre riproposta tragicommedia che riassicurerà alle nostre serate un minimo di brio in vista di qualche altro tormentone in grado poi di farci scavallare anche l’inverno, e così via, in un supplizio senza fine. E così disquisiremo di un tizio che sfoggia nel suo stabilimento balneare gagliardetti e frasi del ventennio; oppure di quell’altro che si è fatto un selfie in posa marziale e petto villoso; o dell’altro ancora che, sui social, cita la solita frase di Evola o Almirante e a supporto si incornicia a latere col suo saluto romano. Fatto salvo il folklore e la superficialità che si desume da tante testimonianze di machismo internettiano, da foto, simboli e armamentario vario, come si può concepire che un tema così marginale possa – ancora oggi – entrare a pieno titolo nel dibattito pubblico, investendo con virulenza e tossicità parlamento e partiti? Come è possibile che vengano tirate fuori vecchie parole d’ordine e paventati pericoli per la democrazia? In una ipotetica scala da uno a cento che tenesse conto delle necessità dei cittadini italiani questa vicenda sarebbe ben oltre il centesimo posto. Lo sanno tutti. E allora come è possibile tutto questo? Come ci salta in mente di discutere del nulla? Una risposta forse c’è, ed è quella più banale: la grancassa mediatica suona forte perché quando il pasto è succulento, chi arriva prima ne può trangugiare la parte più sostanziosa. Fare perno sulla ideologia, tentando di scovare i fascisti del terzo millennio e magari qualche nostalgico fuori tempo massimo, può rappresentare la medaglia che il ‘buon democratico’ deve sempre appuntarsi al petto per ostentarla poi ai suoi sodali. Perché solo in questo modo un antifascismo che tende a riesumare dei morti (perché – sappiatelo – il fascismo è morto e sepolto con Mussolini!) si può ritemprare di apparente energia vitale. D’altra parte vanno avanti così, grazie ad un metodo sperimentato per 70anni. L’antifascismo è infatti tra tutte le professioni quella più remunerativa. Lo diceva Flaiano, e poi Longanesi, e poi ancora Prezzolini il quale sempre andava sostenendo che <<in Italia non c’è stata una rivoluzione antifascista. Gli antifascisti hanno vinto mediante le bombe americane e inglesi, e le truppe negro-brasilio-polacche. Se non ci fosse stato l’esercito alleato, mai gli antifascisti avrebbero fatto cadere Mussolini. E, se Mussolini non avesse fatto la sciocchezza di dichiarare la guerra, oggi avrebbe un monumento a Times Square>>. Ma tali considerazioni vanno ribadite in gran segreto perché derivanti da verità fattuali che attengono alla Storia, argomento che loro non conoscono. Infatti, pur avendola scritta e riscritta a piacimento, non la conoscono. Essi sono ancora fermi alla religione laica dell’antifascismo in assenza di fascismo e a parole d’ordine trite e ritrite e, di conseguenza, impongono a tutti gli altri di conformarsi nei giudizi finali. In realtà, i democratici del terzo millennio assurgono a metafora tutta italiana di quella petrarchesca devianza che porta ad esaminare solo il “particulare” e da qui trarre considerazioni di carattere ‘universale’. E perciò possono far passare l’idea che se un tizio fa il saluto romano in Valle d’Aosta, tale accadimento possa scatenare in tutta la penisola frotte di architetti e urbanisti pronti a collocare fasci littori sui frontoni di ogni edificio pubblico e amministratori locali a cantare ‘faccetta nera’ tenendo al contempo ben stretti per i testicoli gli immigrati appena sbarcati. Ma non è così, e lo sanno! Mentono spudoratamente sul fronte storiografico perché sanno bene di aver falsificato i fatti del passato a uso e consumo di quella ideologia comunista che ha paralizzato i processi culturali del nostro Paese. Ma mentono senza ritegno quando strumentalizzano episodi spesso legati al folklore e profetizzano eventuali rigurgiti totalitari. Mentono perché sanno bene che, in questo tempo misero, la dittatura è quella tecnocratica, è quella del capitalismo finanziario, quella degli speculatori, dei burocrati di Bruxelles, delle banche che ‘saltano’ dalla sera alla mattina lasciando sul lastrico migliaia di risparmiatori, delle multinazionali che utilizzano le delocalizzazioni per licenziare; quella che confonde la bioetica con l’eugenetica, la libertà di scelta con l’anarchia, il folklore con la tirannia.

Fascismo sul web, Fiano: "non è opinione, è un crimine". Il deputato dem Emanuele Fiano canta vittoria per l'arrivo alla Camera della sua legge contro l'apologia del fascismo. Centrodestra e M5S contrari: mina il diritto d'opinione, scrive Francesco Curridori, Lunedì 10/07/2017 su "Il Giornale". Il deputato dem Emanuele Fiano, figlio di sopravvissuto ad Auschwitz, canta vittoria. La sua legge contro l’apologia del fascismo arriva oggi in Aula alla Camera. "Com’è possibile - si chiede Fiano intervistato da Repubblica - che in oltre 70 anni di storia della Repubblica non sia stato messo nel codice penale il reato di apologia di fascismo e di propaganda, che c’è solo come articolo della legge Scelba del 1952?" Ora, con la sua legge il reato di apologia sarà punibile con la reclusione da 6 mesi a 2 anni con l’aggravante per il web. Una legge che, a suo dire, arriva tardi "ma nel momento giusto per risvegliare le coscienze". "Noi continuiamo a sottovalutare un contesto altamente infiammabile come quello del disagio sociale e della reazione all’emergenza immigrazione", aggiunge. La legge trova però la ferma opposizione dei grillini che in commissione Affari costituzionali hanno presentato un documento in cui sostengono che la legge mini la libertà di opinione. "Immagino che tutto il centrodestra si opporrà alla legge con l’aggiunta dei 5Stelle: un fatto molto preoccupante. A me rimane per sempre la frase che disse Giacomo Matteotti: 'Qui non si tratta di reati di opinione, perché il fascismo non è un’idea, è un crimine' ", dichiara il renziano Fiano che interviene anche sul aso dello stabilimento balneare di Chioggia che inneggia al fascismo. "C’è oggi una sorta di benaltrismo, per cui si dice che i problemi sono la mancanza di lavoro, di pensione, di futuro. E allora perché occuparsi di vecchie cose. Ma - spiega Fiano - è il contrario, perché la crisi economica e la questione dei migranti sono il terreno di coltura per le idee neo fasciste e di estrema destra e razziste". L'altro problema, per Fiano, è il fascismo su Facebook e sul web: "Pochi giorni fa ce n’era una che è stata bloccata in cui si propagandavano i discorsi di Goebbels: aveva 8 mila e 500 seguaci".

M5S: "Legge contro l'apologia di fascismo è liberticida". Renzi: "Liberticida era il regime". È scontro duro tra il Pd di Matteo Renzi e il M5S sulla proposta di legge presentata da Emanuele Fiano che introduce nel codice penale il reato di propaganda del regime fascista e nazifascista, scrive Raffaello Binelli, Lunedì 10/07/2017, su "Il Giornale".  Punire "chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco". Nel mirino, dunque, saluti romani e gadget "nostalgici". Con l'aggravante se la propaganda avviene attraverso strumenti telematici o informatici. Nettamente contrari alla bozza di legge i deputati del Movimento 5 Stelle: "Il provvedimento in esame si palesa sostanzialmente liberticida". Lo hanno scritto, nero su bianco, in un parere consegnato alla Commissione Affari costituzionali della Camera. I deputati di M5s, tra cui Danilo Toninelli e Fabiana Dadone, scrivono che la norma vuole indicare come penalmente rilevanti anche "condotte meramente elogiative, o estemporanee che, pur non essendo volte alla riorganizzazione del disciolto partito fascista, siano chiara espressione della retorica di tale regime, o di quello nazionalsocialista tedesco" e dunque "il provvedimento in esame si palesa quale sostanzialmente liberticida". Per M5s dovrebbero essere penalmente rilevanti "le sole condotte che risultino oggettivamente offensive, in linea con la giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione. L’approvazione del provvedimento determinerebbe, quindi, l’entrata in vigore di una norma illegittima ed in parte priva di concreti effetti, se non, in alcuni casi, in merito all’abbassamento delle pene edittali" e dunque M5s ha espresso parere contrario. Emanuele Fiano, primo firmatario della legge, ironizza: "Li ringrazio per la chiarezza, la differenza tra le nostre idee è per me un vanto". Durissima la stoccata del segretario Pd, Matteo Renzi: "Liberticida era il fascismo non la legge sull’apologia del fascismo. Bisogna dirlo al M5S: era il fascismo liberticida. Almeno la storia!". Il senatore democratico Andrea Marcucci: "Il M5S alla Camera contro il reato di apologia di fascismo. Più chiaro di così...".

Apologia di fascismo, ora è scontro politico. M5S e destre: "È una norma liberticida". Il ddl Fiano prevede pene più dure per chi inneggerà al fascismo, anche sul web. Pd e sinistre favorevoli: «Colma un buco normativo». Pentastellati, centrodestra e destra attaccano la legge: «Inammissibile, introduce un reato d'opinione», scrive Federico Marconi il 10 luglio 2017 su "L'Espresso". Una nuova legge contro l'apologia di fascismo, con un'attenzione particolare ai social network: è questa la norma in discussione alla Camera che sta accendendo le polemiche. La legge Fiano - dal nome del deputato Pd promotore della legge - prevede pene da 6 mesi e 2 anni per chi sarà responsabile di "propaganda attiva di immagini o contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco e delle relative ideologie”, ma anche per chi richiamerà “simbologia e gestualità” dei due partiti. Pene che diventano più dure se il reato sarà perpetrato sui social network: la propaganda “attraverso strumenti telematici o informatici” costituirà infatti un’aggravante del delitto, comportando un aumento di un terzo della pena. «Il ddl sull’apologia di fascismo è un passo avanti» afferma il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri: «Vuole introdurre un reato specifico nel codice penale, fino ad oggi mancante, in quanto ci si rifaceva solo alla legge Scelba (del 1952, ndr)». Il provvedimento ha subito attirato le polemiche. Secondo il Movimento 5 Stelle si tratta di una norma “liberticida” e infatti in un parere consegnato alla Commissione Giustizia della Camera, i pentastellati bocciano il testo di legge in quanto punirà “anche condotte meramente elogiative, o estemporanee che, pur non essendo volte alla riorganizzazione del disciolto partito fascista, siano chiara espressione della sua retorica”. «La proposta Fiano è scritta coi piedi solo per andare sui giornali - afferma Danilo Toninelli -  Piuttosto votiamo la Legge Richetti sui vitalizi invece di fare propaganda». La posizione dei 5S è condivisa dalle destre. «Questo è il modo del Pd di guardare avanti per il futuro dell'Italia, introdurre nel nostro ordinamento un unico reato d'opinione perché si potrà impunemente inneggiare a Stalin e a Osama Bin Laden - commenta duramente Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia -  la verità è che taluni personaggi del Pd restano profondamente illiberali, faziosi e comunisti dentro». Sulla stessa lunghezza d’onda Renato Brunetta («perché non introdurre in legge Fiano anche apologia comunismo?») e il segretario della Lega Matteo Salvini: «Nel 2017 non ha senso un reato d’opinione. Un conto sono le minacce, gli insulti o l'istigazione al terrorismo, altra cosa sono le idee, belle o brutte, che si possono confutare ma non arrestare. Le idee non si processano». Uniti in difesa della legge sono sinistra e centrosinistra. Il segretario Pd Matteo Renzi polemizza con i 5 Stelle: «Liberticida era il fascismo, non la legge sull’apologia di fascismo». Da Largo del Nazareno interviene anche il presidente Dem Matteo Orfini: «A non essere né di destra né di sinistra si finisce come il M5s: a difendere l'apologia di fascismo». «Caro Beppe Grillo il fascismo fu una dittatura terribile. Liberticidi sono quelli che oggi lo elogiano, non quelli che lo combattono» è la reazione di Arturo Scotto di Mdp. «Promemoria per Lega e M5S: i neofascisti sono razzisti, prevaricatori, le loro azioni, la loro propaganda e le loro provocazioni vanno contrastate duramente» il commento di Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana: «Chi pensa che facciano folklore diventa loro complice» Per il segretario del Psi Riccardo Nencini la posizione dei pentastellati non deve sorprendere: «Per forza non ritengono reato l’apologia del fascismo, i vertici vengono da lì. Basta chiedere ai due 'Di' (con riferimento a Di Battista e Di Maio ndr)».

Il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione viene garantito dall’articolo 21 della Costituzione. Nonostante ciò, il Parlamento ha più volte legiferato contro l’apologia di fascismo. Per questo la legge Fiano non può essere considerata una novità assoluta. La prima norma a occuparsi del tema è stata nel 1952 la legge Scelba, che realizzava le disposizioni della XII norma transitoria e finale della Costituzione. La legge prevedeva il carcere per chi si fosse impegnato nella riorganizzazione del partito fascista o avesse commesso apologia di fascismo. La norma fu ampliata prima nel 1975, poi nel 1993 dalla legge Mancino, che puniva chi avesse propagandato «idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale ed etnico, istiga a commettere discriminazioni e organizza movimenti che hanno tali scopi». Anche la Corte Costituzionale si è espressa sulla questione. La prima volta nel 1957: i giudici affermarono che l’apologia di fascismo «per assumere carattere di reato deve consistere in un’esaltazione tale da poter condurre alla riorganizzazione del partito fascista». Nel 1958 la Corte stabilì che il saluto romano «costituisce reato se commesso in circostanze tali da renderlo idoneo a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste». Per questo, nel 2016, la Corte di Cassazione ha deciso l’assoluzione di un tifoso di Bolzano che si era presentato allo stadio con una maglietta di Mussolini, degli esponenti di Casapound di Milano che esponevano bandiere con croci celtiche per le vie della città, o un gruppo di “camerati” che a un funerale “omaggiavano” l’amico defunto con il saluto romano. «Non è punibile il gesto in sé, va collocato all’interno di una manifestazione con fini di proselitismo e propaganda politica» la sentenza della Cassazione. Con la legge Fiano le cose potrebbero andare diversamente.

Scontro parlamentare sull’apologia di fascismo, Toti: “Nessuno sano di mente può sostenere o rimpiangere i regimi”, scrive Katia Bonchi il 10 luglio 2017 su "Genova 24". “Non credo che ci sia in Italia qualcuno che sostiene il fascismo, né che inneggi a regimi totalitari di qualsiasi colore e certamente è già previsto come reato dalle clausole transitorie della nostra Costituzione che sembra in vigore nonostante i molti assalti e attentanti degli ultimi mesi, quindi il dibattito sull’apologia di fascismo credo che sia un dibattito piuttosto sterile perché non vedo chi possa essere l’apologeta del fascismo in questo Paese”. Dribbla le polemiche con la consueta scioltezza il governatore della Regione Liguria Giovanni Toti e a chi gli chiede cosa ne pensi del dibattito in aula che vede la Lega Nord a fianco del M5S e contro il Pd sulla proposta di legge che punisce la propaganda via web del fascismo. Ma gli arresti? Le denunce? E la recente sentenza della Cassazione? “Ci sono arresti di ogni genere e la criminalità si annida nelle più diverse forme o assume colori e giustificazioni le più disparate ma non credo che qualcuno intellettualmente sano o innesto possa rimpiangere o fare apologia di fascismo. Se lo fa commette un reato e fanno bene ad arrestarlo così’ come chi fa apologia dei teppisti da stadio che vanno a picchiarsi alle partite e così come chi fa apologia di prodotti contraffatti o dello sfruttamento di lavoro minorile”.

Il fascismo a intermittenza, scrive l'11 luglio 2017 Beppe Grillo. Incredibilmente il Pd, nelle sue imprese di distrazione di massa, è stato colto dal desiderio irrefrenabile di proporre un restyling del reato di apologia di fascismo. La legge che sanziona quelle poco edificanti trovate nostalgiche previste nei dettagli dall'articolo 4 della legge Scelba del 1952. Per le crisi nostalgiche sono già previste pene e sanzioni: la reclusione (da 6 mesi a 2 anni) e una multa da 206 a 516 euro. Ancora, dal 1993, esiste anche la legge Mancino, che sanziona e condanna gesti, azioni e slogan legati all'ideologia nazifascista, e aventi per scopo l'incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali. Vengono (o meglio dovrebbero essere) puniti anche l'utilizzo di simbologie legate a questi movimenti politici. Cerchiamo di analizzare quello che sta succedendo: l’Italia è una Repubblica che nasce dalle ceneri del fascismo e fonda i suoi valori sulla democrazia ed il lavoro. Come mai il Pd, che sta mercificando questi due pilastri fondanti della Repubblica, si è messo in testa di fare una nuova versione della legge che sancisce comportamenti e tentativi di ripristinare il fascismo? Non sono del tutto fessi, e questo forse ne è il primo segno concreto. Non è di sicuro farina del sacco del giovane paggio, sempre più impegnato a reggere lo strascico delle banche mentre convolano a nozze miliardarie a spese dei cittadini. L’unico modo per colpire delle opinioni in Italia è coinvolgere il fascismo. La mano morta sulla democrazia di Renzi prosegue insinuando, non agendo apertamente, che inizia ad esserci bisogno di fare delle leggi sul come la si pensa. Leggi (per lo più immaginarie) che tinteggino loro, la sinistra frou frou, da progressisti e gli altri come oscuri conservatori. Cosa volete che sia avere dato la fine ai diritti dei cittadini, dei lavoratori e dei pensionati. Sono sicuri che gli italiani si lasceranno ancora ipnotizzare da un dibattito inutile su di una legge inutile. Il loro nuovo schema mediatico è il fascismo a intermittenza. Quando i partiti e i media che gli strisciano attorno non sanno più come contrastare una posizione di buon senso del MoVimento 5 Stelle gridano al fascismo. Fino a qualche settimana fa, infatti, il MoVimento era fascista perché voleva accendere i fari sul comportamento delle Ong nel mar Mediterraneo. Poi contrordine compagni: "la frase "chi critica la gestione dell'immigrazione e il ruolo delle ONG negli sbarchi in Italia va apostrofato come fascista" contiene un errore di stampa e pertanto va letta: "chi critica la gestione dell'immigrazione e il ruolo delle ONG negli sbarchi in Italia è chiaramente un grande statista"." Così il ministro Minniti, che ha rubato le nostre proposte senza applicarle, e Renzi, che ha fatto suoi gli slogan della Lega, sono diventati fascisti? Assolutamente no! Ora, scrivete compagni: "fascismo vuol dire non votare la legge scritta coi piedi di Fiano", tanto gli italiani non se ne accorgeranno. I giornali hanno dimostrato obbedienza cieca, pronta, assoluta. Ed ecco il titolo vergognoso "Di Maio e Di Battista sdoganano il regime" in un articolo di Repubblica che oramai raggiunge vette di propaganda che Il Popolo d'Italia neppure si sognava. Una vera legge antifascista dovrebbe colpire tutti gli assolutismi tramite la prevenzione: ma colpirebbe proprio loro, perché continuando a mentire sistematicamente ad un popolo stanno ponendo le fondamenta del fascismo o di qualunque altra reazione assolutista. Non sappiamo cosa vorrà dire domani essere fascisti, sappiamo cosa vuol dire oggi: il governo metterà la fiducia sul decreto banche per dare altri 17 miliardi di euro pubblici e salvare il culo dei banchieri mentre 10 milioni di italiani sono a rischio povertà e 250.000 emigrano ogni anno. Ma questo non è fascismo, è solidarietà. Scrivete compagni! Scrivete!

Caro Fiano, il fascismo non si combatte così. Dalla pancia del Paese affiorano pulsioni di estrema destra e il Pd pensa di affrontarle con divieti, bollini e punizioni per il Web. Bisogna invece combattere ogni giorno l'egemonia culturale reazionaria, sempre più diffusa. Non è facile, certo, ma è l'unico modo, scrive Fabio Chiusi l'11 luglio 2017 su "L'Espresso". Ci sono diverse tentazioni antidemocratiche nel dibattito sorto intorno alla legge Fiano contro la propaganda fascista. La prima, dei sostenitori, è definire “fascista” chiunque vi si opponga, quando naturalmente non servono nostalgie del Ventennio per porre una semplice domanda: che cosa è, esattamente, “propaganda”? Il testo parla di “immagini” e “contenuti propri” di fascismo e nazismo, delle “relative ideologie”, di richiamarne pubblicamente “la simbologia e la gestualità”. In alcuni casi, abbastanza per identificare uno squadrista; in molti altri - dalla satira alla ricerca, passando per tutte le sfumature consentite dalla libera espressione in democrazia - no. Non perché essere fascisti è un’opinione come le altre, ma perché un conto è criminalizzare la violenza e il razzismo come metodo di lotta e seduzione politica, o vietare la ricostituzione di un partito totalitario, come nelle già vigenti leggi Scelba e Mancino; un altro è criminalizzare un braccio teso, la vendita di un santino del Duce o la diffusione di una sua foto su Facebook per la loro sola esistenza. Proprio su Internet peraltro, secondo la norma, essere fascisti è di “un terzo” più grave: perché? Il principio della rete come aggravante di reato è un concetto che ruota nelle menti dei legislatori italiani almeno dal ddl Lauro del 2009, in cui il senatore Pdl ipotizzava un aumento di pena per il proposto, e bocciato, reato di “istigazione ed apologia dei delitti contro la vita e l’incolumità della persona” nel caso fosse compiuto tramite “telefono, Internet e social network”. Oggi si parla di “strumenti telematici e informatici”, ma è singolare pensare che una trasmissione televisiva più o meno velatamente razzista, o un titolo di giornale, siano minori veicoli di propaganda. Singolare, a meno che non si inquadri l’idea all’interno dell’ossessione che i liberal di tutto il mondo hanno sviluppato per la propaganda digitale dopo l'elezione di Donald Trump - senza peraltro prendersi la briga di definirne i contorni, o spiegarci perché dovrebbe essere più pericolosa di quella “offline”. Anche questa di criminalizzare la propaganda e le menzogne che oggi chiamiamo inspiegabilmente “fake news”, invece di neutralizzarle con le idee, i fatti e la civiltà, è una tentazione antidemocratica, tale da avere allarmato perfino lo Special Rapporteur ONU per la libertà di espressione, David Kaye. Il problema è che quando si sfonda la soglia della criminalizzazione della propaganda ideologica non si sa bene dove si va a finire. Certo, c’è una diffusa e montante tentazione autoritaria a destra, al punto che sempre più è il linguaggio dei Salvini e delle Le Pen a fare quella che Antonio Gramsci chiamava “egemonia culturale”: un rapporto di dominio, sì, ma più subdolo e pervasivo perché fondato sul consenso, prima che sulla coercizione, e sempre “necessariamente pedagogico”. Anche questo è un dato di realtà con cui fare i conti, utile per decifrare gli strepiti di chi maschera la volontà di giustificare, assolvere, minimizzare dietro al faro del libero pensiero. Ma una volta rotti gli argini, le acque fluiscono verso anfratti che potrebbero allagare la stanza della democrazia, più che quella degli estremisti, sempre peraltro dotata di insospettabili anfratti. Pubblicare un testo di propaganda fascista diventa dunque reato, anche quando è di interesse storico? Un video su YouTube con i discorsi di Joseph Goebbels - il vero padre della propaganda contemporanea, che andrebbe studiato nel dettaglio, non consegnato all’oblio - è materia da codice penale? Domande che, in una certa misura, si ponevano già, ma che oggi si ripropongono con maggiore forza. Domande che somigliano molto da vicino a quelle poste nei mesi in cui i terroristi di ISIS occupavano il web con le loro strategie di comunicazione. E cosa è più democratico, tentare la via difficile - mostrando ma contestualizzando, diffondendo ma senza essere megafoni - di ottenere una opinione pubblica informata e adulta abbastanza da valutare da sé l’orrore, o pretendere - nell'era della disintermediazione, uno sforzo quasi certamente vano - di trattarla come un consesso di infanti a cui appiccicare un bollino rosso, un divieto, così che il male finisca sotto il tappeto? E ancora: cosa distingue essenzialmente la propaganda estremista, o fondamentalista, da quella politica? Il passo, insegnano i regimi autoritari di oggi, non di ieri, è più breve di quanto sembri. Si pensi alla Cina, e alla recente norma che prevede lo screening, da parte di due revisori, di ogni contenuto audio-video pubblicato in rete, con conseguente censura di tutti quelli che non aderiscono ai “valori di fondo del socialismo”. Nessuno sostiene che Fiano e i sostenitori della sua legge abbiano Pechino come modello; il pericolo, tuttavia, è aprire le porte a una ratio che rende possibile adottarlo, se ritenuto necessario. Resta poi l’ultima obiezione, più profonda: che il fascismo è un cancro difficile da estirpare, un male apparentemente incurabile della contemporaneità che è meglio prevenire, dissolvere piuttosto che risolvere. Inutile fare di Cinque Stelle - gli epuratori a mezzo blog - e leghisti improbabili difensori delle libertà civili: se si vuole privare il fascismo del terreno che lo fa germogliare, bisogna inaridirlo ogni giorno, non con le leggi ma con la dimostrazione quotidiana del rispetto di rapporti di vita e potere democratici, da parte di ogni fazione politica. L’intolleranza non si batte coi divieti, né tantomeno scimmiottandone slogan e forme, ma con l’intransigenza e l’orgoglio di appartenere a un mondo in cui si ha memoria di che accade un saluto romano dopo l’altro. Coltivare la passione del passato e della verità storica, incentivarla in ogni forma: questo sì si sottrae a ogni tentazione antidemocratica. E, infatti, sembra proprio l’ingrediente mancante al dibattito in corso.

Pd contro la spiaggia "fascista": "Togliere subito la concessione". Polemica per lo stabilimento di Chioggia che inneggia al Ventennio. Il Pd chiama in causa Minniti: "Servono provvedimenti urgenti". E ne chiedono la chiusura, scrive Sergio Rame, Lunedì 10/07/2017, su "Il Giornale". La sinistra è pronta a far chiudere lo stabilimento Punta Canna di Chioggia. L'hanno già ribattezzata "la spiaggia fascista". E sono pronti a tutto pur di togliere a Gianni Scarpa, 64enne di Mirano, la concessione. "La spiaggia fascista di Chioggia va chiusa e la concessione demaniale revocata, ponendo fine a questa autentica vergogna", ha tuonato il deputato Antonio Misiani che nei prossimi giorni presenterà una interrogazione parlamentare al ministro degli Interni Marco Minniti per "sollecitare provvedimenti urgenti". Francesco Storace, presidente del Movimento Nazionale, se la ride. E prende in giro il Pd e la sinistra che in queste ore si stanno armando contro lo stabilimento Punta Canna. "Gli antifa, frustrati più che mai, non hanno 'gnente da fà - commenta Storace - non hanno capito, Sala, Repubblica, Boldrinova, che di loro ce ne freghiamo abbastanza. Hanno scoperto una spiaggia a Chioggia. Non sopportano che rendiamo onore ai nostri Caduti". A far infuriare la sinistra sono i cartelli esposti da Scarpa all'interno dello stabilimento. "Zona antidemocratica e a regime - si legge - non rompete i c...". A far scoppiare la polemica è stato un articolo di Repubblica. "Regole: ordine, pulizia, disciplina, severità - scrive il 64enne di Mirano - difendere la proprietà sparando a vista ad altezza d'uomo, se non ti piace me ne frego!". E ancora: "Servizio solo per i clienti... altrimenti manganello sui denti". E poi frasi di Ezra Pound, braccia al cielo e inni fascisti. "Qui valgono le mie regole", spiega Scarpa raccontando che, in passato, le regole prevedevano il divieto di ingresso ai "bambini e ai buzzurri". Negli ultimi tempi ha deciso di aprire il lido ai bimbi. Tutta la spiaggia è costellata da scritte e immagini del Ventennio, compresa la foto di un bambino che dice: "Nonno Benito, per un'Italia onesta e pulita torna in vita". "Questa vicenda è di una gravità inaudita", tuona il piddì Misiani. Che poi attacca: "L'apologia di fascismo è un reato punito dalla legge. Che questo reato venga sistematicamente commesso su un terreno demaniale è un fatto incredibile ed è sconcertante che tutto questo sia stato tollerato per così tanto tempo, come se la propaganda e la simbologia nazifascista fosse una questione folkloristica". Walter Verini fa eco parlando di "storia incredibile e vergognosa". Questa mattina, come rivela Repubblica, sono già arrivati gli agenti della Digos e della polizia scientifica, inviati dal questore di Venezia, Vito Danilo Gagliardi.

Ordine e disciplina: lo stabilimento è fascista. Vicino alla spiaggia cartelli e slogan che ricordano il Ventennio. E il caso arriva in Parlamento, scrive Lunedì 10/07/2017 "Il Giornale". A chi la spiaggia? A noi! Un «posto al sole» Gianni Scarpa, 64 anni, titolare del lido più fascista d'Italia se l'è già ritagliato. A scovare a Chioggia il suo «ducesco» stabilimento balneare è stato ieri il quotidiano La Repubblica che ha dedicato all'argomento un ampio reportage, pubblicando inoltre sul sito la registrazione della voce di Scarpa che arringa i «suoi» clienti con piglio mussoliniano. Nel giro di poche ore tutta Italia ha scoperto la vocazione «totalitaria» dello Scarpa con inevitabile corollario di polemiche politiche e interrogazioni parlamentari. «Gli antifascisti, frustrati più che mai, non hanno gnente da fa. Non hanno capito, Sala, Repubblica, Boldrinova, che di loro ce ne freghiamo abbastanza. Hanno scoperto una spiaggia a Chioggia. Non sopportano che rendiamo onore ai nostri Caduti. Indagano se ci scappa un bel saluto romano. Certo, altro su di noi non ci può essere, come capita a voi lestofanti. Magari presto vi potrebbe capitare di cantare Sala libero... Sarà una lotta di liberazione...». È quanto scrive su Facebook Francesco Storace, presidente del Movimento Nazionale. Ma che succede, in realtà, nel «nero» lido Punta Canna di Chioggia dominato dal camerata Scarpa? Già all'ingresso si capisce tutto: «Zona antidemocratica e a regime, non rompete i c...». Più avanti, i cartelli sono ancora più eloquenti: «Regole: ordine, pulizia, disciplina, severità. Difendere la proprietà sparando a vista ad altezza d'uomo, se non ti piace me ne frego!»; «Servizio solo per i clienti... altrimenti manganello sui denti». E poi un profluvio di frasi di Ezra Pound («Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui»), braccia tese e saluti romani. Un'insegna indica i servizi igienici: «Questi sono i gabinetti per lui, per lei, per lesbiche e gay». Il proprietario, per spiegare la sua ideologia, non ricorre a giri di parole: «Qui valgono le mie regole. La democrazia mi fa schifo. M i fa schifo la gente sporca. E i tossici li sterminerei tutti». In passato, le «regole» prevedevano il divieto di ingresso anche ai «bambini» (oltre che ai «buzzurri»), ma piano piano Scarpa si è addolcito e ora sono tollerati anche il bambini. Che Scarpa chiama, simpaticamente, «piccoli balilla». Intanto da oggi sarà in discussione a Montecitorio la legge 3243 che chiede l'introduzione dell'articolo 293-bis del codice penale, per punire «chiunque propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco».Il passato ritorna.

Chioggia, il prefetto scende in campo contro la spiaggia fascista: "Rimuovere tutti i cartelli", scrive il 10 Luglio 2017 “Libero Quotidiano”. Dopo la denuncia del quotidiano La Repubblica, il prefetto di Venezia Carlo Boffi "esegue": ha adottato immediatamente l'ordinanza contro lo stabilimento di Gianni Scarpa, 64enne di Mirano, il quale ha dedicato il suo spazio a Benito Mussolini. "Spiaggia fascista". Così l'ha chiamata il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Al titolare della concessione balneare di Punta Canna di Chioggia è stata intimata "l'immediata rimozione di ogni riferimento al fascismo contenuto in cartelli, manifesti e scritte presenti all'interno dello stabilimento". In poche ore sono arrivati gli agenti della Digos e della polizia scientifica, inviati dal questore di Venezia, Vito Danilo Gagliardi. Nel mirino, i cartelli esposti da Scarpa all'interno dello stabilimento che inneggiano al Ventennio. "Regole: ordine, pulizia, disciplina, severità - scrive il titolare dei bagni, 64 anni -, Difendere la proprietà sparando a vista ad altezza d'uomo, se non ti piace me ne frego!". E ancora: "Servizio solo per i clienti... altrimenti manganello sui denti". In uno sgabuzzino, c'è scritto: "Camera a gas". Per il caso - proprio mentre la politica si infiamma il dibattito in Parlamento sull'apologia di fascismo - è mosso il prefetto di Venezia. Nell'ordinanza ha ordinato al titolare dello stabilimento di astenersi dall'ulteriore diffusione di messaggi contro la democrazia "visto il pericolo concreto ed attuale che la persistenza di tali comportamenti possano provocare esplicite reazioni di riprovazione e sdegno nell'opinione pubblica, così vivamente turbata, con conseguenti possibili manifestazioni avverse e di riflesso, il rischio di turbative dell'ordine pubblico". 

Pd e Cinque Stelle si azzuffano su chi è più antifascista. Lo stabilimento balneare di Chioggia in stile "Sturmtruppen" messo sotto inchiesta e diffidato dal prefetto: "Via i simboli antidemocratici", scrive Antonio Angeli su “Il Tempo” il 10 Luglio 2017. Mentre lo stabilimento balneare "nostalgico" di Chioggia viene diffidato dal prefetto e dovrà rimuovere la scritte considerate "fasciste", grillini e piddini si azzuffano su chi è più "democratico" e sinceramente " antifascista. È surreale la polemica, che giunge con la presentazione oggi in Parlamento della legge Fiano per infliggere pesanti condanne ai "trafficanti" di gadget del Ventennio, che si è scatenata tra MoVimento 5 Stelle e Pd. «La proposta di legge Fiano contro la propaganda del regime fascista e nazifascista - affermano i 5 Stelle - è l'ennesima legge scritta con i piedi dal Pd. Una legge che per capirci, senza l'emendamento M5S approvato a prima firma Ferraresi in commissione, poneva uno sconto di pena a chi avesse propagandato le ideologie fasciste. È tutto vero e documentato: il Pd voleva una legge che faceva sconti ai fascisti. Grazie al M5S non sarà possibile». Così in una nota il gruppo parlamentare del MoVimento 5 Stelle alla Camera. «La legge in questione - attacca il relatore di minoranza Vittorio Ferraresi - è stata criticata da diversi giuristi. Parliamo di un pastrocchio non necessario, visto che esistono già due leggi in vigore che puniscono l'apologia del fascismo che per noi è da condannare senza se e senza ma. Questa legge non serve al nostro Paese perché si andrà a sovrapporre alla legge Scelba e alla legge Mancino, infatti i comportamenti previsti in essa come le manifestazioni di propaganda e il saluto romano, come ricorda la Corte di Cassazione, sono già punibili e puniti». «Questa proposta maldestra è scritta talmente male da non distinguere fra prodotti propagandistici e prodotti storico-artistici. Il paradosso è che potremmo vedere chiuso il Foro Italico o l'intero quartiere Eur», ironizza Ferraresi. «Mentre questo governo regala i soldi alle banche e ignora i problemi dei cittadini, noi non cadiamo negli squallidi tentativi del Partito democratico di metterci addosso l'etichetta di fascisti. Così come non cadremo in quelli berlusconiani di definirci comunisti. Per noi questo provvedimento rischia seriamente di essere incostituzionale, la stessa Costituzione antifascista che il Pd e Fiano volevano stravolgere. L'antifascismo - conclude l'esponente M5S - per noi è un valore, per loro un spot». E intanto il prefetto di Venezia Carlo Boffi ha emesso l'ordinanza con la quale si impone al titolare della concessione balneare di Punta Canna di Chioggia l'immediata rimozione di ogni riferimento al fascismo contenuto in cartelli, manifesti e scritte presenti all'interno dello stabilimento. All'ingresso dello stabilimento balneare sono esposti i "principi" a cui "devono attenersi" i bagnanti: ordine, pulizia, disciplina. Si tratta, hanno spiegato i titolari, di battute goliardiche che non vogliono offende nessuno. Ma dopo la campagna di Repubblica e del Corriere, lo stabilimento in stile "Sturmtruppen" si è trovato nella bufera. Con il provvedimento del prefetto viene anche ordinato al titolare dello stabilimento di astenersi dall'ulteriore diffusione di messaggi contro la democrazia «visto il pericolo concreto ed attuale che la persistenza di tali comportamenti possano provocare esplicite reazioni di riprovazione e sdegno nell'opinione pubblica, così vivamente turbata, con conseguenti possibili manifestazioni avverse e di riflesso, il rischio di turbative dell'ordine pubblico. Il provvedimento sarà notificato all'interessato nella giornata di oggi dalla Questura di Venezia».

Altro che apologia, nel lido incriminato solo tanta volgarità. La sinistra scambia frasi triviali per l'esaltazione del fascismo, scrive Lodovica Bulian, Mercoledì 12/07/2017, su "Il Giornale". Benvenuti allo stabilimento «fascista» di Chioggia che ama tutti: «Amo i gay amo le lesbiche, amo tutta la gente che si comporta bene». Regole della spiaggia: «Ordine, disciplina, pulizia. Poi divertitevi». Ma prima ricordate: «La zona è ad alta frequentazione di gnocche e gnocchi». Dunque, «massima educazione e non rompete i co...!». E mentre i bagnanti asciugamano sotto braccio se la ridono ormai da tre anni, da quando cioè i cartelli campeggiano all'ingresso del lido accusato di apologia e loro sono evidentemente appagati dalla grossolana personalità del titolare, il Pd e la sua sinistra vedono il Duce dappertutto. Un incubo. E per un giorno trasformano il bagnasciuga nel veneziano in una pericolosa sacca di rinascita del fascismo in Italia. Interrogazioni parlamentari, denunce, richieste di revoca della concessione a quel gestore, Gianni Scarpa, che si divertirebbe a far rivivere il Ventennio in uno «spazio pubblico». Eppure per condannare le sconcertanti banalità rivestite dalle espressioni di cattivo gusto di un «bagnino», come si definisce lui, non serviva scomodare le bandiere dell'antifascismo. Bastavano quelle contro le volgarità contenute nelle istruzioni di un comune manuale di galateo. Ma guai a ridurre tutto a «goliardate e folklore», ammoniscono i democratici. Che pure nei gabinetti, con quel cartello «per lui, per lei, per gay e per lesbiche», leggono un messaggio «omofobo, razzista e discriminatorio». Poi il gender friendly non era una vittoria della sinistra? E che dire di quei continui richiami all'ordine e alle regole da rispettare in riva al mare, che declinati in rime improvvisate che hanno attratto le telecamere dei tg? Spie di un sovvertimento della democrazia come sotto Mussolini, sentenziano i dem. Insomma, per loro in spiaggia non c'è posto per il sarcasmo. Tutto per gli indignati sarebbe un cristallino rimando al Duce. Tanto che sotto la tempesta mediatica il prefetto di Venezia ha fatto rimuovere con un'ordinanza le installazioni, e ha messo al bando messaggi vocali come quelli registrati da Repubblica, in cui tra le risate in sottofondo degli uditori si sente invocare lo «sterminio dei tossici». Anche la citazione mussoliniana «l'onestà deve cominciare dall'alto se si vuole che sia rispettata dal basso» per i piddini è una chiara incitazione alla violenza. L'inconfondibile prova del fascismo galoppante sotto l'ombrellone. Come quella, all'entrata, di Ezra Pound: «Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui». Elementi sufficienti a ottenere una revoca della concessione, chiedono in Parlamento, perché mica può fare come «a casa sua», Scarpa. Che così accoglieva i bagnanti: «In un paese devastato dai ladri istituzionali e maleducati qui ci sono le regole». Troppo fascista. «Non è tollerabile che uno spazio pubblico sia affidato ad una gestione portatrice di messaggi inaccettabili e illegali», è la voce unica dal Pd a Si a Mdp, che portano il caso al ministro dell'Interno. E così anche quel minaccioso «zona antidemocratica», scritto all'ingresso del parcheggio, è finito sul tavolo del prefetto. Che l'ha preso alla lettera.

Boldrini: "I monumenti fascisti offendono chi ha liberato il nostro Paese". La Boldrini riprende la sua crociata contro i monumenti fascisti: "Offendono i partigiani. Lo Stato non ignori le manifestazioni d'ispirazione fascista", scrive Chiara Sarra, Martedì 11/07/2017, su "Il Giornale". "Non commento i provvedimenti che sono in Aula, ma ci sono persone a disagio quando passano sotto i monumenti fascisti". A dirlo è Laura Boldrini che a margine del convegno "Europa, quale Futuro" non commenta la proposta di Fiano sull'apologia di fasciamo in discussione alla Camera, ma non rinuncia a ribadire la sua idiosincrasia verso i simboli di una storia passata che vorrebbe cancellare. "Per quanto riguarda queste manifestazioni di ispirazioni fascista, noi non possiamo sottovalutarle", ha detto la presidente della Camera, "Lo abbiamo visto dalle manifestazioni al cimitero di Milano, alla spiaggia con lo stabilimento balneare, alle liste con il littorio fascista, alle irruzioni nei consigli comunali". E poi ha aggiunto: "Ci sono persone che si sentono colpite da questo, a volte anche offese". Ad esempio i partigiani che ha accolto alla Camera in occasione delle cerimonie per la Liberazione, "Non accade altrettanto in Germania dove i simboli del nazismo non ci sono più. Io rispetto la loro sensibilità, ma è evidente che in Italia questo passaggio non c'è stato. Però non possiamo nemmeno sottovalutare il fatto che ci siano alcune persone che hanno dedicato la loro giovinezza a liberare il nostro paese che si sentono poco a loro agio quando passano sotto certi monumenti". Già nell'aprile 2015 la Boldrini aveva lanciato la sua crociata contro la scritta "Dux" che campeggia sull'obelisco del Foro Italico a Roma, scatenando mille polemiche.

Il delirio della Boldrini: propone di cancellare i monumenti del Duce. La presidente della Camera scatena l'ilarità della Rete: "Abbattiamo la stazione Termini?", scrive Massimo Malpica, Mercoledì 12/07/2017, su "Il Giornale". La stazione di Milano Centrale con i suoi simboli imperiali? Il «Colosseo quadrato» dell'Eur con le sue grandi iscrizioni? Il «Palazzo dei Marescialli», ora sede del Csm, con le sue aquile e le sue teste elmettate? Abbattere, grazie. Sono simboli fascisti, creano «disagio» ai partigiani. E se abitate a Sabaudia o a Latina sono guai. Insomma, occhio: nessuno è al sicuro. Nemmeno i tombini. Già, a volte ritornano anche le pessime idee. E così Laura Boldrini, presidente della Camera, a differenza di Paganini si ripete. Con lo stesso spartito, l'abbattimento dei monumenti fascisti, e le stesse citazioni. E scatenando oggi come allora in egual misura ilarità e polemiche. Ad aprile del 2015, dopo aver ricevuto i partigiani a Montecitorio per il 70esimo anniversario della resistenza, fece suo il «disagio» manifestato da alcuni ospiti per essere costretti a vedere nelle città i simboli del Ventennio. Nel mirino finì in particolare l'obelisco del Foro Italico, e Boldrini propose almeno di «togliere la scritta» Mussolini Dux. Seguì un'ondata di polemiche insolitamente trasversali e la Boldrini fece retromarcia parlando a RaiNews24: «I partigiani hanno manifestato il loro disagio, ma io mi sono sottratta a questo esercizio di abbattimento». E dunque, concluse, «L'obelisco rimane lì, nessuno vuole abbattere niente». Questione chiusa? Macché. Arriva Emanuele Fiano con la sua legge e qualcuno chiede un parere alla Boldrini, a margine di un convegno. E lei prima dice di non voler «commentare i provvedimenti che sono in Aula». E poi - come riporta il Tempo - rispolvera la stessa storia, il medesimo aneddoto dei partigiani che, alla Camera, due anni fa le parlarono del «disagio» provato passando nelle città sotto ai simboli di quel fascismo che hanno combattuto. E che «non accade altrettanto in Germania, dove i simboli del nazismo non ci sono più». E dunque «non possiamo sottovalutare il fatto che ci sono persone che si sentono poco a loro agio quando passano sotto certi monumenti». Insomma, tregua finita. Ad appena 74 anni dalla fine del regime fascista, la crociata boldriniana contro obelischi, monumenti e tombini che offendono i partigiani può ripartire. E con essa l'ilarità della rete. Twitter si scatena: «Praticamente è come se gli egiziani abbattessero le piramidi perché costruite da popoli resi schiavi», «Buttiamo giù la stazione Termini, Ponte Flaminio, il ministero degli Esteri?», «Boldrini rivendica il metodo Isis per le architetture del Ventennio», «Un secolo fa, la sinistra consegnava il paese al fascismo. Un secolo dopo, prima di ritirarsi sull'Aventino, lo vuole in macerie», e via cinguettando. Il sito termometropolitico.it, poi, si preoccupa anche di ricordare alla terza carica dello Stato che quella postilla sui tedeschi demolitori di simboli nazisti è una discreta panzana. Molti monumenti all'odor di svastica sono ancora in pieno uso in Germania, dall'Area dei raduni di Norimberga alla Haus der Kunst di Monaco, fino all'Olympiastadion di Berlino, realizzato per le Olimpiadi del 1936. Ma ricordato in Italia per i mondiali di 70 anni dopo. il trionfo del 2006. Quando, per fortuna, era ancora in piedi.

Fascismo, Mussolini a Boldrini "In punizione dietro l'obelisco". Alessandra Mussolini intervistata a La Zanzara ha commentato la legge Fiano e l'uscita della Boldrini sui monumenti fascisti: "Io sono un reato vivente, lei una poveretta", scrive Gabriele Bertocchi, Martedì 11/07/2017, su "Il Giornale". "Per dirla alla Fantozzi, questa legge Fiano è una cagata pazzesca": parole di Alessandra Mussolini, deputato di Forza Italia, ospite a La Zanzara su Radio 24. E ancora: "Se approvano questa minchiata mi autodenuncio e mi metto una maglietta con la scritta 'W Nonno. Poi voglio vedere". Poi la nipote del Duce punge la Boldrini: "È da cacciare". "Qualche volta - ammette la Mussolini - quando vado in giro mi riconoscono e mi fanno il pugno chiuso e a me parte la manina tesa, un piccolo polso teso (il saluto romano, ndr). Loro fanno il pugno, a me parte il polso, è spontaneo, mi si alza la mano autonomamente, è un fatto genetico. A me si alza il polso, volete mettermi in galera? Il dna è questo, cosa volete. E' una cosa inconscia". "Mussolini - dice la parlamentare - fa ancora paura agli imbecilli. Questa è la verità. Ha fatto un sacco di cose positive per l'Italia, lo dice la Storia. Ha fatto di tutto. Molte cose positive. Io sono di parte. Se uno trova un magistrato zelante - dice -può darsi che uno dice Vota Mussolini e ti mandano in galera. Io con la legge Fiano sono un reato vivente". "Questa legge - ribadisce - non è una priorità, non c'entra niente. Il sindaco di Predappio del Pd ci campa coi cimeli di mio nonno. C'è la cripta della mia famiglia, che vogliono fare, distruggerla? La legge si può estendere a tutto. Anche firmare un santino di mio nonno come ricordo. I delinquenti non vanno in galera mentre qui si punisce la discendenza di una famiglia. Hanno paura di una cartolina, di una seduta spiritica. Fatelo contro l'islamismo radicale non su queste minchiate di proporzioni stellari. Se vogliono abbattere qualcosa abbattano tutto, ordinamenti, monumenti, codici, obelischi, strade, ospedali". "La verità è che spesso mi dicono: se in questa fase ci fosse stato Lui..."- racconta la nipote del Duce. Cruciani poi chiede quali cimeli del fascismo possiede: "Ho di tutto: busti e un bellissimo ritratto in lana del '33 di mio nonno, ho un arsenale". Il conduttore poi imbecca la Mussolini con una domanda sulla Boldrini, che ha dichiarato che alcune persone provano fastidio quando passano vicino a un monumento dell'epoca fascista. Secco il commento delle deputata: "Una poveretta, è da cacciare, si deve dimettere. Non si deve più sedere, deve stare in piedi, in punizione dietro l'obelisco".

Il monito di Pasolini: «Attenti al fascismo degli antifascisti», scrive Luciano Lanna il 16 luglio 2014. Quarant’anni fa, il 16 maggio 1974, Pier Paolo Pasolini scriveva sul Corriere della Sera uno dei suoi editoriali che ancora oggi restano nell’immaginario continuando a farci interrogare sul cuore del "caso italiano". Il tema era oggettivamente pasoliniano: "Il fascismo degli antifascisti". E il ragionamento che il poeta vi svolgeva era la continuazione di quanto andava spiegando da oltre un mese, a cominciare dall’editoriale "Gli italiani non sono più quelli", del 10 giugno, a quello su "Il potere senza volto", del 27 giugno, sino alle note riflessioni sulla rivoluzione antropologica e l’omologazione in Italia, dell’il luglio. Si tratta di alcuni degli articoli che verranno poi raccolti in un libro nel novembre 1975 nell’ultima opera pubblicata in vita da Pasolini: Scritti corsari. In tutti quegli articoli l’autore denunciava il fatto che nessuno in Italia si mostrava in grado di comprendere quanto stava realmente accadendo: «Una mutazione della cultura italiana, che si allontana tanto dal fascismo che dal progressismo socialista». In realtà, precisava Pasolini, era in atto un fenomeno devastante e inarrestabile di mutazione antropologica conseguente alla trasformazione del sistema di Potere: «L’omologazione culturale che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è or- mai la stessa…». Sino al passaggio più importante: «Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista -e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili…». E anche guardando ai giovani che in quel 1974 si chiamavano e venivano definiti "fascisti", Pasolini spiegava che si trattava di una definizione puramente nominalistica e che portava fuori strada: «È inutile e retorico – concludeva fingere di attribuire responsabilità a questi giovani e al loro fascismo,-nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono è la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei». Il problema, semmai, era il nuovo Potere, non ancora rappresentato simbolicamente e dovuto alla omologazione della classe dominante, il quale stava omologando la società italiana. Si trattava – annotava preoccupato Pasolini – di un una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre». E la strategia della tensione ne era a suo avviso una spia significativa che ne svelava l’altra faccia della medaglia…Pasolini insomma, in totale controtendenza rispetto agli altri intellettuali suoi contemporanei, invitava a cogliere e contrastare il volto disumano del nuovo potere piuttosto che a rimuovere il problema rispolverando un antifascismo fuori contesto e fuori tempo massimo. «E bisogna avere il coraggio – aggiungeva – di dire che anche Berlinguer e il Pci hanno dimostrato di non aver capito bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni». Perché infatti, si domandava il poeta, rilanciare trent’anni dopo la fine della guerra e del fascismo un’offensiva antifascista (che oltretutto portava fuori strada) invece di aggredire dalle fondamenta il nuovo potere senza volto, magari con le sembianze di una società democratica e di massa, «il cui fine è riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo»? E in questo passaggio Pasolini aggiungeva un’autocritica inedita e importante: «In realtà – confessava ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente. Non nascondiamocelo: tutti sapevano, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale… Ma nessuno ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla…». Chissà quanto si sarebbe scongiurato di quanto è avvenuto dopo in termini di messa in moto dell’antifascismo militante, della conflittualità destra/sinistra e dello stesso spontaneismo armato successivo – se si fosse dato ascolto, allora, a Pasolini? Ma la storia non si fa con i "se" e quanto lui scriveva oggi vale soprattutto come controcanto a una vicenda ancora tutta da analizzare storiograficamente. Importante, inoltre, il fatto che il succo dell’articolo del 16 luglio riguardasse il "silenzio" mediatico e politico sui vincitori del referendum del 13 maggio, Marco Pan- nella e i radicali. Di fronte all’affermazione crescente di un potere a vocazione totalitaria – che si reggeva sul patto Dc-Pci-Confindustria-cultura consumista – i radicali apparivano a Pasolini come il solo fenomeno irriducibile ed eccedente. «Nessuno dei rappresentanti del potere – annotava – sia del governo che dell’opposizione, sembra neanche minimamente disposto a compromettersi con Pannella e i suoi. La volgarità del realismo politica sembra non poter trovare alcun punto di connessione col candore di Pannella, e quindi la possibilità di esorcizzare e inglobale il suo scandalo». Il Partito Radicale e il suo leader Marco Pannella erano, spiegava il poeta, i reali vincitori del referendum sul divorzio del 12 maggio e proprio questo non gli veniva perdonato da nessuno. Ma, «anziché essere ricevuti e complimentati dal primo cittadino della Repubblica, in omaggio alla volontà del popolo italiano, volontà da essi prevista, Pannella e i suoi compagni – scriveva Pasolini – vengono ricusati come intoccabili. Invece che apparire come protagonisti sullo schermo della televisione, non gli si concede nemmeno un miserabile quarto d’ora di tribuna libera». Antifascismo pretestuoso e fuori tempo massimo, da un lato, e censura della presenza radicale, dall’altro. Una domanda è inevitabile: quanto c’è, quarant’anni dopo, di continuità con quella logica del potere?

Così antifascisti da sembrare fascisti, scrive Michele Brambilla, Martedì 22/04/2008, su "Il Giornale". Qualcuno la attribuisce a Mino Maccari, qualcun altro a Ennio Flaiano. Ma se la paternità della battuta è incerta, l’efficacia è a volte certissima: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti». Quello di cui ci occupiamo oggi è uno di quei casi in cui la battuta funziona. Lo raccontiamo prendendo per mano il lettore, accompagnandolo passo dopo passo, perché altrimenti in lui sorgerebbe il dubbio di essere finito su scherzi a parte. Invece è tutto vero, come si può facilmente verificare. Basta entrare in Internet e collegarsi al sito ufficiale dell’Anpi, associazione nazionale partigiani: anpi.it. Parlo dell’Anpi nazionale, non di una qualche sezione locale gestita magari da un tizio un po’ sopra le righe. Dunque. Entrate nel sito, vi apparirà una home page e sentirete in sottofondo le note di fischia il vento/ urla la bufera/ scarpe rotte/ eppur bisogna andar. È una musica che desta una certa emozione, lo dico senza alcuna ironia, anche don Camillo si commuoveva quando dalla piazza del paese arrivavano le note dell’Internazionale suonata dalla banda comunale. Torniamo alla home page dell’Anpi. La prima notizia è l’annuncio della manifestazione programmata per il 25 aprile. Un link rimanda al «Manifesto unitario delle forze democratiche antifasciste»: è il documento ufficiale della «grande manifestazione nazionale», in programma a Milano venerdì prossimo. Il manifesto comincia con un ricordo dei giorni che furono. Il nazifascismo, la lotta di liberazione, il sacrificio di decine di migliaia di partigiani, infine il risultato di quella lotta: la Costituzione («fra le più avanzate di quelle esistenti») e la nascita della democrazia. Dopo di che si arriva ai giorni nostri. E qui citiamo testualmente dal «manifesto unitario»: «Ma a sessant’anni dal primo gennaio 1948, da quando essa entrò in vigore, l’Italia sta correndo nuovi pericoli. Emergono sempre più i rischi per la tenuta del sistema democratico, come evidenti si manifestano le difficoltà per il suo indispensabile rinnovamento. Permangono, d’altro canto, i tentativi di sminuire e infangare la storia della Resistenza, cercando di equiparare i “repubblichini”, sostenitori dei nazisti, ai partigiani e ai combattenti degli eserciti alleati (...). Conclusione: «Per questi motivi, per difendere nuovamente le conquiste della democrazia, il 25 aprile anniversario della Liberazione assume il valore di una ricorrenza non formale. Nel ricordo dei Caduti ci rivolgiamo ai democratici, agli antifascisti, per una mobilitazione straordinaria in tutto il Paese». Dunque quella di venerdì non sarà la solita commemorazione della Resistenza, ma una ricorrenza «non formale», una manifestazione «straordinaria». Questo perché il momento è eccezionale, «l’Italia sta correndo nuovi pericoli», «la tenuta del sistema democratico» è «a rischio». Berlusconi come Mussolini? Bossi come Hitler? Maroni come Kesselring? Alemanno come Kappler? Ci sarebbe da sorridere, se non fosse che ogni volta che il centrodestra vince le elezioni in Italia si rispolverano bella ciao e lo spettro delle deportazioni, la fine della democrazia e il ritorno del mito della razza. Ci sarebbe da sorridere, se non fosse per l’impressionante dispiegamento di firme a sostegno di questo «manifesto unitario» che chiama l’Italia in piazza contro la ri-nascente dittatura: oltre all’Anpi e a tutte le associazioni combattentistiche e partigiane, Pd, Prc, Sdi, PdCI, Sd, Verdi, Italia dei Valori, Cgil, Cisl e Uil, Arci, Acli e tanti altri ancora, abbiamo citato solo quelli che rappresentano tutto il centro sinistra e la sinistra istituzionali. Ieri il segretario della Uil Lombardia si è dissociato, e c’è da sperare che oggi molti altri seguano il suo esempio. Purtroppo però l’equiparazione vittoria del centrodestra-fine della democrazia non è solo una trovata di qualche funzionario dell’Anpi e di partito, ma una fissazione di gran parte del mondo progressista italiano, specie quello più influente nei giornali, nella cultura, nel mondo degli spettacoli. Fissazioni che danneggiano anche (e forse soprattutto) la stessa memoria storica della lotta al nazismo e al fascismo; certamente la danneggiano più di qualsiasi testo revisionista. La Resistenza viene gettata nel ridicolo non dai libri di Giampaolo Pansa, paragonato a uno Starace quando non a un Goebbels, ma da questi «comitati permanenti» sempre in lotta contro orbaci e camicie nere che esistono solo nella loro fantasia. Accanto al ridicolo c’è però un aspetto inquietante. Nel «Manifesto unitario», così come in tanti discorsi o articoli, si fa riferimento ai valori della democrazia, ma i primi a non rispettare la democrazia, e a invocare contro di essa l’uso della piazza, sono proprio coloro che non accettano l’esito di una consultazione elettorale. Chi va a governare ci va perché così ha voluto il popolo italiano, non perché ha fatto un colpo di Stato. E se si giustifica l’esito del voto con i «condizionamenti» delle televisioni, si torna a cadere nel ridicolo: da quando c’è il bipolarismo, si è andati a votare cinque volte, e gli italiani hanno sempre scelto una volta una coalizione, e una volta quell’altra. Priva al tempo stesso del senso del ridicolo e dell’accettazione della volontà popolare, è questa sinistra - più che Maccari o Flaiano - ad aver dato vita al detto popolare secondo il quale tra fascisti e antifascisti, perlomeno quanto a intolleranza, non c’è poi tanta differenza.

Peggio dei fascisti ci sono solo gli antifascisti, scrive il 12 Luglio 2017 Filippo Facci su "Libero Quotidiano". È proprio una legge stupida, come tutte le leggi che non saranno neanche dannose perché si riveleranno inutili, all' italiana, accomodate, non applicate, aggiustate a colpetti di giurisprudenza, una pacchettina sulle spalle dell' onorevole Pd Emanuele Fiano (primo firmatario) che incasserà l' ennesimo medaglione richiesto dalla comunità ebraica, che beninteso, fa il proprio lavoro di eterna recriminazione e sfruttamento dei sensi di colpa di destra e sinistra: ma quando riesce a mettere d'accordo i grillini e Salvini e persino la logica, beh, qualche domanda la Comunità dovrebbe porsela. Per esempio questa: non sarà mica stupida davvero, una legge come questa? Ma stupida-stupida, controproducente, buona per rendersi antipatici a qualsiasi persona assennata di qualsiasi partito. Serviva proprio, la legge? C'era l'attualità della «propaganda del regime fascista e nazifascista» da punire sino a 2 anni e 8 mesi? Se proprio obbligati, potevate fare almeno una legge finto-moderna che prevedesse un'aggravante per i trascurati siti internet che fanno propaganda fascista e nazista, insomma una cosa magari egualmente criticabile, ma almeno tecnica, aggiornata, sul pezzo. Invece la legge si occupa di «immagini» e «simboli» e loro «produzione, distribuzione, diffusione o vendita»: di che cosa. Esattamente? Di che parliamo? Parliamo dei manigoldi che vendono magliette col profilo di Mussolini, degli scemotti che si fanno fotografare mentre fanno il saluto romano, del sangiovese con l' etichetta del Duce, dei vecchietti che alle fiere militari vendono cimeli per rincoglioniti nostalgici (vera ossessione di Fiano da anni) e quindi di busti, gagliardetti, paccottiglia, poi ecco, ci sarebbe il problema dei francobolli e delle monete e delle riviste e dei manifesti, le foto, i vestiti, tutto il collezionismo, l' arte, in teoria l' architettura, magari l' Eur. Nel marzo del 2015 il tribunale di Livorno aveva assolto quattro tifosi veronesi che avevano fatto il saluto romano durante una partita, in quanto slegato, il saluto, a un concreto pericolo di una concreta riproposizione di un movimento politico fuorilegge: il Pd di Emanuele Fiano invece li avrebbe voluti incarcerare, presumiamo. L' anno scorso l'ebreo Filippo Bolaffi (amministratore dell'omonima casa d' aste nata con la filatelia più d' un secolo fa) la mise così: «Io non terrei mai in casa certi reperti, ma proibirli significa negare la storia». Così sulla Stampa nel gennaio 2016. E dovevano ancora approvare un'altra legge stupida e inapplicata, quella sul negazionismo storico (giugno 2016) che introduceva la galera da 2 a 6 anni quando la propaganda e l'incitamento all' odio razziale si fossero fondate «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra». Fu un altro inutile casino, perchè si citavano «la Shoah o i crimini di genocidio» come se appartenessero a una classificazione storica tra loro diversa (festeggiò solo l'Unione delle Comunità Ebraiche, infatti) e come se sulla definizione dei genocidi (altri genocidi) non fioccassero disaccordi di natura storica: bene, ora si lasciava tutto nelle mani dei magistrati. Morale: uno studioso di sinistra come Marcello Flores (direttore dell'Istituto storico della Resistenza e curatore della Storia della Shoah per Utet) si ritrovò indirettamente d' accordo con Carlo Giovanardi o con Pietro Ichino: quella legge era un pasticcio infernale. Quello degli armeni fu genocidio o massacro? E che si doveva fare coi libri serissimi che nelle biblioteche negavano certi crimini di guerra come fece anche Montanelli con l'uso dei gas italiani in Etiopia? E quello di Srebrenica fu genocidio o no? E che dire dei tribunali di Buenos Aires che negarono lo status di genocidio alla repressione militare argentina? E che dire di quei libri che ancor oggi giustificano o «contestualizzano» i milioni di morti dello stalinismo? Persino Giorgio Napolitano scrisse cose imbarazzanti sul ruolo di Solzenicyn durante l'intervento sovietico a Budapest nel 1956, che facciamo? Ecco, a proposito: l'anno scorso Il Giornale allegò una copia del "Mein Kampf" come documento storico: non fu propaganda? I libri no, i francobolli sì? Parentesi: in Italia il "Mein Kampf" è sempre stato pubblicato da un'editrice decisamente di sinistra (la Kaos) che editava anche libri di Karl Marx, Dario Fo, Luigi Pintor e Mino Pecorelli: significa che il suo pubblico di sinistra era sensibile alla propaganda nazista? No, ovviamente: significa solo che i libri non si censurano (mai) e che le idee non sono (mai) reati anche se ieri l'onorevole Fiano spiegava ai grillini che «il fascismo non è un'idea, è un crimine». Una scemenza che non bisogna aver paura di definire scemenza, perché confonde le idee con gli uomini che se ne impossessano: criminali erano Stalin o Mao, non il comunismo di Karl Marx; criminale era Pol Pot, non il Partito dei Lavoratori in cui prosperò; criminale era Hitler, non il nazionalsocialismo che gli preesisteva da trent' anni; Emanuele Fiano può ritenere criminale anche Mussolini, se vuole, non sarebbe il solo, ma non il fascismo dei precursori Marinetti, D' Annunzio, Prezzolini, Papini, Georges Sorel (col suo sindacalismo rivoluzionario) e tutto ciò che fa comunque parte delle idee, non degli uomini che se ne sono fatti scudo. Non dei vecchietti che il Pd di Renzi vorrebbe punire, rompendogli le palle perché collezionano cimeli nostalgici che gli ricordano la giovinezza. E poi? Che cosa faremo? Lasceremo che inneggiare a Stalin o a Bin Laden invece resti normale? Proibiremo anche quello? Rischieremo di dover dar ragione all' onorevole Renato Brunetta che provocatoriamente (speriamo, diosanto) ieri proponeva di introdurre nella legge Fiano anche l'apologia di comunismo? Ma basta domande. La risposta l'abbiamo già tutti: è una legge stupida. Filippo Facci

Così le violenze comuniste lanciarono il Fascismo verso il potere. In edicola con il Giornale (a 9,90 euro oltre al prezzo del quotidiano) il secondo volume della Storia del fascismo del giornalista Giorgio Pisanò, scrive Matteo Sacchi, Sabato 8/07/2017, su "Il Giornale". Qui Pisanò racconta alcuni momenti fondamentali del passaggio dal fascismo movimento al fascismo come partito unico ormai fuso con le strutture dello Stato (una fusione sempre imperfetta, visto il perdurare della monarchia). Pisanò racconta nel dettaglio il periodo 1921-1922 mettendo in luce alcuni dei passaggi più critici della presa del potere da parte di Mussolini. Nell'agosto del 1921 il leader fascista aveva voluto un patto di pacificazione con i socialisti e questo scatenò le tensioni con i fascisti più intransigenti come Dino Grandi. Ne nacque una crisi profonda del movimento per uscire dalla quale, paradossalmente, risultarono salvifiche le violenze del neonato partito comunista. Furono esse ad aumentare le simpatie verso il movimento e a consentire a Mussolini di riprendere il controllo degli «arrabbiati» nel novembre del '21. Si passò così dal movimento al partito.

Alle prime elezioni le "beghine" salvarono la nostra democrazia Gli intellettuali del Pci invece la tradirono. Le votazioni politiche del '48 che videro il trionfo della Democrazia cristiana sancirono che il Paese era spaccato in due. Schiacciati dai conflitti della Guerra fredda, i liberali si trovarono confinati in un ruolo di contorno, scrive Giampietro Berti, Mercoledì 12/07/2017, su "Il Giornale". Il 18 aprile 1948 si svolgono le prime elezioni politiche generali in Italia a suffragio universale. Si vota per la formazione della Camera dei deputati e per il Senato della Repubblica. Il risultato elettorale sancisce la vittoria schiacciante della Democrazia cristiana (48,5%) sulle sinistre (31%). Inizia l'età del centrismo prolungatosi fino ai primi anni Sessanta. Seguiranno il centrosinistra e, più tardi, negli anni Settanta, il latente compromesso storico fra DC e PCI; infine, nel decennio seguente, il protagonismo del Partito socialista guidato da Bettino Craxi. Il periodo si chiude con Tangentopoli e la fine della cosiddetta prima Repubblica. Il 18 aprile segna dunque una svolta storica fondamentale perché pone, per quasi mezzo secolo, la sostanziale centralità della Democrazia cristiana sulla vita politica nazionale. Ma da questa data non inizia solo un futuro, ma si chiude anche un passato, precisamente quello segnato dalla caduta del fascismo e dalla ripresa della democrazia liberale entro il trapasso dall'istituto monarchico a quello repubblicano. Il 18 aprile, dunque, è uno spartiacque decisivo perché in questo crinale si svela in modo inequivocabile la verità politica della storia italiana; mostra, cioè, che la maggioranza degli italiani è di orientamento moderato e, allo stesso tempo, rende evidente che la sinistra tale è - e tale rimarrà - una forza minoritaria, specialmente se si orienta verso l'area comunista. Per dar conto di queste affermazioni bisogna riflettere sui cinque anni che contrassegnano il passaggio dal fascismo alla democrazia: 1943-1948. La prima cosa da dire è questa. La Resistenza, insorgenza sacrosanta, non può essere considerata propriamente un fenomeno popolare perché coinvolse una minoranza della popolazione, mentre la maggioranza cercò di sopravvivere in una zona grigia aspettando la fine della guerra. Non sono solo i numeri a dirlo, ma, soprattutto, quello che avvenne dopo il 25 aprile 1945. Fin da subito la coalizione antifascista mostra i segni di questa realtà, la sua precaria unità. Dietro ad essa non c'è un popolo unito e concorde: è diviso politicamente, ideologicamente, culturalmente. Passato il vento del Nord rappresentato dalla brevissima presidenza di Ferruccio Parri, giugno-dicembre 1945, la normalità democratica impone alla guida del governo il democristiano Alcide De Gasperi, ovvero impone chi rappresenta di fatto - anche se non ancora in modo elettoralmente accertato e legittimato - la maggioranza degli italiani. Il referendum a suffragio universale (votano per la prima volta anche le donne), tenutosi il 2 giugno 1946 per la scelta istituzionale fra repubblica e monarchia, conferma questa constatazione circa la preminenza dell'orientamento moderato. Considerando le responsabilità e le gravi compromissioni della casa regnante con il regime fascista, lo scarto della vittoria repubblicana (54%) a fronte della sconfitta monarchica (46%) è deludente. L'Italia è spaccata in due. Al Sud - che non ha conosciuto la lotta partigiana - la maggioranza della popolazione vota per la monarchia (a Napoli l'80%), al Nord per la repubblica (a Trento l'85%). Nella stessa Napoli scoppiano violente proteste da parte di militanti monarchici, nove di essi rimangono uccisi dalla polizia (un centinaio i feriti), quando si crede che il risultato elettorale sia stato manipolato. A parte le accuse monarchiche per presunti brogli nel conteggio delle schede, è certo che se si tiene conto dei voti nulli (tra schede bianche, annullate e contestate, circa 1 milione 500 mila) il divario tra monarchia e repubblica scende da 2 milioni a 250 mila: dopo tutto quello che era successo! Umberto II (re da meno di un mese), e tutta la sua famiglia, sono costretti all'esilio. Le contemporanee elezioni, tenutesi sempre il 2 giugno 1946 e sempre a suffragio universale, per l'Assemblea costituente sembrano ancora risentire del clima resistenziale e smentire quanto abbiamo appena asserito, ma non è così. Il voto vede l'affermazione dei tre partiti di massa, i quali raccolgono il consenso di tre quarti dell'elettorato: socialisti 20, 07%; comunisti 19, 09%; democristiani 35,02%. Poco consistente appare un terzo polo laico, liberale e democratico: repubblicani 4,04, azionisti 1,08, liberali 6,08. I socialisti e i comunisti, insieme, sorpassano i democristiani, ma si tratta di una vittoria effimera perché all'interno del partito socialista esiste una frattura tra coloro che, capeggiati da Pietro Nenni, vogliono continuare l'alleanza con i comunisti e coloro che, capeggiati da Giuseppe Saragat, se ne vogliono staccare. Questa frattura si consumerà definitivamente nel gennaio 1947 con la scissione di Palazzo Barberini, che porterà alla costituzione del partito socialista dei lavoratori italiani guidato da Saragat (in seguito partito socialista democratico). Sebbene le elezioni dell'Assemblea costituente abbiano registrato la mancanza di una forte componente liberal-democratica, la Carta costituzionale, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, recepisce per fortuna, almeno nella prima parte, alcuni princìpi fondamentali del liberalismo riguardanti le istituzioni e i diritti politici. Significativo, dell'esistenza della preminenza dell'orientamento moderato degli italiani, è quanto avviene con l'amnistia promossa nel giugno 1946 da Palmiro Togliatti, allora ministro di Grazia e Giustizia, per molti reati avvenuti negli anni immediatamente precedenti. Il capo comunista sceglie la pacificazione nazionale perché non può fare altrimenti, essendo impossibile epurare la maggioranza della classe politico-amministrativa che era stata fascista ed era, a sua volta, espressione della maggioranza degli italiani che, volenti o nolenti, si erano compromessi con il fascismo. Del resto, fin dal marzo 1944 Togliatti, con la svolta di Salerno, aveva realisticamente riconosciuto l'impossibilità di una rivoluzione socialista, data la presenza militare in Italia degli angloamericani. Con lo stesso spirito pacificatore egli farà poi votare dai deputati del suo partito l'articolo 7 della Costituzione che accoglieva il Concordato fra Stato e Chiesa del 1929 firmato da Mussolini. Nel corso del 1947 la contrapposizione a livello internazionale fra l'Occidente e il mondo comunista si fa sempre più netta. A Est cala la Cortina di ferro che taglia in due l'Europa, attraverso una linea che va dal Baltico all'Adriatico, da Stettino a Trieste. La Guerra fredda impone una scelta di campo ben precisa, che comporta due antitetiche visioni del mondo, due diversi modi di vivere la società civile, l'economia, la democrazia, la (sacrosanta) libertà degli individui: è uno scontro di civiltà. Si deve scegliere fra comunismo o anticomunismo, non c'è una terza possibilità: o l'Oriente comunista egemonizzato dall'Unione sovietica, o l'Occidente delle democrazie liberali guidato dagli Stati uniti d'America. Tutto ciò non può non ripercuotersi nel nostro Paese. Nel giugno De Gasperi dà vita al suo quarto ministero, senza socialisti e comunisti. Il governo, che alla fine dell'anno sarà formato da democristiani, socialdemocratici, liberali e repubblicani, nasce pressoché in coincidenza con la decisione degli Stati uniti d'America di avviare il Piano Marshall, che permetterà all'Italia, come ad altri Paesi europei, una rapida e benefica ricostruzione economica. All'inizio del 1948 la polarizzazione politica delinea i due campi contrapposti che si fronteggeranno nelle future elezioni. Da una parte la Dc e i suoi alleati, dall'altra il Fronte Popolare composto da comunisti e socialisti. Non c'è spazio per un autonomo polo laico e liberale, né per un rifermento classicamente conservatore; ininfluente risulta, infine, l'estrema destra monarchica e missina. Anche la Chiesa cattolica contribuisce a questa radicalizzazione intervenendo direttamente nella contesa. Luigi Gedda, su indicazione di papa Pio XII, fonda, nel febbraio dello stesso 1948, i Comitati civici, che in poche settimane raggiungono il numero di ventimila. La loro rapida diffusione su tutto il territorio nazionale avviene grazie al sostegno dell'episcopato e dell'Azione cattolica. Ad essi viene demandato il compito di sensibilizzare politicamente gli elettori e condurre materialmente alle urne anziani e malati, che avrebbero altrimenti disertato il voto. La Dc trova un forte aiuto anche nel gesuita Riccardo Lombardi, il microfono di Dio, le cui predicazioni portano nelle piazze, collegate via radio, milioni di fedeli. Si fronteggiano dunque, con una mobilitazione ingente, due eserciti: decine di migliaia sono i militanti che ovunque, da entrambe le parti, organizzano comizi, affiggono manifesti, praticano un proselitismo capillare, convincendo casa per casa gli elettori indecisi. Da un lato i 300mila volontari dei Comitati civici legati a 22mila parrocchie, coadiuvati dai 600mila iscritti all'Azione cattolica, dall'altro il PCI, con più di 2 milioni di iscritti e 36mila cellule. Tra i più famosi manifesti elettorali, rammentiamo quello del Fronte Popolare raffigurante Garibaldi che prende a ombrellate De Gasperi e quello della DC che ammonisce l'elettore ricordandogli che nel segreto della cabina elettorale «Dio ti vede e Stalin no». Si arriva così alla vera e propria resa dei conti del 18 aprile. Si vota un solo giorno, domenica. Quasi 27 milioni di persone si recano a votare, il 92,23% degli aventi diritto (non vi sarà più in Italia un'affluenza così alta alle urne). Il risultato, come abbiamo detto, è noto: la DC vince con un margine di vantaggio che non lascia dubbi sulla volontà degli italiani. A questo punto non si può non riflettere, polemicamente, sul significato di questa vittoria, dovuta al voto di molta parte dell'elettorato socialmente e culturalmente tradizionale, con un apporto non secondario di tante persone anziane, per lo più donne (definite dalla sinistra sprezzantemente beghine). Si deve dire infatti che l'opinione pubblica progressista e gran parte degli intellettuali dell'epoca votarono, a stragrande maggioranza, per il Fronte Popolare. Pertanto se fosse stato per loro anche l'Italia avrebbe conosciuto il tragico destino delle democrazie popolari comuniste dell'Est europeo: decenni di miseria e di dittatura. Come disse Benedetto Croce: «beneditele quelle beghine perché senza il loro voto oggi noi non saremmo liberi».

CONTRO LA CONGIURA DEL SILENZIO E DELLA MENZOGNA.

Dalla rivoluzione allo Stato. Ecco la "Storia del fascismo". Nell'opera di Giorgio Pisanò il dettagliato resoconto del Ventennio. Radicato nella Prima guerra mondiale, scrive Matteo Sacchi, Sabato 1/07/2017 su "Il Giornale". In Storia quasi mai esistono argomenti neutri. La neutralità dello storico è una perenne aspirazione degli studiosi seri, ma quasi mai una realtà. Tutto questo risulta amplificato se si parla di storia contemporanea. E ancora di più quando si parla di una questione complessa come la storia del fascismo. La storia di quel movimento politico, dopo il 1945 è stata scritta quasi unicamente dai vincitori. Fa eccezione la Storia del fascismo. 1914-1943 Dalla rivoluzione allo Stato scritta da Giorgio Pisanò, di cui a partire da oggi pubblichiamo il primo volume in allegato con il Giornale. Giorgio Pisanò (1924-1997) del fascismo ha condiviso la fase finale della parabola politica. A 18 anni ebbe il comando della Compagnia Giovani Fascisti di pronto intervento del Comando generale della Gil di Taranto, addestrata per i soccorsi alla popolazione civile. L'8 settembre 1943 lo colse a Pistoia, dove fece rapidissimamente la sua scelta in favore della Rsi. Entrò poi volontario nel battaglione Nuotatori Paracadutisti della Decima Mas. Brillante e coraggioso, venne destinato ai servizi speciali di sabotaggio e di informazione. Paracadutato oltre le linee alleate, fu catturato due volte, riuscendo però sempre a scappare. Promosso due volte per meriti di guerra, venne poi assegnato al Quartier generale del Duce e ad altri incarichi di rilievo. Sino alla sua cattura, avvenuta il 28 aprile 1945 alla testa di un reparto di brigate nere. Tra i fondatori dell'Msi dopo la guerra, Pisanò ebbe quindi del fascismo una visione dall'interno. Quando il suo saggio venne pubblicato la prima volta, tra il 1988 e il 1990, pose l'attenzione su una serie di temi su cui la storiografia accademica, se si esclude Renzo De Felice, aveva spesso sorvolato. Una per tutte: il clima di grande violenza che connotò il cosiddetto «Biennio rosso» che culminò con l'occupazione delle fabbriche nel settembre 1920. Pisanò, proprio nel primo volume che presentiamo questa settimana, mette chiaramente in luce come i fascisti furono tutt'altro che l'unica forza a utilizzare la violenza e come le violenze di chi sognava un bolscevismo, in stile sovietico, siano state spesso alla base della reazione fascista. Un buon esempio di questa narrazione attenta è il capitolo dedicato ai fatti dell'aprile 1919 che portarono all'assalto contro il giornale socialista Avanti!. Le manifestazioni socialiste furono violentissime ed ebbero come bersaglio i nazionalisti. Ciò innescò una reazione a catena. Come sempre Pisanò utilizza e rende disponibili al lettore le fonti dell'epoca, a partire dai giornali. Le cronache più eloquenti sono quelle super partes del Corriere della Sera. Per capire quanto fosse teso il clima politico basti vedere in quali termini si espresse Pietro Nenni (che poi di Mussolini divenne fiero oppositore, da posizioni socialiste) proprio sull'attacco all'Avanti!: «Chi non ha diritto di protestare è proprio l'Avanti!, esaltatore della guerra civile. Credevano forse in via San Damiano che si potesse seminare a piene mani l'odio contro gli interventisti ed i patrioti, credevano che si potesse esaltare la dittatura del proletariato come redde rationem per chi aveva amato il proprio Paese, senza che la reazione fosse immediata ed impetuosa? Alla rivoluzione come alla rivoluzione». Pisanò fa ben capire anche quanto Mussolini fosse invece attento a dosare la violenza e a ritagliarsi un ruolo rassicurante verso i partiti più tradizionali e non legati al combattentismo. A costo anche di scontrarsi con i ras più intransigenti, come Dino Grandi. Ovviamente la narrazione di Pisanò non è neutra. Parliamo di uno storico e di un giornalista che non ha mai rinnegato la sua appartenenza d'area. Però dove la sua narrazione è orientata, l'orientamento è palese, manifesto. È nel commento ai fatti, non nel racconto dei medesimi. Questo rende il volume uno strumento di lettura ancora validissimo a molti anni di distanza dalla sua stesura. E, come sempre nel caso delle opere di Pisanò, davvero impressionante è anche l'apparato fotografico.

Quando l'Italia all'improvviso si riempì di partigiani inesistenti, scrive Matteo Sacchi, Sabato 24/06/2017 su "Il Giornale". Arriva oggi in edicola con Il Giornale (a 9,90 euro più il prezzo del quotidiano) l'ultima parte della Storia della guerra civile in Italia 1943-1945 scritta dal giornalista Giorgio Pisanò (1924-1997). In questo volume, che contiene anche una consistente parte di apparato, Pisanò fa il punto su una delle questioni più controverse relative allo scontro tra fascisti e antifascisti. Ovvero la consistenza delle forze partigiane. Quando Pisanò pubblicò le cifre presenti nel volume la storiografia ufficiale si limitava ad accettare i dati della presidenza del Consiglio dei ministri che parlavano di 393mila combattenti. Pisanò con uno studio puntuale dimostrò che in realtà quella cifra era ampiamente gonfiata. Avvicinandosi il 25 aprile un gran numero di persone che con la Resistenza vera nulla avevano avuto a che fare pensarono infatti di schierarsi dalla parte dei vincitori. Fatto per altro denunciato anche da alcuni partigiani come il generale Trabucchi: «Al 25 aprile... entrò nelle formazioni il flotto della razzamaglia: avventurieri, disertori, profittatori, gente che aveva qualcosa da far dimenticare, da occultare...». Ma quale fu allora la vera consistenza militare della Resistenza? I numeri di Pisanò, poi confermati dalla storiografia più recente, parlano di forze che non superarono mai gli 80mila uomini. E questi dati ci dicono due cose. La prima: il contributo militare dei partigiani non può essere sopravvalutato. La seconda: bisognerebbe distinguere tra chi quel contributo lo diede e chi saltò soltanto sul carro dei vincitori e magari, da quel carro, esercitò le sue vendette private.

La caccia al fascista divampò sanguinaria e senza logica dopo il 25 aprile, scrive Matteo Sacchi, Sabato 17/06/2017 su "Il Giornale". È in edicola da oggi con Il Giornale (a 9,90 euro più il prezzo del quotidiano) il nono volume della Storia della guerra civile italiana 1943-1945 scritta dal giornalista Giorgio Pisanò (1924-1997). In questo volume, come al solito arricchito da una imponente messe di fotografie d'epoca, prende in esame alcuni dei momenti più cupi della fase finale della Seconda guerra mondiale in Italia. Largo spazio è dato ad esempio all'uccisione dei gerarchi fascisti a Dongo e anche ai fatti di Piazzale Loreto a Milano. La parte più interessante del volume è però quella che racconta, passo passo, località per località come si svolse la caccia al fascista in tutto il Nord Italia. Nel solo Piemonte, secondo Pisanò, restarono uccisi 8mila fascisti e presunti tali. Il tutto avvenne in una guerra civile frammentata e folle. Dove gli scontri con gli ultimi che resistevano nel nome della Rsi si mischiavano ai regolamenti di conti che poco avevano a che fare con la politica, agli errori di persona o ai processi sommari. Che potevano condurre a esiti diversi a seconda di chi li conduceva. Una situazione di caos e violenza in cui gruppi armati come la «Polizia del popolo», nel comasco, spadroneggiavano e di cui gli Alleati o i membri moderati del Cln non riuscivano a venire a capo. Spesso la sola speranza per i reparti della Rsi era aprirsi la strada con le armi sino ai reparti alleati per arrendersi, come fece la Legione Tagliamento. Ma anche così c'era il rischio di essere trucidati una volta liberati.

Pisanò racconta gli ultimi giorni della Repubblica di Salò (e le trattative fallite), scrive Matteo Sacchi, Sabato 10/06/2017 su "Il Giornale". Le ultime convulse giornate della Repubblica di Salò. E gli sforzi del Partito comunista per impedire che qualsiasi trattativa andasse a buon fine tra i vertici della morente Rsi e gli aglo-americani o gli elementi più moderati del Cln. Ecco cosa racconta Giorgio Pisanò (1924-97), privilegiando le fonti interne alla Rsi, nell'ottavo volume della Storia della guerra civile in Italia 1943-1945, da oggi in edicola col Giornale (a euro 9,90 oltre il prezzo del quotidiano). Il racconto di Pisanò, corredato da una delle raccolte fotografiche più complete mai realizzata, ricostruisce minuto per minuto il fallimento della trattativa, orchestrata dal cardinal Schuster, avvenuta il 25 aprile '45 nell'arcivescovado di Milano. Le condizioni proposte ai fascisti dagli esponenti moderati del Clnai erano più che vantaggiose, compreso il fatto che Mussolini sarebbe stato consegnato agli anglo-americani. Oltre al fatto che i tedeschi avevano già trattato per proprio conto la resa. Che Mussolini scoprì solo in quel momento: «Ci hanno sempre trattato come dei servi, e alla fine mi hanno tradito! Sin da questo momento dichiaro di riprendere nei confronti della Germania la mia libertà d'azione». Erano parole cariche di rabbia, ma la libertà d'azione di Mussolini ormai era nulla. Ben presto si rese conto che anche se si fosse arreso ai moderati presenti all'incontro - il generale Cadorna, il democristiano Achille Marazza e Riccardo Lombardi del Partito d'azione - difficilmente questi ultimi avrebbero potuto garantire a lui e agli altri saloini protezione rispetto alle molto più numerose forze insurrezionali legate al Pci. Cosa che gli fu confermata anche dalla posizione molto dura presa dal socialista Pertini. Il Duce decise quindi la fuga dalla città non tanto per la velleità di un'ultima resistenza ma per guadagnare tempo e potersi consegnare agli alleati. È noto il modo in cui il piano fallì.

Quando la lotta tra partigiani e fascisti insanguinò inutilmente Bologna, scrive Matteo Sacchi, Sabato 03/06/2017 su "Il Giornale". Nel settimo volume di Storia della guerra civile in Italia di Giorgio Pisanò (1924-1997) in edicola con il Giornale da oggi (a 9,90 euro più il prezzo del quotidiano) il giornalista, che per primo ha ricostruito la storia del sanguinoso periodo compreso tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, mette in luce alcuni degli episodi più cruenti dello scontro tra fascisti e partigiani nella Pianura Padana. Soprattutto a Bologna. Il saggio, infatti, si apre con una accurata descrizione degli scontri avvenuti nella città a partire dall'ottobre del 1944. I partigiani iniziarono una complessissima operazione per introdurre nei quartieri bombardati della periferia, che erano semi abbandonati, il maggior numero di guerriglieri possibile. Era un piano concordato con gli Alleati nella prospettiva di un rapido attacco al capoluogo. L'attacco però non ci fu e la concentrazione di truppe partigiane portò soltanto a uno stillicidio di attentati. Perché una operazione di infiltrazione così brillante non venne sfruttata in modo militarmente più efficace? Pisanò adombra il dubbio che sostanzialmente gli Alleati sacrificarono i partigiani senza pensarci troppo. Di certo il 7 novembre del 1944, quando i fascisti localizzarono le basi dei partigiani si sviluppò una vera e propria battaglia. Fu uno scontro cruento in cui entrarono in azione anche un carro armato e l'artiglieria. Alla fine i partigiani riuscirono a sganciarsi. Ma tra le macerie dell'Ospedale Maggiore vennero trovati i corpi di molti militi fascisti che i gappisti avevano rapito e ucciso. Uccisioni sempre accuratamente messe sotto il tappeto dal mito resistenziale.

Tutti i misteri della morte dei Cervi. In edicola il terzo volume di "Storia della guerra civile in Italia" di Pisanò, scrive Matteo Sacchi, Sabato 29/04/2017 su "Il Giornale". Nel terzo volume della Storia della guerra civile in Italia del giornalista Giorgio Pisanò (1924 - 1997), che sarà in edicola da oggi con il Giornale a euro 9,90 più il prezzo del quotidiano, prosegue il racconto della lotta tra fascisti e partigiani, regione per regione. Il testo di Pisanò venne pubblicato per la prima volta nel 1965 ed è stato a lungo ignorato dalla storiografia accademica, perché metteva in crisi molti miti resistenziali. Questo è particolarmente vero per alcuni degli argomenti presi in esame proprio in questo terzo volume. Ad esempio l'uccisione del «federale» di Ferrara, Igino Ghisellini. Quello su cui non c'è dubbio è che Ghisellini venne rinvenuto morto, in un fosso lungo la strada tra Ferrara e Casumaro, il 14 novembre del 1943. Il federale era solito percorrere quella strada su una Fiat 1100, l'aveva imboccata anche la sera del 13. Qualcosa però andò storto. Fece salire sulla sua macchina qualcuno che gli sparò sei colpi alla nuca. La reazione fascista fu rapida e inutilmente brutale. Furono arrestati 74 presunti antifascisti, furono «processati» e 11 vennero fucilati. Quasi subito le forze partigiane accusarono i fascisti di aver ucciso Ghisellini per una faida interna e poi di aver sfruttato il delitto per dare il via alla repressione. Pisanò riuscì a dimostrare che, invece, nello stesso movimento partigiano c'era chi aveva rivendicato l'attacco come opera dei Gap. Ne parlò anche un articolo dell'Unità edita clandestinamente. I veri colpevoli? Difficili da stabilire ad anni di distanza, forse i gapisti millantarono per fingersi più aggressivi di quel che erano. O forse decisero a posteriori di occultare le loro responsabilità. Certo prima di Pisanò nessuno aveva fornito una versione alternativa a quella ufficiale. Come sono mirabili le pagine sulla vicenda dei fratelli Cervi. Pisanò mostra come in realtà il Partito comunista fece ben poco per avvertire la famiglia partigiana dell'imminente arresto da parte dei fascisti, anche se ne era stato avvisato. Possibile che trovasse i Cervi troppo autonomi e sacrificabili. Tant'è che subito dopo incrementarono gli attacchi che portarono alla ritorsione voluta dai fascisti più esagitati che scavalcarono il capo della provincia, il conte Enzo Savorgnan di Brazzà, e passarono i Cervi per le armi. Cosa che il Savorgnan commentò così: «Questo errore lo pagheremo caro».

Dalla socializzazione delle fabbriche alla resistenza fascista nel Sud Italia. Giorgio Pisanò racconta le mosse disperate dei fedeli del Duce, scrive Matteo Sacchi, Sabato 13/05/2017 su "Il Giornale". Nel quarto volume della Storia della guerra civile in Italia- in edicola da oggi con il Giornale a 9,90 euro più il prezzo del quotidiano - Giorgio Pisanò affronta alcuni dei temi più delicati relativi alla storia della Repubblica sociale italiana. A partire da quello cardine: l'Rsi va considerata come un mero governo ombra dell'invasore tedesco o ebbe una sua specifica capacità di gestione del territorio e una sua, seppur limitata autonomia politica? Pisanò mette l'accento su quelle prassi di governo e di riorganizzazione politica che marcarono le differenze tra il fascismo pre 25 luglio e quello repubblicano. In primo luogo il programma di nazionalizzazione delle fabbriche che fu un punto di profonda rottura, e la vera scommessa mussoliniana nel tentativo di ottenere nuovamente un forte consenso attorno alla nuova istituzione politica. Il tema venne messo in risalto già dal Manifesto di Verona del 14 novembre 1943. La manovra per applicare la socializzazione partì dal decreto di nomina dell'ingegner Angelo Tarchi a ministro dell'Economia corporativa. I primi intoppi derivarono dall'opposizione tedesca. Tarchi avrebbe voluto i suoi uffici a Milano, come li aveva il generale Hans Leyers (sovrintendente della produzione industriale italiana per conto del Reich), ma fu mandato a Bergamo. Per l'11 gennaio 1944 il programma sintetico della socializzazione era pronto. Ma era ormai troppo tardi.

Certo, le scelte fasciste crearono apprensione nel movimento partigiano che inizialmente temette la loro presa sulle masse. Però in realtà regalarono ai partigiani dei potenti alleati. La borghesia del nord scelse di boicottare i tentativi di socializzazione e fece una rapida scelta di campo. Una scelta per altro anche legata alla percezione del fatto che i rapporti di forza tra Asse e Alleati fossero ormai irrimediabilmente segnati. Come era segnata anche la resistenza fascista nel sud, che per primo Pisanò ha raccontato.

Tra i libri del Dux. A Ravenna un vero e proprio mausoleo bibliografico del Duce. Sorta nel 1927, la Biblioteca “Mussolini", scrive Davide Brullo su "Romagna Noi" il 24 Febbraio 2016. Alfredo Oriani aveva un barbone alla Carlo Marx. Nato a Faenza nel 1852, morì in solitudine nel 1909. Quello che Nietzsche e Wagner furono per il nazismo, Oriani, con le debite differenze, fu per il fascismo. Già sdoganato da Benedetto Croce, infatti, Oriani fu clamorosamente idolatrato da Benito Mussolini, che per l’editore Cappelli di Bologna editò in 30 volumi le sue opere (aiutato, con prefazioni ad hoc, da Giovanni Papini, Ugo Ojetti, Mario Missiroli, tra gli altri). Dimenticato dall’editoria italica (visto che piaceva al Duce), l’editore Aragno, per lo meno, ha avuto il coraggio di pubblicare, lo scorso anno, “La rivolta ideale”, del 1908, che è poi il testo ideale di Mussolini, quello che annuncia la necessità di un capo carismatico per risollevare la patria dalla palude dell’ignavia. “La rivolta ideale”, tra l’altro, fu il nome della testata dell’“Organo della Federazione Universitaria Fascista”, nata nel 1925 e diretta dal fascistissimo Antonio Beltramelli, collaboratore del “Corriere della Sera”, testimone di nozze di Arnoldo Mondadori, accademico d’Italia. L’amore assoluto di Mussolini per Oriani fu sigillato da due eventi pubblici: “Il Cardello”, la villa di Oriani a Casola Valsenio, nel ravennate, fu eletta monumento nazionale; con Regio Decreto del 14 aprile 1927, poi, si dava avvio all’“Ente Casa Oriani”, con l’intento di divulgare la memoria dello scrittore. Il cuore dell’ente era la Biblioteca di Storia Contemporanea, in via Corrado Ricci a Ravenna, non lontano dalla Tomba di Dante, inaugurata ottant’anni fa, nel settembre del 1936. Per fortuna, l’Ente esiste ancora: dal 2003 è Fondazione Casa di Oriani, la sua biblioteca conta 170mila volumi. Il fiore all’occhiello è la Biblioteca “Mussolini”, «unica nel suo genere in Italia», dicono da dentro, il frutto di una virile intuizione culturale. Battere Lenin a suon di libri. Mussolini, fiuto da giornalista e piglio da scrittore (secondo Elio Vittorini, che poi passò dalla blusa fascista alla casacca comunista, era meglio di Lev Tolstoj...), capì (non esiste solo la farina di Gramsci) che bisognava investire fortemente in cultura. Che la battaglia ideologica la si faceva anche con l’artiglieria bibliografica. «La “Mussolini” era pensata sul modello della concorrente Biblioteca “Lenin” di Mosca e aveva il compito istituzionale di raccogliere e conservare tutto ciò che in ogni parte del mondo veniva prodotto “da”, “sul”, ma anche “contro” il fascismo», ci fa sapere Alessandro Luparini, direttore della Fondazione. Ergo: tra il 1927 e il 1943 la Biblioteca “Mussolini” raccoglie circa 20mila volumi, conserva «oltre 400 biografie mussoliniane, la più grande raccolta esistente in Italia» e una collezione di periodici del Fascismo impressionante, da “Berlin-Rom-Tokio”, «rivista mensile per lo sviluppo dei rapporti fra i popoli del triangolo Roma-BerlinoTokio», stampata a Berlino tra il 1939 e il 1943, a “Cremona Nuova”, diretta da Roberto Farinacci, da “Il selvaggio” a “Tripolitania”, la «rassegna mensile illustrata della Federazione fascista tripolitana» al «mensile italo-giapponese» “Yamato” edito dal 1941 al 1943 dall’Istituto geografico de Agostini. Ce n’è da far venire l’acquolina in bocca agli storici, non a caso Richard J. Bosworth in “Mussolini. Un dittatore italiano” (Mondadori) definisce la Oriani la «biblioteca preferita». Fascisti nella rete. Si parla tanto del Museo Mussolini a Predappio, ma a Ravenna il Duce ha il suo mausoleo bibliografico. Ancora misconosciuto, a dire il vero. Riorganizzata lo scorso anno, ora aperta al pubblico, la Biblioteca “Mussolini” ha inaugurato a un interessantissimo progetto on line. L’idea è quella di creare una immane Mussolini Digital Library, attraverso Wikisource. Al momento hanno caricato solo due libri, “Coi Bersaglieri dell’Undicesimo Reggimento in guerra”, di Corrado Baldesi (che fece la Prima guerra con Mussolini) e “Gioventù italiana del Littorio”, edito da Mondadori nel 1939, redatto da Achille Starace, già Segretario del Partito Nazionale Fascista, appeso a testa in giù a Piazzale Loreto con Mussolini e la Petacci. Ovviamente, per perfezionare il progetto ci vogliono i soldi. Che, canonicamente, mancano. Nonostante nel Consiglio di amministrazione della Fondazione Casa di Oriani ci sia anche Antonio Patuelli, attuale presidente dell’Associazione Bancaria Italiana. Sostenuta da un paio di fondazioni bancarie (la Fondazione del Monte e la Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna), oltre che dal Comune di Ravenna, la Fondazione Oriani riceve spiccioli dallo Stato: la Regione Emilia Romagna la sovvenziona con 7mila euro annue mentre il Mibact la inserisce nella lista degli istituti culturali beneficiati (15mila euro annue), non accettando la domanda, però, per un contributo come biblioteca non statale. Bizzoso paradosso, la Fondazione Oriani ospita, insieme alla bibliografia fascista, l’Archivio storico del Partito Comunista Italiano del ravennate. La Biblioteca “Mussolini” resta una vera anomalia nella Ravenna rosso fuoco: finalmente hanno vinto la vergogna, facendo outing culturale.

La congiura del silenzio, scrive il 17 marzo Alessandro Russo su "Il Giornale D'Italia". Documenti e testimonianze di settant'anni fa. Censura rossa e disinformazione. Ma i documenti parlano di una verità da riscrivere. Domenica 28 febbraio ho scritto dell'ultimo libro dello storico Roberto Festorazzi (Gli archivi del silenzio) e di come riporti alla nostra attenzione le bugie, le mistificazioni, le ricostruzioni poste in atto dalla resistenza comunista. Ho avuto la fortuna, quindi non vi riporto notizie di seconda mano, di assistere al tumulto accaduto all'Istituto storico della Resistenza di Como, dopo la lettura di un articolo che parlava del libro di Festorazzi. Ingiurie, turpiloquio e motti resistenziali sono rimbalzati nelle stanze vetuste del palazzo, anche dopo che tutto il personale si è deciso a traslocare in un'altra stanza. Rimasto da solo, continuo a consultare alcuni fondi e i documenti passano lentamente. Poi, all'improvviso, salto sulla sedia. Riprendo il fascicolo, lo ripasso bene, quindi fotografo il tutto. Memorizzo in un file le prove che le bugie dispensate per anni dalla solfa resistenziale esistono per davvero. La morale è una sola: se i partigiani sono stati capaci di mentire sulle azioni svolte dai loro stessi uomini, quanto sono allora attendibili sulle vicende che hanno insanguinato la nostra Patria dal 25 aprile 1945 in poi? Dopo aver letto “Gli archivi del silenzio” ho avvertito il bisogno di cercare alcune conferme. E sapevo anche che dovevo concentrarmi sulla figura di Mario Tonghini se volevo ottenere delle risposte alle mie domande. Queste carte sono negli archivi, le possono consultare tutti. Chissà perché restano sempre al loro posto, seppellite nei faldoni ingialliti. Allora noi le mettiamo nero su bianco, le riportiamo alla luce del sole per spiegare a chi legge quanto la macchina del fango abbia radici profonde e salde nella costruzione della nuova Repubblica. Che Mario Tonghini dovesse cadere nell'oblio era chiaro a tutti. Non se ne doveva parlare, bisognava anzi escluderlo dalla memoria che si andava costruendo in quegli anni. Figuriamoci cosa deve aver pensato Amos Santi “Aramis” quando si è trovato fra le mani la lettera del Colonnello Umberto Morandi “Lario”. In data 5 novembre 1946 il Vice segretario provinciale Amos Santi scrive infatti: “In riferimento suo foglio n.2528 di prot. SC del 2 corr. Nello scorrere i nominativi dei partigiani per i quali sono state iniziate le pratiche per il conferimento di ricompensa al valore, abbiamo trovato fra di essi, e precisamente all'ultimo foglio, il nome del partigiano TONGHINI MARIO. Le saremmo grati se volesse gentilmente farci invio di una copia della motivazione, mentre nel contempo Le siamo a precisare che qualora si procedesse alla conferma di tale ricompensa, si incorrerebbe in un errore grossolano con grave scapito non solo dell'A.N.P.I. Provinciale ma anche dell'operato della Signoria Vostra”. Il Colonnello Morandi risponde in data 12 novembre 1946, spiegando che la proposta di medaglia d'argento al valore nei riguardi di Tonghini Mario era stata avanzata il 12 luglio 1945 dal Comandante della Piazza di Como e della Brigata Perretta Gementi Oreste “Riccardo” con la seguente motivazione: “In furiosi combattimenti conduceva i propri uomini alla conquista delle posizioni. Dopo lunghe ore di combattimento riusciva a sbaragliare le forze avversarie. Partigiano di purissima fede, col suo coraggio e disprezzo della vita fu sempre esempio a tutti i componenti il Settore di Cantù”. Morandi continua specificando che la pratica di rinnovazione è stata inviata al Colonnello Manfredi in data 17 ottobre, quindi chiede i motivi “che ora si opporrebbero alla ripresa in esame della proposta stessa”. Il 19 novembre 1946 Amos Santi risponde così: “Abbiamo preso buona nota di quanto comunicato col foglio suddetto nonché del contenuto della lettera del Colonn. Manfredi, dalla quale risulterebbe che il Tonghini non ha partecipato al combattimento di Vighizzolo di cui è fatto cenno nella motivazione del Comandante Gementi e che inoltre, in tale occasione, il Tonghini non ha dimostrato per nulla di essere un uomo coraggioso. Ciò è stato garantito dal comandante del settore di Cantù, Gaffuri Dino “Walter” nonché da altri comandanti del settore stesso. Egli, per primo, non intende approvare in nessun modo la proposta di ricompensa. Di tutto quanto sopra il Colonn. Manfredi ha già reso edotto il comandante Gementi e quest'ANPI rimane sempre in attesa di una visita dello stesso non appena le condizioni di salute glielo permetteranno, per poter parlare a viva voce”. Siccome amo la verità, non aspetto molto e parlo io a viva voce con il signor Mario Tonghini, giusto settant'anni dopo quelle missive. “Non ne sapevo nulla. È una novità anche per me. Le assicuro che Santi ha mentito. Aveva tutto l'interesse per escludere me e il Comandante Gementi. Quello era uno che faceva la resistenza per interesse suo e la faceva con la Svizzera sempre alle spalle”. Tonghini resta un attimo di silenzio, come a voler riprendere il filo dei ricordi poi continua sicuro: “Non solo ho combattuto a Vighizzolo, ma sono stato io a condurre l'insurrezione in quei giorni, come comandante. L'appuntamento era alle nove di mattina con gli altri gruppi che sono poi confluiti sul luogo. E le dico un'altra cosa. Io e Gaffuri Dino “Walter” eravamo molto uniti, tanto legati, anche dalla parentela (era un secondo cugino ndr.) e smentisco assolutamente che possa aver detto quelle cose al Santi. Quel Santi era una figura pessima, uno che aveva il suo tornaconto, come le ho detto”. Già, quell'Amos Santi, appartenuto alla “Tomasic”, sempre pronto a riparare in Svizzera quando la situazione si faceva critica, non è proprio il ritratto dell'onestà. È piuttosto una di quelle anime luride che hanno mangiato al tavolo della Resistenza di marca comunista. I dubbi allora crescono, le domande si fanno pressanti e la ricerca dei documenti ancora più necessaria. Di una cosa sono però sicuro: piano piano, chi aspetta seduto in riva al fiume, vede affiorare alcune verità. Un comunista lo descrive come un "elemento di un'ignoranza esemplare, senza scrupoli".

Chi è Amos Santi. Non cada mai il silenzio sulla memoria calpestata, per difendere il ricordo dall'oblio del tempo. Amos Santi, classe 1921, arrivato da Milano si unisce al distaccamento “Tomasic” sulla linea di confine fra Como e la Svizzera. Alto, longilineo, abbastanza magro, porta barbetta e baffi a pizzo. Della linea del fronte apprezza da subito le vie di fuga, capaci di portarlo in territorio svizzero per poter gestire in tutta comodità i suoi traffici di contrabbando.

Un membro comunista lo descrive così: “Elemento di un'ignoranza esemplare, senza scrupoli, pochissimo amante del lavoro concreto, dotato di una non comune faccia tosta. Sfrutta la sua posizione per il suo interesse personale, facendo tra l'altro mangiare alla greppia dell'Anpi provinciale tutta la famiglia” [virgolettato tratto da un documento reperito presso l'Archivio di Stato (fondo Celio) inserito nel saggio “I veleni di Dongo” II ed.1996 di Roberto Festorazzi]. Insomma, questo personaggio ha preso l'Anpi per una fonte di guadagno, piuttosto remunerativa, che gli consente una copertura per i suoi movimenti e affari con la vicina Svizzera. È un faccendiere spregiudicato che si avvale della cricca comunista che vorrebbe, invece, agire liberamente senza certi soggetti “deviati”, comunque sfuggiti al loro controllo. In questa lotta intestina si costruiscono le menzogne, si riscrivono i fatti accaduti solo qualche mese prima e ci si affida all'oblio del tempo, capace di far calare il silenzio su quella memoria calpestata. I vincitori hanno sempre meno ragioni, adesso.

I vinti, storie di sangue e di verità negate, scrive Alessandro Russo l'8 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". L'intervista a Roberto Festorazzi, autore del volume "Gli archivi del silenzio". "Fino a quando non avremo il coraggio di affrontare l’eredità di sangue della guerra civile, non potremo essere una nazione pacificata". Per essere appena uscito nelle librerie (Gli archivi del silenzio è distribuito dalla Ritter di Milano) il libro dello storico Roberto Festorazzi sta andando bene. Di questo discuto al telefono con il responsabile della Ritter, poco prima di raggiungere Festorazzi.

Lo storico mi accoglie nel suo studio, una stanza colma di libri, in una casetta avvolta dal silenzio. Pare una biblioteca e, nonostante la vicinanza della ferrovia, neppure il treno riesce a disturbare questo luogo dove si discute di storia e di vicende umane.

“Gli archivi del silenzio” è un libro-verità, capace di andare oltre l'inchiesta.

«Mi muovo, da sempre, con il bagaglio professionale e il metodo di lavoro del giornalista, tanto che mi piace autodefinirmi “cronista della storia”. Cioè, mi sforzo di compiere inchieste retrospettive sul nostro passato-che-non-passa, indagando su fenomeni e fatti che pesano come macigni sulla nostra coscienza collettiva contemporanea. Non c’è niente da fare. Fino a quando non avremo imparato a fare i conti, finalmente in modo equanime, con il fascismo, e finché non avremo il coraggio di affrontare l’eredità di sangue della guerra civile e dei crimini del dopo-Liberazione, non potremo essere una nazione pacificata».

Cosa la guida nel suo lavoro di storico?

«Per prima cosa, lo scrupolo di non lasciare nulla di intentato, affinché tutte le possibili fonti, di qualunque parte, siano acquisite e divengano, quindi, i materiali su cui possano lavorare i ricercatori e gli storici di oggi e di domani. La generazione testimone della guerra civile del 1943-45, ad esempio, sta scomparendo, e dunque bisogna fare in modo che gli ultimi superstiti di quella stagione possano essere messi nelle condizioni di parlare. Perché, altrimenti, tra dieci o vent’anni, potremo pentirci di aver lasciato morire, nel silenzio, personaggi che avrebbero dovuto essere ascoltati. L’appello al “chi sa, parli”, che tante volte è stato lanciato, in passato, ha senso se vi è qualcuno che sappia raccogliere le voci degli ultimi testimoni diretti».

Che senso ha, allora, la sua posizione? Lei è sicuramente uno storico non allineato.

«Ho anch’io le mie visioni culturali, ma mi sforzo di essere intellettualmente onesto, nei miei studi. L’obiettività, in assoluto, non esiste, perché ciascuno di noi, anche soltanto nella scelta degli argomenti che tratta, è condizionato dai suoi valori. Senza contare che le nostre esperienze, le nostre letture, perfino le nostre ascendenze familiari, ci condizionano ad ogni passo. Altro conto è invece lo sforzo dell’obiettività. Ecco, io mi sforzo di tendere alla neutralità. Vorrei che il mio lettore ideale, quando prende in mano un mio libro, o legga un mio articolo, abbia la certezza che non lo voglio fregare, alterando scientemente i fatti, manipolando i documenti, o cercando di dimostrare una tesi a costo di fare violenza alle evidenze empiriche. Non mi importa nulla se perdo per strada qualche lettore amante delle dietrologie. Io devo porre tutte le mie energie intellettuali e morali al servizio di una ricostruzione dei fatti, che resti il più possibile fedele ai fatti stessi, senza trattare da minus habens chi ha la pazienza di seguirmi. Le lancette della storia segnalano che siamo nel 2016. Non è più tempo né di censure né di narrazioni edulcorate. Se poi, lei, per “non allineato”, intende non incline al politicamente corretto, sono disposto a sottoscrivere».

Nel libro, in base alle testimonianze, si esclude che l'uccisione di Mussolini sia avvenuta al mattino come, invece, sostiene il teorema Alessiani.

«Non da oggi mi colloco tra coloro che si dichiarano scettici a proposito delle ricostruzioni che anticipano l’esecuzione del Duce al mattino, e in altro luogo rispetto alla cosiddetta “versione ufficiale”. La “versione ufficiale”, è vero, non convince: ma, a mio avviso, le ipotesi alternative, per un verso o per un altro, mancano di sufficienti e definitive valenze probatorie. Mi rendo conto che qualcuno resterà deluso da quest’affermazione, ma non posso avallare scenari che non siano fondati su più che convincenti elementi di prova che finora non ho visto emergere».

Non mancano appelli riguardo la raccolta fondi per sostenere gli Istituti storici della Resistenza. La sua posizione in merito?

«L’ho scritto nel mio libro. Fino a quando gli Istituti storici della Resistenza non smetteranno di agire da organismi di parte, rifiutandosi di ammettere alla consultazione dei propri archivi gli studiosi che non si ispirano alle mitologie partigiane, non appare giustificato che questi enti ricevano denari pubblici».

Che grado di attendibilità hanno questi Istituti?

«Purtroppo, molto relativa. Le loro pubblicazioni sono viziate da ideologismo, come ho cercato di dimostrare, con molti esempi, ne Gli archivi del silenzio.

Che idea si è fatto, in particolare, di quello comasco?

«L’Istituto lariano riassume bene i difetti dell’intero sistema di elaborazione della memoria resistenziale. È espressione del panorama politico-culturale di riferimento dell’Anpi, che non è una associazione fondata sulla tolleranza e sul rispetto delle diverse idee, ma espressione di una vecchia retroguardia che ha profittato per decenni di una rendita di posizione».

“Storia bugiarda” è uno dei capitoli dove spiega come siano stati costruiti a tavolino dei documenti. Modo per rafforzare i luoghi comuni, oppure c'è dell'altro?

«Invito i lettori del Giornale d’Italia ad andare a verificare, di persona, se nel libro vi siano delle illazioni, o, se invece, tutto sia dimostrato con ampia produzione di documenti. Ho parlato di una vera e propria “fabbrica del falso” che, su direttive esplicite del Partito comunista il quale aveva la necessità di legittimarsi come forza democratica, ha costruito una narrazione artificiosa e posticcia delle vicende resistenziali».

Lei ha molto coraggio. Sfido qualcuno a smentire l'affermazione. Come ha coinvolto l'ex partigiano Mario Tonghini?

«È stato Tonghini a venirmi a cercare, attraverso un mio caro amico medico di Como. Era rimasto colpito da un mio vecchio libro, intitolato La Gladio Rossa e l’oro di Dongo, e mi ha offerto sia la sua testimonianza sia un intero archivio di documenti. Potevo respingere questa mano tesa?».

I dieci misteri di Mussolini. La Marcia del '22, il delitto Matteotti, gli attentati, la guerra, il Gran Consiglio, il Gran Sasso, il carteggio, l'oro di Dongo, scrive Emma Moriconi il 22 settembre 2015 su "Il Giornale D'Italia". Lo speciale di History sulle vicende rimaste insolute: Luciano Garibaldi affronta lo spinoso tema della morte del Duce. Dieci domande che sono rimaste senza risposta ancora oggi, dopo oltre 70 anni dalla morte del Duce: è il contenuto dello speciale di History in edicola questo mese. La prima domanda è relativa alla Marcia su Roma: "Perché non fu fermata dall'esercito?" Per ogni quesito la Rivista prende a riferimento lavori di studiosi ed esperti che hanno approfondito nel tempo le relative tematiche e per la Marcia su Roma si affida a Aldo A. Mola, autore di "Mussolini a pieni voti? Da Facta al Duce. Inediti sulla crisi del 1922", edizioni Il Capricorno. Viene riproposto così il riepilogo dello studioso, e della Marcia su Roma abbiamo parlato a lungo, anche noi riepilogando ogni sua fase. Di certo lo speciale è estremamente interessante perché riesce a focalizzare i dieci punti in dieci brevi interventi, dunque di lettura immediata e quindi agevolmente consultabile anche per chi esperto non è. La seconda domanda: "Perché venne assassinato Matteotti?". Per questo argomento viene tirato in ballo il lavoro di Mauro Canali "Il delitto Matteotti", edizioni Il Mulino, che però suppone alla base della sua morte questioni affaristiche legate ad un'azienda petrolifera, ed individuando in Mussolini il mandante dell'omicidio. Abbiamo già in passato, e abbondantemente, confutato questa ipotesi. La terza domanda: "Chi ha armato gli attentatori di Mussolini?". Sull'argomento viene preso uno stralcio del volume "Il golpe inglese" e del libro "Le carte segrete del Duce", entrambi di Giovanni Fasanella, edizioni rispettivamente Chiarelettere e Mondadori. E qui, come accade molto spesso, si commette l'errore di chi compie valutazioni non supportate da fatti: secondo Fasanella infatti la polizia fascista avrebbe atteso fino all'ultimo momento prima di sventare gli attentati (anche di questi abbiamo parlato a lungo) a fini propagandistici. Sarebbe stata una cosa logica mettere a rischio la vita del Duce per "fini propagandistici". E su cosa si basa questa constatazione? Altra ipotesi che Fasanella compie è quella di questioni interne al partito fascista. A questa sinfonia siamo abituati, e ne abbiamo avuto abbastanza anche negli anni di piombo: quando a morire erano i giovani di destra, l'ipotesi era sempre quella della faida interna... addirittura arriva a supporre che Zamboni sia stato linciato "per evitare che parlasse". E la sua lista di complotti arriva persino a Italo Balbo, per il quale suppone un attentato in piena regola. Alla fine della disamina ammette però che dietro agli attentati a Mussolini potrebbe esserci un "filo massonico" a legarli insieme. In realtà potrebbero essere semplicemente ciò che sono: attentati di singoli o gruppetti contro un Capo per certi aspetti poco incline a piegare la schiena. Proseguiamo con la lista delle domande, la quarta: "Perché il Duce decise di entrare in guerra?". Per questo tema interviene Paolo Simoncelli, professore di Storia Moderna all'Università La Sapienza di Roma. Un intervento breve ma esauriente, oltre che interessante perché mette sul piatto altre questioni, anch'esse rimaste ancora misteriose, al quale si potrebbe aggiungere qualcosa: per esempio quanto Mussolini stesso disse ad un giornalista pochi giorni prima di morire. Altro argomento da noi già eviscerato a fondo in passato. Ad occuparsene è Francesco Perfetti, professore di Storia Contemporanea presso l'Università LUISS Guido Carli di Roma, il quale fa il punto sul tema in maniera sintetica ma esaustiva, rilevando come il Duce non ostacolò Dino Grandi nella presentazione dell'Ordine del Giorno, del, quale peraltro era perfettamente a conoscenza. Anche qui altre domande si aggiungono a quella principale, e anche qui l'argomento è stato da noi trattato più volte e in maniera abbastanza completa. La sesta domanda va a toccare un momento storico che abbiamo di recente trattato con una certa frequenza: la liberazione del Duce dal Gran Sasso. Su questo a parlare è Vincenzo Di Michele, autore di "Mussolini finto prigioniero al Gran Sasso" e "L'ultimo segreto di Mussolini", entrambi oggetto di nostra recentissima ed approfondita attenzione. Proseguendo eccoci giunti alla corrispondenza con Churchill. A parlarne è Roberto Festorazzi in un'intervista in cui spiega la "desiderabilità" da parte dell'Inghilterra all'alleanza Italia-Germania. Tema scottantissimo del quale abbiamo riferito più volte e che di recente è tornato alla ribalta nella diatriba tra chi sostiene che non esista e chi continua ad asserire che invece il carteggio c'è, eccome. Altra questione spinosa è quella dell'oro di Dongo, della quale si occupa lo storico Gianni Oliva, autore de "Il tesoro dei vinti. Il mistero dell'oro di Dongo", edizioni Mondadori. Anche lui, come gli altri, è sintetico ma estremamente esplicativo, spiegando come quei beni andarono al PCI e facendo riferimento anche agli omicidi legati a quella vicenda, come quelli di Gianna e Neri. E anche di questo abbiamo dato ampio resoconto anche grazie al lavoro di Servello e Garibaldi "Perché uccisero Mussolini e Claretta, la verità negli archivi del PCI". E a proposito di Luciano Garibaldi, è proprio lui ad affrontare il nono punto: "Dove e come è stato davvero ucciso Mussolini?". Del minuzioso lavoro di Luciano Garibaldi abbiamo parlato spesso: i suoi studi, le sue indagini meticolose, svolte anche sui luoghi (così come quelle del compianto Giorgio Pisanò) sono senza dubbio quanto di più idoneo a dare la misura delle menzogne dette e scritte nel tempo: menzogne che ancora oggi qualcuno è disposto a difendere come verità. Ma Garibaldi parla prove alla mano, e di fronte alla scienza c'è poco da dire. Lo storico cita anche lo studio di Mario Alessiani, del quale abbiamo dato ampio resoconto ai nostri lettori. Fu ancora Garibaldi ad accompagnarci nei luoghi dell'epilogo della vicenda terrena di Mussolini: lo scorso 28 aprile realizzammo un servizio in video con i suoi preziosi interventi chiarificatori di decenni di mistificazioni. Garibaldi per History riepiloga ciò che spiegò ai nostri lettori in quella circostanza. Ultima domanda: "Furono i servizi inglesi a volerlo morto?". Ne parla Giovanni Sabbatucci, professore di Storia Contemporanea all'Università La Sapienza di Roma, il quale riferisce che "qualche coinvolgimento inglese può esserci stato" e precisando che "da un eventuale 'Processo di Norimberga' contro i fascisti qualcosa di imbarazzante contro gli inglesi sarebbe senz'altro uscito". Sull'argomento ricordiamo che Luciano Garibaldi scrisse ben vent'anni fa un volume dal titolo "La pista inglese", teorizzando appunto il coinvolgimento degli inglesi nell'assassinio di Benito Mussolini. 

Cominciano a cadere i veli dai misteri di Dongo. Uno studioso "non allineato" al pensiero unico resistenziale, un prodotto editoriale che è anche un'inchiesta. Misteri sepolti da decenni di oblio: Roberto Festorazzi smonta il teorema su cui il Pci ha costruito la sua fortuna, scrive Alessandro Russo il 28 febbraio 2016 su "Il Giornale d'Italia". Roberto Festorazzi è un giornalista profondamente innamorato del suo lavoro. Per lui non esistono pause, domeniche, feste. Lo trovi sempre al lavoro. Perché, a dirla tutta, Festorazzi è uno degli storici più importanti di questi anni. E la sua figura - ha all'attivo una trentina di libri di storia - si può certamente collocare nella schiera di quegli studiosi non allineati al pensiero unico resistenziale. “Gli archivi del silenzio” è la sua ultima fatica. Ho avuto l'onore di leggerlo in anteprima, pagina dopo pagina, in attesa che esca in tutte le librerie la prossima settimana. Festorazzi non lascia nulla al caso. Si infila nelle carte, negli atti, ricerca tutte le possibili testimonianze e ci regala un libro-inchiesta davvero straordinario. Attraverso i documenti l'autore smonta il teorema su cui il Pci, e i suoi attuali eredi, hanno costruito la propria fortuna e la colossale rendita di posizione. Con “Gli archivi del silenzio” Festorazzi dimostra come documenti e testimonianze dirompenti, che consentono di fare piena luce sui delitti e misteri del dopo Dongo, siano stati “neutralizzati” dall'apparato degli Istituti storici della Resistenza. Dimostra come questi Istituti siano in realtà delle autentiche fabbriche di colossali falsificazioni. Che insomma, per anni, ci hanno raccontato bugie, costruito a tavolino interi memoriali, riscritto la storia perché fosse possibile nascondere i crimini della Resistenza rossa. Il lavoro dell'autore è stato reso possibile anche da una fonte interna al mondo partigiano: Mario Tonghini. A 93 anni è la voce della verità, capace di spiegare come il Pci ha imposto, con l'arma del terrore e della mistificazione, la propria natura illiberale. Tonghini, organizzatore dei Gap-Sap a Como, raggiunto al telefono mi confessa di essere “rimasto disgustato da quello che è successo dopo la liberazione. Non ho mai autorizzato rappresaglie e non le ho mai avvallate. Tanto che ho abbandonato la politica e mi sono dedicato all'impresa. Ho dato lavoro a tanti, sa?”. Le carte scottanti e inedite di Tonghini hanno permesso a Festorazzi di rileggere figure strettamente legate alla fine del Duce, dei partigiani che si adoperarono per la sua cattura e per la catalogazione dell'oro di Dongo. Porta nuove luci sugli avvenimenti accaduti in quei giorni di aprile del 1945. Tonghini rivela, deluso dalle illegalità commesse dai comunisti, di abbandonare la militanza partigiana: “Sono testimone del fatto che il Pci, subito dopo la Liberazione, diede ordine a tutte le formazioni garibaldine di non consegnare le armi agli Alleati, ma di nasconderle per la rivoluzione. Fu una direttiva trasmessa verbalmente. Io la ricevetti da “Remo”, Giovanni Aglietto, che aveva retto la Federazione clandestina del Pci di Como in assenza di Dante Gorreri. Le disposizioni dicevano di consegnare le armi leggere, mentre i mitragliatori dovevano essere smontati e nascosti insieme alle bombe a mano”. Racconto che illustra come il Pci stesse strutturando la sua organizzazione paramilitare “Gladio Rossa”. Festorazzi ha svolto un lavoro egregio. Anche perché sono sicuro che non gli avranno reso vita facile. E la sua denuncia, contro le opere di disinformazione messe in atto dagli Istituiti storici della Resistenza, deve trovare seguito ed essere discussa. Nelle pagine del suo libro troverete riferimenti all'Istituto di storia contemporanea “Perretta” di Como, dove Festorazzi si è rivolto per le ricerche. Vi invito a leggere con attenzione la faziosità, le imprecisioni, la mancanza di rigore scientifico, la deliberata occultazione di fondi e la mancata catalogazione di documenti da parte di questo Istituto. È proprio l'autore che ci spinge ad una riflessione, attraverso il pensiero di Gianfranco Miglio che Festorazzi ha avuto quale maestro alla Facoltà di Scienze politiche. “Credo che questi Istituti abbiano ormai fatto il loro tempo. Essi hanno rappresentato il tentativo delle sinistre di monopolizzare ideologicamente la Resistenza. Non si possono considerare Istituti scientifici, in quanto sono serviti alla sinistra per giustificare in qualche modo la pretesa che la Resistenza sia stata solo un prodotto di sinistra”. Da “Gli archivi del silenzio” di Roberto Festorazzi. Per gentile concessione dell'autore, pubblichiamo in anteprima alcuni stralci del volume. Oreste Gementi “Riccardo”, diretto superiore di Mario Tonghini “Stefano”. L'esecuzione di Mussolini e della Petacci è avvenuta in modo diverso dalla descrizione ufficiale. Gementi riferisce quanto ebbe a conoscere, dalla viva voce di due testimoni della fucilazione, avvenuta a Giulino di Mezzegra, davanti al cancello di Villa Belmonte, qualche minuto dopo le 16 del 28 Aprile 1945. Si tratta di Guiseppe Frangi “Lino” e Guglielmo Cantoni “Sandrino”, i due partigiani posti a guardia della coppia di amanti, durante la loro ultima notte trascorsa nel casolare dei contadini De Maria, a Bonzanigo di Mezzegra. Dalla relazione di Gementi: “ “Sandrino” e “Lino”, che furono i custodi della coppia tutta la notte tra il 27 e il 28 Aprile, presenti all'esecuzione, venuti al comando [del Cvl di Como] il 1° maggio [1945], mi precisarono che dopo la dichiarazione di “Valerio” “in nome del popolo italiano ecc” il mitra di “Valerio” si inceppò e “Pietro” (Michele Moretti) che si trovava al suo fianco con il mitra spianato, fece partire la scarica mortale”. A conferma dell'attendibilità di questa testimonianza esiste un prezioso documento, datato 15 maggio 1945, firmato dal comandate “Riccardo” alias Oreste Gementi. Destinatario il Partito comunista a Mosca. “Secondo gli accordi presi con la Missione militare russa, che in questi giorni ha preso contatto con il nostro Cnl, consegniamo alla stessa, per il Museo Militare di Mosca, l'arma (Mas) con la quale il partigiano “Pietro” delle formazioni garibaldine del Lario, ha giustiziato Mussolini”. Sempre da una testimonianza di Gementi che si reca a Lasnigo da Pietro Terzi “Francesco” dove Moretti è latitante. Rivolto a Moretti gli dissi che poteva stare tranquillo, perché il suo partito non lo avrebbe abbandonato, in quanto lui rappresentava una bandiera per essere stato l'esecutore di Mussolini. Ed egli annuì scrollando il capo, senza smentire. - Comandante Oreste Gementi “Riccardo” Gementi racconta come, per tutto il mese di maggio di quel 1945, avesse insistito, presso il comunista Michele Moretti, che aveva portato a Como una tranche del tesoro di Dongo (30 milioni di lire e 35,880 chili d'oro), per ottenere la ricevuta dell'avvenuta consegna. Ma non poté ricavare soddisfazione, in quanto, anziché consegnare i valori all'autorità legale, il partigiano “Pietro” li aveva fatti recapitare, per canali interni, alla direzione del suo partito. - Così l'autore riferisce il racconto di Oreste Gementi: La sera del giorno 28 Aprile, (Gementi) ebbe modo di raccogliere, insieme a “Gina”, dalla voce dell'ex prefetto, Renato Celio, il racconto delle ore in cui in Prefettura, ebbe a snodarsi quella che è stata definita la veglia funebre della Rsi: ossia la concitata discussione fra Mussolini e i suoi gerarchi, circa i possibili sbocchi del transito da Como. I contrasti più violenti furono quelli tra il Duce e il segretario del Partito fascista Repubblicano Alessandro Pavolini e il capo delle forze armate della Repubblica neofascista Rodolfo Graziani. Pavolini era fautore di una linea intransigente, con la soluzione militare del Ridotto Alpino valtellinese che avrebbe dovuto segnare le Termopili del fascismo. Graziani, al contrario, si era già smarcato dal terreno dello scontro, con una exit-strategy che lo avrebbe visto, di lì a poco, consegnarsi nelle mani degli americani, per il tramite delle Ss di frontiera di Cernobbio, un autentico avamposto della linea negoziale, farcito di doppiogiochisti. (Da “Gli archivi del silenzio” di Roberto Festorazzi).

Mi preme ringraziare Alessandro Russo per il suo egregio lavoro, e l'autore di questo libro-inchiesta, Roberto Festorazzi: è, il suo, un volume destinato a far parlare a lungo di sé. Grazie per questo contributo di verità alla nostra storia e grazie per il trattamento di favore riservato al Giornale d'Italia nel permetterci la pubblicazione di questi stralci. La prima cosa che farò al mio rientro a Roma da Imola, da dove scrivo, sarà acquistare questo volume per divorarlo. C'è un argomento che mi preme sottolineare, e mi ripropongo di parlarne con Roberto Festorazzi non appena ve ne sarà l'occasione, volentieri anche di persona. Si tratta dell'ora della morte di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Ho esaminato più volte e con estrema attenzione il Teorema Alessiani, e ne ho parlato anche sul Giornale d'Italia. Secondo gli studi scientifici di Alessiani - noto medico legale che fece questa indagine "tardiva" ma pur basata su elementi di scienza - l'ora della morte non può farsi risalire al pomeriggio del 28 aprile, ma al mattino. Il buon medico fornisce tutti gli elementi del caso e basa le sue deduzioni su calcoli scientifici difficilmente confutabili. Ne riparleremo, magari proprio con l'autore di questo libro straordinario, e potrebbe essere anzi una buona occasione per il collega Alessandro Russo per organizzare un'intervista con lo storico e scrittore sin dai prossimi giorni. Emma Moriconi.

Le menzogne sbugiardate e l'oro di Dongo, scrive Emma Moriconi il 18 gennaio 2015 su "Il Giornale d'Italia". I partigiani volevano fucilare il Duce a Milano, arrivarono tardi e trovarono il suo cadavere, insieme a quello della Petacci. Luciano Garibaldi: "Erano i valori confiscati alle famiglie degli ebrei. Mussolini intendeva consegnarli agli americani, affinché fossero restituiti ai superstiti". Prosegue il nostro speciale dedicato agli straordinari scritti di Vanni Teodorani e ci avviamo oggi alla sua conclusione. Riprendiamo dunque dove eravamo rimasti ieri, con l'intervista a Luciano Garibaldi, con il quale parliamo di cose estremamente interessanti. Ci sono molte brutte pagine della nostra storia che andrebbero riscritte ..."Quella sul processo per l'oro di Dongo, per esempio, è un'altra. Un processo che si interruppe per il 'suicidio' di un giurato e dopo che ben cinque suoi colleghi avevano dato forfait, un processo non per furto, ma per strage, a causa dei numerosi omicidi che quella vicenda si porta dietro. I partigiani Gianna e Neri, ma anche l'assassinio del collega Franco De Agazio, per esempio". Si, ne abbiamo parlato ai nostri lettori. De Agazio stava scoprendo cose che davano fastidio a qualcuno. Un 'fastidio' tale da finire assassinato. "Una lunga scia di sangue, si". Torniamo a "La pista inglese", sai che è un po' difficile trovarne copia? Quando uscì, nell'agosto 2002, fu accolto con enorme interesse tanto che ne furono pubblicate tre edizioni in pochi mesi. Lì ci sono i resoconti di otto anni di mie ricerche, a cominciare dal fonogramma inviato il 27 aprile 1945 dal Clnai al comando del Gruppo d'Armate alleato in cui venne richiesta l'immediata consegna di Mussolini, che era stato appena catturato. Si trattava dell'attuazione delle clausole dell'armistizio. Arrivò una risposta che era una menzogna: 'Non possiamo consegnarvi Mussolini perché è stato fucilato in piazzale Loreto, nello stesso punto dove erano stati fucilati i nostri compagni'. Mussolini invece era prigioniero a Dongo. Ciò che appare rilevante è il fatto che i capi partigiani avessero deciso, secondo quello che dice il fonogramma, di fucilare Mussolini nella piazza milanese, insieme ad altri quindici fascisti, giusto per raggiungere lo stesso numero dei partigiani fucilati per una rappresaglia nello stesso luogo nell'agosto precedente". E invece dovettero rivedere i loro piani ..."Certo, perché quando 'Valerio' arrivò a Dongo si accorse che qualcuno li aveva preceduti. Insomma, a piazzale Loreto, Mussolini furono costretti a portarcelo morto, insieme ai quindici, morti anche loro, fucilati sul lungolago di Dongo e poi trasportati a Milano". E poi c'è il caso della Petacci. La sua uccisione non era stata programmata. Perché Claretta finisce a piazzale Loreto? Perché Audisio l'aveva trovata cadavere, uccisa anche lei dagli assassini di Mussolini. Visto che ci siamo ... le vicende che orbitano intorno a Dongo sono tante e complesse, al punto che si è giunti a parlare di "dongologia", ad indicare una sorta di scienza diretta a studiare i fenomeni legati a quel luogo e a quei giorni. Fenomeni intorno ai quali orbitano oro e sangue. Abbiamo parlato un po' del sangue, parliamo ora del famoso oro di Dongo, altro tema spinoso che affronti nel tuo libro. Nel volume sono raccolte tantissime testimonianze, moltissime delle quali totalmente ignorate per decenni, relative proprio ai contatti tra Mussolini e gli inglesi. Faccio qualche nome, per rendere l'idea: Dino Campini, il ministro Carlo Alberto Biggini, l'ufficiale della Decima Sergio Nesi, l'attendente di Mussolini Carradori, l'ambasciatore della Rsi a Berlino Anfuso, il direttore del Corriere Amicucci, il sottosegretario alla Cultura Popolare Cucco, il sottosegretario all'Aeronautica Bonomi, il fondatore del Raggruppamento repubblicano socialista Clone, il giornalista americano Drew Pearson, il notaio Alberici, il commesso di Mussolini Quinto Navarra, il cassiere capo della polizia di Salò La Greca, Urbano Lazzaro, il partigiano noto con il nome di battaglia "Bill", autore della cattura di Mussolini ... insomma sono tantissime. E tutte concordano nel dire che il cosiddetto 'oro di Dongo' rinvenuto dai partigiani nella 'colonna Mussolini' non era il tesoro di Stato. Si trattava invece di valori confiscati alle famiglie degli ebrei arrestati dopo le leggi razziali, che Mussolini intendeva consegnare agli americani, dopo la resa in Valtellina, affinché fossero restituiti ai superstiti. Questo dimostra che quelle confische erano state fatte per il pesante obbligo derivante dall'alleanza con il Terzo Reich ... Dove finirono invece quelle ricchezze? Nelle casse del PCI ... Roba da matti ...E ti dico di più. Massimo Caprara (giornalista, storico, che fu segretario di Togliatti) ha testimoniato in un memoriale scritto appositamente per 'La pista inglese' (nel quale tra l'altro rivela come la 'versione Audisio' sia stato un 'falso deliberato') come questo tesoro di Dongo sia sempre stato per il partito un tabù, diciamo così. Ha anche ricordato come Togliatti, in un'intervista a L'Unità (che il tribunale di Padova acquisì per il processo, ma sappiamo tutti come quel processo rimase senza alcun esito) avesse dichiarato: è un'invenzione la circostanza che la colonna di Mussolini fosse carica di valuta italiana e straniera spiegando che quei beni, razziati sulla strada tra Musso e Dongo, fatti portare nel Comune di Dongo dal 'capitano Neri' e catalogati dalla 'partigiana Gianna', finirono nelle casse del partito. Fu un avvocato molto esperto a riciclare il tutto in Svizzera. Ecco cosa dice Caprara: 'Veniva ogni quindici giorni a Roma e si fermava a chiacchierare con me in attesa che Togliatti fosse libero. A ogni visita, compiva una singolare triangolazione che non poteva non incuriosirmi: dopo essere stato da noi al secondo piano, saliva al terzo dall'amministrazione e poi al quarto da Pietro Secchia. Fu quello stesso avvocato un giorno, a pranzo, a spiegarmi l'arcano: lui si stava occupando di riciclare il bottino di Dongo trasformandolo in depositi e titoli presso alcune banche svizzere, poi riutilizzabili in Italia'. Ecco, questo in estrema sintesi. Nel volume "La pista inglese" c'è tutto questo e di più". In questa sede è forse utile ricordare che due anni fa uscì, in prima edizione, il volume "Perché uccisero Mussolini e Claretta. La verità negli archivi del PCI". Di recente ne è stata pubblicata una versione aggiornata. Si tratta di un volume-inchiesta a cura ancora di Luciano Garibaldi e di Franco Servello. Ne abbiamo parlato lo scorso ottobre, il lettore lo ricorderà: un intricato dedalo di misteri e di morti sospette, di inchieste scomparse nel nulla e di oro rubato. Lo ricordiamo anche qui perché ciò che gli autori dicono nel libro è strettamente collegato al ragionamento odierno. E Teodorani ci racconta la verità. Il noto saggista, autore de "La pista inglese" aveva ragione: ecco come andarono le cose, tra gravi colpe, inadeguatezze varie e destino avverso. Riprendiamo la ricostruzione di Teodorani laddove ci siamo fermati ieri. Dopo la cattura, Mussolini fu consegnato al brigadiere della Guardia di Finanza di Germasino, Antonio Spadea. "Perché Mussolini - scrive Teodorani -  fu sottratto alla sorte che lo attendeva e lasciato ghermire da diversa fine? Ho assodato, senza tema di smentite, che quel sottufficiale della Guardia di Finanza doveva consegnare il prigioniero a un tenente suo diretto superiore operante nella zona. Ma il tenente, De Laurentis, in precedenza paracadutato dal Sud, trattenuto altrove, non arrivò, o meglio arrivò tardi. Probabilmente con l'intenzione di affidare tanto prigioniero a una tutela più sicura e definitiva verso gli incombenti rossi, il brigadiere di Germasino aveva provveduto a consegnarlo al capitano alleato che operava nel settore e che per primo aveva avuto notizia dell'avvenuto fermo". Se a questo si aggiunge che "in molti casi i movimenti delle truppe alleate avvennero in ritardo sul previsto" - è sempre Teodorani a parlare - che Milano fu lasciata dalle truppe della Rsi "con inconsapevole anticipo", che il capitano Lapiello  "che tanta parte aveva avuto nell'organizzare e articolare il piano di salvezza e che avrebbe potuto rappresentare una parte decisiva nella critica fase esecutiva", era rimasto bloccato lungo la strada a causa di un incidente di macchina sulla Roma-Napoli, ben si comprende come, oltre alla disorganizzazione americana, alla perfetta macchina inglese, alla malafede tedesca, siano entrate in gioco anche questioni addebitabili ad uno strano e macabro intervento del Fato. Insomma, per una serie di ragioni concatenate che abbiamo appena tratteggiato seppure per sommi capi, Mussolini viene consegnato alla persona sbagliata. Perché il capitano a cui il Duce viene consegnato da Spadea "non apparteneva al Secret Service americano", ma al servizio informativo di altra potenza", che prese Mussolini in consegna e lo trasferì "a nuova sede, sottraendolo al controllo della Guardia di Finanza e, quindi, degli americani, e, quando, ore dopo, arrivarono con malcelata fretta (forse sapevano?) i comunisti di Audisio, di cui egli aveva il dovere di impedire ogni movimento, non trovò di meglio che allontanarsi senza proferire sillaba". Ecco dunque la verità. E Teodorani cita proprio i documenti di cui parlavamo ieri con Garibaldi: il decreto luogotenenziale del 22 aprile 1945 n. 2, un mandato di cattura dell'Alto Commissario aggiunto per le Sanzioni contro il fascismo del 26 agosto 1944 e la clausola 29 del lungo armistizio, oltre al "solenne impegno del 27 aprile concluso con noi al quale, non si può dire quanta con quanta buona fede, avevano aderito anche il CLNAI e il comando del CVL, nei suoi organi rappresentati in Como". E Teodorani aggiunge: "Ma nulla valse contro le precise disposizioni del diplomatico sovietico Bogomoloff che allora dirigeva da Roma tutto il movimento, come tecnico specializzato". Insomma, un assassinio commesso contravvenendo a precisi ordini. Questo fu. Naturalmente per certi omicidi non esiste alcun processo.

Dongo: oro e sangue, scrive Emma Moriconi il 23 ottobre 2014 su "Il Giornale d'Italia". Servello e Garibaldi scavano tra le carte e trovano le prove di un patto tra la DC e i comunisti per coprire i responsabili del furto e degli omicidi. Con quei valori il Pci comprò anche Botteghe Oscure e la tipografia per stampare l’Unità, e ci pagò le campagne elettorali. Nella scorsa puntata di questo piccolo speciale dedicato ai misteri delle ultime ore di Mussolini abbiamo parlato di Angelo Zanessi, che riferì in un memoriale di essere entrato in possesso di materiale contenuto nelle borse che il Duce portava con sé nel suo ultimo viaggio. A questo proposito è di assoluta rilevanza un documentario: “Mussolini: Marcia, Morte, Misteri”, La Grande Storia, di Enzo Antonio Cicchino. In questa fase ci occuperemo della seconda e della terza parte, lasciando la prima al nostro speciale del prossimo martedì, dedicato alla Marcia su Roma. Il documentario presenta immagini in parte inedite del periodo ed ha il pregio di riuscire a trascinare indietro nel tempo lo spettatore. Molti aspetti andrebbero eviscerati, alcuni anche contestati, ma di certo ci sono verità che fanno accapponare la pelle. Ciò che interessa in questa sede è ciò che emerge circa l’ “oro di Dongo”, riservandoci di tornare su altri passaggi chiave della vicenda in altra sede. Gioielli, soldi contanti, oro. Valori per i quali tante persone sono morte, come i partigiani Neri e Gianna, di cui abbiamo parlato di recente, come molti testimoni “scomodi” di quelle ore. Una lunga, lunghissima scia di sangue. Aprile 1957: dopo un’istruttoria di 12 anni sono imputati 37 partigiani, quasi tutti comunisti, che devono spiegare dove sono finiti tutti quei beni, “per un valore che oggi ammonterebbe a circa 600 milioni di euro” dice il documentario. Che specifica che parte di questo tesoro sarebbe andato a coprire le spese del PCI, per l’acquisto dell’immobile in via delle Botteghe Oscure, della tipografia per stampare l’Unità e per finanziare le campagne elettorali nel dopoguerra”. Il processo va avanti 4 mesi, poi la macchina si ferma a causa della morte di un giudice, bisogna quindi rinviarlo a nuovo ruolo. Non se ne farà più nulla: nel frattempo sono arrivate prescrizioni e amnistie, così abdica la giustizia italiana. Occorre, a questo punto, prendere in considerazione un altro speciale: ancora quello di Storia in Rete dello scorso aprile. “Una catena di morti che attende giustizia”: così titola Averaldo Costa dalle pagine della rivista. Costa racconta i contenuti del volume-inchiesta di Servello e Garibaldi dal titolo “Perché uccisero Mussolini e Claretta. La verità negli archivi del PCI”. Il libro, uscito in prima edizione due anni fa (più o meno la stessa epoca del documentario di Cicchino) presenta nella sua seconda edizione una serie di nuovi colpi di scena, che gli autori raccontano dopo aver analizzato documenti inediti rintracciati presso l’Archivio Storico del Tribunale Supremo Militare e presso l’Archivio di Stato. Gli storici avrebbero rinvenuto le prove “delle manovre poste in atto per neutralizzare l’azione del generale Leone Zingales, che stava per giungere alla verità, e le prove degli accordi sotterranei tra DC e PCI per mettere una pietra tombale sui risultati dell’indagine di Ciro Verdiani, l’ispettore di Pubblica Sicurezza che aveva ricostruito il furto, ad opera di funzionari del PCI, di ingenti valori tutti di spettanza dello Stato”. Verdiani aveva tirato fuori le prove per affermare, insomma, che il “tesoro di Dongo” era finito nelle mani del PCI, il quale si era occupato di proteggere i colpevoli sia del furto che degli omicidi legati proprio al tesoro. Dicevamo dei partigiani Gianna e Neri: non furono le sole vittime. Verdiani scrisse infatti di “una minaccia di morte incombente su chiunque troppo sappia o voglia sapere, o dica, sulla destinazione e il possesso del cosiddetto ‘oro del Duce’”.  Secondo le prove accumulate da Verdiani, autori materiali delle uccisioni furono Leopoldo Cassinelli (Lince) e Maurizio Bernasconi (Maurizio). Il mandante: Luigi Longo. Gli autori pubblicano il “rapporto riservato” di Verdiani: crolla finalmente – e definitivamente - quel castello di carte costruito sul sangue e sulla menzogna. DC e PCI fecero un patto: la prima avrebbe insabbiato tutto e il secondo avrebbe frenato le frange estremiste pronte alla rivoluzione. E se qualcuno avesse insistito, il PCI avrebbe provveduto a sistemare le cose come aveva sempre fatto: soffocandole nel sangue. È ciò che accadde a Franco De Agazio, fondatore e direttore del settimanale Il Meridiano d’Italia: assassinato il 14 marzo ‘47 dalla Volante Rossa. Il nipote, Franco Servello, coautore del libro-inchiesta in argomento – che ne prese il posto - subì numerosi attentati. Ecco dunque un altro personaggio che si affaccia sulla scena: Leone Zingales, un magistrato militare che voleva far luce sul mistero del “tesoro di Dongo” e assicurare alla giustizia i responsabili del furto e degli omicidi. Come rilevano Servello e Garibaldi, “se al generale Zingales fosse stato consentito di proseguire il suo lavoro di operatore di giustizia, egli avrebbe finito con l’aprire un’indagine anche sulle fucilazioni di Dongo, dato che erano state eseguite dai partigiani senza che fosse stata pronunciata alcuna sentenza di morte da nessun tribunale autorizzato. Infatti anche la postuma, e ridicola, rivendicazione stilata il 29 aprile 1945 dal CLNAI di Milano, non poteva avere, né avrà mai, il valore di una sentenza legittima”. L’argomento non è certo esaurito qui, ne parleremo ancora nella prossima puntata. Ma occorre fermarsi un momento per fare un riflessione: queste carte vengono fuori oggi, 70 anni dopo, perché coperte dal segreto di Stato. Quello stesso Stato che, rimuovendo un generale dal suo incarico, ha permesso – dolosamente - di lasciare impunito più di un delitto.

Fu Churchill a far ammazzare Mussolini. L'intervista: "Il Duce fu ucciso dagli inglesi per ordine esplicito del premier britannico" scrive Emma Moriconi il 17 gennaio 2015 su "Il Giornale D'Italia". Confermata la tesi di Luciano Garibaldi che vent'anni fa, per primo, ipotizzò la "pista inglese". Eccoci dunque giunti, nel nostro speciale dedicato ai diari di Vanni Teodorani, all'argomento da cui eravamo partiti all'inizio: la cosiddetta "pista inglese". Che vent'anni fa ipotizzò Luciano Garibaldi e che oggi trova una straordinaria conferma proprio in quelle carte che il fidato collaboratore del Duce scrisse immediatamente dopo i sanguinosi fatti dell'aprile 1945. Era infatti il 18 febbraio 1994 quando quattro articoli a firma del noto saggista venivano pubblicati su "La Notte" e la cui terza puntata recava il titolo: "Clara, Benito e i sicari di Londra". Una lunga e complessa inchiesta, quella di Garibaldi, che veniva ripresa il 2 marzo seguente: il settimanale "Noi" della Mondadori dedicava quattro pagine all'intuizione più ardita della storia con il titolo "Gli inglesi uccisero Mussolini". Un anno dopo usciva il libro-intervista di Chessa a Renzo De Felice. In quelle pagine, però, il lavoro dello storico non veniva neppure citato. Poco male, la paternità dell'intuizione è inequivocabile. Nel 2002 la Ares pubblicava "La pista inglese", oggi di difficile reperimento, mentre nel 2004 la Enigma Books, di New York, pubblicava "Mussolini: the secrets of his death. Did Winston Churchill order Mussolini's execution?". Ancora nel 2004, Peter Tompkins e sua moglie, la regista Maria Luisa Forenza, mandavano in onda su rai Tre il documentario "Mussolini: l'ultima verità": si, proprio quella "pista inglese" teorizzata da Garibaldi. Ma chi era Peter Tompkins? Era, nel 1945, un giovanotto di 24 anni che all'epoca comandava l'OSS, l'Office of Strategic Services, la futura CIA. Costui, nel 1991, aveva pubblicato il volume "Dalle carte segrete del Duce" e riconosceva che "Luciano Garibaldi è stato il primo ad avere avanzato, sulla stampa italiana, l'ipotesi della pista inglese". Il documentario di Rai Tre fece discutere non poco, com'è facilmente intuibile: esso contribuiva infatti a far crollare il castello di carte che era stato (a ben vedere poco abilmente, in fondo) costruito ad arte. Abbiamo parlato a lungo (e ancora non abbastanza, però) delle menzogne che sono state dette (e, ahimé, scritte) sulla morte del Duce. Nulla era stato raccontato come era andato veramente: falso l'orario della morte, falso il luogo, false le circostanze, falsi gli esecutori. E questo è ormai assodato da tempo. Ma che fossero stati gli inglesi a commissionare l'assassinio di Mussolini era sembrato all'epoca una specie di eresia. E invece le cose erano andate proprio così, le carte di Teodorani mettono un punto fermo su questa vicenda. Ma andiamo con ordine. Abbiamo raggiunto al telefono Luciano Garibaldi, innanzitutto per rendergli il giusto merito circa le sue straordinarie doti di "investigatore della storia", e poi naturalmente per farci raccontare la sua lunga inchiesta. Garibaldi è cordiale, affabile: in men che non si dica passiamo dal "lei" al "tu". Insomma, avevi proprio ragione ... la "Pista inglese" era quella giusta. Raccontaci. Si, anche Tompkins, il cui lavoro è basato essenzialmente sul racconto di Bruno Giovanni Lonati, ex partigiano, la confermò nel documentario di Rai Tre. Benito Mussolini e Claretta Petacci furono uccisi non dai partigiani comunisti del Clnai, solennemente 'autorizzati' dal governo italiano, ma da un gruppo di uomini al servizio di Churchill. Comandati da un ufficiale dei servizi segreti inglesi, e per ordine esplicito del premier britannico. Il documentario metteva in luce anche come la soppressione di Mussolini fosse avvenuta nella mattinata e non nel pomeriggio, come la 'vulgata' volle far credere. La testimonianza del partigiano Roberto Remund, a questo proposito, è fondamentale: quando andò a sollevare il cadavere di Mussolini per issarlo sul camion che stava trasportando a Milano i fucilati di Dongo si ritrovò tra le mani un corpo già rigido, cosa impossibile se la morte fosse sopravvenuta solo un'ora prima. E poi moltissime prove sono giunte a mettere la parola fine a quella versione, ormai definitivamente sbugiardata". Si, ne abbiamo ripercorso anche noi le contraddizioni, e abbiamo fatto alcune riflessioni, una su tutte: perché tutte quelle menzogne? "Esattamente. Perché mentire? Perché non portare Mussolini vivo sulla piazza di Dongo e fucilarlo assieme agli altri quindici? O meglio: perché non portare tutti vivi a Milano per essere qui fucilati a piazzale Loreto? E infine: perché uccidere la Petacci? Ma basterebbe guardare le versioni di Audisio, di Lampredi e di Moretti ... sono tutte diverse l'una dall'altra. Audisio scrisse che Mussolini, di fronte al mitra, sbavava dal terrore e balbettava «Ma..., ma..., signor colonnello...». Lampredi invece affermò che Mussolini si aprì la giacca e gridò, virilmente: «Sparate al petto!». Moretti rivelò a Giorgio Cavalleri (scrittore e storico comasco assolutamente al di sopra di ogni sospetto di parzialità politica) che, prima di cadere sotto la raffica, il Duce gridò: «Viva l'Italia!». Potrei continuare, di contraddizioni come queste ne ho trovate a valanga e sono tutte elencate nel mio libro. Direi che le cose sono ormai chiare: Mussolini e la Petacci sono stati ammazzati per ordine di Londra, e non tanto per il carteggio Mussolini-Churchill, ormai non più in loro possesso, ma perché non potessero parlare. Churchill aveva molte cose da nascondere. Ma non la sua corrispondenza con il Duce del 1940, bensì il tentativo, posto in atto nel 1944, di spingere Hitler a cessare la resistenza in Occidente per rivolgersi tutti assieme contro il pericolo rosso, l'Armata di Stalin che, inesorabile, procedeva verso il centro e l'ovest dell'Europa. Un progetto disonorevole nei confronti di una potenza alleata i cui soldati erano morti (e continuavano a morire) a milioni, e che, se reso pubblico al mondo, avrebbe causato un vulnus irreparabile al prestigio della Gran Bretagna". Ecco la conferma negli scritti di Teodorani. Un piano saltato per l'incapacità di alcuni, l'estrema scaltrezza di altri, la malafede di altri ancora, e una buona dose di destino avverso. "Oggi finalmente posso sciogliere ogni dubbio e riconoscere la lealtà di chi fu leale, anche se questo aggraverà la responsabilità di altri". Comincia così Vanni Teodorani a svelare quei segreti rimasti nel cassetto per tanti anni. In maniera chiara ed incontrovertibile spiega così il piano degli USA, che "prevedeva [...] la sparizione, pressoché misteriosa, di Mussolini". Il Duce, secondo il piano, doveva essere consegnato "ad un organo collettore superiore, un ufficiale di collegamento americano, che avrebbe dovuto immediatamente avviarlo ad un determinato campo di aviazione, da dove sarebbe subito stato imbarcato per la Sardegna". La missione era segretissima, com'è facilmente immaginabile. Nemmeno i reparti americani non direttamente coinvolti nella missione dovevano saperne alcunché. "Tutta l'operazione - scrive ancora Teodorani - si basava sui servizi segreti americani operanti nella RSI e, per una doverosa e indispensabile articolazione capillare, sui presidi e le stazioni della Guardia di Finanza". A fare da coordinatore tra Guardia di Finanza e americani, il nucleo speciale della Guardia di Finanza operante con il CIC e il suo comandante Emilio Lapiello. Un piano che sembra perfetto, ma che non riesce. Un po' a causa dell'incapacità di qualcuno, un po' per la malafede di qualcun altro, ancora per gli strani scherzi che il destino a volte gioca alle persone. Certo è davvero curioso che gli inglesi siano stati più abili degli americani. "Si, sono stati più abili", ci conferma ancora Luciano Garibaldi nella lunga intervista che ci ha concesso e sulla quale torneremo ancora domani. "Gli americani non avevano grandi agenti, basti vedere che Peter Tompkins, di cui parlavamo prima, era un giovane di 24 anni e comandava l'Oss ... si, gli inglesi erano decisamente più preparati ed abili". E questo per ciò che riguarda l'incapacità di qualcuno. Per quanto invece attiene alla malafede di altri, non si capisce perché Wolff non abbia messo a parte Mussolini di ciò che si preparava all'orizzonte. Tra parentesi, le rivelazioni di Teodorani spiegano anche lo strano contegno di Flamminger a Musso in quel 27 aprile, quando se ne andò a parlamentare con i partigiani e tornò dopo sei ore. Spiega dunque perché le mitragliatrici tedesche quel giorno non sbaragliarono in un istante i quattro partigiani accampati a Musso. "I tedeschi hanno tradito Mussolini - dice ancora Luciano Garibaldi, e conforta così tristemente ciò che scrivevamo appena un mese fa - Wolff aveva preso accordi ben precisi, per questo fu salvato da Norimberga". Ancora c'è molto da dire, ma la carta non è infinita e dunque diamo appuntamento ai nostri lettori a domani, quando tireremo le somme di questa brutta vicenda che però, finalmente, fa chiarezza su questa buia pagina della nostra storia.

Carteggio Mussolini-Churchill, ancora un gran dibattere, scrive Emma Moriconi il 14 aprile 2015 su "Il Giornale D'Italia". Misteri di settant'anni fa. Lo storico Luciano Garibaldi risponde a Mieli e Franzinelli: "Il Corriere si sbaglia". Sono passati 70 anni e ancora se ne parla vivacemente. Ci riferiamo alla vicenda del carteggio tra Benito Mussolini e Winston Churchill su cui è appuntata l'attenzione degli storici ormai da decenni. Di recente Mimmo Franzinelli ha pubblicato un volume dal titolo "L'arma segreta del Duce. La vera storia del Carteggio Chirchill-Mussolini", Rizzoli editore, secondo cui lo scambio di lettere segrete tra i due non vi fu mai. Tesi a cui sembra aderire anche Paolo Mieli attraverso un suo intervento sul Corriere della Sera. Gli storici sul tema sono divisi: di idea opposta sono personalità come Fabio Andriola ("Carteggio segreto Churchill-Mussolini"), Arrigo Petacco ("Dear Benito, Caro Winston"), Ubaldo Giuliani-Balestrino ("Il Carteggio Churchill-Mussolini alla luce del processo Guareschi"), Luciano Garibaldi che nel suo "La pista inglese (Mussolini: the secrets of his death nell'edizione americana del 2004) sostiene che "non fu certo per quel vero o presunto carteggio che il premier britannico ordinò la soppressione del Duce e della sua amante e confidente Claretta Petacci impedendo che potessero essere dopo il loro arresto" e specifica che "erano infatti ben altri i documenti, le carte, le testimonianze che confermano la 'pista inglese' nell'omicidio di Mussolini e di Claretta". Ed è proprio Garibaldi a rispondere, dalle colonne del Sussidiario, al Corriere. Parte spiegando come "nel suo fondamentale studio, Fabio Andriola ricorda che il 10 maggio 1945 Churchill chiese al feldmaresciallo Alexander che venisse ordinata un'inchiesta sulla morte di Mussolini e, in particolare, sul perché fosse stata uccisa anche la Petacci". Poi lo storico argomenta come il Clnai "si era appena assunta la responsabilità di quella esecuzione capitale" specificando che esso agiva in nome e per conto del Governo Bonomi, del Governo del Luogotenente Umberto di Savoia". Insomma, continua Garibaldi, "l'onta di quell' 'atto di giustizia', o di quel duplice assassinio, a seconda dei punti di vista, ricadeva sul debole Governo, sul debole sovrano di Roma", dunque "chi avrebbe potuto sospettare della lealtà britannica? Tanto valeva indossare i panni di un cavaliere della tavola rotonda". Lo storico ripercorre quindi come addivenne alla consapevolezza che dietro l'assassinio di Mussolini e di Claretta ci fossero gli inglesi, partendo dall'ipotesi avanzata da Vanni Teodorani (il lettore che ci segue sa bene di chi parliamo) sulla rivista "Asso di Bastoni", ipotesi a cui Garibaldi aderì da subito e alla quale dedicò gli studi di tutta la sua vita, argomentando con precisione ogni tesi sostenuta nel suo "La pista inglese", poi confermata ancora dallo stesso Teodorani di recente grazie alla pubblicazione dei suoi "diari", ai quali abbiamo dedicato un lungo speciale. Garibaldi quindi riferisce di come Churchill non prese in molta considerazione lo scritto di Teodorani, mentre reagì con una secca smentita ad un'inchiesta pubblicata dal nostro Giornale d'Italia nel marzo del '47: in quell'occasione negò con forza di aver mai scritto lettere a Mussolini facendo eccezione naturalmente per quelle pubblicate nei suoi libri "e risalenti agli anni in cui era un ben pagato collaboratore del Popolo d'Italia". Gli organi di stampa italiani ripresero la notizia e Churchill, nel '51, diramò un comunicato simile per frenare la polemica. In realtà, continua Garibaldi, nella misteriosa cartella del Duce non c'erano lettere autografe dei due statisti, ma "relazioni dettagliate dei contatti segreti che continuarono ad effettuarsi durante il periodo della RSI", contatti ricostruiti proprio da Garibaldi nel suo "Vita col Duce". Ma chi prese l'iniziativa di avviare questi contatti? Garibaldi continua: "Secondo Fabio Andriola, 'nel 1944 due elementi potevano indurre Mussolini e Churchill a riaprire il canale del dialogo: da un lato, il prorompere dell'Armata Rossa in Europa e la necessità di fare argine al nuovo imperialismo sovietico; dall'altro, l'estrema debolezza politica e militare di Mussolini potrebbero avere indotto quest'ultimo a fare pesanti pressioni sul premier inglese, ricattabile per le proprie proposte di qualche anno prima, per ottenere condizioni di pace non umilianti'. Dunque, l'iniziativa potrebbe essere partita da Mussolini". In quest'ottica assume rilievo anche un'altra ipotesi di Andriola, quella relativa al 25 luglio secondo la quale l'OdG che sfiduciò il Duce non fu da lui molto osteggiato perché aveva in mente una certa strategia.  D'altra parte, dice ancora Garibaldi, potrebbe essere stato Churchill ad avviare la cosa "nel tentativo di porre un freno all'avanzata dell'Armata Rossa". In poche parole, il Duce poteva riuscire (ed era il solo a poterne avere qualche speranza) a convincere il Fuhrer a cessare la resistenza in Occidente. Le prove? Secondo Garibaldi sono nelle registrazioni telefoniche dei colloqui tra Benito e Claretta, pubblicate da Ricciotti Lazzero in "Il sacco d'Italia". Ed ecco ciò che premeva a Churchill: che non si venisse mai a sapere "che aveva tramato contro Stalin e la Russia, cioè che aveva cercato di pugnalare alla schiena l'Armata Rossa i cui combattenti morivano a decine di migliaia pur di sconfiggere Hitler". Non solo: Garibaldi parla di un libro che uscirà a breve dal titolo "Guareschi era innocente: ecco le prove", ancora di Ubaldo Giuliani-Balestrino. Egli nel volume sopra citato mostrava come "le due lettere di De Gasperi all'alto ufficiale dell'aviazione britannica per sollecitare il bombardamento della periferia e dell'acquedotto di Roma nel '44 erano vere". Prove che ribadisce anche nel nuovo lavoro. Quelle lettere furono giudicate false dal Tribunale di Roma, che condannò Guareschi per averle pubblicate sul Candido.

Mussolini-Churchill, storia (complicata) di un carteggio. Un libro di Enzo Antonio Cicchino e Roberto Colella fa il punto su una delle questioni insolute del Novecento 25 marzo 2016. Cinquant'anni di ricerche e di testimonianze, tra vecchie carte e strani segreti: un'indagine storica dettagliata e appassionante. Si chiama "Mussolini-Churchill, il carteggio - Indagine su uno dei grandi misteri del Novecento", ed è un libro scritto a quattro mani da Enzo Antonio Cicchino e Roberto Colella, edito dalla Mursia. Un lavoro accurato e preciso che ripercorre cinquant'anni di vicende sulle quali ancora resiste un fitto mistero. È storia, prima di tutto, perché parliamo di una indagine rigorosissima su un caso epocale: il famoso carteggio tra Mussolini e Churchill è esistito? E di cosa parliamo esattamente? Di certo è uno dei temi più dibattuti degli ultimi settant'anni e la ragione di tanta attenzione è data dal fatto che si tratta di questioni importanti per la storia del nostro Paese ma che coinvolge, ovviamente, anche altre realtà internazionali, prima tra tutte l'Inghilterra. Ma il libro che proponiamo ai nostri lettori non è solo questo: è anche un avvincente viaggio nei meccanismi intricatissimi di mezzo secolo, che attrae e cattura l'attenzione perché sembra un complicatissimo giallo letterario: un giallo lo è di certo, e non solo letterario. Ma la bellezza, la forza di questo volume sta in due fattori: il primo, come dicevamo, l'indagine storica accurata capace di mettere in luce anche moltissime contraddizioni; il secondo è appunto il dato letterario: è un libro che divori, nonostante la complessità delle vicende che va a esaminare, ingarbugliate, intricatissime, perché possiede il ritmo di un libro d'avventura, che a tratti assume le caratteristiche di un thriller. Si, perché è un susseguirsi di colpi di scena, sapientemente messi in fila dagli autori, tra personaggi i cui caratteri sono messi in evidenza quasi fossero protagonisti di una piece teatrale, al punto che sembra di vederseli scorrere sotto gli occhi, uno ad uno. Personaggi che troppo spesso i libri di storia tralasciano e che furono protagonisti proprio di quelle ore di fine aprile 1945 e, rievocati dalla penna degli autori, tornano a fornire un contributo per la realizzazione di un quadro completo e di un'atmosfera, quella atroce di quei giorni di sangue appunto, così lontani da noi eppure così ancora vicini, troppo spesso trattati - storicamente parlando - in maniera inadeguata, viziata direi. Ci sono le emozioni, per esempio: la sensazione che tutto era perduto, quella sorta di rassegnazione triste che contrassegnò la fine di una lunga e complessa pagina di storia italiana. Cicchino e Colella spiegano al lettore le ipotesi che nel tempo sono state fatte circa la fine di quelle carte, presentano i personaggi, raccontano la complicata vicenda di queste carte misteriose e riferiscono cose che fanno riflettere. Denunciano, gli autori, tutto ciò che non torna, lo fanno sinceramente e spassionatamente, ma con determinazione, in omaggio a una esigenza quanto mai attuale di verità: una verità che prima o poi, forse, verrà alla luce: ma questo potrà accadere solo quando la storia e la politica avranno preso le rispettive corrette strade, che sono necessariamente separate quando la distanza di tempo dagli eventi di cui si parla è tale e tanta. Finché la politica e la storia viaggeranno sulla stessa strada sarà difficile tirar fuori il coniglio dal cilindro. Anche perché i conigli, si sa, scappano...

La morte di Mussolini, la pista inglese e quella americana, scrive Emma Moriconi il 25 agosto 2016 su "Il Giornale D'Italia". La storia attraverso i documenti. Una conversazione molto istruttiva con Luciano Garibaldi sul recente speciale di Storia in Rete. "Ma perché al cancello di Villa Belmonte e senza testimoni? I gerarchi li fucilarono a Dongo in piazza, e lì anzi radunarono la gente per farglieli vedere, qui invece bloccarono le strade, per non far vedere niente a nessuno. Che bisogno c'era dalla casa di venire qui? Perché non fare venti metri, visto che non c'era nessuno e bastava chiudere due stradine? Perché? Per andare lontano da là. Ho sempre chiesto al Pisanò: a chi volevano far vedere la scena? Perché fare un chilometro e venire fin qua? Forse una ragione ci potrebbe essere. Non è ancora stato pubblicato un lavoro di due ricercatori svizzeri dilettanti. Essi sono entrati nell'archivio della CIA e hanno trovato una foto scattata quel giorno lì. Sulla foto ci sono i tre partigiani insieme a un personaggio molto distinto, alle loro spalle si vede una macchina con la targa consolare della Svizzera. Con la targa sono risaliti al personaggio che aveva la macchina: era un colonnello americano mandato a Lugano come civile, e aveva l'incarico di distribuire gli aiuti ai partigiani. Quel giorno lì era qui. Se è venuto è perché voleva vedere se era stato fatto quello che si doveva fare. Perché a quanto pare sia gli americani che gli inglesi avevano interesse che il Duce finisse lì, e per fargli vedere la scena più solenne li portarono lì". Ricordate questo stralcio? Sono parole di don Luigi Barindelli, parroco di Mezzegra. Parole incise su di una telecamera e riportate a voi lettori, testualmente, su queste colonne, tempo fa. Si ricollegano a quanto ha pubblicato nei giorni scorsi la rivista Storia in Rete, che ci ha raccontato delle importanti ricerche di due studiosi che aprono alla possibilità di una "pista americana" sulla morte del Duce. Ne parlo con Luciano Garibaldi, che quel giorno di aprile mi portò da don Barindelli, a Mezzegra. Vorrei avere da Luciano un commento su questo speciale. Ci parlo a lungo, vi racconto cosa ci diciamo al telefono. "La presenza ad Azzano, dunque a pochi passi dal luogo dove furono assassinati Mussolini e la Petacci, e proprio in quelle drammatiche ore, di Valerian Lada Mokarski, il numero due dei servizi segreti americani in Europa, è la conferma che vi fu una sfida, tra inglesi e americani, a chi arrivava prima ad impossessarsi delle preziose carte di Mussolini a proposito delle quali il Duce aveva detto, in più di un’occasione, ai suoi più stretti collaboratori che valevano 'una guerra vinta'. Su quella sfida ho imperniato, a suo tempo, il mio libro Mussolini. The secrets of his death, pubblicato nel 2004 a New York da Enigma Books, e il cui capitolo centrale – non a caso – ha per titolo How the British beat the Americans". Ce lo ricordiamo bene - dico a Luciano - "La pista inglese"... E siamo certi di un cosa: anche gli Americani davano la caccia al Duce... "Tra le clausole del trattato di armistizio - dice lui - vi era la consegna di Mussolini vivo al comando del XV Gruppo d'Armate dipendente dal generale americano Mark Clark, che, verso la fine del mese di aprile 1945, aveva posto la sua base a Siena. Ma i servizi speciali britannici non erano d'accordo. E si mossero con straordinaria efficienza e rapidità non appena si diffuse la notizia che Mussolini, nel primo pomeriggio di venerdì 27 aprile, era stato fatto prigioniero dai partigiani della 52.a Brigata «Garibaldi» sulla piazza di Dongo". E mi viene in mente Vanni Teodorani. Lo ricordate, non è vero? Ne abbiamo parlato a lungo, anche con Luciano, su questo quotidiano. "Le conferme più importanti - dice il mio interlocutore infatti - sono le memorie di Vanni Teodorani, pubblicate nel '54 sul settimanale «Asso di Bastoni». In quell'occasione, Teodorani fu il primo in assoluto, nella storiografia sulla fine del Fascismo, ad avanzare il sospetto della mano britannica nell'uccisione del Duce: Salvatore Guastoni - scrisse Teodorani riferendosi all’agente americano dell’OSS di origini italiane - mi assicurò che Mussolini sarebbe stato accolto in onorata prigionia di guerra dalle Forze Armate degli Stati Uniti, senza essere diviso né dalla scorta, né dal seguito: chi desiderava, poteva seguirlo per servirlo in prigionia. Nessuna offesa alla sua incolumità, e soprattutto alla sua dignità, sarebbe stata, né allora né in seguito, consentita. Teodorani si riferisce al summit svoltosi nella Prefettura di Como tra esponenti della RSI e agenti americani che accompagnavano esponenti del CLN. A quel summit non partecipò alcun agente direttamente dipendente dagli inglesi. I presenti erano tutti o al servizio degli americani, o alle dipendenze del governo di Roma".

"Dalle carte segrete del Duce" e "Quaderno 1943-1945". Le testimonianze di Peter Tompkins e Vanni Teodorani. Il carteggio con Churchill resta il fulcro della vicenda più intricata che la storia del Novecento ricordi. E poi Luciano dice dell'altro: "Che la presa di possesso politica del territorio italiano fosse stata fortemente voluta, fin dall'inizio, da Churchill, lo denuncia senza remore uno dei più autorevoli agenti americani in Italia durante il secondo conflitto mondiale, Peter Tompkins che nel suo libro «Dalle carte segrete del Duce» (Marco Tropea editore, 2001) ammette senza mezzi termini: «Fu molto facile, per gli inglesi, evitare che gli americani mettessero le mani sul Duce. Furono partigiani italiani a fare tutto, ma fu un agente del servizio segreto britannico, di origine italiana, che li spronò ad agire per chiudere in fretta il capitolo Mussolini. (...) Quanto alla morte di Claretta, non ha senso se non la si mette in rapporto con la corrispondenza segreta Mussolini-Churchill: lei sapeva e perciò doveva essere tolta di mezzo»". Già, ne abbiamo parlato spesso. Si trattò di una testimonianza esplosiva. "Ma non è tutto. «Perché - si chiede ancora Tompkins - un accordo fra Churchill e Mussolini stretto durante gli incontri segreti avvenuti a Porto Ceresio e sul Lago d'Iseo doveva essere così radicalmente cancellato da imporre l'uccisione dello stesso Mussolini e di Claretta Petacci? La reputazione di Churchill sarebbe stata gravemente danneggiata se si fosse venuti a sapere che aveva complottato con il Duce del fascismo e con alcuni generali nazisti in Italia per far sì che italiani e tedeschi unissero le loro forze a quelle degli Alleati occidentali per combattere tutti insieme contro l'URSS, specie per chi sapeva che erano stati i 20 milioni di morti sovietici nella Seconda guerra mondiale a salvare l'Europa dal dominio di Hitler e dei nazisti». Ma io insisto su Teodorani: sarà che i suoi scritti mi hanno colpita profondamente... Quelle memorie, pubblicate dai figli e consegnatemi personalmente da sua figlia Anna di recente, sono una conferma della "pista inglese". "Sì - mi dice Luciano - il Quaderno 45/46, edito dalla Stilgraf di Cesena. Nei diari si legge che l’autore, a fine aprile ’45, partecipò ad una missione con lo scopo di raggiungere il Duce in fuga da Milano e consegnarlo all’OSS americano d’intesa con i servizi segreti del Regno del Sud (il SIM, Servizio Informazioni Militari)". I nostri lettori sanno bene chi è Vanni Teodorani, l'uomo che sposò Rosina Mussolini, figlia di Arnaldo, l'amato fratello di Benito: lo dico a Luciano. "Per chi non sapesse, hai voglia di riepilogare brevemente?", gli chiedo. "Vanni era nato a Torino nel 1916, divenne un apprezzato giornalista fin dalla più giovane età e sposò Rosina Mussolini. Partecipò, non ancora ventenne, alla guerra d’Africa come direttore del Corriere Eritreo e capitano di Cavalleria impegnato sul campo contro i ribelli. Assunse poi la direzione de La Prealpina di Varese, fu corrispondente di guerra nel corso del secondo conflitto mondiale (Capo Matapan ed altri storici eventi), aderì alla RSI dove assunse l’incarico di capo della segreteria militare del Duce e sottocapo di Stato Maggiore della Divisione San Marco, incaricato di numerose missioni in Italia e all’estero. Riuscito a nascondersi dopo la sconfitta del 25 aprile, tenne il diario che è stato ora pubblicato integralmente per volontà dei figli". Vanni Teodorani è certamente personaggio chiave per capire molte faccende, interloquisco con il mio amico al telefono. "Certamente - dice lui, e continua - Come ha scritto Giuseppe Parlato nell’introduzione al volume di memorie, «Teodorani aveva trattato con gli americani per la resa dei capi fascisti senza spargimenti di sangue. L’accordo, stipulato con l’agente Guastoni dell’OSS e con il comandante della Regia Marina Giovanni Dessy, prevedeva la creazione di una zona smilitarizzata di raccolta dei reparti fascisti in Val d’Intelvi». Qui i vertici di Salò avrebbero atteso gli Alleati riuscendo così a sottrarsi alle vendette comuniste. Ma il piano fallì e lo stesso Teodorani, probabilmente per una spiata, fu catturato e violentemente malmenato dai partigiani “garibaldini”, riuscendo poi fortunosamente ad evitare il plotone d’esecuzione". Più volte, si. Penso - e lo dico, a Luciano - che Vanni sia rimasto tra noi ancora per un po' perché aveva una missione da portare a termine: raccontare. Che bella figura di uomo, che dignità, che poesia nelle sue parole... Chi non ha ancora letto quel diario lo faccia. È una testimonianza di storia ma anche di amore. Una lunga e misteriosa serie di eventi sui quali bisogna fare chiarezza. Mussolini e i Caduti del Nord furono vittime delle discordie tra gli Alleati "Occidentali contro Sovietici, ma soprattutto Inglesi contro Americani", dice lo storico. "Riepiloghiamo insieme la rivelazione dei diari di Teodorani?", chiedo a Luciano. "Ne abbiamo già scritto", mi dice lui. Ma io insisto, perché oggi, dopo lo speciale di Storia in Rete, abbiamo qualche elemento di riflessione in più. Luciano mi accontenta: "Oggi finalmente - si legge nel «Quaderno» di Teodorani - posso sciogliere ogni dubbio. Mussolini, e tutti i Caduti del Nord, sono morti vittime, più che altro, delle discordie fra gli Alleati: occidentali contro sovietici, ma soprattutto inglesi contro americani. Il piano segreto USA per il recupero di Mussolini si innestava nella più vasta intesa imperniata sulle trattative di Wolff che prevedevano la regolare occupazione delle città abbandonate dalle truppe germaniche, senza consentire sedizioni di piazza. Tutto non funzionò sia per le intemperanze dei comunisti, e dei CLN da essi dominati, sia per l’equivoco contegno di Wolff che gettò disordine e scompiglio nelle nostre file. Saltarono così date e sincronia. Per esempio Milano, che doveva essere presa in consegna dagli americani il giorno 28 aprile, fu evacuata la notte del 26, e quando gli americani arrivarono, non fu più possibile rispettare il piano precedente, a tutto vantaggio dei bolscevichi». Più avanti, nel brano che ha per titolo «Il piano americano sul Duce», Teodorani scrive: «Il piano USA, tenuto gelosamente segreto, prevedeva, con strana analogia con quanto era successo il 25 luglio 1943, la sparizione pressoché misteriosa di Mussolini. Ne era responsabile direttamente il colonnello Snowden, del Counter Intelligence Corps (CIC) dell’esercito americano. […] Egli avrebbe dovuto immediatamente avviarlo a un determinato campo di aviazione da dove sarebbe subito stato imbarcato per la Sardegna, con un volo sul tipo di quello del Gran Sasso. Nessuna notizia sarebbe stata diramata, di modo che il Governo di Roma, gli Alleati e le stesse autorità americane non interessate al piano non avrebbero, per il momento, saputo niente. Tutta l’operazione si basava sui servizi segreti americani operanti nella RSI e sulla Guardia di Finanza. […] Al Nord con i gladi, al Sud con le stellette, la Guardia di Finanza costituì sempre un organismo unico ed era perciò perfettamente normale che, nel mare magnum generale, si pensasse ad essa come a qualcosa di efficiente e fidato. Il compito di coordinamento generale tra Guardia di Finanza e americani, al fine di garantire un perfetto collegamento indispensabile alla buona riuscita di un piano così complesso, fu assunto dal nucleo speciale della GdF operante con il CIC, e personalmente dal suo comandante Emilio Lapiello». Invito Luciano a proseguire. "Ma non ti stanchi mai?", mi chiede. "No, certo che no", gli rispondo, figuriamoci. "Ancora Teodorani: «Quando il nucleo del CIC che doveva compiere la missione partì per il Nord, il capitano della GdF Emilio Lapiello, che tanta parte aveva avuto nell’organizzare e articolare il piano di salvezza del Duce e che avrebbe dovuto ricoprire una parte decisiva nella fase esecutiva, non poté partire con gli altri per un incidente stradale occorsogli sulla Roma-Napoli, che lo pose fuori servizio proprio nel momento cruciale. Si interruppero così i contatti diretti tra il CIC e la Finanza operante al Nord". Chi causò l'incidente resta un mistero. Comunque, un classico, nelle storie dei servizi segreti. Ma continuiamo a leggere il racconto di Teodorani: «Come è noto i partigiani di Dongo (“Bill” e “Pedro, n.d.r.), fermato il Duce, lo rimisero al più presto al brigadiere della Guardia di Finanza di Germasino, Antonio Spadea. Cosa successe, da quel momento? […] Ho assodato, senza tema di smentite, che quel sottufficiale della GdF doveva consegnare il prigioniero ad un tenente suo diretto superiore operante in quella zona. Ma il tenente, De Laurentis, in precedenza paracadutato dal Sud, non arrivò, o meglio, arrivò tardi. Nel frattempo, con l’intenzione di affidare tanto prigioniero ad una tutela più sicura e definitiva verso gli incombenti rossi, il brigadiere di Germasino aveva provveduto a consegnarlo al capitano Alleato che operava nel settore e che per primo aveva avuto notizia dell’avvenuta cattura». Una fotografia con i due corpi, davanti al cancello di Villa Belmonte, e nemmeno una goccia di sangue a terra. Alessiani aveva ragione. Semmai servisse, ecco l'ennesima prova concreta e incontrovertibile che la morte del Duce e della Petacci risale a molte ore prima di quanto si è detto per decenni. "Ma parliamo dell'identità di quel capitano", insisto con Luciano. Sono un pochino pressante, lo ammetto. Ma lo ascolterei per ore. "Teodorani - mi dice - ha inserito nel suo diario un titolo che parla da solo («Bogomoloff e Albione imposero l’assassinio») e ha scritto un memoriale che è uno straordinario documento storico e una clamorosa prova definitiva della validità della “pista inglese”. Leggiamo: «Quel capitano, però, non apparteneva al Secret Service americano, ma al servizio informativo britannico. L’errore del brigadiere era da prevedersi, giacché, per un normale sottufficiale della Finanza, gli Alleati erano un tutto: le stesse caratteristiche, gli abiti borghesi, l’accento inglese contribuivano ad alimentare una simile confusione. L’ufficiale in oggetto, preso in consegna il prigioniero, lo trasferì a nuova sede, sottraendolo al controllo della Guardia di Finanza, e quindi degli americani, e quando, con malcelata fretta (forse sapevano?) arrivarono i comunisti di Walter Audisio, di cui egli avrebbe avuto il dovere di impedire ogni movimento, non trovò di meglio che allontanarsi senza profferire sillaba. Quello che poi successe al Duce è noto, anche se vi sono ancora perplessità sul nome dell’effettivo esecutore materiale». Quanto al Bogomoloff nominato nel titolo, trattasi del diplomatico sovietico che da Roma impartiva le disposizioni di Mosca a Togliatti, capo del Partito Comunista Italiano. Il quale, non a caso, nel discorso alla radio del 26 aprile, diede per scontata l’uccisione di Mussolini previa semplice identificazione. Non c’è dubbio. Vanni Teodorani aveva perfettamente intuito la verità: un accordo inconfessabile tra i comunisti e i servizi segreti inglesi per far tacere per sempre Mussolini, ma anche Caretta Petacci, al corrente di tutti i suoi segreti. Tutta da leggere la conclusione scritta da Teodorani nel suo diario: «Ancora una volta, come in Spagna, come in Etiopia, dove il dirigente comunista Barontini organizzava bande ribelli contro di noi, l’Imperialismo inglese e il Komintern avevano agito in perfetta intesa, e gli sconfitti, eccezionale nuovissima alleanza, erano stati, insieme, gli italiani e gli americani». Decido che per oggi basta così. Luciano sa, però, che tornerò a far squillare il suo telefono per parlare ancora con lui. Gli dico un'ultima cosa, che credo sia fondamentale per tirare le somme. "Luciano, sai cosa penso? Che al di là di tutto abbiamo una prova, ancora una prova - semmai ve ne fosse bisogno - che il buon Aldo Alessiani aveva ragione". "Ma noi lo sapevamo già", mi dice lui. "Certo che si - gli rispondo -. Ma una foto che ritrae i corpi di Mussolini e della Petacci davanti al cancello di villa Belmonte senza una goccia di sangue a terra è definitiva, sarà il caso che la storiografia ufficiale ne prenda atto". Possiamo gettare nel secchio i libri di storia scritti fino ad ora, insomma. Qualcuno dovrà mettersi in testa che bisognerà riscriverli daccapo. E non solo per "correggere" l'ora e il luogo della morte di Benito Mussolini.

Piazzale Loreto, ecco la protostrage. Tratto dal volume "Mussolini, sangue a Piazzale Loreto", Herald Editore, scrive Luciano Garibaldi l'11 novembre 2016 su "Il Giornale D'Italia. L'orribile pagina scritta nell'aprile 1945 ha origine da un delitto commesso in quello stesso luogo. Il brano che segue è un estratto dal volume "Mussolini, sangue a Piazzale Loreto", di Luciano Garibaldi e Emma Moriconi, Herald Editore. Parliamo dei noti fatti risalenti all'aprile 1945, quando Mussolini, la Petacci e i Fascisti fucilati a Dongo vennero oltraggiati nella piazza milanese, un luogo simbolo perché proprio lì erano stati uccisi quindici partigiani a seguito di una rappresaglia. Quindici, come quelli fucilati a Dongo. E questa è storia nota. Ciò che è meno noto è perché i quindici partigiani vennero uccisi, è quella che Garibaldi definisce la "protostrage". Il libro, inoltre, è ricchissimo di fotografie inedite di quel giorno. Di seguito, dunque, un estratto dal volume, uscito lo scorso 29 luglio, è oggi disponibile e costituisce un contributo di verità su una pagina orribile della nostra storia. "Milano, 8 agosto 1944, attorno alle ore 8, viale Abruzzi, angolo piazzale Loreto: una terrificante esplosione devasta un camion tedesco dinnanzi al quale, controllati da alcuni militari della Wehrmacht, si affollano diecine di civili (padri, mamme, nonni, bambini) accorsi, come ogni mattina, per fare provvista di latte che un anziano e bonario sottufficiale tedesco da tempo distribuisce gratuitamente assieme a viveri e generi di prima necessità. Sul selciato si accasciano nove morti e un numero imprecisato di feriti, sei dei quali moriranno nei giorni seguenti. La verità storica su quella carneficina, su chi collocò l’ordigno, su chi decise quell’operazione, non è stata mai raggiunta. Sono state pubblicate diecine di ricostruzioni nessuna delle quali rafforzata da convincenti riscontri fattuali. Soltanto ipotesi, nettamente contrastanti l’una con l’altra, e viziate da evidenti pregiudizi politici: bomba comunista secondo gli storici «di destra»; bomba fascista secondo gli storici «di sinistra», anche se, francamente, è un po’ arduo dar credito a questa seconda ipotesi. Peraltro, la consultazione dei giornali dell’epoca non aiuta ad uscire dalle contraddizioni perché le notizie erano frammentarie e sommarie onde non esasperare più di tanto l’opinione pubblica. Migliore risultato non è possibile raggiungere confrontando i molti libri di storia che riferiscono quell’episodio. Tra le ricostruzioni reperibili sulla rete, abbiamo scelto quella riportata nel sito dell’Unione Nazionale Combattenti della RSI di Milano. La bomba gappista (da GAP, Gruppi di Azione Patriottica), era esplosa tra la folla compiendo una strage che era costata la vita a cinque soldati tedeschi e tredici civili italiani fra i quali una donna e tre bambini, rispettivamente di tredici, dodici e cinque anni. Ecco i nomi dei civili italiani che morirono sul colpo nell'attentato gappista o nei giorni successivi, tutti per "ferite multiple da scoppio di ordigno esplosivo": Giuseppe Giudici, 59 anni; Enrico Masnata, 21 anni; Gianfranco Moro, 21 anni; Giuseppe Zanicotti, 27 anni; Amelia Berlese, 49 anni; Ettore Brambilla, 46 anni; Primo Brioschi, 12 anni; Antonio Beltramini, 55 anni; Fino Re, 32 anni; Edoardo Zanini, 30 anni; Gianstefano Zatti, 5 anni; Gianfranco Bargigli, 13 anni; Giovanni Maggioli, 16 anni. Rimasero inoltre feriti più o meno gravemente: Giorgio Terrana, Letizia Busia, Luigi Catoldi, Maria Ferrari, Ferruccio De Ponti, Luigi Signorini, Alvaro Clerici, Emilio Bodinella, Antonio Moro, Francesco Echinuli, Giuseppe Formora, Gaetano Sperola e Riccardo Milanesi. Dei cinque soldati tedeschi uccisi, i cui nomi non furono annotati nei registri civili italiani, è rimasta memoria solo di un maresciallo di nome Karl, che per la sua mole era stato soprannominato dai milanesi di Porta Venezia "el Carlùn" (il Carlone).  Il braccio di ferro tra le autorità fasciste, contrarie alla rappresaglia, e i Tedeschi. E Mussolini tentò di evitare il massacro. La prova è negli atti del processo politico subito nel dopoguerra da Vincenzo Costa. Lo storico Franco Bandini, tra i massimi storici del fascismo, così lo descrisse in un articolo pubblicato su «Il Giornale» il 1° settembre 1996: «Questo anziano maresciallo tedesco, tanto apprezzato e ben voluto, si era guadagnato quel bonario nomignolo non tanto perché era addetto alla distribuzione dei viveri alla popolazione milanese, ma perché, spinto esclusivamente dal senso di umanità, quando poteva (ciò significa a titolo personale) con un piccolo camion faceva il giro delle campagne limitrofe alla città e si riforniva di un po’ di latte; finito il giro di raccolta, rientrava in città, parcheggiava, come sempre, all’angolo fra piazzale Loreto e viale Abruzzi e qui veniva subito attorniato da padri e madri che si dividevano quel latte con quella fratellanza che proviene dalla comune disgrazia». Ma riprendiamo la lettura dal sito dell’UNCRSI: Quel nomignolo, Karl, maresciallo di fureria, se l'era guadagnato fermandosi ogni mattina, all'angolo fra viale Abruzzi e piazzale Loreto, con il suo camion per distribuire alla popolazione verdura, patate e frutta che la "Staffen Propaganda” acquistava al mercato di Porta Vittoria, aggiungeva agli avanzi delle mense militari e regalava ai milanesi, tutti, a quell'epoca, dannatamente a corto di viveri. Un'operazione di "public relations", si direbbe oggi, intrapresa dalle Forze Armate tedesche nei confronti dei civili e che, dati i tempi di fame, aveva riscosso un successo immediato. Troppo, per la sensibilità antifascista dei Gap di Milano. Il risultato fu che, la mattina dell'8 agosto 1944, i terroristi del Partito comunista si mescolarono alla piccola folla che si accalcava come di consueto davanti alle ceste del "Carlùn" e infilarono in una di queste la bomba ad alto potenziale che, poco dopo, avrebbe seminato la strage indiscriminata: 18 morti e 13 feriti, quasi tutti poveracci milanesi. Diciotto morti e tredici feriti innocenti, tutti assolutamente dimenticati, abrogati, cancellati dalla memoria storica, politica e giudiziaria italiana. Come se fossero indegni di ricordo, di pietà, di giustizia. Figuriamoci se qualcuno ricorda ciò che accadde fra il massacro e la rappresaglia. Eppure, in quelle ore disperate, mentre la gestione dei rapporti fra militari tedeschi e popolazione passava dalle "public relations" della “Staffen Propaganda” alla Gestapo del capitano Theodor Saevecke, si impegnò un braccio di ferro durissimo fra le autorità fasciste, contrarie alla ritorsione, e i militari tedeschi inferociti, che non volevano sentire ragione. Si oppose il prefetto Piero Parini, che arrivò a minacciare le dimissioni; si oppose il federale Vincenzo Costa; si oppose Mussolini, intervenendo direttamente sul maresciallo Kesselring e su Hitler. La prova è, tra l'altro, negli atti del processo politico subito nel dopoguerra da Vincenzo Costa il quale, nel suo diario ("Ultimo federale", Il Mulino, 1997) ricorda: «Alle 14 (del 9 agosto, ndr) mi trovavo nell'ufficio del Capo della Provincia quando arrivò una nuova telefonata del Duce. Abbassato il ricevitore, Parini mi permise di ascoltare la voce inconfondibile del capo: «Il maresciallo Kesserling ha le sue valide ragioni. Ogni giorno nel Nord soldati o ufficiali tedeschi vengono proditoriamente assassinati... Ha deciso di attuare la rappresaglia. Ma sono riuscito a ridurre a dieci le vittime... Ho interessato il Führer…Spero ancora». Proprio mentre le autorità fasciste e i militari tedeschi si contendevano le vite degli ostaggi appese a un filo, i gappisti milanesi colpirono di nuovo. Anche questo è stato dimenticato. Alle 13 del 9 agosto 1944 un terrorista in bicicletta, armato di pistola, fulminò con un colpo alla nuca, davanti alla porta di casa, in via Juvara 3, il capitano della Milizia Ferroviaria Marcello Mariani, sposato con quattro figli. Mentre l'uomo agonizzava nel suo sangue, un secondo gappista, di copertura, ferì a revolverate Luigi Leoni, della Brigata Nera "Aldo Resega", che era sopraggiunto e si era gettato all'inseguimento del primo. L'uccisione di Mariani fu il fatto che decise la sorte dei quindici sventurati rinchiusi a San Vittore. [...]".

La “Tragica alba” di Mussolini. Dongo, ultimo atto: un premio letterario svela un film che si credeva perduto, scrive Alessandro Russo il 4 settembre 2016 su "Il Giornale d'Italia". L'associazione Artelario.it promuove cultura e dibattito sul Ventennio. Villa Vigoni a Loveno di Menaggio ospiterà il VI Premio letterario “Il ventennio... come eravamo. Gli ultimi giorni di Mussolini sul lago”. Iniziativa organizzata dall'associazione Artelario.it, guidata da Emanuele Pitto, per domenica 18 settembre. Nello stesso giorno saranno presentati i libri “Eravamo in bianco e nero” di Enzo Pifferi e Giuseppe Guin, “Gli archivi del silenzio” dello scrittore e storico comasco Roberto Festorazzi, “Fascisti” del giornalista Giordano Bruno Guerri. La presentazione della manifestazione avverrà sabato 17 settembre a Palazzo Manzi, luogo simbolo di Dongo, che custodì gli ultimi istanti di vita degli uomini della Rsi. La costruzione si affaccia proprio sul lago e sul vecchio molo del lago di Como. E lo fa dalla piazza principale, in modo sobrio e semplice, perfettamente rispondente ai dettami dello stile neoclassico. La curiosità è rivolta anche alla serata del 18 settembre, quando verrà infatti proiettato il cortometraggio di Vittorio Crucillà “Tragica alba a Dongo”. Documento davvero eccezionale poiché gli interpreti sono gli stessi testimoni oculari di quell'episodio storico. Tra loro sono presenti anche i coniugi De Maria, i contadini presso i quali il Duce del Fascismo passò le ultime ore della sua vita insieme a Claretta Petacci. Restaurato dal Museo del Cinema di Torino, il cortometraggio può finalmente svelare il suo valore artistico e storico. Girato nel 1950, cioè ad appena cinque anni dalla fine del Fascismo, il film racconta le ultime ore di Benito Mussolini: dall'arresto a Dongo alla notte passata con Claretta Petacci, fino all'isolamento e alla successiva fucilazione. Il lavoro di Vittorio Crucillà venne però subito censurato per volere di Andreotti. Tanto da subire l'oblio per sessantasei anni, finendo nei luoghi oscuri e dimenticati della storia del cinema. Due ex partigiani, Emilio Maschera e Ugo Zanolla, fra il 1949 e 1950, decisero di produrre un film sugli eventi che portarono alla fucilazione di Mussolini e della Petacci. Non si dimentichi che Maschera e Zanolla avevano fatto parte del PWB, cioè del “Psychological Warfare Branch”, ossia l'organo dell'apparato militare statunitense che si occupava della propaganda sui mezzi di comunicazione Italiani. Di fatto vennero soppressi tutti i giornali riconducibili alla Rsi e gli unici a poter pubblicare in materia giornalistica furono i sei partiti del CNL. I due produttori, molto improvvisati, presero contatto con i giornalisti Crucillà ed Ettore Camesasca. A loro sarebbe stata affidata la regia (Crucillà) e la sceneggiatura (Camesasca). Vittorio Crucillà avrebbe inoltre inciso la voce narrante. “Tragica alba a Dongo” è di sicuro un documento di notevole interesse. Nonostante l'ostracismo politico, il cortometraggio non ha assolutamente perso la sua valenza storica. Sarebbe un grave errore pensarlo. Così come, questa nuova presentazione pubblica, deve essere l'occasione per ripensare quei giorni anche alla luce delle successive ricerche storiche sviluppate da Giorgio Pisanò e Luciano Garibaldi. L'oggetto artistico non è qui in discussione. Piuttosto, visto che parliamo di un film neorealista, si deve ricordare come i produttori decidano di affidarsi, per i personaggi di scena, a perfetti sconosciuti, presi letteralmente dalla strada. Così ritroviamo nelle scene i coniugi De Maria, alcuni partigiani che nella realtà arrestarono Mussolini, persino uno dei soldati tedeschi che aveva tentato di nascondere il Duce. Dietro alla macchina da presa, troviamo però l'unico professionista: Duilio Chiaradia. Sarà lo stesso Chiaradia a firmare la regia del primo telegiornale nel 1954. Ben due commissioni di censura, nel 1951 e nel 1953, coordinate da Giulio Andreotti, rifiutarono il nulla osta per la proiezione pubblica del film. Motivi politici. I due produttori, comunque, non tentarono nulla per scongiurare che il film terminasse in soffitta invece che nelle sale del cinema. Ora che “Tragica alba a Dongo” è stato ritrovato, proprio in una soffitta, e restaurato, l'associazione Artelario.it lo porta all'attenzione del pubblico moderno, che sarà di certo composto anche da giornalisti, storici, ricercatori e archivisti.

"Questo lavoro serva alla Storia, quando e come essa vorrà", scrive Emma Moriconi il 24 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia".. Misteri e contraddizioni nella "vulgata", più volte sbugiardata, sulla morte di Benito Mussolini. 28 aprile 1945: concludiamo oggi il nostro speciale dedicato al meticoloso lavoro di Aldo Alessiani. Giungiamo così al termine di questa indagine che ha visto il lavoro accurato e approfondito di Aldo Alessiani quale protagonista di un lungo e complesso speciale, che abbiamo voluto proporre per tentare di trovare qualche elemento di verità in una vicenda annosa, complessa e estremamente misteriosa: tantissimi sono i misteri che ancora sopravvivono, ma qualche elemento di verità Alessiani lo ha certamente portato con il suo lavoro.  Per chiudere, ma solo per ora perché sarà necessario tornare sul tema, perché nel frattempo le nostre ricerche continuano, vorremmo raccontare al lettore ciò che scrive Alessiani a commento di questa sua fatica. Insomma vorremmo "tirare le somme" insieme a lui, e con l'occasione ringraziarlo per quello che ha voluto fare, per il contributo importante che ha inteso offrire alla storia. Con il solo rammarico che a lui, ad Aldo Alessiani, non possiamo dirlo di persona. Ma l'opera degli uomini travalica le loro stesse vite, Alessiani lo aveva previsto: aveva previsto, cioè, che di tempo ce ne sarebbe voluto moltissimo, prima che questo grande lavoro trovasse la luce e la giusta collocazione. E dunque l'appello che ci sentiamo di fare oggi è che anche la storiografia ufficiale voglia presto prendere questo esame in considerazione, anche per dibatterne qualora lo si ritenesse necessario, ma come scrisse il buon medico a Luciano Garibaldi, "non è una 'teoria'; significherebbe insozzarlo, annichilirlo a priori o per stupidità o per saccenteria". Un lavoro che non merita questo, sicuramente. Ecco cosa scrive Alessiani, in prossimità delle conclusioni: "Questo lavoro è alla fine; porta alla conclusione della pensabilità di un evento tutto diverso da quanto e come lo si è voluto esporre. Se ha centrato la verità, almeno nelle sue più essenziali tessere di paziente e faticoso mosaico che ha esagito attese, umiliazioni, delusioni, serva alla Storia quando e come essa vorrà". È davvero da sottolineare questo passo. Alessiani scrive "Storia" con la lettera maiuscola, e ne parla come se fosse una entità a sé, autonoma dalle emotività dell'uomo, dalle piccole cose terrene, dalle miserie umane, da ciò che è mortale. La Storia quale entità immortale, eterna, e superiore, che da sola deciderà "quando e come" giovarsi di questo contributo sincero e meticoloso che uno specialista ha voluto donarle. Sarebbe così, se appunto le miserie umane non ci mettessero lo zampino. Ma proseguiamo: "Indubbiamente - scrive ancora Alessiani - qualcosa da tenere assolutamente nascosto in quella notte del 28/04/45 in una casa non lontana dal lago di Como, accadde; seguì il tutto una trista scia di morti. Si fece moltissimo per far sì che tutto rendesse verosimile una esecuzione capitale, per tacere che qualcosa di non convenientemente raccontabile, forse improvviso o addirittura inatteso, perché non voluto, era purtroppo avvenuto. Non sta a me medico, pensare alle circostanze causali; senza dubbio prima di uccidere ci fu una attesa, un dialogo concitato forse. Non si è trattato del precipitarsi in una stanza di una casa rurale sparando all'impazzata già sulla soglia; il tentativo di disarmo operato lo esclude. Lo spazio del vano in cui il dramma si consumò, era ristretto anche perché in parte occupato da un letto matrimoniale; quindi il tutto può essere avvenuto in parte sul pavimento della stanza, sul letto medesimo se non addirittura sul pianerottolo immediatamente antistante. La vestizione dei cadaveri rimasti colà nella loro scomposta impudicizia, fu senz'altro laboriosa per l'essere sopraggiunto il rigor fino alla completezza, verosimilmente abbandonati dopo quel fuggi-fuggi generale che pervase coloro che furono partecipi o attori di qualcosa di inusitato e sconvolgente. Non si ebbe nemmeno il coraggio di ricomporre quegli indumenti intimi di cui i due deceduti erano soltanto ricoperti nel momento dell'evento. Ci si affidò più a quelli di vestizione che erano reperibili cercando di porli addosso nel modo migliore e più facile per chi non è aduso alla vestizione dei morti, quando specialmente questi diventano delle lignee statuarità. Si tentò di tutto per creare una sceneggiatura d'emergenza fino allo sparare sulla nuca del Mussolini molto tempo dopo la sua morte, nell'intento di creare quella pedissequa tradizionalità del colpo di grazia misconoscendo che in fase d'autopsia si sarebbe apprezzata la lesione non successa in vita. Se è vero - aggiunge poi tentando una ricostruzione questa volta non suffragata da elementi scientifici, e si tratta infatti di una supposizione che però vale la pena di riferire al lettore - si crearono addirittura due sosia perché inducessero i curiosi a far testimonianza di due sopravvivenze non più tali da molte ore. Lo stesso medico-settore volle ribadire per i dubbiosi che quanto aveva verbalizzato, apparteneva a una sentenza portata a compimento secondo la ritualità più tramandata, immaginando a contro-prova addirittura l'esecutando che alza il braccio destro in un istintivo modo di riparo, concretizzando così un colpo per proiettile in una impossibile direttrice trapassante, dimenticando l'inizio nel tempo della esperienza autoptica e non più illustrando la lesione al fianco destro in precedenza verbalizzata. Una autopsia - aggiunge - che sembra voluta ai fini di una ostinata dimostrazione che quanto s'era narrato era perfettamente vero. Forse far tutto questo era necessario; il disagio restava per la morte della donna, in un primo tempo condannata a morte per iscritto unitamente al suo compagno in un elenco limitato ai due e più tardi data per deceduta in un isterico intervento, intercettando così qualcosa di letalmente determinante e non per lei". Dagli appunti di Luciano Garibaldi, che ha dedicato tutta la sua vita nell'esame di quanto accadde in quei giorni di sangue. Settant'anni di bugie. Quella "ridicola e imbarazzante rivendicazione postuma, concepita, sottoscritta e diramata alla stampa il 29 aprile". Quanto a quest'ultimo tema ci preme qui semplicemente ricordare al lettore le deduzioni di Luciano Garibaldi che, teorizzando la pista inglese, disse qualcosa di molto interessante. Il lettore ricorderà che Il Giornale d'Italia ha con Luciano Garibaldi un rapporto che potremmo definire "privilegiato", avendone seguito in più occasioni le deduzioni, e avendo, con grande piacere, ospitato la sua firma su queste colonne. Questo ci consente di disporre di suoi "appunti", gentilmente concessi dallo stesso storico e saggista alla testata. Ce n'è uno che è relativo proprio al tema della "lista" dei "condannati a morte". Leggiamo insieme: "Nel libro di Urbano Lazzaro ('Bill') dal titolo 'Dongo, mezzo secolo di menzogne' c'è una quasi cinematografica testimonianza di prima mano su come si giunse, nel primo pomeriggio del 28 aprile 1945, nello stanzone al piano terreno del Comune di Dongo, a decidere le fucilazioni che da lì a poco sarebbero state eseguite sul marciapiede del lungolago. Leggiamo: 'Pedro si rivolse a Valerio e gli disse (...) che all'esecuzione non un solo garibaldino della 52.a avrebbe preso parte. Valerio ascoltava attentamente Pedro e il suo volto veniva, man mano che Pedro parlava, assumendo un'espressione contrariata e adirata. 'Va bene!', rispose con ira. 'Guardiamo ora questo elenco dei prigionieri!'. Lesse forte: 'Benito Mussolini!' e aggiunse subito: 'A morte!' e tracciò una croce accanto al nome di Mussolini. Pedro e Guido tacevano. C'era nell'ufficio un senso di soffocamento, come se l'aria fosse divenuta irrespirabile. Valerio continuò: 'Clara Petacci: a morte!'. Ma nell'elenco dei 31 prigionieri datomi la sera prima da Pietro e che io restituii a Pedro quando egli tornò da solo a Dongo la mattina del 28 aprile, il nome della Petacci non c'era. Mussolini era il 30° della lista. Se è accettabile che il 'colonnello Valerio' abbia letto per primo il nome di Mussolini, segnando una crocetta accanto a quel nome, non altrettanto poteva fare con il nome di Claretta Petacci, perché non compariva in quell'elenco'. Questa testimonianza - annota Garibaldi - stranamente sfuggita ad oggi agli storici, di uno dei principali attori del dramma, è di per sé bastevole a provare che il 'colonnello Valerio' sapeva già che Claretta era morta, sapeva che si sarebbe dovuto addossare la responsabilità della sua morte, sapeva che avrebbe dovuto mentire per il resto dei suoi giorni". E poi Garibaldi continua: "Ma quale 'condanna a morte'? L'ordine di fucilare Mussolini e i suoi ministri non esisteva. Il Clnai, rappresentante legittimo del governo Bonomi nell'Italia del Nord, non aveva emesso alcuna condanna a morte, che peraltro non era di sua competenza, né tantomeno alcun ordine di esecuzione. Il Clnai era tenuto a osservare il DDL (Decreto legislativo luogotenenziale) n. 142 del 22 aprile 1945, che riguardava ' i delitti commessi da Mussolini e dai ministri fascisti' e istituiva, per giudicarli, le CAS (Corti d'Assise Straordinarie). Perché il Clnai avrebbe dovuto agire illegalmente? Per ribellione al governo del Luogotenente? Non esisteva la benché minima ragione per farlo. È che, di fronte al fatto compiuto, cioè all'avvenuta uccisione di Mussolini e di Claretta Petacci a opera dei servizi britannici, previi frenetici e convulsi accordi con Roma, il Clnai fu costretto a farfugliare la ridicola e imbarazzante rivendicazione postuma, concepita, sottoscritta e diramata alla stampa il 29 aprile. Questa: 'Il Clnai dichiara che la fucilazione di Mussolini e complici, da esso ordinata, è la conclusione necessaria di una fase storica che lascia il nostro Paese ancora coperto di macerie materiali e morali. Eccetera eccetera'". Le bugie, però, hanno le gambe corte. Ciò che stupisce di più è il fatto che per lungo tempo la versione diramata dal Pci, da Audisio, da l'Unità, abbia avuto presa sugli Italiani: possibile che quelle macroscopiche contraddizioni, palesi, evidentissime, non siano state immediatamente evidenziate? Malafede o pigrizia, probabilmente. Anzi, più probabilmente entrambe.

28 aprile 1945: documenti e testimonianze a confronto. Ancora troppi sono i misteri che restano su quelle ore, e molti di essi non saranno mai svelati, scrive Emma Moriconi il 19 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Esaminiamo, insieme al Teorema Alessiani, l'esame di Franco Bandini e l'indagine commissionata a Pierucci da Pisanò. "Che nell'abbigliamento di Mussolini e della Petacci ci fosse qualcosa di strano lo aveva rilevato anche il già citato storico Franco Bandini che aveva notato sia che il cappotto di Mussolini non recava alcun foro di proiettile, sia che uno stivale era stato faticosamente reinfilato; sia, infine, il dettaglio della mancanza delle mutandine della Petacci - dice ancora Ezio Praturlon sul Giornale d'Italia del 26 aprile 1988 -. Ma stranamente Bandini, così attento e preciso su una enorme quantità di particolari di questa vicenda, per questi tre fatti si accontenta di una spiegazione frettolosa e non convincente. Ma se si torna alla ricostruzione di Alessiani, ed al fatto che gli uccisori non furono probabilmente i partigiani che avevano in custodia i prigionieri, e che quindi solo qualche ora dopo (quando era ormai sopravvenuta la rigidità cadaverica) era sorto il problema di rivestire i corpi, allora tutte le tessere del mosaico trovano una collocazione ragionevole. Ai due corpi ormai rigidi vennero infilati i capi più 'facili' da mettere. La camicia nera ed i pantaloni a Mussolini; ma non la giacca, troppo difficile, anzi impossibile da infilare a un cadavere irrigidito. Per nascondere la mancanza della giacca gli venne infilato un cappotto con maniche 'raglan'. Che mai aveva fatto parte della divisa di Mussolini: ma non fu certo cosa facile infilare quel cappotto, anche se il tipo di manica rese possibile quello che con la giacca era stato impossibile. Di certo il cappotto non reca fori di proiettili. Ma, come si può constatare dalle foto di piazzale Loreto, non appaiono fori neppure su pantaloni o sulla cinta, malgrado che il primo colpo avesse raggiunto parti del corpo che dalle foto di piazzale Loreto appaiono coperte dai pantaloni. Infine, il mistero dello stivale. Secondo Bandini, Mussolini e la Petacci erano stati falciati da raffiche di mitra sparate da due uomini che avevano aperto il fuoco stando uno alla destra, l'altro alla sinistra dei condannati (tra l'altro, secondo Bandini, Mussolini fu stroncato da sette colpi di mitra cecoslovacco, mentre dalla autopsia i colpi di fucile automatico, quattro in tutto, risultano aver prodotto ferite secondarie, essendo invece mortali due dei cinque colpi sparati da una pistola Beretta cal. 9). Dopo l'uccisione, avvenuta - secondo Bandini - in una piazzetta, nel trascinare i corpi verso un'auto Mussolini avrebbe perso uno stivale. Ma Alessiani, dallo stivale trae invece un ulteriore conforto per la sua ricostruzione. Dopo la morte i piedi si distendono da soli, e non è quindi difficile, neppure in stato di rigidità, infilare uno stivale a un cadavere. Ma a Mussolini, che nella prima guerra mondiale aveva riportato delle ferite a un piede, soltanto una delle estremità si distese: l'altra rimase bloccata ad angolo retto. Si spiega così come uno degli stivali appaia infilato normalmente, mentre l'altro - esaminato ingrandendo molte volte le foto di piazzale Loreto - risulta infilato, si, ma con tutto il lato chiaramente aperto lungo la cucitura: la cosa si spiega soltanto con la necessità di far apparire vestito un uomo che vestito non era quando era stato ucciso, ed al quale vennero infilati con grandi sforzi quegli indumenti 'minimi' che doveva avere in caso di una 'esecuzione' regolare". Prima di passare a esaminare la vicenda di Clara Petacci, vorrei soffermarmi ancora un po' su Mussolini. Chiedo al lettore di fare mente locale su quanto abbiamo esposto fino a questo momento e mi chiedo, per esempio, dove è finito il proiettile esploso, dal basso verso l'alto, sotto il mento, del quale non risulta in autopsia foro di uscita. A questo proposito leggiamo cosa dice il professor Giovanni Pierucci in risposta ai quesiti posti da Giorgio Pisanò e da noi esposti nello speciale di due anni fa su queste colonne: "Il verbale d'autopsia non documenta foro d'uscita per il colpo che attinse la regione sopraioidea: il proiettile potrebbe dunque essere 'ritenuto' nei resti (non risulta che il cadavere sia stato mai sottoposto ad esame radiografico)". A queste considerazioni vorrei aggiungerne altre. Per esempio, non risulta neppure che il proiettile sia stato "cercato". Insomma, se non c'è foro di uscita esso è stato trattenuto nella cavità cranica, cavità che è stata accuratamente esaminata alla ricerca di chissà quale "disturbo", al punto che un frammento venne persino consegnato agli Americani affinché pure loro potessero approntare i loro studi sul cervello più straordinario che la storia d'Italia abbia mai avuto. Il cervello venne asportato e posizionato in una teca a parte, teca che poi venne consegnata alla povera Rachele nel 1957. Dunque perché non si cercò il proiettile? Poteva essere rimasto nella materia cerebrale o, più probabilmente, si sarebbe dovuto trovare incastonato nelle ossa, la cui durezza avrebbe potuto fermarlo e trattenerlo. La determinazione della traiettoria di un proiettile all'interno di un corpo è materia troppo complessa, ci limiteremo qui dunque al nostro caso specifico, cioè al proiettile che, nel suo percorso intrasomatico (cioè nel percorso che segue all'interno del corpo), riduce fino a perdere la sua capacità perforante, per cui resta trattenuto all'interno del corpo stesso. In questo caso il proiettile ha due possibili vie: o rimane trattenuto in una sorta di nicchia, oppure risulta libero, per cui potrebbe trovarsi spostato dal punto in cui è terminato il tramite. Nel caso di questo colpo, sappiamo che entra da sotto il mento e già dalla forma del foro di ingresso si può orientativamente determinare in quale direzione sia andato: nel nostro caso verso l'alto, e altro purtroppo non possiamo sapere. Quindi o è rimasto in una "nicchia" che esso stesso ha formato entrando, oppure è finito nel cervello. Sarebbe bastato, in sede autoptica, esaminare precisamente il tramite servendosi degli opportuni strumenti. Questo dato non cambia, certo, la consistenza delle cose, però denota, ancora una volta semmai ve ne fosse ancora bisogno, come venne gestita la cosa.

Mussolini fu ucciso nella notte, al massimo all'alba del 28 aprile, scrive Emma Moriconi il 9 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". La scienza non mente, e l'analisi medico-legale di Aldo Alessiani va posta all'attenzione della storia. Il rigor mortis, la dinamica dei fori dei proiettili: ecco lo studio di uno scienziato e le prove di ciò che afferma. Abbiamo cominciato a parlare, qualche giorno fa, del dossier Alessiani, documento di estremo interesse per chi si dimena tra i misteri di quell'aprile del 1945 quando Benito Mussolini venne assassinato insieme a Claretta Petacci. Abbiamo già visto come l'epoca della morte sia da farsi risalire al mattino, e non al pomeriggio come all'epoca si tentò di far credere, e abbiamo anche visto come Alessiani abbia basato questa sua affermazione su dati scientifici fondati sui tempi (certi, è scienza) del rigor mortis. Vi sono poi altri elementi che mettono in discussione la versione data all'epoca: l'integrità, per esempio, degli indumenti che il Duce indossava a piazzale Loreto. Non vi sono fori nel cappotto, non vi sono sulla maglia intima né sui pantaloni. Inoltre lo stivale destro ha la cerniera rotta sin da prima dell'appendimento, "come se - dice la dottoressa Conti, collaboratrice di Luciano Garibaldi - già in preda alla rigidità cadaverica, lo avessero calzato a forza incontrando resistenza per una postura viziata del piede", appunto a causa della rigidità. Dunque le due deduzioni che scaturiscono inevitabilmente: uno, che Mussolini è morto prima del pomeriggio del 28 aprile (e Alessiani, sempre poggiando ciò che dice sulla scienza, individua il momento nella notte o all'alba del 28); due, che quando è morto era privo di indumenti. L'indagine continua quindi con l'esame dei nove colpi d'arma da fuoco che sull'autopsia sono verbalizzati come "colpi vitali". Per "colpi vitali" si intendono i colpi inferti quando il soggetto era in vita. La scienza è cosa esatta, e la medicina legale è infatti in grado di definire con precisione se un colpo è stato inferto in vita o post mortem. L'esame delle lesioni su un corpo dice tante cose, bisogna solo sapere come queste lesioni si interpretano, le regole sono certe, non siamo nell'ambito delle ipotesi. I nove colpi, così come sono ben visibili nelle molte foto di quelle ore, escludono la dinamica della fucilazione e fanno invece propendere per la dinamica della colluttazione. Si tratta di esaminare foro di entrata, foro di uscita e tramite, cioè il tragitto che il proiettile compie nel corpo. I colpi provengono da due armi diverse: nella foto che proponiamo al lettore (e che ci proviene dalla documentazione fornita da Alessiani a Luciano Garibaldi), si possono evidenziare i nove colpi "vitali", numerati: 1, 2, 3, 4 e 5 sono stati sparati da pistola, a distanza ravvicinata, presentano orletto escoriativo emorragico e affumicatura. La presenza dell'orletto escoriativo emorragico e della affumicatura lasciano comprendere senza ombra di dubbio che sono stati esplosi sul corpo privo di indumenti. Se infatti Mussolini avesse indossato un indumento, esso indumento avrebbe trattenuto l'affumicatura, che dunque non sarebbe presente sulla pelle. La lesione si presenterebbe diversa da quella che si può osservare sulle foto esaminate da Alessiani e che il lettore può facilmente reperire anche in rete. Noi abbiamo scelto di non pubblicare mai quelle immagini, esse sono destinate infatti ai libri e alle riviste specializzate: lì sono necessarie per la comprensione anche scientifica di come sono andate le cose, libri e riviste specializzate forniscono lo spazio necessario per un esame completo della vicenda, spazio che qui non abbiamo per ovvie ragioni di struttura. La decisione di non pubblicarle su questo organo di stampa (il lettore non trova infatti qui le immagini di piazzale Loreto), che è un quotidiano, deriva da una precisa scelta di rispetto per quelle persone orrendamente trucidate dopo morte in un piazzale di Milano. I colpi contrassegnati invece con i numeri 6, 7, 8 e 9 sono stati sparati da mitraglietta automatica, a distanza ravvicinata. Infatti se fossero stati sparati da una distanza maggiore sarebbero più distanti l'uno dall'altro, perché i proiettili sventagliando divaricano. Altri dati che possiamo rinvenire dai fori sono i seguenti: il tramite del foro 4 è verticale, dal basso verso l'alto, e uscendo ha sfondato la teca cranica; se si osservano le immagini di Mussolini sul tavolo autoptico si può vedere che anche se il corpo è stato lavato, presenta il "tatuaggio" tipico dei colpi a bruciapelo: parliamo del foro che abbiamo contrassegnato con il numero 5. Quando si presenta il "tatuaggio" significa che il colpo ha raggiunto il corpo senza elementi ostativi tra il proiettile e il corpo stesso, e a bruciapelo, appunto. In buona sostanza non vi erano ostacoli intercettanti, cioè il corpo era privo di vestiti. Viceversa, il foro numero 1 non presenta segno di affumicatura, nessun "tatuaggio": evidentemente indossava le mutande di flanella. E infatti osservando le foto di piazzale Loreto, queste mutande sono ben visibili nella parte in cui fuoriescono dai pantaloni, all'altezza della vita, e si presentano fortemente stropicciate, come se qualcuno avesse trascinato il corpo tirandolo proprio dalle mutande di flanella. Per oggi siamo costretti a fermarci qui, lo spazio a nostra disposizione è terminato. Ma domani proseguiremo nella nostra indagine, perché è giusto e sacrosanto che i lettori sappiano che c'è stato un uomo, che si chiamava Aldo Alessiani, che ha dedicato anni della sua vita alla ricerca di una verità evidentemente ancora scomoda, ma che deve emergere, che deve essere raccontata. Una verità basata non su ipotesi o fantasiose congetture ma su dati scientifici inequivocabili.

Aprile 1945, quei "medici da copertina" che fecero malissimo il loro lavoro, scrive Emma Moriconi il 12 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Un esame autoptico condotto pessimamente: fu incompetenza o malafede? Sorridenti in posa davanti ai fotografi: ma la medicina legale ha delle regole ben precise, che andavano rispettate. Riprendiamo il nostro speciale dedicato al lavoro del dott. Aldo Alessiani sulla morte di Benito Mussolini, e prima di tornare a quanto riferisce Praturlon sul nostro Giornale d'Italia dell'aprile 1988, ci sembra di interesse essenziale quanto dice Aldo Alessiani nel suo "Teorema" relativamente all'ormai noto verbale autoptico 7241, e innanzitutto bisogna dire che un verbale autoptico è un documento di importanza notevole, perché deve servire a determinare alcune cose, per esempio l'ora del decesso, le sue modalità, deve tentare di ricostruire la dinamica della morte, insomma serve proprio a chiarire, questo è il suo scopo. In secondo luogo poi può esserci un'indagine medico legale a più ampio raggio, che può anche esulare dalla fattispecie, ma detta fattispecie è sicuramente essenziale. Voglio dire: un'autopsia non si fa per semplice curiosità, o per dare spettacolo... e invece sembra proprio che quella effettuata in quel 30 di aprile del 1945 fosse più indirizzata a fare show che a scoprire le cause e le modalità di quella morte. O, forse, c'erano cose che non si sarebbero dovute proprio scoprire...Il lettore ragioni con me: ma è mai possibile che un esame autoptico sul corpo di Benito Mussolini, per l'importanza che il personaggio aveva, per il momento storico in cui ci si trovava, con tutto il clamore di carattere internazionale che vi ruotava attorno, si potesse condurre malamente? Quello che è accaduto in quella sala settoria in quella mattina di aprile è qualcosa di assolutamente scandaloso. Vediamo cosa dice Aldo Alessiani nel merito: "Il Medico Settore, allora aiuto del titolare dell'Istituto Universitario, descrive la salma del Mussolini come 'preparata' sul tavolo anatomico. L'occhio del profano scorrerebbe lo scritto senza soffermarvisi. [...] l'operatore-settore, prima dell'intervento, dovrebbe descrivere il cadavere così come gli si presenta, lordo, ignudo, vestito, scomposto; elementi preziosi potrebbero esistere in una muta narrazione di vicissitudini emergenti per tempi, luoghi, modalità, azioni, occasionalità, corrispondenze particolarmente esistenti o non con quel che si constaterà in fase settoria (artefatti simulanti o dissimulanti). Le gore ematiche appartengono a tale fase (manomissioni, spostamenti, posizioni); l'ho già detto. Non farlo ed agire su una salma già preparata vuol dire aver commesso una grave incompletezza per nulla giovevole ai fini della indagine più importante: la modalità della morte". Ciò di cui parla Alessiani è fondamentale. Parliamo di un "esame esterno" del cadavere, assolutamente necessario prima di procedere a quello "interno". "Esame esterno" che, però, non viene eseguito come si dovrebbe. Sotto la dicitura "ispezione esterna", infatti, vengono descritti i fori dei proiettili. Non una parola sulle gore ematiche. È l'abc della medicina legale. Tenterò di parlare al lettore in termini comprensibili anche per chi non abbia i rudimenti della medicina legale. Siccome non possiamo tutti sapere tutto, e siccome ritengo essenziale che chi legge debba essere messo in condizione di comprendere tutto ciò che scriviamo, è necessario esporre con chiarezza e semplicità quello che si vuole dire. Le "gore ematiche" sono tracce di sangue: il loro esame è essenziale e anzi esso deve essere effettuato prima di procedere a qualsiasi altra indagine. A maggior ragione nel caso di Mussolini (ma questo vale anche per la Petacci e per gli altri cadaveri di piazzale Loreto), il sangue ha fatto vari e complicati giri, post mortem... dopo l'omicidio, infatti, e fino all'arrivo a piazzale Loreto i corpi hanno subito numerosi (e ben strani) spostamenti, e poi a piazzale Loreto sappiamo bene che le posizioni dei detti corpi variarono notevolmente: distesi sul selciato prima, sollevati poi, quindi appesi a testa in giù, infine "disappesi", poi trasportati. Insomma non solo bisognava esaminare esternamente il corpo, bisognava farlo anche con estrema precisione e puntualità, a maggior ragione, ancora, se consideriamo che quei corpi vennero lavati con un idrante... e invece cosa troviamo scritto nel verbale 7241? Che la salma di Mussolini è "preparata sul tavolo anatomico"! Allora: piazzale Loreto fu un orrore devastante per la nostra storia e per l'essenza stessa dell'umanità. Fermo questo, che è del tutto evidente, passiamo oltre e andiamo a occuparci soltanto di quello che dovrebbe essere il dovere di un medico legale che si accinge a effettuare un esame su un corpo che arriva in obitorio per "morte violenta". La medicina legale ha delle regole ben precise, ciò che si fa senza ottemperare a quelle regole è per incompetenza, per malafede, per corruzione. Non vi sono alternative. Non sta a me dire quale di queste opzioni si sia verificata il 30 aprile del 1945, di certo sta a me e a tutte le persone di animo puro e innamorate della verità, presa visione del detto verbale, dire che quelle regole non vennero rispettate. E questo è di una gravità inaudita: perché qui non c'è la scusante della sommossa popolare, della folla incontrollata, dell'impossibilità fattiva di far fronte a una situazione di emergenza! Qui nella migliore delle ipotesi c'è colpa grave, nella peggiore c'è addirittura il dolo. I medici che quel giorno eseguirono quell'esame autoptico ebbero bene il tempo di mettersi in posa per farsi scattare interessanti fotografie, belli e sorridenti, felici - sembrerebbe - di essere testimoni di tanta parte della storia d'Italia. Ebbero bene il tempo di mettere fotografi e giornalisti a proprio agio per tentare di trovare l'inquadratura più macabra... dovreste vederli, sorridenti davanti al flash, su quelle foto che non pubblicheremo mai su questo quotidiano... ebbene sono passati settantuno anni da quell'orrore, oggi è giunto il momento che venga messa a nudo questa incompetenza, o questa malafede: i sorrisi davanti alle macchine fotografiche non possono e non debbono oscurare il fatto che fecero - quei "medici da copertina" - male, malissimo il loro lavoro. Come il lettore facilmente comprende, dobbiamo fermarci qui per oggi e darci appuntamento a martedì prossimo per proseguire con questa indagine, che sarà lunga ma necessaria. In fondo, non sarà nemmeno "troppo" lunga:  se pensiamo che veniamo da sette decenni di bugie, cosa saranno mai dieci, venti, cento puntate su un quotidiano? ...

Il dossier Alessiani, l'esclusiva del Giornale d'Italia del 1988. Il nostro quotidiano, ventotto anni fa, pubblicava lo straordinario studio del medico legale che gettava una nuova luce sull'omicidio più discusso del Novecento, scrive Emma Moriconi il 10 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Grazie alla scienza, anche dopo tanti anni, tutte le menzogne possono essere sbugiardate. Proseguendo nel discorso avviato qualche giorno fa e per completare l'argomento di cui si parlava nell'edizione di ieri, tornando al tema del rigor mortis, ancora, l'autopsia sul corpo di Benito Mussolini viene eseguita alle 7,30 del mattino del 30 aprile: i corpi presentano - come dicevamo - un rilasciamento del rigor nella muscolatura del capo - che infatti deve essere sorretto, come si vede chiaramente nelle foto che hanno fatto il giro del mondo - e nelle braccia, che penzolano. Ecco che Alessiani dunque si chiede perché, nonostante l'evidenza, Cattabeni (relatore dell'autopsia sul corpo di Mussolini) dichiara in sede autoptica che la rigidità è ancora presente? E siccome venne impedita l'autopsia sul corpo della Petacci, sarà legittimo o no ipotizzare che qualcuno abbia "consigliato" Cattabeni di scrivere una cosa piuttosto che un'altra? Sarà legittimo o no porre qualche dubbio, basato su principi scientifici, su quel che accadde quel giorno, e sulle persone coinvolte? Anche perché, guarda caso, nel 1957 venne effettuata un'autopsia sul corpo della Petacci - e naturalmente molti dati che nell'immediatezza sarebbero potuti emergere sono perduti per sempre (del resto, era quello che volevano, no?) - e sul suo corpo vennero rinvenuti due proiettili calibro 9: una Colt calibro 9, un'arma che i "giustizieri" di Dongo non possedevano ma che - guarda caso - era in possesso degli ufficiali britannici. Andiamo ora a raccontare ai nostri lettori come questo quotidiano, nell'edizione del 24 aprile 1988, pubblicava - a cura di Ezio Praturlon - in esclusiva la testimonianza scientifica di Aldo Alessiani, che titolava "Mussolini fu ucciso a letto", nell'occhiello: "Nuova luce sull' 'esecuzione' del capo del fascismo" e nel sommario: "Destatosi davanti alle armi puntate, lottò con l'uomo che stava per ucciderlo: raggiunto da alcuni colpi periferici che lo indebolirono, fu poi finito con due colpi di pistola al petto e sotto il mento. Il dottor Aldo Alessiani, medico legale della magistratura romana, attraverso i documenti ufficiali è riuscito a ricostruire minuto per minuto, quasi gesto per gesto, gli eventi di quel 28 aprile di quarantatre anni fa". E poi il pezzo, del quale riportiamo qualche stralcio: "Mussolini fu ucciso all'alba del 28 aprile 1945, almeno dieci ore prima dell'ora 'ufficiale' della sua 'esecuzione'. La sua morte non avvenne a seguito di una più o meno regolare fucilazione dove il capo del fascismo e Claretta Petacci sarebbero stati appoggiati ad un muretto; Mussolini morì invece sdraiato, probabilmente sul letto dove aveva trascorso la sua ultima notte nel casale De Maria, lottando efficacemente con l'uomo che era entrato in quella camera sul finire della notte per eliminarlo senza tante formalità. Claretta Petacci fu probabilmente uccisa perché tentò forse di aiutarlo in quella lotta mortale. Tutto questo è il frutto di una ricostruzione storico-scientifica dovuta ad un medico legale romano, Aldo Alessiani. Per rivedere quei fatti, facciamo un salto indietro nel tempo. 28 aprile 1945. Sono passate da poco le sedici quando un gruppetto di persone scende lungo la strada che attraversa l'abitato di Bonzanigo. Al centro un uomo ed una donna: lui ha un cappello in testa e si stringe a lei. 'Mussolini e la Petacci', si dirà poi. Intorno a loro pochi uomini armati. Il gruppo viene da un grande casolare dove Mussolini e la giovane donna hanno trascorso la loro ultima notte. Scendono lungo la strada e scompaiono presto alla vista degli abitanti. Giunti a Giulino di Mezzegra, il gruppo si ferma: Mussolini e la Petacci vengono spinti verso un muretto accanto al cancello di una villa. L'uomo prescelto per eseguire la sentenza di morte emessa dal Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia comunica al capo del fascismo la sua condanna e invita la Petacci ad allontanarsi; ma lei rifiuta e si stringe anzi all'uomo del quale vuole condividere la morte, dopo averne in parte diviso la vita. A quel punto il 'giustiziere spara': anche in paese si sentono distintamente quattro raffiche di mitra. I proiettili raggiungono lui e lei al petto, come accade in una esecuzione in piena regola. I corpi senza vita cadono al suolo; vengono poi raccolti e portati a Milano dove vengono gettati sopra ai cadaveri dei quindici gerarchi fucilati a Dongo e portati in piazzale Loreto per pareggiare il conto con i quindici partigiani che, proprio in quella piazza, erano stati fucilati dagli uomini della legione 'Ettore Muti'. Anche il corpo di Marcello Petacci, fratello di Claretta, si aggiunge al funereo mucchio. Più tardi verrà condotto sul posto Achille Starace, ex segretario del Pnf, che farà il suo ultimo saluto romano verso Mussolini prima di venire fucilato. [...] Questa è la versione finora accreditata sulle circostanze della morte di Mussolini e di Claretta Petacci. Quale esecutore fu indicato (e se ne assunse pubblicamente la responsabilità) il 'colonnello Valerio', partigiano divenuto poi parlamentare del Pci con il suo vero nome: Walter Audisio. Ma qualche anno fa alcuni dubbi vennero sollevati sulla vicenda, e in particolare sul nome del 'giustiziere': non sarebbe stato Audisio, si disse, ma Luigi Longo, a quell'epoca uno dei cinque capi del ClnAI, ed in seguito segretario generale del Pci, prima di lasciare il posto a Berlinguer. Tutto questo è falso. A quarantatre anni di distanza da quel girono, mentre i protagonisti di quell'episodio sono tutti morti (non solo Mussolini e la Petacci, ma anche Longo, Audisio e i partigiani 'Gianna' e 'Neri' che 'recitarono' la parte dei due condannati che attraversarono il paese), uno studioso ha ricostruito in maniera dettagliata e scientificamente inoppugnabile la reale sequenza dei fatti che con pazienza da certosino e con intuito da Nero Wolfe, il dottor Aldo Alessiani, medico-legale della magistratura romana, ha elaborato in lunghi anni attraverso la consultazione di tutto il materiale esistente: dal referto dell'autopsia di Mussolini a tutte le fotografie eseguite in quei giorni, ed a tutto quanto è stato scritto sull'episodio. Il risultato, come si è detto, è inoppugnabile ed in sintesi è questo: Mussolini non fu ucciso nel posto indicato, né nell'ora indicata, né dalle persone indicate. Mussolini morì invece mentre ancora si trovava sul letto in una stanza del casolare dove era tenuto prigioniero, verso le cinque e trenta del mattino del ventotto aprile; morì lottando con l'uomo che si era recato ad ucciderlo, e che non poteva essere né Audisio né Longo, che a quell'ora ancora non erano arrivati sul posto. Impossibile dire chi fu realmente l'esecutore: su questo punto sono possibili soltanto due ipotesi". E, con rammarico, per oggi ci fermiamo qui. Del resto quando si trattano questioni così complesse lo spazio di cui necessiteremmo non può certo essere rinchiuso in una sola pagina. Ci torneremo quindi domani, e poi dopodomani, e eventualmente ancora il giorno successivo, finché non avremo esposto al lettore tutti i preziosi elementi in nostro possesso, che ci derivano dagli approfonditi studi di Aldo Alessiani.

La morte del Duce, la scienza può aiutarci a capire la verità. Prosegue il nostro esame del "Teorema Alessiani", scrive Emma Moriconi il 15 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". L'articolo di Cattabeni su "Clinica Nuova" dell'agosto 1945 e le contraddizioni di un'indagine priva di metodo. Restiamo ancora sul lavoro di Aldo Alessiani relativo alle sue indagini sulla morte di Benito Mussolini. Troppe sono le cose che non vanno e che non tornano quanto a come venne gestita la faccenda nell'aprile del 1945: il lettore dovrà, qualora non ne fosse a conoscenza, anche sapere che nella rivista "Clinica nuova" del 15 luglio - 1 agosto 1945 il professor Mario Cattabeni scrisse un articolo dal titolo "Rendiconto di una necroscopia d'eccezione" nel quale dice che prende la parola sul caso "autopsia di Mussolini" perché "la notizia che presso l'Istituto di Medicina Legale [...] è stato possibile condurre un'indagine anatomopatologica e medico-legale sulla salma di Benito Mussolini ha destato vivissima curiosità oltre che nel mondo medico, tra i profani", curiosità dettata - dice il medico - dal fatto che ci si aspettava che essa indagine chiarisse gli aspetti relativi alla morte ma anche quelli relativi alla complessa personalità del Duce. Ammette che l'autopsia è stata condotta in condizioni di eccezionalità: "poco tempo prima di una affrettata inumazione - dice -, in una sala anatomica dove facevano irruzione ogni tanto, per l'assenza di un servizio armato d'ordine pubblico, giornalisti, partigiani e popolo". Dice poi che "non è stata una indagine di tipo antropologico giudicata irrilevante, ma, più propriamente, un riscontro medico-legale e diagnostico diretto a cerziorare, per ogni eventualità, le modalità lesive pre- e post-mortali, reperti anatomopatologici riferibili a stati morbosi pregressi o in atto, con particolare riguardo al sistema nervoso, ed eventuali contrassegni per una sicura identificazione". Dice anche che "è stato redatto un verbale specialmente dettagliato per quanto riguarda le lesioni di tipo pre- e post-mortale, rilevabili all'esame esterno ed alla dissezione": abbiamo visto nelle precedenti puntate di questo speciale come questo invece non sia avvenuto e viene da chiedersi perché il medico ci tenga tanto a fare questa precisazione nell'estate del 1945, su una rivista specializzata, incastrando un articolo in una miscellanea di articoli di clinica chirurgica. Se lo chiedeva anche il buon Aldo Alessiani nel suo "Teorema": "[...] il Medico settore - scrisse Alessiani - volle rincalzare che l'autopsia era stata più che bastevole per testimoniare l'esecuzione avvenuta e narrata nella conferma delle rivelazioni fatte a pubblico dominio. In altri termini una puntualizzazione non essendosi inizialmente espresso in un supporto tecnico confermante". Ci sono poi alcune cose che suscitano quantomeno qualche perplessità in termini umani oltre che di diritto. Al termine dell'articolo Cattabeni dice: "Ho ritenuto opportuno fissare senza alcun commento questi appunti essenziali [...] per soddisfare un legittimo senso di curiosità umana e professionale nel pubblico medico, che più di ogni altro aveva diritto di esserne informato". No. Chi aveva "più di ogni altro" diritto di esserne informato era semmai la sua famiglia, sua moglie, i suoi figli. E invece Rachele seppe tutto dai giornali, il lettore può immaginare con quale "delicatezza". Annota ancora Alessiani come Cattabeni sorvola, nell'articolo, sull'ora dell'esecuzione, "così come aveva fatto quattro mesi prima omettendo l'ora d'inizio dell'autopsia nel preambolo tecnico del verbale 7241". Un’altra cosa che proprio non si riesce a capire, e che infatti Alessaini sottolinea, è perché nel Verbale 7241 non c'è alcun riferimento alle ipostasi presenti sul corpo. Le ipostasi sono "macchie da stasi colorativa", per essere chiari e far capire a chi legge di cosa parliamo sarà utile spiegare brevemente di quale fenomeno parliamo. Si tratta di macchie di colore violacee, bluastre o color vinaccio, livifo, che si formano sulla cute o anche sugli organi interni: in base all'esame di esse si può addivenire a scoprire l'ora del decesso perché esse, con il trascorrere delle ore, modificano il loro aspetto. Non solo: in base al loro esame si possono capire le posizioni che il corpo ha assunto dopo il decesso. Si formano perche il sangue cadaverico, non essendo più in circolo, va a depositarsi nelle zone declivi del corpo. Spiegare il fenomeno ipostatico in maniera approfondita ci prenderebbe troppo spazio, ma già da queste poche (ma essenziali) informazioni il lettore può rendersi agevolmente conto dell'importanza di questo tipo di esame per la determinazione delle dinamiche della morte e delle vicende del cadavere dopo la morte. Ebbene questo è un altro dato che nell'autopsia in oggetto manca del tutto. Così argomenta la cosa Alessiani: "Si poteva fare un accenno, per una migliore puntualizzazione alle macchie da stasi colorativa (ipostasi) altro fenomeno consecutivo che bella loro fissità belle parti corporee a contatto con le superfici corporee dovevano pur esserci e stabili dopo la quindicesima ora dal decesso. Non apprezzamento nel merito". Così oggi abbiamo aggiunto altri elementi di cognizione a quelli già espressi nei giorni scorsi. C'è però ancora molto da dire, e il lettore avrà la pazienza - ci auguriamo - di seguirci nei prossimi giorni ancora, per avere in tal modo tutte le informazioni utili per comprendere la ragione della nostra insistenza su un'indagine essenziale, che la storia e - ahimè - la scienza non hanno sinora tenuta nella debita considerazione.

I fori di proiettile e quello che non torna nella "vulgata" sulla morte del Duce, scrive Emma Moriconi il 16 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Il "Teorema Alessiani", un'indagine troppo a lungo trascurata. La dinamica raccontata non può essere quella vera: ecco le prove scientifiche che dimostrano decenni di menzogne. "Mettiamoci nei panni del Medico Settore: se avesse denunciato l'effettivo orario delle 7,30 (alias 6,30), la seppure iniziale risoluzione della mandibola avrebbe condotto ad un calcolo retrogrado di 48 ore di rigor più, quanto meno, un'altra ora per il rilasciamento: totale 49. Il decesso (già lo dissi) si riconduce alle 6,30 (5,30 ora legale); ecco perché sorvola sul trattar dell'ora della morte anche nella monografia illustrata dell'agosto '45. Resta tuttavia una carenza non veniale per un medico-legale il non esprimersi sull'ora del decesso quantunque presuntiva; volerne giustificare l'omissione diventa tentativo non onesto di facilissima identificazione intenzionale". È ancora uno stralcio dal "Teorema Alessiani" che chiarisce come è tecnicamente, scientificamente impossibile far risalire la morte del Duce al pomeriggio del 28 aprile 1945. E poi c'è la malafede, perché non viene formulata dal medico che effettuò l'autopsia alcuna ipotesi sull'ora presunta della morte, il che non può e non deve succedere. E poi: se di esecuzione capitale si trattasse, noi avremmo sul corpo i fori dei proiettili in linea più o meno retta sul torace, con colui che spara posizionato di fronte a colui che viene ucciso. Il tramite dei proiettili attraverso il corpo avrebbe una direzione più o meno lineare. E invece i proiettili fanno invero strani movimenti. Naturalmente in questo caso parliamo di quelli esplosi contro di lui quando Mussolini era in vita, esulano dunque da questo esame quelli esplosi contro il suo corpo già morto, a piazzale Loreto per esempio, quando vennero esplosi colpi persino sui cadaveri. Cerchiamo di superare l'orrore che questa scena suscita, ci dobbiamo sforzare di essere lucidi e di non farci prendere dall'emotività, che pure sarebbe comprensibile. Ragioniamo dunque solo in termini scientifici. Vediamo. I colpi in questione sono nove. Il lettore stia bene attento a come si trovano posizionati sul corpo del Duce. Un colpo ha il foro di entrata sul fianco destro, "fuoriesce - dice Alessiani - dalla parte supero-esterna del gluteo omolaterale, in modo tangenziale assumendo su sagoma umana verticale, un angolo di 45 gradi". Un altro colpo possiamo vederlo sul margine esterno dell'avambraccio destro, angolazione minima. Il terzo è all'altezza della clavicola destra, sopra, nella parte carnosa che si trova proprio sopra la clavicola: "180 gradi - precisa Alessiani - su sagoma eretta". Un quarto foro lo troviamo sotto il mento, parte destra: la sua direttrice è dal basso verso l'alto; il proiettile non uscì, dunque non vi è foro di uscita rimanendo la pallottola all'interno del cranio: "Novanta gradi perfetti su sagoma eretta", precisa Alessiani. Il quinto colpo è in entrata sul margine destro dello sterno, all'altezza del secondo spazio intercostale, con percorso obliquo e foro di uscita sul dorso, "45 gradi sul piano intra-toracico". È questo il proiettile che ruppe l'aorta. Ancora, all'altezza della spalla sinistra si possono notare quattro colpi d'arma da fuoco piuttosto ravvicinati: Alessiani ne riproduce, sui suoi disegni, una distanza più regolare di quanto appaia in realtà sulle foto. Questa imprecisione tuttavia non diminuisce di un millimetro la valenza dell'esame che il medico ne fornisce. Alessiani dice che il disegno che ne risulta ricorda "un quattro di quadri coricato", i realtà i quattro fori non sono a distanza così precisa tra loro, in ogni caso parliamo di quattro fori di entrata ai quali corrispondono i quattro di uscita sul dorso abbastanza in linea. Nove fori, nove colpi inferti in vita. Posizionati in maniera disparata l'uno dall'altro salvo per i quattro alla clavicola. Un'esecuzione prevede una dinamica del tutto diversa da quella prospettata dall'esame qui riferito. Alessiani parla di "polispazialità per angolazioni che testimoniano una chiarissima polispazialità per angolazioni da inclinazioni diverse per armi sparanti come se il bersaglio fosse estremamente mobile in tempi successivi brevissimi". E poi c'è quel colpo sotto il mento. Se il bersaglio fosse in piedi di fronte a chi spara, se fossimo di fronte a una "esecuzione", come potrebbe andare, un proiettile, a colpire la parte sottostante del mento? Vediamo ancora Alessiani: "Il colpo sotto il mento, in piena verticalità di tramite, esclude il bersaglio all'impiedi, quello al fianco, che simula addirittura un colpo sparato dall'alto, una orizzontalità dell'arma. La soluzione è quella di una colluttazione con tentativo di disarmo del soccombente, iniziale". Il medico si dilunga poi in tecnicismi che, per quanto utili, è impossibile dettagliare qui. Diremo dunque, sintetizzando, che ricostruisce una dinamica di colluttazione, di contrasto, che - come abbiamo sommariamente visto fin qui - ben spiegherebbe i fori di cui abbiamo parlato. Di certo è del tutto da escludere, in ogni caso, la possibilità di una "esecuzione" così come ce l'hanno propinata per decenni. I proiettili inoltre, lo abbiamo accennato in una precedente puntata di questo speciale, non sono tutti appartenenti alla stessa arma. I quattro colpi alla clavicola vennero sparati da una mitraglietta, al contrario degli altri esplosi invece da una pistola. Dice Alessiani che essi "sono senz'altro di raffica a bruciapelo" e aggiunge: "è caratteristica delle mitragliette la distanzialità dei loro effetti già nel modesto allontanarsi del bersaglio. Potrebbero essere stati esplosi da persona intervenuta a dar manforte allo sparatore di pistla e che per non colpirlo ha indirizzato la raffica sulla spalla sinistra del soccombente, unica regione di questi, ancora scoperta durante la colluttazione oppure per altre contingenze che fanno presupporre nella fattispecie la presenza e l'intervento di una quarta persona (C. Petacci), ragione volontaria o involontaria deviante l'arma in eccentricità". È chiaro che - e lo dice lo stesso Alessiani - quanto a ciò che accadde e alle esatte modalità della colluttazione, siamo nel campo delle possibilità/probabilità. Ma sulle vicende sopra esposte si è nell'ambito dell'analisi scientifica, e non si può sostenere il contrario di ciò che dicono le prove. Contraddizioni e bugie, esami condotti male e resoconti superficiali: per rendere ancora più difficile la ricerca della verità. E anche le foto dell'epoca raccontano un'altra storia. Gli abiti intatti, il mancato esame della salma prima della preparazione sul tavolo settorio: troppe stranezze aleggiano su quel giorno di aprile. "Fermarsi solo sull'apprezzamento della polispazialità dei colpi d'arma da fuoco inferti al Mussolini e dunque non conformi a una esecuzione capitale è ingiusto verso di me e quest'opera; andiamo dunque ad indagare altre componenti dimostrative; le più importanti". Al fine di rendere più precisamente possibile al lettore i contenuti della sua indagine, Alessiani riferisce anche elementi utili circa la polvere da sparo, facendo anche le opportune distinzioni del caso tra vari tipi di polveri. Qui dobbiamo accelerare, però, e dunque siamo costretti, almeno per ora, a sorvolare anche su quanto riferisce Alessiani riguardo a Claretta Petacci, sul corpo della quale come sappiamo non venne effettuato alcun esame nell'aprile del 1945. Ne parleremo nella prossima puntata. Stringendo, Alessiani ripercorre le vicende dei corpi basandosi sulle foto successive alla morte, dunque quelle di piazzale Loreto e poi dell'obitorio, rilevando - come abbiamo avuto modo di dire - che gli abiti di Mussolini sono intatti, non presentano fori, e che dunque probabilmente è stato rivestito dopo la morte. Il lettore ricorderà la faccenda dello stivale rotto, probabilmente calzato a forza con il rigor già in corso. Ne parlammo anche quando trattammo l'eloquente lavoro di indagine di Giorgio Pisanò, nell'aprile del 2014. Così come abbiamo già riferito circa il "tatuaggio" prodotto dalla polvere da sparo sul corpo in caso di esplosione ravvicinata. A questo proposito, Alessiani nel prosieguo del suo lavoro spiega con precisione e in maniera estremamente tecnica il comportamento dell'alone escoriativo emorragico, dell'ustione, del tatuaggio, dell'affumicatura e così via, cosa non riproponibile qui non avendo a disposizione lo spazio di un manuale di medicina legale. Possiamo però riferire come ancora una volta il medico torna su un tema essenziale, denunciando che "non esiste la descrizione dello status del cadavere quale ispezione pre-autoptica, che avrebbe dovuto descrivere anche i vestimenti nelle loro alterazioni tissutali". Ne abbiamo già parlato, una faccenda gravissima. Nella prossima puntata di questo speciale tenteremo di chiudere - almeno per il momento, ma questa storia è talmente brutta e complicata che difficilmente si riuscirà mai a metterci la parola fine - questo speciale sul lavoro di Aldo Alessiani e andremo a vedere anche le deduzioni del medico sulla vicenda della Petacci. Poi esamineremo altri documenti, renderemo ancora altre testimonianze, faremo altre considerazioni. La verità esatta di come andarono le cose in quel giorno del 28 aprile del 1945 forse non sapremo mai, troppe le contraddizioni, spesso forse orchestrate proprio per confondere le acque e rendere sempre più difficile la ricerca della verità.  Ma almeno sapremo come di sicuro non può essere andata.

Scienza e testimonianze, alla ricerca della verità, scrive Emma Moriconi il 18 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Prosegue il nostro speciale sul Teorema Alessiani. Gli abiti di Mussolini erano integri, i proiettili furono esplosi a bruciapelo: le troppe menzogne sulla morte del Duce, che vanno sbugiardate. Abbiamo esaminato nei giorni scorsi il lavoro del dottor Aldo Alessiani sui documenti relativi alla morte di Benito Mussolini e abbiamo visto come il coscienzioso medico riesca, basandosi su prove scientifiche, a dimostrare che la morte del Duce non può essere avvenuta nel pomeriggio del 28 aprile come si è tentato di far credere (tentando di avvalorare la cosa persino con un lungometraggio uscito negli anni Settanta, quando qualche curioso cominciava a farsi qualche domanda), ma molte ore prima. Abbiamo tentato di spiegare il tutto ai nostri lettori evitando tecnicismi che avrebbero probabilmente reso la comprensione più difficile, e sempre allo stesso fine proseguiamo oggi il nostro esame e andiamo a vedere, cercando di tirare le somme, come sia del tutto evidente - oltre a quanto abbiamo spiegato finora - che se l'alone di affumicatura del colpo sparato si può rintracciare sulla cute, essa doveva essere in quel momento priva di indumenti. Se gli indumenti fossero stati presenti, infatti, avrebbero intercettato l'alone, che sulla cute dunque non sarebbe visibile. In sede autoptica, infatti, manca un esame sia degli abiti che Mussolini indossava a piazzale Loreto (ricordate? La salma era stata "preparata" sul tavolo anatomico) sia della stessa cute: non vi è parola circa l'aspetto della cute in prossimità dei fori di proiettile. Abbiamo anche visto come Alessiani, esaminando le foto di piazzale Loreto e dei corpi in obitorio, rilevi l'integrità degli indumenti indossati dal Duce: non un foro di proiettile appare sul cappotto, né sulla camicia, né sulla maglia. Mussolini insomma non aveva abiti indosso quando venne ucciso, gli indumenti (integri) sono dunque stati messi sul corpo dopo la morte e il fatto che uno stivale sia lacerato fa propendere per una vestizione a rigor iniziato (anche il buon Pisanò arrivò a questa deduzione, il lettore ricorderà il nostro speciale di due anni fa sul tema). Andiamo ora a vedere cosa scriveva Il Giornale d'Italia nell'esclusiva già citata dell'aprile 1988. I documenti su cui il collega Ezio Praturlon sono gli stessi di cui disponiamo noi oggi, ma lui ebbe l'occasione di parlare direttamente con Alessiani, dunque può essere interessante riferirne al lettore. Era il 26 aprile, e il nostro quotidiano titolava: "Gli abiti di Mussolini non avevano fori di proiettili", e nel sommario scriveva: "Anche le foto parlano per chi sa interpretarle: e quelle dei giorni 28-30 aprile 1945 dicono che Mussolini fu raggiunto dai colpi mortali mentre era spogliato, verosimilmente a letto. La morte di Claretta non è ricostruibile perché non fu fatta l'autopsia, ma si può ipotizzare realisticamente. Il grande interrogativo che dura ancora". Già, il "grande interrogativo" che nel 1988 durava ancora e che oggi, quasi trent'anni dopo le indagini di Alessiani, non arriva ancora ad essere svelato. A questo proposito vale la pena di sottolineare come, nel tempo, si sia parlato di "scoop" derivanti da testimonianze di vario genere, più o meno affidabili, più o meno credibili, più o meno intellettualmente oneste. Il problema quando si indaga su un cosiddetto "cold case", è che moltissime prove sono ormai deteriorate, inservibili, o addirittura evidentemente svanite. Quanto alle testimonianze, bisognerebbe aprire un capitolo a parte per spiegare quanto esse siano suscettibili di una lunghissima serie di variabili. È tema prettamente criminologico, e questo è un altro campo sul quale ragionare che ci prenderebbe molto spazio qualora volessimo rendere un servizio preciso a chi legge. Ma questo non è un manuale di criminologia, dunque nostro malgrado anche qui dovremo operare di sintesi. Nelle testimonianze influiscono vari fattori: l'attendibilità del testimone, prima di tutto, che varia a seconda di una lunga serie di circostanze afferenti principalmente - per quanto ci interessa in questa sede - al tempo trascorso, alle condizioni emotive/ambientali/sociali del testimone nel momento in cui i fatti vengono da lui recepiti, la buona o mala fede. Il tema non si esaurisce certo in queste variabili, ma esse sono certamente da tenere in considerazione per quanto attiene al nostro tema odierno. Ed ecco perché, invece, il lavoro di Alessiani è estremamente interessante: proprio perché non sottostà a queste variabili, essendo piuttosto basato interamente su prove scientifiche. Ecco perché ritengo (e insisto) che certe indagini siano più affidabili di altre. Ciononostante, non possiamo certo snobbare le testimonianze, e ci mancherebbe altro. Dico solo che è necessario esaminarle tenendo ben presente che sono soggiogate alle variabili di cui parlavamo prima. Torniamo dunque, con queste premesse, all'articolo del nostro quotidiano di quell'aprile del 1988, che dice: "Sulla sorte di 'Neri' (Luigi Canali) e 'Gianna' (Giuseppina Tuissi) sono già state pubblicate varie cose, ma la ricostruzione più attenta e particolareggiata appare quella dello storico Franco Bandini; il quale, del resto, ha anche fatto una ricostruzione quanto mai dettagliata di tutto il contorno della esecuzione di Mussolini, ivi compreso il fatto che non fu certamente fucilato né nel luogo né all'ora indicati dalla versione ufficiale. Proprio a lui si deve la scoperta, tra l'altro, di un'importante testimonianza, quella di Angelo De Angelis che aiutò a caricare su un camion i corpi di Mussolini e della Petacci raccogliendoli davanti al cancello della finta esecuzione; De Angelis si accorse del fatto che inspiegabilmente i due corpi erano già in stato di rigidità cadaverica, benché fossero trascorsi solo pochi minuti dall'asserita fucilazione, e che per terra non c'erano tracce di sangue". Se Mussolini e la Petacci fossero stati uccisi in casa, si spiegherebbe anche perché il fotografo di Mezzegra venne tenuto fuori per giorni. Lo storico e il medico legale, lavorare insieme per porre dei punti fermi. Perciò Luciano Garibaldi si affidò alla collaborazione della dottoressa Conti: una squadra di professionisti al servizio della Storia. "In realtà - continua Praturlon -, come affermano sia Franco Bandini che Aldo Alessiani, i due erano già morti da alcune ore, e questo spiega la rigidità cadaverica che giustamente sorprese il testimone. Ma Bandini colloca la morte di Mussolini verso mezzogiorno, mentre come abbiamo visto, e come si cercherà di provare su base scientifica, Alessiani la colloca intorno alle 5,30, sempre del 28 aprile. Su un altro punto coincidono le due ricostruzioni - quella dello storico e quella del medico legale - ed è sull'ora dell'autopsia: all'incirca le 7 del mattino del 30 aprile. Ma lo storico, pur avendo fatto un accuratissimo lavoro di ricerca e di ricostruzione di tutte le vicende ed i personaggi di quelle giornate, comprensibilmente non seppe 'leggere' (inteso in chiave scientifica) il referto dell'autopsia. Perché una volta chiarito che l'autopsia iniziò verso le sette del mattino del 30 aprile, e che dal referto si apprende che il 'rigor mortis' iniziava a scomparire (il collo ed il mento avevano iniziato a rilasciarsi) non si poteva che giungere a una conclusione: Mussolini era morto nelle primissime ore del giorno 28. La rigidità cadaverica dura infatti, come minimo, quarantotto ore: essendo già iniziato il rilasciamento, la morte non poteva che risalire alle primissime ore del 28". Questo passo dell'articolo di Praturlon la dice lunga sull'importanza, per lo storico, di affidarsi in determinate circostanze al lavoro di altri professionisti: in questo caso di un medico legale, o quantomeno di un medico. Ed è per questo che Luciano Garibaldi, quando si trovò tra le mani il lavoro immenso di Alessiani, lo esaminò insieme alla dottoressa Conti. Uno storico e un medico, insieme, al lavoro su uno dei casi più intricati della nostra storia: è il metodo giusto per arrivare a conclusioni certe. Non si saprà mai tutto, ne siamo consapevoli, ma alcuni punti fermi si possono porre, e questo è già un passo in avanti verso la verità. Andiamo avanti con il pezzo di Praturlon: "Abbiamo già rilevato che i colpi, per la loro diversa e singolare angolatura, si spiegano soltanto con una colluttazione in posizione orizzontale (sul letto o sul pavimento). Ma risalendo all'ora della morte si giunge alla conclusione che Mussolini e Claretta a quell'ora antelucana stavano riposando, e perciò erano almeno in parte spogliati. Non disponendo di pigiami o altri indumenti notturni, si erano quanto meno 'alleggeriti': probabilmente Claretta era in sottoveste e Mussolini era in maglietta e mutande. Troppo tardi, quando già era cominciato il rigor mortis, qualcuno pensò che non si poteva far passare per una regolare 'esecuzione' l'uccisione di due persone se i corpi fossero apparsi spogliati. Ed allora cominciò un nuovo capitolo di quel 28 aprile". Mi fermerei per ora qui, e darei appuntamento al lettore alla prossima puntata, non prima però di rilevare ancora una cosa che mi sembra rilevante. Ricordate cosa ci disse don Luigi Barindelli, parroco di Mezzegra, l'anno scorso? Ci riferì la testimonianza del fotografo del posto che cercò di entrare in casa De Maria dopo aver saputo che Mussolini e la Petacci erano stati uccisi, ma che non lo fecero entrare se non dopo alcuni giorni. Il buon Sacerdote si chiedeva perché? E ipotizzava che quei giorni erano serviti per ripulire, sistemare, realizzare quella "scenografia" che poi finì sulle "cartoline ricordo", macabro souvenir di quelle terre in riva al lago. Le testimonianze, dicevamo, vanno prese "con le molle", mentre la scienza non si può discutere. Qui abbiamo un caso particolare: la scienza (che non si può discutere) arriva a certe determinazioni che vengono suffragate da certe testimonianze. Non si può non tenerne conto. 

Resoconto dall'obitorio. Concludiamo il nostro speciale sul documento di Bruno Romani, scrive Emma Moriconi il 4 aprile 2016 su "Il Giornale D'Italia". "Bisognava fare tutto da soli: rimuovere i corpi, scoprire alla luce i volti, scrivere su dei lembi di carta i nomi, le generalità, gli indirizzi". Riprendiamo tra le mani il resoconto di Bruno Romani, e chiudiamo finalmente questa sequela di speciali dedicati alle pagine più buie della nostra storia. Siamo ancora all'obitorio di Milano, è il 30 aprile del 1945. Il cronista a seguire racconta ancora di come parenti, amici o semplici curiosi si aggirassero tra quei corpi impacciati nel tentativo di non calpestarli, alla ricerca dei propri cari. "Ed ogni volta che uno di essi veniva riconosciuto, si verificavano le stesse scene: si levavano striduli lamenti, preghiere recitate ad alta voce, ed anche imprecazioni e maledizioni. Bisognava fare tutto da soli - documenta ancora Romani -: rimuovere i corpi, scoprire alla luce i volti, scrivere su dei lembi di carta i nomi, le generalità, gli indirizzi. Perché, di custodi e becchini neppure l'ombra". Anche Romani e i suoi cercano: cercano di riconoscere, nel mucchio, i volti di Mussolini, di Claretta e dei gerarchi. "'Guarda' disse Gino indicando col dito un morto che portava una benda nera su di un occhio 'Questo è Barracu. E questo qui accanto è Alessandro Pavolini'. Erano entrambi facilmente riconoscibili. I loro volti ed i loro corpi erano ancora intatti". Questo passaggio è in nettissima contraddizione con quanto riferisce l'estratto pubblicato su Risorgimento Liberale, che invece dice: "I corpi sono distesi a terra. In un corridoio giacciono molti cadaveri allineati. Apre la fila Pavolini, quasi irriconoscibile; a torso nudo, indossa i pantaloni cachi e gli stivaloni neri". Quale delle due versioni è dunque quella corrispondente ai fatti? Pavolini era "facilmente riconoscibile" come dice nella versione integrale del resoconto, o "quasi irriconoscibile", come dice Risorgimento Liberale? Prosegue poi riferendo l'atmosfera del luogo: insieme ai suoi collaboratori Romani sale al primo piano dove è in corso l'autopsia sul corpo del Duce. Racconta di una stanza "gremita di medici, di ufficiali americani, di fotografi", alcuni di questi ultimi cercano di posizionarsi in modo da scattare foto "buone" e quindi "si erano arrampicati sugli alti davanzali delle finestre". Quindi spiega che l'esame autoptico si è appena concluso, un medico militare americano ricuce il cranio. Oltre che per il normale esame dell'encefalo, infatti, c'è stata anche l'asportazione di un pezzetto di materia cerebrale richiesta dagli Americani al fine di condurvi esami approfonditi in patria. Quel pezzetto di cervello, dopo l'esame, verrà dimenticato in qualche angolo e verrà restituito a Donna Rachele molti anni più tardi, dentro un pezzetto di cellophane, a sua volta rinchiuso dentro una busta da lettere. Per tornare a quel giorno in obitorio, Romani riferisce che "il chirurgo, prima di ricucire la ferita, aveva riempito il vuoto con stracci e segatura [...] ad ogni movimento - aggiunge -, ad ogni urto, il testone ballonzolava come una maschera del carnevale di Nizza". Questo è uno di quei casi che possono far rabbrividire, ma si tratta di una prassi diffusa. Cioè, quando gli organi devono essere esaminati, essi vengono asportati e al loro posto vengono posizionati materiali di riempimento. È triste, può suscitare orrore, ma è così. Resta il dato - scientifico - che se la testa "ballonzolava", il rigor doveva essere cessato. Il che dimostra che le deduzioni di Mario Alessiani circa l'epoca della morte (che il professore collocava al mattino del 28 aprile, e non certo alle 16,30 del pomeriggio come era andato raccontando Audisio e come poi la "vulgata" tentò di asseverare) erano corrette e che la fucilazione davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra era solo una messinscena. Riferisce ancora Romani che l'aspetto del cadavere era marmoreo, e spiega che non si era formata alcuna macchia di sangue sul tavolo né la segatura sparsa a terra ne era impregnata, e attribuisce questo dato alla notevole dispersione di sangue avvenuta a piazzale Loreto. Dopo la ricucitura del cranio, Romani riferisce di un omino (un antropologo) che con un metro arrotolato in mano comincia a misurare tutte le parti del corpo di Mussolini. L'uomo spiega che è sua intenzione ricostruire la personalità del Duce attraverso i suoi dati antropometrici. Riferisce di averli trovati del tutto "normali", come "normali" erano stati i dati rilevati dall'autopsia. Nessuna malattia, nessuna traccia di malattie veneree, nessuna traccia di ulcera, niente di niente. Insomma, era un uomo "normale"... chissà cosa si aspettavano di trovare, di "non normale"...  Ma un dato interessante, che riferisce ancora Romani, è che questo antropologo fa il suo comodo, prende le sue misure, volta e rivolta il corpo di Mussolini e nessuno bada a lui. Un inserviente osserva la testa, "era davvero una bella testa", dice. Dunque, abbiamo parlato prima di "servizio", riferendoci a quello che i medici offrono alla collettività, andando ad indagare sulle cause della morte per capire cosa sia successo davvero, eccetera. Abbiamo anche parlato di deontologia professionale e di "rispetto". Trasformare una sala settoria in un set cinematografico non è "rispetto". Posare con un bel sorriso stampato sulle labbra, neanche si fosse al circo o al parco giochi, non è "rispetto". E questo a prescindere dal "proprietario" del corpo che si trova sul tavolo settorio. Certo, può succedere che sia necessario documentare, anche con fotografie o filmati, un determinato esame: si fa spesso, in genere se ne occupa la scientifica, o comunque personale idoneo. Si fa con pacatezza, con rispetto, con un atteggiamento idoneo al luogo in cui si è e alla situazione in cui ci si viene a trovare. "Fosse stato un morto qualunque - commenta "Gino" con Romani - si sarebbe gridato allo scandalo e alla profanazione. Ma era Mussolini, e si frugava, con curiosità morbosa, nel suo cervello, nel suo intestino, perfino nel suo sesso, alla ricerca del segreto di venti anni di storia e dittatura". Ancora troppi misteri aleggiano su quei giorni e su quegli eventi. Un esame necroscopico condotto in pessime condizioni. Mussolini, Claretta, Starace: mancò il rispetto per i morti, e anche la deontologia professionale. Altra questione, poi, è quella relativa ai criteri con cui occorre procedere a certi esami. Un'indagine tanatologica, per essere affidabile, prevede un certo protocollo, concentrazione, ordine, metodo. Prima di tutto, esaminare corpi che sono stati - dopo morti - oggetto di sevizie di ogni genere, appesi per i piedi per ore, quindi tirati giù, lavati con gli estintori, poi caricati come sacchi su un camion e infine sbattuti in uno stanzone prima di essere portati sul tavolo settorio, non è esattamente la più agevole delle operazioni. Condurre un esame necroscopico, esterno e poi interno, presuppone molta attenzione già in condizioni standard, figuriamoci in un caso come questo. È evidente che sarebbe stato necessario operare un accuratissimo esame esterno prima di tutto, per stabilire intanto quali colpi potessero essere inquadrati come inferti in vita e quali, invece, post mortem. Il referto dell'esame autoptico sul corpo di Mussolini - ne abbiamo parlato spesso - è estremamente carente in questo senso. È estremamente carente in tutto, a dire il vero. Bene, benissimo fece Mario Alessiani a condurre la "sua" indagine. Ma completiamo il nostro ragionamento sulla testimonianza di Bruno Romani, il quale dopo aver lasciato la stanza in cui era stata completata l'autopsia su Mussolini si sposta in un altro stanzone "sulla sinistra del pianerottolo", dove un operaio sta inchiodando alcune casse di legno. In una vi trova adagiato il corpo di Achille Starace, sul quale volto non vede espressione "di dolore o di terrore". Romani legge sul suo viso un'espressione "di arroganza e di sfida". Io non ho visto dal vero il volto di Achille Starace, per ovvie ragioni prima di tutto anagrafiche. Però ho potuto vedere le foto, e non vi ho trovato arroganza né sfida. Vi ho trovato invece un'inaspettata espressione di rassegnazione bonaria. Impressioni. Accanto alla bara di Starace c'è quella di Claretta, con il corpo "ricoperto di lividi", il collo "gonfio". Un inserviente - racconta ancora Romani - con una sigaretta penzolante dalle labbra e vestito di abiti consunti si avvicina al corpo, si inginocchia accanto alla bara, "sollevò il corpo della Petacci afferrandola per le ascelle, appoggiò la testa della morta sulle proprie ginocchia, e rimase immobile in quella posizione per alcuni secondi, quasi dovesse posare davanti a un fotografo. Poi, dopo averci strizzato furbescamente l'occhio, frugò nelle tasche dei pantaloni e ne trasse fuori una lametta Gilette con la quale tagliò, all'altezza dello sterno, il reggipetto. Il seno della donna, di una perfezione scultorea, esplose nella sua nudità. L'inserviente prese uno dei seni nel cavo della mano, fece il gesto di soppesarlo, e quindi disse, guardandosi all'interno: 'è ancora bello duro!'. Un ghigno gli serrò le labbra". Poi il tizio si guarda intorno, come per capire le reazioni al suo gesto, del quale evidentemente va molto fiero. Nessuno reagisce, però. Avevamo parlato di "rispetto" e di "deontologia". Nel pezzo apparso su Risorgimento Liberale c'è anche la lista dei medici che avevano eseguito l'autopsia: Caio Mario Cattabeni, Enea Scolari, Emanuele Dabindo. Il tecnico necroscopico è Pietro Loso. I corpi di Mussolini, di Claretta e di Starace vengono, alla fine, depositati nelle bare di legno, ciascuna di esse - riferisce ancora Romani - riporta sopra un numero. Quella del Duce ha il 167, quella della Petacci il 166, quella di Starace il 165. Il nostro pietoso viaggio in quell'aprile del 1945 per ora finisce qui. Ma il lettore ricorderà quanti misteri ancora aleggiano su molte di quelle vicende. Non si finisce mai di scrivere la storia, e il tempo ci consegnerà ancora elementi utili a capire, per sapere la verità. L'Istituto di Medicina Legale di via Ponzio, dove si svolse l'autopsia di Mussolini, fu voluto proprio dal Fascismo. L'obitorio di Milano e quelle strane trame del destino. Il primo Direttore fu quell'Antonio Cazzaniga che delegò al suo "secondo" l'esame necroscopico sulla salma. Abbiamo accennato, nei giorni scorsi, al fatto che l'Istituto di Medicina Legale di Milano - dove vennero portati i corpi di Benito Mussolini, Claretta Petacci, Achille Starace, dei fascisti uccisi a Dongo e di moltissime persone, tra militari e civili, che vennero massacrate in quei giorni di guerra civile - è stato fondato durante il Fascismo. L'Università degli Studi di Milano venne infatti fondata nel 1924. Suo primo Magnifico Rettore fu il Sen. Prof. Luigi Mangiagalli, che si occupò delle discipline medico-legali e affidò all'ing. Prof. Umberto Massari lo studio del progetto dell'Istituto di Medicina Legale. Pensate che nella Rivista mensile del comune di Milano, stampata presso la Tipografia del Popolo d'Italia, nel 1934 si scriveva che, a quanto riferiva la Commissione di esperti affidataria del progetto per il nuovo obitorio, "Così come è concepito, l'edificio corrisponde a tutte le esigenze pratiche dei servizi, non solo, ma anche a quelle dell'igiene e del decoro". Un decoro che però si perse in quell'aprile del 1945, e ne abbiamo parlato a lungo. Un lungo elenco di "cose da fare" caratterizzava i compiti del personale dell'obitorio stesso, com'è logico che sia, tra cui - ovviamente - "espletamento di indagini complementari di quelle necroscopiche a fini giudiziari". È interessante curiosare tra le carte che raccontano lo spirito con cui venne edificato e organizzato quell'obitorio: spirito che è comune a ogni struttura di questo tipo. Ma in questo caso fa un certo effetto, perché sappiamo cosa accadde lì dentro in quel 30 aprile del 1945 e sembra un curioso e crudele scherzo del destino che proprio lì si sia così tanto mancato di rispetto al corpo dell'uomo che volle quella struttura, struttura che fu edificata e organizzata proprio grazie a lui. Leggere che come area fu scelta quella compresa tra le vie Mangiagalli, Ponzio e piazzale Gorini perché all'epoca era lontana da edifici civili e da aree di traffico urbano, tale dunque da "consentire all'Obitorio quell'atmosfera di austero raccoglimento che particolarmente si intona alla sua specifica funzione". Non solo: "la disposizione dell'area e la sua ampiezza consentono una sistemazione tale da occultare al pubblico della strada il carico e lo scarico delle salme [...] e tutto quando d'altro potrebbe richiamare l'attenzione della gente sulle 'operazioni' connesse all'istituzione". Queste informazioni sono facilmente reperibili sul sito web dedicato alla struttura, che fa un profilo storico dell'Istituto. Un settore della struttura venne destinata proprio al Nuovo Obitorio Comunale, distribuito in due piani: uno al pianterreno e l'altro in un sotterraneo. L'Italia fascista aveva voluto quella struttura. E ora quegli uomini che l'avevano sostenuta transitavano -  cadaveri - vilipesi, offesi, maltrattati. L'obitorio venne inaugurato nel 1934. Riferisce il sito, citando uno scritto di Galassi della Regia Università di Milano, Istituto di Medicina Legale, in Acta Medica Italica, VI, 1937: "L’obitorio (ex Morgue) è diviso in tre riparti. Nella sua prima sezione comprende: una sala destinata ad accogliere i dolenti per le ore d’attesa; un locale per la formazione dei cortei funebri; la cappella per la celebrazione delle funzioni religiose di rito; una sala per l’esposizione delle salme, allo scopo di rendere possibili i necessari riconoscimenti; e, infine, un locale adibito a servizi di pronto soccorso che possono essere resi indispensabili nel caso che qualcuno dei dolenti, invitato a riconoscere un suo caro esposto, cogliesse malore. La Sezione si completa con un ufficio che ha l’incarico di provvedere alla registrazione delle salme. La seconda Sezione è destinata alla raccolta delle salme per le osservazioni e per la regolamentare giacenza di 24 o 48 ore, al fine di accertare il decesso o eventuali altri elementi che interessano in modo particolare l’autorità inquirente. Ci sono qui due grandi camerate nelle quali vengono deposte le salme: gli uomini separati dalle donne. Su un fianco dei due cameroni vi è un locale dove è sistemato il dormitorio dei custodi i quali debbono, per disposizione di legge, costantemente rimanere nei pressi del locale di osservazione. Nella terza Sezione infine si aprono le sale per le necroscopie. Sono due, separate da una terza riservata al giudice, incaricato di sorvegliare le operazioni del perito settore e ai testimoni. Da questa sala il magistrato e i testi possono appieno seguire gli atti del perito in quanto le pareti di essa sono a vetri trasparenti. Su un fianco delle tre sale una quarta se ne apre ch’è adibita ai servizi fotografici e che comprende anche l’indispensabile camera oscura per lo sviluppo delle pellicole. Tutti i locali sunnominati sono disimpegnanti da luminosi corridoi ai quali si accede direttamente da un ingresso posto sotto una galleria coperta che serve alla sosta dei carri funebri. Con la stessa galleria comunicano direttamente la cappella e la sala dei dolenti le quali, pur fronteggiando coi loro accessi l’ingresso dell’obitorio, ne sono del tutto separate in modo da evitare che il pubblico che segue i funerali sconfini nell’ambito degli altri servizi. E veniamo al sotterraneo dove troviamo in primo luogo il locale delle macchine che alimentano l’impianto frigorifero che serve ben trenta celle di congelamento. A fianco di esso, sono altri tre locali “freddi” dove le salme vengono portate allorché è necessario ch’esse vengano conservate per un tempo indefinito. Seguono locali per il lavaggio delle salme ed un archivio, dove cioè verranno raccolti indumenti e oggetti repertati dai cadaveri. Infine, c’è il locale che disimpegna il servizio refettorio per il complesso degli inservienti. Benissimo organizzato risulta pure il movimento dei “soggetti” dai locali sotterranei i cadaveri vengono portati al pianterreno a messo di montacarichi e passati nelle celle frigorifere. Da queste vengono poi traslati nelle camere di riconoscimento ove sono immessi in speciali casse rivestite di vetro. Il che permette ai visitatori interessati la più perfetta delle visibilità e, conseguentemente, facilita nel modo più assoluto i “riconoscimenti”. 30 aprile 1945: qualche osservazione a posteriori. Per i fotografi era predisposta una apposita stanza...Perché dunque durante l'esame sul corpo del Duce li vediamo ammassati nella sala settoria? Come si può vedere, tutto venne impostato rigorosamente. Ciò che vorremmo sottolineare è un passaggio specifico: "Su un fianco delle tre sale una quarta se ne apre ch’è adibita ai servizi fotografici e che comprende anche l’indispensabile camera oscura per lo sviluppo delle pellicole". Insomma l'obitorio consta, tra le altre cose, anche di una stanza apposita per i servizi fotografici. Dunque perché nelle immagini che ci riportano le cronache dell'epoca (e dal resoconto di Bruno Romani che abbiamo terminato ieri di riferire ai nostri lettori) vediamo fotografi ammassati nella stessa sala settoria in cui venne esaminato il corpo di Mussolini? Certo oggi, settantuno anni dopo, è inutile andare a cercare responsabilità di qualunque genere... ma qualche domanda, qualche perplessità va quantomeno rilevata. Perché è importante che gli Italiani si rendano conto di come fu gestita quella faccenda: e quel che accadde è grave, gravissimo. Qualche piccola annotazione ancora. Dice ancora il documento: "Bene alloggiato risulta il personale dell’istituzione: fra l’altro si è avuta un’ottima idea quando si è pensato di alloggiare il custode in quei quattro bei locali ricavati in un sopraelevato: la villetta sul tetto …. Non manca, infine, nota di grazia e di vita nel bel giardinetto, una civettuola zona sistemata a verde, copiosamente alberata e fiorita". Giusto per sottolineare un aspetto del Fascismo spesso dimenticato, che consiste nel criterio che veniva utilizzato molto spesso: lo abbiamo già visto in molti casi, per esempio il lettore ricorderà quello delle fabbriche Caproni a Predappio. Il personale, i dipendenti, cioè, venivano alloggiati direttamente sul posto di lavoro: era lo Stato a mettere a disposizione i locali abitativi, ed erano sempre belle strutture, comode e rifinite. Chiedersi perché queste cosine non vengano raccontate sui libri di scuola è d'obbligo. Altro dettaglio non insignificante: il primo direttore dell'istituto fu il professor Antonio Cazzaniga, a cui succederà il prof. Caio Mario Cattabeni. Due nomi che al lettore dovrebbero ricordare qualcosa: quando venne effettuata l'autopsia di Benito Mussolini, titolare della direzione era proprio Cazzaniga, che però non eseguì personalmente l'esame, affidando la salma nelle mani del suo "secondo", Cattabeni appunto. Perché? Perché un titolare dovrebbe lasciare ad altri un esame di questo rilievo? Tanto più se parliamo di un insigne professionista, autore - tra l'altro, e guarda un po' - di un'opera dal titolo "I problemi cronologici in medicina legale", uscito nel 1948.

Cattabeni, dal canto suo, divenne direttore dell'Istituto nel 1955.  Forse Cazzaniga non se la sentì di dover sottostare a certi diktat. Forse ebbe lo scrupolo di non rendersi corresponsabile di ciò che sapeva sarebbe accaduto proprio relativamente al corpo dell'uomo che lo aveva messo a capo, anni prima, di quella struttura. 

IL COROLLARIO DI PERSONAGGI.

Ruggero Romano, il Ministro dimenticato dai libri di storia. Mutilato nella Grande Guerra, decorato, sottosegretario del Fascismo, poi ai Lavori Pubblici a Salò, scrive Emma Moriconi il 6 maggio 2014 su "Il Giornale D'Italia". È suo il progetto per la riforma in materia di pensioni di guerra che divenne legge nel 1923. Mutilato nella Grande Guerra, medaglia al valor militare, croce di guerra italiana, croce di guerra belga con palme, deputato, sottosegretario al Ministero delle Comunicazioni, Podestà di Noto, segretario del Partito Nazionale Fascista ad Acireale, Ministro dei Lavori Pubblici nella Rsi, Segretario Generale dell’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra, ucciso sul lungolago di Dongo il 28 aprile 1945. Si chiama Ruggero Romano, ma di lui i libri di storia si sono dimenticati. Era nato ad Acireale e si era laureato in giurisprudenza. Aveva dato alle stampe una pubblicazione, nel 1919, che trattava di sistemazione delle provvidenze in materia di pensioni di guerra. Era stato correlatore della commissione ministeriale per la riforma e la codificazione delle pensioni di guerra, era stato l’autore di un progetto relativo a questo tema composto di 123 articoli che venne riesaminato da Alfredo Rocco e che poi divenne legge nel luglio del 1923. È sempre del 1923 un volume, a cura di Romano Ruggero e Alfredo Rocco dal titolo “Le pensioni di guerra nell’ultima riforma”. Dopo il Fascismo aveva aderito alla Repubblica Sociale e aveva seguito Mussolini fino alla fine, fino a quel 28 aprile. Nel corso del suo mandato da Ministro dei Lavori Pubblici, durato dal 23 settembre 1943 (all’indomani della costituzione della Repubblica di Salò) fino al 25 aprile 1945, la sua opera è stata incentrata prevalentemente, com’è facile immaginare visto che il lasso di tempo di cui parliamo è stato caratterizzato dalla guerra, nella riorganizzazione delle strutture del Paese dopo i danni bellici, nei lavori di sgombero delle macerie dei bombardamenti aerei. Di Ruggero Romano i libri non parlano, eppure è un personaggio delle istituzioni in un’epoca decisamente importante della nostra storia. Uomo di principi, basta leggere un suo ordine di servizio del marzo 1944: “Il Direttore Generale [Ugo Puliti, ndr] con lettera a me indirizzata si dichiarava disposto a seguirmi nel trasferimento in corso presso altra sede. Aveva anzi per alcuni giorni proceduto personalmente alla coordinazione delle operazioni necessarie al trasloco. Egli si è reso irreperibile. La latitanza può essere un espediente sia pure deplorevolissimo di gente umile a cui manchi il senso della dignità e dell’onore, ma compiuta da un Direttore Generale, mobilitato civile in tempo di guerra, è un crimine che va oltre ogni sanzione disciplinare o penale”. Luigi Bolla, funzionario diplomatico che nel luglio del 1944 si mise a disposizione della Rsi “per un sentimento di onore, per aiutare la nostra gente e salvare le nostre cose”, scrisse di Romani nel suo “Perché a Salò” definendolo “un probo e mite professore che amava improvvisare distici latini”. Suo figlio pare sia stato ospitato, nei giorni di fine aprile 1945, mentre imperversava la “caccia al fascista” andando a falciare anche chi fascista non era più di tanto, dai Frati minori di Musso. Lo riferisce don Enea Mainetti, prevosto di Musso, nel suo memoriale: “Mi si presenta un altro signore con un giovanetto, che mi dichiara essere suo figlio. Egli è il Ministro Romano che temendo una triste sorte mi raccomanda di prendere sotto la mia protezione e di ospitare in casa mia il figlio. Acconsento dando la mia parola per quanto desiderava”. L’Osservatore Romano precisa che “dopo i fatti del 28 aprile 1945, don Mainetti considerando la sua abitazione un luogo non sicuro, il 1 maggio successivo decise di chiedere ai frati minori di Dongo di ospitare per alcuni giorni Costantino Romano. E continua, riferendo ciò che scrisse quel giorno il cronista del convento: “Questa mattina il Rev.mo Prevosto di Musso Don Mainetti e l’Egr. Comandante del Settore Sig. Francesco, hanno pregato di volere accettare, per un periodo indeterminato di tempo, a titolo di protezione, il giovinetto sedicenne Costantino Romano. Figlio del Ministro Romano Ruggero, qui arrestato insieme con l’autocolonna armata di protezione del Duce e suoi Ministri il 27 e poi con gli altri passato per le armi il 28 aprile u.s. Il giovinetto è studente del 3° corso liceale, di squisita educazione civile e anche religiosa”. Un uomo, Ruggero Romano, che non aveva alcuna colpa, che anzi aveva dato qualcosa di importante all’Italia, e che si ritrovò fucilato alle spalle dopo una rapida benedizione da parte del padre francescano Accursio Ferrari, e lasciato alla barbarie e all’ingratitudine cieca e folle degli uomini sul freddo marmo di piazzale Loreto.

Mario Nudi, il caposcorta del Duce. Combattente in Africa Orientale, Capo Manipolo della MVSN, Moschettiere del Duce, capitano della BN Resega, scrive Emma Moriconi il 7 maggio 2014 su "Il Giornale D'Italia". A Salò gli era stato affidato il Comando della scorta della Presidenza del Consiglio dei Ministri: fu fucilato a Dongo, innocente. “Per esempio, tra un colonnello ed un aviere, scelse un colonnello; tra un giornalista ed un autista, scelse il giornalista; tra un professore ed un motociclista, scelse il professore. C’era una logica. Fece una sola eccezione. Dovendo per forza raggiungere il numero di 15 “fucilandi” e poiché nella lista non c’era più neppure un sottotenente o un giornalista anche solo praticante, prese a casaccio un nome: Mario Nudi, un poveraccio impiegato nella Confederazione fascista dell’Agricoltura e distaccato alla (ma Valerio non lo sapeva) segreteria del Duce.” Così Luciano Garibaldi racconta come fu che il nome di Mario Nudi finì nella lista nera di Walter Audisio, che il 28 aprile del 1945 si era sostituito al Padre Eterno e aveva stabilito che era lui e solo lui a decidere della vita e della morte di quindici persone. Quindici, come quelle dell’eccidio dei partigiani del 1944. Non importa chi ci capita, uno vale l’altro. Ciò che Audisio non sapeva è che Nudi era stato messo a dirigere la scorta della Presidenza del Consiglio e la sicurezza a Gargnano. E comunque, anche se lo avesse saputo, era forse ragione sufficiente per farlo mettere a morte? Ma lo stesso discorso si potrebbe fare per molti degli uomini che in quel giorno di aprile vennero incolonnati di spalle davanti ad un plotone d’esecuzione non autorizzato da nessuno. Tra i ricordi – non sempre attendibili - di Urbano Lazzaro, detto Bill nel gergo dei partigiani, emergono alcuni fotogrammi di quel giorno: “‘Va bene’ rispose [Valerio] con ira. “Guardiamo ora questo elenco dei prigionieri!” Lesse forte ‘Benito Mussolini’, aggiunse subito, “a morte!”, e tracciò una croce accanto al nome di Mussolini. Pedro e Guido tacevano. C'era nell'ufficio un senso di soffocamento, come se l'aria fosse diventata irrespirabile. Valerio continuò: “Claretta Petacci: a morte!””. Ma nel pomeriggio del 28 aprile – ne abbiamo parlato a lungo – Mussolini e la Petacci erano già morti.  Ma proseguiamo con il racconto di “Bill”: “A quel punto Pedro si sentì di intervenire e lo fece con prontezza e decisione: “Valerio - disse - non trovo giusto che tu condanni a morte una donna pel solo fatto che è stata l'amante del Duce!”. Valerio lo guardò con disprezzo e con ira ‘Io solo - esclamò – decido chi deve e chi non deve essere fucilato! Barracu: “a morte!” Altra croce.  “Ma Barracu è un soldato, una medaglia d'oro del 1915, non lo puoi fucilare. E poi non mi risulta che abbia fatto del male!” Scattò Pedro. “Era sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri della Repubblica e questo basta per cancellare il più puro e valoroso passato!” rispose Valerio. “Liverani, a morte! Coppola, a morte! Utimpergher, a morte! Daquanno, a morte! Capitano Calistri, a morte! Mario Nudi...". ‘Un momento’ intervenne Pedro, “ti faccio notare che il capitano Calistri non è stato da noi catturato sulla colonna o sull'autoblinda, ma si è presentato spontaneamente a noi chiedendo lui stesso che fosse esaminata attentamente la sua posizione. E poi non faceva parte del Governo di Salò!”. “Era sulla colonna e questo basta”, rispose bruscamente Valerio.  Pedro a quelle parole s'alzò in piedi adirato ed esplose: “ma allora fucila anche gli autisti, le donne, i bambini, le mogli dei ministri, pel solo fatto che erano nella colonna. È inconcepibile tutto questo!”  Mai Pedro aveva perso il controllo di sé, ma di fronte alle assurdità di Valerio non seppe trattenersi. Valerio, alle parole veementi di Pedro, s'alzò lui pure in piedi pallido d'ira e, picchiando un pugno sul tavolo urlò: "Ti ripeto che solo io decido qui! E basta con queste intromissioni e osservazioni! Non voglio più sentire una parola: compreso?" Pedro lo guadava con aria di commiserazione domandandosi come il Comando generale avesse potuto affidare un così importante e delicatissimo incarico a un simile individuo. [...]  “Mario Nudi: a morte!”, proseguiva intanto Valerio. “Pavolini: a morte! Mezzasoma: a morte! Paolo Porta: a morte!”. E accanto a ogni nome tracciava una croce con una matita nera. La voce di Valerio era ringhiosa e aveva un leggero timbro di soddisfazione: sembrava invaso dalla mania di giustizia.  A Pedro sembrava di vivere le giornate del terrore della Rivoluzione Francese.  E non si dava pace. Ma capiva che non poteva fare nulla”. Mario Nudi era nato nel 1912, aveva combattuto in Africa Orientale, era stato Capo Manipolo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e Moschettiere del Duce. Aveva lavorato nella Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura. Era stato Capitano dell’8 Brigata Nera “Resega” di Milano, infine gli era stato affidato il Comando della scorta della Presidenza del Consiglio dei Ministri nei mesi della Rsi. Questo bastò per essere condannato a morte. Archimede Mischi, l’Arma a Salò. Tante vicende sono rimaste oscure nella nostra storia: tra le altre, quella dei carabinieri che scelsero la Rsi 28 maggio 2014. Eroe pluridecorato nella Grande Guerra, fascista e repubblicano, il suo nome è finito, come tanti, nel dimenticatoio. Tra i tanti nomi dimenticati dalla cosiddetta storia ufficiale c’è anche quello di Archimede Mischi, nonostante le cinque medaglie d’argento conquistate al fronte nella Grande Guerra e il Comando dell’Arma dei Carabinieri, che assume nel 1944. Eroe dimenticato perché aveva aderito al Fascismo sin dal 1922 ed era rimasto al fianco di Mussolini nell’avventura di Salò. Non è, naturalmente, l’unico caso: nelle numerose puntate dedicate dal Giornale d’Italia alla nostra storia abbiamo incontrato, infatti, molti personaggi che la storia ha voluto lasciare nel dimenticatoio probabilmente perché non demagogicamente utili ai cosiddetti vincitori. Una lacuna di questa nostra epoca, è innegabile. Archimede Mischi, sottotenente alla Scuola Militare di Modena, nel 1 Reggimento Granatieri dal 1906 – con il quale negli anni 1912-1913 partecipa in Libia alla guerra italo-turca – nel 142 Reggimento Fanteria con la Brigata Catanzaro – in cui rimane ferito nel luglio e nel novembre del 1915 e, ancora, nel giugno 1916 – con la Brigata Salerno del 90 Reggimento nel 1917, entra nella Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale in cui comanda varie Legioni e diventa poi Console Comandante della 2° Divisione Libica nel 1932 in Africa Orientale Italiana, nel 1935, dove è Vice Comandante della Divisione CC.NN. “21 aprile” e dove ottiene la sua quinta medaglia d’argento. Ufficiale di collegamento della Milizia con l’11 Armata in Albania nel 1941, è Generale di Corpo d’Armata dal 1942 e dopo il 23 settembre 1943 assume il Comando dell’Arma dei Carabinieri, che dalla fine del 1943 sarà inquadrata nella Guardia Nazionale Repubblicana con 45.000 uomini. Archimede Mischi è anche Presidente della Commissione di Revisione dell’Esercito Repubblicano. Le vicende che vedono protagonisti i Carabinieri dopo l’8 settembre 1943 sono pressoché sconosciute: “Dai miei contatti – scrive Archimede Mischi a Benito Mussolini in un promemoria del 1944 – ho avuto la sensazione precisa che l’attaccamento dinastico sia decaduto dall’animo della generalità di essi, sia per spontanea avversione spirituale provocata dal tradimento del re; vuoi per l’accorta considerazione che comunque la guerra si concluda, nessun ritorno del re sarà mai più possibile”. È lo sconforto in cui vivono i carabinieri, che subiscono brutture infinite da parte dei partigiani. Vicende oscure, delle quali quasi nessuno ha mai parlato. Ad occuparsene, pressoché in solitaria, lo storico Marco Pirina, che qualche anno fa ha pubblicato un volume dal titolo “1943-1947 Storie di Carabinieri Scomparsi dalla Storia”, recensito da Pier Luigi Pellegrin del quotidiano La Padania nel dicembre del 2005: “Tra i bersagli della lotta partigiana – scriveva Pellegrin in un pezzo dal titolo “Quei carabinieri dilaniati dall’odio partigiano” – vi furono anche numerosi esponenti dell’Arma, che l’8 settembre 1943 ricevettero dal loro comandante, il generale Angelo Cerica, l’ordine di ‘restare al proprio posto continuando a svolgere il servizio’”. Pirina nel suo volume racconta vicende dolorose e orribili, come l’episodio dell’Isontino, quando dodici esponenti dell’Arma – che sorvegliavano una centrale elettrica – vennero catturati dai partigiani titini che li obbligarono a mangiare un pastone a base di sale e soda caustica. Il comandante, vice brigadiere Dino Perpignano, venne appeso con un gancio conficcato nei piedi. I prigionieri vennero legati con filo spinato ed uccisi a colpi di piccone. Orrori sconosciuti, nascosti, dimenticati, riscostruiti dalle parole del partigiano titino Antonio Winkler e raccolti da Pirina nel suo volume, che riferisce altri episodi di brutalità inaudita. Nel maggio 1945, per esempio, diciannove carabinieri vennero prelevati dal carcere di via Barzellini a Gorizia dai partigiani, che, “dopo averli intontiti sbattendogli la testa alle mura delle celle e legati con il fil di ferro”, li andarono a gettare in uno strapiombo di oltre 100 metri, alcuni dopo essere stati uccisi, altri da vivi. Il volume di Pirina è un vero e proprio viaggio nell’inferno, che ha attirato l’attenzione delle procure militari di Padova e La Spezia. “Nessuno – aveva detto Pirina a La Padania – vuole andare a caccia di vendette, queste ricerche vogliono solamente ristabilire la verità dei fatti storici legati alla Resistenza”. Una verità che, però, stenta ad essere universalmente condivisa. Tornando ad Archimede Mischi, il 26 aprile 1945 tenta il suicidio ma viene fermato e consegnato al nemico, processato dalla Corte Straordinaria d’Assise di Roma e condannato, il 3 dicembre 1947, a 18 anni di reclusione. Nel 1955 la Corte di Cassazione annulla la sentenza “per non aver commesso il fatto”: viene così riabilitato il 3 giugno 1952.

Il Federale di Ferro. Paolo Porta e quel 28 aprile, il ricordo del nipote Angelo Gerli, scrive Emma Moriconi il 24 marzo 2014 su "Il Giornale D'Italia". “L'inverno del '44 è stato duro. Mancava persino l'acqua. Si andava al parco Marenghi a prenderla. Essere parenti del Federale non ci procurava vantaggi, di nessun tipo. Anzi, bisognava dare l'esempio, sempre". Dongo si trova sulla sponda occidentale del Lago di Como. Si estende tra lo sperone roccioso chiamato Sasso di Musso, verso la foce del torrente Albano, fino alla località Bersaglio. Il paese si snoda lungo viuzze strette che conducono alle frazioni di Martinico e Barbignano. Questi sono i luoghi dove si è fermata la storia. Padre Accursio Ferrari, del vicino convento francescano, qualcuno lo ricorda ancora. Proprio mentre dà l'assoluzione ai gerarchi fascisti schierati prima della fucilazione. La ringhiera sul lungolago non è mai stata sostituita. Porta ancora i segni dei proiettili dei mitra degli esecutori. A testimoniare quella morte che non era stata preceduta da nessun processo e nessuna condanna. La gente del posto si segna ancora, in ricordo di quelle povere anime fucilate nell'anno del Signore 1945, mese di Aprile, giorno 28. Raggiungo le sponde del lago in un mattino pieno di sole. Devo incontrarmi con una persona: il sole scalda l'attesa e pare che la primavera voglia annunciarsi con un certo anticipo. Riguardo l'orologio mentre osservo la ringhiera, il lungolago, le montagne. Angelo Gerli è un signore distinto, elegante nel racconto. Non dimostra affatto gli anni che porta: ha un aspetto giovanile che mi colpisce subito, appena ci stringiamo la mano. Deve essere un uomo di carattere, un vero amico quando concede questa possibilità a qualcuno. Serra forte le dita e ti guarda negli occhi. Sembra che il tempo si fermi. Provo una certa emozione, visto che ho davanti a me il nipote del Federale di Como Paolo Porta. Nato a Como, classe 1901, Paolo Porta da ragazzo frequenta il liceo classico. Si appassiona sin da giovane al panorama culturale della città, frequentando le sale da concerti e scrivendo sulla rivista “La Prora”. “Scriveva articoli prima del 1940” dice il nipote “aveva una certa passione per le lettere. Lo zio Paolo, uomo di cultura, mi portava spesso ai concerti e ad altre manifestazioni culturali”. Porta si laurea in Legge all'Università di Pavia. In quegli anni, siamo all'inizio del 1920, pratica sport insieme a Giannino (suo fratello) come rematore alla Canottieri Lario. Poco più che ventenne Paolo Porta aderisce al Fascismo e frequenta lo studio dell'avvocato Lanfranconi. Porta ha un carattere forte, un piglio decisionista. Il nipote lo definisce “un uomo capace di una forte coerenza ideale. Insomma, un idealista vero”. L'avvocato sembra restare ai margini, nonostante abbia ricoperto la carica di Vicepodestà dal 1930 al 1934. “In quegli anni si reca anche alle Olimpiadi di Los Angeles (1932)” ricorda il nipote. “Partito volontario per la Grecia, nel 1941, al ritorno si occupa della sua professione di avvocato civilista. L'otto settembre 1943 aderisce alla Repubblica Sociale e pochi giorni dopo riapre la sede del Fascio. Per lui, che era davvero un Fascista della prima ora, il tradimento non è contemplato, non lo considera minimamente. Ricordo di un giorno, sarà stato il 1944: lo zio mi porta alla Casa del Fascio, dove esponevano delle mitragliatrici. Un giovane miliziano gli si avvicina e chiede proprio allo zio se conosce quelle armi. Io ascoltavo i loro discorsi. Certo che quelle armi le conosceva, visto che le aveva utilizzate sul campo di battaglia, in Grecia”. Paolo Porta, non solo non tradisce, ma ha le idee ben chiare. Al congresso di Verona (lui è uno dei firmatari del manifesto programmatico della RSI) si batte perché le conquiste della rivoluzione fascista siano difese in punta di baionetta: l'esercito della RSI deve essere un esercito politico, una roccaforte armata capace di rispondere colpo su colpo. Per i traditori esiste solo il piombo della giustizia armata. Paolo Porta non è un uomo per tutte le stagioni. Per nulla disposto alla mediazione è cosciente del fatto che la Repubblica Sociale ha bisogno di uomini onesti, dediti alla causa. Chi ha giurato fedeltà alla Patria e al Duce deve dare l'esempio. E Paolo Porta è un esempio fino alla fine: il primo (a Verona) a mostrare il petto e giurare fedeltà e l'ultimo, insieme a Mussolini, a lasciare la città di Como, destinazione Ridotto della Valtellina. Angelo Gerli continua il racconto. Non abbiamo neanche il tempo di un caffè. Prendo allora nota dei ricordi, dei piccoli particolari. “L'inverno del 1944 è stato duro. Mancava persino l'acqua. Si andava al parco Marenghi a prenderla. Essere parenti del Federale non ci procurava vantaggi, di nessun tipo. Anzi, bisognava dare l'esempio, sempre. Andavamo noi stessi a ritirare la legna da ardere ai margini del bosco. E così la trascinavamo fino a casa. Eravamo sfollati a S. Maurizio, sopra Brunate. In una casa in affitto, mica in una villa come ha scritto qualcuno, dove c'era una stufa a legna. La casa si trovava sopra la chiesa, verso il faro. C'era poi un terrazzo e dall'altro lato abitava anche zio Giannino con la sua famiglia”. Ritratto di una persona per bene, che ha fatto della coerenza uno stile di vita. Una vita spesa per servire un'idea e una Patria. Storia di una casa sottratta, di una valigetta di soldi e di un orologio d'oro. Il Federale Porta ha il suo ufficio politico alla Casa del Fascio che per lui rimane sempre un Tempio, una Casa, una Scuola. E il nipote è spesso con lo zio, proprio in quelle stanze. “Me ne stavo spesso a guardare gli affreschi del Radice, la gente che andava e veniva”. Si interrompe solo un attimo Angelo Gerli per riprendere una questione che avevo appena accennato all'inizio. “Non è vero quello che si racconta, sa. La nostra famiglia non era affatto divisa. È vero che zio Giannino era socialista, ma non siamo mai stati in lotta. Giannino discuteva con il fratello perché si levasse dalla politica, abbandonasse il fascio. Erano discussioni sentite, ma ognuno restava della sua posizione. Pensi che noi abitavamo in via Brambilla, mentre Giannino aveva una casa in via Pessina (le due vie di Como fanno angolo). Siccome Giannino era l'unico ad avere il telefono (lavorava come direttore all'Istituto maternità e infanzia di Como) decise di tirare un filo in modo tale che il telefono potesse fare da interfono fra le due case. Eravamo molto uniti, ci si aiutava sempre”. Uno sguardo al lago, alla cittadina di Dongo. Lo stesso luogo dove viene fucilato Paolo Porta. E ritornano gli ultimi istanti di una vita spesa per servire un'idea e una Patria. “Mio zio prima di partire con la 'colonna' si intrattiene con mio padre che gli domanda se avesse bisogno di soldi. Lui (Paolo Porta) lo rassicura dicendo di averne abbastanza. Ricordo l'orologio d'oro che portava al polso, e lo tenga presente anche lei, perché su questo fatto devo dirle una cosa. Una volta fucilato viene seppellito a Musocco. Ricordo padre Celestino, del monastero di Acquafredda, che consolava la famiglia e, ne sono sicuro, il permesso di riesumare mio zio è arrivato anche grazie all'aiuto di padre Celestino. Adesso lo zio riposa al cimitero monumentale di Como”. Annoto con cura ogni frase, anche quelle che al signor Gerli appaiono superflue. “La nostra famiglia, in quei mesi del 1945, non è stata più toccata. Solo la casa dello zio Paolo è stata confiscata, tanto che mio padre ha dovuto riacquistarla all'intendenza di Finanza. Ricordo ancora questa valigetta piena di soldi, utilizzata per riprendere qualcosa che già ci apparteneva. Se penso che allo zio hanno rubato anche l'orologio d'oro”. Questa volta sono io a interrompere il flusso delle parole. Con il pensiero vado alle carte sull'oro di Dongo. Al fatto che i soldi del Federale Porta siano finiti a ingrassare qualche mano lesta partigiana. E le prove, questa volta, ci sono, non siamo ridotti alle supposizioni, ai forse, ai "non ricordo". Associazioni partigiane, ex partigiani possono argomentare come meglio credono, possono continuare pure ad inventare fatti e situazioni se credono, ma sono fermamente convinto che anche dai piccoli gesti si possano comprendere i fatti avvenuti in quelle settimane. “Un giorno zio Giannino viene fermato in via Milano (tornava in bici dalla clinica). Un uomo, cosciente del suo gesto e direi anche sfrontato, gli si avvicina e chiede se conosce quell'orologio d'oro che fa penzolare fra le mani. Giannino smonta dalla bici e lo riconosce subito: è quello di Paolo, suo fratello. Quell'uomo continua a dondolarlo e dice a Giannino che se lo paga, lui è disposto a restituirlo. Allora mio zio Giannino inforca la bici e lo manda al diavolo!”. Angelo Gerli scuote la testa ma continua. Parla di una foto scattata a Cernobbio durante un comizio dello zio: è l'unico bambino non lontano da un gruppo di uomini in divisa. Poi il discorso cade sulla Casa del Fascio di Como. “Le dico un'ultima cosa, riguardo agli affreschi del pittore Mario Radice. Io me li ricordo bene, sa, quelli che si trovavano nella sala riunione. Erano al loro posto, anche nel momento in cui mio zio si appresta a partire con Mussolini. E di tedeschi non ne giravano più in città”. Gli affreschi, in quella sala riunioni non esistono più, così come il sacrario eretto dai Fascisti in onore dei caduti della rivoluzione fascista. Distrutti, cancellati dai partigiani che, in quei giorni di aprile del 1945, utilizzano la sede del Fascio cittadino come quartiere generale.  E se a Como, qualcuno si ostina a raccontare la sua verità (che le opere sono state distrutte dai tedeschi in ritirata), noi continuiamo a strappare il velo ipocrita delle menzogne. Perché le bugie, come la memoria, prima o poi chiedono ragione.

Paolo Porta, quelle ultime ore con Mussolini. Avvocato, fascista, repubblicano: due giorni dopo la liberazione del Capo del Fascismo, riapre il Fascio di Piazza Impero, scrive Emma Moriconi l'8 maggio 20914i su "Il Giornale D'Italia". Il Federale di Como vive con il Duce la prigionia presso la caserma di Germasino, il suo nome è nella lista del “fucilandi” di Dongo. La lista dei “fucilandi” di Dongo è lunga. Di essa fa parte anche il nome di Paolo Porta, federale di Como, avvocato, fascista. Sua sorella, Carla Porta Musa, era una scrittrice molto nota. Quando una raffica di proiettili lo colpisce alla schiena ha poco più di 40 anni e nessuna macchia sulla coscienza. Nel settembre 1943, appena due giorni dopo la liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso, aveva riaperto il Fascio di Como, in Piazza Impero, nella quale era confluito anche qualche ex antifascista, poi si era arruolato nella Milizia ed era stato il Comandante dell’11esima Brigata Nera Cesare Rodini. Paolo Porta era stato con il Duce fino alla fine, convinto sostenitore dell’opportunità di concretizzare la ridotta della Valtellina, l’ultimo baluardo, l’ultima speranza, che non si realizzò mai. Porta era stato anche delegato per la Lombardia al Direttorio del Partito Fascista Repubblicano a partire dal marzo del 1944. Aveva partecipato all’Assemblea del Partito del 14 novembre 1943 a Verona, quando era stato approvato all’unanimità lo storico “Manifesto”, che avrebbe costituito la base programmatica della Repubblica Sociale Italiana e che costituisce, ancora oggi, un esempio raro e moderno di organizzazione dello Stato. È ancora Paolo Porta ad attendere Mussolini a Como e a seguirlo nel suo ultimo viaggio. Dopo la cattura, i partigiani conducono il Duce alla caserma della Guardia di Finanza di Germasino, a sei km circa da Dongo. Paolo Porta, durante quel trasferimento, è con lui. E con lui rimane fino alla notte del 28 aprile, quando Mussolini viene prelevato per essere condotto verso l’ultimo luogo che vedrà da vivo: casa De Maria a Bonzanigo. Porta è un accanito fumatore, lo testimonia la relazione del Brigadiere che lo tenne in custodia: “L’ex Federale di Como che fumava molto e pregava sempre che lo accompagnassimo fuori perché sapeva che al Duce il fumo dava fastidio, anche dopo cena mi chiese delle sigarette”. E prima che i colpi partigiani spengano per sempre i suoi occhi, è ancora una sigaretta che chiede. Racconta Pierangelo Pavesi: “Nel confermarne l’identità, il nipote ing. Angelo Gerli (figlio di Angela Maria, l’altra sorella del Federale) che nel 1945 aveva otto anni, così mi ha detto: ‘Ho trascorso le estati nella casa dello zio, nel centro di Como, vicino a Palazzo terragni. Fumava molto; era un personaggio originale: lo zio aveva il brevetto di volo ma non la patente di guida automobilistica’”. Pavesi, autore tra l’altro del volume “La colonna Morsero”, che racconta le formazioni militari della Rsi, nel suo “Sparami al petto”, che approfondisce le ultime ore di vita del Duce, riferisce della testimonianza di Teresa Mazzucchi che il 27 aprile 1945, insieme al marito, preparò la cena a Mussolini. Era l’ultimo pasto del Duce: pasta in bianco con il burro, capretto con verdura, formaggio e frutta. In occasione dell’incontro con l’ultranovantenne signora Teresa, Pavesi ebbe l’occasione di vedere la branda in cui il Duce riposò prima di essere portato a Bonzanigo. Era stata donata all’osteria che la signora Teresa gestiva dal comandante della caserma quando essa venne dismessa nel 1963. “Teresa Mazzucchi che all'epoca aveva 30 anni – dice Pierangelo Pavesi a La Provincia di Como – ricorda perfettamente che quella sera con Mussolini c'erano i gerarchi fascisti Nicola Bombacci, Idreno Utimpergher, Francesco Maria Barracu, Alessandro Pavolini, Vito Casalinuovo poi riportati a Dongo dove furono passati per le armi. C'era anche il federale di Como, Paolo Porta”. Porta dunque vive con Mussolini le ultime ore prima del trasferimento a casa De Maria, ore cruciali. In un documento della Guardia di Finanza si può trovare un resoconto di quelle ore che Porta condivise con il Duce nella caserma di Germasino: si tratta di stralci dal memoriale del brigadiere Buffelli, incaricato di sorvegliare i prigionieri. In questa sede ci limiteremo a quanto di pertinenza dell’argomento di oggi: “Cambiando discorso [Mussolini] disse: “Ora che la guerra è finita che cosa faranno ai fascisti?” Il sottufficiale disse che non lo poteva sapere, ma che comunque ciascuno avrebbe risposto delle sue azioni. In ogni caso gli appartenenti alle brigate nere se la sarebbero vista brutta, a causa delle efferatezze di cui erano stati protagonisti”. A questo proposito si potrebbe discutere su cosa si intenda per “protagonisti”: se è vero che ci furono azioni violente da parte dei fascisti, è anche vero che in moltissimi casi tanti fascisti innocenti divennero vittime di un odio cieco e spietato. Ma proseguiamo: “’Eppure [rispose Mussolini] gli ordini che ricevevano non erano quelli’ rispose lui. In quel momento il federale Porta, che usciva spesso dalla stanza per fumare senza infastidire il Duce, rientrò e si intromise nella conversazione confermando che gli ordini impartiti non prevedevano soprusi e rappresaglie”.

Vincenzo Costa, l’ultimo federale. Da San Sepolcro a Salò: storia di un uomo, politico e soldato, che “non ha tradito”, scrive Emma Moriconi il 13 maggio 2014 su "Il Giornale D'Italia". Dai suoi scritti emerge l’atmosfera di quei mesi a Salò, la grande illusione di un’Idea che stava morendo. “Per me il Fascismo rappresentava il fascio di tutte le forze sane, patriottiche, decise a salvare la Patria: ciò mi bastava”, scrive Vincenzo Costa nel volume “Non ho tradito!”. Non ha tradito, Vincenzo Costa, politico e soldato, che aveva falsificato i suoi documenti per arruolarsi volontario durante la Grande Guerra, che era stato amico di Aldo Resega, quel Resega che nel periodo di Salò era stato ucciso dai GAP. Vincenzo Costa aveva aderito al Fascismo sin dal 23 marzo di San Sepolcro, era andato a Fiume con l’incarico di costituire un battaglione autonomo rispetto alla Legione fiumana che si occupasse di spionaggio, era stato catturato e aveva rifiutato di ripudiare la Reggenza Italiana del Carnaro. Era stato incaricato da D’Annunzio di costituire il suo tramite con Mussolini, che gli aveva procurato un nuovo arresto. Nel corso della sua vita, sempre al riparo dai riflettori, Vincenzo Costa si occupa di sindacalismo fascista ed assistenza sociale nelle Officine Meccaniche, dove organizza attività sportive e ricreative. Diventa quindi segretario del Fascio di Rogoredo, un quartiere popolare di Milano, dove riesce a far giungere l’urbanizzazione con acqua potabile, luce, gas, asilo infantile. Nel 1937 è ispettore dell’Ente comunale di assistenza di Milano e componente della Corte di disciplina della Federazione fascista di Milano. Nel 1944 è Federale di Milano, e tale resta fino alla fine, fino al 27 aprile 1945, quando viene fatto prigioniero dai partigiani. Di lui rimane un noto libro: “L’ultimo federale. Memorie della guerra civile (1943-1945)”, un prezioso resoconto di quell’ultimo anno di passione. Mussolini sceglie Vincenzo Costa alla guida del Fascio milanese perché sa che può contare su di lui per normalizzare una situazione estremamente delicata: sono giorni ricchi di agitazione e molti sono i personaggi che cercano di alzare la tensione, mentre, sull’altro fronte, è necessario affidarsi a qualcuno che sappia trattare con i tedeschi e con la loro arroganza. Costa è una persona affidabilissima, Mussolini ha piena fiducia in lui, ne conosce il pregio di essere uomo tutto d’un pezzo. È proprio Costa a concepire l’idea di creare un “ridotto” della Valtellina, tra Sondrio, Tirano e Morbegno, che dovrebbe costituire l’ultimo baluardo di un’Idea, in grado di compiere una resa che sia dignitosa e non incondizionata. Se le cose fossero andate come erano state predisposte nella mente di Costa, l’Italia avrebbe sofferto in misura minore la fine di una guerra persa, molte stragi si sarebbero potute evitare, molti scempi non si sarebbero verificati e oggi i libri di storia racconterebbero, forse, la verità su quell’epoca e su quei fatti. Alla vicenda di Vincenzo Costa sono indissolubilmente legate quelle ore che Mussolini sceglie di trascorrere sul lago di Como, in attesa di un incontro che non ci sarà mai. Ore preziose, che hanno segnato il destino non solo degli uomini protagonisti di quelle giornate, ma anche del Paese. Costa non vedeva di malanimo neppure la soluzione dell’espatrio in Svizzera, per il Duce. Espatrio che a Mussolini non passava neppure lontanamente per la testa: il Duce non fugge, e chi conosce almeno un po’ la psicologia di Benito Mussolini non può dubitare minimamente di questo dato. Che Costa, come altri, ritenessero giusto che il Duce si salvasse, che anzi per molti questo fosse visto come un vero e proprio dovere da parte di Mussolini, non sposta di un millimetro la decisione del Capo del Fascismo. A fuggire Mussolini non ha mai pensato, nonostante le ripetute insistenze di molti, prima tra tutte proprio di quella Claretta Petacci che finirà i suoi giorni insieme a lui. Mentre Costa raduna i fedelissimi a Milano, Mussolini gli ordina di raggiungerlo a Como. Da lì dovrebbe partire insieme alla colonna in cui viaggia anche il Duce: a salvargli la vita è, inconsapevolmente, Alessandro Pavolini, che gli ordina di restare a Como ad organizzare la scorta per Mussolini. Più facile a dirsi che a farsi: a Como, come altrove, molte camicie nere sono state sostituite dai fazzoletti rossi. Costa viene fatto prigioniero e processato. Condannato a 18 anni, ne sconta soltanto tre. “Se, in quella temperie, uscì vivo dopo essere stato il fascista più importante di Milano nell’anno concluso a piazzale Loreto – scrive Silvio Bertoldi sul Corriere della Sera – è segno che quest’uomo onesto aveva vissuto senza macchia la sua estrema illusione”: pensiero condivisibile solo in parte, perché non tutti coloro che avevano “vissuto senza macchia” la loro “estrema illusione” ebbero la fortuna di Costa. Moltissimi furono massacrati, seviziati, uccisi. Ed erano innocenti.

Vincenzo Costa, un memoriale di passione, scrive Emma Moriconi il 14 maggio 2014 su "Il Giornale D'Italia". Il periodo della Repubblica sociale, la testimonianza preziosa di un vissuto interiore intenso. “Io sono il bue nazionale – gli disse Mussolini - che sotto il pungolo della Nazione tirerà l’aratro fino all’ultimo … e poi … pagherò per tutti”. Il memoriale di Vincenzo Costa su quegli ultimi mesi della guerra civile, scovato da Renzo De Felice e in parte da lui pubblicato, è un documento preziosissimo. Delle oltre mille pagine scritte da Costa, De Felice ne pubblicò circa 250. Le rimanenti sono state utilizzate da Sergio Luzzato per comporre il suo “La tariffa”, dove il titolo richiama l’attenzione al prezzo che i vinti dovettero pagare dopo la fine della guerra, “il racconto – scrive Bertoldi sul Corriere della Sera  – delle vicende della prigionia d’un fascista nell’Italia liberata e in via di democratizzazione (per modo di dire), tra un carcere e un reclusorio, in una massa indistinta, i soldati delle divisioni di Graziani, i brigatisti neri, le guardie repubblicane, i politici e insomma quanti erano riusciti a salvarsi tra i ruderi del fascismo e gli spari delle vendette sommarie”. La testimonianza di Costa è preziosa perché fornisce l’atmosfera di quei giorni e fa un “quadro generale della sorte di coloro che non erano riusciti a trasformarsi abbastanza rapidamente in partigiani - è ancora Bertoldi a parlare – Così si conosce un dopoguerra militare di promesse tradite, di patti di resa non rispettati (subito dopo la firma, fucilazioni e torture), di inauditi maltrattamenti dei prigionieri, segno che la lezione dei tedeschi era stata imparata presto”. Le memorie di Costa sono estremamente interessanti. A titolo di esempio, è di pregio, tra gli altri, il passaggio in cui racconta di come, partito con 3300 uomini e 123 automezzi da Como, scortati dal CNL con la bandiera bianca e quella americana, arrivato a Moltrasio si fermò a guardare indietro e vide solo una ventina di mezzi. Tornato indietro, a Cernobbio comprese dove sono rimaste le altre: davanti al palazzo comunale, dove i suoi uomini erano in fila per prendere i lasciapassare del Comitato di Liberazione. Stavano consegnando le armi in cambio dell’incolumità. “I miei camerati scesero dalle automobili – racconta – e deposero le armi in un locale a pian terreno del comune … io non ebbi la forza di muovermi dalla mia macchina: ero come impietrito, mi sembrava di vivere un incubo. L’avvocato La Scala e l’ingegner Maino avrebbero voluto concludere la resa con un verbale, ma io rifiutai di firmarlo: facessero quello che volevano e quello che dettava loro la coscienza. Ma quando vidi i vice federali Vianello e Rao Torres deporre le armi mi sentii stringere il cuore e una nube oscura annebbiarmi la vista. Meccanicamente, come un automa, la mia mano impugnò la pistola e l’avvicinò alla tempia. Fu un attimo, ci fu chi in quell’istante mi osservava e con un atto di forza riuscì a strapparmi l’arma dalla mano. All’avvocato La Scala … dissi, vedendogli la mia pistola nelle mani: ‘Conservatela, conservatela, perché verrà un giorno in cui vi potrà servire se vorrete liberarvi dei vostri ‘compagni’ comunisti, che oggi vi sono alleati’”. Un ulteriore passaggio è altamente significativo: riguarda le parole che Mussolini disse a Costa il 13 settembre 1944. “Non avrei voluto ripresentarmi sulle scena politica nazionale – gli disse il Duce - se non fossi stato convinto che io solo sarei riuscito ad attenuare il rigore dei tedeschi che ormai consideravano ‘traditori’ tutti gli italiani. Il tradimento commesso dal re contro il popolo italiano, il tradimento del maresciallo Badoglio sono stati la rovina, l’infamia d’Italia! Ho voluto fare di una pecora un leone … ma è rimasto una pecora belante! Vedete: io sono il bue nazionale che sotto il pungolo della Nazione tirerà l’aratro fino all’ultimo … e poi … pagherò per tutti”. 

Nicola De Cesare, il segretario di Mussolini. Accompagna il Duce all’incontro con Vittorio Emanuele il 25 luglio 1943: con lui viene arrestato, scrive Emma Moriconi il 15 maggio 2014 su "Il Giornale D'Italia". “Tutti i denari che gli provenivano come lasciti, elargizioni e altro, li consegnava a me … Andavano, fino all’ultima lira, in sussidi e beneficenza”. Nicola De Cesare, citato anche come Nicolò, è uno dei Prefetti del Regno nel Ventennio fascista. Viene distaccato presso gli uffici di Mussolini e nel 1941 diventa il segretario personale del Duce. Accanto a Benito Mussolini resterà fino al 25 luglio 1943: alle 12,15 di quel giorno, dopo la notte del fatale Gran Consiglio, che aveva determinato la destituzione del Duce da Capo del Governo (votazione peraltro illegittima e priva di effetti giuridici perché il Gran Consiglio non è l’organo deputato ad una decisione di questo genere), De Cesare telefona al generale Puntoni per chiedere un’udienza al Re. Mussolini vuole vederlo, in forma privata. L’appuntamento viene fissato per le ore 17 a Villa Savoia. Quando il Duce vi si reca, De Cesare è con lui, e con lui sale sull’ambulanza diretta alla caserma dei Carabinieri di via Legnano a Roma: in una parola, vengono arrestati. De Cesare viene quindi trasportato al carcere romano di Regina Coeli, dove resta fino 9 settembre, data in cui viene liberato e poi condotto dai tedeschi a Monaco di Baviera: gli viene anche restituita la valigetta che Mussolini aveva con sé quando si era recato dal Re. Contiene molti documenti, tra cui l’originale dell’Ordine del Giorno Grandi. Quei documenti vengono consegnati da De Cesare a Don Bonaldi che poi, nel 1965, li consegnerà alla rivista Epoca per la pubblicazione. Nicola De Cesare è uno degli uomini che hanno potuto conoscere Benito Mussolini da vicino. Ecco le sue parole sul Duce: “Tutti i denari che gli provenivano come lasciti, elargizioni e altro, li consegnava a me, perché li amministrassi. Andavano, fino all’ultima lira, in sussidi e beneficenza. Distribuivamo circa diciotto milioni di sussidi all’anno, milioni di allora”. Un passaggio estremamente significativo, sul quale è corretto soffermarsi un po’. Si, perché sull’onestà di Benito Mussolini nessuno ha potuto mai gettare fango. Ne hanno dette e scritte, di bugie, sull’uomo e sull’epoca. Tante come mai nella storia. Ebbene, neppure il più bieco antifascismo ha mai potuto, in nessun modo, intaccare l’onestà morale del Duce. Di testimonianze ce ne sono a bizzeffe, in questo senso. Univoche. Giovanni Dolfin riferisce che Mussolini non aveva voluto lo stipendio dalla Repubblica Sociale, per esempio. Del resto, non aveva mai preso una lira dallo Stato, al quale aveva donato tutto, ma proprio tutto. “Persino la sua vita” dirà Rachele Guidi, la signora Mussolini. Al punto che – racconta Alessandro Pavolini – si sentiva a disagio a portare con sé venti biglietti da dieci lire, li considerava “un patrimonio”. Anche Quinto Navarra racconta che nei seicento giorni di Salò il Duce comprò solo due paia di stivali. Nessun abito: fece stringere quelli che aveva. Silvio Bertoldi, a questo proposito, scrive: “Mussolini non tradì cupidigia di denaro … egli non mostrò mai interesse alla ricchezza: e non si può contestare che un uomo che ebbe come lui in mano per vent’anni una nazione, e che non subì alcun controllo in nessun campo, avrebbe avuto facoltà, pur che avesse voluto, di costruirsi una fortuna. Invece quando morì, alla vedova non lasciò praticamente nulla […] villa Carpena e una casetta a Riccione, e basta; e la sua famiglia uscì netta da qualsiasi indagine della commissione per gli illeciti arricchimenti”. Commissione che avrebbe potuto, piuttosto, approfondire la vicenda del cosiddetto “oro di Dongo”, che avrebbe potuto indagare sulle espropriazioni ai danni di chi era stato fascista, che avrebbe avuto il suo bel da fare se avesse puntato l’attenzione su ben altri “arricchimenti illeciti”. Avremo modo di parlarne ancora, e in maniera approfondita, perché questa degli “arricchimenti illeciti” cominciati nell’aprile del 1945 è una lunga, brutta storia. Ma ora bisogna tornare al tema: Nicola De Cesare era nato il 12 luglio 1891 ed era laureato in giurisprudenza. Potentino di origine aveva prestato servizio presso le sedi di Udine, Milano, Ministero, Presidenza del Consiglio dei Ministri, aveva fatto parte della Confederazione Nazionale dei Sindacati fascisti dell’industria, era stato mandato alle sedi di Campobasso, Pescara, e poi, da viceprefetto, era diventato il Segretario Particolare di Mussolini. Era stato grand’ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia e Commendatore dell’Ordine Mauriziano. Era stato seniore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale dall’ottobre del 1942 con Croce d’anzianità.

Padre Pio e Mussolini. "Ella mi ha riportato a Dio, la Sua fede è oggetto proprio per me di preparazione alla riconciliazione": 2 giugno 1924, scrive Emma Moriconi il 16 febbraio 2016 su "Il Giornale D'Italia".  Si fa un gran parlare della correlazione tra il Duce e il Santo di Pietrelcina: ecco i documenti del vero rapporto tra i due. "Egregio e caro frate, Le rendo testimonianza del suo amore per la verità: 1° Ella mi ha riportato a Dio! 2° La Sua fede è oggetto proprio per me di preparazione alla riconciliazione, da fascista a fascista. Mi creda suo. Mussolini". È il 2 giugno 1924 quando il Duce scrive queste parole a Padre Pio da Pietrelcina, oggi Santo e simbolo della misericordia giubilare. Una copia di questa lettera autografa è conservata a Villa Carpena, nel Museo Villa Mussolini - Casa dei Ricordi, in via Crocetta a Forlì. Quella che fu la storica dimora di Benito, Rachele e dei loro figli, oggi è un Museo e ospita molti pezzi di storia. Uno di questi è la lettera di cui sopra. Abbiamo parlato spesso della spiritualità e della religiosità di Benito Mussolini, ci torniamo su in riferimento a San Pio, intorno al quale oggi più che mai si riunisce tutta la comunità cristiana in occasione del Giubileo voluto dal Santo Padre Papa Francesco. Infatti Benito Mussolini fu sempre uomo di fede. Lo fu anche durante la sua movimentata gioventù rivoluzionaria, anche quando parlava e scriveva - giovanissimo - contro il clero. Ne abbiamo parlato anche insieme a sua nipote Edda Negri Mussolini nel nostro "Donna Rachele mia nonna, la moglie di Benito Mussolini", edizioni Minerva. Ma in quelle pagine decidemmo di essere concise, per non "rubare" troppo spazio a Rachele, alla quale è dedicato il nostro lavoro uscito lo scorso ottobre e già in seconda ristampa. Ne abbiamo parlato anche sul nostro Giornale d'Italia, e tuttavia un approfondimento sul tema non può che far bene. Torniamo dunque, partendo dalla lettera a San Pio che risale - badate bene - al 1924, ai lavori di due Sacerdoti che hanno dedicato al tema della religiosità di Benito Mussolini molti anni della loro vita e lunghi studi. Studi che sono sfociati in due volumi di spessore: "Religiosità, bontà paterna, povertà evangelica, Tragedia e Testamento di Mussolini", di Don Franco Giuliani, e "Disputa sulla conversione di Benito Mussolini" di Don Ennio Innocenti. Quanto al primo, vorremmo riferire tanto per cominciare le parole di don Giuliani in premessa: "Vi hanno detto che era ateo, anticlericale, massone, materialista, tiranno come Stalin e Hitler. Nulla di tutto questo. Io trascrivo in questo libro tutti ciò che ha sempre detto lui e ciò che hanno detto o scritto i grandi del suo tempo. Dopo la lettura mi direte voi, chi era Benito Mussolini. Non vi fate infinocchiare da quelli che dicono che finse di essere religioso per motivi di propaganda, perché è il contrario; fece lo sbrasolone di apparire ateo e mangiapreti, ma era profondamente religioso, anche se peccatore, come lo siamo tutti noi. Comunque giudicate voi, io scrivo solo i fatti. La Divina Maestra (la Storia) dopo circa mezzo secolo [don Giuliani scrive infatti nel 1990, NdR] ha iniziato a fare giustizia: Stalin detronizzato e allontanato dal suo sepolcro e riabilitate le sue povere vittime, Hitler condannato da tutti, Togliatti cancellato dalla lista dei 'Migliori' e annoverato tra i 'Peggiori'. Lasciate morire i sempre nemici di Mussolini e vedrete come la 'Maestra' farà giustizia di tutto e di tutti". Del resto, dice ancora il Sacerdote, "anche tutti noi siamo peccatori religiosi convinti", come dargli torto? Le notizie che pervengono a don Giuliani sono di prima mano: il Sacerdote era stato balilla e avanguardista, e era il nipote del "Gorilla del Duce" Legè. Per entrare appieno nell'intima essenza di questo lavoro bisognerebbe leggerlo tutto, da cima a fondo. Purtroppo si tratta di un testo di difficile reperimento. E purtroppo qui lo spazio non è infinito: faremo dunque un rapidissimo riepilogo, saltellando qua e là. Intanto ci piace raccontare che il Duce definì San Francesco - in un discorso al Parlamento - come "genio della poesia, la più elevata, come Dante; il più audace navigatore, come Colombo, la mente più profonda dell'arte e della scienza, come Leonardo da Vinci". E ancora "il più santo degli Italiani, e il più santo dei santi", parlando della "purezza del suo carattere, semplicità dello spirito, ardore delle conquiste ideali, virtù della rinunzia e del supremo sacrificio". "Il più grande tra i grandi", che "si leva [...] alzando con la Croce di Cristo [...] le insegne della Carità, della pace universale". Nel 1921 disse al Parlamento: "In tutte le scienze, al centro, c'è sempre Dio. La scienza ha svelato moltissime verità, la verità di Dio rimarrà mistero nella sua essenza precisa". Nel '22: "Solo con la fede in Dio si può raggiungere la massima altitudine in ogni scienza e in ogni campo". Sono solo pochissimi esempi: don Giuliani ne sciorina moltissimi, insieme a una serie infinita di fatti e di opere. E questa è la verità. Due lavori editoriali e un'intervista chiariscono alcune vicende troppo spesso non esaustivamente trattate. Testimonianze: don Giuliani, don Innocenti e don Ciro. "Eran passati appena venti giorni dalla sua uccisione che Mussolini, rifulgente di luce, apparve a Suor Elena per rivelarle di essere già beato nella gloria di Dio". Quanto alla vicenda di San Pio, è risaputo che tra la famiglia Mussolini e il Santo di Pietrelcina ci fosse una bella amicizia. La Voce di Romagna pubblicò tempo fa un articolo molto interessante che riportava la storia di don Ciro Macrelli: "Non sono fascista - disse il Sacerdote a Giovanni Bucchi, il giornalista che lo intervistava -  ho sempre votato la DC, quasi mai il Movimento Sociale. A chi mi dà del nostalgico per la mia ammirazione a Mussolini rispondo che io non ho nostalgia, io guardo innanzitutto alla verità storica". È nato nel 1917, il 29 luglio, "lo stesso giorno di Mussolini" precisa il novantatreenne Ministro di Dio al cronista. Suo padre era stato premiato da Mussolini nel 1936 per la Battaglia del Grano. E alla domanda precisa del collega su Mussolini risponde: "Mussolini è sempre stato presentato nella sua accezione più negativa, mai come salvatore, quale è stato, della nostra patria nel mondo. E questo lo dice la storia". E siccome è nato nel '17, il Fascismo lo ha vissuto tutto, bisogna dire: "è stato il periodo - dice ancora - in cui l'Italia s'è più evoluta, c'era ricchezza, avevamo moneta forte. L'Italia era una potenza ammirata in tutto il mondo, anzi era invidiata dalla Francia e la Germania. Tutto questo l'aveva fatto Mussolini". E quando il giornalista dice: "Perdoni la superficialità, ma non mi risulta che Mussolini fosse uno stinco di santo, né tantomeno un fedele pio e devoto", il buon Sacerdote non ci va tanto per il sottile: "Si vede che non sa tutta la storia", risponde. E ricorda poi la bella figura di Arnaldo, il fratello del Duce, e la sua spiritualità profonda. E poi dice: "Donna Rachele negli anni '50 andò in visita da Padre Pio a San Giovanni Rotondo: appena la vide, padre Pio le disse: 'tuo marito è salvo, pensa a salvarti tu'. Questa cosa me la raccontò un testimone che assistette alla scena".  Riferisce anche della testimonianza di Suor Speranza, che disse di aver visto "l'anima di Mussolini sfavillare in cielo". "Quindi - chiede ancora il giornalista - secondo lei Mussolini è salvo?". E il Sacerdote: "Certamente, lo sappiamo da padre Pio e suor Speranza". Quanto a questo argomento (e ne abbiamo già parlato raccontando della sorella del Duce, Edvige) abbiamo anche la testimonianza di Suor Elena, della quale parla anche don Ennio Innocenti che citavamo sopra e sul quale lavoro occorrerà tornare nei prossimi giorni. Don Innocenti riferisce uno scritto di don Francesco Spadafora, sollecitato dallo stesso don Ennio sul tema. Ecco cosa dice don Francesco: "Suor Elena seguì con materna preoccupazione gli ultimi giorni di Mussolini. Mi diceva: 'Se si dirige a sud, verso gli Alleati, avrà salva la vita'. Invece seguì la cattura, a Como, l'assassinio voluto da Pertini e Longo e lo scempio del cadavere, dopo che questo era stato esposto appeso a testa i giù a Piazzale Loreto di Milano, 'civilissima' espressione degli eroici partigiani, (accuratamente filmata dagli Alleati invasori a perenne vergogna della risorta liberaldemocrazia, guidata dagli stessi responsabili di quei massacri, operati ed esaltati dai partigiani di ogni colore). Si fece poi di tutto per infangare la memoria del Duce e i venti anni del suo Governo. Eran passati appena venti giorni dalla sua uccisione che Mussolini, rifulgente di luce, apparve a Suor Elena per rivelarle di essere già beato nella gloria di Dio. Egli si soffermò a darle i motivi teologici per i quali la Bontà Infinita, con la Sovrana sua Giustizia, l'aveva ricompensato: il bene operato per l'Italia, l'Italia era in cime ai suoi pensieri, per l'Italia aveva sofferto ed era stato martirizzato". Per i documenti citati ringraziamo i proprietari di Villa Carpena, Villa Mussolini - Casa dei Ricordi, che ci hanno messo a disposizione le immagini che il lettore può visionare in questo breve speciale.

Cesira Carocci, “Suor Salutevole”. Cesira, la governante di Mussolini. Il Capo del Fascismo in veste privata, osservato con gli occhi di una donna del popolo: la sua governante, scrive Emma Moriconi il 10-11 maggio 2014 su "Il Giornale D'Italia". Cameriera, infermiera, tuttofare del Duce: un personaggio scoperto solo di recente, che ha servito Mussolini per dodici anni. Tra le tante figure che fanno parte della vita di Benito Mussolini, di certo rilievo è anche quella della sua governante, Cesira Carocci, per anni rimasta nell’ombra, che dal 1923 al 1934 è una delle persone più vicine al Duce. Su questo personaggio esiste un libro, “Cesira e Benito – Storia segreta della governante di Mussolini” di Gianni Scipione Rossi, del quale parleremo, uscito nel 2007. Nata nel 1884, Cesira viene “suggerita” a Mussolini da Margherita Sarfatti, una delle più note tra le amanti del Duce, della quale la governante è anche “preziosa informatrice”, come dice Denis Mack Smith. Un rapporto molto buono, quello che lega la governante al Duce e che determina su di lei le antipatie di Rachele Guidi, la signora Mussolini. Cesira si occupa un po’ di tutto, anche del modo di vestire di Mussolini, tanto che egli stesso dirà: “Cesira vuole fare di me un milord”. Si prende cura della salute del Duce, afflitto da problemi gastrici al punto da far sospettare la presenza di un’ulcera, che poi si rivelerà inesistente: dopo la morte di Mussolini, l’autopsia effettuata sul suo corpo dimostrerà che il Duce era perfettamente sano, lasciando presupporre che i suoi disturbi di stomaco fossero di natura psicosomatica. Anche in questo frangente, Cesira si dà da fare e si improvvisa infermiera. La donna, ribattezzata da Gabriele D’Annunzio – che ella conosce al Vittoriale di Gardone Riviera nel 1925, in occasione di una visita del Duce al Vate – “Suor Salutevole, la dolce creatura che tiene lontano il male”, ha in effetti un certo ascendente su Mussolini, che ne soddisfa le richieste che qualche volta la governante gli fa pervenire circa questioni relative al suo paese natale, Gubbio. Cesira sarà sempre molto rispettosa nei confronti della famiglia e del Duce, che chiamerà sempre “Presidente”. Con l’arrivo della famiglia a Villa Torlonia, però, Rachele pretende il suo licenziamento. Ne ha decisamente qualche buona ragione: la bella e verace moglie del Duce mal sopporta il fatto di dover dividere il marito con le sue varie amanti, tenersi una donna addirittura in casa non è certo piacevole. Mussolini, che non ha mai lasciato nessuno a se stesso, non dimentica però i buoni servizi di Cesira e le fa corrispondere, a partire dal 1934, un vitalizio di settecento lire erogato dal Popolo d’Italia. Ma Rachele ha ragione anche per un altro motivo: non si fida di lei, la ritiene una “spia” della Sarfatti. E probabilmente è proprio così. Cesira non è una figura qualunque, anche perché è l’unica cameriera che il Duce abbia mai avuto. Nonostante sia Capo del Governo e Duce del Fascismo, Benito è sempre il figlio di un fabbro e di una maestra elementare, romagnolo e lavoratore. Il successo non gli dà alla testa, come non scalfisce di una virgola l’impostazione che donna Rachele dà alla sua famiglia e ai figli. Ecco perché la Carocci, “donna abile e tuttofare” come la definisce Duilio Susmel, risulta un personaggio interessante. Quantomeno perché attraverso i suoi occhi il curioso pubblico – che non si stanca mai di avere nuove informazioni sulla figura di Mussolini, tant’è che la letteratura su di lui è infinita – può guardare il Mussolini “privato”. Sono diverse, a dire il vero, i “memoriali” grazie ai quali si possono ottenere informazioni sulla sfera più intima del Duce: basti pensare a Quinto Navarra, il cameriere di Palazzo Venezia, o a Ercole Boratto, l’equivoco autista. Ecco, quello di Cesira Carocci è un punto di vista, interessantissimo perché la governante è la sola persona ad avere un ruolo all’interno della famiglia pur non facendone parte. E poi è discreta: nel corso della sua vita – che si concluderà nel 1963 – non lascia nessun memoriale. È solo grazie al tenace lavoro di ricostruzione del giornalista-scrittore Gianni Scipione Rossi che il ruolo di Cesira viene alla luce. Ne parleremo nella prossima puntata di questo speciale.

Storia di una donna che, nonostante la sua estrema discrezione, troppo spesso è stata strumentalizzata. La Carocci nel volume di Gianni Scipione Rossi e l'analisi di un personaggio che ha fatto parlare di sé suo malgrado. Il volume "Cesira e Benito - Storia segreta della governante di Mussolini" è un testo dove si possono reperire molte informazioni sulla governante del Duce. Nella prima parte, ma anche qua e là nel corso della lettura, ci si imbatte in un'analisi non sempre condivisibile della vita privata ed intima di Benito Mussolini. In particolar modo nella premessa l'impressione che il libro fornisce è quella di voler fare le lastre agli amori del Duce: è ben noto il fatto che Mussolini non disdegnava la compagnia femminile, ma troppe superficialità sono state spesso scritte e dette a tal proposito. L'autore Gianni Scipione Rossi, in questo senso, commette un errore: cosa c'entrano gli "amori" del Duce con la figura morigerata e discreta di Cesira Carocci? L'autore arriva anche ad ipotizzare (e non è il solo in questa letteratura ducesca che per decenni ha proliferato, spesso in maniera non proprio autentica ed onesta) che la Carocci fosse una delle amanti di Mussolini. Non vi sono in realtà elementi di nessun genere, nemmeno nella precisa ricostruzione di "Cesira e Benito", per argomentare una cosa di questo tipo. Il fatto è che troppo spesso basta veramente poco per tirare fuori dal cilindro amori e rapporti tra un uomo ed una donna, e con Mussolini questo è accaduto estremamente di frequente, in moltissimi casi a sproposito. Cesira Carocci, nella sua modestia e riservatezza, non ha mai affermato né lasciato intendere una cosa di questo genere. Qui si vuole fare un'analisi storica di un personaggio e di un'epoca, dunque ciò che interessa è attenersi ai fatti, nulla di più. Ciò che invece è interessante sapere, è intanto qualche informazione su questa donna a cui il destino ha voluto riservare il privilegio di vivere accanto ad una persona che ha segnato la storia d'Italia. Poi qualche piccolo dettaglio da lei riferito sulla sua vita vicino al Duce. Cesira Carocci è figlia di un sarto e di una cucitrice, originaria di Gubbio viene in contatto con Margherita Sarfatti, che la consiglierà a Mussolini: Cesira per il Duce sarà una fida governante e per Margherita probabilmente una preziosa informatrice. Cesira muore il 27 maggio 1963, qualche mese prima aveva rilasciato un'intervista nella quale, parlando del Duce, aveva detto che "nessuno era buono, retto, modesto e comprensivo come lui". Gianni Scipione Rossi riferisce che "quell'intervista le era stata pagata, sembra, diecimila lire". Il che sembra un po' difficile, ma anche qui pare che se qualcuno tesse le lodi del Duce, allora vuol dire che non è sincero. Basti pensare che lo storico Richard Bosworth, nel suo "Mussolini. Un dittatore italiano", scrive che il vitalizio che il Duce aveva stabilito per Cesira proveniva dalle casse dello Stato, mentre esso usciva dal quotidiano Il Popolo d'Italia. A dimostrazione che la malafede è sempre in agguato. Probabilmente, invece, Cesira pensava davvero quello che aveva detto di Mussolini, del resto non aveva motivo di non pensarlo. Nel volume è anche citato un passaggio di De Monte, che scrisse: "A chi le sollecitava ragguagli e indiscrezioni, la vecchia signorina era solita rispondere: 'non insistete, io non so nulla; e poi le memorie non si confidano, soprattutto alla mia età, quando servono per tirare avanti e per sorreggere lo spirito affaticato e divengono come l'ossigeno indispensabile per respirare e per vivere'". Come accade per Mussolini, anche per coloro che a lui ruotavano intorno fiorisce una certa letteratura di "esperti" che trovano le definizioni più varie per appellare i personaggi che, direttamente o indirettamente, con il Duce hanno una correlazione. È ciò che è accaduto anche a Cesira Carocci, definita "donnetta tirannica e gelosa", "ruffiana", "rozza e tirannica", a seconda della "penna" che ha ritenuto di occuparsi di lei e forse nel preciso intento di creare ad arte un personaggio magari adatto ad una fiction o ad un lungometraggio, naturalmente ad uso e consumo dei bugiardi in servizio permanente effettivo. Molto più semplicemente, è probabile che Cesira Carocci sia stata una brava governante, che sapeva fare il suo lavoro, indubbiamente gradevole anche alla vista, che dopo l'epilogo della sua vita lavorativa se ne è rimasta tranquilla, grata per aver avuto sempre la giusta considerazione, e senza agognare a stare sotto i riflettori a tutti i costi. Molto più semplicemente, probabilmente, Cesira Carocci era solo una brava donna.

Pellegrini Giampietro e le Finanze di Salò. Classe 1899, pluridecorato, fascista, avvocato, economista e giornalista, è una figura di primo piano della Rsi, scrive Emma Moriconi il 25 marzo 2014 su "Il Giornale D'Italia". Eredita da Badoglio una situazione disastrosa, che gestisce con oculatezza: sul piatto ci sono miliardi di debiti ed un bilancio da risanare. Sarebbe curioso fare un giro nei licei italiani e rivolgere una domanda agli studenti del quinto anno: chi era Domenico Pellegrini Giampietro? Ebbene, se dovessero cercarlo nei libri di storia non lo troverebbero. Se fossero dunque costretti a chiederlo ai propri insegnanti chissà quale risposta otterrebbero. Forse farebbero prima a cercarlo sul web, o in qualche rara libreria specializzata dove si possono trovare volumi che raccontano davvero la Storia. E invece un personaggio come Pellegrini Giampietro andrebbe inserito nel programma di ogni istituto scolastico, perché ciò in cui quest'uomo riuscì non è più accaduto nel corso dei settant'anni successivi. Ma andiamo con ordine: innanzitutto Domenico Pellegrini Giampietro, classe 1899, è medaglia d'argento al valor militare nella Grande Guerra, partecipa alla Marcia su Roma ed è un fascista, avvocato, economista e giornalista. È un soldato, volontario nella guerra civile spagnola, dove riceve due medaglie d'argento. Al suo rientro in Patria è membro del direttorio federale di Napoli, segretario federale di Napoli, consigliere nazionale nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni, poi sottosegretario al ministero delle Finanze. Dopo l'8 settembre segue Mussolini nella Repubblica Sociale per la quale diventa ministro delle Finanze, ed è qui che l'uomo entra a pieno titolo nella storia del Paese. Bisogna ricordare brevemente, semmai servisse, che dopo la resa incondizionata (chiamarlo 'armistizio' sarebbe sin troppo) dell'8 settembre 1943, l'inetto sovrano Vittorio Emanuele e l'inadeguato capo del governo Pietro Badoglio sono fuggiti al sud, lasciando soldati e civili allo sbando. Il 25 luglio precedente Mussolini era stato destituito dal Gran Consiglio e fatto arrestare dal Re, che aveva nominato Badoglio nuovo capo del Governo. Mussolini annuncia la nascita della Rsi il 15 settembre. Per quarantacinque giorni l'Italia resta abbandonata. Quella che arriva nelle mani di Pellegrini Giampietro è una situazione finanziaria catastrofica. Badoglio ha consegnato la Patria al nemico, ha stretto la mano a chi fino a pochi giorni prima aveva bombardato le città d'Italia uccidendo e radendo al suolo interi quartieri, ha erogato oltre tre miliardi di lire al mese al Reich per le divisioni militari tedesche operanti in terra italiana dall'agosto 1944. Si, perché l’Italia, anche dopo la destituzione del Duce, resta alleata della Germania. Una precisazione è d’obbligo: il 26 luglio 1943 Badoglio aveva emanato un proclama in cui affermava “La guerra continua!”. Gli accordi tra Badoglio e la Germania, perfezionati il 3 agosto 1943, parlano di almeno sei divisioni richieste immediatamente, a fronte di un contributo di circa 31 milioni di Reich Marks. Contributo che fino ad allora mai era stato richiesto all’Italia fascista, come riferisce lo scrittore Antonio Pantano, ‘compensati con la cessione di kg 5.613 della riserva aurea nazionale. Questo ulteriore impegno in oro – continua Pantano – fu perfezionato nel corso dell’ultimo incontro militare tra germanici ed italiani avvenuto a Bologna il 15 agosto 1943’. Insomma, quando Pellegrini Giampietro arriva alle Finanze della Rsi si ritrova a dover fare i conti con un debito non indifferente.

Non solo: deve fare i conti anche con oltre un milione di lavoratori italiani – dice ancora Pantano – ‘liberamente presenti nel Reich sin dal 1939’: si tratta di ‘stipendi-provvidenze-previdenze sociali’. Un’eredità pesante, quella che Pellegrini Giampietro si trova a gestire. ‘Il ministro Pellegrini Giampietro – scrive sempre Pantano – obbligò la banca centrale a far disporre le casse della Repubblica Sociale Italiana di lire 183,6 miliardi ‘precariamente custoditi in mero deposito dallo istituto di credito gestente la tesoreria statale’, ma di pertinenza proprietaria di tutti i cittadini italiani e, per loro, dello Stato’. Pellegrini Giampietro, infatti, sa bene che la Banca d’Italia spa è ‘un’organizzazione bancaria privata con funzioni di tesoreria dello Stato a fronte del riscosso e delle anticipazioni. Insomma, 380,5 di entrate contro 359,6 miliardi di uscite. Pellegrini Giampietro riesce persino a far avanzare 20,9 miliardi.

Pellegrini Giampietro, Salò protagonista, scrive Emma Moriconi il 25 marzo2014 su "Il Giornale D'Italia". Quello che i libri di storia non dicono: l’uomo che "veniva a difendere i quattro soldi della Rsi in tutti i dialetti del Mezzogiorno". Per la prima ed unica volta nella storia il sistema bancario viene assoggettato ai bisogni dello Stato. 'C’era un piccolo napoletano, tutto pepe e nervi, Pellegrini-Giampietro, che difendeva le nostre Finanze, e correva - tra Rahn e Mussolini- come quei ragazzi stizzosi e mingherlini che durante una partita di calcio si rivelavano dei grandi atleti per il solo miracolo della volontà’. Con queste parole Filippo Anfuso descrive il ministro delle Finanze nel suo Roma-Berlino-Salò. Ciò che fa Pellegrini Giampietro - lo abbiamo visto nella prima puntata dedicata a questo personaggio straordinario - è qualcosa di epocale. Non è questa la sede per un ragionamento approfondito sul signoraggio bancario, ciò che preme sottolineare qui è che il ministro delle Finanze di Salò applica per la prima - e ahimé ultima - volta il principio secondo il quale il denaro che la banca emette è dello Stato, dunque dei cittadini. Insomma in quel dato momento storico contrassegnato da un clima avvelenato, in un Paese diviso in due, per la prima volta nella storia il sistema bancario viene assoggettato ai bisogni dello Stato. Così dovrebbe essere sempre, a dire il vero, ed è ben strano persino il fatto di doversi stupire che sia accaduto. Ancora, il già citato Antonio Pantano individua in Ezra Pound e nello stesso Pellegrini Giampietro i precursori di quanto Giacinto Auriti elaborerà più tardi. Premesso che tutto lo scritto di Pantano meriterebbe di essere riportato pressoché testualmente, occorre in questa sede restare al tema e operare necessariamente di sintesi: certo è che una mole infinita di informazioni e di fatti andrebbe anche qui ripercorsa per giungere a comprendere con esattezza la complessità delle vicende di quegli anni in cui la Rsi fu protagonista, e sarebbe necessario, non fosse altro perché per troppo tempo sono state riferite inesattezze spesso anche di una certa gravità. Ne abbiamo accennato qua e là, nel corso di questi mesi, raccontando i numerosi e spesso sconosciuti personaggi di questo importante pezzo della nostra storia. Basti pensare alla 'strana morte di Carlo Alberto Biggini'. E molto ancora c'è da raccontare. Lo faremo, passo dopo passo. Ora preme tornare a Domenico Pellegrini Giampietro e alla sua rivoluzione. Silvio Bertoldi, in "Salò - Vita e morte della R.S.I.", scrive: "Rahn vedeva arrivare Pellegrini-Giampietro come un castigo di Dio. Impallidiva quando vedeva spuntare il ‘neapolitaner’ Pellegrini-Giampietro che veniva a difendere i quattro soldi della R.S.I. in tutti i dialetti del Mezzogiorno e se il plenipotenziario tedesco estraeva i sofismi geopolitici, Pellegrini - che è anche professore - lo ammutoliva con le sue verità scientifiche". Finché c'è stata la Repubblica sociale, le riserve auree italiane sono rimaste inalterate: il ministro ha badato a trasferire tutto il trasferibile al nord, dove governa Mussolini. Il Duce viene assassinato in fretta e furia il 28 aprile 1945. Ai primi di maggio dello stesso anno la riserva aurea italiana viene trasferita in Svizzera: 'e fino al 1948 - scrive ancora Pantano - l'oro italiano rimase, su disposizione e disponibilità dei vincitori la guerra, all'estero'. Per riportare ciò che rimane in Patria, l'Italia di Einaudi è costretta a pagare pegno. In termini economici. Ma anche di terre. È qui che trae origine il dramma dell'esodo. E anche quello della caccia all'uomo. Ma questa è un'altra storia. Torniamo a Pellegrini Giampietro, che Bruno De Padova descrive come "l'autentico tutore dell'intero patrimonio di questo Paese in uno dei periodi più sconvolgenti del mondo intero". Egli è convinto sostenitore del rivoluzionario e già citato altrove - per esempio certamente nello speciale dedicato a Nicolino Bombacci - decreto legge sulla socializzazione delle imprese del febbraio 1944. Ci sarebbe poi un lungo e complesso ragionamento da fare circa il cosiddetto 'oro di Dongo', ne dovremo parlare a fondo. Intanto qui bisogna dire che nel 1958 viene pubblicata dal settimanale Il Candido una sorta di autobiografia di Domenico Pellegrini Giampietro dal titolo 'L'oro di Salò': in questo scritto il ministro racconta la sua attività nella Rsi.

Ercole Boratto e le discutibili "memorie" sul Duce, scrive Emma Moriconi il 18 marzo 2014 su "Il Giornale D'Italia". Personaggi che entrano di prepotenza nella storia scrivendo ‘ricordi’ che hanno il sapore di romanzetti rosa. L’autista di Mussolini ‘baratta’ con gli americani le sue non troppo documentate informazioni per un piccolo camion. Ci sono personaggi considerati figure di contorno, che non hanno titolo proprio per entrare ad essere annoverati tra quelli cosiddetti ‘storici’, ma che riescono a trovare il modo per emergere dall’anonimato per essere stati testimoni diretti di fatti e vicende. È il caso di Ercole Boratto, che non ha alcun merito storico, ma che è stato vicinissimo a Benito Mussolini fino al 25 luglio del ’43, dunque ne ha seguito la quotidianità lungo la parabola di ascesa, fino a quel 25 luglio, quando viene arrestato dieci minuti prima che i Carabinieri prendano in custodia il Duce, all’uscita da Villa Savoia. Boratto è lì: il Duce è andato a parlare con Vittorio Emanuele, dopo il voto del Gran Consiglio del Fascismo che lo ha appena destituito. L’autista ha accompagnato Mussolini per l’ultima volta. Dei giorni, degli anni trascorsi vicino a Mussolini Boratto fa un resoconto in un volume, ‘A spasso col Duce’. Il libro ha una storia un po’ complicata: le memorie di Boratto vengono redatte su richiesta dell’O.S.S. (Office of Strategic Services, organizzazione che poi diventerà la C.I.A) nel febbraio 1946. Molto interessante ciò che si può trovare scritto nella prefazione al documento originale: ‘all’inizio di dicembre 1945, Dusty (che dovrebbe essere un agente) ha riferito … di essere entrato in contatto con un certo Ercole Boratto, ex autista dei capi di governo Nitti, Giolitti, Bonomi e Mussolini … giunto a Roma da Torino con l’intenzione di presentare ai giornalisti un diario da lui redatto sul periodo in cui era l’autista delle suddette celebrità …  ha posto le seguenti condizioni: a) che il lavoro ultimato non sia pubblicato in Italia; b) che il suo nome sia omesso; c) di ricevere in dono un piccolo camion, in cambio della consegna dello scritto … il 10 febbraio 1946 Boratto ci ha comunicato di aver completato il diario, permettendoci di studiarlo…’. Dai ricordi di Boratto ciò che viene maggiormente alla luce è, naturalmente, l’aspetto di Mussolini più ‘privato’; del resto ciò che piace di più a chi legge, in genere, è proprio quello che oggi si chiama ‘gossip’. Quello che interessa, invece, chi voglia raccontare la ‘storia’ è ben altro. Certo, capire un personaggio, e di conseguenza un’epoca – quando il ‘personaggio’ in questione ‘rappresenta’ l’epoca, e per Mussolini questo discorso vale più che per chiunque altro – significa anche intrufolarsi nella sua vita privata, a patto che lo si faccia con il rispetto che a questa, proprio perché privata, è dovuto. E poi c’è da dire che aver avuto la fortuna di vivere in prima persona i vent’anni più pregnanti della storia d’Italia al fianco del protagonista significa anche poter ‘approfittare’ di questa condizione privilegiata per poter dire un po’ ciò che si vuole. Dunque, come sempre si deve fare quando si approccia uno scritto di ‘memorie’, bisogna porsi di fronte agli eventi narrati guardandoli con il giusto distacco e dotandosi di una certa capacità di analisi oggettiva. Un esempio: ‘a Roma – scrive Boratto– cominciarono per la sua mania di esibizionismo le passeggiate in auto per Villa Borghese in compagnia della leonessa ‘Italia’ regalatagli dal proprietario di un circo equestre. Così, oltre alle altre preoccupazioni, avevo quella della fiera bestiolina, che in braccio al Duce, incominciava effettivamente ad infastidirmi’. Un passaggio che denota, già dal tipo di espressioni usate, che più che ‘storia’ c’è ‘punto di vista’. Che non è esattamente ciò che interessa. Sparpagliata lungo tutto il diario c’è la ‘vanità’ di Mussolini, di cui Boratto fa una vera e propria apoteosi. L’osservazione sul ‘fastidio’ percepito dall’autista circa la presenza della bestiolina fa un po’ sorridere. In fondo, verrebbe da dire, Ercole Boratto è pagato per guidare la macchina del Duce, non per prendere posizione su chi la occupa. Fatto sta che appena ‘Repubblica’ mette le mani sul ‘prezioso’ scritto, non perde l’occasione per scrivere su ‘La Domenica di Repubblica’ di un Mussolini ‘uomo volitivo e vanitoso’. Il che, però, nonostante le ben 4 pagine di speciale dedicate al ghiotto scoop, nulla aggiunge e nulla toglie alla ‘storia’. Che, per fortuna, è fatta di ben altro. 

I REGIMI TOTALITARI FIGLI DEL SOCIALISMO/COMUNISMO.

I regimi totalitari. (Questa Tesina fa parte delle risorse didattiche della sezione DIDATTICA.ndo di “marcosroom.it”. La nascita e l’evoluzione dei regimi totalitari sono il tratto caratterizzante degli anni tra le due guerre. L’Italia fascista, la Germania nazista e la Russia staliniana, fondano la loro sopravvivenza su un rigido sistema capace di garantire repressione e consenso. In comune hanno anche il culto della personalità che identifica nel capo il dominatore assoluto. Un esasperato richiamo nazionalista e un’idea delle relazioni internazionali fondata sulla forza. L’insieme delle modalità di acquisizione del consenso adottate dai totalitarismi sono ben rappresentate dal concetto di liturgia politica. Carattere principale dei regimi che sono stati definiti totalitari, pur nelle profonde differenze che li distinguono, è la pretesa di dominare in modo "totale" la società. Il regime fascista in Italia, il regime nazista in Germania e il regime, di opposta matrice ideologica e sociale, sovietico in URSS, possiedono alcuni tratti comuni che li allontanano dai regimi autoritari di tipo tradizionale e ne fanno moderne forme di potere assoluto tipiche della "società di massa". Elementi primari di novità sono proprio l'istituzionalizzazione della violenza e della repressione di ogni forma di dissenso, da un lato, e l'organizzazione del consenso, dall'altro. Un potente e diffuso apparato poliziesco, costituito, oltre che dalle polizie ufficiali, da polizie segrete e milizie di partito, e nuovi sistemi di repressione dell'opposizione politica, quali tribunali e legislazioni speciali e campi di concentramento, assicurano ai regimi totalitari l'emarginazione e il soffocamento di ogni voce contraria e insieme attuano una forma di controllo della società basata sull' intimidazione e sulla coartazione delle coscienze. Parallelamente, i regimi totalitari sviluppano un'opera di mobilitazione delle masse in funzione dei propri obiettivi politici, attraverso le più moderne tecniche del consenso. L'uso intensivo dei mezzi di comunicazione di massa (radio, cinema, stampa), lo sfruttamento di canali privilegiati della comunicazione sociale, come la scuola e la produzione culturale , l'inquadramento della società in organizzazioni di massa legate al partito, l'utilizzazione di forme collettive di riconoscimento, come divise,  distintivi, cerimonie e adunate , permettono ai regimi totalitari di guadagnare un tipo di consenso, che, seppure assai diverso da quello dei regimi in cui vigono le libertà democratiche, fa registrare punte elevate di identificazione con il proprio progetto politico. Alla cattura del consenso contribuiscono anche la diffusione di miti e di parole d'ordine che fanno presa sugli istinti irrazionali e utopistici delle masse, soprattutto dei giovani. I regimi totalitari si caratterizzano per la netta predominanza di un capo, nella cui figura finisce per identificarsi, seppure in misura diversa nei differenti regimi, lo Stato stesso. Stalin, Hitler e Mussolini, acquistano progressivamente il ruolo di capi assoluti, di supreme autorità in tutti i campi, e di depositari e garanti della corretta applicazione della dottrina politica che anima i rispettivi regimi. Si diffonde l'idea della loro insostituibilità, infallibilità e onniscienza. Cresce parallelamente il culto e la venerazione delle proprie persone, attraverso un'operazione volta alla sacralizzazione delle figure dei tre dittatori, sino all'assunzione di elementi mistici. Accanto alla diffusione e alla reiterazione delle loro immagini e rappresentazioni, con la complicità delle arti figurative, del cinema e della fotografia, appositamente piegati a celebrare il loro culto, si provvede a dare vita a imponenti e coreografiche manifestazioni, nelle quali si realizza la comunione tra il capo e le masse accorse ad ascoltare la sua parola. Se Stalin si presenta quale padre e guida infallibile del suo popolo e diviene la personificazione stessa della rivoluzione e del comunismo, Mussolini si proclama " duce " degli italiani e interprete delle più vere esigenze della nazione. Hitler, denominato il " führer ", rappresenta agli occhi dei suoi seguaci il “Messia” portatore della nuova salvezza per la Germania e si trasforma in un simbolo vivente, privo, come tale, di una propria vita privata, in quanto esistente unicamente in una dimensione di fruizione pubblica e assoluta. Le conseguenze destabilizzanti dell'affermazione del regime nazista nel cuore dell'Europa non tardano a farsi sentire e aumentano in seguito all'alleanza con il regime fascista italiano. Entrambi i regimi, a partire dalla seconda metà degli anni trenta, cominciano a mettere in atto le proprie spiccate tendenze belliche ed espansionistiche. In un crescendo che culmina nello scoppio della seconda guerra mondiale, i due regimi, indeboliscono e infine fanno crollare l'equilibrio europeo che era stato costruito con la pace di Versailles, seguita alla guerra del 1914-1918. Il manifestarsi da parte di questi regimi della volontà di revisione del precedente assetto politico dell'Europa, affonda le sue radici non solo in tradizionali motivazioni di carattere economico-politico, ma anche in nuove ragioni di tipo ideologico. Lo slancio espansionistico del regime nazista ai danni di Stati europei abitati da popolazioni di lingua tedesca, dapprima, della Polonia e della Francia, poi, e infine dell'Unione Sovietica, è il risultato di una complessa costruzione ideologica che Hitler aveva esposto già nel Mein Kampf e che si basa su due dottrine: il razzismo e una concezione imperialista della geopolitica. All'interno di un'idea della storia come lotta tra le razze, e della individuazione di una precisa gerarchia tra di esse, egli progetta le linee direttrici dell'espansionismo tedesco, sulla base della necessità di assicurare alla superiore razza germanica l'adeguato " spazio vitale ", a spese delle supposte razze inferiori, nella prospettiva di un dominio del mondo intero. Anche per il regime fascista, all'orientamento imperialistico in politica estera, che si conferma con la conquista dell'Etiopia nel 1935-36, corrisponde l'elaborazione di motivazioni ideologiche. Dal mito della Roma imperiale, alla ripetuta retorica delle nazioni "giovani" e "proletarie", come l'Italia e la Germania, che devono farsi largo a scapito delle nazioni "vecchie" e "plutocratiche", Francia e Inghilterra. Il fascismo italiano non manca di nutrire di mitologie il proprio imperialismo, sbocco necessario di un regime basato sull'esaltazione della guerra e su un esasperato nazionalismo. Nati dalla negazione delle tradizioni della democrazia borghese e dei sistemi parlamentari di rappresentanza, che negli anni tra le due guerre mostrano evidenti segni di crisi, i regimi totalitari affermano un nuovo stile politico, basato sull'assunzione della ideologia come religione politica. I regimi a carattere totalitario non si limitano, come i passati modelli autoritari, ad assicurare un controllo sociale mediante la negazione delle libertà e la sottomissione politica a un despota, bensì interpretano in pieno le nuove richieste della moderna società di massa, elaborando nuove forme di legittimazione del potere e ponendosi il problema della integrazione e della mobilitazione delle masse. La sostituzione di questa moderna politica di massa alla forma di governo pluralistico-parlamentare, avviene attraverso l'elaborazione di una nuova religione laica, che si pone come tramite tra popolo e capi e che si esprime sul piano pubblico attraverso una liturgia politica. Partendo dal presupposto che nell'aggregazione di individui e nella creazione di movimenti di massa operano più facilmente fattori di natura irrazionale, emotiva, religiosa, i regimi totalitari elaborano vasti sistemi di credenze, miti e simboli che vengono messi in scena in feste e cerimonie pubbliche e attraverso il linguaggio dell'arte e dell'architettura. Attraverso l'orchestrazione di spettacolari riti collettivi, la partecipazione politica responsabile e consapevole viene sostituita da una identificazione mitica e istintiva con il capo, che impersona la volontà dello Stato, e dalla sensazione di partecipare a un progetto che trascende la propria volontà individuale. La chiamata in raccolta delle folle oceaniche per ascoltare le parole del capo, rappresenta la massima espressione di questa nuova forma di partecipazione politica, che si configura come una complessa liturgia di massa.

1. Il fascismo. Introduzione. Movimento politico e regime di carattere totalitario. In senso stretto, il fascismo, il cui nome deriva dal “fascio littorio”, simbolo del potere in Roma antica, nacque nel 1919 in Italia, dove conquistò il potere nel 1922 e lo conservò sino al 1943. Il termine è comunemente utilizzato per definire analoghi movimenti e regimi politici nati in molti paesi prima, durante e, anche se in misura minore, dopo la seconda guerra mondiale. Tratti del fascismo. Il fascismo fu caratterizzato dal monopolio della rappresentanza da parte di un unico partito; da un’ideologia fondata sul culto del capo (il “duce”); dal disprezzo per i valori della civiltà liberale , che si concretizzò nella soppressione delle libertà politiche e civili (di pensiero, di stampa, di associazione ecc.); dall’ideale della collaborazione tra le classi, opposto alla teoria socialista e comunista della lotta di classe; dal dirigismo statale ; da un apparato di propaganda che mirò a mobilitare le masse e a inquadrarle in organizzazioni di socializzazione politica funzionali al regime. Le radici del fascismo. Agli inizi, il fascismo fu un movimento privo di una vera e propria ideologia. La stessa parabola di Benito Mussolini, prima socialista, rivoluzionario, anticlericale, antimilitarista, poi interventista e da ultimo profondamente antisocialista, non ci dice molto dei fondamenti teorici e dottrinali del fascismo. Fondamentalmente anti-intellettuale, il fascismo utilizzò quanto tornava utile al suo progetto politico. Fu solo con il Manifesto degli intellettuali del fascismo (1925) di Giovanni Gentile che venne compiuta una prima sistematizzazione dell’ideologia e della dottrina fascista. Il fascismo italiano. Benito Mussolini aderì al movimento socialista nel 1909. Esponente della corrente rivoluzionaria del partito, nel 1912 fu nominato direttore del quotidiano “Avanti! “, segnalandosi per le sue posizioni anticapitaliste e antimilitariste. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, passò su posizioni interventiste e fu per questo espulso dal Partito socialista. Nel 1919 fondò i Fasci di combattimento, un movimento che si caratterizzò per il suo antisocialismo e che non ottenne subito un grande seguito. In breve però, nel contesto italiano del dopoguerra afflitto da una grossa crisi politica e sociale, ampie parti della società italiana finirono per rivolgersi a Mussolini, in particolare i settori che più avvertivano la minaccia costituita dalle forti lotte operaie in atto tra il 1919 e il 1921. Trasformatosi in Partito nazionale fascista nel 1921, l’anno seguente, dopo una campagna di violenze e la marcia su Roma, giunse al potere con l’appoggio dei ceti medi, degli agrari e di diversi settori della burocrazia e dell’esercito, nonchè di Vittorio Emanuele III, che diede a Mussolini l’incarico di formare un governo sostenuto anche da popolari e liberali. Dopo le elezioni del 1924 (svolte con un nuovo sistema elettorale, la Legge Acerbo, che assegnava al partito di maggioranza relativa i due terzi dei seggi in Parlamento) e l’assassinio di Giacomo Matteotti (rivendicato al regime nel gennaio 1925 dallo stesso Mussolini), vennero sciolte le opposizioni e limitata la libertà di stampa, espulsi dalla Camera i deputati antifascisti, vietato lo sciopero, messi al bando i sindacati, introdotta la pena di morte e istituito il Tribunale speciale per la difesa dello stato, incaricato di reprimere ogni forma di dissenso; nel 1934 il regime adottò infine una forma corporativa. Le interpretazioni del fascismo. Il fascismo, fin dalla sua nascita, è stato oggetto di un intenso dibattito politico e storiografico. Molte sono le interpretazioni sulla sua affermazione, che è stata attribuita alla crisi di valori, alla crisi economica, alla reazione del capitalismo, alle lotte operaie, alla reazione delle classi medie contro il proletariato e la borghesia, ai meccanismi psicologici di massa ecc. Ad esempio, per Benedetto Croce il fascismo fu “una malattia morale, una parentesi della storia senza passato e senza futuro, in totale contraddizione con la naturale evoluzione dei paesi occidentali verso la democrazia.” Il fascismo postbellico e il neofascismo. La sconfitta dell’Asse nella seconda guerra mondiale, la consapevolezza dell’immane tragedia che i totalitarismi avevano provocato e la ripresa economica mondiale, che dissipò il malcontento che nel primo dopoguerra aveva contribuito ad alimentare il fascismo, segnarono il declino dell’ideologia fascista, sostenuta ormai solo da sparuti gruppi legati nostalgicamente al passato. In Italia, ad esempio, alcuni reduci della Repubblica di Salò fondarono il Movimento sociale italiano, che solo dopo cinquant’anni, nel 1995, trasformatosi in partito della destra moderata (Alleanza Nazionale), abbandonò i riferimenti più diretti all’ideologia fascista. Parallelamente si svilupparono diversi movimenti della destra più radicale e, non di rado, terrorista; tra le formazioni della galassia neofascista e neonazista italiana (Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, Ordine Nero ecc.), diverse fornirono manovalanza nella politica terroristica e destabilizzante della “strategia della tensione negli anni Sessanta e Settanta. Durante gli anni Ottanta e Novanta, con la recrudescenza della crisi economica, sono riemerse ideologie filofasciste di matrice razzista, caratterizzate dall’ostilità verso gli immigrati o dall’avversione per i sistemi democratici. In Francia, ad esempio, sono cresciuti i consensi elettorali per il Fronte nazionale di Jean-Marie Le Pen; in Austria, il Partito liberale di destra di Jörg Haider, autoritario e xenofobo, ha continuato a mietere successi elettorali per tutti gli anni Novanta. Anche in Germania si sta verificando una risorgenza di movimenti esplicitamente ispirati al nazismo, anche se questi non riescono ad affermarsi elettoralmente.

2. Il nazismo. Introduzione. Dottrina politica che dava contenuto ideologico al Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei (NSDAP; Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori), improntando la sua azione e, in generale, tutta la politica interna ed estera di Adolf Hitler e del suo governo dal 1933 al 1945. I principi centrali della dottrina nazista, per alcuni aspetti affine al fascismo italiano, erano ispirati alle teorie che sostenevano una presunta superiorità biologica e culturale della razza ariana formulate da Houston Stewart Chamberlain e da Alfred Rosenberg ; ma il successo della formula politica in Germania fu dovuto anche alla sua relazione di continuità con la tradizione nazionalista, militarista ed espansionista prussiana, nonchè al suo radicamento nella cultura irrazionalista di inizio secolo. Il primo dopoguerra. L’ascesa del Partito nazionalsocialista trasse forte impulso dallo scontento diffuso fra i tedeschi alla fine della prima guerra mondiale. Ritenuta la principale responsabile del conflitto, la Germania dovette infatti accettare le pesantissime condizioni del trattato di Versailles, a causa delle quali entrò in un periodo di depressione economica, segnato da un’inarrestabile inflazione e da una vasta disoccupazione. Finanziata dagli ambienti militari, la formazione politica guidata da Adolf Hitler nacque nel 1920 in un paese prostrato dalla guerra e attraversato da violenti conflitti politici e sociali. Parte dei militanti furono organizzati in una sorta di braccio armato, le SA (“sezioni d’assalto”); le SA avevano il compito di intimidire con la violenza gli avversari politici e i sindacalisti. Hitler formulò un programma d’azione antidemocratico, imperniato sul nazionalismo e sull’antisemitismo, e nel 1923 dotò il partito di un efficace strumento di propaganda, il quotidiano “Völkischer Beobachter” (L’osservatore nazionale), e di un simbolo ufficiale, una croce uncinata nera, inscritta in un cerchio bianco su campo rosso: la svastica. Nello stesso anno intensificò la propaganda e le azioni dimostrative contro il Partito comunista tedesco, tentando infine un colpo di stato (il Putsch di Monaco) per rovesciare il governo. L’ideologia nazista. Il tentativo fallì e Hitler fu condannato a cinque anni di carcere. Durante la detenzione, che in realtà durò meno di un anno, scrisse la prima parte di Mein Kampf (“La mia battaglia”), l’opera in cui riassunse i capisaldi dell’ideologia nazista, tracciando il suo progetto di conquista dell’Europa. Le fonti intellettuali di Hitler erano alquanto eterogenee e il nazionalsocialismo si presentava così più come un conglomerato di idee dalle matrici più disparate che come un’ideologia organizzata e strutturata. In Mein Kampf, le istanze nazionaliste e il progetto di una grande Germania che radunasse tutte le genti di lingua tedesca, trovavano una teorizzazione che ben si inseriva nel clima causato dalla disfatta della prima guerra mondiale: Hitler propose infatti un piano di ampliamento del territorio nazionale, giustificandolo con la necessità di allargare lo “spazio vitale” per il popolo tedesco. Le altre nazioni dovevano sottomettersi alla razza ariana, in virtù della sua conclamata superiorità, destinata com’era a regnare sul mondo intero. Nemici degli ariani erano in primo luogo gli ebrei, responsabili del disastro economico e della diffusione delle ideologie marxiste e liberali. Il nazismo al potere. Una volta scarcerato, Hitler riorganizzò il partito, creò il corpo armato delle SS (“squadre di difesa”), diretto da Heinrich Himmler, e l’ufficio di propaganda, che fu affidato a Joseph Goebbels. Nel 1929, l’anno della grande crisi economica mondiale seguita al crollo di Wall Street, buona parte dei grandi imprenditori tedeschi cominciarono a guardare con favore a Hitler e al suo programma, e ingenti somme di denaro presero ad affluire nelle casse del Partito nazista. Appoggiato anche dalle classi medie, dai piccoli proprietari e dai disoccupati colpiti dalla grave depressione economica, il Partito conquistò la maggioranza relativa nelle elezioni del 1932. Un anno dopo Hitler ottenne il cancellierato. Alle successive elezioni politiche il Partito nazionalsocialista ottenne una schiacciante vittoria; a Hitler furono quindi assicurati i pieni poteri, che egli usò per assorbire le competenze del Parlamento ed eliminare con la violenza l’opposizione. Il Partito nazionalsocialista divenne l’unica organizzazione politica legale. Nel 1933, allo scopo di eliminare i dissidenti, fu istituita la “Polizia segreta di stato”, nota come Gestapo, svincolata da ogni controllo legale e soggetta solo al proprio comandante, Himmler. Il “nuovo ordine”. Soppressi gli avversari politici e i diritti costituzionali e civili, il regime affrontò la crisi occupazionale, pianificando una ristrutturazione industriale e agricola dell’intero paese, eludendo le restrizioni del trattato di Versailles, abolendo le cooperative e ponendo le organizzazioni sindacali sotto il controllo dello stato. Grazie al “nuovo ordine”, la Germania hitleriana uscì dalla crisi: le sorti dell’alta finanza e della grande industria nazionale furono risollevate e gradualmente fu assorbita la disoccupazione; ma ciò fu dovuto anche e soprattutto al lavoro creato per la preparazione di una possente macchina da guerra, mentre veniva inaugurata una politica estera estremamente aggressiva e brutale. Fu rimilitarizzata la Renania, si formò l’Asse Roma-Berlino (1936), fu “risolta” la questione dei Sudeti (1938) e l’Austria fu annessa con uno spregiudicato colpo di mano (1938). Infine, l’invasione della Polonia (1° settembre 1939) fu la scintilla che fece scoppiare la seconda guerra mondiale. Nella prima fase del conflitto la Germania sembrò avere la meglio; Hitler e i suoi uomini diedero allora il via alla cosiddetta “soluzione finale”, organizzando la deportazione in campi di concentramento e di sterminio e l’eliminazione di milioni di ebrei, zingari, omosessuali, malati mentali, oppositori politici ecc. (Shoah). Il nazismo dopo la seconda guerra mondiale. Al termine della guerra, un tribunale militare internazionale processò a Norimberga i capi nazisti sopravvissuti, mentre gli Alleati organizzarono il cosiddetto “processo di denazificazione” del paese. La nuova Costituzione democratica sanciva la proibizione di ricostituire il Partito nazionalsocialista; tuttavia nel dopoguerra, soprattutto a partire dagli anni Sessanta e nuovamente dopo la riunificazione della Germania, il nazismo è tornato alla ribalta. In Germania, in altri paesi europei e anche negli Stati Uniti, sono nate piccole formazioni neonaziste che ancor oggi predicano l’odio razziale e l’antisemitismo, commettono violenze ai danni degli immigrati e organizzano azioni di terrorismo.

3. Lo stalinismo. Introduzione. Epoca e regime politico in cui si affermò in Urss la dispotica dittatura di Stalin e l'ideologia a essa connessa. Iniziò alla fine degli anni venti e terminò con la morte del dittatore nel 1953. Fu in questo periodo che si costituirono i tratti fondamentali del sistema sovietico, segnato dall'ispirazione dello stato-partito ad assumere il controllo totale su tutti gli aspetti della vita del paese (politica, economica, sociale e culturale). Lo stalinismo generò uno degli stati totalitari più feroci del XX secolo. Le vittime del regime di Stalin si contarono a milioni. Nel 1929, dopo la sconfitta dell'opposizione di destra, Stalin assunse il pieno controllo del partito e diede avvio alla " grande svolta " che avrebbe dovuto portare alla rapida edificazione dell'economia socialista, regolata dalla pianificazione statale. Lo statalismo. La dittatura autoritaria dai tratti illuministi tracciata da Lenin, cedette il posto a una dittatura autocratica, fondata sull'esaltazione dello stato e sullo schiacciamento totale della società. Anche se non mancarono elementi di continuità tra Lenin e Stalin, questo cambiamento dei fini del potere, rappresentò un momento di rottura di primaria importanza. L'intervento massiccio dello stato in tutti i settori fu favorito dal fatto che la società degli anni venti era debolmente strutturata, poichè la rivoluzione e la guerra civile avevano spazzato via quei nuclei di "società civile" che si erano costituiti negli ultimi decenni dello zarismo. Questo spiega, almeno in parte, le ragioni di una mancata resistenza organizzata al regime staliniano, che mosse una vera e propria guerra a tutti gli strati della società. Gli anni trenta furono anni di spaventosi sconvolgimenti sociali. La collettivizzazione e l'industrializzazione forzata frantumarono violentemente il tessuto sociale preesistente. Vennero distrutte identità collettive secolari, mentre la società si atomizzava. La Russia si popolò di nomadi e vagabondi, contadini e operai fuggiti da villaggi e città alla ricerca di condizioni di vita almeno sopportabili. Per far fronte alla crisi sociale permanente vennero rafforzati a dismisura gli apparati repressivi dello stato. Con il ristabilimento dell'odioso sistema zarista dei passaporti interni e della propiska (permesso di residenza dato dalla polizia), nel 1932 i contadini vennero di nuovo legati alla terra e gli operai alle fabbriche, mentre il paese si riempiva di campi di concentramento. Nasceva il Gulag. La mobilità sociale altissima provocò un colossale rimescolamento. Interi strati sociali vennero scaraventati dai vertici al fondo della piramide, mentre altri emergevano, prima di essere a loro volta travolti. Una società gerarchizzata. Il Partito comunista dell'Unione sovietica, partito unico, fu il principale canale di promozione sociale: la fedeltà all'ideologia era la “conditio sine qua non” per cambiare la propria posizione. Nacque una nuova struttura sociale fortemente gerarchizzata. I contadini, discriminati dalla legislazione, tornarono in pratica alla condizione del servaggio, abolito da Alessandro II nel 1861; gli operai persero tutti i privilegi di cui avevano goduto negli anni venti e vennero posti alla mercè assoluta dei dirigenti industriali, mentre l'allargarsi del ventaglio salariale e la diffusione del cottimo creavano disparità crescenti. L'impegno diretto dello stato nella produzione provocò la crescita a dismisura dell'apparato burocratico. La cristallizzazione del sistema gerarchico portò con sè un ritorno a valori tradizionali (la famiglia, per esempio) destinati a inculcare nelle masse la disciplina, il conformismo e il rispetto per l'autorità. Si costituì una nuova ideologia tesa a recuperare i valori del nazionalismo imperiale russo inserendoli in un contesto dominato dal culto di Stalin. Il disorientamento di interi strati sociali brutalmente sradicati, fornì il terreno propizio per la nascita di una sorta di religione statale con i suoi nuovi riti (parate-processioni, idolatria dei capi e delle loro immagini, uso di vocaboli di origine religiosa) che si nutrì, trasfigurandole, delle antiche credenze del mondo contadino: il culto di Stalin, dio-padre-padrone onnipotente , fu accompagnato dalla caccia spietata ai "nemici del popolo", moderna versione della demonologia rurale intrisa di paganesimo, che attribuiva alle "oscure forze del male" la responsabilità di tutte le disgrazie. Lo stato di polizia. La potente polizia segreta (Nkvd), sottoposta direttamente a Stalin, aveva diritto di vita e di morte sugli abitanti del paese dei soviet. La macchina repressiva si volse contro le elite politiche. Iniziava il grande Terrore. Tra il 1936 e il 1938, nei processi di Mosca, venne sterminata la vecchia guardia bolscevica; sotto la scure della polizia politica cadde anche l'Armata rossa, che fu gravemente scompaginata dalle purghe, come dimostrò la facilità dell'avanzata nazista al momento dell'aggressione nel 1941. Alla fine degli anni trenta Stalin era ormai padrone assoluto del paese. Capriccioso despota autocratico, fece distruggere anche lo stesso gruppo dirigente a lui fedele che aveva patrocinato la “grande svolta”. 

LA MASSONERIA ED IL NAZI-FASCISMO-COMUNISMO.

Comunismo e Nazi-Fascismo figli degeneri del Socialismo. Il comunismo, come ideologia, si prefigge l’estinzione delle classi con il supporto della massoneria; il Nazi-Fascismo si prefigge l’eliminazione delle razze con l’aiuto della massoneria.

La Mano Nascosta che ha Fatto Storia (Hidden Hand), scrive The Vigilant Citizen. Traduzione a cura di Anticorpi.info. I dipinti e le immagini dei grandi uomini del passato rivelano un elemento che li accomuna. Può essere solo un caso il fatto che molti di essi nascondessero una mano mentre posavano per i dipinti che li ritraevano? Improbabile. In questo post esamineremo l'origine massonica della "mano nascosta" (hidden hand) e i potenti personaggi che si fecero ritrarre nell'atto di compiere tale segno. Ricordo quando la mia docente di storia cercava di spiegarci come mai Napoleone fosse frequentemente raffigurato con una mano sotto la camicia. Le motivazioni ufficiali sono elencate nelle seguenti righe:

"Sono state avanzate numerose teorie per spiegare perché Napoleone sia stato tradizionalmente raffigurato con la mano nel panciotto. Ad esempio: un'ulcera allo stomaco, la carica dell'orologio, una malattia della pelle, il fatto che all'epoca fosse ritenuto scortese tenere le mani in tasca, un cancro al petto, una mano deforme, una bustina profumata nel panciotto, il fatto che i pittori non amino dipingere le mani." Tom Holmberg

A meno che tutti i personaggi citati in questo articolo avessero una ulcera gastrica o una mano deformata, al gesto di nascondere la mano si deve attribuire un significato specifico. Che in effetti c'è. La maggior parte delle persone che usano questo segno sono membri della massoneria. Considerando la grande importanza di tale gesto nei rituali massonici e che tutte le elite facessero parte della massoneria o comunque sapessero cosa fosse, è impossibile che la continua riproposizione di questo gesto sia semplicemente il risultato di una coincidenza. La mano nascosta è infatti un simbolo ricorrente nei rituali del grado massonico Royal Arch, ed i leader mondiali se ne servono per comunicare agli altri iniziati dell'ordine: "Questo è ciò a cui appartengo, ciò in cui credo e per il quale sto lavorando." Il grado Royal Arch (13° grado del Rito Scozzese o 7° del Rito di York) è noto anche come Mason of the Secret. Raggiunto questo grado, si dice che gli iniziati ricevano le grandi verità massoniche.

"Fino al Royal Arch gli iniziati sono familiarmente denominati confratelli, e mantenuti in uno stato di profonda ignoranza. Dal Royal Arch in poi i membri sono denominati compagni, e hanno diritto a una spiegazione esauriente sui misteri dell'ordine. Tale differenziazione concorda con la nota abitudine di Pitagora di rubricare i propri allievi praticamente alla stessa maniera. Dopo una sospensione condizionale di cinque anni, gli allievi erano ammessi alla presenza del precettore, il quale si rivolgeva a loro come "compagni" cui era consentito conversare con lui liberamente. Prima di tale termine il maestro impartiva i suoi insegnamenti da dietro uno schermo." John Fellows, Inchiesta su Origini, Storia e Tenore della Massoneria

"Accedendo al Royal Arch si apprendono meravigliose nozioni che non potrebbero essere eguagliate da qualsiasi istituzione umana." George Oliver, Lezioni sulla Massoneria

È a questo punto che l'iniziato impara il sacro nome di Dio.

"Un grado più augusto, sublime e importante di quelli che lo precedono, che è, infatti, il culmine e la perfezione dell'antica Massoneria. Esso lascia nella nostra mente la convinzione della esistenza di un Dio senza inizio e senza fine - la grande e incomprensibile Alfa e Omega - e ci ricorda la riverenza che dobbiamo al suo Santo nome." George Oliver, Monumenti Storici

Tale Santo nome è Jahbulon, combinazione di parole che significano "dio" in siriaco, caldeo ed egiziano.

"JEHOVAH. Tra le varie versioni di questo nome sacro in uso tra le diverse nazioni della terra, tre in particolare meritano l'attenzione dei massoni di grado Royal Arch:1. JAH, riscontrabile nel Salmo 68, v. 4.2. BAAL o BEL. Questa parola indica un signore, padrone o possessore, ed è stata applicata da molte nazioni d'oriente per indicare il Signore di tutte le cose, il Maestro del mondo.3. ON. Era il nome con cui JEHOVAH veniva venerato tra gli egiziani." Malcolm C. Duncan, Rituali Massonici

Il rito di iniziazione a tale grado rievoca il ritorno a Gerusalemme dei tre più eccellenti massoni, dopo la prigionia in Babilonia. Evitando di esaminare l'intera cerimonia e il relativo simbolismo, ad un certo punto del rito viene chiesto all'iniziato di imparare una parola segreta e un segno della mano che incarni il passaggio di un "velo." L'immagine sulla destra raffigura il segno che simboleggia il passaggio al Secondo Velo, come documentato nel libro Rituali Massonici di Duncan.

"Il Maestro del Secondo Velo: devi essere tre eccellenti maestri, poiché più in là non puoi arrivare senza la mia parola, segno, ed esortazione. Le mie parole sono Sem, Japhet, e Adoniram; il mio segno è questo: (portando la mano al petto), esso imita ciò che Dio diede a Mosè, quando Egli gli ordinò di spingere la mano in seno e poi, estraendola, la mano divenne bianca e lebbrosa come la neve. La mia parola di esortazione è la spiegazione di questo segno, e si trova negli scritti di Mosè, Quarto capitolo dell'Esodo: “E il Signore disse a Mosè: Poni ora la tua mano in grembo. E lui mise la mano in seno, e quando la tirò fuori, ecco che la sua mano era lebbrosa come la neve." Malcolm C. Duncan, Rituali Massonici

Come detto, il gesto della mano è ispirato dal verso 4:6 dell'Esodo. In questo passaggio biblico il cuore ("petto") rappresenta ciò che siamo in base alle nostre azioni. Si può pertanto interpretarlo come: sei ciò che fai. Il significato simbolico di questo gesto potrebbe spiegare il motivo per cui è così largamente utilizzato dai più celebri massoni. La mano nascosta consente agli altri iniziati di sapere che la persona raffigurata fa parte della fratellanza segreta, e che le sue azioni sono ispirate alla filosofia massonica. La mano che esegue le azioni è celata dietro il bavero, il che simbolicamente si riferisce alla natura occulta delle azioni massoniche. Ecco alcuni uomini celebri che utilizzarono il segno della mano nascosta.

NAPOLEONE BONAPARTE. Napoleone (1769-1821) fu un leader militare e politico francese, dalle cui azioni scaturì la politica europea nel XIX secolo. Iniziato presso la loggia dell'Army Philadelphe nel 1798. I suoi fratelli Giuseppe, Luciano, Luigi e Girolamo, erano tutti e quattro massoni. Cinque dei sei membri del Gran Consiglio dell'Impero erano massoni, come lo erano sei dei nove funzionari imperiali e 22 dei 30 Marescialli di Francia. Lo studioso di cultura massonica J.E.S. Tuckett affronta così la questione: "Strano che le prove riguardanti l'appartenenza di Napoleone alla fratellanza massonica non siano mai state esaminate in dettaglio, poiché la questione è di estremo interesse e - alla luce del ruolo notevole che questo straordinario uomo ebbe negli affari del continente europeo." Nel saggio su Napoleone e la Massoneria, Tuckett scrive: "Ci sono prove inconfutabili secondo le quali Napoleone conoscesse la natura, la finalità e la struttura della Massoneria; nozioni che approvava e praticava per promuovere i propri scopi." J.E.S. Tuckett, Napoleone e la Massoneria (fonte) Si dice anche che Napoleone facesse ricorso a poteri occulti. Quando nel 1813 fu sconfitto a Leipzip, un ufficiale prussiano scoprì una "stanza dei segreti" appartenente al condottiero corso, nella quale era custodito il libro del Destino e degli Oracoli. In principio questo libro fu scoperto in una delle tombe reali di Egitto nel corso di una spedizione militare francese del 1801. L'imperatore ne commissionò la traduzione ad uno studioso e antiquario tedesco. Da quel momento in poi, l'Oraculum diventò uno dei beni più preziosi di Napoleone. Lo consultava in molte occasioni e si dice che abbia "costituito uno stimolo per le sue imprese speculative di maggior successo."

KARL MARX. Karl Marx è noto per aver fondato il comunismo moderno. Benché alcuni massoni neghino questa possibilità,sembra che sia stato un massone di 32 grado della loggia del Grande Oriente. Marx si fece portavoce del movimento ateo e socialista d'Europa. Sosteneva il principio secondo cui la fase successiva alla sostituzione delle monarchie con le repubbliche socialiste sarebbe dovuta essere la conversione delle stesse in repubbliche comuniste.

GEORGE WASHINGTON. George Washington fu uno dei Padri Fondatori degli Stati Uniti, ed è considerato 'il più importante massone americano.' Charles Willson scovò questo dipinto di un Washington all'età di 52 anni. Notate la posizione dei piedi: essi formano una piazza oblunga. La posizione dei piedi è molto importante nel simbolismo massonico.

WOLFGANG AMADEUS MOZART. Mozart è uno dei più prolifici e influenti compositori di sempre. Fu massone, iniziato nella loggia austriaca Zur Zur Wohltätigkeit il 14 Dicembre 1784. Numerose sue opere contengono degli importanti elementi massonici. Prima tra tutte Il Flauto Magico, del tutto basata su principi massonici. Di seguito, alcune composizioni create da Mozart per le logge massoniche:

Lied (canzone) "Gesellenreise, da utilizzare durante l'assunzione di nuovi operai."

Cantata per tenore e coro maschile Die Maurerfreude ("The Mason's Joy").

La funerea musica massonica (Maurerische Trauermusik).

Due canzoni per celebrare l'apertura del "Zur Hoffnung Neugekrönten":

Cantata per tenore e pianoforte, Die ihr die Weltalls Schöpfer ehrt unermesslichen.

La piccola cantata massonica (Kleine Freimaurer-Kantate).

IL MARCHESE DE LAFAYETTE. De Lafayette fu massone di 33 grado. Secondo quanto sostenuto da Willam Denslow nell'opera 10.000 Massoni Famosi, Lafayette era un ufficiale francese, che partecipò come generale alle guerra di indipendenza americana e fu tra i leader della Guardia Nazionale francese durante la sanguinosa rivoluzione. Fu anche nominato Gran Commendatore onorario del Supremo Consiglio di New York. Più di 75 organismi massonici negli Stati Uniti portano il suo nome.

SALOMON ROTSCHILD. Salomon Rothschild è stato il fondatore del ramo viennese della famiglia di Mayer Amschel Rothschild. La famiglia più potente del mondo ha molto influenzato le politiche di Germania, Francia, Italia e Austria. I Rothschild sono tra i creatori del sionismo e dello Stato di Israele. Il loro potere si è propagato ben oltre i confini della loggia massonica. Si dice facciano parte delle 13 linee di sangue degli "Illuminati." Il recente edificio della Corte suprema di Israele - finanziato dai Rothschild - conferma il ricorso al simbolismo massonico da parte di tale famiglia.

SIMON BOLIVAR. Noto come El Libertador (il Liberatore), Simon Bolivar è considerato il George Washington del Sud America. E' entrato in massoneria presso Cadice, in Spagna, per poi essere iniziato al Rito Scozzese a Parigi ed essere nominato templare in Francia nel 1807. Bolivar ha fondato e servito come comandante la loggia Protectora de las Vertudes No.1 in Venezuela. Il paese della Bolivia porta il suo nome. Bolivar fu anche presidente della Colombia, del Perù e della Bolivia nel 1820. Apparteneva alla loggia Ordine e Libertà No. 2, in Perù. Notate nell'immagine la posizione dei suoi piedi e lo schema a scacchiera del pavimento, anch'esso massonico.

JOSEPH STALIN. Il regno del terrore di Stalin in Unione Sovietica provocò la morte di milioni di suoi connazionali. Spesso nelle foto si fece ritrarre facendo il gesto della mano nascosta. Non esistono documenti ufficiali che dimostrino la iniziazione di Stalin alla Massoneria. Naturalmente, i dittatori come Stalin riuscivano a controllare tutte le informazioni circa se stessi ed i loro affari, rendendo difficile provare alcunché in un senso o nell'altro. Il segnale della mano nascosta però fornisce un indizio della sua appartenenza ad una fratellanza occulta.

ALTRI PERSONAGGI: Mazzini, Cavour, Henry Varnum Poor (Standard & Poor's), Franklyn Pierce.

Come si è visto, i leader con la "mano nascosta" hanno avuto una grande influenza sulla storia del mondo ed è stato confermato che molti fossero massoni. Questo gesto è un dettaglio ancora largamente trascurato, che allude all'abbraccio della filosofia occulta da parte del leader. Una volta compreso questo fatto e riconosciuta l'immensa influenza che questi leader hanno avuto sul corso della storia, possiamo cominciare a comprendere la forza nascosta che attualmente guida l'attuale mondo internazionale. I membri di queste confraternite avranno anche mantenuto opinioni diverse e aderito a fazioni differenti (comunismo contro capitalismo), ma la filosofia di fondo, le convinzioni e gli scopi ultimi erano comuni: l'avvento di una Età dell'illuminismo. Naturalmente, ogni ricercatore serio è già a conoscenza del ruolo della massoneria nel dispiegarsi della storia mondiale. Il segno della mano nascosta usato da numerosi personaggi storici è semplicemente l'espressione di questa realtà poco nota. Come affermò Confucio: "Il mondo è governato da segni e simboli, non da leggi e frasi." Articolo in lingua inglese pubblicato sul sito The Vigilant Citizen

Lo scopo della massoneria è il trionfo del Comunismo. Pubblicato da "Neovitruvian". Secondo CG Rakovsky i massoni “devono morire per mano della rivoluzione, raggiunta grazie alla loro cooperazione”. Fu uno dei fondatori dell’Internazionale Comunista, ambasciatore sovietico a Parigi e Londra, e capo di Stato dell’Ucraina. “Il vero segreto della massoneria è il suicidio della massoneria come organizzazione, e il suicidio fisico di ogni importante massone.” Questa rivelazione proviene da un interrogatorio della polizia stalinista nel 1938 dal titolo “La Sinfonia rossa”, un documento non originariamente concepito per il pubblico. By Henry Makow Ph.D. (Trascrizione da Des Griffin, Fourth Reich of the Rich, p. 254, on-line) Tradotto da “Neovitruvian” . “So tutto questo non perche` sia un massone, ma poiché appartengo a Loro ‘” [gli Illuminati] dice Rakovsky, un collega di Leon Trotsky arrestato per aver complottato contro Stalin. L’obiettivo di Rakovsky è quello di convincere Stalin, un nazionalista, a collaborare con l' “internazionale comunista-capitalista. La massoneria è la più grande società segreta al mondo con oltre cinque milioni di membri, di cui tre milioni negli Stati Uniti. E ‘strumentale nella cospirazione totalitaria. Nei Protocolli dei Savi di Sion, l’autore (forse Lionel Rothschild, 1808-1879) scrive: “La muratoria Gentile funge ciecamente da schermo per noi e per i nostri obiettivi, ma il piano d’azione rimane per tutto il popolo un mistero sconosciuto …. Chi e che cosa è in grado di rovesciare una forza invisibile?” (Protocollo 4)”. Ancora egli scrive, «dovremo creare e moltiplicare le logge massoniche … assorbire in loro tutti che sono di primo piano nella attività pubblica e coloro che possono tornarci utili, perché in queste logge troveremo il nostro centro per l’intelligence e le attività di influenza …. Le trame politiche più segrete ci saranno note e cadranno sotto le nostre abili mani manipolatorie… Noi sappiamo quale è la meta finale … mentre i goyim non sanno nulla … “(protocollo 15) Nel suo interrogatorio, Rakovsky dice che milioni affollano la Massoneria per ottenere un vantaggio. “I governanti di tutte le nazioni alleate erano massoni, con pochissime eccezioni.” Tuttavia, il vero obiettivo è “creare tutti i presupposti necessari per il trionfo della rivoluzione comunista, questo è lo scopo evidente della massoneria, ma è chiaro che tutto questo va fatto con vari pretesti, ma sempre attraverso i loro ben noti slogan [Libertà, Uguaglianza, Fraternità]. Hai capito?” (254) I massoni dovrebbero ricordare la lezione della Rivoluzione francese. Anche se “hanno giocato un ruolo fondamentale nella rivoluzione, sono stati consumati da essa…” Dal momento che la rivoluzione richiede lo sterminio della borghesia come classe, [così tutta la ricchezza andrà dagli Illuminati nelle vesti dello Stato] ne consegue che i massoni devono essere liquidati. Quando questo segreto viene rivelato, Rakovsky immagina “l’espressione di stupidità sul volto di qualche massone quando si rende conto che deve morire per mano dei rivoluzionari. Urlerà e vorrà riconosciuti i suoi servizi nella rivoluzione! E ‘ uno spettacolo in cui si può morire … ma di risate!” (254) Rakovsky si riferisce alla massoneria come una bufala: “Un manicomio, ma in libertà” (254) In Russia nel 1929, ogni massone che non era ebreo venne ucciso insieme alla sua famiglia, secondo Alexey Jefimow (“Chi sono i governanti della Russia?» P.77) Come massoni, altri richiedenti per l’ammissione nella “utopica masterclass umanista” (neocons, i liberali, i sionisti, i gay e le attiviste femministe) potrebbero trovarsi in una brutta sorpresa. Probabilmente infatti verranno messi da parte una volta che adempiranno al loro scopo. Quando l’interrogatore fece pressioni su Rakovsky per avere informazioni su importanti Illuminati che gli si sono avvicinati con una iniziativa, Rakovsky era sicuro che almeno due di essi fossero morti: Walter Rathenau il ministro degli Esteri del Wiemar, e Lionel Rothschild. Dice che Trotsky era la sua fonte di informazione. Altre sono speculazioni: “Come istituzione, la banca di Kuhn Loeb & Company di Wall Street: [e] le famiglie Schiff, Warburg, Loeb e Kuhn, io dico le famiglie, al fine di sottolineare diversi nomi dal momento che sono tutti collegati … attraverso matrimoni, i Baruch, i Frankfurter, gli Altschul, i Cohen, i Benjamin, gli Strauss, i Steinhardt, i Blom, i Rosenman, i Lippmann, i Lehman, i Dreyfus, i Lamont, i Rothschild, i Lord, i Mandel, i Morganthau, gli Ezekiel, i Lasky.” (272) Consentendo ai banchieri il privilegio di creare denaro, abbiamo creato un vampiro insaziabile. Se si potesse produrre soldi, immaginate la tentazione di possedere e controllare tutto, anche il pensiero! Questo è il senso ultimo del comunismo. Rakovsky fa riferimento alla Grande Depressione del 1929 come ad una “rivoluzione americana”. Essa è stata deliberatamente provocata dagli Illuminati a scopo di lucro, per demolire lo “stereotipo americano” e conquistare il potere politico. “L’uomo per mezzo del quale hanno fatto uso di tale potere fu Franklin Roosevelt. Capisci? … In quell’anno, 1929, il primo anno della rivoluzione americana, nel mese di febbraio, Trotsky lasciò la Russia, l’incidente avvenne in ottobre… Il finanziamento ad Hitler fu concordato nel mese di luglio, 1929. Pensi che tutto questo sia una coincidenza? In questo momento si stavano preparando per la presa del potere negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica: lì tramite una rivoluzione finanziaria, e qui [in Russia] con l’aiuto della guerra [Hitler, Seconda Guerra Mondiale] e la sconfitta che doveva seguire.” (273) Rakovsky propose che Stalin collaborò con gli Illuminati, La prima condizione è che si fermasse con le esecuzione dei seguaci di Trotzky. Poi saranno stabiliti “diverse zone di influenza” dividendo “il Comunismo formale da quello reale.” Ci saranno “concessioni reciproche di aiuto per un periodo, mentre il piano è in corso di svolgimento … Appariranno persone influenti a tutti i livelli della società, anche molto alti, che aiuteranno il Comunismo…” (276) Rakovsky delineò il piano degli Illuminati di fondere il comunismo e il capitalismo. In ogni caso, gli Illuminati controlleranno tutta la ricchezza e il potere. “A Mosca c’è il Comunismo: A New York, il capitalismo, tesi e antitesi. Analizziamo entrambi. A Mosca c’è un comunismo soggettivo ma [oggettivamente] un capitalismo di Stato…a New York il capitalismo è soggettivo, ma oggettivamente si tratta di comunismo. (276) Nel caso del comunismo, lo Stato possiede le corporazioni, i banchieri e lo Stato. Nel caso del capitalismo, i banchieri controllano le corporazioni, e le corporazioni controllano lo Stato. In ogni caso, in Occidente, è necessario un capitalismo monopolistico, con crescente controllo politico e culturale simile a quello della Russia sovietica. The Red Symphony conferma che i nostri leader politici e culturali sono per lo più creduloni o traditori. Il sovvertimento degli Stati Uniti fa parte di un piano per la tirannia mondiale. Una cabala occulta di banchieri è dedita a schiavizzare l’umanità. La maggior parte delle religioni e gruppi sono stati sovvertiti dal piano degli Illuminati per dominare il mondo e usurpare tutta la sua ricchezza, come indicato nei protocolli. Il denominatore comune è la Massoneria. Una manifestazione dell’emergente tirannia luciferina Rothschild è il design massonico del nuovo edificio della Corte Suprema israeliana, sopra. La maggior parte dei massoni ed ebrei non sono a conoscenza di questo piano, si sarebbero opposti, e sono essi stessi vittime. L’accusa di “antisemitismo” è utilizzata per distrarci dal vero problema, la creazione di uno stato di polizia globale dedicato alla proiezione della ricchezza, della perversità e della potenza dei cabalisti in ogni sfera della vita. La “guerra al terrore” è utile a questo controllo autoritario. Che cosa stanno progettando se l’obiettivo è uno stato di polizia con tanto di confisca delle armi da fuoco? Un’altra Grande Depressione? Una Guerra civile? Un gulag americano? Un attacco nucleare o biologico “terrorista”? L’11 settembre dimostra che sono in grado di macellare americani senza alcun rimorso. Siamo nati all’80esimo minuto di una partita di calcio e la squadra di Dio non se la sta cavando bene. Gli Illuminati hanno definito Dio in termini privi di senso e quindi lo hanno bandito dal nostro universo. Dio è sinonimo di ideali spirituali. Invece di elevarci spiritualmente, ci hanno degradato e trasformato in animali, per servire meglio gli Illuminati.

Massoneria e Socialismo. Le radici occulte del socialismo, scrive Jean Vandamme l'8-27 luglio 2010 su "Centro San Giorgio". Se la tesi di dottorato di Nicholas Nicholas Goodrick-Clarke intitolata "The Occult Roots of Nazism: Secret Aryan Cults and Their Influence on Nazi Ideology: The Ariosophists of Austria and Germany, 1890-1935" (The Aquarian Press, Wellingborough 1985) mostra l'influenza preponderante delle Logge nella genesi del nazionalsocialismo, lo stesso si può dire per il comunismo, il quale è solamente una forma radicale dell'ideologia socialista. Resta tuttavia da spiegare perché questi regimi totalitari si sono liberati dalla tutela delle Logge per poi osteggiarle. Allo stesso modo, ci si può legittimamente chiedere quale interesse abbia avuto la Massoneria a produrre tali mostruosità. Questo articolo ci propone alcune risposte a partire da citazioni estratte da testi massonici sull'argomento.

Gli iniziati dietro ogni ideologia - Introduzione di VLR. È bene sapere che nazisti e massoni avevano qualcosa in comune. Ecco nuova luce sulle ragioni della loro reciproca ostilità. Il fenomeno dei rapporti delle Logge con l'estrema destra è cosa nota da molto tempo: già il massone René Guénon (1886-1951) 2, nella sua lettera del 12 ottobre 1936 a R. Schneider, affermò a proposito di Benito Mussolini (1883-1945): «D'altronde, corrisponde a verità il fatto che (Mussolini) era massone, e - dettaglio divertente - la camicia nera con cui fece il suo ingresso a Roma gli era stata offerta dalle Logge di Bologna» 3. La questione merita di essere approfondita ma, certamente, tutto accadde come se si fosse prodotto uno scisma all'interno di ciò che può essere definita «la Chiesa Iniziatica»:

- da un lato, le obbedienze classiche, vicine all'internazionalismo e all'egualitarismo;

- dall'altro, alcune Logge come la Società Thule, l'Ordine del Nuovo Tempio, l'Ordo Templi Orientis (O.T.O.) 4, e altre organizzazioni gnostiche, élitarie, spesso fondate su un'inasprita ideologia razzista. L'opera di Nicholas Goodrick-Clarke ha l'immenso merito di rivelare che dietro ai movimenti politici del XX secolo, si nascondevano spesso dei guru, ossia degli Alti Iniziati. In definitiva, se si osservano gli avvenimenti tenendo conto di questo fattore nascosto, ci si accorge che la Rivoluzione, sotto le sue diverse maschere, non è nient'altro che una colossale manipolazione dei popoli per mezzo delle ideologie. L'internazionalsocialismo è mostruoso tanto quanto il nazionalsocialismo. Stalin (1878-1953), Mao (1893-1976) e Pol Pot (1928-1998) non hanno nulla da invidiare ad Adolf Hitler (1889-1945). In ciò non c'è niente di stupefacente: questi fratelli-nemici hanno le stesse origini iniziatiche.

Le origini massoniche del socialismo. Tutti coloro che dubitano di tale filiazione dovrebbero consultare il Dictionnaire de la Franc-Maçonnerie («Dizionario della Massoneria»), pubblicato da Daniel Ligou (Parigi 1987). Quest'opera autorizzata è molto istruttiva. Da essa, apprendiamo che tra i numerosi massoni, che furono gli apostoli del socialismo, figurano:

- Il conte de Saint-Simon (Claude-Henry di Rouvroy; 1760-1825). «Il fondatore del sansimonismo era stato iniziato nel 1786 alla Loggia "L'Olympique de la Parfaite estime", all'Oriente di Parigi e alla Società Olimpica» (pag. 1079);

- Pierre Leroux (1797-1871). «Filosofo, giornalista e scrittore socialista, tipografo, membro della Costituente del 1848 poi della Legislativa. Membro della Loggia "Les Droits de l'Homme", Oriente di Grasse» (pag. 695).

- Louis-Auguste Blanqui (1805-1881). Secondo il Dictionnaire de la Franc-Maçonnerie, il famoso teorico socialista fu «membro degli "Amis de la Vérité" ("Amici della Verità") intorno al anni 1830, e del "Temple des Amis de l’Honneur Français" ("Tempio degli Amici dell'Onore Francese") nel 1842» (pag. 141).

- Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865). Il padre del socialismo francese, prima amico e poi avversario di Karl Marx (1818-1883), venne iniziato «non senza avere esitato» per molto tempo «l'8 gennaio 1847, alla Loggia di Besançon "Spucar", come riportato anche nell'opera "De la justice dans la Révolution et dans l'Église" ("La giustizia nella Rivoluzione e nella Chiesa"; 1858). La sua iniziazione è celebre soprattutto per il fatto che Proudhon, alla terza domanda d'ordine, "Doveri dell'uomo verso Dio", rispose: "La guerra"»! (pag. 967).

- Louis Blanc (1811-1882). «Militante repubblicano, poi socialista, membro del Governo provvisorio del 1848, deputato di Parigi nel 1871, poi senatore. Blanc venne iniziato in esilio, alla Loggia "Les Sectateurs de Menés ("I Seguaci di Menés"), all'Oriente di Londra, prima del 1854, data nella quale gli venne conferito il 93º Grado del Rito di Memphis e Oratore del Supremo Consiglio di questo Grado» (pagg. 140-141).

- Mikhail Bakunin (1814-1876). «Il principe Mikhail Bakunin, anarchico russo, nato l'8 maggio 1814 a Premoukhino (oggi Kalinine), venne educato da un padre massone, un aristocratico liberale che sosteneva di avere assistito alla presa della Bastiglia [...]. Divenuto massone nel 1845 [...], Bakunin si era avvalso di questa qualità nel 1848, ma non si sa molto sulla sua iniziazione [...]. Giunto a Parigi nel 1844, frequentò Lamennais, George Sang, Michelet, Nicolas Herzon e il "Fratello" Louis Blanc» (pag. 102).

- Lenin (Vladimir Ilyich Ulyanov; 1870-1924). «Vladimir sarebbe stato iniziato alla Loggia "L'Union de Belleville", all'Oriente di Parigi, prima della guerra del 1914. Ma essendo andati perduti gli archivi di questa Loggia, non si possiedono tracce formali dell'appartenenza di Lenin alla Massoneria. Tutto ciò che si sa con certezza è che Ulyanov fu amico di "Montehus” (1872-1958), un cantante antimilitarista che, precisamente, era membro della Loggia "L'Union de Belleville" nello stesso periodo» (pag. 693). Sapete a chi si deve L'lnternationale, questo canto rivoluzionario diventato l'inno internazionale dei partiti socialisti e comunisti, e che fu anche l'inno sovietico fino al 1936? Ce lo dice il Dictionnaire de la Franc-Maçonnerie (pag. 954): ad un massone!

- Eugène Pottier (1816-1887), «anarchico francese, nato nel 1816, partecipò alle Rivoluzioni del 1830, del 1848 e del 1871. Fu sindaco del dipartimento dell'IIe sotto la Comune di Parigi. Condannato a morte, si rifugiò in Belgio, in Inghilterra e in America dove venne iniziato nel 1875 alla Loggia "Les Égalitaires" ("Gli Egualitari"), fondata a New York dai proscritti della Comune. Ritornato in Francia nel 1887, volle farsi regolarizzare affiliandosi alla Loggia parigina "Le Libre Examen" ("Il Libero Esame"), ma l'autore dell'Internazionale morì alcuni giorni dopo» (pag. 954). Di fatto, è attestato storicamente che Pottier compose nel 1871 la poesia che fu messa in musica da Pierre Degeyter (1848-1932) nel 1888 ed eseguita per la prima volta lo stesso anno per la festa dei lavoratori di Lille.

Massoneria e comunismo. Anche se, come abbiamo visto, non si può affermare con certezza che Lenin fosse massone, una cosa è certa: tra la Massoneria e il socialismo radicale - il comunismo - non c'è vera opposizione. L'incompatibilità proclamata nel novembre 1922 al IV Congresso dell'Internazionale non deve ingannarci. In Francia, ad esempio, numerosi fondatori del giovane Partito Comunista erano massoni:

- Ludovic-Oscar Frossard (1889-1946), Segretario generale del giovane Partito Comunista Francese, ma ostile alla «bolscevizzazione» del Partito, sconfessato dall'Internazionale a causa del suo atteggiamento al II Congresso del Partito Comunista Francese, e per il suo rifiuto della 22ª condizione di Mosca (il Kominternl'humanité vietò l'appartenenza alla Massoneria), si dimise il 1º gennaio 1923. Creò allora il Partito Comunista Unitario (PCU, che nel 1924 divenne, dopo fusione con altri gruppi dissidenti, l'Unione Socialista Comunista).

- André Morizet (1876-1942). Membro fondatore del Partito Comunista, fu ostile alla 22ª condizione di Mosca, che vietava l'appartenenza alla Massoneria di cui era membro (Grand'Oriente di Francia). Escluso dal Komintern nel gennaio del 1923, con Ludovic-Oscar Frossard, per le stesse ragioni, uscì dal Partito Comunista Francese ed entrò nell'l'Unione Socialista Comunista rimanendovi fino al 1927.

- Antonio Coen (1885-1956). Iniziato alla Gran Loggia, membro dell'ufficio del Partito Comunista, dal quale si staccò dopo il IV Congresso dell'Internazionale. Alcuni anni più tardi, divenne Gran Maestro della Gran Loggia di Francia.

- Zéphirin Camélinat (1840-1932). Tesoriere della Section Française de l'Internationale Ouvrière («Sezione Francese dell'Internazionale Operaia»; SFIO), si riunì ai maggioritari comunisti del Congresso di Tours nel 1920, e favorì la nascita del comunismo in Francia. Nel 1921, egli vendette le azioni del giornale L'Humanité, (fondato da Jean Jaurès), al Partito Comunista Francese. Nel 1924, fu candidato alle elezioni presidenziali, ed ottenne ventun voti sull'insieme dei deputati e dei senatori. Malgrado le condizioni di Mosca, fu la sola personalità del Partito Comunista Francese ad essere al tempo stesso membro del Komintern e della Massoneria.

- Charles Lussy (1883-1967). Fin dalle elezioni legislative del 1914, egli difese i colori della Section Française de l'Internationale Ouvrière. Dopo la Grande Guerra, entrò nell'Humanité, poi seguì la maggioranza del Partito di Jean Jaurès (1859-1914) nella sua adesione all'Internazionale comunista. Rimase nel Partito Comunista per due anni. All'inizio del 1923, Lussy lasciò il Partito Comunista Francese, e dopo una breve parentesi con l'Unione Socialista Comunista, tornò al Partito Socialista.

- Marcel Cachin (1859-1958). Padre fondatore del Partito Comunista, direttore del giornale L'Humanité, fu iniziato alla Massoneria nella Loggia La Concorde Castillonnaise.

- Antoine Ker (1886-1923). Sostenitore della III Internazionale, assistette, nel dicembre 1920, al Congresso di Tours e venne eletto nel Comitato Direttivo del Partito Comunista. Collaborò all'Humanité e a La Vie Ouvrière («La vita operaia»), e venne incaricato di curare i rapporti tra il Partito Comunista Francese, il Partito Comunista Tedesco e l'Internazionale. In questa cornice, andò a Mosca. Rimase in collegamento col Partito fino alla sua morte, ma «si sarebbe dimesso» dalla Massoneria.

Ma ce ne sono tanti altri, come Ho Chi Min (1890-1969), il liberatore-oppressore comunista del Vietnam. Nel n° 256 della rivista L'Histoire, Jacques Dalloz - che ha dedicato un'opera a tale questione - scrive: «Alcuni vietnamiti venuti in Francia, soprattutto per studiare, si fecero iniziare a Parigi o nelle città universitarie del Sud. Tra essi, il futuro Ho Chi Min. All'inizio dell'anno 1922, il giovane comunista si presentò per l'iniziazione alla Loggia della capitale "La Fédération Universelle" ("La Federazione Universale"), raccomandato dall'incisore Roger Boulanger […]. Nel dicembre dello stesso anno, la IV Internationale condannò la Massoneria, "un'istituzione segreta della borghesia radicale": un paradosso che non sembrò disturbare affatto il futuro dirigente vietnamita […]. Nell'agosto 1945 […], altri massoni andarono al potere, come Hoang Minh Giam, che i responsabili francesi consideravano a quel tempo l'eminenza grigia di Ho Chi Min, e che partecipò ai suoi governi per molti anni […]. La fine della guerra in Indocina portò un nuovo colpo alla Massoneria locale. Già moribonda, la Fratellanza tonchinese si spense col passaggio al comunismo del Nord Vietnam. L'installazione del nuovo regime portò - come negli altri Paesi comunisti - alla scomparsa della Massoneria. In questo caso, l'iniziazione di Ho Chi Min non fece alcuna differenza» 5. Tutto porta dunque a pensare che tra comunismo e Massoneria si è prodotto un movimento simile a quello che Goodrick-Clarke constata tra il nazismo e le Logge: sia un affrancamento progressivo dalla loro tutela, e in seguito un'ostilità, o addirittura una persecuzione di queste società di pensiero, considerate - a buon diritto - come il fermento di altre ideologie concorrenti. Ci si può chiedere, dunque, per quale motivo le Logge abbiano suscitato ideologie contrapposte, col rischio, nelle loro forme radicali, di una persecuzione degli stessi massoni. Tenteremo di dare una spiegazione a questo dilemma alla luce di testi massonici sull'argomento.

L'unità fondamentale di tutti i «Fratelli». Ma - diranno gli scettici - come spiegare l'esistenza di certe obbedienze massoniche nei Paesi capitalisti che si sono dichiarate più volte ostili al comunismo? Ciò dimostrerebbe che i massoni non hanno una visione globale dell'avvenire dell'umanità. Ogni obbedienza lavorerebbe unicamente per conseguire gli scopi della nazione alla quale appartiene. Errore! Un testo fondante come le Costituzioni di Anderson (1723) proclama che riunendo gli uomini di tutti gli orizzonti la Massoneria persegue lo scopo di diventare «il centro d'unione e lo strumento per stringere un'amicizia sincera tra gli uomini che altrimenti sarebbero rimasti continuamente estranei». L'obiettivo è noto: l'instaurazione di un Governo Mondiale. Ciò è rivelato da quell'altro testo fondamentale che è il Discorso di Ramsay (1737): «I nostri antenati, i crociati (i Templari; N.d.R.), vollero riunire in una sola fratellanza gli individui di tutte le Nazioni. Quale obbligo abbiamo verso questi uomini superiori che hanno immaginato un'istituzione il cui unico scopo è la riunione degli spiriti e dei cuori per renderli migliori e per formare col passare del tempo una Nazione Spirituale in cui, senza derogare ai diversi doveri che esige la diversità degli Stati, si creerà un Popolo nuovo che, riunendo numerose nazioni, li cementerà attraverso i legami della virtù e della scienza».

Ideologie «opposte» come strumenti di «progresso». Importa poco se questi uomini, una volta usciti dalle Logge, siano appartenuti a partiti politici o persino a Paesi antagonisti. Una volta reclutati, avranno avuto in comune certi principî che hanno fatto sì che, pur combattendosi tra loro, hanno collaborato alla Grande Opera, vale a dire all'edificazione della civiltà massonica mondiale. Un simile modo di procedere è efficace: si chiama dialettica. Non sono io a dirlo, ma Oswald Wirth (1860-1943), uno dei teorici ufficiali della Massoneria: «Il due è il numero del discernimento, che procede per analisi, stabilendo incessanti distinzioni sulle quali nessuno potrebbe basarsi. Lo spirito che nega di fermarsi in questa via si condanna alla sterilità del dubbio sistematico, all'opposizione impotente, alla contestazione continua [...]. Il due rivela il tre, e il Ternario non è che un aspetto più intelligibile dell'unità. La Tri-unità di ogni cosa è il mistero fondamentale dell'iniziazione intellettuale. Il massone, che orna la sua firma con tre punti in forma di Triangolo, lascia intendere che sa riportare, attraverso il Ternario, il Binario all'unità. Si si è realmente elevato all'altezza del punto che domina gli due altri, non si perderà mai nelle vane discussioni, perché percepirà senza difficoltà la soluzione che si sprigiona da un dibattito contraddittorio. Giudicando dall'alto senza il minimo pregiudizio e in tutta libertà di spirito, otterrà la luce dallo scontro dell'affermazione e della negazione». Ecco dunque chiarita la filosofia massonica: di due tesi (o di due forze) opposte, si utilizza la risultante che farà avanzare la causa. Avrete notato, en passant, l'analogia profonda con l'ideologia marxista. Nel libro Idéalisme et matérialisme dans la conception de l’Histoire («Idealismo e materialismo nella concezione della Storia»), il socialista Jean Jaurès rivendica la filiazione del socialismo dai sistemi filosofici massonici di Immanuel Kant (1724-1804) e di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), considerati come tali dai massoni:

- Per Kant, lo sapete tutti, il problema filosofico consiste espressamente nel trovare la sintesi delle affermazioni contraddittorie che si presentano allo spirito dell'uomo: l'Universo è limitato o infinito? il tempo è limitato o infinito? La serie delle cause è limitata o infinita? Tutto è sottomesso all'universale e inflessibile necessità, o c'è spazio anche per la libertà delle azioni umane? Tante tesi e antitesi, negazioni e affermazioni, tra i quali lo spirito esita. Lo sforzo del filosofia kantiana è tutto nella soluzione di queste contraddizioni, di queste antinomie fondamentali.

- Infine è Hegel ad enunciare la formula di questo lungo lavoro, dicendo che la verità è nella contraddizione: coloro che affermano una tesi senza opporgli una tesi opposta errano e sono schiavi di una logica ristretta e illusoria.

Credo sia inutile ricordare agli adepti la dottrina di Marx, il quale è stato un discepolo intellettuale di Hegel: lo dichiara lui stesso, lo proclama nella sua introduzione al Capitale; sembra che anche Friedrich Engels (1820-1895), per alcuni anni, a causa di quella tendenza che porta l'uomo il capitale - das kapital che ha vissuto per molto tempo in un luogo a ritornare verso le sue origini, si sia applicato nello studio approfondito di Hegel. Una sorprendente applicazione di questa formula dei contrari la si trova in Marx il quale constata «l'antagonismo delle classi, lo stato di guerra economica, che oppone la classe capitalista alla classe proletaria […]. Secondo la vecchia formula di Eraclito che Marx ama citare ("La pace è solamente una forma, un aspetto della guerra; la guerra è solamente una forma, un aspetto della pace"). Non bisogna opporre l'uno all'altro: ciò che oggi è lotta, domani sarà l'inizio della riconciliazione. Il pensiero moderno dell'identità dei contrari (che i massoni definiscono "coincidentia oppositorum"; N.d.T.) si ritrova ancora in quest'altra concezione ammirevole del marxismo: "L'umanità è stata condotta fin qui, per così dire, dalla forza inconscia della Storia […]. Ebbene, quando sarà realizzata la rivoluzione socialista, quando l'antagonismo delle classi sarà cessato, quando la comunità umana sarà in possesso dei grande mezzi di produzione secondo i bisogni conosciuti e constatati dagli uomini, allora l'umanità verrà stata strappata al lungo periodo d'incoscienza in cui cammina dai secoli, spinta dalla forza cieca degli avvenimenti, ed entrerà nella nuova era in cui l'uomo anziché essere sottomesso alle cose regolerà l'andamento cose […]. Per Marx, questa vita incosciente è la condizione stessa e la preparazione della vita cosciente di domani, e così è ancora la Storia si incarica di risolvere una contraddizione essenziale. Ebbene, mi chiedo se non si può, se non si deve, senza mancare allo spirito stesso del marxismo, spingere oltre questo metodo di conciliazione dei contrari, di sintesi dei contraddittori, e cercare la conciliazione fondamentale del materialismo economico e dell'idealismo applicato allo sviluppo della Storia». Dopo questa lettura, non ci si può trattenere dal pensare che il socialismo si è adeguato alla dialettica massonica e l'ha sistematizzata ed interpretata in modo particolare ed esclusivo. Notiamo, en passant, l'analogia profonda del pensiero massonico e di quello socialista per via del loro carattere messianico, prometeico e olista. Sottolineiamo anche il loro obiettivo comune: l'unità e l'autonomia dell'umanità. Tuttavia, se, nelle righe precedenti, Jaurès illustra il concetto di dialettica marxista, ignoriamo ancora quello della dialettica massonica.

Ordo ab chao, o la finalità dello Stato totalitario. Ed ecco un primo chiarimento. Commentando il motto massonico Ordo ab Chao («L'ordine a partire dal caos»), l'illustre massone René Guénon, rivela che, in realtà, le organizzazioni opposte vengono utilizzate come la «materia» dagli «Alti Iniziati» per farle concorrere alla Grande Opera: «Menzioneremo ancora, senza insistere oltremodo, un altro significato di un carattere più particolare che del resto è legato abbastanza direttamente a quello che abbiamo appena indicato, perché si riferisce tutto sommato allo stesso campo: questo significato si rifà all'uso, per farli concorrere alla realizzazione dello stesso piano d'insieme, di organizzazioni esterne incoscienti di questo piano, e apparentemente contrapposte le une alle altre, sotto un'unica direzione "invisibile" che è essa stessa al di là di tutte le opposizioni. In sé stesse, le opposizioni, grazie all'azione disordinata che producono, costituiscono certamente un tipo di "caos" meno apparente; ma si tratta precisamente di usare questo stesso "caos" prendendolo in qualche modo come la "materia" sulla quale si esercita l'azione dell0 "spirito" rappresentato dalle organizzazioni iniziatiche di ordine l'elevato e più "interiore" alla realizzazione dell'"ordine" generale, come, nell'insieme del "cosmo", tutte le cose che sembrano opposte tra loro non sono realmente, in definitiva, che elementi dell'ordine totale». Se le parole hanno un senso, questa si chiama manipolazione su scala continentale. Il risultato di queste manovre, accuratamente nascoste al profano, sarà, come si è visto, la creazione di un Governo Mondiale. E questo Superstato sarà totalitario. Il motto Ordo ab Chao non lascia su questo punto alcun dubbio: dopo il disordine (solve), sapientemente provocato sul piano nazionale e internazionale - disordine ottenuto adulando le passioni degli uomini e sviluppando ideologie contrapposte - verrà l'«ordine» massonico (coagula) che sarà brutale. A quelli che vorrebbero sapere ciò che gli Alti Iniziati pensano della Democrazia, consiglio la lettura dell'opera del massone René Guénon più esplicita su questo argomento, vale a dire La Crise du Monde Moderne («La Crisi del Mondo Moderno»), un libro fondamentale presso gli iniziati di estrema destra.

Conclusione. Forse qualcuno mi rimprovererà di aver fatto troppe citazioni. La natura stessa del mio scritto mi ha obbligato a farlo. Per essere creduti, bisogna portare delle prove, soprattutto in questo caso in cui la realtà sembra superare la fantasia. Ancora una volta ci viene presentata questa verità, ossia che tutte le ideologie sono figlie della Rivoluzione, e che tra esse e il cattolicesimo l'incompatibilità è totale. Terminerò con una citazione presa dalla Bolla In Eminenti, nella quale Papa Clemente XII (1652-1740) condannò, con estrema chiaroveggenza, fin dal 1738, la Massoneria: «Già per la stessa pubblica fama Ci è noto che si estendono in ogni direzione, e di giorno in giorno si avvalorano, alcune società, unioni, riunioni, adunanze, conventicole o aggregazioni comunemente chiamate dei "Liberi Muratori" o "des Francs Maçons", o con altre denominazioni chiamate a seconda della varietà delle lingue, nelle quali con stretta e segreta alleanza, secondo loro Leggi e Statuti, si uniscono tra di loro uomini di qualunque religione e sètta, contenti di una certa affettata apparenza di naturale onestà. Tali società, con stretto giuramento preso sulle Sacre Scritture, e con esagerazione di gravi pene, sono obbligate a mantenere un inviolabile silenzio intorno alle cose che esse compiono segretamente. Ma essendo natura del delitto il manifestarsi da sé stesso e generare il rumore che lo denuncia, ne deriva che le predette società o conventicole hanno prodotto tale sospetto nelle menti dei fedeli, secondo il quale per gli uomini onesti e prudenti l'iscriversi a quelle aggregazioni è lo stesso che macchiarsi dell'infamia di malvagità e di perversione: se non operassero iniquamente, non odierebbero tanto decisamente la luce».

Massoneria e Comunismo. Il socialista Mussolini come vedeva nel 1919 il socialismo-comunismo: «Sulla Rivoluzione russa mi domando se non è stata la vendetta dell'ebraismo contro il Cristianesimo, visto che l'ottanta per cento dei dirigenti dei Soviet sono ebrei... La finanza dei popoli è in mano agli ebrei, e chi possiede le casseforti dei popoli dirige la loro politica.»

Il giornalista Mussolini e la finanza internazionale. Articolo pubblicato su "Il Popolo d'Italia" del 4 giugno 1919.

"I COMPLICI. I proletari evoluti e coscienti che gridano “Viva Lenin!” credendo di gridare “Viva il socialismo “, non sanno certamente ch'essi gridano “Abbasso il socialismo! “I falsi pastori che “mangiano e bevono” alle spalle delle masse sempre pronte a giurare, se non a morire, per gli ideali nuovi e lontani, danno ad intendere che quel che si è instaurato in Russia è socialismo. Colossale menzogna! In Russia si è stabilito il governo di una frazione del Partito socialista. In Russia i proletari lavorano come prima; sono sfruttati come prima perché devono mantenere una burocrazia innumerevole e succhiona, secondo la testimonianza non sospetta del capitano Sadoul; sono mitragliati come prima non appena osino insorgere contro il regime che li condanna alla schiavitù e alla fame; invece di uno czar ce ne sono, oggi, due, ma le forme e i metodi dell'autocrazia non sono affatto cambiati. Si capisce perfettamente che alcuni scrittori venuti dagli ambienti borghesi, abbiano delle simpatie per il bolscevismo. C'è in Russia uno Stato, un Governo, un ordine, una burocrazia, una polizia, un militarismo, delle gerarchie. Ma il socialismo non c'è. Non c'è nemmeno il cominciamento del socialismo, non c'è niente che somigli ad un regime socialista. Il leninismo è la negazione perfetta del socialismo. E' il governo di una nuova casta di politicanti. Gli è per questo che è assai difficile trovare degli apologisti del leninismo fra le teste pensanti del socialismo russo e del socialismo occidentale. Le più stroncanti requisitorie contro il leninismo non sono venute dai borghesi, ma da uomini che avevano lottato e sofferto per la redenzione della massa operaia. Questi uomini si chiamano Piekanoff, il maestro dei marxisti russi; si chiamano Kropotkin, l'apostolo dell'anarchia. La demolizione dei metodi di governo leninista non è opera del "Times", ma di un Axelrod, chiamato il decano dei socialisti russi; di un Souckhomline, collaboratore per lungo tempo dell' "Avanti". Il manifesto del Partito operaio russo e dei socialisti menscevichi, non sono stati stampati dal "Corriere della Sera", ma da "Critica Sociale". Non sono state inventate da noi "rinnegati" - che in questo caso (è strano ma vero!) difendiamo il socialismo!.- le pagine di Bernstein, di Kautsky, di Eisner, di Troelstra, di Branting e di infiniti altri socialisti, che si sono schierati contro la “caricatura del socialismo realizzatasi tra Pietrogrado e Mosca”. Non siamo noi, ma un dott. Totomianz, veterano della cooperazione russa che nell'ultimo numero della “Critica Sociale” di FilippoTurati, stampa queste parole eloquentissime: "I bolscevichi hanno creato, in fin dei conti, non già una vera democrazia bensì la denominazione della plebaglia, una oclocrazia che non si arresta davanti a nessun mezzo terroristico in una guerra di sterminio contro la borghesia e gli intellettuali." Infinite volte, e specialmente dopo il congresso di Berna, noi abbiamo prodotto documenti inconfutabili della vera natura del regime russo. Chi non ricorda la lettera di Alexeyev e quella della vedova di Plekanoff ? Noi riaffermiamo che il leninismo non ha niente di comune col socialismo, eppure i socialisti ufficiali italiani, con clamori minacciosi, chiamano al soccorso per salvare la Russia. Ma la Russia non ha bisogno di essere salvata, perché non corre pericolo alcuno. Chi sostiene il bolscevismo - ficcatevelo bene in testa, miei cari proletari! - non è la forza del popolo russo che subisce, dopo aver cercato di spezzarlo, quel regime di barbarie contro il quale sono più volte insorti e anarchici e socialisti rivoluzionari, con tentativi soffocati spietatamente nel sangue; chi sostiene il bolscevismo non è il famoso esercito rosso che esiste nelle carte di Trotzky, non nella realtà. Il giornale 'Humanité' del 30 maggio, reca la testimonianza imparziale del signor Paolo Birukoff, il quale, a proposito dell'esercito rosso, in cotal nonché significativa guisa si esprime: "Il popolo russo, così pacifico, detesta la guerra oggi, come ieri, come sempre. Oppone una resistenza accanita al reclutamento." Altro che entusiastica risposta agli ordini di mobilitazione, secondo ci narravano gli imbonitori dei crani proletari d'Italia. Il signor Birukoff dice qualche cosa di ancora più interessante: "Ci sono tanti disertori nell'armata rossa, quanti ce ne erano nell'esercito dello zar. Accade che un reggimento non arriva alla tappa designata perché tutti gli uomini si sono sbandati strada facendo..." Ed è questo esercito di sbandati che ferma Mannerheim e Kolcak? Mai più. Se Pietrogrado non cade, se Denikin segna il passo, gli che è così vogliono i grandi banchieri ebraici di Londra e di New York, legati da vincoli di razza cogli ebrei che a Mosca come a Budapest, si prendono una rivincita contro la razza ariana che li ha condannati alla dispersione per tanti secoli, In Russia l'80 per cento dei dirigenti dei "Soviets" sono ebrei, a Budapest su 22 commissari del popolo ben 17 sono ebrei. Il bolscevismo non sarebbe, per avventura, la vendetta dell'ebraismo contro il cristianesimo? L'argomento si presta alla meditazione. E' possibile che il bolscevismo affoghi nel sangue di un "progrom" di proporzioni catastrofiche. La finanza mondiale è in mano degli ebrei. Chi possiede le casseforti dei popoli, dirige la loro politica. Dietro ai fantocci di Parigi, sono i Rotschild, i Warnberg, gli Schyff, i Guggheim, i quali hanno lo stesso sangue dei dominatori di Pietrogrado e di Budapest. La razza non tradisce la razza. Cristo ha tradito l'ebraismo, ma, opinava Nietzsche in una pagina meravigliosa di previsioni, per meglio servire l'ebraismo rovesciando la tavole dei valori tradizionali della civiltà elleno-latina. Il bolscevismo é difeso dalla plutocrazia internazionale. Questa é la verità sostanziale. La plutocrazia internazionale dominata e controllata dagli ebrei, ha un interesse supremo a che tutta la vita russa acceleri sino al parossismo il suo processo di disintegrazione molecolare. Una Russia paralizzata, disorganizzata, affamata, sarà domani il campo dove la borghesia, si, la borghesia o signori proletari, celebrerà la sua spettacolosa cuccagna. I re dell'oro pensano che il bolscevismo deve vivere ancora, per meglio preparare il terreno alla nuova attività del capitalismo. Il capitalismo americano ha già ottenuto in Russia una concessione grandiosa. Ma ci sono ancora miniere, sorgenti, terre, officine che attendono di essere sfruttate dal capitalismo internazionale. Non si salta, specialmente in Russia, questa tappa fatale nella storia umana. E' inutile, assolutamente inutile, che i proletari evoluti ed anche coscienti, si scaldino la testa per difendere la Russia dei Soviets. Il destino del leninismo non dipende dai proletari di Russia o di Francia e meno ancora da quelli d'Italia. Il leninismo vivrà finché lo vorranno i re della finanza; morirà quando decideranno di farlo morire i medesimi re della finanza. Gli eserciti antibolscevichi che di quando in quando sono colpiti da misteriose paralisi, saranno semplicemente travolgenti ad un momento dato che sarà scelto dai re della finanza. Gli ebrei dei Soviets precedono gli ebrei delle banche. La sorte di Pietrogrado non si gioca nelle steppe gelide della Finlandia; ma nelle banche di Londra, di New York e di Tokio. Dire che la borghesia internazionale vuole oggi assassinare il regime dei Soviets è dire una grossa menzogna. Se, domani, la borghesia plutocratica si decidesse a questo assassinio, non incontrerebbe difficoltà di sorta poiché i suoi “complici”, i leninisti, siedono già e lavorano per lei al Kremlino. MUSSOLINI".

Cospirazione ebrea in Russia. Si legge su "Avventismo Profetico" «La realtà del bolscevismo stesso, il fatto che tanti ebrei sono bolscevichi e che l'ideale del bolscevismo concorda su molti punti con il più sublime ideale del giudaismo — di cui una parte almeno forma la base dei migliori insegnamenti del fondatore del Cristianesimo — ha un grande significato. Ogni ebreo cosciente e riflessivo dovrà esaminarlo con molta attenzione». Il mondo ebreo, gennaio 1929

- La Massoneria è un’organizzazione capitalistica o comunistica? Questi due termini per gli agenti del potere occulto non esistono praticamente…Ebrei e massoni formano un tessuto compatto e potente: quindi per i Massoni come per gli Ebrei, capitalismo e comunismo sono mezzi per il potere pag. 153 

 -  Massoneria e Comunismo: due aspetti della stessa medaglia, cioè l’alto ebraismo occulto, 204 

- Raggiungere un governo mondiale sotto la maschera del socialismo, 16 

- 1848: gli ebrei entrarono nell’ arena politica direttamente ed assunsero un ruolo dominante… nei movimenti liberali. La rivoluzione del 1848 finì per identificarsi con l’emancipazione ebraica, 25 

- Con l’Internazionale e la Comune l’ebraismo uscì allo scoperto: gli ebrei … parteciparono potentemente all’ organizzazione del partito socialista, 26 

- La rivoluzione proletaria comunarda risparmiò scrupolosamente le proprietà degli ebrei, 26 

- The American Hebrew, 10/09/1920: “la rivoluzione bolscevica fu… opera del pensiero ebreo, del malcontento ebreo, dei piani ebrei, lo scopo dei quali era di creare un nuovo ordine nel mondo”, 27 

- “Non vi era una sola organizzazione politica (rivoluzionaria) in questo vasto impero che non fosse influenzata da ebrei o diretta da essi…Gli ebrei sono stati gli artefici della rivoluzione del 1917”, 29 

- B.Lazare (ebreo, 1934): “L’ ebreo Karl Marx, discendente da una serie di rabbini e di dottori, fu un talmudista lucido e chiaro … fu un logico, un ribelle, un agitatore, un aspro polemista, che prese il dono del sarcasmo e dell’invettiva dalle sorgenti ebraiche”, 27 

- 1919: notizie di un’organizzazione segreta ebraico-massonico, la Lega dei Fratelli Internazionali, fondata dall’ ebreo tedesco Mordechai, cioè Karl Marx, 150 

- L’ oro ebreo americano forgiò il bolscevismo e consacrò la rivoluzione d’ ottobre alla causa egemonica d’ Israele, 36 

- Chicago Tribune del 19/06/1920: “Trotzkij (ebreo) conduce i rivoluzionari ebrei al potere mondiale – il bolscevismo non è che un mezzo per i suoi fini”, 36 

- (Oggi) il compito del comunismo è terminato (caduto il 1989): lo scopo era quello di preparare la strada ad una socialdemocrazia universale, 37 

- La forza mondialista ebrea si manifesta nella rivoluzione russa: Lenin (sposato ad un’ebrea) e Kerenskj (34), Stalin, Kaganov, Beria, etc (segue lunghissima lista), 145 

- Cronaca di Londra 1919: “moltissimi ebrei sono bolscevichi e gli ideali del bolscevismo coincidono … con gli alti ideali del giudaismo”, 38 

- Il Comunista (aprile 1919): “la rivoluzione russa è stata firmata soltanto da mani ebree”, 38 

- Finanziamenti massonico-giudaici alla rivoluzione d’ ottobre, 33 

- Jakob Schiff, banchiere ebreo-americano, nell’ aprile 1918 ebbe a dichiarare pubblicamente che grazie al suo appoggio finanziario la rivoluzione russa era riuscita. Tratto dal libro di Meurin "LA SINAGOGA DI SATANA" 

Il comunismo mascherato dall'assenza di classi sociali è un piano per schiavizzare le masse sotto il pugno di ferro degli elitari. La sua origine proviene dal Talmud ebraico.  Gli obiettivi comunista diretti dalla volontà dell'élite, è eliminare la classe media per mezzo di assassini (guerre, fame ecc.) la confisca di tutti i loro beni e possedimenti, permettendo così di restare solo due classi - l'élite e gli schiavi! Il comunismo è la falsificazione finale di "umanità". E' il piano della salvezza - - - ma SENZA Dio. Dio ha promesso nella Sua Parola che alla fine regnerà la giustizia, che ci sarà pace nel Suo regno, e che tutte le persone sono uguali. I comunisti, un gruppo dominato dagli ebrei sionisti, affermano che porteranno la pace nel mondo. Ma la loro definizione di "pace" è l'eliminazione di ogni resistenza alle loro politiche, con qualsiasi mezzo necessario. Quando i comunisti si impadronirono del potere in Russia, dopo la sanguinosa guerra civile che durò dal 1917 fino al 1922, crearono immediatamente un'organizzazione Terroristica che utilizzarono contro il popolo della Russia. Primo si chiamò "CHEKA" (1917-1922), sigle in russo che significano Commissione Straordinaria Russa per combattere la Contro Rivoluzione e il Sabotaggio. Di seguito, il nome si cambiò in "GPU", sigla in russo per Amministrazione Politica di Stato. Dal 1922 al 1934 si trasformò in "OGPU", sigla dell'Amministrazione Politica dello Stato Unificata; posteriormente questi si sostituirono dal "lNKVD" - Commissariato del Popolo per Temi Interni - fino al 1960. In quell'anno tornò a cambiare nome, il quale si ricorda bene: "KGB", sigla di Comitato di Sicurezza per lo Stato. Dalla caduta della Germania nazista nel 1945, si è indottrinata la gente in tutto il mondo mediante libri, film e l'insegnamento nelle scuole, sulle orribili condizioni esistenti in Germania durante il regime di Hitler; e della maniera in cui le persone furono brutalmente arrestate, alcuni dopo essere stati torturati, uccisi e altri inviati in campi di lavoro forzato e in quelli di sterminio. Non metto in dubbio che successero cose orribili a molte persone, tra cui la popolazione civile tedesca, il quale soffrì sotto l'oppressione della Germania nazista. Tuttavia, quello che gli "educatori" in Occidente hanno omesso di menzionare in maniera adeguata, sono le atrocità commesse dai governanti comunisti nell'Unione Sovietica; che furono, nella maggioranza dei casi, molto peggiore. Se i Nazisti versarono fiumi di sangue, i macellai comunisti sparsero oceani di sangue. Perché ogni cristiano che vive in Occidente possa comprendere la brutalità della CECA, lasci che la illustri di seguito: Immaginate qualsiasi città degli Stati Uniti (o altrove), circondato da forze armate e tutte le strade completamente disabilitati. Queste forze entrarono nella città, catturando tutti quelli che lavorano per agenzie locali o federali. Senza alcuna prova, condotti nei principali centri commerciali, dove furono uccisi davanti a un pubblico inorridito. Tra queste persone ci sarebbero tutti i funzionari responsabili dell'applicazione della legge, i lavoratori delle poste, gli operatori di servizi sociali, ecc. Dopo l'obiettivo della CECA fu la scuola pubblica. Lì si catturano tutti i migliori insegnanti e studenti, che furono anche tutti fucilati. Poi fu il turno delle chiese, i pastori, diaconi, insegnanti della scuola di Domenica, individuati tutti i responsabili, furono uccisi senza processo. Dopo, tutti i professionisti, come medici, infermieri, ingegneri, direttori di giornali e altri scrittori, uomini d'affari furono catturati e fucilati nei parchi pubblici. Pertanto, tutte le persone considerate di ceto superiore o della classe media (borghesia), furono catturati e fucilati. La città non ebbe più alcun autorità e la Ceca mantenne lì una guarnigione, la quale svuotò le carceri e i prigioni, collocando i detenuti in posti direzionali per assicurarsi che il resto della popolazione avrebbe obbedito ai suoi nuovi dirigenti. Immaginate che questo succeda in tutte le città del paese dove vivete, senza che rimanga salva nemmeno la più piccola città o comunità. La nazione sarebbe come una persona decapitata, giacendo solo il cadavere. Questo è quello che l'Internazionale Comunista fece in Russia. Fu uno dei peggiori genocidi nella storia dell'umanità. Il paese russo, e quello Ucraino, fu violato e assassinato; e quelli che sopravvissero, lo fecero sotto le peggiori condizioni di schiavismo che l'uomo abbia mai visto. Non appena si creò la Ceca nel dicembre del 1917, la leadership comunista pubblicò una lista dei suoi nemici, i quali dovevano essere eliminati, cioè, assassinati. In alto alla lista c’erano i membri della nobiltà russa (anche donne e bambini), uomini d'affari, tutti gli insegnanti, funzionari di polizia, tutte le persone appartenenti al vecchio sistema giudiziario, tutti i membri delle organizzazioni della società civile, funzionari delle Forze armate precedenti, tutti i chierici, includendo sacerdoti ortodossi e pastori e dirigenti cristiani (battisti e pentecostali). I maestri della Scuola di Domenica hanno considerato i comunisti come una minaccia terribile. Furono obiettivi di sterminio anche gli studenti più in primo piano nelle scuole che - secondo loro - sarebbero diventati potenziali leader di una possibile insurrezione anticomunista. Quando l'inferno arrivò e le bande della Ceca irruppero nelle città e villaggi, sequestrarono i bambini e li condussero alla periferia delle città; lì furono brutalmente assassinati e sepolti nella fossa comune - molti erano ancora in vita mentre furono seppelliti. Le Unità della Ceca erano conformate da dirigenti comunisti ed ex detenuti delle prigioni russe, i quali eseguirono i massacri. Man mano che i bolscevichi continuavano a guadagnare più territorio, tutte le prigioni si andavano vuotando. La brutalità del genocidio dei più illuminati del popolo russo, sarà presentato nel giorno del Grande Giudizio, quando si mostrerà tutta la verità e sarà ristabilita la giustizia da parte del RE dei re, Gesù Cristo (Apocalisse 20:10-15). Sono sicuro che la maggioranza di quelli che stanno leggendo questi fatti le sarà difficile comprendere questa brutalità, perché non ha una "mente criminale". Gli spietati dirigenti comunisti avevano però l'obiettivo di schiacciare il popolo russo per sempre e distruggere qualunque tipo di possibile opposizione contro gli invasori comunisti. Quello che non vi hanno insegnato nella scuola, è che la rivoluzione comunista fu un'invasione straniera da parte di una maggioranza di EBREI RUSSI che furono allenati e formati in Germania, Svizzera, Inghilterra e negli Stati Uniti. In questi momenti alcuni tra i lettori possono diventare nervosi e pensare che quello che scriva è antisemita. Quella che racconto loro è la verità, che è stata rimossa da oltre cento anni, nascosta sotto il coperchio della "PAURA". Se si sforzano di comprovare i fatti storici reali, scopriranno che quella che dichiaro è verità. Ora, lasciatemi citare una fonte che non può essere smentita: il pastore rumeno Richard Wurmbrand, che ha sofferto molto per la sua fede sotto il regime comunista in Romania (Wurmbrand è nato ebreo, ma è diventato un cristiano - vedi Giovanni tre). Citerò i seguenti estratti da un suo piccolo libro, dal titolo "Chi era KARL MARX?", pagine 51 e 52: "Per completare il quadro, qualche parola in più su Moisés Hess, l'uomo che convertì Marx ed Engels all'idea socialista. C'è una lapide in Israele iscritta con le parole: "Moisés Hess, fondatore del Partito Tedesco Social-democratico". Nel Catechismo Rosso per il Popolo Tedesco, Hess espone le sue credenze. "Chi è nero"? Nero è il Clero... questi teologi sono i peggiori aristocratici... il chierico insegna i principi per opprimere il popolo nel nome di Dio. In secondo luogo, insegna al popolo a lasciarsi opprimere e sfruttare, nel nome di Dio. In terzo luogo, il più importante, (il clero) provvede per se stesso, con l'aiuto di Dio, una vita meravigliosa sulla terra, mentre consiglia al popolo di aspettare il cielo... "La bandiera rossa simboleggia la rivoluzione permanente fino alla vittoria completa delle classi lavoratrici in tutti i paesi civilizzati: La Repubblica Rossa... la rivoluzione socialista è la mia religione... gli operai, quando abbiano conquistato un paese, devono aiutare i suoi fratelli nel resto del mondo."

Questa era la religione di Hess (Ebreo) quando fece la prima stampa del Catechismo. Nella sua seconda edizione, aggiunse alcuni capitoli. Questa volta la stessa religione, ossia, la rivoluzione socialista, usa un linguaggio cristiano per accreditare se stessa tra i credenti cristiani. Insieme con la propaganda della rivoluzione, si alternano alcune parole circa il cristianesimo come religione di amore e di umanesimo. Il suo messaggio, però, deve essere chiarito: l'inferno non può essere sulla terra e nel cielo, nella vita ultraterrena. La società socialista è la realizzazione vera del cristianesimo. Così, Satana si maschera da angelo di luce.  Dopo che Hess, ebbe convinto Marx ed Engels all'idea socialista, affermando anzitutto che il suo scopo avrebbe "dato il calcio definitivo alla religione medievale" (il suo amico Georg Jung disse più chiaramente: "Sicuramente Marx disperderà Dio dal suo cielo "), un interessante sviluppo ebbe luogo nella vita di Hess, che aveva fondato il socialismo moderno, creò anche un movimento completamente diverso, una specifica forma di sionismo. Hess, il fondatore del socialismo moderno, il cui obiettivo è cacciare Dio dal "cielo", fu anche il fondatore di un tipo diabolico di Sionismo, quello che supponeva andava a distruggere il Sionismo corretto, il Sionismo di amore, di comprensione e di pace. Egli, che insegnerà a Marx l'importanza della lotta di classe, scrisse nel 1862 le sorprendenti parole: "La lotta per la razza è primaria, lo scontro di classe è secondario". Aveva infiammato l'animo della guerra di classe, fuoco mai estinto, invece di insegnare alle genti a cooperare per il bene comune. Questo stesso Hess, dunque, generò un Sionismo distorto, un Sionismo di lotta di razza, un Sionismo imposto per forza contro gli uomini che non siano della razza ebrea. Così come respingiamo il marxismo satanico, ogni ebreo o cristiano responsabile deve respingere questa diabolica perversione del Sionismo. Hess reclama Gerusalemme per gli ebrei, ma senza Gesù il Re degli Ebrei. Che necessità aveva Hess di Gesù? Scrive: "Ogni ebreo può trasformarsi in un Messia, ogni donna ebrea in una Madre Dolorosa". Allora, perché non fece dell'ebreo Marx un Messia, un Unto di Dio, invece di un uomo pieno di odio, tentando di cacciare a Dio dal cielo? Per Hess, Gesù è "un ebreo che i pagani divinizzarono come suo Salvatore". "Né Hess né gli ebrei sembrano avere bisogno di Lui". Pag. 56: Potrebbe aggiungersi che Hess non fu solamente la fonte originale del marxismo, e l'uomo che cercò di creare un Sionismo anti-Dio (Anticristo), ma anche il predecessore dell'attuale teologia del rivoluzionario Concilio Mondiale di Chiese e delle nuove tendenze nel cattolicesimo che parlano di salvazione. "Uno stesso uomo, quasi sconosciuto, è stato il portavoce di tre movimenti satanici: il comunismo, il Sionismo razzista e pieno di odio, e la teologia della rivoluzione”.  Nella pagina 11 di questo libro, il Pastore Wurmbrand cita una parte di un poema scritto da Karl Marx che s’intitola "il Violinista": " I vapori infernali salgono e riempiono la mente. Fino a che impazzisco e il mio cuore è completamente cambiato. Vedi questa spada? Il Principe delle Tenebre me la vendé." Biografia breve di Moisés Hess. Il suo nome completo era Moritz Moisés Hess, nato nel 1812 a Bonn, Germania, in una famiglia ebrea di ricchi industriali. Moisés morì a Parigi nel 1875 e fu sepolto in Israele. Fu cabalista e seguace di Jacob Frank. In "Judisches Lexicón", Berlino, 1928, pagine 1577/78, fu catalogata come un rabbino comunista e il padre del socialismo moderno. Hess lanciò nel 1841 il periodico "Rheinische Zeitung", e un anno più tardi fece capo di redazione a Karl Marx, che allora aveva 24 anni di età. Hess introdusse Marx in un ordine Massonico e lo convertì al socialismo e dopo al comunismo. Nel 1844, Hess presentò Friedrich Engels a Karl Marx. Engels era più giovane di Marx di due anni. Moisés Hess era anche membro degli Illuminati, e nel 1847 introdusse Marx ed Engels in quest’ordine satanico. Il ramo degli Illuminati al quale appartennero si chiamava "LEGA DEI GIUSTI" (più tardi chiamata LEGA DEI COMUNISTI). Quando posteriormente Karl Marx si trasferì a Londra con la sua famiglia, fu supportato, fino al momento della sua morte, da Nathan Rothschild. Se qualcuno avesse profetizzato nell'anno 1850 che il lavoro di questi tre Ebrei tedeschi qualche giorno condurrebbe alla formazione dell'Unione Sovietica e alla propagazione del comunismo che abbracciò oltre alla metà della popolazione mondiale nel suo momento culminante, nessuno lo avrebbe creduto. La stessa cosa si può dire di Maometto, il fondatore dell'Islam, e di tutti gli altri uomini indiavolati che hanno causato tanta morte e dolore nel mondo attraverso i suoi scritti e malvagi complotti. Oggigiorno, i cristiani non possono discernere le malvagità che questa gente demoniaca sta spargendo; malvagità il cui obiettivo è spingere in questi giorni, l'arrivo dell'Anticristo in questo mondo. Hess morì nel 1875; Marx, otto anni più tardi, nel 1883. Engels visse 12 anni più che Marx, morendo nel 1895. Ebbero però discepoli poderosi che si sarebbero convertiti in nomi importanti dopo la rivoluzione bolscevica del 1917. Ventitré anni dopo la morte di Engels, Vladimir Lenin, la cui madre era ebrea, portò dalla Svizzera un gruppo di comunisti di diverse nazionalità. Questo gruppo attraversò Germania, Svezia e Finlandia fino ad arrivare a San Pietroburgo, in Russia. Con Lenin stava sua moglie ebrea Krupsakaya, la quale svolse un ruolo importante nella rivoluzione. Da New York approdò l'ebreo russo Lev Davidovich Trotzky (vero nome Lev Davidovich Bronstein) con 300 ebrei russi - ben allenati - che si prepararono a New York per convertirsi in ufficiali del futuro Esercito Rosso. A questi devono essere aggiunti altri 90.000 giovani ebrei russi che si erano esiliati temporaneamente in Siberia, o che erano fuggiti della Russia rifugiandosi in differenti paesi europei, allenandosi nell'attesa del momento della presa di potere in Russia. In Russia si unirono al giovane Stalin che era sposato con una donna ebrea. Non ho spazio per nominare tutti gli ebrei sotto la leadership di Lenin (vero nome Vladimir Ilic Ulianov) e, dopo, Stalin. Questi, tuttavia, sono i più importanti: Lenin formò una "troica" (= trio), con Zinoview e Kamenev, entrambi ebrei. Nel 1922 il politburo era formato da Lenin, Zinoviev, Kamenev, Trotzky, Bukharin, Tomsky e Stalin. Quando Lenin morì nel 1924, Stalin si servirono di tutti loro fino a che finalmente li assassinò mediante i suoi agenti. In quest’articolo però, voglio concentrarmi nelle operazioni dell'intelligenza comunista. I seguenti uomini e donne - tutti ebrei - furono leader della Ceca nel 1918, anno quando cominciò il terrore: presidente, Félix Dzerzjinskij (Rufin), alias "L'Acciaio Félix". Direttori aggiunti: Jakov Peters, Sjklovskij, Kneifis, Zeistin, Krenberg, María Chaikina, Sachs, Leontevitj, Delafabr, Blumkin, Alexandrovitj, Zitkin, Zahlman, Ryvkin, Reintenberg, Fines, Goldin, Gelperstein, Knigessen, Deibkin, Schillenckus, E. Rozmirovithj, G. Sverdlov, Karlson, Deibol, Zakis, Janson, Sjaumjan, Seizjan, Fogel, Antonov, Jakov Sorenseon. In solo un anno, 320.000 chierici russi furono assassinati da questa "macchina per uccidere". Secondo i registri del KGB, che diventarono pubblici dopo il 1991, questa "macchina per uccidere" della Ceca sterminò 10.180.000 persone tra il 1918 e il 1920. La brutale guerra civile che l'ebreo Lenin scatenò per sottomettere la Russia, causò altri quindici milioni di morti. Durante la fame nera "provocata" dal 1921 al 1922, morirono altri 5.053.000 russi. Durante i quattro primi anni che Lenin stette nel potere, sterminò oltre trenta milioni di russi. Quando Stalin assunse il potere in Russia, Lazar Kaganovitj si convertì nella sua mano destra. Lazar nacque nel 1893, e alla precoce età di 21 anni si laureò nell'Accademia Ebrea Superiore Talmudica; dopo, l'anno seguente, fu nominato "Gran Rabbino" della Russia. Stalin aveva piena fiducia in Kaganovitj, il quale utilizzò la "macchina per uccidere" dell’Intelligenza per continuare ad ammazzare il popolo russo. Fu Kaganovitj quello che portò l'enorme fame nera del 1932-33, essendo le zone più colpite dell'Ucraina e del Caucaso settentrionale. Tutti gli agricoltori autonomi furono obbligati ad abbandonare le loro fattorie; alcuni di essi furono costretti a fare parte dei "kibbutz" che si denominò "kolchos" in russo. Stalin ordinò che la popolazione russa doveva diminuire; con questo poté vantarsi che non c'era disoccupazione nell'Unione Sovietica, che fu presentata agli occhi dell'Occidente come il "Paradiso" dei Lavoratori. Nel 1933, sei milioni di persone, tra uomini, donne e bambini, morirono di fame. Durante la primavera del 1933, ogni giorno morivano circa 25.000 persone in Ucraina. I sovietici provocarono quindici milioni di morti. Stalin incaricò di questo sterminio tre ebrei comunisti; Lazar Kaganovitj, Jakov Jakovlev (Epstein) e G. Kaminskij.Questi tre uomini decisero quanti agricoltori sarebbero rimasti nell'Unione Sovietica, e quanti altri sarebbero morti di fame o sarebbero stati avviati ai Gulag (campi di lavoro forzato). Lo Storico Valentyn Moroz del dell'Institute for Historical Review ha scritto: - "Il villaggio ucraino era stato a lungo riconosciuto come il baluardo delle tradizioni nazionali. I bolscevichi hanno cercato di infliggere un colpo mortale alla struttura del villaggio perché era la spinta vitale dello spirito nazionale ". La situazione fu tanto grave in Ucraina che nel 1934 si generalizzasse il cannibalismo e i bambini orfani furono condotti a centri specializzati, dove furono sacrificati e i suoi corpi spezzati e venduti alla popolazione. È anche importante evidenziare che Lev Trotsky guidò un'unità in Russia tra il 1929-1931, per pignorare le fattorie dei contadini obbligarli a lavorare in fattorie collettive. Affinché i lettori comprendano i danni causati al popolo russo, prestino bene attenzione in queste cifre fornite. Inoltre le bande di assassini comunisti sacrificarono 17,7 milioni di cavalli, 29,8 milioni di teste di bestiame, 10 milioni di vacche lattiere, 14,4 milioni di maiali e 93,9 milioni di pecore e capre. Il risultato di questa distruzione generalizzata dell'agricoltura in Russia e del suo bestiame per carne e latticini, fu che circa 15 milioni di russi morissero di fame. Queste cifre sono state prese dagli archivi ufficiali del KGB, disponibili dopo la caduta dell'Unione Sovietica nel 1991. Mentre scrivo queste linee, la mia anima piange profondamente man mano che immagino la sofferenza e la distruzione di tutta una nazione, e alle persone che persero perfino tutto quello che avevano, le loro vite, nelle mani di "uomini satanici". I Gulag erano campi di lavoro forzato, uguali o ancora peggiori, dei campi dei nazisti. Esisterono circa 3000 campi di lavoro, sparsi da Murmansk, fino all'ovest della Siberia. Secondo Alexander Solzhenitsyn, per il Gulag passarono tra quaranta e cinquanta milioni di persone tra gli anni 1928 e 1953. Nonostante l'antica Unione Sovietica si ruppe nel 1991, ancora esistono i Gulag. In ogni campo c'erano da 2.000 a 10.000 prigionieri. Non tutti i carcerati, purtroppo, arrivarono ai campi. Molte volte i treni si fermavano durante il tragitto, in pieno inverno e si obbligava a tutti i carcerati di scendere. In quel luogo li costringevano a svestirsi e li irrigavano con acqua gelata, mentre le guardie si burlavano, ridendo e gridando: "Vanno in fumo caldo". Come dire che, con questo tipo di trattamento, non potevano sopravvivere. Durante l'anno 1937, il Comitato Centrale Comunista, decise che la popolazione russa doveva essere soppressa ancora di più. Si ordinò al NKVD che sterminasse un numero di 268,950 persone. I dirigenti allora conclusero che il ritmo del massacro era troppo lento; è cosicché la quota di morti s’incrementò a 48.000 persone. Durante gli anni 1937-38 la NKVD fermò a sette milioni di carcerati politici, dei quali la cifra di assassinati arrivava a 40.000 il mese. I detenuti non avevano commesso nessun delitto. Le unità della NKVD circondavano quartieri e villaggi, e dopo, a caso, caricavano gente come bestiame. Col fine di accelerare il massacro, le casse dei camion che trasportano i carcerati erano ermeticamente chiuse, per permettere che fossero ammazzati con il gas. Come vede, il procedimento di morte con il gas era applicato ancora prima che lo usassero i nazisti. Vittime del comunismo giudaico... 

- URSS, 80 milioni di morti; 

- Cina, 65 milioni di morti (oggi non si sa...); 

- Vietnam, 1 milione di morti; 

- Corea del Nord, 2 milioni di morti; 

- Cambogia, 2 milioni di morti; 

- Europa dell'est, 2 milioni di morti; 

- America Latina, 150.000 morti; 

- Africa, 1 milione e 700.000 morti; 

- Afghanistan, 1 milione e 500.000 morti; 

-movimento comunista internazionale e partiti comunisti non al potere, circa 10.000 morti.

Il totale si avvicina ai 150 milioni di morti.

LA LISTA DELLE VITTIME E' STATA PRESA DA: Libro nero del Comunismo di Stéphane Courtois.

Nel Luglio del 1938, Lavrentii Beria, nato da una famiglia ebrea della Georgia nel 1899, fu nominato capo della NKVD. Beria si trasformò in uno dei peggiori assassini di massa della storia. Inoltre, era molto sadico e con orribili perversioni sessuali. Beria odiava i bambini, ed è per ciò che voleva inviarne il maggiore numero possibile ai campi di lavori forzati. Durante il mese di ottobre del 1940, la NKVD fermò attorno ad un milione di bambini, di età comprese tra i 14 e 17 anni. In città e villaggi, le unità del NKVD sequestravano semplicemente a caso i bambini, facendoli dopo sparire. Nel 1943 sequestrarono ed inviarono ai gulag circa due milioni di bambini. Secondo i registri ufficiali disponibili a Mosca, dopo la caduta del comunismo, circa 20 milioni di russi furono liquidati dai sicari, assassini, di Beria durante la guerra. I soldati e civili russi che erano stati catturati dai tedeschi e, dopo il 1945, obbligati a ritornare in Russia dai soldati nordamericani, furono trattati come nemici e posteriormente fucilati oppure inviati ai campi di lavori forzati. A titolo individuale, Beria utilizzò il suo potere affinché le sue pattuglie sequestrassero ragazze giovani e li conducessero ai suoi quartieri, dove li violava. Dopo che Beria soddisfaceva le sue perversioni sessuali, li assassinava. Ufficialmente Stalin si vantava dicendo che "Beria è per me ciò che Heinrich Himmler era per Adolf Hitler." Nel 1949, Stalin era irritato con la maggioranza degli ebrei con posizioni di leadership nell' Unione Sovietica. I leader ebrei avevano partecipato attivamente alla formazione dello stato d'Israele, canalizzando armi ed ebrei verso la Palestina. In un dibattito all'ONU nel 1948, furono congiuntamente l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti che, contro i britannici ed i francesi, forzarono la votazione affinché gli ebrei avessero un stato proprio: Israele. Stalin utilizzò il suo potere per ordinare la detenzione e l'esecuzione di centinaia di eminenti ebrei russi (una guerra tra ebrei). I leader comunisti ebrei avevano sufficienza forza per deporre a Stalin del suo carico di Segretario Generale del Partito comunista nel 1952. Stalin rispose fermando ad un gruppo di medici ebrei, tacciandoli di assassinare ai comunisti. Di seguito, attaccò tutti gli ebrei del politburo, come a tutti i membri che avevano mogli ebree, arrestandoli. Beria agì, ed i suoi agenti modificarono la medicazione di Stalin; e il 1° marzo del 1953, Stalin ricevé una dose letale di veleno che lo provocò un attacco cardiaco. Stalin perse la parola e tre giorni più tardi morì. Allora successe qualcosa di strano. Beria si trasformò nel capo dell'Unione Sovietica; ed il 23 marzo di 1953, ordinò che circa un milione di carcerati politici, rinchiusi nel GULAG, fossero messi in libertà. Il 27 maggio di 1953, suggerì che i sovietici abbandonassero la Germania Orientale e che la Germania potesse unificarsi. Volle anche consegnare i paesi baltici all'Occidente e ristabilire le autorità locali nell'Unione Sovietica. Allo stesso tempo, Beria cominciò a presentare relazioni pubbliche sui terribili assassini di massa ordinati da Stalin ed a rivelare la verità sul "culto di Stalin."  Allora, Bulganin, Malenkov e Kruschev, attraverso un colpo di Stato, assunsero il potere nell'Unione Sovietica e fermarono a Beria e sei dei suoi più vicini collaboratori. Si celebrò un finto processo nel dicembre del 1953, nel quale furono condannati a morte e fucilati. La persona più influente di Krusciov era Lazar Kaganovitj, ma pochi anni dopo fu cacciato dal potere e mandato in esilio negli Urali. Nel 1964 Krusciov fu costretto a ritirarsi. Questo ebreo russo simbolizza tutta la malvagità che l'uomo può arrivare ad essere. Suona ironico che, il 31 maggio del 1962, l'ufficiale nazi tedesco Adolf Eichmann sia stato eseguito nella forca di una prigione israeliana, dopo che lo si trovasse rifugiato in Argentina, passata la Seconda Guerra Mondiale. Agenti del Mossad israeliano andarono in Argentina; lì lo sequestrarono, lo tirarono fuori clandestinamente dal paese e lo portarono in Israele per giudicarlo per gli assassini in massa di ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Eichmann ammise che era stato solo un amministratore del piano per la detenzione degli ebrei in Germania e nei paesi occupati dai tedeschi; e di inviarli a campi di lavoro dove la maggioranza di essi morì, ossia per malattia, per fame, per il duro lavoro, o semplicemente assassinati in seguito cremati. Eichmann si difese aggiungendo che eseguiva solo ordini, che era solo un ingranaggio nella catena di comando; che egli non era personalmente responsabile. Legittimamente, fu dichiarato colpevole dei crimini contro l'umanità fu impiccato e morì. Però, perché i dirigenti di differenti paesi non hanno elevato il grido verso il cielo contro Iván Serov; e, in particolare, perché la comunità ebrea non parla degli orrendi crimini di Serov? Qui espongo brevemente quello che questo uomo fece mentre viveva: all'età di 17 anni, Iván volle essere ufficiale dell'Esercito Rosso; ma dato che era basso - misurava solo 1,60 metri - entrò nelle Forze Sovietiche dell'Interno, dove realizzò funzioni di intelligenza. Siccome era astuto, divenne direttore della polizia segreta in Ucraina, sotto il comando diretto di Nikita Kruschev che a quei tempi era il segretario del partito Comunista in Ucraina. Iván Serov fu l'addetto della detenzione, deportazione ed assassinio di contadini ucraini durante i terribili anni di fame nera. Quando Stalin intervenne nella guerra civile spagnola (1936-1939), inviò a Serov per lavori di spionaggio e sterminio. Lavorò congiuntamente con individui che arrivarono ad essere comunisti famosi: Goumulka in Polonia e Tito in Yugoslavia. Nel 1939, quando congiuntamente Germania e l'Unione Sovietica attaccarono la Polonia, Serov fu inviato per occuparsi delle deportazioni e le esecuzioni. Serov si cambiò temporaneamente il nome con quello di "Generale Malinov". Un milione e mezzo di cittadini polacchi furono assassinati o deportati. Ci furono assassini di massa nel bosco di Katyn, nella periferia della città di Minsk; lì, 4,000 ufficiali polacchi furono assassinati e sepolti in fosse comuni. L'obiettivo era distruggere l'esercito polacco. Questo assassinio massiccio fu attribuito ai Nazisti, ma finalmente la verità uscì alla luce e si conobbe che fu opera della NKVD. Nel 1940, quando i paesi baltici furono occupati dall'esercito sovietico, Serov fu l'addetto della deportazione e l'esecuzione di un milione di persone in quei paesi. Nel suo infame ordine (001223) che è stato declassificato degli archivi di Mosca, scrisse le seguenti direttive: "Tutte le detenzioni devono farsi all'alba. La famiglia deve essere riunita in una sola stanza, vestita e con la cosa più elementare in quanto a bagaglio. Nella stazione di ferrovia devono separare gli uomini dalle sue mogli che non si vedranno mai più, spiegando loro che sarà fatto una visita medica in luoghi diversi. Tutti i treni devono essere fortemente custoditi. Dopo avere "tolto di mezzo a questi cittadini baltici", Serov fu premiato dietro l'ordine di Lenin. Durante il collasso della Germania, Serov fu inviato di nuovo in Polonia, dove, mediante inganno, potè "registrare" a 200.000 dei combattenti che lottarono per la libertà contro i tedeschi. Posteriormente furono fucilati o deportati nei Gulag. Sedici membri del governo polacco esiliato a Londra che volarono a Varsavia, furono arrestati e mandati a Mosca, e non furono mai più visti. Serov fu quindi inviato al Caucaso e in Crimea, dove schiacciò le rivolte e diresse più deportazioni e uccisioni. Successivamente, fu assegnato a Berlino Est, dove il suo dipartimento lavorò sul rapimento di scienziati tedeschi, congiuntamente con gli arresti di persone regolari da inviare al Gulag. Dopo la morte di Stalin, la cupola utilizzò a Serov per uccidere Beria ed i suoi collaboratori. A quei tempi, tutti i rami di intelligenza sovietica, eccetto il GRU, si fusero in una sola. Il suo primo direttore fu Serov. Circa 64.000 agenti dell'anteriore NKVD di Beria furono assassinati o deportati. Iván Serov Alexandrovitj fu il perfetto burocrate, senza nessun scrupolo in favore del carattere sacro della vita umana. L'unica ragione per la quale non è stato mai giudicato, fu perché ancora il regime al quale servì stava al potere e lo protesse. Dall'Europa no al reato di negazionismo per i crimini commessi dallo stalinismo. La Commissione Europea ha respinto una richiesta avanzata dai governi di Lituania, Lettonia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Repubblica Ceca di proibire e perseguire in tutto il territorio dell'Unione la negazione dei crimini staliniani esattamente come avviene con la Shoah. Il problema è trovare un accordo sulle orrende violenze che hanno insanguinato l'Europa orientale sotto il comunismo. La Russia si oppone all'equiparazione tra i massacri staliniani e quelli hitleriani e anche gli storici sono divisi. Un punto cruciale è la stessa definizione di genocidio, che comprende i tentativi di eliminare gruppi etnici o religiosi, ma non classi sociali. Fu già l'Urss di Stalin, nel 1948, ad opporsi all'introduzione di questa categoria in sede ONU. Bruxelles non è quindi riuscita a trovare un accordo nemmeno sulla natura delle deportazioni nei GULag. Dall'articolo "L’AMERICA VINTA", della D.ssa Lasha Darkmoon si legge tra l'altro: "L’orgia di morte, tortura e saccheggio che seguì il trionfo ebraico in Russia (dopo la Rivoluzione Bolscevica del 1917) non fu mai uguagliata nella storia del mondo. Gli Ebrei erano liberi di praticare le loro più fervide fantasie di omicidio di massa su vittime indifese. I cattolici furono trascinati giù dai loro letti, torturati e uccisi. Alcuni furono addirittura fatti a pezzi, un po’ alla volta, mentre altri furono marcati con ferri roventi, strappati gli occhi con dolori difficilmente immaginabili. Altri furono messi dentro a delle casse, all’interno delle quali venivano introdotti ratti affamati che si accanivano sui corpi. Alcuni furono inchiodati al soffitto per le mani o per i piedi e lasciati a penzoloni fintanto che sopraggiungeva la morte per sfinimento. Altri furono incatenati al pavimento e versato loro in bocca piombo bollente. Molti furono legati a dei cavalli e trascinati per le strade della città mentre la folla si accaniva su di loro con sassi e pedate fino alla morte. Le madri venivano portate nella pubblica piazza dove venivano strappati dalle braccia i loro bambini, i quali venivano buttai in aria per poi essere infilzati al volo sulla punta della baionetta. Le donne cattoliche gravide venivano incatenate agli alberi e i bambini strappati dal ventre materno. “Non dobbiamo mai dimenticare cosa successe quando gli ebrei erano una élite nemica nell’Unione Sovietica,” fa notare tristemente il Prof. Kevin MacDonald. “Il disgusto e il disprezzo per la gente tradizionale e la cultura della Russia fu un importante fattore nell’accanita partecipazione ebraica nei più grandi crimini del 20° secolo.” MacDonald si riferisce al genocidio sistematico di oltre 50 milioni di russi sotto il dominio di Lenin e Stalin: un periodo di assassinii di massa che attraversò ben 36 anni (1917-1953). La nuova elite americana, come ho evidenziato nella prima parte di questo articolo (L’America come Colonia Israeliana), è un elite ebraica. Esattamente come l’elite della Russia bolscevica e dell’Unione Sovietica stalinista. Ed è in sostanza un elite ostile che “detesta la nazione che governa.” Dobbiamo quindi stare in guardia. 

Putin al Museo Ebraico di Mosca: “Il primo governo sovietico era perlopiù composto da ebrei guidati da false ideologie.

Putin: il primo governo sovietico era perlopiù composto da ebrei. Parlando al Museo Ebraico di Mosca, il presidente russo ha affermato che tali politici sono stati guidati da false ideologie.

Il presidente russo Vladimir Putin ha detto che almeno l’80 per cento dei membri del primo governo sovietico erano ebrei.

“Ho pensato a qualcosa solo ora: la decisione di nazionalizzare questa biblioteca è stata fatta dal primo governo sovietico, la cui composizione era perlopiù ebrea per l’80-85 per cento”, ha detto Putin lo scorso 13 giugno nel corso di una visita al Museo Ebraico e al Centro di Tolleranza di Mosca.

Putin si è riferito alla biblioteca del rabbino Joseph I. Schneerson, l’ultimo leader del movimento Chabad-Lubavitch. I libri, che vengono rivendicati dai rappresentanti Chabad negli Stati Uniti, sono stati spostati al museo di Mosca da questo mese.

Secondo la trascrizione ufficiale del discorso al museo, Putin ha continuato dicendo che i politici del primo governo sovietico a prevalenza ebraica “sono stati guidati da false considerazioni ideologiche ed hanno sostenuto l’arresto e la repressione di ebrei, cristiani ortodossi russi, musulmani e membri di altre fedi. Tutti sono stati raggruppati nella stessa categoria.

“Fortunatamente, tali visioni e percezioni ideologiche sono crollate. Ed oggi, stiamo essenzialmente restituendo questi libri alla comunità ebraica con un sorriso felice. “Ampiamente considerato come il primo governo sovietico, il Consiglio dei Commissari del Popolo è stata costituito nel 1917 ed era composto da 16 leader, tra cui il presidente Vladimir Lenin, il capo degli affari esteri Leon Trotsky e Stalin, che era a capo del Commissariato del Popolo delle nazionalità.

Il comunismo, mascherato dall'abolizione delle classi, è un piano per schiavizzare le masse sotto il pugno di ferro dell'élite ebrea. La sua origine è proprio uscita dal Talmud ebraico, e in sostanza tutti i leader importanti della rivoluzione bolscevica comunista erano ebrei, reclutati e finanziati dai banchieri sionisti ebrei di Wall Street a svolgere un ruolo fondamentale nella rivoluzione russa. Karl Marx era un Ebreo. Vladimir Lenin (vero nome Vladimir Ilic Ulianov) era un Ebreo, così come circa l'80% di tutti i leader della rivoluzione bolscevica. «Sulla spada e il fuoco trionfò il giudaismo con il nostro fratello Carlo Marx, l'ebreo che ha il compito di realizzare quanto hanno ordinato i nostri Profeti, elaborando il piano conveniente per mezzo delle rivendicazioni del proletariato». Chi scrisse queste frasi? Un ebreo, naturalmente. Queste frasi possono, infatti, essere lette nel giornale ebreo Haijut di Varsavia, del 3 agosto 1928. Ciò che i bolscevichi, ebrei nella maggior parte, fanno oggi in Russia contro il Cristianesimo, non è che una nuova edizione di quanto fecero i massoni durante la rivoluzione francese. Gli esecutori sono diversi, ma la dottrina che li muove e li autorizza, nonché la suprema direzione e guida, sono sempre le stesse». Cardinale José Maria Caro, E., Arcivescovo di Santiago, Primate del Cile. El Misterio de la masoneria. Diffusione Editoriale, pag. 258

"Non sussiste ormai alcun dubbio sul fatti che gli ideatori del comunismo furono gli ebrei. Essi, infatti, sono stati non solo gli inventori, ma anche gli autori della dottrina su cui poggia quel mostruoso sistema che tiene aggiogato con potere assoluto la maggior parte dell'Europa e dell'Asia, che sconvolge le nazioni americane e si diffonde progressivamente in tutti i popoli, anche cristiani, del mondo. Il comunismo agisce come un cancro letale, si spande come un tumore maligno nelle pieghe più recondite delle nazioni libere. E sembra purtroppo che non esista un rimedio contro tanto male. Non solo, ma risulta altrettanto chiaro che sono gli ebrei gli inventori ed i dirigenti della pratica comunista, della sua efficiente tattica di combattimento, della sua insensibile e spietata politica inumana messa in atto, nonché della sua aggressiva strategia internazionale". Tratto da "Complotto contro la chiesa".

Il mondo crede che gli EBREI hanno il monopolio sul "Ricordo dell’Olocausto." Ma il presidente ucraino Viktor Yushchenko ha gettato gli ebrei una curva dedicando il 2008 come "Anno della Memoria Ucraina dell'Olocausto". Questo "ricordo dell'olocausto", ricorda l'omicidio per fame forzata di 6 milioni di cristiani ucraini, uccisi dai bolscevichi ebrei. Gli ucraini chiamano questo olocausto "Holodomor" che significa "carestia-genocidio." Naturalmente gli ebrei sionisti lo negano. Proprio come negano tutti i loro numerosi crimini contro l'umanità. Lo storico Valentyn Moroz dell'Institute for Historical Review ha scritto: "Il villaggio ucraino era stato a lungo riconosciuto come il baluardo delle tradizioni nazionali. I bolscevichi hanno cercato di infliggere un colpo mortale alla struttura del villaggio perché era la primavera dello spirito vitale nazionale ".

Massoneria e Fascismo. Mussolini e la massoneria. Stemma della Repubblica Sociale Italiana. Rito Simbolico Italiano, scrive Stefania Nicoletti. Il rapporto fra fascismo e massoneria è a dir poco ambiguo e, al di là dei proclami propagandistici di Mussolini, fu tutt’altro che conflittuale, a cominciare dal finanziamento offerto da alcune logge milanesi alle squadre fasciste che si apprestavano a marciare su Roma. Il programma del movimento, per la parte sociale, si poneva il piano della massonica “democrazia del lavoro” e fu elaborato dal “fratello” Alceste De Ambris. Impossibile elencare qui tutti i fascisti massoni: sono davvero troppi, anche tra gli stessi fondatori dei Fasci di Combattimento nel 1919. Tra i più noti: Italo Balbo, Dino Grandi, Roberto Farinacci, Michele Bianchi, Emilio De Bono, Giacomo Acerbo, Achille Starace. E Licio Gelli, la cui ascesa iniziò proprio in seno al regime fascista. Nel dopoguerra, nel carcere romano di Regina Cœli, il futuro fondatore della Loggia P2, che mai rinnegò il suo profondo credo fascista, condivise la cella e strinse amicizia con il principe Junio Valerio Borghese, l’autore del futuro tentato golpe del ’70. La Massoneria di Piazza del Gesù (Gran Loggia Nazionale d’Italia, di rito scozzese, separatasi dal Grande Oriente nel 1908), guidata in quegli anni da Raoul Vittorio Palermi, appoggiò l’ascesa del fascismo. Ma anche l’allora Gran Maestro del GOI Domizio Torrigiani augurò il successo al governo di Mussolini dopo la Marcia su Roma. In seguito, Palermi continuò ad appoggiare il fascismo, arrivando a conferire a Mussolini la sciarpa e il brevetto di 33esimo grado. Palermi figurò anche tra gli informatori dell’OVRA[vi], la polizia politica fascista. Torrigiani invece se ne discostò, pur continuando a mantenere presenze massoniche del GOI nei gangli finanziari dello Stato (emblematico il caso del massone Beneduce a capo dell’IRI). Se è vero ciò che diceva Antonio Gramsci, che la Massoneria fu il vero e autentico partito della borghesia italiana, non si fa fatica a capire come mai appoggiò l’ascesa al potere del fascismo. Il movimento di Mussolini, infatti, si presentava sia come anticapitalista (pur ricevendo finanziamenti dai più grandi gruppi industriali e bancari esteri, soprattutto francesi, inglesi e americani; ma, si sa, pecunia non olet), sia come antibolscevico, anticomunista e antiproletario. Mussolini, nei suoi discorsi demagogici, attaccava sia i grandi industriali sia i proletari. Si presentava quindi come il difensore della piccola e media borghesia, che fu infatti il maggiore sostenitore del fascismo, vedendo in pericolo i propri interessi economici dopo l’occupazione delle fabbriche nel cosiddetto “biennio rosso”. Si unirono così gli industriali del Nord e i latifondisti del Sud, che minacciati dalle lotte degli operai e dei braccianti, trovarono nel fascismo un naturale alleato. Nel blocco confluirono elementi dell’esercito e della burocrazia: quindi una parte non indifferente della base massonica italiana. Nel febbraio del 1923, Mussolini dette però il via a una campagna antimassonica, impartendo agli iscritti del Partito Fascista la direttiva di sciogliere ogni vincolo con le logge. Nel 1925 presentò una legge contro le associazioni segrete, la cosiddetta “Legge contro la massoneria”, che in realtà non cita mai esplicitamente la massoneria, ma parla solo di “associazioni segrete ed operanti anche solo in parte in modo clandestino od occulto e i cui soci sono comunque vincolati da segreto”. Infatti Antonio Gramsci, che in quell’occasione tenne il suo unico discorso alla Camera, ebbe a dire: «La realtà dunque è che la legge contro la massoneria non è prevalentemente contro la massoneria; coi massoni il fascismo arriverà facilmente ad un compromesso. […] Poiché la massoneria passerà in massa al Partito Fascista e ne costituirà una tendenza.» Nel discorso alla Camera del 16 maggio 1925, Mussolini affermava che la società italiana era dominata da un manipolo di uomini mediocri, divenuti potenti solo perché massoni[x]. Ma in un’intervista tessé le lodi della massoneria tedesca, inglese e americana. Tre giorni dopo la legge fu approvata dalla Camera, con 289 sì e solo 4 no. Fra gli assenti al voto, i massoni Aldo Finzi e Dino Grandi. Lo stesso Dino Grandi che il 25 luglio 1943, spinto dai massoni americani (che ebbero un ruolo fondamentale nello sbarco degli Alleati in Sicilia), orchestrò la caduta di Mussolini presentando l’ordine del giorno che lo sfiduciò. E, a proposito di Gran Consiglio del Fascismo, c’è da sottolineare che i quattro quinti del Gran Consiglio che dichiarò fuori legge la massoneria erano formati da massoni. Mussolini sembrava irriducibile nei confronti della libera muratoria: era uno dei pochi socialisti a non aver indossato il grembiulino. Tuttavia affidava i destini finanziari e industriali del Paese a figure come Alberto Beneduce (suocero di Enrico Cuccia), socialista e massone, che il Duce scelse per creare l’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, e in seguito per riorganizzare la Banca d’Italia. Dopo la legge del ’25, oltre ai massoni apertamente antifascisti, ci fu anche chi scelse la via della moderazione e del tiepidismo, rinunciando a esprimere qualsiasi forma di dissenso: così facendo, alcuni massoni continuarono a godere nella società italiana di posizioni anche altamente prestigiose. Questo è il caso, per esempio, oltre che del già citato Beneduce, anche del favorito di Giovanni Agnelli: Vittorio Valletta, direttore generale e amministratore delegato della Fiat dal 1929 al 1946, quando ne divenne presidente. Ma se il Duce, almeno a parole e negli atti pubblici e ufficiali, si scagliava contro la massoneria, non fu così duro nei confronti dei Rosa Croce. Una figura chiave nei rapporti tra Rosa Croce e Mussolini fu Giuseppe Cambareri. Teosofo, rosacruciano ed esoterista, si presentò quale antimassone, giacché i massoni erano ormai troppo invischiati nella politica e quindi contro-iniziati. Fu lui a proporre a Mussolini di utilizzare la “Fraternitas Rosicruciana Antiqua” quale strumento per attenuare l’isolamento dell’Italia, o quantomeno aggirare l’ostacolo delle sanzioni economiche deliberate dalla massonica Società delle Nazioni dopo l’aggressione italiana all’Etiopia. L’Italia era accusata di aver bombardato obiettivi civili, di aver fatto uso di gas asfissianti e di aver colpito bersagli protetti dalla (massonica) Croce Rossa. Il tentativo andò avanti per alcuni anni, almeno fino al 1938. Il 5 marzo 1937 Mussolini ricevette a Palazzo Venezia 120 rosacroce statunitensi dell’AMORC di Harvey Spencer Lewis. Attraverso la mediazione e l’attivismo di Cambareri molti antichi massoni tornarono a ronzare attorno ai poteri forti. Un percorso culminato nella massonica Conferenza di Monaco. Uno sguardo all’estero: il regime fascista di Mussolini fu sostenuto dagli anglo-americani fino a quando l’Italia entrò in guerra a fianco di Hitler (anch’egli finanziato da capitali esteri). Essere sostenuto dagli anglo-americani significa sostanzialmente essere sostenuto dalla massoneria anglo-americana, che è il vero governo-ombra. Solo per fare alcuni esempi: si sa già tutto sull’ “intensa simpatia” che il massone Winston Churchill nutriva nei confronti di Mussolini. Inoltre l’ambasciatore americano in Italia, William Philips, disse che Mussolini aveva “portato ordine dove c’era il caos”. Frase non casuale, dato che ricalca il motto massonico “ordo ab chao” (=“ordine dal caos”). Infine, i simboli. Fondamentali per capire sia la massoneria che il fascismo. Solo per fare un esempio, il sigillo del Rito Simbolico Italiano (formatosi ufficialmente a Milano nel 1876), oltre a contenere i soliti simboli massonici (stella, squadra, compasso), è costituito da un aquila che sovrasta un fascio littorio. Molto simile allo stemma della Repubblica Romana del 1848-49, e identico all’aquila con il fascio littorio che si trova al centro della bandiera della Repubblica Sociale Italiana, lo Stato fantoccio creato dai nazisti e da Mussolini a Salò, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943. Un caso? Tra l’altro: “Rito Simbolico Italiano” =RSI. “Repubblica Sociale Italiana” =RSI. Ma questa sarà sicuramente una coincidenza…

Massoneria e Nazismo. Gli Stati Uniti d'America ed il Regno Unito, come è noto, a Norimberga, nel principale dei processi ai criminali dirigenti del nazismo, assunsero una posizione diversa da quella della Francia e dell'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Questi due paesi infatti rivendicavano che il processo fosse esteso ai protettori e finanziatori del nazismo, ai grandi banchieri ed industriali del nazismo, mentre la scelta dei giudici rimase legata alla volontà degli anglosassoni di condannare solo i diretti responsabili. Nel principale processo di Norimberga, ricordiamo, si ebbero 12 esecuzioni di altrettante condanne a morte.

Le origini occulte ed esoteriche del nazismo, scrive Pierluigi Tombetti. Il partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi ha la sua origine in una delle tante associazioni, o bund, in cui il popolo tedesco tendeva naturalmente a riunirsi: questa si chiamava “Germanenorden” (Ordine dei Germani) e vide la luce il 12 marzo 1912 incorporando l’Hammer–Gemeinden (Lega del Martello) ed altri gruppi antisemiti. Il Germanenorden (GO) convocò nel maggio 1914 a congresso tutte le associazioni nazionaliste germaniche con lo scopo di creare una loggia antisemita segreta da contrapporre all’internazionale ebraica: in agosto i membri del “GO” erano già migliaia con oltre cento logge in cui le idee di List e Lanz von Liebenfels erano discusse ed apprezzate dai membri per il loro antisemitismo e per l’enfasi posta sulla ricerca dell’antica sapienza aria. Sarà nel 1916 che il GO acquisterà il suo elemento di spicco, Rudolf von Sebottendorff: giovane inquieto ed avventuroso, dopo essersi iscritto al politecnico di Berlino si imbarca e viaggia in tutto il mondo. Si ferma al Cairo dove si avvicina al misticismo e all’insegnamento iniziatico dei dervisci Mevlevi (cfr HERA n°31 pag.48). Da queste prime esperienze trae il nucleo dell’insegnamento iniziatico che perfeziona negli anni successivi a Costantinopoli dove rimane al servizio di Hussein Pasha come sovrintendente delle proprietà. Qui Sebottendorff frequenta la famiglia degli ebrei Termudi, ricchi studiosi della Qabbala e proprietari di una vasta biblioteca di testi alchemici e rosacrociani; entra a far parte della loro loggia del rito di Memphis ed elabora un sistema di meditazione e respirazione forzata con tecniche di posizionamento delle mani e del corpo che descriverà in “Die Praxis der alten Turkischen Freimaurerei” (1924). Questa sua attività spirituale si nutre anche della sapienza egizia poiché nel 1900 aveva visitato la piramide di Cheope a Giza, studiandone il significato cosmologico e numerologico, avvicinandosi così alla gnosi occulta delle teocrazie egiziane. Poco a poco Sebottendorff si convince che rune e misticismo islamico hanno un’origine comune e su questa idea continua i suoi studi elaborando una sorta di yoga sillabico, in cui dopo aver assunto speciali posture ed attuato una respirazione canalizzata e controllata, si ripetono alcune sillabe mistiche. Il suo sistema si propone di accumulare il più possibile la forza cosmica all’interno del corpo umano e indirizzarla in punti desiderati così da gustare sapori ed odori sottili fino alla percezione dell’ “ombra nera” che segna l’inizio di una nuova vita spirituale ed il discepolo riceve il nome di Loggia. Il passo successivo porta a gradi superiori di meditazione, fino alla visualizzazione interiore dei colori, qualcosa di simile agli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, che fu uno dei direttori spirituali a cui Heinrich Himmler attinse per le meditazioni SS a Wewelsburg. Le tecniche di Sebottendorff avevano come scopo il miglioramento dell’individuo fino a farlo divenire un essere spirituale completo secondo l’insegnamento della massoneria turca. Una sorta di Pranayama massonico. Sebottendorff tornerà in Germania nel 1913 e si affilierà al “Germanenorden”, diventando il responsabile della sezione bavarese. Con lui troviamo il giovane Walter Nauhaus, studioso di tradizioni esoteriche e cultura nordica ed altri esponenti di quella cultura germanica che mescola esoterismo e ricerca storica sulla scia di Guido von List che ricercano nella cultura ariana una superiore saggezza da contrapporre al potere ebraico in Germania. Se anche il GO era senza dubbio una loggia con intenti antisemiti e politici, non possiamo non riconoscere che un uomo dell’esperienza di Sebottendorff, con una fortissima base esoterica e sapienziale avrebbe apportato nuova linfa spirituale alla loggia bavarese. Le direttive della loggia erano chiare:

1) sarebbe entrato a farne parte solo chi poteva dimostrare la purezza del sangue fino alla terza generazione;

2) Si sarebbe compiuta un’opera di propaganda razziale con dimostrazione scientifica della decadenza dovuta a mescolanza con razze inferiori.

Per ribadire il carattere religioso e massonico dell’ordine, esaminiamo brevemente il rituale di iniziazione dell’ordine. La serata di iniziazione era un evento da frac e ogni nuovo fratello si sarebbe dovuto sottoporre ai controlli frenologici tramite il plastometro, uno strumento inventato da un frenologo di Berlino che prendeva le misure del cranio per verificare l’appartenenza alla pura razza ariana. Mentre i novizi attendevano nella sala attigua, nella sala della Loggia prendevano posto il Maestro sul suo scranno con baldacchino, protetto simbolicamente da due cavalieri in tunica bianca e con elmo adorno di corna. Di fronte sedevano il tesoriere e il segretario mentre l’araldo prendeva posto al centro della stanza. Dalla parte opposta al Maestro, nella zona denominata “Bosco del Graal” era seduto il Bardo e davanti a lui il Maestro di cerimonie in abito blu. Intorno sedevano i fratelli mentre un armonium e un pianoforte suonavano accompagnando un piccolo coro di “elfi della foresta”. Si cominciava con il Tannhaeuser di Wagner. A luce di candela i fratelli si facevano il segno della swastika levogira ed il maestro rispondeva allo stesso modo. I novizi venivano introdotti bendati mentre il Maestro spiegava loro la visione del mondo ario–germanica dell’Ordine e si accendeva la “sacra fiamma del bosco”. Il Maestro brandiva la lancia di Wotan e i due cavalieri incrociavano le spade sopra di essa; aveva luogo poi una serie di chiamate e risposte accompagnata dal Lohengrin e i novizi prestavano giuramento. Seguivano altri rituali in cui venivano personificate figure divine del pantheon germanico creando così un’atmosfera vicina sia al misticismo ariosofico che al rituale massonico. In “Prima che Hitler venisse”, Sebottendorff afferma che le opere di Guido von List e Lanz von Liebenfels “erano un pregevole patrimonio di dati non certo trascurabili, nonostante la mistica oltranzista” e dichiara che Philipp Stauff, noto per le sue ricerche sulle case runiche, riunì nella Associazione dei seguaci di List i simpatizzanti di quest’ultimo. La loggia berlinese della Società Guido von List si scisse e nel 1912 Stauff e i suoi collaboratori entrarono a far parte del Germanenorden. Abbiamo quindi tutti i motivi per affermare che il GO aveva al suo interno elementi guida (Stauff, Nauhaus, Sebottendorff, e altri) che approvavano e praticavano gli insegnamenti di Guido von List e Lanz von Liebenfels. Se aggiungiamo a questo gli esercizi di yoga massonico e la preparazione iniziatica di Sebottendorff che avrebbe influenzato poco a poco gli insegnamenti della loggia bavarese, dobbiamo ammettere che il GO era intriso di una sapienza esoterica che si esprimeva essotericamente con discorsi pubblici nazionalisti ed antisemiti, e attraverso l’organo ufficiale della loggia, “Runen”, (il primo numero uscì nel gennaio 1918) diretto da Sebottendorff che ne era il principale finanziatore. Tra l’altro le cerimonie importanti venivano svolte durante i giorni dei solstizi, come era costume tra gli antichi germani. Lo stemma della società includeva una swastika, secondo gli insegnamenti solari degli ariosofi che i membri sfoggiavano su una spilla. Gli aderenti al GO inoltre portavano un anello con rune con intento apotropaico: lo stesso anello (ideato da Weisthor, il consigliere – mago del Reichsfuehrer SS) che troveremo tra gli ufficiali superiori SS con rune e teschio all’esterno e la firma di Himmler all’interno. Sebotendorff era anche uno studioso di astrologia e preparava ponderosi oroscopi allo scopo di evidenziare il futuro del GO e della Germania. Il 18 agosto 1918 la loggia bavarese del “GO” cambia ufficialmente nome in Thule come copertura per le attività politiche. Thule Bund significa ritorno alla mitica età dell’oro nella zona di origine della civiltà aria. Le cerimonie di iniziazione richiamano alla mitica patria nordica e collegano il rituale massonico ad una religione wotanica solare evidente nei simboli swastika e nell’immagine di Odino sui fogli ufficiali della Loggia. Fra gli ospiti della Thule troviamo personaggi che avrebbero rivestito ruoli chiave nel partito nazista come Alfred Rosenberg, articolista del “Muenchener Beobachter” (il giornale della Thule che si sarebbe trasformato in “Voelkischer Beobachter”, il quotidiano del partito nazionalsocialista) il futuro ministro della cultura, Dietrich Eckart, il maestro spirituale di Hitler e Karl Hausofer Membri invece ne furono Rudolf Hess, occultista e studioso di esoterismo, grande amico di Hitler e Hans Frank, futuro governatore di Polonia. Ma come si giunge dalla Thule al partito nazista? Dopo il primo conflitto mondiale, Hitler, che aveva combattuto in trincea, tornò a Monaco dove lavorò come spia per la polizia locale che voleva raccogliere informazioni sui vari gruppi operanti in città. Nel settembre 1919 egli frequentò una riunione del “Deutsche Arbeiterpartei” (DAP – Partito dei Lavoratori Tedeschi) fondato all’interno del gruppo Thule il 5 gennaio 1919 dal fabbro Anton Drexler in una birreria di Monaco. Hitler rimase colpito dalle idee del nuovo partito che erano in perfetta sintonia con le sue e presentò ai suoi superiori un rapporto favorevole. Fece visita di nuovo al gruppo e si iscrisse con la tessera n° 7. Di lì a poco Hitler ne assunse la presidenza, il nome fu modificato in Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi (NSDAP) e la Thule seppe di aver trovato il proprio capo e il proprio destino politico. Nella Thule Bund si instillava l’idea che le dottrine scientifiche dovessero piegarsi a dimostrare la veracità della dottrina della Razza superiore germaniche con studi ed esperimenti su animali e uomini: ritroviamo qui le idee degli ariosofi che saranno poi realizzate con la tipica precisione tedesca nelle accademie scientifiche SS durante il III Reich. La Thule aveva dunque come scopo la purificazione eugenetica di una élite destinata ad occupare i posti chiave nella guida di una nazione in cerca del sé; la stessa ideologia degli arconti, degli iniziati o dei gerofanti che veniva diffusa dalla corrente teosofica e ariosofica tra la seconda metà del XIX sec. e i primi anni del XX. Tuttavia alla base vi è una nostalgia delle origini, il senso della caduta dalla purezza originale al peccato (la commistione con razze inferiori) e la convinzione che il popolo ebreo rappresentasse la più colpevole di queste razze. A questo punto abbiamo gli elementi per affermare che la società Thule, da cui nasce il nazionalsocialismo come braccio politico, catalizza una corrente di pensiero che si origina da un’ansia religiosa, la Thule crea addirittura propri rituali all’interno della Loggia degli iniziati. In pratica, come nel caso dell’Ariosofia, stiamo assistendo alla nascita autonoma e spontanea di una nuova religione. La società Thule verrà, però, lasciata a sé stessa in quanto Hitler trovava insopportabile l’idea di una conventicola politica che non riusciva ad andare oltre il concetto di società segreta. Decise di trasformare l’Arbeiterpartei in un grande partito di massa mentre la Thule perderà gradualmente di importanza di fronte al NSDAP che sembrava incarnarne meglio l’ideologia. Quando Hitler si avvicinò al gruppo Thule, gravitavano intorno a Sebottendorff personalità curiose che non cercavano solo una riscossa politica tedesca ma approfondivano la cultura ariosofica e studiavano le teorie di vittoria solare del germanesimo sulle razze inferiori; l’emblema della croce uncinata teosofica con a fianco il dio Wotan/Odin delle pubblicazioni della Thule evidenzia la visione pangermanica e pseudo-religiosa del gruppo. Ma per confermare questo aspetto diamo una breve scorsa ai membri più famosi e all’influenza che ebbero su Hitler: Dietrich Eckart. Hitler lo considerava il suo mentore, il maestro a cui ricorrere per consigli e suggerimenti su qualsiasi campo, ritenendolo un uomo dalla superiore conoscenza. Eckart, a sua volta, lo introdusse nella società bene di Monaco che strinse rapporti di simpatia con il Fuehrer, sostenendo finanziariamente il NSDAP. Eckart era anche uno studioso dell’occulto, della magia tibetana e conosceva personalmente alcuni esponenti di questa disciplina. Le lunghe conversazioni che aveva regolarmente con Hitler avrebbero probabilmente fornito l’occasione per trasmettere questa conoscenza. Egli era convinto che una misteriosa e superiore razza ariana ovunque nel mondo e da millenni sarebbe in marcia dal nord al sud e sarebbe costantemente impegnata nel combattimento contro le razze inferiori di sub–uomini (untermenschen). Il destino escatologico del mondo si sarebbe realizzato attraverso la vittoria della stirpe ariana, una salvezza spirituale. Nella Thule Bund troviamo anche Karl Haushofer, che era stato addetto militare a Tokyo. Sembra che negli anni 1903–1908 facesse frequenti visite a Gurdjieff in Asia centrale, seguendone per un po’ gli insegnamenti, ma si tratta di voci non del tutto confermate. Haushofer si dedicò ad uno studio personale sulle dottrine teosofiche e si convinse che i popoli ariani avevano avuto un’origine comune in Asia, forse proprio in Tibet. Qui e nel deserto di Gobi aveva cercato invano l’entrata di Agarthi e aveva stabilito contatti con saggi tibetani che gli avevano trasmesso conoscenze millenarie. Allo scoppio della prima guerra mondiale tornò in Germania e aderì al GO. Al temine della guerra accettò l’incarico di professore di geopolitica presso l’università di Monaco dove approfondì il concetto di sangue e suolo secondo cui la sopravvivenza di una razza dipende dalla conquista del lebensraum (spazio vitale) ottenuta sottomettendo le razze inferiori. Il suo interesse per la scienza esoterica incorporava anche l’astrologia di cui era appassionato cultore; tutti elementi che ritroveremo nella persona di Hitler. Tra l’altro l’astrologia permeava anche gli ambienti dello stato maggiore tedesco. Infatti il generale Ludendorff, che era stato compagno di Hitler durante il tentativo di impadronirsi di Monaco con la marcia del putsch dell’8 novembre 1923, condivideva, insieme al presidente Hindenburg, una credenza che mescolava vari elementi esoterici ed astrologici. Haushofer andava spesso a trovare Hitler durante il periodo di detenzione di Landsberg, dove il Fuehrer fu rinchiuso per aver partecipato al putsch fallito. Le loro lunghe conversazioni vertevano su geopolitica, teorie della razza e origine della stirpe aria. È difficile credere che Haushofer non gli abbia parlato di ciò che più gli stava a cuore e cioè della sua ricerca dell’Agartha e della sapienza tibetana. Le missioni della sezione “SS Ahnenerbe” in Tibet e il ritrovamento di cadaveri di monaci tibetani nel bunker di Berlino nel maggio del ’45 sembrano confermarlo. Ma a Landsberg c’era un altro personaggio che faceva parte della Thule: Rudof Hess. Nato ad Alessandria il 26 aprile 1894 frequentò scuole destinate ai fanciulli più benestanti e allo scoppio del conflitto si arruolò nell’esercito tedesco come fante. Al temine della prima guerra mondiale si iscrisse all’università di Monaco dove studiò economia, storia, geografia (fu allievo di Haushofer) e scienze politiche. Hess incontrò Hitler a Monaco nel 1920, e ne fu affascinato. Si iscrisse al NSDAP con la tessera n° 16 e divenne da subito il secondo di Hitler. Le testimonianze che abbiamo ci parlano di una strettissima amicizia tra Hitler e Hess (l’unico a cui Hitler dava del tu e non del voi) che scelse di internarsi volontariamente a Landsberg per stare vicino al suo Fuehrer: in quei mesi di assidua frequentazione, Hess spiegò a Hitler le teorie di Haushofer e gli parlò dei suoi interessi di occultismo ed esoterismo. Hess era vegetariano, come Hitler, e faceva preparare i suoi cibi con particolari procedimenti bio-dinamici, secondo i precetti della medicina omeopatica. Hitler ed Hess nutrivano un altro interesse in comune: quello per le culture dell’Asia orientale, e per l’astrologia. Hess aveva una cerchia di amici particolari, tutti come lui affascinati dalla conoscenza segreta ariana, ed approfondiva questi argomenti con studi appassionati nella sua biblioteca personale. A Landsberg Hitler, Hess e Haushofer preparano a tre mani il “Mein Kampf”, la dottrina politica espressa essotericamente di una ideologia che ha le sue radici nel movimento teosofico ed ariosofico. In conclusione la nascita del partito nazionalsocialista è legata al Germanenorden, che a sua volta cambiò nome in Thule, la mitica patria degli iperborei (cfr HERA n°29 pag.46). Hitler preferì sempre stendere un velo di segretezza sulle sue attività esoteriche, sul fatto che si era nutrito delle ideologie di von Lanz, che si era fatto ordinare da Lanz confratello dell’ONT e sulle dottrine segrete ariosofiche che condivideva. L’effetto della generale destabilizzazione delle coscienze causato dalla filosofia irrazionalista ed idealista e la spinta ariosofica e patriottica dell’emozione voelkisch si risolse in una manifestazione violenta ed esplosiva dell’archetipo Wotan/Odin. Questo fenomeno si tradusse in pratica durante il III Reich con la dottrina ariana a cui Hitler donò il crisma della legalità in nome della razza superiore. Tratto da: Informazione Consapevole.

Fascismo e comunismo: i figli (degeneri) della guerra. Il Primo conflitto mondiale con i suoi lutti diede vita a due movimenti opposti. Uno voleva il paradiso in terra e scimmiottava le religioni, l'altro militarizzò la società per volontà di potenza, scrive Marcello Veneziani, Domenica 07/12/2014 su "Il Giornale".  La prima guerra mondiale ebbe due figli, uno rosso come il sangue che versò la rivoluzione, l'altro nero come i lutti che causò la guerra: il comunismo e il fascismo. Il primo preesisteva come idea e come movimento. Il secondo aveva fra i precursori il nazionalismo e l'interventismo. Ambedue venivano dal socialismo ma divennero realtà, partito unico e regime sotto i colpi della guerra. Al di là di quel che oggi si dice, a Mussolini gli italiani credettero davvero e non smisero di credere nemmeno nel pieno della seconda guerra mondiale, come documentano Mario Avagliano e Marco Palmieri in Vincere e vinceremo! (Il Mulino, pagg. 376, euro 25). Come testimoniano le lettere dal fronte pubblicate dai due storici, il consenso popolare all'entrata in guerra e anche oltre, fu sincero, «vasto e diffuso» e la partecipazione al regime e all'impresa bellica fu «attiva ed entusiasta». E ben superiore rispetto alla prima guerra mondiale. Per la verità anche Stalin ebbe consenso popolare nel mondo, che in Russia si cementò in chiave patriottica nella seconda guerra mondiale; ma i russi, a differenza degli italiani sotto il fascismo, vivevano sotto il terrore e le sue vittime furono milioni. Ma proviamo a leggere sotto un'altra luce la parabola del comunismo e del fascismo. Una lettura transpolitica, oltre la storia e il Novecento. Il comunismo fu il tentativo fallito di estendere l'ordine religioso alla società e il fascismo fu il tentativo tragico di estendere l'ordine militare alla nazione. Il primo infatti s'imperniò sulla rinuncia all'individualità, sulla comunanza di ogni bene, sulla comune catechesi ideologica e sull'attesa del paradiso, nonché sulla legge egualitaria, degna di un convento, «ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Ma passando da una comunità eletta di frati - che scelgono quel tipo di vita e rinunciano ai beni terreni - all'intera società costretta a osservare quelle norme, il paradiso trasloca in terra e diventa inferno. Gli angeli e i diavoli vengono storicizzati e identificati rispettivamente nella classe operaia e nei padroni, coi loro servi; l'eterno si risolve nel futuro, e dal processo spirituale al processo economico-materiale la scelta totale si fa servitù totalitaria, il convento si fa soviet e poi lager, la comunità si fa Partito e poi Stato, soffocando nel sangue chi si oppone o solo dissente. È nel passaggio dalla comunità al comunismo che la libera rinuncia ai beni terreni e individuali di un ordine conventuale si fa costrizione, tirannia ed espropriazione. La comunione dei beni su base volontaria è una grande conquista, il comunismo egualitario per obbligo di Stato è una terribile condanna. Nel fascismo avviene un processo analogo: i codici, i linguaggi, le divise, i valori eroici attinenti a un ordine militare vengono estesi all'intera nazione, la milizia si trasforma in mobilitazione di massa. La società viene organizzata come un immenso esercito, in ogni ordine e grado, e relativa gerarchia, e viene resa coesa dall'amor patrio e dalla percezione del nemico. I valori di un ordine militare, come credere obbedire e combattere, vengono estesi all'intera nazione. L'impianto del fascismo è tendenzialmente autoritario, perché attiene all'agire e alla milizia, quello del comunismo è tendenzialmente totalitario perché pervade ogni sfera, incluso il credere e il pensare. La guerra come proiezione verso l'esterno e la militarizzazione come orizzonte interno rende il fascismo un regime in assetto di guerra, animato da volontà di potenza e da una fede assoluta nei confini, trasferita anche nei rapporti umani. L'ordine militare come scelta volontaria attiene a un'aristocrazia, ma nel fascismo viene nazionalizzato, si fa Stato-Popolo, coscrizione obbligatoria di massa, inclusi donne e bambini. Il comunismo è la degradazione di un ordine religioso imposto a un'intera società e il fascismo è l'imposizione di un ordine militare a un'intera nazione. Entrambi sono risposte sacrali, idealiste e comunitarie alla società secolarizzata, utilitaristica e individualista: il carattere sacrale del comunismo è sostitutivo della religione, condannata dall'ateismo di Stato; il carattere sacrale del fascismo è integrativo della religione, come una religione epica e pagana della patria in cui sono ammessi più déi e ciascuno domina nel suo regno, storico o celeste. L'archetipo del comunismo è di tipo escatologico, l'archetipo del fascismo è di tipo eroico. La redenzione promessa dal comunismo avviene tramite la rivoluzione dei rapporti di classe. La vittoria promessa dal fascismo avviene tramite le armi. Infatti il fascismo, nato da una guerra, muore in guerra, sconfitto sul campo di battaglia. Invece il comunismo, nato da una rivoluzione, fallisce proprio sul terreno economico, sconfitto sul piano del progresso e dell'emancipazione. Mussolini sta al socialismo come Napoleone sta alla Rivoluzione francese: è il loro antefatto. Se il prototipo ideale del comunismo è la rivoluzione francese, il modello storico del fascismo è il bonapartismo, che su un'impresa militare fonda un nuovo ordine civile. Napoleone da giacobino diventa generale e poi imperatore; il Duce, ex-socialista, segue una parabola affine. Fascismo e comunismo sovietico nascono ambedue dal collasso dell'Ordine preesistente, imperniato sugli Imperi Centrali. La caduta dell'Impero zarista per la rivoluzione russa, la guerra irredentista contro l'impero austroungarico per la rivoluzione fascista. La Madre di ambedue è la Grande Guerra, col suo corredo di sangue e trincea, la leva obbligatoria e lo sgretolarsi del Mondo di ieri sorretto da quell'Ordine. A complicare le cose venne poi il terzo incomodo, nato anch'egli dalla Guerra ma a scoppio ritardato: il Nazionalsocialismo tedesco, da cui scaturì la Seconda Guerra Mondiale, fatale per l'Europa, letale per il fascismo. La storia avrebbe preso un'altra piega se il patto Molotov-Ribbentrop tra Hitler e Stalin avesse retto alla prova del conflitto e all'indole dei due dittatori. In quel caso, probabilmente, la Seconda Guerra Mondiale avrebbe vendicato la Prima e ne avrebbe rovesciato l'esito, seppure con soggetti mutati: l'Urss al posto della Russia, il Terzo Reich al posto della Prussia e dell'Austria asburgica. Salvo una finale resa dei conti tra il comunismo asiatico e il nazismo indoeuropeo. Resta il paradosso della Prima Guerra Mondiale: fu la Grande Guerra a far nascere il fascismo e il comunismo e a galvanizzarli, ma fu la stessa Guerra a decretare la vittoria sul campo delle democrazie liberali e poi l'americanizzazione del mondo. L'ambigua follia della guerra.

Lenin accese la scintilla. Stalin bruciò ogni cosa. Togliatti raccolse le ceneri. Nuove carte provano la continuità politica tra Mosca e il comunismo italiano. Stessa logica, stessi tragici effetti, scrive Giampietro Berti, Martedì 8/04/2014" su "Il Giornale".  Sulla storia dei legami e dei contrasti fra il comunismo sovietico e il comunismo italiano esiste una vasta e varia bibliografia, ma quest'ultimo libro di Giancarlo Lehener (con Francesco Bigazzi), Lenin, Stalin, Togliatti. La dissoluzione del socialismo italiano (Mondadori, pagg. 360, euro 19), è particolarmente istruttivo perché mette in luce l'implacabile logica che sottende l'intera vicenda; logica che trascende la volontà dei singoli uomini. C'è infatti una linea di continuità politica che, senza alcuna degenerazione, inesorabilmente da Lenin, attraverso Stalin, giunge a Togliatti. Essa porterà nel secondo dopoguerra - data la preminenza dei comunisti sui socialisti - a recidere le possibilità riformatrici, e concrete, del socialismo italiano. Il libro prende le mosse dalle tappe fondamentali che portarono un piccolo gruppo di rivoluzionari di professione - Lenin, Trotskij, Stalin e pochi altri - alla fortunata conquista del potere con il golpe dell'ottobre 1917. Come è noto in Russia esistevano allora circa 140 milioni di persone, ma il putsch bolscevico che fece cadere Kerenskij - lo ha ripetutamente ammesso Trotskij - fu attuato da 25mila militanti. Ciò spiega perché fin da subito vennero poste in atto le direttive criminali per annientare ogni forma di opposizione, di destra e di sinistra: così nel 1918 con l'abolizione dell'Assemblea costituente; così nel 1921 a Krondstad, con i marinai insorti, decimati a centinaia su ordine di Trotsky; così, nello stesso periodo, in Ucraina con il movimento contadino machnovista. Scrive Lehener: «Dal 1918 al 1922 una statistica per difetto dà la cifra di 250mila persone assassinate dai cekisti (la polizia segreta)». La sistematica distruzione di ogni opposizione è la prova più evidente della scarsa adesione al regime da parte della popolazione: infatti perché usare tanto terrore, se vi fosse stato un vero consenso al comunismo? Non dimentichiamo che fra il 1935 e il 1941, si deve registrare l'arresto di milioni di persone, di cui almeno sette milioni uccise. Nella fase più acuta del Grande Terrore (1937-1938) furono assassinate 690mila persone, mentre un milione 800mila vennero deportate. Il mito della rivoluzione d'ottobre infiammò comunque fin dall'inizio il movimento operaio e socialista europeo. In Italia diede il via alla rottura fra la componente riformista e quella massimalista, culminata nella drammatica scissione di Livorno del 1921, che portò alla nascita del partito comunista. Come sottolinea Lehener, la conseguenza di questo «errore irrecuperabile» fu l'indebolimento generale delle forze democratiche, e ciò, ovviamente, favorì la vittoria del fascismo. Con l'adesione alla Terza Internazionale, il cui ruolo consisterà nell'essere un mero organo esecutivo delle decisioni prese dal Kremlino, i comunisti italiani, come del resto i comunisti di qualsiasi altro Paese, vennero sottoposti ai diktat di Mosca. L'ascesa di Stalin comportò l'abbandono definitivo di ogni progetto di rivoluzione mondiale, sostituito con l'idea del «socialismo in un solo Paese». Di qui l'ovvia sudditanza del partito all'Unione Sovietica, che generò un contrasto inevitabile al proprio interno circa la linea da tenere di fronte alla nuova situazione acuitasi con l'avvento al potere del dittatore georgiano; contrasto mosso dalla logica dell'epurazione, come è confermato dal conflitto fratricida scatenatosi fra i suoi maggiori esponenti, Gramsci, Togliatti, Bordiga, Tasca, Grieco, Silone, Tresso, Leonetti, Secchia, Ravazzoli, Terracini e altri (con reciproche accuse di tradimento e conseguenti isolamenti, criminalizzazioni ed espulsioni). Inoltre i comunisti italiani, pervasi sempre più dal loro settarismo, attivarono una cieca ostilità contro coloro che non si piegavano alle direttive del Komintern, in modo particolare contro le forze socialdemocratiche, i cui militanti, bollati come «socialfascisti» e «socialtraditori», erano considerati i veri ostacoli della rivoluzione proletaria e spesso ritenuti più pericolosi degli stessi nemici borghesi, compresi i fascisti. La profonda convinzione, del tutto fantastica, del crollo imminente del capitalismo, specialmente dopo il 1929, fu causa di ulteriori settarismi, uniti a un senso di superiorità verso l'intero fronte progressista, dovuta alla certezza di possedere - grazie all'infallibilità del marxismo-leninismo - la conoscenza del processo storico. Dalla preziosa e inedita documentazione raccolta da Francesco Bigazzi si evince l'impressionante clima di terrore instaurato dallo stalinismo. Tutti coloro che si erano rifugiati nell'Urss - gran parte furono uccisi o scomparvero nei Gulag - finirono per spiarsi l'uno con l'altro, e con ciò diventarono zelanti esecutori delle direttive staliniste, compresa la delazione di compagni, per non cadere nelle sgrinfie della polizia politica. Una tragedia immane che non ha prodotto nulla di buono.

GLI ACCORDI SEGRETI DEI GERARCHI.

Churchill-Mussolini. Ecco le (nuove) prove del mitico carteggio. Le lettere tra un capo partigiano e una spia confermano l'esistenza del compromettente documento, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 15/01/2014, su "Il Giornale". Il carteggio Churchill-Mussolini, uno dei documenti più misteriosi della storia contemporanea italiana, torna di nuovo a far parlare di sé. La vicenda è abbastanza nota al grande pubblico. Prima e durante la seconda guerra mondiale il duce del fascismo e il primo ministro britannico intrattennero quasi sicuramente una corrispondenza riservata. Mussolini aveva custodito gelosamente quelle carte, soprattutto da quando le sorti dell'Asse si erano volte inesorabilmente alla sconfitta. Cosa contenevano? Molto probabilmente aperture di Churchill verso il più fragile dei suoi nemici - l'ex primo lord dell'ammiragliato considerava la penisola italiana il ventre molle della «Fortezza europa» del nazifascismo. Il contenuto esatto di quegli scritti non è noto, ma nel marzo del '45 Mussolini confidò ad Alessandro Pavolini: «Questi documenti valgono per l'Italia più di una guerra vinta... perché documentano la malafede inglese». Probabilmente esagerava perché qualsiasi corrispondenza val ben poco a confronto con una disfatta militare. Però di certo se le tenne ben strette durante la sua fuga verso Dongo. Come ricostruito da alcuni storici, a esempio Luciano Garibaldi, il 27 aprile 1945, al momento della sua cattura, Benito Mussolini aveva con sé due borse piene di documenti contenenti - secondo le testimonianze - parte della sua corrispondenza con Churchill. Le due borse furono subito requisite dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi Luigi Clerici. Da quel momento il destino dei documenti diventa meno chiaro. Secondo alcuni testimoni, dopo la produzione di alcune copie, il 4 maggio 1945, il materiale fu esaminato da una commissione formata, tra gli altri, dal segretario della Federazione comunista locale, Dante Gorreri, e dal nuovo prefetto di Como, Virginio Bertinelli. Era materiale scottante, ma forse i partigiani non capirono quanto. Sta di fatto che poi accadde l'incredibile: il 2 settembre 1945, a nemmeno due mesi dalla conclusione della guerra, dopo aver perso le elezioni e non più primo ministro, Winston Churchill si recò sul lago di Como, a trascorrere una breve vacanza nella Villa Apraxin di Moltrasio, dietro falso nome. Forse si trattò di una missione di recupero aiutata e gestita dai servizi segreti inglesi. Infatti dopo quel momento del famoso carteggio non si ebbe più traccia. Ora a questo quadro si aggiunge un nuovo tassello. In una ricostruzione dello storico Roberto Festorazzi pubblicata sul nuovo numero di Oggi emerge che in questo intrigo internazionale ebbe un ruolo rilevante anche un agente dei servizi segreti italiani, Bruno Piero Puccioni (1903-1990). Puccioni era stato un fascista della prima ora e già nella Repubblica sociale in qualità di agente aveva svolto il ruoli di collegamento tra fascisti, partigiani e alleati (le parti si parlavano molto più di quanto si creda). Da una villa del borgo di Damaso, non lontano da Dongo, Puccioni era riuscito a stabilire buoni rapporti con i partigiani moderati tra i quali il nobile fiorentino Pier Luigi Bellini delle Stelle, comandante della 52ª Brigata. Puccioni cercò di elaborare un piano per salvare Mussolini e consegnarlo agli americani. Il piano fallì e Mussolini venne fucilato (non è qui il caso di riaprire la discussione annosa se per volontà partigiana o con una spintarella degli agenti inglesi). Quel che è certo è però che Puccioni e Bellini delle Stelle cercarono anche nel dopoguerra di rimettere le mani sul carteggio. Festorazzi ha ritrovato alcune delle loro missive. Così scrive, secondo Oggi e Festorazzi, Bellini delle Stelle a Puccioni il 7 maggio del '49: «Il carteggio pare sia andato a chi già supponevamo, ma seguendo tutt'altra via da quella che ho dapprima seguito... Pare però che seguendo questa via si possa giungere ad entrare in possesso di una copia fotografica di tutti i 63 fogli...». Il piano dei due ex nemici-amici evidentemente non andò a buon fine. Secondo Festorazzi speravano con quelle carte di far tornare Trieste all'Italia. Di certo questa è un'ulteriore conferma dell'esistenza del carteggio e di quale strada probabilmente prese. Come spiega al Giornale Francesco Perfetti, contemporaneista della LUISS Guido Carli di Roma: «Che il carteggio sia esistito ormai è un fatto che negano soltanto alcuni storici inglesi, più che altro per un non molto sensato amor di patria». E che potesse essere compromettente? «All'epoca senz'altro, chiaro che potesse imbarazzare il primo ministro inglese, anche se non va sopravvalutato. Non credo ci sia al suo interno qualcosa che possa cambiare la Storia. Al massimo le prove di quella Realpolitik che si pratica sempre in tempo di guerra e che era un tratto chiaro e noto del modo di operare di Churchill. Quanto alla simpatia umana che molti conservatori inglesi e Churchill provarono a lungo prima della guerra per Mussolini è cosa nota anche quella».

Riemerge un dossier sulle lettere tra Churchill e Mussolini, scrive Roberto Festorazzi il 13 giugno 2015 su "Avvenire". Winston Churchill nel settembre 1945 soggiornò tre settimane sul lago di Como. Lo scopo della «strana vacanza» è oggetto di discussioni da decenni. Non pare che lo statista sia venuto sul Lario solo per dipingere e riposare... Lo dimostrano, tra l’altro, gli importanti colloqui che ebbe nella villa di Moltrasio dov’era ospite. Il leader conservatore ricevette pure il nunzio in Italia, monsignor Francesco Borgongini Duca, che gli avrebbe riferito le preoccupazioni di Pio XII circa l’eventualità che l’Italia venisse trattata con durezza ai tavoli della pace. L’incontro è confermato da un documento degli archivi americani, pubblicato dallo storico Nicola Tranfaglia: la relazione che il delegato apostolico in Gran Bretagna, monsignor William Godfrey, redasse il 6 novembre 1945 dopo un colloquio con Churchill in cui il premier sostenne che la Penisola, come nazione vinta, non poteva essere interamente libera, ma doveva adeguarsi a una forma di tutela. ​Le discussioni sul carteggio Churchill-Mussolini – la corrispondenza segreta intercorsa tra i due uomini di Stato dalla metà degli anni Trenta almeno fino al 1940, se non oltre – hanno ripreso vigore dopo la pubblicazione dell’ultimo libro di Mimmo Franzinelli L’arma segreta del Duce. La vera storia del carteggio Churchill-Mussolini(Rizzoli). Ai teoremi negazionisti dello storico bresciano che, con toni polemici un po’ sopra le righe, esclude l’esistenza di un simile epistolario, si possono tuttavia opporre molti dati di fatto che militano a favore della tesi opposta. Qui proporremo un’inedita scoperta che consente di aggiungere nuovo pepe alla pietanza. Qualche tempo fa, in una villa della Brianza, è emerso un plico di documenti esplosivi, con l’intestazione «Carteggio Churchill-Mussolini». Si tratta di un dossier appartenuto all’ex proprietario di quella residenza, e incautamente dimenticato nel corso di un trasloco non troppo accurato. Padrone della villa fu un agente segreto britannico, autore di fortunosi recuperi dei dossier esteri che Mussolini portò con sé sul lago di Como, nelle giornate di fine aprile del 1945. Si tratta di Malcom Hector Smith, un personaggio di cui si sa molto poco, ma la cui figura è di grandissimo interesse per penetrare a fondo i misteri del carteggio più controverso della storia. Il maggiore Smith, nato a Palermo nel 1910 da genitori scozzesi e morto a Como nel 1991, non soltanto fu al centro di molti intrighi, ma nel dopoguerra venne incaricato dal governo britannico di restare a occuparsi, in Italia, dei cascami di quei recuperi di «preda cartacea», come una sorta di agente permanente degli interessi della Corona. Sotto l’incarico di copertura di console del Sudafrica, Smith, tra una partita di golf e l’altra, agì così per occultare le tracce di quelle lontane operazioni speciali svolte nella primavera-estate del 1945. Il primo a sollevare il coperchio sui ruoli dell’ufficiale scozzese fu Duilio Susmel, cacciatore di carte ducesche, il quale sulla Domenica del Corriere nel gennaio 1967 scrisse a chiare lettere che questi, nelle giornate di Ferragosto del ’45, aveva disseppellito i carteggi nel giardino di Villa Mantero di Como, dove erano transitati Rachele Mussolini e i suoi figli minori. A fornire indicazioni dettagliate sulla esatta localizzazione dei preziosi fascicoli era stato l’industriale chimico Guido Donegani, padrone della Montedison. Costui, arrestato e rinchiuso a San Vittore con l’accusa di collaborazionismo, aveva barattato la scarcerazione con suggerimenti agli inglesi atti a individuare i nascondigli delle carte. E non è privo di rilevanza osservare che Churchill, durante la sua «strana vacanza» pittorica sul lago di Como nel settembre 1945, soggiornasse proprio nella villa di Moltrasio dell’industriale, recandosi poi in visita a Venegono, località varesina dove Donegani si trovava sotto scorta militare britannica: praticamente «piantonato»! Non è tutto: lo stesso Smith, il 22 maggio precedente, era riuscito a intercettare altri segmenti della corrispondenza Duce-Churchill, occultati nell’imbottitura di una cavallina della palestra Negretti, sempre nel capoluogo lariano. A questo punto torna molto utile considerare il plico dei documenti riemerso dalla ex-villa dell’agente segreto: carte che contribuiscono ad avvalorare ulteriormente questa pista di indagine. Di che cosa si tratta? La busta, oltre a copie di relazioni inedite e sensazionali che descrivono le missioni svolte da Smith nelle settimane successive alla conclusione del conflitto, contiene le trascrizioni in inglese sia dello scoop di Susmel, apparso sulla Domenica del Corriere, sia delle polemiche che ne seguirono. Una prima domanda sorge spontanea: per quale ragione Smith, che parlava correntemente l’italiano, avvertì l’esigenza di tradurre quelle notizie di stampa? Evidentemente qualcuno a Londra, nel governo o nella direzione dei servizi segreti, gli aveva chiesto una relazione dettagliata sull’argomento. Curiosamente, il servizio esclusivo della Domenica del Corriere, «lanciato» dal rotocalco fin dalla copertina, provocò una serie di reazioni. Un ex agente dell’Ovra (il braccio operativo della Polizia politica fascista) scrisse al settimanale per attaccare Smith. Terzilio Borghesi – questo il suo nome – lamentò di essere stato derubato, quando nel maggio del ’45 era stato arrestato a San Maurizio di Brunate da agenti inglesi, tra cui il nostro. Smith replicò alla lettera diffamatoria della spia dell’Ovra, ma – questo è il lato interessante della vicenda – la sua rettifica non riguardava in nulla le notizie sul suo ruolo nella vicenda del trafugamento del carteggio Churchill-Mussolini. In tal modo è come se confermasse indirettamente lo scoop di Susmel. Soltanto poco prima di morire, in un’intervista rilasciata allo storico Marino Viganò, il maggiore Smith ammise ufficialmente di essere stato l’autore di quei recuperi cartacei, chiarendo di aver incontrato lo stesso Winston Churchill durante il soggiorno dello statista britannico sul Lario. Benché lo smentisse a Viganò, l’ufficiale scozzese in privato ad amici e conoscenti rivelava inoltre di aver avuto un ruolo anche nell’epilogo cruento di Mussolini: indiscrezioni di cui è molto difficile valutare il reale fondamento. Le «carte della villa» contengono anche appunti dattiloscritti di Smith, che danno consistenza al suo (finora) evanescente profilo biografico. Egli infatti, trasferitosi in Scozia dopo l’infanzia palermitana, era emigrato in Sudafrica nel 1923, rimanendovi fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Rientrato in Gran Bretagna, era stato poi arruolato nel Field Security Service e nel luglio 1943 era sbarcato in Sicilia con le truppe alleate. Durante la campagna d’Italia, aveva lavorato in stretta collaborazione con il controspionaggio del Sim. In qualità di ufficiale di collegamento britannico, operava alle dipendenze degli alti comandi della sicurezza militare congiunta anglo-americana, cioè agli ordini del G-2 della 5ª Armata americana. Nei suddetti appunti, si riporta, tra l’altro, una dichiarazione del capo dell’808° Battaglione del controspionaggio italiano in zona di operazioni, la quale attesta che «il maggiore Smith e la sua Sezione, composta da 6 uomini più il comandante, aveva "compiti di ricerca delle spie tedesche lasciate dietro le linee alleate"». Nel luglio 1945 Malcom Smith si unì in matrimonio al soprano fiorentino Elda Ribetti. Come d’incanto il padre della sposa, il fascistissimo colonnello di fanteria Alfredo Ribetti, che si trovava agli arresti, venne scarcerato... Semplici coincidenze?

Il carteggio Churchill-Mussolini? Una traccia nei Nationals Archives di Londra, scrivono il 2 settembre 2015 Dino Messina e Eugenio Di Rienzo su "Il Corriere della Sera". La caccia al carteggio segreto tra Churchill e Mussolini, dove il premier britannico, prima del 10 giugno 1940, invitava il capo del fascismo a far entrare l’Italia in guerra a fianco della Germania per mitigare, in caso di sconfitta del Regno Unito, le pretese di Hitler al tavolo delle trattative, ha impegnato per quasi settanta anni, storici della domenica, inguaribili nostalgici del Ventennio nero, giornalisti in cerca di scoop, spregiudicati editori. Solo, nel marzo di quest’anno, come ha scritto Paolo Mieli sulle pagine del «Corriere», questa caccia si è ufficialmente chiusa, definitivamente ci auguriamo, grazie all’importante lavoro di Mimmo Franzinelli (“L’arma segreta del Duce. La vera storia del carteggio Churchill-Mussolini”, Rizzoli). Nel suo studio Franzinelli ci ha rivelato con meritoria pignoleria la lunga storia di falsificazioni e di manipolazioni che si è sviluppata intorno al fantomatico commercio epistolare. Inventato di sana pianta e costruita con molta rozzezza è, infatti, lo schema di accordo dell’11 aprile con la quale l’inquilino di Downing Street chiedeva all’ospite di Palazzo Venezia di catapultare il nostro Paese nella tragedia del secondo conflitto mondiale, in modo da «aiutare la Gran Bretagna nella futura conferenza di pace a frenare il militarismo tedesco e a ottenere la vittoria finale contro di esso», promettendo l’intervento del Governo di Sua Maestà per sostenere le rivendicazioni italiane verso la Francia e per «ripristinare i diritti dell’Italia sul Mediterraneo». Egualmente contraffatta, come numerose altre missive, era la risposta 4 maggio, dove il Capo del Governo italiano informava Churchill di aver ottenuto il consenso di Vittorio Emanuele a quell’accordo.

Tutto falso, tutto da buttare in quel carteggio? Assolutamente sì. E, a titolo di direttore di una rivista storica, voglio qui pubblicamente ringraziare Franzinelli, sicuro che, dopo il suo libro, la mia redazione non sarò più invasa, come tante volte è accaduto, da clamorose rivelazioni sulla diplomazia segreta di Mussolini, opera di pseudo-studiosi dominati dalla teoria del complotto. Come analista del passato, devo però rimproverare all’autore dell’Arma segreta del Duce un errore di metodo e un’insufficienza nella ricerca archivistica che si collegano l’uno all’altra, dando vita a un circolo vizioso storiografico. Per il primo punto devo dire che l’aver dimostrato che lo scambio di missive tra Churchill e Mussolini della primavera-estate del 1940, in nostro possesso, è un apocrifo non vuol dire che non siano esistiti in quello stesso periodo, come Franzinelli presume, negoziati o magari semplici pourparlers con l’Italia, attraverso i quali Francia e Inghilterra cercarono di ottenere l’assicurazione che il Duce in una futura conferenza di pace avrebbe speso la sua influenza a loro favore, in cambio di una sostanziosa contropartita ma soprattutto al fine di arginare la preponderanza del «Reich millenario». Per il secondo punto, mi spiace dover osservare che quanto afferma l’autore dell’ “Arma segreta del Duce”, e cioè che ogni rapporto tra il Mussolini e i leaders delle democrazie liberali si sarebbe interrotto il 19 maggio, dopo il secco rifiuto di Palazzo Venezia a prendere in considerazioni gli inviti di Churchill e Roosevelt a non seguire Hitler nell’avventura bellica iniziata nel settembre 1939, costituisce una grave imprecisione. Un’imprecisione che Franzinelli si sarebbe potuta facilmente risparmiare con un più lungo e fruttuoso soggiorno di studio nei Nationals Archives britannici o più semplicemente grazie a un’attenta lettura dell’ultimo capitolo del lavoro di Emilio Gin, “L’ora segnata dal destino. Gli Alleati e Mussolini da Monaco all’intervento. Settembre 1938 – Giugno 1940!”, pubblicato da Nuova Cultura Editore nel 2012. Negli archivi di Londra, sono conservati, sotto il titolo “Suggested Approach to Signor Mussolini”, i verbali della riunione del War Cabinet del 26 maggio 1940. In quella data, previa intesa con il governo di Parigi, l’esecutivo britannico decideva di inviare a Roosevelt una bozza di accordo, che il Presidente degli Stati Uniti avrebbe dovuto sottoporre all’attenzione di Mussolini. Nel testo, le Potenze occidentali, nel momento in cui il fronte francese si era letteralmente sbriciolato sotto la spallata della Blitzkrieg scatenata dall’esercito tedesco, chiedevano al Duce di offrire la sua collaborazione nelle future trattative con la Germania per assicurare una soluzione di tutte le questioni europee, da cui dipendeva «la sicurezza e l’indipendenza degli Alleati» e la possibilità di garantire «una pace giusta e duratura all’Europa». Qualora Mussolini avesse accettato questa proposta, Londra e Parigi s’impegnavano a non aprire nessun negoziato con Hitler, se questi non avesse consentito all’Italia di partecipare, nonostante il suo status di non belligerante, alla conferenza di pace. Inoltre Churchill e il Primo ministro francese, Paul Reynaud, promettevano formalmente, sotto la malleveria degli Stati Uniti, di ricompensare il governo di Roma soddisfacendo «tutte le sue legittime aspirazioni nel Mediterraneo» che all’epoca comprendevano, in primo luogo, l’internazionalizzazione di Gibilterra e la partecipazione al controllo del Canale di Suez, oltre importanti acquisti territoriali nell’Africa francese. Il cammino per arrivare a questa iniziativa era stato difficile e contrastato. Churchill aveva dovuto, infatti, superare le resistenze di Reynaud, che alla fine si era arreso, contando sullo «sconforto che l’idea di un’Europa dominata da Hitler doveva causare in Mussolini». Anche Roosevelt aveva recalcitrato all’idea di un suo nuovo intervento su Palazzo Venezia, dopo la cattiva accoglienza ricevuta da un suo precedente messaggio, che era stato definito dal Duce un’indebita ingerenza nella politica italiana. Per vincere la ritrosia di Washington, il premier britannico aveva incaricato il Segretario agli Esteri, Halifax, di abboccarsi con l’ambasciatore italiano a Londra, Bastianini, per sondare gli umori di Palazzo Venezia. L’incontro, svoltosi nel pomeriggio del 25 maggio, durante il quale Halifax aveva consegnato al nostro diplomatico la bozza della lettera di Roosevelt, era stato positivo. Con tutte le cautele del caso, Bastianini, che certo non parlava a titolo personale, informava Halifax che il Presidente del Consiglio italiano non avrebbe opposto nessun pregiudiziale rifiuto a partecipare a una «peace conference by the side of the belligerents». Mussolini, aggiungeva Bastianini, era interessato a risolvere tutte le questioni europee, e in particolare ad arrivare a un’equa sistemazione politica e territoriale della Polonia, e aveva sempre pubblicamente manifestato il vivo desiderio di costruire un «accordo generale sull’Europa» che non avrebbe dovuto essere «un semplice armistizio» ma piuttosto un patto di sicurezza collettiva in grado di «salvaguardare la pace del continente per almeno un secolo». Nella mattinata del 27, l’ambasciatore americano Phillips, dopo aver appreso il rifiuto di Mussolini di concedergli udienza, consegnava la lettera di Roosevelt a Ciano, ribadendo che, in caso di risposta positiva, il Presidente degli Stati Uniti sarebbe divenuto «personalmente responsabile per l’esecuzione, a guerra finita, degli eventuali accordi». Con perfetto tempismo, in quella stessa giornata, anche l’ambasciatore francese François-Poncet incontrava il nostro ministro degli Esteri, annunciandogli che, con l’esclusione della Corsica, la Francia era disposta a trattare «sulla Tunisia e forse anche sull’Algeria». La replica di Ciano non lasciava, però, adito a nessuna speranza. La decisione di entrare in guerra era stata ormai presa e se anche il Duce avesse potuto avere pacificamente il doppio di quanto da lui reclamato, egli avrebbe rifiutato. Come ha scritto Emilio Gin, la rinuncia di Mussolini a prendere in considerazione il piano di Churchill obbediva a un calcolo razionale che poco aveva a che fare con l’infatuazione bellicista che gran parte della storiografia italiana gli attribuisce. Il Duce, infatti, non avrebbe potuto tollerare di partecipare ai colloqui per la pace, accanto ad un Hitler trionfante, solo per gentile concessione di Giorgio V e del suo fiacco alleato. In questo caso, la sua posizione sarebbe stata debolissima, del tutto ininfluente, e il Führer, divenuto padrone assoluto del gioco, avrebbe potuto imporre a tutta l’Europa il Neue Ordnung nazionalsocialista, eliminando dalla scena politica Nazioni Neutrali, Paesi occupati, Alleati e la stessa Italia. Solo dopo aver partecipato al conflitto, al “modico” prezzo di «un pugno di morti» per sedersi al tavolo delle trattative, Mussolini poteva dunque far sentire la sua voce con la fondata speranza di essere ascoltato. Come, il 28 maggio, Ciano fece intendere al ministro d’Inghilterra, Percy Lorraine, non esisteva altra via d’uscita dalla guerra scatenata dal Reich se non la partecipazione italiana al conflitto. Si trattava un messaggio cifrato, volutamente ambiguo, che pure fu perfettamente inteso dalle Cancellerie alleate. Fu soprattutto Parigi a penetrare il senso di quell’enigmatico avvertimento e comprendere che nei piani di Palazzo Venezia l’intervento italiano doveva costituire il contrappeso necessario alla vittoria di Hitler. Il 2 giugno, infatti, il Ministro francese della Difesa e degli Esteri, Daladier, sosteneva che il governo di Roma intendeva iniziare una «guerra a termine», che non aveva «precedenti nella storia diplomatica». Dopo sei giorni, il Sottosegretario del Quai d’Orsay Baudouin manifestava al nostro ambasciatore a Parigi, Guariglia, la speranza che Italiani e Francesi potesse adoperarsi nel futuro per colmare l’abisso che attualmente li separava perché alle due Nazioni latine non conveniva né una pax britannica né la vittoria completa di Hitler. La risposta dell’italiano, sebbene fornita a titolo strettamente personale, veniva incontro a quel desiderio. Guariglia replicava che, considerando che il Duce aveva sempre avuto a cuore «la necessità della ricostruzione europea», da raggiungere mediante «una giusta e intelligente politica evolutiva», era forse possibile ipotizzare che egli, in questo triste momento, pensasse di «arrivare agli stessi risultati attraverso la via della guerra». La più forte conferma al fatto che, anche dopo il 10 giugno, Mussolini non intendeva recidere il filo del colloquio con Parigi e Londra è, sempre secondo Emilio Gin, nelle istruzioni impartite agli Stati Maggiori delle nostre Forze Armate, poco prima dell’inizio delle ostilità. Se si eccettua l’offensiva italiana sulle Alpi occidentali, iniziata con inspiegabile ritardo solo il 21 giugno, la guerra del Duce doveva essere, per sua stessa ammissione la replica di quella «guerra seduta» (Sitzkrieg), che per quasi un anno aveva opposto, senza grande spargimento di sangue, gli Alleati e i Tedeschi sul suolo francese. All’Esercito, che con una manovra a tenaglia dalla Libia e dall’Etiopia, avrebbe potuto seriamente minacciare l’Egitto, fu ingiunto di restare con l’arma al piede senza prendere nessuna iniziativa. Alla Regia Marina, che era in condizioni di disturbare efficacemente, se non addirittura di interrompere, i movimenti dei convogli britannici nel Canale di Suez, si ordinò di aprire il fuoco solo se attaccata. All’Aeronautica si diedero disposizioni di soprassedere «fino a nuovo ordine a qualsiasi operazione offensiva» e di vietare ai propri aerei di portarsi a più di dieci chilometri dal confine con la Francia. Furono, inoltre, annullate le incursioni su Gibilterra e Alessandria d’Egitto, già da tempo programmate e fu ridotto d’intensità il bombardamento di Malta dell’11 giugno. Fino a quando i raids effettuati da 36 velivoli della Raf, che nella notte del 12 giugno colpirono Torino e Genova completamente illuminate, come in tempo di pace, non provocarono una escalation militare italiana, era dunque intenzione del Duce di limitarsi a una «guerra di parata», per non pregiudicare il rapporto con Churchill nella futura conferenza di pace, dove sarebbe iniziata la guerra vera, quella contro Hitler. Dopo questo lungo periplo, torno, ora, al punto di partenza. A differenza di Franzinelli e di molti altri storici mainstream, io concordo con Renzo de Felice nel ritenere che, con buona verosimiglianza, la logora borsa di cuoio che Mussolini trascinò con sé nella sua fuga da Milano doveva contenere materiale scottante. Forse non dei documenti che potevano valere per l’Italia «più di una guerra vinta», come il Duce confidò a Pavolini, ma certo delle testimonianze in grado di mettere in seria difficoltà il governo britannico. Allo stesso tempo reputo però che, se questa documentazione è esistita, sia del tutto inutile cercarla perché essa è stata distrutta o sepolta in luogo inaccessibile, nei giorni immediatamente successivi l’uccisione di Mussolini. Uccisione resa possibile, occorre ricordarlo, da un colpo di mano organizzato, come i lavori di Mauro Canali e miei hanno dimostrato, dallo Special Operations Executive, l’organizzazione terroristica che, dall’inizio del conflitto, Churchill aveva posto sotto il suo comando diretto.

Patto Molotov-Ribbentrop. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il patto Molotov-Ribbentrop, talvolta chiamato patto Hitler-Stalin, fu un trattato di non aggressione fra la Germania nazista e l'Unione Sovietica. Venne firmato a Mosca il 23 agosto 1939 dal ministro degli Esteri sovietico Vjačeslav Molotov e dal ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop. Si trattò di una conseguenza della decisione di Stalin, dubbioso della reale volontà delle potenze europee occidentali di opporsi all'espansionismo aggressivo della Germania nazista, di ricercare un accordo con Hitler per contenerne la spinta verso est, per acquisire vasti territori appartenuti all'impero zarista e per dirottare le mire tedesche verso ovest, guadagnando tempo per rafforzare i suoi preparativi militari. Hitler accolse prontamente la sorprendente disponibilità sovietica contando di sfruttare l'accordo per concentrare le sue forze a ovest, senza temere minacce alle spalle pur mantenendo le sue mire strategiche a lungo termine verso le terre dell'est. L'accordo, considerato da alcuni storici uno dei fattori causali determinanti dell'inizio della seconda guerra mondiale (1º settembre 1939), definiva tra l'altro le sfere di influenza del Terzo Reich e dell'Unione sovietica per le zone vicine ai confini dei due Stati. Le conseguenze immediate più importanti del trattato furono la divisione del territorio polacco tra sovietici e tedeschi e l'occupazione delle repubbliche baltiche da parte dell'Armata Rossa. L'equilibrio di potere in Europa, durante la pausa successiva alla prima guerra mondiale, veniva eroso un poco alla volta. Basti pensare alla crisi causata dalla guerra d'Etiopia (1935-1936), che preludeva alla crisi dell'unico organismo di pace internazionale, la Società delle Nazioni; oppure all'accordo di Monaco (1938) che dava mano libera a Hitler nel suo intento di estendere i propri territori (a costo di altri stati come la Cecoslovacchia). Le potenze occidentali, perseguendo la politica chiamata dell'Appeasement, per timore di scatenare un nuovo conflitto mondiale, decisero di consentire alle continue pretese territoriali del Terzo Reich. Visto dalla prospettiva sovietica, un patto con la Germania poteva essere una risposta necessaria al deterioramento della situazione in Europa, a partire dalla seconda metà degli anni trenta, quando la Germania nazista si allineò con l'Italia fascista per formare il gruppo delle Potenze dell'Asse. Da una parte, un patto avrebbe garantito una certa sicurezza all'URSS; dall'altra questa mirava, come la Germania, a rovesciare l'ordine stabilito nel trattato di Versailles, stipulato dopo la prima guerra mondiale dagli Alleati occidentali senza il concorso dei diplomatici sovietici considerati rappresentanti di un'entità politica non riconosciuta internazionalmente (la Russia bolscevica) e minacciosa per l'ordine politico-sociale. Infatti la grande guerra era finita in maniera svantaggiosa anche per i russi: le loro perdite territoriali erano la conseguenza dello stato di debolezza in cui si trovava nel 1918 lo stato sovietico, che allora era appena nato e reduce da sconvolgimenti come la rivoluzione d'Ottobre del 1917 e la guerra civile russa. I territori ceduti ad altri stati erano immensi. Poi si erano formati i nuovi paesi indipendenti interamente sul territorio dell'ex-impero russo: Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania; un simile discorso valeva per i territori occupati dai polacchi nel 1920, a est della linea Curzon; inoltre, l'Unione sovietica era interessata a riprendere il controllo sulla Bessarabia, territorio abitato in larga maggioranza da moldavi, occupato dalla Romania nel 1918 nonostante le inutili proteste sovietiche. Tanto la Germania quanto l'Unione Sovietica erano dunque interessate a sovvertire un ordine stabilito senza che né l'una né l'altra potessero avere voce in capitolo. Il Regno Unito e la Francia erano invece notori garanti dello status quo territoriale, e rimasero in attesa fino alla distruzione della Cecoslovacchia da parte della Germania, resa possibile dalla Conferenza di Monaco: quest'ultima era stata decisa in comune accordo da Adolf Hitler, Neville Chamberlain, Benito Mussolini ed Édouard Daladier il 29 settembre 1938: in seguito all'accordo, il territorio cecoslovacco andava a finire, più o meno direttamente, sotto il controllo di Hitler. Da parte della Francia e del Regno Unito, era stata decisiva la tendenza a cercare compromessi con la Germania allo scopo di evitare un confronto militare: si trattava di quella che veniva chiamata politica dell'Appeasement, una pacificazione ricercata quasi a tutti i costi: infatti, la decisione di cedere alle richieste territoriali dei tedeschi era in contraddizione con l'alleanza franco-cecoslovacca del 1924. Le decisioni prese erano comunque a favore della politica hitleriana di quegli anni, atta a procurare al popolo tedesco il cosiddetto "spazio vitale" in Europa dell'est (Lebensraum im Osten). Nel frattempo, comunque, le due potenze occidentali si erano arrese all'evidenza dei fatti, dato che le loro concessioni non avevano placato, ma anzi stimolato le velleità di Hitler. La politica dell'Appeasement non poteva assolutamente più essere perseguita, dunque l'espansione tedesca doveva assolutamente essere fronteggiata. Così, inglesi e francesi si dichiararono disposti a garantire l'integrità della Polonia già nel marzo del 1939, il che fornì alla Germania un pretesto per disdire un patto di non aggressione stipulato con la Polonia sei anni prima. Per gestire la situazione, i francesi e gli inglesi si sforzarono di trovare un accordo con i sovietici, i quali tuttavia, nella primavera del 1939, stavano negoziando anche con i nazisti e giocavano quindi contemporaneamente su due tavoli. La politica franco-inglese era mal vista dai sovietici per diverse ragioni: durante il 1938 il governo sovietico si era invano offerto di difendere la Cecoslovacchia in caso di invasione tedesca, ma quest'ultima, così come altri paesi dell'area, nutriva dubbi sulle reali intenzioni di Mosca ed aveva preferito appoggiarsi alle potenze occidentali. Il primo Segretario sovietico Stalin, che non era stato invitato alla conferenza di Monaco, cominciò a credere che Francia e Gran Bretagna agissero in accordo con Hitler nell'interesse di porre un freno al comunismo, o che addirittura volessero aizzargli contro una Germania sempre più potente. Del resto, non si trattava di un'impressione del tutto nuova: Stalin aveva già sospettato un certo disinteresse da parte dell'occidente nei confronti di un fascismo in continua avanzata, esemplificato dagli eventi della guerra civile spagnola. Le negoziazioni della primavera del 1939 intraprese da Unione Sovietica e il binomio Francia-Regno Unito per fronteggiare il pericolo tedesco si bloccarono: la causa principale di questo fallimento furono i reciproci sospetti. L'Unione Sovietica cercava garanzie contro l'aggressione tedesca e il riconoscimento del diritto di interferire contro "un cambio di politica favorevole a un'aggressione" nelle nazioni lungo il confine occidentale dell'URSS: anche se nessuna delle nazioni coinvolte aveva formalmente richiesto la protezione dell'Unione Sovietica (alcune nazioni come la Finlandia, la Romania, le repubbliche baltiche e la Turchia consideravano l'Unione Sovietica più pericolosa della stessa Germania), i sovietici annunciarono "garanzie per l'indipendenza di Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Turchia e Grecia". Dall'altra parte, i britannici e i francesi temevano non senza motivo che ciò avrebbe consentito l'intervento sovietico negli affari interni delle nazioni confinanti, anche in assenza di una immediata minaccia tedesca. Con la Germania che chiedeva concessioni territoriali alla Polonia, e di fronte all'opposizione polacca, la minaccia di una guerra era crescente. Ma anche se ci fu uno scambio di telegrammi tra sovietici ed occidentali (non più tardi dell'inizio di aprile) una missione militare inviata via nave dalle potenze occidentali non arrivò a Mosca prima dell'11 agosto. Un punto spinoso era senz'altro l'atteggiamento della Polonia, stato che aveva ripreso ad esistere solo dopo la prima guerra mondiale e che ora si trovava a metà strada tra Germania e Unione Sovietica: il governo polacco temeva giustamente che il governo di Mosca cercasse l'annessione di regioni della Polonia orientale rivendicate dall'Unione Sovietica. Si trattava dei territori ad est della linea Curzon, incorporate nella Polonia nel 1920, considerati dai sovietici come "irredente" (l'Ucraina occidentale e la Bielorussia occidentale). Le rivendicazioni territoriali sovietiche erano fondate non tanto sulle aspirazioni degli abitanti di questi territori ma sulla costatazione oggettiva che la maggioranza della popolazione non era di lingua polacca; vi era piuttosto corrispondenza etnica tra questi territori e quelli dell'Ucraina e della Bielorussia. Dato che la Polonia si rifiutava non immotivatamente di permettere all'esercito sovietico un intervento militare sul suo territorio in caso di aggressione tedesca, la situazione pareva lasciare i sovietici senza nessuna possibilità di contrastare i nazisti prima dell'invasione della Polonia. Questa, dal canto suo si sentiva abbastanza forte grazie alle garanzie di protezione pronunciate da inglesi e francesi; così, nella terza settimana di agosto i negoziati si fermarono: ormai i sovietici sospettavano che sarebbero entrati in un conflitto limitato a loro e ai tedeschi. Anche su questo fronte si svilupparono febbrili reazioni, parallelamente a quanto facevano i sovietici con francesi e britannici. Il Primo Segretario sovietico Stalin aveva aperto, già nel mese di maggio, dei negoziati per un miglioramento delle relazioni con la Germania sostituendo il Ministro degli Esteri Maxim Litvinov con Molotov. L'ebraico e pro-occidentale Litvinov non si addiceva a guidare l'Unione Sovietica verso un accordo con la Germania nazista, visto che era largamente percepito come un sostenitore dell'alleanza con le potenze occidentali e contro i poteri fascisti. La sua sostituzione non era altro che la conferma dell'irrimediabile scetticismo sviluppato da Stalin nei confronti della Francia ed il Regno Unito. Per il momento, Stalin aveva invece approvato il programma di Molotov di provocare una guerra tra la Germania e le nazioni occidentali. Infatti, un avvicinamento ai nazisti avrebbe concesso all'Armata Rossa il tempo di cui aveva assolutamente bisogno per prepararsi a una forse inevitabile guerra contro la Germania. L'esigenza di rimandare il più possibile il confronto era dovuta al fatto che gli apparati governativi e l'Armata Rossa erano stati indeboliti dai quattro processi indetti da Stalin negli ultimi tre anni per eliminare le vecchie prominenze del comunismo sovietico (Grandi purghe). Per quanto riguarda Hitler, questi era convinto che questo accordo avrebbe costretto francesi e britannici a desistere dall'intento di difendere la Polonia. Il fin troppo facile successo diplomatico raggiunto alla Conferenza di Monaco gli aveva dato la falsa sicurezza che i suoi avversari fossero degli smidollati. Spartizione territoriale tra Germania e Unione Sovietica che vede a sinistra la suddivisione come sarebbe dovuta avvenire in base agli accordi, a destra la spartizione effettivamente avvenuta; in blu il Reich tedesco; in celeste gli obiettivi tedeschi, in arancione gli obiettivi sovietici; in rosso l'Unione Sovietica: in realtà gli scopi militari di Hilter andavano ben oltre quelli indicati dalle cartine, tanto che nel 1941 la Germania avrebbe aggredito l'Unione Sovietica. Le negoziazioni riuscirono: concludendo un accordo strategico tedesco-sovietico, Molotov, il 19 agosto propose anche un protocollo aggiuntivo "che coprisse i punti sui quali i Partiti Contraenti erano interessati, nel campo della politica estera". Il trattato veniva reso noto all'opinione pubblica come un patto di non aggressione articolato in sette articoli e della durata di dieci anni. Tuttavia, buona parte dell'Europa orientale veniva segretamente divisa in due sfere d'influenza, una tedesca ed una sovietica, come era previsto in un protocollo supplementare diviso in quattro articoli:

Secondo il primo articolo il confine tra le due sfere doveva coincidere con la frontiera settentrionale della Lituania, che cadeva così nella zona di interesse tedesca. Questo significava che Finlandia, Estonia e Lettonia, espressamente indicate nell'accordo, cadevano nell'area sovietica.

Secondo il secondo articolo la Germania e l'Unione Sovietica stabilivano le rispettive zone di interesse sul territorio della Polonia nell'eventualità di un suo "riarrangiamento politico": le aree a est dei fiumi Narew, Vistola e San rientravano nell'area di interesse sovietica, mentre a quella tedesca spettava la parte ovest. Questa linea di confine si trovava poco più ad ovest della linea Curzon. La questione se la sopravvivenza di uno stato polacco fosse "desiderata" o meno veniva in teoria lasciata in sospeso: secondo il testo, dovevano essere attesi gli sviluppi politici successivi.

Secondo il terzo articolo la Germania dichiarava il suo disinteresse nei confronti della Bessarabia.

Secondo il quarto articolo le due potenze promettevano la segretezza di questo documento aggiuntivo.

Dati gli enormi conflitti di potere tra sovietici e tedeschi, era chiaro ad entrambe le parti che l'accordo stipulato non sarebbe stato rispettato troppo a lungo. Basti pensare ai piani hitleriani di espansione in Europa orientale, la sua teoria di unLebensraum (ossia la ricerca di uno spazio vitale per il popolo che secondo Hitler era giudicato il più forte). Già il 22 agosto, prima della conclusione del patto, Hitler aveva dichiarato: (DE) « Ich brauche die Ukraine, damit man uns nicht wieder wie im letzten Krieg aushungert. » (IT) «Ho bisogno dell'Ucraina, altrimenti ci faranno morire di fame come durante la guerra passata. » (Adolf Hitler)

Il controllo dell'Ucraina, detta "granaio d'Europa", avrebbe assicurato le risorse economiche nel confronto con qualsiasi avversario. Mussolini, non ancora preparato al conflitto, tentò all'ultimo momento di evitare un confronto immediato proponendo per la seconda volta una conferenza a livello europeo, simile quella di Monaco. Stavolta, però, francesi ed inglesi non reagirono concretamente all'iniziativa. Il Duce dichiarò a Hitler che l'Italia sarebbe entrata in guerra soltanto in seguito; nonostante una certa perplessità, quest'ultimo era deciso a procedere anche senza l'apporto italiano per concludere le operazioni prima dei rigori invernali. Il mondo dei paesi democratici reagì con sorpresa e disappunto alla notizia del patto giacché, nonostante la segretezza dell'appendice, la pubblicazione del patto di non aggressione fu interpretata con pessimismo: si prospettava un ridimensionamento o una spartizione della Polonia, eventi che con tutta probabilità avrebbero provocato una guerra. Il 1º settembre, solo una settimana dopo che il patto era stato firmato, la divisione ebbe inizio con l'invasione tedesca, giustificata da un pretesto (il cosiddetto incidente di Gleiwitz: una messa in scena posta in essere da soldati tedeschi camuffati con un'uniforme polacca che attaccarono una stazione radio in territorio tedesco). A sua volta, l'Unione Sovietica attaccò da est il 17 settembre, senza prendere in considerazione il Patto di non aggressione sovietico-polacco concluso sette anni prima. Dopo l'inizio delle operazioni militari contro la Polonia, la costernazione non accennava a diminuire, sia tra i governi che più di tutti avevano temuto un simile risultato, sia tra i tanti sostenitori del comunismo, molti dei quali trovavano incomprensibile che i sovietici fossero scesi a patti con il nemico ideologico nazista. Una famosa vignetta di David Low apparsa sul London Evening Standard del 20 settembre 1939 mostrava Hitler e Stalin scambiarsi un inchino sopra il cadavere della Polonia, con Hitler che diceva: "La feccia della Terra, suppongo?" mentre Stalin replicava "Il sanguinario assassino dei lavoratori, presumo?". La stampa italiana, controllata dal regime, reagiva invece in maniera positiva: Il Corriere della Sera del 24 agosto parlava di uno "splendido successo" delle potenze dell'Asse, non mancando di attaccare la politica di Regno Unito e Francia. Il 28 settembre 1939 i tre deboli Stati baltici non ebbero altra scelta che firmare un cosiddetto patto di assistenza e mutua difesa, che permetteva all'Unione Sovietica di far stazionare delle truppe in Estonia, Lettonia e Lituania; lo stesso giorno un protocollo supplementare tedesco-sovietico trasferiva gran parte della Lituania dalla prevista sfera d'influenza tedesca a quella sovietica. La Finlandia resistette a simili pretese (non volle accettare nemmeno uno scambio di territori con l'URSS a lei favorevole in termini di estensione) e venne per questo attaccata dall'URSS il 30 novembre. Comunque, le truppe finlandesi, pur enormemente inferiori sul piano numerico, erano molto motivate e perfettamente attrezzate per un confronto militare durante la stagione invernale. Dopo più di tre mesi di aspri combattimenti e pesanti perdite da parte sovietica nella seguente guerra d'inverno, l'Unione Sovietica desistette dal suo intento di occupare ed annettersi l'intera Finlandia, in cambio di circa il 10% del territorio finlandese (la Carelia), gran parte del quale era ancora nelle mani dell'esercito finnico (questa cessione sarebbe rimasta definitiva). Nel giugno 1940 i tre stati baltici subirono l'occupazione e la successiva annessione da parte dell'Unione Sovietica. Il 26 giugno 1940 i sovietici posero un ultimatum alla Romania per la cessione della Bessarabia e della parte settentrionale della Bucovina: la richiesta sovietica della Bucovina Settentrionale, un territorio mai appartenuto alla Russia che i tedeschi consideravano mitteleuropeo e che non era stato preso in considerazione nei protocolli del patto di non aggressione, fu una sorpresa non solo per la Romania, ma anche per il Terzo Reich. Senza l'appoggio dei suoi tradizionali alleati, Regno Unito e Francia, Bucarest cedette i territori richiesti, ma da parte sovietica vi fu il mancato rispetto dei patti: i militari rumeni in ripiegamento verso il nuovo confine nei tempi e nei modi concordati furono attaccati proditoriamente, anche con lancio di paracadutisti, dall'Armata Rossa. I soldati sovietici aprirono il fuoco non solo contro i militari rumeni, ma anche contro masse di civili in fuga verso la Romania (si ricordi in merito il massacro di Fântâna Albă). Non paghe, le forze armate sovietiche invasero anche il territorio di Herța, con una maggioranza di popolazione rumena pari a circa il 95% del totale, che non era stato menzionato dall'ultimatum sovietico e che apparteneva alla Romania in epoca anteriore allo scoppio della prima guerra mondiale. Per ritornare alla Polonia, lo stato in fondo maggiormente citato negli accordi segreti, la politica di occupazione tedesca era sin dall'inizio orientata verso la creazione di uno spazio vitale per i tedeschi e lo sterminio degli ebrei. Dato che la teoria nazista delle razze era difficile da estendere ai popoli slavi, era intenzione di Hitler quella di mostrare la differenza tra tedeschi e polacchi con particolare chiarezza, adottando speciali misure. Ad esempio, una parte dei bambini polacchi era destinata alla deportazione nella parte originaria dell'impero tedesco per svolgere le mansioni più umili. La Polonia doveva invece essere germanizzata grazie a due provvedimenti: da una parte era previsto l'insediamento di tedeschi fino ad allora residenti in Germania e nei Paesi Baltici; dall'altra, la cultura polacca doveva essere sostituita da quella germanica. Non diversamente i sovietici miravano a cancellare il "mito" della nazione polacca e decidevano lo sterminio degli ufficiali polacchi che si erano loro consegnati per sfuggire alla cattura da parte dei nazisti: questa decisione era maturata nella consapevolezza che i laureati polacchi al momento dell'arruolamento assumevano automaticamente il grado di ufficiale. Per l'inizio del 1941, gli imperi di Germania e Unione Sovietica condividevano un confine che passava attraverso le odierne Lituania e Polonia. Subito dopo, le relazioni tedesco-sovietiche iniziarono a raffreddarsi e lo scontro tra lo Stato nazista e quello comunista sembrò sempre più inevitabile: esso si sarebbe poi concretizzato con l'inizio dell'operazione Barbarossa (22 giugno 1941). La Germania ruppe il patto due anni dopo che era stato stipulato invadendo l'Unione Sovietica il 22 giugno 1941: come anticipato poc'anzi, quest'azione bellica venne chiamata "operazione Barbarossa". Nel giro di settimane, l'aggressione tedesca venne imitata da una ripresa delle ostilità da parte della Finlandia, il 26 giugno, che iniziava la cosiddetta guerra di continuazione contro l'Unione Sovietica: se il paese scandinavo aveva riscosso simpatie a livello mondiale per le operazioni militari dell'inverno 1939-40, la decisione finlandese di riprendere le ostilità contro Stalin al fianco di Hitler fu criticata dalle potenze occidentali che erano nel frattempo diventate alleate dell'URSS. La Germania nazista trovava nella Finlandia, retta da un governo democratico, un importante alleato per stabilizzare il fianco settentrionale del suo schieramento e minacciare anche da nord Leningrado. La conseguenza più immediata del patto fu senz'altro l'occupazione tedesca e sovietica della Polonia (che quanto alla circostanza aveva affrontato precedenti storici settecenteschi, vedi spartizione della Polonia). La divisione riguardava anche i Paesi Baltici: questi ultimi, entrati alla fine nella sfera di potere sovietica, non riuscirono più a ritrovare la loro indipendenza neppure a conflitto terminato, dovendo invece attendere fino al 1991. Nonostante le previsioni di Hitler, il fatto sigillò definitivamente la fine della politica dell'Appeasement: Hitler dovette rendersi conto che le potenze occidentali non erano più intenzionate ad assistere passivamente all'espansione del Terzo Reich. Dopo l'occupazione della Polonia, Regno Unito e Francia erano ormai in guerra contro la Germania per dare vita al conflitto che più tardi sarebbe stato chiamato seconda guerra mondiale. Si trattava di un confronto drammatico, ma di un evento dalla portata non ancora mondiale: per il momento le due potenze vicine all'Europa, gli USA e l'URSS, ne rimanevano fuori. Era quella che Winston Churchill chiamò twilight war (guerra del crepuscolo). Stalin trasse profitto dal patto. Per lui veniva rimandata l'eventualità di ritrovarsi coinvolto in una guerra su due fronti contro il Giappone e la Germania. Ottenne una "pausa di respiro" di due anni per riorganizzare le strutture sovietiche in attesa del confronto militare con la Germania, cui non era ancora preparato[10]. Peraltro il tempo a disposizione, a causa della confusione e disorganizzazione dell'Armata Rossa e di alcune scelte sbagliate dei dirigenti sovietici, non produsse i risultati sperati e il 22 giugno 1941 l'Unione Sovietica venne colta di sorpresa dall'attacco e subì una serie di pesanti disfatte. Inoltre l'innaturale accordo con il nemico ideologico nazista e la passiva adesione agli ordini di Stalin dei dirigenti sovietici e dei partiti comunisti europei diffuse incertezza e inquietudine tra i militanti. Sempre a proposito dei vantaggi di cui godette Stalin, va aggiunto che la sua sfera di interessi, dopo il confronto militare con la Germania, non sarebbe più stata messa seriamente in discussione (eccezion fatta per la Finlandia). Quindi, il paesi baltici e la parte orientale dello stato polacco sarebbero stati inglobati nell'Unione Sovietica. La Romania vedrà divisa una regione molto importante per la sua storia come la Moldavia in due entità territoriali sotto due stati diversi (quello orientale diventerà infatti sovietico). Questo darà inizio anche ad un progressivo allontanamento culturale tra le genti delle due zone. Dal punto di vista di Hitler l'accordo fu un successo: grazie alla sicurezza acquisita sulle frontiere orientali, la Germania evitò momentaneamente una disastrosa guerra su due fronti e poté schierare la massa delle sue forze all'ovest, guadagnando un predominio decisivo in Europa. Ottenuti questi risultati, Hitler, pur avendo ceduto temporaneamente ai sovietici importanti posizioni strategiche, poté nel giugno 1941 riversare all'est tutto il peso della Wehrmacht, divenuta ora molto più potente ed esperta del 1939, con il sostegno politico-economico di gran parte dell'Europa, assoggettata o alleata con il Terzo Reich.

Peggio Stalin o Hitler? Scrive Arrigo Petacco. L'anniversario della morte di Giuseppe Stalin — 50 anni fa, il 5 marzo 1953, quando il dittatore aveva 73 anni — oltre a consentire ai pochi e malinconici nostalgici del culto della personalità di levare suffragi alla memoria del «grande e amato capo del popolo lavoratore» come lo definivano con reverenza Togliatti e i suoi seguaci, ha anche riaperto il gioco della comparazione. Chi era più criminale, chi ne ha ammazzati di più, chi si merita di finire più in giù dell'altro nelle profondità dell'inferno: Hitler o Stalin? Io me ne guarderò bene dal dare una risposta perché non sarà certo la cinica conta dei milioni di cadaveri, a stabilire il primato fra i due principali protagonisti negativi del secolo scorso. Non ho invece la minima esitazione a indicare il più ipocrita: l'Oscar della doppiezza spetta a Giuseppe Stalin. Hitler, a modo suo, era sincero. Non ha mai tenuto nascosta la sua volontà di sopraffare, il suo razzismo sanguinario. Da quando pubblicò il Mein Kampf nel 1921, il futuro Fuhrer non ha mai fatto mistero dei suoi infernali progetti e chi aderì al suo movimento sapeva di entrare a far parte di una congrega di malfattori. Stalin invece ingannò per decenni il suo e altri popoli promettendo il Paradiso in terra per i lavoratori di tutto il mondo e realizzando invece un sistema infernale che dovunque è stato applicato ha prodotto soltanto miseria, fame, ingiustizia e morte. Ancora oggi a 50 anni dalla morte di Stalin e a 10 dall'implosione epocale dell'Unione Sovietica, c'è qualcuno (soprattutto sui libri di scuola, purtroppo) che si ostina a «salvare» la memoria di Stalin ammettendo certi suoi errori più o meno gravi ma sottolineando che a lui si deve l'industrializzazione dell'Unione Sovietica e soprattutto la vittoria delle democrazie occidentali nella seconda guerra mondiale. Ora, a parte il fatto che lo sviluppo industriale dell'Unione Sovietica costò un tale prezzo di sangue che fa ancora inorridire, è sullo Stalin salvatore delle democrazie che vorrei soffermarmi. Stalin infatti non salvò affatto le democrazie occidentali dalla minaccia nazista ma al contrario ne fu salvato. Molti ancora oggi non sanno o non amano ricordare che nei primi due anni del secondo conflitto mondiale l'Unione Sovietica fu alleata e complice della Germania nazista. Dall'agosto del 1939, quando firmò il patto di amicizia con Hitler, al giugno del 1941 quando con l'«operazione Barbarossa» le armate naziste aggredirono l'Unione Sovietica a tradimento, Stalin aveva sempre aiutato l'«amico» di Berlino a realizzare i suoi piani di conquista. Con Hitler Stalin si spartì la sventurata Polonia, d'accordo con Hitler si impadronì della Bessarabia, dei tre paesi baltici (Estonia, Lituania, Lettonia) e cercò infine di piegare la resistenza degli eroici finlandesi. Non solo: anche quando la svastica sventolava ormai su tutte le capitali europee e l'Inghilterra sembrava ridotta al lumicino, Stalin continuò volenterosamente a rifornire di materie prime le industrie belliche tedesche e continuò anche quando, alla vigilia dell'aggressione, la Germania aveva improvvisamente congelato i propri rifornimenti verso l'Urss. Il 21 giugno 1941, l'inizio di «Barbarossa» fu ritardato di alcune ore per consentire a un treno sovietico carico di preziosa gomma, di oltrepassare il confine russo-tedesco. Poi come è noto le divisioni corazzate germaniche penetrarono in Russia «come una baionetta in un pane di burro». Se Hitler non avesse calcolato male i tempi e se le democrazie occidentali e soprattutto gli Stati Uniti con i loro convogli artici non avessero rimpinguato di armi e di mezzi l'esauste risorse sovietiche, difficilmente l'Armata rossa avrebbe trovato la forza di reagire. L'imputazione quasi giudiziaria che oggi grava su Stalin è quella della smisurata falcidia di vite umane. In questo, milione più milione meno egli eguaglia certamente Hitler ma con una differenza. Salvo il colonnello Roehm, che fece uccidere nella famosa «notte dei lunghi coltelli» perché gli insidiava il potere, Hitler fu leale e collaborativo con tutti i suoi principali gerarchi. Stalin invece, tutto istinto, rozzezza, crudeltà, passionalità vendicativa, in nome di un idilliaco paradiso socialista che non arrivava mai, portò milioni di individui a morte, comprese schiere di comunisti sinceri che credevano ciecamente in lui. L'immane carneficina cominciò subito dopo la sua conquista del potere. Liquidò per primi gli altri membri della «cinquina» dei possibili eredi nominati nel famoso testamento di Lenin fra i quali forse non a caso lui era collocato all'ultimo posto (Trotzcky, Bucharin, Kamenev, Zinoviev e Stalin) poi liquidò il 95% dei componenti del comitato centrale, quindi il 90% dello stato maggiore dell'Armata rossa con in testa il famoso maresciallo Tukacewsky; e il tragico balletto delle cifre potrebbe continuare a lungo. Ancora alla vigilia della sua morte, Stalin aveva appena avviato «il caso dei medici» prologo di una nuova purga che puntava a eliminare tutti i suoi possibili concorrenti e in particolare l'altro genio del male Laurenti Beria il quale, secondo alcune ipotesi, avrebbe giocato d'anticipo affrettando la fine del dittatore. Oggi il mito di Stalin è ancora vivo e sopravviverà a lungo. Non c'è dubbio infatti che l'uomo ha lasciato una profonda impronta nella storia del mondo. Ancora a lungo storici e studiosi si affanneranno per studiare la complessa psiche di questo personaggio che fu certamente l'uomo più amato e più odiato della storia. Continueranno anche a cercare di individuare la molla segreta che fece scattare nel rozzo ex-seminarista di Tbilisi la sua inarrestabile volontà di potenza. Fra le ipotesi finora avanzate ne sono emerse anche di singolari. L'ultima, più curiosa, addebita il temperamento di Stalin alla sua statura. Il «piccolo padre» era infatti piccolo di nome e di fatto. Misurava appena un metro e cinquantotto. 

IL MUSSOLINI LIBERALE.

Quando la disobbedienza cambia la storia. La "disobbedienza" non è stata sempre negativa. Qualche volta ha rappresentato un fattore di accelerazione verso la modernità e verso la conquista delle libertà civili, scrive Francesco Perfetti, Lunedì 17/03/2014, su "Il Giornale". Qualcuno «il gran rifiuto» lo fece «per viltade». Come Celestino V. Dante Alighieri nel III canto dell'Inferno lo bollò e lo condannò a una sorta di infamia sempiterna. Ma «il gran rifiuto» fu, in realtà e a ben vedere, un atto di coraggio che sconfessava, non appena egli si rese conto che la sua elezione era frutto di trame e intrighi curiali, quello «spirito di obbedienza» che lo aveva spinto - lui, un povero benedettino abituato a vivere in solitudine quasi eremitica - ad accettare il soglio pontificio. In un certo senso, insomma, quel «gran rifiuto» fu una manifestazione di vera e propria «disobbedienza» e di denuncia, che aprì la strada al pontificato di Bonifacio VIII, il papa, grande e controverso, del Giubileo e dello «schiaffo di Anagni». La disobbedienza nella storia (non solo, e non tanto, la disobbedienza civile, quella teorizzata da Henry David Thoreau, praticata dal Mahatma Gandhi e da Martin Luther King) si è trasformata, talvolta, addirittura in una sorta di «potere costituente». Quando, per esempio, il 16 dicembre 1773, nel porto di Boston, i Sons of Liberty, travestiti da indiani Mohawak, gettarono in mare 45 tonnellate di tè, fu posto in atto un gesto di disobbedienza dei coloni nei confronti della vessatoria tassazione commerciale inglese: un gesto che avrebbe rappresentato la prima scintilla della rivoluzione americana. Alle origini, insomma, degli Stati Uniti vi fu una protesta clamorosa contro una legislazione percepita come ingiusta: e fu una protesta, per dir così, «creatrice», nata dalla volontà di rifiuto delle iniquità della legge e dei soprusi del potere. Ancora un esempio. Quando il 12 settembre 1915 Gabriele D'Annunzio alla testa di un manipolo di legionari, partiti da Ronchi, fece il suo ingresso a Fiume e dette inizio alla «bella oltre le belle imprese» inaugurò un'epoca nuova destinata ad avere conseguenze enormi nella storia italiana (e non solo italiana). A Fiume nacque un vero e proprio Stato con un suo ordinamento costituzionale, con un suo apparato amministrativo, con una sua politica estera. Ma, soprattutto, Fiume diventò un vero e proprio laboratorio di esperimenti politici destinati a incidere in profondità sulle mentalità, sui comportamenti e sui fatti degli anni a seguire. Lì furono gettate le basi della «politica del consenso» e vennero impostati, nel bene o nel male, i dogmi e i rituali delle «religioni secolari» di destra e di sinistra del XX secolo. Anche dietro l'impresa di Fiume vi fu un atto di «disobbedienza» nei confronti del governo rinunciatario e di protesta contro la «vittoria mutilata». Sempre un atto di «disubbidienza», sia pure di natura diversa, fu, durante la Seconda guerra mondiale, il «gran rifiuto» delle centinaia di migliaia di soldati italiani catturati e internati nei territori del III Reich dopo l'armistizio, i cosiddetti Imi, a collaborare con i nazisti e i fascisti per non venir meno, anche a costo di sofferenze e di rischi personali, al giuramento di fedeltà al Re. Fu una pagina bella - raccontata anche da testimoni come Giovanni Guareschi e Giovanni Ansaldo nei loro diari - che andrebbe annoverata fra le più luminose della Resistenza e che, invece, una vulgata storiografica costruita sul mito resistenziale elaborato dalla cultura gramsci-azionista si sforza di mettere in ombra per nascondere o minimizzare il contributo fornito alla lotta per la libertà da partiti, movimenti, individui non comunisti. La «disobbedienza», insomma, non è stata sempre negativa. Qualche volta ha rappresentato un fattore di accelerazione verso la modernità e verso la conquista delle libertà civili. Qualche altra volta si è rivelata un antidoto contro «le ingiustizie della giustizia» o contro, vien da dire parafrasando D'Annunzio, «la giustizia mutilata». Del resto, a proposito di giustizia violata, anche il teorico della «disobbedienza civile», Henry David Thoreau, ebbe qualcosa da sottolineare: «La legge non ha mai reso gli uomini neppure poco più giusti; e, anzi, a causa del rispetto della legge, perfino gli onesti sono quotidianamente trasformati in agenti di ingiustizia». Parole sante che fanno riflettere.

Uno sguardo liberale su tutte le rivoluzioni, scrive Francesco Perfetti, Domenica 09/02/2014, su "Il Giornale". Nel corso di una lezione tenuta nel novembre 1990 e dedicata alla storiografia del gruppo di Les Annales, Renzo De Felice presentò François Furet (1927-1997) come «simbolo» della crisi di questa scuola storiografica finita, a suo parere, nella deriva di una sterile e ripetitiva microstoria. Raccontò di aver conosciuto Furet in occasione di un convegno sull'Olocausto organizzato a Parigi da Raymond Aron e di essere rimasto colpito dalla sua vivacità intellettuale e dal fatto che le sue osservazioni erano tanto stimolanti da essere al centro della discussione. Aggiunse che, di persona, lo storico francese era «uomo antipaticissimo» anche se, aggiunse, «veramente di antipatici di questo genere ce ne vorrebbero molti». All'epoca Furet non aveva ancora pubblicato Il passato di un'illusione, che sarebbe diventato per il De Felice degli ultimi anni una sorta di livre de chevet e un punto di riferimento obbligato. Mi sono sempre chiesto, anche alla luce dei rapporti amichevoli che si stabilirono in seguito con lo studioso francese, come mai De Felice avesse ricavato, da quell'incontro occasionale, l'immagine di un Furet «uomo antipaticissimo». Per quel che posso testimoniare, l'impressione che io ne ebbi quando mi capitò, anni più tardi, di conoscerlo e intervistarlo oltre che di coinvolgerlo in qualche iniziativa, fu ben diversa: quella di un uomo tutt'altro che antipatico, sportivo e spesso informale nell'abbigliamento, dotato di un qual certo humour, riservato, per nulla accademico, gentile e disponibile, con uno sguardo percorso da una vena di malinconia. Mi ha colpito, a conferma della mia impressione, il fatto che la prima e importante biografia intellettuale di Furet, scritta da Christophe Prochasson sulla base delle carte dello studioso affidate dalla vedova all'Institut Raymond Aron, abbia come titolo Les chemins de la mélancolie (Stock, pagg. 568, euro 24), quasi a indicare nella malinconia la cifra interpretativa di un percorso intellettuale e politico, sofferto e problematico, fatto di illusioni e disillusioni: ma un percorso, tutto sommato, assai meno contorto e più lineare di quanto non faccia pensare la sua antica (e troppo spesso ricordata) appartenenza al partito comunista francese. Questa, in realtà, durò relativamente poco, perché Furet (che era nato nel 1927 a Parigi da una famiglia della buona borghesia francese) si iscrisse al partito comunista nel 1949 ma ne uscì, non molti anni dopo, nel 1956, nemmeno trentenne, all'indomani dell'invasione sovietica dell'Ungheria. Pur gravitando nell'orbita socialista, in fondo egli andava maturando, anche grazie agli studi sulla rivoluzione francese cui aveva cominciato a dedicarsi proprio allora, una visione profondamente liberale. Se c'è un appunto da fare al bel libro di Prochasson, questo riguarda il tentativo di far apparire Furet in qualche misura sempre legato all'orizzonte intellettuale della gauche francese. Gli studi di Furet sulla rivoluzione rappresentano, nel loro insieme, il punto di arrivo di un approccio «liberale» a quell'evento e si collocano lungo la linea che da Alexis de Tocqueville giunge fino ad Alfred Cobban. Dal volume di sintesi, La Rivoluzione francese (1965), scritto insieme a Denis Richet, al ripensamento interpretativo globale contenuto in Penser la Révolution Française (1968) fino all'ampio studio su La Révolution 1770-1880 dedicato al «secolo della rivoluzione» e al Dizionario critico della Rivoluzione francese (1988) da lui diretto insieme a Mona Ozouf, egli ha distrutto le certezze della storiografia marxista e di quella neo-giacobina. La rivoluzione fu, per Furet, non un fenomeno da assumere in blocco, tesi cara alla vulgata marxista, ma piuttosto un succedersi, sovrapporsi e scontrarsi di più rivoluzioni, diverse per finalità, per estrazione sociale dei protagonisti, per metodi da questi adottati. Fu, anche, un evento le cui radici affondano lontano nel tempo e che va collocato nel contesto europeo e nel lungo periodo, più esattamente all'interno di quella spinta liberale che si articolò, fin oltre la metà del secolo XIX e rispetto alla quale il periodo del Terrore appare come uno slittamento. Tocqueville, ma anche altri studiosi come Augustin Cochin, che illustrò la «meccanica della rivoluzione», e Madame de Stael sono sullo sfondo della «lettura liberale» della Grande Rivoluzione da parte di Furet che la considera «il più grande avvenimento universale della nostra storia» e le riconosce, comunque, il ruolo di specifico creatore della discontinuità storica. Le «note di lettura» di Furet - cioè gli appunti scritti per riassumere o chiosare i testi classici e che Prochasson ha avuto la possibilità di consultare - ben lo confermano. Accanto a queste frequentazioni intellettuali e letterarie, un peso notevole, per l'evoluzione anche politica di Furet, ebbe il suo rapporto di amicizia, oltre che di consonanza ideale, con uno dei maestri del pensiero liberale contemporaneo, Raymond Aron. L'ultima opera di Furet, Le Passé d'une illusion (1995), rappresenta, sotto questo profilo, il punto di arrivo di un lungo itinerario storiografico: dalla rivoluzione francese a quella comunista e poi, oltre, a quelle del nazionalsocialismo e del fascismo per non dire di tutte le illusioni che, frutto dell'«universale fascino dell'Ottobre», hanno finito per alimentare la fiamma dell'utopia, anche sotto specie di «socialismo dal volto umano» o di «eurocomunismo». Al tempo stesso, però, Le Passé d'une illusion costituisce la conclusione del personale viaggio dell'autore verso la scoperta della libertà, intellettuale e politica, messa in pericolo dall'egemonia di un'ambigua «cultura antifascista di massa» che propone una «visione lineare della storia contemporanea» destinata a salvare dal disastro l'ideologia comunista e l'illusione rivoluzionaria all'insegna del motto: «chi critica Stalin sta con Hitler». Sotto questo profilo Le Passé d'une illusion non è soltanto un capolavoro assoluto, ma anche un antidoto contro le lusinghe degli inferni ideologici e le tentazioni ricorrenti del totalitarismo. Quando De Felice lesse questo libro ne fu conquistato e Furet non gli apparve più, probabilmente, come un «uomo antipaticissimo» ma come un compagno di viaggio.

La politica estera del Duce? Alla nascita era democratica. Fra il 1922 e il '26 Mussolini rimase ancorato alle linee dei governi pre-fascisti. Tutto cambiò dopo Dino Grandi, scrive Francesco Perfetti, Martedì 03/01/2017, su "Il Giornale". All'inizio degli anni Trenta, quando già si festeggiava il decennale della «rivoluzione fascista», apparve in Francia un volume dal titolo Mussolini diplomate. Lo aveva scritto Gaetano Salvemini, all'epoca esule a Parigi. Non era un saggio storico in senso proprio, ma un pamphlet politico. Vi era, tuttavia, delineata un'interpretazione «unitaria» della politica estera fascista come risultato di scelte incoerenti di un dittatore alla ricerca di «successi immediati, poco importa se reali o apparenti, effimeri o duraturi, che gli servissero ad abbacinare le cosiddette masse, cioè permettessero ai giornali da lui assoldati in Italia e all'estero di cantare le sue glorie». In realtà la politica estera del fascismo fu assai più complessa e articolata di quanto non lascino intendere sia il discorso di Salvemini sia le elucubrazioni di quegli storici che, pur muovendo da altre premesse, hanno cercato di fornirne una lettura interpretativa pur sempre «unitaria» presentandola, per esempio, come intrinsecamente bellicista o proiettata verso l'alleanza con la Germania. A partire dalla metà degli anni Sessanta, Renzo De Felice dimostrò come, invece, essa dovesse essere studiata al di fuori di schemi precostituiti e di visioni «unitarie» e dovesse, quanto meno, essere divisa in fasi diverse collegabili al contesto internazionale ovvero ai mutamenti di prospettiva politica interna. Non era, in fondo, una posizione nuova se si pensa che persino un bel libro, scritto subito dopo la caduta del regime, da Mario Luciolli, Mussolini e l'Europa. La politica estera del fascismo (1945), si era mosso, al netto della polemica anti-tedesca, su quella linea interpretativa. Peraltro, il discorso di De Felice ebbe un impatto storiografico notevole perché rappresentava la trasposizione, sul terreno dello studio della politica estera, del suo approccio metodologico allo studio del fascismo in generale. La necessità di studiare l'attività internazionale del fascismo al di fuori di quegli schemi «unitari» ideologici che finiscono per sostenere la fatalità di un «destino comune» fra le dittature è riaffermata, sia pure implicitamente, dal recente lavoro di Francesco Lefebvre d'Ovidio intitolato L'Italia e il sistema internazionale. Dalla formazione del governo Mussolini alla grande depressione (Edizioni di Storia e Letteratura, 2 voll., pagg. LXII-1158, euro 98), dedicato al periodo compreso fra il 1922 e il 1929, quando cioè Mussolini ebbe la responsabilità formale e diretta del Ministero degli Affari Esteri. L'autore osserva che in questa fase, malgrado il cumulo delle cariche da parte di Mussolini e la dittatura personale già avviata, la politica estera del governo non fu «opera individuale», ma piuttosto «la risultante dell'interazione di un insieme di forze politiche, di gruppi di pressione e dell'organizzazione burocratica». Si tratta di una notazione corretta perché Mussolini il quale non aveva in realtà un vero e proprio programma di politica estera si affidò, di fatto, a un validissimo collaboratore, il segretario generale del ministero degli Esteri Salvatore Contarini, uomo di tradizione risorgimentale e liberale. Ciò spiega perché, durante i primi anni di governo fascista, non si registrarono, se non nello stile, scostamenti significativi dalle linee direttrici della politica estera dei governi dell'Italia pre-fascista. In fondo, gran parte dei trattati e delle convenzioni stipulate tra l'ottobre del 1922 ed il 1926, si richiamavano a direttrici tradizionali come il tentativo di inserimento nella politica franco-inglese di equilibrio europeo e lo sviluppo di buoni rapporti con la Gran Bretagna. La collaborazione fra Mussolini e Contarini rappresentò, dunque, il cardine della politica estera italiana fino al maggio del 1925, quando Dino Grandi divenne sottosegretario agli Esteri e quando, proprio a seguito di tale nomina, iniziò l'occupazione del ministero da parte di personaggi marcatamente fascisti. La nomina di Grandi nel 1925, del resto, venne fatta più per tacitare gli intransigenti del Pnf che per cambiar rotta. Mussolini condivideva talune suggestioni espansionistiche del fascismo intransigente e del nazionalismo (per esempio l'idea di una proiezione mediterranea dell'Italia) o certe ostilità dettate da motivi ideologici o pragmatici (come l'ossessione anti-jugoslava). Tuttavia, anteponeva l'intenzione di accreditare, a livello internazionale, l'immagine di una Italia grande potenza, aliena dall'apparire un elemento perturbatore dell'equilibrio europeo e aveva pertanto interesse ad appoggiarsi a uomini in grado di destreggiarsi fra le insidie della diplomazia internazionale. La verità è che la politica estera italiana vale la pena di ribadirlo fu, per diversi anni, segnata dalla collaborazione di Mussolini con la «carriera» diplomatica. Una collaborazione per certi versi strumentale e per altri versi obbligata, poiché le capacità manovriere di Mussolini avevano buon gioco nella realtà italiana per diversi motivi, non esclusa la conoscenza umorale della psicologia dei connazionali, ma rappresentavano una incognita in un terreno dove i termini dello scontro e del confronto non erano assimilabili a quelli della realtà nazionale. Lo studio di Lefebre d'Ovidio si ferma al 1929, quando Mussolini affidò la titolarità degli Esteri a Dino Grandi portatore di una visione dell'attività diplomatica nota come «politica del peso determinante»: una attività svincolata da pastoie ideologiche, tesa a cogliere ogni opportunità utile per conseguire il massimo vantaggio. Una visione che, mutatis mutandis, collima con la tradizione della pendolarità della politica estera italiana analizzata da Riccardo Petrignani nel volume su Neutralità e alleanza. Le scelte di politica estera dell'Italia dopo l'Unità (1987). Grandi suggeriva pragmaticamente una politica di pace, disarmo, collaborazione con la Società delle Nazioni, conciliazione con le potenze democratiche, che assicurasse all'Italia, nei tempi lunghi, il ruolo di arbitro dello status quo europeo. Per questo credeva necessario evitare un conflitto armato che avrebbe implicato una scelta di campo e quindi l'obbligo di accodarsi a una potenza o a un gruppo di potenze: in una situazione pacifica l'Italia avrebbe potuto fungere da ago della bilancia e far sentire il suo «peso determinante» nelle controversie internazionali. Pochi anni dopo, nel 1932, Mussolini decise di allontanare Grandi, riassunse la responsabilità degli Esteri e lo fece proprio per rettificare la politica di collaborazione internazionale sino ad allora seguita. Fu una svolta che dimostra come i tentativi di lettura «unitaria» delle vicende della politica estera del fascismo siano storicamente fuorvianti.

L'eterna voglia di egemonia di chi devastò l'Europa due volte. È dai tempi di Bismarck che la Germania cerca di imporsi come centro di tutte le decisioni del Vecchio continente. Il governo di Berlino si ispira a una visione nazionalistica dell'economia e della politica che solo la retorica europeista ha cercato di tacitare, scrive Francesco Perfetti, Giovedì 01/12/2011, su "Il Giornale". Sulla storia dell’Europa pesa, da sempre, il fantasma della Germania, di una Germania che si è posta l’obiettivo di affermare l’egemonia sul continente. E che, alla fin fine, con questa sua vocazione egemonica è stata all’origine delle grandi crisi dell’Europa contemporanea, a cominciare dalle guerre mondiali. Quel che succede oggi, in campo economico-finanziario - e che potrebbe portare alla disarticolazione dell’Eurozona e alla nascita di un euro pesante che sancirebbe, in realtà, il fallimento stesso dell'euro - è il risultato dell’eterna tendenza della Germania ad affermarsi come punto di riferimento e guida del continente. Una tendenza di volta in volta supportata da strumenti diversi: le armi o la politica economico-finanziaria, i cannoni o lo spread. Sempre in nome dell’interesse nazionale. La costruzione della Germania fu il grande capolavoro di Bismarck, che, alla guida della Prussia, sconfiggendo Napoleone III a Sédan nel 1870, realizzò l’unità tedesca, frustrando le ambizioni dell'imperatore dei francesi e gettando le premesse per un conflitto latente, nutrito di spinte revanchiste e aspirazioni espansionistiche, con una Francia umiliata e preoccupata. Il «cancelliere di ferro» costruì un sistema di alleanze che doveva ruotare attorno alla Germania e che avrebbe dovuto garantire l’equilibrio europeo. Anche questo era un tentativo di affermare, per via diplomatica, la vocazione egemonica tedesca sull’Europa, perché Berlino sarebbe stata al centro di tutte le decisioni concernenti la politica internazionale. Un tentativo, in altre parole, di disegnare un’Europa funzionale alla Germania. L’unità tedesca - il «nazionalismo politico» cioè - aveva avuto una premessa nel «nazionalismo economico» teorizzato da Friedrich List, all’inizio degli anni Quaranta del XIX secolo. Questi, quando la Germania era ancora divisa in piccoli Stati separati da vincoli doganali, aveva sostenuto la necessità di una unione doganale che creasse barriere protettive nei confronti delle nazioni vicine e della concorrenza estera. E, del resto, lo Zollverein, cioè l’unione doganale tra gli Stati tedeschi e la Prussia, era diventato uno strumento di progresso economico e difesa finanziaria, ma anche, al tempo stesso, base politica per l’unificazione della Germania. Si sa come andarono in seguito le cose. Lo scoppio della guerra mondiale fu una conseguenza diretta della cosiddetta «pace armata» ovvero della combinazione fra sistemi di alleanze contrapposti e corsa agli armamenti dell’epoca guglielmina. La storia del dopoguerra fu storia, ancora una volta, del sotterraneo conflitto tra una Francia vincitrice e preoccupata di isolare l'eterna rivale per impedirne la resurrezione, e una Germania decisa a recuperare un ruolo importante e di primazia politica nel continente europeo. La ripresa - politica e militare oltre che economica - tedesca ci fu con Hitler e il nazionalsocialismo. Ma questa ripresa implicò il recupero della vocazione egemonica tedesca sull’Europa, tanto ad est quanto ad ovest. E fu all’origine della tragedia della seconda guerra mondiale. L’immagine dei soldati tedeschi sciamanti per le vie di Parigi e sotto l’Arco di Trionfo è emblematica e simbolica. Venne, quindi, a opera delle armi alleate, la fine del sogno nazista di un’Europa unificata sotto lo sventolio delle bandiere con la svastica e asservita all’ideologia del nazionalsocialismo. Poi il secondo dopoguerra: la spartizione della Germania, la creazione delle due Germanie, l’impegno europeista di Adenauer, l’accordo con De Gaulle che metteva una pietra tombale sull’eterno conflitto franco-tedesco ma gettava le basi di un vero e proprio «asse», sempre a vocazione egemonica, alle origini dell’attuale «direttorio» franco-tedesco. Le vicende ultime, di questi giorni, confermano che la Germania aspira, ancora una volta, a riaffermare il primato in Europa. O a disegnare, se si preferisce, un’Europa che sia funzione degli interessi tedeschi. Interessi politici ed economici. La realtà è questa. È inutile girarci intorno. La Germania, pur a costo di destabilizzare il sistema Europa, punta ad assicurarsi un ruolo egemone in forza di un’economia in grado di crescere più agevolmente e rapidamente di altre nazioni. Il comportamento della Germania, insomma, risponde a una logica che affonda le radici in un passato lontano e in una vocazione antica. Si ispira a una visione nazionalistica dell’economia e della politica. Ed è questo un sintomo della tendenza al recupero dei concetti di nazione e nazionalismo che la retorica europeistica ha messo in ombra o cercato di tacitare.

Così iniziò l'eterno derby Italia-Germania. Economisti come Pantaleoni criticarono la invadente economia politica tedesca fin dall'inizio del Novecento, scrive Francesco Perfetti, Venerdì 07/06/2013, su "Il Giornale". La supponenza e l'arroganza con la quale molti esponenti politici tedeschi di oggi - a cominciare dal ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble per finire con la stessa Angela Merkel - parlano dell'Italia affondano le radici lontano nel tempo. Accanto a una ammirazione, non esente da invidia, per le bellezze del nostro paese, si ritrovano, nelle parole di moralisti e politici teutonici, gli ingenerosi e ingiusti stereotipi che presentano gli italiani come indolenti, inaffidabili e tendenzialmente truffaldini, solo interessati agli spaghetti e alla chitarra. L'ultima offesa è di questi giorni e viene dal commissario europeo all'energia, Günther Öttinger, che ha paragonato gli italiani, quanto a governabilità, ai bulgari e ai romeni. Il disprezzo teutonico per gli italiani è, dicevamo, cosa antica, anteriore persino all'unificazione. Durante il suo secondo viaggio in Italia, per esempio, nel 1790, Wolfgang Goethe compose alcuni versi che offrono una chiave di lettura di tale sentimento: «L'Italia è ancora come la lasciai, ancora polvere nelle strade, ancora/ truffe al forestiero, si presenti come vuole. Onestà tedesca ovunque cercherai invano, c'è vita e animazione/ qui, ma non ordine e disciplina; ognuno pensa per sé, è vano, /dell'altro diffida, e i capi dello Stato, pure loro, pensano solo per sé». Eppure, all'epoca della nascita della Germania moderna dopo la guerra franco-prussiana, vi fu chi guardava all'Italia e ai suoi politici come a un modello. Il parallelo fra Cavour e Bismarck era ricorrente: emblematica è la biografica dedicata da Heinrich von Treitschke allo statista piemontese. Per converso, nell'Italia postunitaria, la Germania bismarckiana venne percepita come polo di riferimento politico, economico e culturale. Ben presto, però, in settori consistenti dell'intellettualità e del mondo politico, l'influenza tedesca, soprattutto in campo economico, cominciò a essere contestata dando origine a quel sentimento di rigetto, ora indagato con finezza da Federico Niglia in un bel volume, dal titolo L'antigermanesimo italiano da Sedan a Versailles (Le Lettere, Firenze, pagg. 140, euro 16), che ricostruisce la genesi di questo animus nel quadro dei rapporti italo-tedeschi. È soprattutto nell'ultimo scorcio del secolo XIX e all'inizio del nuovo fino alle soglie del primo conflitto mondiale che l'antigermanesimo si affermò diventando (con alcune significative eccezioni, a cominciare da Benedetto Croce) una sorta di paradigma. Nel 1909 apparve un saggio, Per l'italianità del Gardasee, scritto da un giornalista, destinato a diventare presto una personalità del mondo politico, Luigi Federzoni, che allora utilizzava lo pseudonimo Giulio De Frenzi. Il libro denunciava, statistiche alla mano, un processo di «germanizzazione ad oltranza» del lago di Garda. Il sociologo trentino Scipio Sighele accennò nella prefazione al «pericolo pangermanista» e scrisse che vedeva «ogni giorno calare dal nord i tedeschi con la loro pesante regolarità di soldati che pare obbediscano a un ordine di conquista anziché avviarsi a un viaggio di divertimento». Il saggio di Federzoni non era isolato. Faceva parte di un ricco filone polemico che, per un verso, contestava la germanizzazione del paese sotto il profilo culturale e, per altro verso, esprimeva i timori per una penetrazione dei capitali e dell'industria tedesca percepita come espressione di un disegno colonizzatore dell'economia italiana. Proprio contro il «germanesimo economico» si pronunciarono importanti economisti di scuola liberista, primo fra tutti Maffeo Pantaleoni. Sotto accusa, in particolare, era il ruolo della Banca Commerciale Italiana, la Comit, vista come strumento della finanza tedesca per acquisire attività produttive italiane. L'antigermanesimo del secolo scorso è roba passata. Ma, oggi, un sentimento analogo comincia a diffondersi, diventando di giorno in giorno sempre più consistente, a fronte dei diktat economici della Germania di Angela Merkel. Ma anche a fronte degli insulti gratuiti di quegli esponenti del mondo politico tedesco che continuano a manifestare il loro disprezzo per gli italiani a base di abusati luoghi comuni.

Gli intellettuali in politica? Profeti, filosofi o «tecnici», scrive Francesco Perfetti, Domenica 06/07/2014, su "Il Giornale". Più o meno nello stesso periodo in cui in Francia - a seguito dell'affaire Dreyfus e del J'accuse di Émile Zola in difesa del capitano francese accusato di spionaggio - si discuteva sul rapporto fra politica e cultura, in Italia una piccola rivista letteraria fiorentina, Il Marzocco, promosse un'inchiesta sullo stesso tema. Chiese ai più celebri letterati se fosse confacente a uno scrittore prender parte alla politica. Le risposte furono le più varie. Giovanni Pascoli se la cavò con una battuta: «Volete dedicarvi alla politica? Fate pure. Intanto non cambierete mestiere: dal non far nulla passerete al non far niente affatto». Il poeta napoletano Salvatore Di Giacomo non fu da meno: «Il Parlamento è invero un'accademia. Ma quale?». Ci furono però altri, a cominciare da Enrico Corradini, futuro leader del movimento nazionalista, i quali sottolinearono l'importanza di abbandonare la torre d'avorio della cultura per scendere nell'agone politico. In effetti, da quel momento in poi, nel tornante che segna il passaggio dall'ottimistica ma declinante Belle Époque allo scoppio della Grande Guerra, la figura dell'intellettuale militante divenne familiare agli italiani. Nacquero riviste impegnate in politica, da Leonardo a Il Regno, da Hermes a La Voce e via dicendo. L'intellettuale diventò protagonista della vita del Paese. E tale sarebbe rimasto. Agli intellettuali italiani del '900 uno storico francese, Frédéric Attal, ha dedicato un denso volume, Histoire des intellectuels italiens au XX siècle. Prophètes, philosophes et experts (Les Belles Lettres, Paris, pagg. 774, euro 35): vi sono censiti più di cinquecento intellettuali (o presunti tali) da Papini e Prezzolini fino a Galli della Loggia e Flores d'Arcais, passando per Croce, Gentile, Moravia, Pasolini, Bobbio, Fo e via dicendo. Per l'autore gli intellettuali, nel tentativo di forgiare una «cultura nazionale» e nuove élites, hanno incontrato e cavalcato tutte le passioni e le ideologie politiche: nazionalismo e fascismo, comunismo e liberalismo, cattolicesimo e socialismo. Lo hanno fatto indossando la veste del profeta o del filosofo o del tecnico. Il profeta appare soprattutto nei momenti di crisi, come la Grande Guerra o la stagione della strategia della tensione. Il filosofo coesiste, soprattutto nella prima metà del secolo, con il profeta, ma cerca di dare al proprio progetto «interventista» un più elevato livello di sistematicità. Il tecnico, infine, è l'intellettuale dominante soprattutto nel secondo dopoguerra, a seguito del successo delle «scienze sociali», sociologia e politologia, mutuate dalla cultura anglosassone. Come accade per tutti i tentativi di scrivere la storia sulla base di paradigmi classificatori, il lavoro di Attal, per quanto ricco di informazioni, finisce per non essere del tutto convincente. L'autore adotta, giustamente, un criterio cronologico in base a cui individua tre fasi: il momento della nascita dell'intellettuale impegnato nel primo quindicennio del secolo; la stagione del fascismo e dell'antifascismo; il secondo dopoguerra. La fecondità di questo approccio risulta in parte ridimensionata proprio dalla rigidità dello schema. La storia degli intellettuali, prima ancora di essere storia di individui, è storia di idee e ideologie contrapposte. Spesso, non è solo storia nazionale. Per esempio, alle origini della fervida stagione del primo '900 ci sono, per un verso la reazione contro l'accademismo classicheggiante e, per altro verso, le influenze delle nuove dottrine estetiche, filosofiche e politiche dilaganti nell'Europa. Durante il fascismo non c'è solo la cultura idealistica, di matrice gentiliana, contrastata dal fortino crociano e dal «rivoluzionarismo liberale» di Gobetti: c'è anche una cultura antigentiliana. Operano intellettuali come Giuseppe Rensi, un autore che Attal neppure menziona, giunto alla Filosofia dell'autorità (e, in seguito, all'antifascismo) attraverso lo scetticismo e il relativismo frutto di una lettura della Grande Guerra come fallimento filosofico dell'idealismo. La parte più interessante del libro è relativa al secondo dopoguerra perché mette in luce la presenza dell'egemonia comunista sulla cultura italiana, sottolineando il peso degli storici, da Delio Cantimori a Paolo Spriano. Non mi sembra però che colga appieno il motivo per cui il marxismo ha avuto un così grande successo. La verità è che la diffusione della cultura marxista in Italia nell'immediato dopoguerra fu il contraltare della crisi della cultura liberale e il risultato della combinazione del giacobinismo rivoluzionario comunista con il moralismo azionista sotto l'ombrello protettore del mito dell'antifascismo e di quello dell'«unità della Resistenza» a guida comunista. L'egemonia continuò dopo la rivelazione dei crimini di Stalin da parte di Kruscev e la repressione della rivolta d'Ungheria del '56, pur se questi eventi provocarono una diaspora di intellettuali dalle file comuniste: Domenico Settembrini, Luciano Cafagna, Antonio Giolitti, Renzo De Felice e via dicendo. Quanto alla cultura cattolica, l'attenzione è polarizzata soprattutto sul dossettismo e sul cattocomunismo di Rodano, mentre manca una riflessione sul peso e sul significato della critica di Augusto Del Noce al «neomodernismo»: una critica che, maturata negli anni del Concilio Vaticano II, riconduce il progressismo cattolico alla grande crisi di valori iniziata nell'Europa degli anni Trenta. Pure l'analisi della cultura liberale lascia a desiderare. Attal ignora il contributo di idee e proposte legato alla rivista Biblioteca della Libertà o all'impegno di intellettuali come Bruno Leoni o Sergio Ricossa, che hanno favorito la conoscenza di Friedrick von Hayek, o come Antonio Martino, il quale ha fatto circolare le teorie di Milton Friedman, o, ancora, come Dario Antiseri, il quale ha reso popolari le posizioni epistemologiche di Karl Popper. Non emergono, insomma, i tentativi di rinnovamento della tradizione liberale italiana attraverso le discussioni sul «mercato» e sul superamento della questione liberismo-liberalismo o attraverso la diffusione degli autori della cosiddetta «scuola austriaca» o, infine, attraverso la riscoperta del liberalismo di Raymond Aron. Emerge, invece, anche se Attal tenta di attenuarla con un punto interrogativo, l'idea che il «berlusconismo» equivalga alla «morte degli intellettuali»: che è, poi, un altro modo per ribadire il concetto secondo cui l'intellettualità deve essere sempre a sinistra.

Intellettuali e Democrazia, scrive Francesco Perfetti, Martedì 21/06/2011, su "Il Giornale". Una settimana dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, a Spalato venne arrestato uno studente universitario accusato di svolgere «attività antistatali». Quel giovane, di 22 anni, era certo un rivoluzionario - lettore di Mazzini e di Bakunin, di Stirner e di Herzen, e anche di Nietzsche - ma, in realtà, non apparteneva al genere degli attivisti. Era, più che altro, un intellettuale il quale, al pari di tanti giovani della sua generazione, aveva subito il fascino delle idee nazionaliste dibattute nelle società, nei circoli, nelle organizzazioni patriottiche nate nei territori del grande impero austro-ungarico. Era stato tra i fondatori, e ne era diventato presidente, della Gioventù progressista serbo-croata, un gruppo aderente alla Giovane Bosnia della quale faceva parte anche il giovane poeta Gavrilo Princip, che il 28 giugno 1914 avrebbe ucciso l’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Questo giovane universitario sarebbe diventato famoso in seguito come scrittore. Si trattava, infatti, di Ivo Andric, cui sarebbe stato assegnato nel 1961 il Premio Nobel per la letteratura e che avrebbe legato il suo nome a romanzi famosi, come La cronaca di Travnik e Il ponte sulla Drina, che hanno la struttura e il sapore dei grandi affreschi storici. La letteratura fu, certo, il grande amore di Andric, coltivato per molto tempo in privato, ma, accanto a questa passione, vi furono il suo impegno come diplomatico e la sua attività politica come deputato, prima della Repubblica della Bosnia ed Erzegovina, e, poi, della Repubblica federale jugoslava. La prima sede nelle quale egli si trovò ad operare come diplomatico, come giovane diplomatico, in veste di segretario del Regio consolato presso la Santa Sede, fu Roma, la Roma dell’inizio degli anni Venti. È comprensibile che Andric, appassionato di storia e imbevuto di cultura nazionalista, abbia dedicato attenzione al fenomeno fascista e alla figura stessa di Mussolini e abbia cercato di darne e darsene una spiegazione, sia in termini storico-politici sia in termini culturali, in molti scritti, alcuni di natura giornalistica altri di carattere saggistico, praticamente sconosciuti in Italia. Di essi si occupa un bel saggio di Roberto Valle dal titolo Genealogia e crepuscolo del fascismo: Ivo Andric e la rivoluzione fascista in Italia e nei Balcani, inserito nel volume collettaneo Intellettuali versus democrazia. I regimi autoritari nell'Europa sud-orientale, (Carocci) curato da Francesco Guida. Si tratta, a mia conoscenza, dell'unico studio che esamini, in maniera sistematica e contestualizzata, questa produzione di un grande scrittore che, per sua stessa ammissione, intendeva essere testimone e «appassionato osservatore della storia». Alle origini culturali del fascismo vi erano per Andric, in una posizione privilegiata, due intellettuali, Filippo Tommaso Marinetti e Gabriele D'Annunzio, le cui opere - in particolare, del primo, Lalcova d’acciaio e, del secondo, il Notturno - egli ebbe modo di recensire, cogliendone soprattutto, al di là della dimensione estetica, una natura politica quale riflesso o conseguenza di quella «enorme prova, terribile e assurda» che era stata la prima guerra mondiale. Tuttavia, il futuro premio Nobel per la letteratura si rese subito conto che per quanto potesse essere l’idolo dell’Italia post-bellica, Dannunzio non avrebbe mai potuto assurgere a quel ruolo di guida spirituale o di arbitro della nuova Italia del quale si sarebbe autoinvestito Mussolini, il quale con la «marcia su Roma» avrebbe completato la «marcia su Ronchi». Nel caso di Marinetti e dei futuristi, il giudizio di Andric era diverso. A suo parere Marinetti e i futuristi erano stati, davvero, fin dalle origini, fascisti o, se si preferisce, protofascisti: lo erano stati nella valorizzazione e nella utilizzazione della piazza e nel dichiarato disprezzo per la cultura e il «passatismo». Lo erano stati, ancora, per una dimensione ideologicamente reazionaria anche se rivestita di retorica ribellistica, per quel mix, insomma, che costituiva l’essenza del fascismo. E che, in fondo, com’ebbe Andric a profetizzare verso la metà degli anni Venti, avrebbe condotto il fascismo alla catastrofe: essendo stato un prodotto della guerra, di una grande guerra, esso non sarebbe potuto che terminare con una guerra, con una grande guerra combattuta per la supremazia. Interrogandosi sulla natura del fascismo, il giovane Andric ne parlò, nel 1923, come di un movimento che presentava, insieme, i caratteri della reazione e della rivoluzione, essendo un fenomeno polimorfo dal punto di vista ideologico e politico frutto di «numerosi e multiformi influssi che sfuggono alle etichette». Esso si era affermato grazie al fallimento del «miracolo rivoluzionario» promesso dalle sinistre del dopoguerra e alla «disgregazione interna» del socialismo italiano. Era riuscito a incanalare il malessere del provincialismo nazionale che aspirava a un futuro di grandezza: la «provincia» italiana da sempre «litigiosa e ottusa» aveva trovato nello squadrismo una «nuova formula semilegale per sfogare i suoi antichi odi e i suoi peggiori istinti». È davvero singolare come il giovane Andric, non ancora dedicatosi alla letteratura, sia stato in grado di cogliere, negli articoli scritti in diverse occasioni (e ben analizzati da Roberto Valle nel suo saggio) certi tratti significativi di quel fascismo che egli naturalmente per la sua formazione e militanza politica non poteva né apprezzare né condividere, ma che, probabilmente per il suo lavoro diplomatico, doveva sforzarsi di capire e spiegare. Ed è singolare che sia riuscito a farlo anticipando, in molti casi, i termini della discussione storiografica successiva. La spiegazione dell'acutezza e della modernità di certe analisi del fenomeno fascista da parte di Andric sta, molto probabilmente, nella sua sensibilità per la storia, in generale, e per la complessità della storia, in particolare. Una sensibilità che - quando egli deciderà di dedicarsi soltanto alla scrittura - gli consentirà di dare forma e vita ad alcuni fra i più bei romanzi del Novecento, nei quali la «grande storia» nazionale o multinazionale si incontra e si mescola con la «piccola storia» individuale dei singoli.

Il liberale che fiancheggiò il fascismo. Escono le memorie inedite del diplomatico monarchico Giuseppe Salvago Raggi: le critiche feroci ai politici dell’Italia giolittiana, le simpatie per l’ascesa di Mussolini e poi la delusione per le speranze tradite, scrive Francesco Perfetti, Venerdì 27/05/2011, su "Il Giornale". Quando lo incontrò di persona, all’indomani della marcia su Roma, il marchese Giuseppe Salvago Raggi, nome mitico della diplomazia italiana postunitaria, si trovò davanti un Mussolini diverso dal personaggio trasandato e bohèmien che aveva intravisto alla conferenza di Cannes. Adesso era un signore in redingote, immerso nel ruolo di governante, aveva l’aspetto di uomo serio e severo, lo sguardo duro. La diversità tra i due spiccava. Anche Salvago Raggi era austero e impeccabile, ma il portamento rivelava la dignità e l’autorevolezza del notabile dell’età liberale, aristocratico nel tratto e nelle convinzioni, estraneo a suggestioni rivoluzionarie, incrollabile servitore dello Stato. I due rappresentavano mondi, al fondo inconciliabili, che, allora, ebbero modo di scrutarsi e misurarsi: mondi che non avrebbero potuto convivere tranquillamente. La descrizione dell’incontro conclude il volume di memorie di Giuseppe Salvago Raggi (1866-1946) Ambasciatore del Re. Memorie di un diplomatico dell’Italia liberale (in uscita per Le Lettere: un volume che ripercorre la vita straordinaria, per certi avventurosa, divisa tra l’Oriente e l’Africa, di uomo che fu spettatore e protagonista di eventi come la rivolta dei Boxer in Cina e di una fase significativa della colonizzazione italiana come governatore dell’Eritrea. Le pagine sull’incontro sono poche ma importanti perché rivelano in controluce il dramma dei «fiancheggiatori» liberali che avrebbero finito per contribuire al successo del fascismo e al suo radicarsi nel tessuto paese. Indicative, in proposito, sono le battute che il diplomatico, rispondendo a Mussolini, riservò alla classe politica. Battute impietose contro Francesco Saverio Nitti, che «sapeva di condurre il suo paese alla rovina e su quella rovina voleva innalzare se stesso» e battute, solo in apparenza, più tenere per un Vittorio Emanuele Orlando e un Giovanni Giolitti, incapaci di ben governare perché «accecati dalla retorica parlamentare l’uno, dalla mentalità gretta l’altro» anche se onesti nel credere di «conciliare il minor male del paese con la loro permanenza al potere». Ma anche battute amare che rivelano la delusione nei confronti di Luigi Sturzo che dava «l’impressione di un prete fanatico in politica come un Savonarola, con idee ristrette e campanilistiche». E poi l’uscita, tipica da liberale conservatore, di Salvago Raggi sul fascismo che avrebbe potuto suscitare le sue simpatie - in quanto reazione contro nittismo, popolarismo e parlamentarismo - se non avesse avuto il difetto d’origine d’essere repubblicano. Negli anni a venire, Salvago Raggi si chiuse in se stesso senza svolgere, per quanto senatore del Regno, attività pubblica. Preferì guardare con distacco gli sviluppi politici. Si limitò a scrivere, quasi per gioco intellettuale, articoli non destinati alla pubblicazione e appunti. Sono testi dai quali emerge la disillusione di un uomo della vecchia Italia liberale davanti a un Mussolini che confermava la storia dell’apprendista stregone e a un fascismo che tradiva le speranze di chi lo aveva visto come una modalità di restaurazione dell’ordine e una reazione al parlamentarismo esasperato. Significativi, come tentativo di ripensamento globale del periodo fascista, sono gli appunti che Salvago Raggi buttò giù, a caldo, dopo il crollo del regime. All’indomani del 25 luglio, annotò che avrebbe sconsigliato Badoglio di «sciogliere quella ridicola Camera dei Fasci e delle Corporazione» per non trovarsi senza Parlamento «come in realtà siamo ora», anche se «nessuno se ne accorge» essendo tutti impegnati a gridare contro il fascismo «specialmente quelli che più ne erano entusiasti». Il 9 settembre, dopo la diffusione della notizia della firma dell’armistizio, scrisse che, ascoltando il comunicato di Badoglio, si sarebbe messo a piangere «per l’umiliazione del mio paese e per il disastro nel quale quello sciagurato ci ha trascinati». L’8 maggio 1944, mentre infuriava la guerra civile, tentò un bilancio del fascismo, convinto di poterlo tratteggiare - lui che non aveva chiesto nulla al regime - «senza rancore e senza ingratitudine» sottolineando «con serenità» quanto riteneva vi fosse stato «di utile per il Paese nostro nel fascismo» e «cosa di cattivo» e, ancora, perché «quel tanto di buono» si sarebbe rivelato «sterile per l’infelice nostro Paese». La «prima caratteristica del Fascismo che attirava le simpatie di molti» era il fatto che volesse «stabilire un Governo forte» e «abbandonare quella retorica democratica che era stata la norma di tutti i governi» i quali avevano potuto «governare secondo la volontà del Parlamento diretto generalmente da una minoranza più audace e battagliera di una maggioranza sempre pronta a cedere dinanzi a frasi altisonanti di democrazia, libertà, socialismo». Era parso che il fascismo volesse «esser rispettoso delle varie libertà individuali purché non se ne abusasse con danno della collettività» e un tale «atteggiamento piaceva in Italia dove si era fatta una confusione fra demagogia parlamentare e parlamentarismo e si aveva finito per detestare il Parlamento». Il primo discorso di Mussolini alla Camera era stato «più che duro volgare e insolente» ed era stato «accolto con rassegnazione dalla Camera perché la Camera aveva perduto ogni senso di dignità»: e di questa situazione Mussolini aveva profittato per continuare a insolentirla sbagliando perché «se avesse cercato di rialzarne il morale anziché toglierle prestigio avrebbe potuto avere dal Parlamento utile collaborazione. Come pareva desiderasse nei primi mesi del suo Governo». Risultato positivo era stato il Concordato, possibile perché il governo fascista era «indipendente dalla Massoneria». Sconsolate, poi, anche le considerazioni di Salvago Raggi sui primi governi postfascisti. Ai ministeri guidati da Badoglio erano succeduti quelli di Bonomi e poi quello di Parri. Come si legge in un amaro scritto dal titolo Regime di libertà, del 21 agosto 1945, osservava che nessuno fra quanti applaudivano al nuovo governo, come avevano fatto per quelli di Mussolini, rifletteva sul fatto che basi necessarie per un autentico regime di libertà avrebbero dovuto essere «la rigida osservanza della legalità, il rifuggire da ogni violenza, l’eguaglianza di ogni cittadino di fronte alla legge». E si domandava retoricamente: «Chi si ricorda in Italia che “a quei tempi”, prima del fascismo, c’era una massima che si riteneva fosse la base d’ogni vivere civile, e che il fascismo ha cancellato: “Tutti sono uguali dinanzi alla legge”?». Una massima che esprimeva il senso più profondo di quella Italia liberale della quale Salvago Raggi aveva visto nascita, affermazione, caduta. E della quale le sue memorie offrono un quadro.

Gobetti, Bobbio e Azionisti Quegli strani «liberali» al servizio del socialismo, scrive Francesco Perfetti, Domenica 07/08/2011, su "Il Giornale". È davvero importante la pubblicazione, in italiano, del saggio di David Mamet dal titolo Come ripudiare la sinistra e vivere felici. Lo è per più motivi. In primo luogo, per il contenuto, riaffermazione dei valori di una società libera e liberale, fondata sul mercato e sulla concorrenza politica. In secondo luogo, per il percorso autobiografico dell'autore, emblematico di paralleli percorsi seguiti da intellettuali emancipatisi dalla sudditanza alla sinistra. In terzo luogo, poi, perché suggerisce riflessioni sulla possibilità di ricezione delle sue idee al di là dei confini americani. Il fatto che Mamet, nato come progressista liberal, abbia abbandonato le sponde consolatorie della sinistra dopo aver incontrato (e meditato) le pagine di Friedrich von Hayek è significativo. Hayek non è solo un illustre studioso, Nobel per l'economia: è, soprattutto, un grande filosofo della politica che ha il dono della chiarezza accompagnato dal coraggio di saper scrivere non curandosi delle conseguenze e, tanto meno, del politically correct. Quando, per esempio, all'indomani della Seconda guerra mondiale, i laburisti erano saliti al governo in Gran Bretagna, non esitò a pubblicare un libro, La strada verso la schiavitù, che dimostrava impietosamente come la via della pianificazione e dell'interventismo statale, del Welfare e dell'abbandono del libero mercato implicasse una deriva di tipo totalitario, individuando una linea di continuità fra socialismo e fascismo. Negli anni Sessanta, poi, dette alle stampe due altri lavori fondamentali per il pensiero liberale: L'abuso della ragione, requisitoria implacabile contro il «costruttivismo» sociale e politico alla base di tutto il progressismo e il radicalismo contemporanei, e La società libera, impareggiabile affresco della società fondata sui principi del liberalismo politico e del liberismo economico. Ho detto che appare significativo il fatto che Mamet abbia abbandonato le sue illusioni liberal grazie a un incontro e a un confronto con le «idee forti» di un grande intellettuale. Si tratta, infatti, di un percorso comune a molti teorici del cosiddetto neoconservatorismo americano, inizialmente, come lui, affascinati dalle sirene progressiste. È un percorso, questo, comprensibile per una società relativamente giovane, come quella americana, animata dalle origini da uno spirito fondante, pragmatico e liberale, così ben descritto nelle suggestive pagine di Alexis De Tocqueville su La democrazia in America. Meno facile, e meno scontato, è stato ed è il successo delle idee liberali e liberiste in un paese, pur esso giovane, come l'Italia nel quale il liberalismo si è presentato con caratteri, in particolare per quanto riguarda il rapporto con lo Stato, diversi, ideologici, legati all’eredità della filosofia idealistica di matrice tedesca. La storia del liberalismo italiano risorgimentale e postrisorgimentale si è identificata, infatti, con gli sviluppi della linea speculativa Hegel-Spaventa-De Sanctis che giunge fino a Gentile e, attraverso Gentile, si spinge fino a Gramsci. Non è un caso che, poi, uno dei numi del liberalismo italiano, Piero Gobetti, autore di un testo celebre e celebrato, La rivoluzione liberale, abbia potuto parlare di Marx come del «più grande liberale del mondo moderno» e abbia potuto presentare i consigli operai come una forma di liberazione dal basso. Nell'uso del termine «liberale» da parte dell'intellettuale torinese cera una ambiguità, rimasta tale nei suoi epigoni, a cominciare da Norberto Bobbio, i quali, sotto forma di gramsci-azionismo, hanno egemonizzato la cultura italiana del secondo dopoguerra. E lo hanno fatto al punto da rendere difficile e tardiva la recezione di significativi filoni di pensiero liberali e anticomunisti: si pensi, per fare un solo esempio, che La società aperta e i suoi nemici di Karl Popper, così vicino e complementare a von Hayek cominciò a circolare in Italia solo sul finire degli anni Sessanta. Molte cose sono cambiate. Cè da sperare che il saggio di David Mamet dia una nuova scossa. Giuseppe Prezzolini scrisse che «gli italiani non sono liberali» e aggiunse che «l’Italia ha avuto una aristocrazia liberale, che è stata la Destra storica; ma il popolo non ha mai apprezzato la libertà». Mamet può aiutarli, gli italiani, ad apprezzare la libertà e a diventare liberali: liberali veri, senza se e senza ma.

Apologia liberal-cattolica del piccolo borghese, scrive Francesco Perfetti, Lunedì 29/08/2011, su "Il Giornale". Si sentiva un borghese, anzi un «piccolo borghese», Arturo Carlo Jemolo (1891-1981), l'autore di Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, tuttora testo di riferimento sul tema. Il grande storico - cattolico-liberale o, meglio, come preferiva dire, liberal-cattolico - giunto in età avanzata confessò che, se ne avesse avuto la forza, avrebbe scritto un'Apologia dei piccoli borghesi, per rendere omaggio a quanti erano stati «propugnatori di tutte le riforme durature, di tutte le liberazioni dell'uomo da superstizioni o da spirito di casta, di tutti i progressi che durarono per un ciclo di civiltà». Il libro Jemolo non lo scrisse. Ma la nostalgia, quasi gozzaniana e crepuscolare, per quel mondo ottocentesco fatto di onesti sentimenti, culto del dovere, senso della disciplina, buone abitudini non lo abbandonò mai. Se ne trova un'eco esplicita nel bel volume Il malpensante (Aragno, pagg. 246, euro 12) curato con simpatetica finezza da Bruno Quaranta e pubblicato per il trentesimo anniversario della scomparsa. Ma, accanto all'amore per l'Ottocento, nelle pagine del grande giurista e storico - cresciuto all'ideale scuola di Benedetto Croce, Francesco Ruffini e Luigi Einaudi - emerge un animo di profondo moralista che attinge anche a certe suggestioni giansenistiche di Port-Royal e alla religiosità laica di Alessandro Manzoni. In queste ascendenze culturali affondano le radici di quel realismo politico, venato di pessimismo ma sempre caratterizzato da grande equilibrio, con cui Jemolo analizzò le vicende del suo tempo. Il suo liberalismo, per esempio, lo portava a condannare la tendenza (resa manifesta dalle agitazioni sindacali di categoria) di tanti italiani a considerare lo Stato alla stregua di un Babbo Natale «cui si può chiedere senza preoccuparsi della provenienza dei suoi doni». Il suo realismo, poi, lo portava a guardare con scetticismo, più di trent’anni or sono, i progetti di riduzione dei costi della politica: in un articolo pubblicato nel 76 (e non inserito in questa raccolta di suoi scritti) egli liquidò così un progetto di legge presentato da alcuni senatori per ridurre il numero dei parlamentari: «Va da sé che non ha una sola probabilità di venire approvato: il suicidio è fenomeno individuale e non collettivo». Il suo senso etico della vita lo portava a condannare il moralismo farisaico e tartufesco, usato come arma politica - in particolare la tendenza a imputare di libertinaggio il regime o la società non graditi - ma, al tempo stesso, lo spingeva ad auspicare coerenza di comportamento per il rigorista impegnato in una battaglia pubblica contro l'immoralità, quanto meno per evitare che si potesse pensare che egli difendesse «non una regola di bene universale, ma la propria libertà di commettere quello che per i più è peccato». Eppure, a suo modo, il «malpensante» Jemolo era un moralista nel senso classico e nobile del termine. Ghibellino credente, Jemolo sosteneva la laicità dello Stato ma paventava il rischio di un anticlericalismo fazioso e destabilizzante. Per questo egli, che da vecchio liberale lo aveva mal digerito, fece parte della Commissione incaricata di rivedere il Concordato del 1929 quanto meno per ottenere («non è poco» scrisse all'amico Giovanni Spadolini) la scomparsa del principio della religione di Stato. Si definiva «uomo privo di senso pratico, in particolare di senso politico ed economico», ma, giurista insigne, aveva un profondo senso del diritto, che non gli impediva di pronunziare un amaro Confiteor in occasione del trentennale della Costituzione, sottolineandone il carattere di «Carta troppo enfatica, con troppe promesse vaghe ed alcune non mantenibili». In realtà, era consapevole che le Carte, tutte le Carte costituzionali, per quanto ben fatte, non hanno valore taumaturgico perché presuppongono «buoni cittadini, buoni amministratori, una classe politica degna». Il che, a questo saggio grillo parlante della coscienza borghese, sembrava mancare nell’Italia del suo, e del nostro, tempo.

Colto, umile, pratico. Lo statista rigoroso dal volto umanista, scrive Francesco Perfetti, Sabato 29/10/2011, su "Il Giornale". Quando Giulio Andreotti, l11 maggio 1948, si recò da Luigi Einaudi per offrirgli la candidatura alla presidenza della Repubblica, si trovò di fronte un uomo «esemplarmente sereno» che oppose una quasi disarmante resistenza. Andreotti annotò nel suo diario: «Ha un'obiezione forte: un Presidente zoppo e con il bastone rappresenterebbe male la Repubblica». L'argomento era risibile, ma sarebbe stato ripreso. Giovanni Ansaldo, per esempio, commentò così, con una punta di cattiveria, una delle prime uscite pubbliche del presidente: «Certo, Luigi Einaudi è un uomo probo. Si dica quello che si vuole, ma anche l'occhio vuole la sua parte; e l'avere per suo primo Presidente un Geppetto è pure una iattura per questa povera repubblica». Mai previsione si rivelò più fallace. Il settennato di Einaudi si rivelò una fortuna. Questo economista di sentimenti monarchici assolse il mandato con senso dello Stato, correttezza e imparzialità in un periodo difficile della nostra storia. Piacque il suo discorso di insediamento per lo spirito profondamente liberale, nel senso più alto del termine, che lo animava. Piacque per il riferimento alla Costituzione come strumento per «conservare della struttura sociale tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della libertà della persona umana contro l'onnipotenza dello Stato e la prepotenza privata» e per «garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile dei punti di partenza». Quando fu eletto presidente Einaudi aveva 74 anni. Era molto conosciuto come un illustre studioso, ma anche un attento commentatore di politica ed economia. Accanto all'attività accademica, che iniziò giovanissimo (divenne professore ordinario di Scienza delle finanze nel 1902), aveva condotto battaglie giornalistiche a favore degli ideali liberali e liberisti fin dall'inizio del secolo. Aveva condannato interventismo statale, nazionalizzazioni, tentazioni monopolistiche, protezionismo doganale, nonché «parassitismo operaio» e socialismo accusati di spingere il Paese verso un «medievalismo corporativistico» e la burocratizzazione della società. Memorabile era stato il giudizio negativo sul governo di Giolitti, a suo parere guidato da «mentalità semplificatrice» e da empirismo spicciolo piuttosto che da compiuta concezione liberale. Le polemiche giovanili avevano già rivelato una precisa concezione liberale della vita e della società, che lo aveva spinto a giudicare in maniera negativa la classe politica del suo tempo composta di uomini «che si dicono liberali» ma che liberali non erano perché il loro operare era frutto di «un certo solido buon senso confortato dallo stato di necessità». Il liberalismo di Einaudi recuperava la tradizione inglese, quella di Alfred Marshall e John Stuart Mill, e la coniugava con quella italiana: Antonio De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni, Vilfredo Pareto e, in campo politico, Gaetano Mosca. Dopo la prima guerra mondiale, Einaudi si occupò di problemi internazionali sia sotto il profilo economico sia sotto quello politico. Discusse della stabilizzazione delle monete europee e criticò la Società delle Nazioni. Come la maggior parte degli esponenti del vecchio liberalismo, anche Einaudi manifestò una iniziale simpatia per il programma economico del primo Mussolini: simpatia però non priva di riserve per il fatto che il governo sembrava scegliere la strada delle «riforme a spizzico» anziché quella delle «riforme organiche». Il distacco dal fascismo e l’opposizione al regime maturarono presto. Ebbe inizio così un periodo di raccoglimento e operosità scientifica che impegnò Einaudi nella stesura di lavori importanti e in un vivace confronto con Keynes che egli considerava un genio del paradosso, uno snob disposto ad autocontraddirsi pur di remare controcorrente. Tornato alla ribalta della scena con la ripresa della vita democratica, Einaudi fu governatore della Banca d'Italia, deputato alla Costituente, vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio. Poi, infine, presidente della Repubblica. L’incarico di capo dello Stato lo assolse con grande stile. Un suo scritto d'occasione, dal titolo Torniamo allo Statuto, ne dà la misura. Dopo aver ricordato l'abitudine spagnolesca di una lingua infarcita di titoli e onorificenze, Einaudi concludeva: «Sarebbe tempo che si tornasse dappertutto, nelle costumanze ufficiali e sociali, nel parlare e nello scrivere, alla antica semplicità, e abbandonassimo le recenti non lodevoli abitudini di un linguaggio arlecchinesco, che devono essere cagione di stupore non piccolo ai nostri alleati, usi a vivere in quei paesi dove la democrazia nuova non ha fatto dimenticare le antiche forme del vivere aristocratico, che vuol dire fine e semplice». Parole che sarebbero state bene in bocca a un conservatore inossidabile come Ansaldo. Ma in fondo, Einaudi, liberale e liberista, fu anche un conservatore. Studioso ineccepibile, fu pure un moralista e, a suo modo, un pedagogo, convinto che l'economia dovesse avere una funzione educatrice. Poco prima della morte ribadì il concetto che l'economista deve saper cogliere «i legami tra l'operare economico e l'operare politico o morale o spirituale». Un'idea che assimila la figura dell'economista a quella di un umanista.

Il Mistero dei faldoni spariti, scrive Francesco Perfetti, Sabato 23/04/2011, su "Il Giornale". Altre ombre infittiscono il mistero della morte di Mussolini. Sono scomparse due voluminose buste di documenti, facenti originariamente parte dell'Archivio per la storia del movimento liberale fondato da Ercole Camurani e che, molto probabilmente, contenevano informazioni importanti sulla vicenda. Lo ha raccontato in una lettera, inviatami all'indomani della pubblicazione della mia serie di articoli sulla fine di Mussolini usciti sul Giornale, lo stesso Camurani. Questi - da sempre militante liberale e già capo della segreteria di Giovanni Malagodi all'epoca in cui costui era stato ministro del Tesoro nel secondo governo Andreotti - è un appassionato studioso della storia del liberalismo italiano ed è stato creatore, animatore e presidente dell'Istituto per la storia del movimento liberale, dal momento della sua fondazione nel 72 alla sua liquidazione nel 93. L'Istituto si occupava di promuovere studi e ricerche sul liberalismo italiano, ma anche di raccogliere fonti bibliografiche e documentarie sul tema. La parte archivistica, confluita nell'Archivio Storico della Camera dei Deputati, è stata inventariata e di ciò dà conto un denso volume dal titolo Gli archivi dell'Istituto per la storia del movimento liberale (1885-1995). Inventario a cura di Luisa Falchi, Enrica Serinaldi e Fabio Simonelli, edito nel 2005 dalla Camera dei Deputati. Camurani, oltre a raccogliere e ordinare le fonti del liberalismo, fece pubblicare importanti lavori sul liberalismo tra i quali un ampio studio di Max Salvadori, intitolato Leresia liberale, che è un primo tentativo di storia dell'evoluzione dell'idea liberale. Proprio il riferimento, contenuto in uno dei miei articoli sulla fine di Mussolini, al ruolo che Max Salvadori avrebbe avuto, come agente dell'Intelligence Service nella vicenda dell'uccisione del Duce, ha spinto Camurani, che di Salvadori fu amico e confidente, a inviarmi la lettera della quale, con la sua autorizzazione, è opportuno rendere noti i passi essenziali. Camurani mi ricordava che il suo intero archivio era «stato acquisito dall’Archivio della Camera dei Deputati e repertorizzato». Ma aggiungeva: «nel repertorio assai completo mancano due buste: una busta vera e propria in carta rossiccia di Max Salvadori ed una spessa cartella d'archivio del generale Cadorna». Le due cartelle erano state affidate a Camurani «da Salvadori e Cadorna in tempi diversi, ma con l'identica raccomandazione di aprirle e farne l'uso» che egli avrebbe creduto più opportuno solo dopo «il 31 dicembre 2000». La lettera prosegue in questi termini: «Max mi disse che si trattava di documenti e di un memoriale, ma fu assai evasivo sull'argomento. De Felice, in una delle sue ultime interviste, affermò che solo con l'apertura di carte di Salvadori si sarebbe fatta chiarezza sulla fine di Mussolini. La cartella di Cadorna conteneva per certo, scritto in costa e confermato dallo stesso Generale, poco prima della scomparsa quando me la diede nella sua villa sul lago, dopo avermi colà chiamato con urgenza, le copie dei messaggi della Divisione Oro, alla quale facevano capo le trasmissioni radio delle missioni alleate presso i reparti partigiani. Entrambi i fascicoli, in repertorio dell'ISML, non li ho più trovati nel repertorio pubblicato dalla Camera. L'acquisto dell'Archivio Isml venne deciso essendo Violante presidente della Camera e pubblicato con Casini Presidente. Nelle more del trasferimento da Bologna a Roma, i faldoni dell'Archivio rimasero in un magazzino di Viale Silvani, frequentato da chi aveva avuto l'incarico di stimare i materiali e, mi si dice, da un professore non meglio specificato». La lettera dà conto anche della scomparsa di altri due fascicoli, peraltro non segnalati nel repertorio ufficiale dell'ISML, ma certo politicamente rilevanti. Scrive Camurani: «Aggiungo che altri due fascicoli sono spariti, ma non erano repertorizzati tra quelli dell'ISML: i materiali relativi a Gladio, su cui pubblicai il libro del gen. Inzerilli, e le liste dei giovani comunisti che avevano partecipato alle scuole di partito in vari paesi d'oltre cortina e Cuba, che mi erano state fatte avere per una eventuale pubblicazione». Ma torniamo ai due fascicoli - quello di Salvadori e quello di Cadorna - consegnati, perché li conservasse nell'archivio di una istituzione seria e benemerita, a Camurani in momenti diversi, ma nel quadro di un accordo o di una precisa concertazione fra i due, come dimostra da parte loro la richiesta di apporre alla consultazione il medesimo vincolo temporale. È evidente, da questo solo fatto, che il contenuto dei due fascicoli dovesse essere collegato ed è presumibile che esso riguardasse, almeno in parte, le vicende relative alle decisioni sulla sorte da riservare a Mussolini e alla sua stessa uccisione. E questo perché tanto Salvadori quanto Cadorna ebbero un ruolo importante in quei frangenti. Il generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo Volontari della Libertà, organo militare del Clnai, esponente della corrente moderata della Resistenza, godeva di fiducia e credito presso gli Alleati. Il suo comportamento nella circostanza non è stato del tutto chiarito. L'inchiesta riservata condotta, poco dopo gli eventi, per conto dei servizi segreti americani dall'agente Valerian Lada Mocarski sottolineò molti punti che spingono ad approfondire il ruolo del Generale. Per esempio ricordò che la sera del 27 aprile 45 il colonnello «Valerio», cioè Walter Audisio, si presentò nella Prefettura di Como asserendo di «venire da Milano con l'ordine di eseguire una missione segreta da parte del Generale Cadorna». Poi, relazionando sul colloquio avuto con il generale, lagente ne sottolineò una sorta di reticenza: «il generale Cadorna fu molto franco nel precisare che non tutti i particolari sui quali stavo indagando erano conosciuti dal Clnai. Tuttavia sostenne che al colonnello Valerio era stato dato ordine di procedere all’esecuzione al momento della sua partenza da Milano per Dongo. In risposta alla domanda se l’ordine fosse frutto di una decisione del Comitato, e se egli fosse presente, il generale Cadorna rispose che l'ordine era stato ufficialmente emanato da un membro del Comitato, che agiva per conto di tutto il Comitato». È pensabile che nella cartella sparita potesse essere traccia di eventuali istruzioni. Max Salvadori mantenne sempre un certo riserbo non esitando però a commentare che i fatti di Dongo rappresentavano «la punizione del massimo delitto», quello di «aver privato i cittadini italiani della loro libertà» e di «aver sottratto il governo al controllo della Nazione». Solo a seguito delle pressioni di Renzo De Felice, alla ricerca di conferme alla sua tesi della «pista inglese», si decise a inviare allo storico un memoriale. Scrisse in esso: «nell'ambito delle mie funzioni di ufficiale Alleato \ non valeva la pena di occuparsi di Mussolini». Ma poi precisò di essersi tenuto al corrente dell'incontro avvenuto nel palazzo arcivescovile, presso il cardinale Schuster, nel pomeriggio del 25 aprile: «Ritenni allora che non vi era niente da discutere, che qualsiasi trattativa e negoziato avrebbe danneggiato il Clnai nei confronti degli Alleati e provai un senso di sollievo quando venni a sapere che non vi erano state né trattative né negoziati». Infine ricordò di aver partecipato alle riunioni del Clnai, dopo il suo arrivo a Milano, «solo come osservatore, senza mai prendere la parola» tranne che nella riunione tenuta dopo il 25 aprile quando venne annunciato l'arresto di Mussolini. In quella riunione egli prese la parola per precisare che, per il Comando Alleato, il Clnai era «il delegato del governo italiano in territorio occupato dal nemico e come tale esercitava funzioni governative» almeno fino all'instaurazione dell’AMG (Allied Military Government). Il che significava demandare al CLNAI la decisione sulla sorte di Mussolini. Lo scontro fra le posizioni inglesi e americane e le divergenze all'interno della Resistenza fra una corrente moderata e una estremista non sono più un segreto e appare sempre più plausibile la convinzione di Renzo De Felice secondo il quale la morte di Mussolini andrebbe vista «in una cornice di lotta e concorrenza fra forze politiche italiane e servizi segreti stranieri». Una situazione su cui le buste di documenti di Salvadori e Cadorna, scomparse presumibilmente prima dell'arrivo dell'intero archivio dell'Isml alla Camera, avrebbero forse potuto gettare un fascio di luce. Cè una domanda senza risposta in questa vicenda, una domanda che si aggiunge agli interrogativi sulle circostanze e sulla modalità della fine di Mussolini. Chi ha sottratto quei documenti e perché?

Majnoni, l'antifascista che scoprì il bluff del Partito d'azione. Il braccio destro "liberale" di Raffaele Mattioli nel '43-45 vide tutta la mediocrità e l'arrivismo di un gruppo politico che mirava solo al potere, scrive Francesco Perfetti, Sabato 31/08/2013, su "Il Giornale". Gli austeri saloni di palazzo Colonna dove aveva sede l'ufficio romano di rappresentanza della Comit, avevano - come ha raccontato l'«aristocratica ribelle» Giuliana Benzoni, anima di una cospirazione antifascista declinata da intellettuali, banchieri e nobildonne nel crepuscolo del regime - una «anonima grandiosità», emanavano «odore di legni antichi» e le loro porte, «ad un leggero tocco, si schiudevano come misteriosi regni». Costituivano l'ambientazione ideale per ospitare incontri riservati con un vago sentore di complottismo. La direzione di quell'ufficio (creato nel 1920 come braccio operativo nella capitale per gestire i rapporti con il governo e la politica) era stata affidata, a partire dal 1935, da Raffaele Mattioli, allora amministratore delegato della Banca Commerciale Italiana, a un uomo di fiducia, Massimiliano Majnoni d'Intignano. Questi, allora poco più che quarantenne (era nato nel 1894) era un aristocratico lombardo, cattolico-liberale, il cui padre, architetto della Real Casa, era stato amico di Umberto I e il cui cognato, Paolo Guicciardini, era gentiluomo di corte. L'estrazione familiare e i contatti col mondo ecclesiastico, ma anche una esperienza «diplomatica» nella missione militare italiana alla conferenza per la pace di Versailles, oltre alle doti organizzative e alle già accertate capacità manageriali, lo avevano fatto apparire a Mattioli il personaggio più adatto per guidare la rappresentanza romana. Soprattutto a partire dall'inizio degli anni Quaranta, in ambienti e salotti romani, frequentati da nobili irrequieti e intellettuali insoddisfatti, aveva cominciato a diffondersi un antifascismo che si traduceva, più che in spirito di fronda, in vocazione cospirativa. La marchesa Benzoni era al centro di questo universo. Fu lei che - amica di Maria José di Savoia e animatrice di un gruppo «femminil-vario-antifascista» - stabilì un contatto fra la Principessa di Piemonte e Mattioli, col tramite di Majnoni, per spingere il banchiere a imbarcarsi in una velleitaria e segreta trattativa di pace con gli alleati in territorio portoghese. Legato all'«aristocratica ribelle» da antica amicizia, Majnoni frequentava anche altri salotti, a cominciare da quello delle famiglie Albertini e Carandini, dove si ritrovavano numerosi antifascisti, da Leone Cattani a Novello Papafava. Di queste frequentazioni ha lasciato traccia in un diario nel quale, dal 1908 e fino al 1957, annotava con maniacale precisione fatti e incontri significativi. Di quell'immenso materiale diaristico, depositato presso l'Archivio Storico Intesa San Paolo, sono stati pubblicati ora col titolo Sopravvivere alle rovine. Diario privato di un banchiere (Aragno, pagg. 682, euro 60) i quaderni relativi al periodo che va dal 25 luglio 1943 al giugno 1945. Si tratta di una testimonianza importante per la storia economica ma anche politica: una testimonianza che, priva di reticenze e ricca di giudizi al vetriolo, consente di capire meglio gli avvenimenti e il ruolo giocato dal mondo finanziario e intellettuale nella caduta del regime e nella fase immediatamente successiva. La Comit divenne il centro dell'antifascismo. Mattioli, trasferitosi, dopo il 25 luglio, da Milano a Roma, fece dei saloni di Palazzo Colonna il punto di riferimento di contatti che coinvolgevano azionisti, cattolici, liberali, monarchici, socialisti e persino comunisti. Del banchiere, «regolatore di tutte le opposizioni», Majnoni traccia un ritratto efficace: «Mattioli ha veramente una grandissima forza, quella di saper incanalare le attività altrui verso uno scopo da lui desiderato. Questi diversi rivoli sfociano poi in fiumi vari. Poi lui ripiglia i fiumi e li fa ancora confluire in un fiume più grande. Senza apparente sforzo, e forse anche senza uno scopo preventivamente determinato. Ma è poi assistito da un istinto direi quasi riassuntivo, per cui tutte queste forze, che sembrano indipendenti e contrastanti, confluiscono verso uno scopo, che gli vien rivelato di volta in volta. Perché è agilissimo e pronto ad applicare tutte queste forze alle circostanze, secondo che queste si vengono manifestando. L'importante è di avere queste grandi riserve, nei campi più disparati, a sua disposizione». Per quanto anch'egli antifascista, di un antifascismo liberale e conservatore, e per quanto estimatore del banchiere umanista, Majnoni non ne apprezzava l'appoggio al Partito d'Azione, che faceva dire in giro che il PdA era «il partito degli azionisti della Comit». A lui gli azionisti sembravano «gente buffa e in fondo perniciosa e poco seria». Le frecciate contro di loro sono impietose: «son gente ambiziosa e senza scrupoli, bugiardi e violenti», una «squadra di impotenti rivoluzionari», di «eterni congiurati da commedia che, nell'ombra, pestan l'acqua nel mortaio, con truci sguardi e passi circospetti»: personaggi, raccolti attorno al giornale ufficiale del PdA, L'Italia libera, impegnati in una «corsa al cadreghino, sfacciata e, malgrado tutto antiquata», con poche eccezioni «uomini gonfiati, ambiziosi, o partigiani» e soprattutto «plebei, nel senso piccolo borghese della parola». Soprattutto infastidivano Majnoni l'arrivismo e la spregiudicatezza di intellettuali e politici che si preparavano al «futuro assalto alla dirigenza»: «mi pare strano che mentre l'Italia sta affondando questi giovani si occupino di posti. Si vede che nelle nuove generazioni l'Italia è già bacata. Ed allora non c'è davvero più speranza». Il 7 agosto 1943 egli annotava che Ugo La Malfa e Enrico Cuccia erano «nerissimi» per aver perso «il treno ministeriale». Per La Malfa aveva «simpatia ed affetto» ma non condivideva «nessuna delle sue idee» né le «invettive verbali». Sul «quadrumvirato degli intellettuali» vicini a Mattioli - Carlo Antoni, Guido De Ruggiero, Umberto Morra di Lavriano, Piero Pancrazi - poi diventato una «pentarchia» con Luigi Salvatorelli, non si faceva illusioni. Pochi si salvano dal giudizio affilato: il filosofo Guido Calogero è «un uomo colto, maestro e didatta; ma dal poco cervello e un poco pieno di sé»; lo storico della filosofia Guido De Ruggiero è «debole e pieno di vanità», l'archeologo Umberto Zanotti Bianco «sembra una zitella inglese, è amato dalle donne, tra le quali dicono passi incontaminato». Solo per lo storico Luigi Salvatorelli, pur nel dissenso, ha parole di stima: «è un uomo con delle idee, e con una soda conoscenza dei fatti relativamente agli ultimi cento anni. Di tutto il Partito d'Azione è il solo che rispetti». È davvero un po' poco per un partito che, per usare le parole di Gaetano Baldacci, si crogiolava in «una illusione democratica».

Dalla culla alla tomba: torna il welfare del Duce. Infanzia e pensioni, l’eredità del Ventennio nel moderno statalismo. Ma la deriva assistenzialista è un rischio, scrive Francesco Perfetti, Sabato 20/08/2011, su "Il Giornale". Non è affatto vero, come è stato sostenuto, che la manovra finanziaria di mezzo agosto non abbia un padre. Ce l’ha e come. E non è un padre molto simpatico. Si chiama statalismo. È l’erede di quella «economia mista» realizzata dal fascismo e transitata e sopravvissuta nell’Italia repubblicana. Dopo una brevissima parentesi liberista - legata al nome di un grande economista, Alberto De Stefani - il fascismo abbandonò la politica di «restaurazione finanziaria» che aveva fatto proprio uno dei miti della «destra storica», il pareggio del bilancio, che il ministro De Stefani poté orgogliosamente dichiarare raggiunto il 2 giugno 1925. Il nuovo obiettivo del fascismo era la «trasformazione dello Stato» (l’espressione è di Alfredo Rocco) e, con essa, la costruzione di un regime lontano dallo spirito dell’Italia liberale: un regime di tipo autoritario che facesse leva sul «consenso» delle masse garantito da strutture che assicuravano la «fascistizzazione» del Paese attraverso il controllo della vita e delle attività, lavorative e intellettuali, del cittadino. La meta venne raggiunta non solo attraverso interventi sulla struttura istituzionale e organizzativa dello Stato, ma anche passando attraverso la politica economica, finanziaria, sindacale. Fra il 1925 e il 1929 il fascismo gettò le basi per la costruzione del cosiddetto Stato corporativo, che ebbe, come presupposti e capisaldi, la liquidazione del sindacalismo autonomo, la legge sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro (o legge sindacale), l’istituzione delle corporazioni, la «Carta del lavoro», l’istituzione della magistratura del lavoro, ma anche una legislazione sociale che riguardava l’infanzia, il mondo femminile, la famiglia. Il corporativismo fu, comunque, il grande tema degli anni trenta. Se ne discusse come dottrina economica, ma anche come modalità di organizzazione dello Stato capace di rispondere alle sfide innescata dalla grande crisi del 1929 e alle conseguenze della recessione sull’economia europea. Nacque l’idea di creare uno «Stato nuovo» fondato sui sindacati o, addirittura - come sostenne Ugo Spirito con la proposta di una «corporazione proprietaria» - costruito sull’identificazione fra individuo e Stato propria del comunismo sovietico. Sempre più lontano - e, anzi, ad esso contrapposto - dallo spirito dello Stato liberale, il fascismo, durante gli anni Trenta, accentuò la presenza della mano pubblica nell’economia nazionale creando una miriade di aziende autonome ed enti pubblici. Si poté parlare, addirittura e non senza ragione, di «Stato imprenditore». Nel 1937, con la trasformazione dell’Iri, creato quattro anni prima per arginare i contraccolpi della grande crisi, in istituzione permanente, lo Stato, di fatto, divenne proprietario di un impero industriale, che, alla vigilia del conflitto mondiale, grazie alle finanziarie di settore, controllava il 90% della flotta mercantile, il 75% della produzione di ghisa, il 45% di quella siderurgica ed era presente nei settori della telefonia, della cantieristica, dell’industria meccanica, dell’industria elettrica. Contemporaneamente alla trasformazione in Stato imprenditoriale, il fascismo realizzò di fatto uno Stato assistenziale, che seguiva la vita del cittadino, per così dire, «dalla culla alla tomba», attraverso le organizzazioni giovanili, il dopolavoro, l’opera maternità e infanzia e via dicendo. Ed è questa - l’idea dello Stato assistenziale e dello Stato imprenditore - la vera eredità lasciata all’Italia postfascista. Un’eredità pesante e negativa. Lo statalismo e l’interventismo statale sono, checché se ne voglia dire, la negazione del liberismo economico e del liberalismo politico. La manovra economica di ferragosto, anziché interventi strutturali in chiave liberale, ha privilegiato la leva fiscale e la protezione di interessi corporativi, come, per esempio, la difesa delle pensioni di anzianità e il rifiuto di innalzare l’età pensionabile. E non è cosa bella. Né, tanto meno, utile.

Così l'Italia del Duce perse la guerra Prima di iniziarla. Torna in libreria Tecnica della sconfitta il classico di Franco Bandini. Analizza gli errori che segnarono irreparabilmente l'inizio del conflitto, scrive Francesco Perfetti, Venerdì 14/03/2014, su "Il Giornale". In soli quarantadue giorni - quelli compresi tra il 29 maggio 1940 quando Mussolini decise di entrare in guerra e l'8 luglio, data della battaglia di Punta Stilo - maturarono le premesse della sconfitta italiana nel secondo conflitto mondiale. Le sei «incredibili» settimane cominciarono con l'annuncio dato da Mussolini al Maresciallo Pietro Badoglio e a Italo Balbo di aver informato Hitler che egli non intendeva «restare con le mani alla cintola» e che, di lì a qualche giorno, sarebbe stato «pronto a dichiarare la guerra all'Inghilterra». Si conclusero con la rinuncia ordinata da Supermarina, contro il preciso desiderio dell'ammiraglio Bergamini, ad attaccare, in condizioni di massimo favore, la flotta inglese: una decisione che si rivelò fatale perché non si sarebbe più ripresentata una occasione così favorevole e che avrebbe potuto assicurare all'Italia, all'inizio del conflitto, una vittoria navale di grande importanza. In mezzo, il 10 giugno, ci sono la consegna agli ambasciatori di Francia e di Gran Bretagna da parte di Galeazzo Ciano, in divisa da colonnello dell'aeronautica, della dichiarazione di guerra e il discorso di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia che si conclude con la frase: «Popolo italiano: corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio e il tuo valore». La ricostruzione analitica degli avvenimenti italiani di quei giorni, con uno sguardo comparato con quanto stava avvenendo negli altri Paesi e sui teatri bellici, costituisce l'ultima parte di un celebre volume di Franco Bandini, Tecnica della sconfitta (Florence Press, pagg. 544, euro 24) ripubblicato, con una introduzione di Franco Cardini, a distanza di mezzo secolo dalla prima edizione. Quei quarantadue giorni rivelarono tutta l'improvvisazione delle scelte politiche e strategiche dell'Italia. Peraltro, anche se gli errori compiuti in quelle settimane non ci fossero stati, difficilmente l'Italia avrebbe potuto uscire vincitrice dal conflitto: osserva, in proposito, Bandini che c'è, anzi, «da meravigliarsi che si sia riusciti a rimanere in piedi per tre anni» vista «la nostra direzione militare, quella politica e quella diplomatica» per non dire della «incredibile ottusità e incultura della nostra classe dirigente». Quando apparve nel 1963, Tecnica della sconfitta riscosse un grande (e meritato) successo non solo e non tanto per l'analisi anticonformistica di quella manciata di settimane critiche che precedettero e seguirono l'entrata in guerra dell'Italia, quanto piuttosto per le considerazioni generali sulle origini del conflitto che mettevano in luce risvolti sottovalutati dalla storiografia. Bandini, per esempio, sottolineava, fin dalle prime pagine del volume, l'importanza della gara fra le grandi potenze per il predominio sui mari. A spingere Neville Chamberlain sulla strada della garanzia militare alla Polonia furono, in questo quadro, non motivazioni di tipo politico o ideale ma la conferma di notizie allarmanti per la Gran Bretagna sulla reale portata delle costruzioni navali di Hitler. Non era ammissibile, infatti, per gli inglesi che la Germania potesse diventare una potenza navale troppo forte in grado di far loro concorrenza sui mari: ecco perché il governo britannico decise, con una guerra pensata sostanzialmente come «preventiva», di attaccare la Germania, e solo la Germania. Logica avrebbe voluto che nel mirino fosse entrata anche l'Urss, complice del nazismo nella spartizione della Polonia in virtù del patto Molotov-Ribbentrop, ma ciò non avvenne, anche perché appariva già come realistica (o, quanto meno, auspicabile) la prospettiva di un futuro accordo con Stalin per esorcizzare il pericolo della potenza tedesca. Sulla scacchiera del grande gioco della politica internazionale, l'Italia si mosse in maniera del tutto inadeguata, dilettantesca e contraddittoria. Secondo Bandini, la scelta della «non belligeranza», all'inizio, irritò i tedeschi perché tolse loro uno strumento di pressione negoziale nei confronti degli anglo-francesi subito dopo la fine della campagna di Polonia, ma poi non dispiacque a Hitler convintosi che l'intervento italiano avrebbe comportato, più che un aiuto concreto e decisivo, un mare di complicazioni. L'intervento italiano, nel giugno 1940, con l'improvviso attacco alla Francia e con una carente preparazione militare, si rivelò funzionale al disegno strategico di Churchill e agli interessi inglesi che puntavano sull'allargamento del conflitto per coinvolgere anche gli Stati Uniti. Frutto di lunghe ricerche e di una continua riflessione sui fatti, il volume di Franco Bandini, indipendentemente dalla condivisibilità o meno di talune sue tesi, rimane ancora oggi, a mezzo secolo di distanza, un testo di riferimento, di piacevole lettura e pieno di suggestioni. Forse non è il lavoro più conosciuto di un autore il cui nome è legato a due opere famose: Vita e morte segreta di Mussolini (1978), dove è sviluppata la tesi della «doppia fucilazione» del dittatore italiano e del ruolo dei servizi segreti inglesi in quella vicenda, e Il cono d'ombra (1990) che getta un fascio di luce nuova sull'assassinio dei fratelli Rosselli e sui misteri che lo avvolgono. Ma è, certamente, il suo libro di maggiore spessore storiografico.

I misteri di Mussolini ormai rassegnato alla fine del fascismo. Sono ancora molti gli aspetti oscuri dei giorni che portarono alla caduta del regime. A partire dalle decisioni del Duce..., scrive Francesco Perfetti, Giovedì 25/07/2013, su "Il Giornale". La sala nella quale, poco dopo le 17 del 24 luglio 1943, ebbe inizio l'ultima riunione del Gran Consiglio del Fascismo dal 1939 non veniva più usata se non come stanza dove si sostava prima di essere ricevuti da Benito Mussolini nella sala del Mappamondo. Quel pomeriggio, predisposta per una riunione destinata a passare alla storia, essa non aveva acquistato nulla in solennità: era male arredata con un tavolo in legno compensato a ferro di cavallo e sedie di brutta fattura di stile cinquecentesco. Al centro il tavolo del Duce, più alto e coperto, davanti, da un drappo di velluto grigio azzurro. I membri presenti erano ventotto e si accomodarono quattordici per lato. Ha raccontato uno di essi, Alberto De Stefani in un memoriale scritto a caldo e ora ritrovato e pubblicato con il titolo Gran Consiglio, ultima seduta (Le Lettere, Firenze) che nel fatidico pomeriggio del 24 luglio, entrando in quel luogo «da quattro anni senza voce», si percepiva in tutti «un'angoscia opprimente e negli occhi di taluno la trepidazione dell'imprevedibile». C'erano, insomma, agitazione e preoccupazione: «Ci sentivamo sperduti, eppure dominati da una necessità imperiosa, più forte di noi, che non si sapeva da dove venisse». La convocazione del Gran Consiglio era giunta a sorpresa, perché non si credeva che Mussolini avrebbe acceduto alla richiesta. Qualche mese prima, un senatore, Ettore Rotigliano, aveva promosso una raccolta di firme per ottenere che venisse convocata una «seduta segreta» del Senato nella quale il Capo del Governo avrebbe dovuto riferire sulla situazione militare e politica, ma l'iniziativa non aveva avuto seguito, bloccata proprio da Mussolini. Adesso, invece, il Duce aveva accettato che venisse riunito il supremo organo del regime. Perché? È il primo dei tanti misteri che circondano lo svilupparsi della vicenda che avrebbe messo la pietra tombale sul regime. Mussolini era al corrente dei maneggi di Grandi, allora presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, e, probabilmente, anche delle manovre che, a diversi livelli, coinvolgevano la Corona, settori delle forze armate e ambienti dell'antifascismo e che trovavano alimento nella disastrosa situazione militare degli ultimi mesi. A ridosso della riunione, il 22 luglio, anzi, egli aveva persino visto in anteprima, una bozza, presentatagli dallo stesso Grandi, dell'ordine del giorno che questi avrebbe voluto mettere in votazione. Non è da escludere che Mussolini fosse convinto di poter mettere i gerarchi dissidenti con le spalle al muro coinvolgendoli nelle responsabilità della guerra e che, dopo tutto, ritenesse utile restituire al Re il supremo comando militare per scaricare su di lui il peso dei disastri militari. In realtà, però, l'ordine del giorno Grandi era assai più dirompente proprio per il fatto di essere dibattuto in un organo che, pur non essendo il Parlamento, ne era diventato di fatto un surrogato: finiva per essere una mozione di sfiducia nei confronti del Capo del Governo. Mussolini non se ne rese conto e non se ne resero conto neppure, con molta probabilità, molti di coloro che lo avevano sottoscritto. Esso offriva a Vittorio Emanuele III quel «pretesto costituzionale» che egli, con la sua pedanteria legalitaria, andava cercando da tempo. Il Re era ormai convinto della necessità di liquidare Mussolini. Questa idea era maturata dopo lo storico incontro di Feltre tra Mussolini e Hitler il 19 luglio 1943, ma era in gestazione da tempo, alimentata dai suggerimenti e dagli incontri con uomini politici della vecchia politica prefascista, da Vittorio Emanuele Orlando a Marcello Soleri fino a Ivanoe Bonomi, dalle pressioni di alcuni ambienti militari e dalle vellutate allusioni e dagli intrighi del ministro della Real Casa, il duca Pietro d'Acquarone. Proprio alla vigilia dell'ingresso dell'Italia in guerra, nel 1940, Vittorio Emanuele III aveva cercato, invano, grazie ai buoni uffici dello stesso d'Acquarone, di convincere Galeazzo Ciano a favorire il trapasso dei poteri attraverso una «soluzione morbida», che allora egli riteneva fosse accettabile anche dallo stesso Mussolini, fondata su una convocazione del Gran Consiglio che mettesse in minoranza il Duce. Il comportamento del Re nei confronti di Grandi, alla vigilia del 25 luglio, fu cauto ma coerente. Negli incontri che ebbe con lui insistette sempre sulla necessità del «pretesto costituzionale» per poter intervenire e lo esortò ad «aver fiducia» nel suo sovrano. Grandi ne ricavò l'impressione di aver ottenuto «mano libera» per portare avanti il suo progetto che prevedeva non solo il ritorno allo Statuto e la fine della dittatura, ma anche la formazione di un governo presieduto da Caviglia con elementi tecnici e l'uscita immediata dell'Italia dal conflitto e l'apertura delle ostilità contro la Germania. La seduta del Gran Consiglio durò a lungo - dalle 17 alle 2,30 circa del mattino successivo con una breve interruzione verso la mezzanotte ed ebbe momenti di tensione testimoniati dai ricordi dei protagonisti. Un verbale ne fu steso, il giorno dopo, presenti molti di coloro che approvarono l'o.d.g. Grandi, a casa di Federzoni ed è riportato in appendice al volume dello stesso Federzoni, Memorie di un condannato a morte (Le Lettere), scritto nel periodo della clandestinità dell'autore. Mussolini apparve, di volta in volta, battagliero o rassegnato. Avrebbe potuto contestare la «legittimità» della delibera del Gran Consiglio in questa materia, ma non lo fece. Si limitò a dire, al termine, che quella riunione aveva segnato la fine del regime. Perché? Un mistero, forse spiegabile con la convinzione che il Re lo avrebbe appoggiato o che si sarebbe limitato ad accettare il comando supremo delle forze armate lasciandolo al suo posto. Le cose non andarono così. Il Re lo fece arrestare. E fu, davvero, la fine del fascismo.

In quel giorno iniziò la nostra guerra civile. Una catastrofe nazionale che dopo 70 anni ancora segna il Paese, scrive lo storico Francesco Perfetti, Domenica 8/09/2013, su "Il Giornale". Quel giorno di 70 anni fa, 8 settembre 1943, pesa ancora come un macigno sulla storia nazionale. «La guerra è finita, tutti a casa»: fu questo il significato attribuito alle parole lette alla radio da Badoglio: da quel momento non ci fu più un esercito italiano di soldati, ma di sbandati. Fu una catastrofe senza eguali nella storia del Paese. Un grande scrittore e giurista, Salvatore Satta, vergò un amaro de profundis in cui il trauma dell'8 settembre era assimilato alla «morte della patria» e, implicitamente, a quella della nazione. E Renzo De Felice parlò dell'8 settembre 1943 come della «data simbolo del male italiano», una data che rimetteva in discussione «il carattere stesso di un intero popolo». E si aprì una discussione storiografica e politica che non è ancora esaurita. Nella storia contemporanea italiana c'era stato un altro momento drammatico: la disfatta di Caporetto dell'ottobre 1917. Tuttavia, allora la sconfitta e i suoi effetti vennero riassorbiti dal Paese e dalla classe dirigente. Non a caso Gabriele d'Annunzio parlò di Caporetto come di una «vittoria morale». Nel caso dell'8 settembre ciò non fu possibile. E il motivo è abbastanza chiaro. Il fascismo aveva cercato di «nazionalizzare le masse» in maniera forzata e, per giungere a questo risultato, aveva rotto il binomio nazione-libertà (binomio che era tratto distintivo della «rivoluzione delle nazionalità» in Europa e, per l'Italia, del processo risorgimentale) e aveva identificato se stesso con il nazionalismo. La sua fine catastrofica aveva trascinato con sé l'idea stessa di nazione, condannandola a una sorta di damnatio memoriae tanto che, per molto tempo, il termine stesso di «nazione» scomparve dal lessico politico, surrogato - ma a fatica e grazie solo a Benedetto Croce - da quello di «patria». Insomma, l'8 settembre mise in luce la debolezza etico-politica del Paese. Quella data segnò davvero la «fine della nazione» come valore unificante. Ma, al tempo stesso, esso implicò anche un timido avvio di un processo di «rinascita della nazione». Perché mentre gran parte dell'esercito si dissolveva come neve al sole, molti militari internati nei campi di concentramento rifiutarono di collaborare con i tedeschi mantenendo fede al giuramento al Re, e altri ancora non si lasciarono sopraffare dal panico e dalla confusione che regnavano dappertutto. E, ancora, fra quanti, civili ed ex militari, decisero di impegnarsi nella lotta clandestina ve ne furono tantissimi, di provenienza diversa, cattolici e monarchici e liberali in prima fila, decisi a lottare per la costruzione di una Italia nuova, moderna e democratica, patriottica e nazionale, non succube del progetto togliattiano basato sull'idea di una «democrazia progressiva» con l'occhio e il cuore rivolti al comunismo internazionale e internazionalista. Peraltro, il processo di recupero di una coscienza nazionale fu lungo e faticoso. E, forse, non si è ancora del tutto concluso. La costruzione della nuova Italia, libera e democratica, venne condizionata dal prevalere di una cultura politica basata sul presupposto di una «unità della Resistenza» a guida comunista, ma anche sulla falsa alternativa fascismo-antifascismo. Una cultura politica che finì per influenzare, troppo, il processo di formazione della Costituzione, conferendole quei connotati ideologici e quel carattere di compromesso che la rendono obsoleta. A 70 anni di distanza dalla drammatica giornata dell'8 settembre 1943 è ora di ripensare, mentre nuove macerie si stanno abbattendo sul Paese, la nostra storia e, soprattutto, chiudere il capitolo di una lunga, sotterranea, ininterrotta «guerra civile» che ha segnato questi decenni e impedito di imboccare la strada di una piena riconciliazione nazionale.

Un saggio "definitivo" svela i segreti dell'eccidio di Cefalonia. Aga Rossi ricostruisce le vicende della Acqui depurandole dalla retorica "resistenziale", scrive Francesco Perfetti, Sabato 10/12/2016, su "Il Giornale". La notizia della firma dell'armistizio giunse a Cefalonia ai militari della divisione di fanteria Acqui, comandati dal generale Antonio Gandin, nel tardo pomeriggio dell'8 settembre 1943 grazie a una intercettazione della radio delle Nazioni Unite. Fu accolta con sentimenti contrastanti che viravano dallo stupore al dispiacere per la resa e, quindi, per la sconfitta, fino alla gioia legata all'illusione che la guerra fosse finita. Dopo qualche giorno di indecisioni sull'atteggiamento da assumere consegnare le armi ai tedeschi o rifiutarsi e resistere all'ultimatum dell'ex alleato i militari della Acqui furono impegnati, a partire dal 15 settembre, in furiosi combattimenti che si conclusero con la vittoria tedesca. E, soprattutto, con l'eccidio della divisione, una vendetta sanguinosa destinata a fissarsi nella memoria collettiva come uno degli episodi più tragici del Secondo conflitto mondiale. A Cefalonia e a Corfù, subito dopo la resa, vennero trucidati migliaia di ufficiali e soldati il numero esatto è controverso senza alcun processo e in aperta violazione di ogni norma di diritto nazionale o internazionale. Fu una strage pianificata e del tutto ingiustificata voluta da Hitler come vendetta per il «tradimento» italiano. L'enormità e la brutalità dell'eccidio, perpetrato al di fuori di ogni convenzione internazionale, furono riconosciute al processo di Norimberga dove il generale Telford Taylor, pubblico accusatore, dichiarò: «Questa strage deliberata di ufficiali italiani che erano stati catturati o si erano arresi è una delle azioni più arbitrarie e disonorevoli. Questi uomini indossavano regolare uniforme. Portavano le proprie armi apertamente e seguivano le regole e le usanze di guerra. Erano soldati regolari che avevano diritto a rispetto, a considerazione umana e a trattamento cavalleresco». Elena Aga Rossi ha dedicato un volume dal titolo Cefalonia. La resistenza, l'eccidio, il mito (Il Mulino, pagg. 256, Euro 22) proprio alla ricostruzione delle vicende delle quali fu protagonista la Acqui, ma anche, e soprattutto, al tentativo di spiegare i motivi per i quali, attorno al sacrificio dei militari italiani, sia stata creata, attraverso aggiustamenti e falsificazioni, una «memoria divisa». È un volume documentato e importante, per molti versi definitivo, che resterà, per la ricchezza del materiale e la finezza e l'equilibrio dell'indagine, un punto fermo nella storiografia. La «mitologizzazione» dei fatti di Cefalonia, come esempio paradigmatico di «uso pubblico della storia», cominciò presto quando, già nell'ultimo scorcio del 1945, Ferruccio Parri, prima, e Alcide De Gasperi, poi, celebrarono l'episodio come prima manifestazione di «resistenza partigiana». Ciò avvenne perché, come osserva l'Aga Rossi, quell'episodio di resistenza ai tedeschi, nel particolare momento storico che si stava attraversando, poteva essere valorizzato dal punto di vista politico: «poteva servire a riscattare, sia per fini interni sia sul piano della legittimazione internazionale, l'immagine di un Paese allo sbando che, per il modo in cui era avvenuta la resa, era stata prevalente fino a quel momento». Così, da più parti, si cominciò ad avallare l'idea che la divisione Acqui fosse assimilabile a una «formazione partigiana». La ricostruzione in dettaglio dei fatti di Cefalonia sulla base di materiale documentario, oltre che memorialistico, ha consentito ad Aga Rossi di mettere in discussione, senza peraltro diminuire né il valore sacrificale dell'eccidio né la sua portata storica, la vulgata propria della letteratura e della pubblicistica della sinistra filo-resistenziale. In questa ottica, alla studiosa gli episodi di ribellione o sedizione e il «referendum» stesso fra i militari all'origine della decisione di combattere i tedeschi non appaiono affatto come un «gesto di eroismo resistenziale» come, in seguito uno dei protagonisti, l'allora tenente Renzo Apollonio, avversario del generale Gandin, avrebbe cercato di avallare per presentare quello che accadde a Cefalonia come una sorta di «atto primo» della rifondazione del Paese. In realtà, tra i militari di stanza a Cefalonia e a Corfù, ve ne erano molti che non pensavano affatto a una discontinuità storico-istituzionale, quasi un nuovo inizio, della storia italiana post-fascista, ma, fedeli al giuramento prestato, guardavano alla monarchia come alla istituzione che avrebbe dovuto guidare e gestire la ricostruzione del Paese. Peraltro tra le molle che spinsero i militari a non cedere le armi e a imbracciarle contro i tedeschi non vi erano tanto «motivazioni antifasciste», quanto piuttosto ragioni diverse e concorrenti quali il senso della dignità e dell'onore, la stanchezza della guerra, la frustrazione e il desiderio di tornare a casa. È sintomatica, in proposito, la testimonianza di un reduce riportata dall'autrice: «è ancora vivo in noi il senso del dovere e dell'obbedienza e solo per questo abbiamo imbracciato le armi contro i tedeschi, come d'altra parte le avremmo imbracciate contro gli alleati se ci fosse stato ordinato. Quale interesse possiamo avere noi ad affiancarci ai tedeschi o agli alleati quando è stato firmato un armistizio senza condizioni, che ci umilia e ci avvilisce? In noi tutti manca la volontà di combattere una guerra perduta ed è vivo solo il desiderio di tornare al più presto in Patria». E, uno dei promotori della resistenza ai tedeschi, il capitano Amos Pampaloni, di convinzioni antifasciste, avrebbe confermato in una delle sue ultime interviste: «Noi pensavamo che cedendo le armi diventavamo prigionieri. E invece noi, con l'armistizio, volevamo tornare in Italia. E questo è il concetto principale». C'era, pure, nei soldati della divisione Acqui, con molta probabilità, la convinzione che gli anglo-americani, dopo lo sbarco a Salerno, sarebbero intervenuti nelle isole Ionie e avrebbero dato man forte contro i tedeschi. Ciò non avvenne anche perché gli alleati, impegnati nell'azione di consolidamento delle loro posizioni nell'Italia meridionale, sopravvalutarono l'effettiva capacità di resistenza delle truppe italiane. E non mostrarono, dopo tutto, un vero interesse ad «appoggiare» o «incoraggiare» più di tanto la resistenza italiana in vista delle decisioni postbelliche sull'assetto territoriale di quelle zone. In un certo senso, come emerge dal bel lavoro di Elena Aga Rossi, si potrebbe parlare anche di responsabilità sia del governo Badoglio per gli ordini impartiti di resistere sia degli alleati per il loro cinismo. L'eccidio di Cefalonia, che secondo le stime di Elena Aga Rossi comportò il sacrificio di oltre 2000 italiani morti in combattimento o fucilati dopo la resa, fu il più brutale e imponente massacro compiuto dai tedeschi nei confronti degli italiani. E questo fatto, combinato col momento nel quale esso fu perpetrato, spiega perché esso sia diventato un vero e proprio «mito» funzionale alla «ragion politica». Un «mito» che Elena Aga Rossi, liberandolo dalle pulsioni ideologiche, ha riportato sul terreno concreto della storia. Rendendo, in tal modo, giusto omaggio ai martiri.

L'ostilità per De Felice? Un esempio sinistro di uso politico della storia, scrive Francesco Perfetti, Sabato 21/11/2015, su "Il Giornale". Il termine «revisionismo» ha una lunga storia. Divenne popolare grazie a Eduard Bernstein, il quale lo utilizzò nel 1899 per sostenere la necessità di rivedere le tesi di Marx messe in crisi dal mancato verificarsi delle condizioni che avrebbero dovuto portare al crollo del capitalismo. Venne subito condannato dai sacerdoti dell'ortodossia marxista ed entrò a far parte del lessico marxista come un'ingiuria infamante. Dopo la rivoluzione russa e la costruzione del «paradiso terrestre», venne utilizzato per liquidare quanti mettevano in dubbio il primato ideologico di Lenin. Durante il «terrore» staliniano, l'accusa di «revisionismo» non fu solo infamante: trasformò l'avversario in «nemico oggettivo», in criminale irrecuperabile da eliminare per il futuro della società comunista. Nel corso di un faccia a faccia con Norberto Bobbio, Renzo De Felice sintetizzò questo processo ricordando come all'origine dell'uso negativo del termine «revisionismo» ci fosse stato proprio il comunismo: «Sono le polemiche fra le varie correnti del pensiero marxista che l'hanno fatto diventare un'offesa mortale. Chiunque metteva in discussione la linea vincente del partito, chiunque pretendeva di discutere i fondamenti della teoria marxista diventava automaticamente un pericolo politico. Per questo revisionismo è diventato un termine spregiativo. Chi non ricorda il revisionista Bernstein o il rinnegato Kautsky? Il momento cruciale fu costituito dalla vittoria dei bolscevichi sui menscevichi, che portò con sé la critica a tutti i socialismi che non riconoscevano la supremazia ideologica del partito di Lenin. Con Stalin il revisionismo diventa addirittura un crimine contro lo stato guida, il comunismo in un paese solo, l'internazionalismo proletario». De Felice non si curò mai troppo della definizione di «storico revisionista» che i suoi avversari gli avevano cucito addosso per demonizzarlo e ottenerne l'emarginazione dalla comunità storiografica. Ma fece bene a rammentare le origini del «revisionismo» perché, in tal modo, smascherò il carattere ideologico dell'accusa di riscrivere la storia stravolgendo o capovolgendo risultati e interpretazioni acquisite. Che l'accusa fosse ideologica è evidente, quanto meno perché intendeva preservare la purezza di una vulgata storiografica, cioè un'interpretazione «canonica» o ufficiale della storia, debitrice, nell'Italia repubblicana e antifascista, dell'egemonia culturale marxista e azionista. La sua virulenza si vide nel linciaggio morale cui venne sottoposto lo studioso e nella richiesta di allontanarlo dalla cattedra. Poco importa che molte delle sue tesi dalla distinzione tra fascismo regime e fascismo movimento all'individuazione del ruolo dei ceti medi emergenti, dal riconoscimento dell'esistenza di un consenso diffuso alla precisazione delle differenze tra fascismo e nazionalsocialismo siano, ormai, patrimonio acquisito della più avvertita storiografia internazionale. Poco importa che alcuni di coloro che, all'epoca, furono tra gli «aggressori» neghino l'aggressione pur ribadendo la «pericolosità» delle tesi dello studioso che avrebbero avuto una implicita valenza politica portando sia alla riabilitazione e rivalutazione del fascismo sia allo «sdoganamento» culturale e politico dell'estrema destra e alla sua legittimazione. Quel che conta è che De Felice venne arruolato d'imperio nelle schiere revisioniste, senza curarsi della sua insofferenza per tale etichetta. Più volte egli fece notare come la sua storiografia non si muovesse alla ricerca di «assurdi revisionismi». Sosteneva che «qualsiasi storico è un revisionista», come lo fu Tito Livio rispetto a Polibio, ma solo nella misura in cui «comincia il suo lavoro dal punto in cui sono arrivati i predecessori, per completare e modificare, aggiungere e cambiare, chiarire e approfondire». Nel suo caso, la ricostruzione del fascismo non aveva «niente di revisionistico», si limitava a «riempire buchi nello studio dei fatti» con lo studio di documentazione prima sconosciuta o ignorata: «per lungo tempo ci si è basati su un numero limitato di fonti e testimonianze. A un certo punto si è sentita la necessità di andare più a fondo, di entrare dentro la realtà del fascismo, che fino ad allora veniva presentato come una monade compatta. Così si è capito che al contrario essa fu fatta di tante cose: uomini, gruppi di interesse, situazioni storiche in evoluzione, idee e utopie. Solo sulla base di questi dati reali oggi si può cominciare a giudicarlo e criticarlo». La posizione di De Felice è chiara. Cionondimeno i nemici accostarono al suo nome e alla sua opera quell'aggettivo «revisionista» che lo ha notato con ironia Sergio Romano «conteneva una nota di biasimo, era pronunciato a bocca storta e suggeriva implicitamente ai lettori la stessa cautela che i preti raccomandano ai loro allievi nel momento in cui debbono autorizzare la lettura di un libro interdetto». L'utilizzazione dell'aggettivo «revisionista» per l'opera di De Felice fu un esempio paradigmatico di «uso politico della storia» effettuato in malafede. Anche perché i guru della sinistra radical-marxista dimentichi che i discorsi di tipo «revisionista» avevano avuto origine dalle loro parti con i piagnistei di Piero Gobetti e Antonio Gramsci sul Risorgimento tradito o incompiuto crearono un'assurda e ambigua comunità ideale di «revisionisti» nella quale inserirono, indistintamente e senza discernimento critico, da una parte, i «negazionisti» che sostenevano l'irrilevanza dell'Olocausto o mettevano persino in dubbio i campi di sterminio nazisti, e, dall'altra parte, studiosi come Ernst Nolte, François Furet, Andreas Hillgruber, Zeev Sternhell, oltre a Renzo De Felice. Questi ultimi erano studiosi veri che hanno consentito alla storiografia, ognuno a suo modo, di fare salti di qualità. Eppure anche per essi, secondo De Felice, la qualifica di «revisionista» avrebbe dovuto essere usata, per dir così, con le molle. Era stato accreditato, infatti, un «concetto generale» di «revisionismo» responsabile di una surrettizia demolizione dei valori etici dell'antifascismo e della Resistenza. Su di esso De Felice si limitò ad osservare: «questi discorsi sul revisionismo come entità unitaria, come una specie di mostro che ha come obiettivo la distruzione di tutta una serie di valori etici, culturali, politici dell'antifascismo, francamente non mi convincono». E aggiunse: «questo revisionismo unico e indirizzato a comuni obiettivi è un argomento del tutto polemico, non ha un fondamento». Ma i professionisti della crociata anti-defeliciana hanno continuato a brandire come un'arma, nei confronti del biografo di Mussolini, l'accusa di «revisionismo». Senza rendersi conto che si trattava, ormai, di un'arma spuntata.

BENITO MUSSOLINI. UN COMUNISTA UCCISO DAI COMUNISTI.

Benito Mussolini. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d'Italia e Duce del Fascismo. Durata mandato 31 ottobre 1922 – 25 luglio 1943. Monarca Vittorio Emanuele III.

Benito Amilcare Andrea Mussolini (Dovia di Predappio, 29 luglio 1883 – Tremezzina, 28 aprile 1945) è stato un politico, dittatore e giornalista italiano. Fondatore del fascismo, fu presidente del Consiglio del Regno d'Italia dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943. Nel gennaio 1925 assunse de facto poteri dittatoriali e dal dicembre dello stesso anno acquisì il titolo di capo del governo primo ministro segretario di Stato. Dopo la guerra d'Etiopia, aggiunse al titolo di duce quello di "Fondatore dell'Impero" e divenne Primo Maresciallo dell'Impero il 30 marzo 1938. Fu capo della Repubblica Sociale Italiana dal settembre 1943 al 27 aprile 1945. Fu esponente di spicco del Partito Socialista Italiano e direttore del quotidiano socialista Avanti! dal 1912. Convinto anti-interventista negli anni della guerra italo-turca e in quelli precedenti la prima guerra mondiale, nel 1914 cambiò improvvisamente opinione, dichiarandosi a favore dell'intervento in guerra. Trovatosi in netto contrasto con la linea del partito, si dimise dalla direzione dell'Avanti! e fondò Il Popolo d'Italia, schierato su posizioni interventiste, venendo quindi espulso dal PSI. Nell'immediato dopoguerra, cavalcando lo scontento per la "vittoria mutilata", fondò i Fasci italiani di combattimento (1919), poi divenuti Partito Nazionale Fascista nel 1921, e si presentò al Paese con un programma politico nazionalista e radicale. Nel contesto di forte instabilità politica e sociale successivo alla Grande Guerra, puntò alla presa del potere; forzando la mano alle istituzioni, con l'aiuto di atti di squadrismo e d'intimidazione politica che culminarono il 28 ottobre 1922 con la marcia su Roma, Mussolini ottenne l'incarico di costituire il Governo (30 ottobre). Dopo il contestato successo alle elezioni politiche del 1924, instaurò nel gennaio 1925 la dittatura, risolvendo con forza la delicata situazione venutasi a creare dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti. Negli anni successivi consolidò il regime, affermando la supremazia del potere esecutivo, trasformando il sistema amministrativo e inquadrando le masse nelle organizzazioni di partito. Nel 1935, Mussolini decise di occupare l'Etiopia, provocando l'isolamento internazionale dell'Italia. Appoggiò quindi i franchisti nella guerra civile spagnola e si avvicinò alla Germania nazista di Adolf Hitler, con il quale stabilì un legame che culminò con il Patto d'Acciaio nel 1939. È in questo periodo che furono approvate in Italia le leggi razziali. Nel 1940, ritenendo ormai prossima la vittoria della Germania, fece entrare l'Italia nella seconda guerra mondiale. In seguito alle disfatte subite dalle Forze Armate italiane e alla messa in minoranza durante il Gran consiglio del fascismo (ordine del giorno Grandi del 24 luglio 1943), fu arrestato per ordine del re (25 luglio) e successivamente tradotto a Campo Imperatore. Liberato dai tedeschi, e ormai in balia delle decisioni di Hitler, instaurò nell'Italia settentrionale la Repubblica Sociale Italiana. In seguito alla definitiva sconfitta delle forze italo tedesche, abbandonò Milano la sera del 25 aprile 1945, dopo aver invano cercato di trattare la resa. Il tentativo di fuga si concluse il 27 aprile con la cattura da parte dei partigiani a Dongo, sul lago di Como. Fu fucilato il giorno seguente insieme alla sua amante Claretta Petacci. Figlio del fabbro Alessandro Mussolini (Montemaggiore di Predappio, 11 novembre 1854- Forlì, 19 novembre 1910) e della maestra elementare Rosa Maltoni (San Martino in Strada, 22 aprile 1858- Predappio, 19 febbraio 1905), nacque il 29 luglio 1883 a Dovia, frazione del comune di Predappio, in una casa tuttora esistente nell'attuale via Varano Costa, ormai inglobata nel paese. Il nome "Benito Amilcare Andrea" fu deciso dal padre, socialista, desideroso di rendere omaggio alla memoria di Benito Juárez, leader rivoluzionario ed ex-presidente del Messico, di Amilcare Cipriani, patriota italiano e socialista, e di Andrea Costa, imolese, leader del socialismo italiano (nell'agosto 1881 aveva fondato a Rimini il «Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna»). Contrariamente al marito, la madre Rosa era credente e fece battezzare il figlio. Mussolini frequentò le prime due classi elementari prima a Dovia e poi a Predappio(1889-1891); entrò quindi per volontà della madre nel collegio salesiano di Faenza (1892-ottobre 1894), ma venne trasferito in seguito a una punizione (comprensiva della retrocessione dalla classe quarta alla seconda) per una rissa nella quale ferì un suo compagno più anziano con un coltello. A Faenza, Benito passò un periodo infelice: oltre alle punizioni corporali subite dai salesiani per la sua scarsa osservanza delle regole del collegio, visse con rabbia e frustrazione la sua condizione sociale. La famiglia era di modeste condizioni: il padre, pur avendo una propria attività, viveva ai margini della comunità locale a causa delle sue idee politiche; la madre, che insegnava ai bambini delle elementari presso Palazzo Varano, guadagnava uno stipendio insufficiente a compensare le mancate entrate del marito. Aiutato dalla madre, proseguì gli studi nella laica Regia Scuola Magistrale maschile Carducci di Forlimpopoli, diretta da Valfredo Carducci, fratello di Giosuè Carducci, dove conseguì nel settembre 1898 la licenza tecnica inferiore. A partire dall'ottobre di quell'anno, per via di uno scontro con un altro alunno, venne costretto a frequentare come esterno (solo nel 1901 fu riammesso come convittore). A Forlimpopoli, anche per l'influsso paterno, Mussolini si avvicinò al socialismo militante facendosi notare in comizi serali nei paesi limitrofi e nel 1900 si iscrisse al Partito Socialista Italiano, dove fece amicizia con Olindo Vernocchi. Dopo aver ottenuto sempre nello stesso istituto di Forlimpopoli il diploma di Maestro elementare l'8 luglio 1901, avanzò domanda d'insegnamento per concorso o per incarico in diversi comuni: Predappio, Legnano, Tolentino, Ancona, Castelnuovo Scrivia. Non riuscendo ad ottenere la cattedra e non avendo nemmeno avuto il posto di "sostituto aiutante" del segretario comunale di Predappio (la sua domanda fu respinta dal gruppo clerico-moderato con 10 voti su 14), dopo una supplenza di pochi mesi nella scuola elementare di Pieve Saliceto (frazione di Gualtieri), emigrò il 9 luglio 1902 in Svizzera per sfuggire al servizio militare obbligatorio, stabilendosi a Losanna. Lì si iscrisse al sindacato muratori e manovali, di cui poi divenne segretario, e il 2 agosto 1902 pubblicò il suo primo articolo su L'Avvenire del lavoratore, il giornale dei socialisti svizzeri; l'attività giornalistica vera e propria cominciò nel 1904. Fino a novembre visse in Svizzera, spostandosi di città in città e svolgendo lavori occasionali, tra cui il garzone di una bottega di vini a Losanna. Venne espulso due volte dal paese: il 18 giugno 1903 fu arrestato a Berna come agitatore socialista, trattenuto in carcere per 12 giorni e poi espulso il 30 giugno dal Canton Berna, mentre il 9 aprile 1904 venne incarcerato per 7 giorni a Ginevra a causa del permesso di soggiorno falsificato, per poi essere espulso una settimana dopo dal Canton Ginevra. Nel frattempo ricevette anche una condanna a un anno di carcere per renitenza alla leva militare. Venne protetto da alcuni socialisti e anarchici del Canton Ticino, tra cui Giacinto Menotti Serrati e Angelica Balabanoff, con la quale avviò una relazione sentimentale. Nel periodo in cui Mussolini risiedette in Svizzera, abitò a Savosa, comune periferico a nord di Lugano, e partecipò al consolidamento dei muri sulla strada di Trevano, sulla Cassarate-Monte Brè e soprattutto alla costruzione della ferrovia Lugano-Tesserete. In Svizzera Mussolini ebbe la possibilità di avvicinarsi a Vilfredo Pareto, frequentandone le lezioni all'Università di Losanna, dove l'economista italo-francese insegnò per alcuni anni. Pareto (che definirà Mussolini "un grande statista") inciterà il suo allievo a prendere il potere e organizzare la Marcia su Roma (inviando un telegramma dalla Svizzera in cui si diceva «ora o mai più»). Mussolini utilizzò le idee di Pareto per rivedere la sua adesione al socialismo. Sempre in Svizzera Mussolini collaborò con periodici locali d'ispirazione socialista (tra cui il Proletario) e inviò corrispondenze al giornale milanese l'Avanguardia socialista. L'attività di giornalista rese evidente sin dai suoi primi scritti l'avversione ideologica al positivismo, allora predominante nel socialismo italiano; Mussolini prese subito posizione contro questo orientamento e si schierò con l'ala rivoluzionaria del partito socialista, capeggiata da Arturo Labriola. Con il passare degli anni Mussolini sviluppa una sempre più aspra avversione verso i riformisti, tentando di diffondere e di imporre all'intero movimento socialista la propria concezione rivoluzionaria. È in questo periodo che mostrò le maggiori affinità ideologiche con il sindacalismo rivoluzionario. Dalle discussioni con il pastore evangelico Alfredo Taglialatela, Mussolini trasse una conclusione negativa sul problema dell'esistenza di Dio, sul quale tornò a riflettere molti anni dopo. Le sue opinioni saranno in seguito raccolte nell'opuscolo L'uomo e la divinità, una breve dissertazione sui motivi per i quali bisognerebbe negare l'esistenza di Dio. Mussolini in questo periodo studiò assiduamente il francese e cercò di imparare il tedesco, avvalendosi in quest'ultimo caso dell'aiuto della Balabanoff. Nel novembre 1904, caduta la condanna per renitenza alla leva in seguito all'amnistia concessa in occasione della nascita dell'erede al trono Umberto, Mussolini tornò in Italia. Dovette tuttavia presentarsi al Distretto militare di Forlì e adempì ai suoi doveri di leva venendo assegnato il 30 dicembre 1904 al 10º Reggimento bersaglieri di Verona. Poté tornare a casa con una licenza per assistere la madre morente (19 gennaio 1905). Poi riprese il servizio militare, ottenendo al termine una dichiarazione di buona condotta per il contegno disciplinato. In Svizzera lasciò libero il posto di corrispondente dalla Confederazione elvetica del giornale italiano Avanguardia Socialista, e tale incarico venne assegnato al giovane socialista Luigi Zappelli, che già aveva conosciuto. Congedato, Mussolini rientrò a Dovia di Predappio il 4 settembre 1906. Poco dopo si recò a insegnare a Tolmezzo, dove ottenne un posto da supplente dal 15 novembre sino al termine dell'anno scolastico. Il periodo nel comune friulano fu difficile: con gli studenti si dimostrò incapace di mantenere l'ordine e l'anticlericalismo e il linguaggio sboccato gli attirarono le antipatie della popolazione locale, tanto che le ragazze del paese lo chiamavano "tiranno". Nel novembre del 1907 ottenne l'abilitazione all'insegnamento della lingua francese e nel marzo 1908 gli venne assegnato un incarico come professore di francese presso il Collegio Civico di Oneglia, dove insegnò anche Italiano, Storia e Geografia. A Oneglia ottenne la sua prima direzione di un giornale, il settimanale socialista La Lima. Nei suoi articoli il neo direttore attaccò le istituzioni sia politiche sia religiose, accusando il governo Giolitti e la Chiesa di difendere gli interessi del capitalismo ai danni del proletariato. Per evitare problemi si firma con lo pseudonimo di "Vero Eretico". Il giornale suscitò grande interesse e Mussolini comprese che il giornalismo d'eversione poteva essere uno strumento politico. Tornato a Predappio, si mise a capo dello sciopero dei braccianti agricoli. Il 18 luglio 1908 fu arrestato per minacce a un dirigente delle organizzazioni padronali. Processato per direttissima fu condannato a tre mesi di carcere, ma il 30 luglio venne rilasciato in libertà provvisoria su cauzione. Nel settembre dello stesso anno fu di nuovo incarcerato per dieci giorni per aver tenuto a Meldola un comizio non autorizzato. In novembre si trasferì a Forlì, dove visse in una stanza affittata, assieme al padre vedovo che nel frattempo aveva aperto la trattoria Il bersagliere con la compagna Anna Lombardi. In questo periodo, Mussolini pubblicò su Pagine libere (rivista del sindacalismo rivoluzionario edita a Lugano e diretta da Angelo Oliviero Olivetti) l'articolo La filosofia della forza, in cui faceva riferimento al pensiero di Nietzsche. Il 6 febbraio 1909 si trasferì a Trento, capitale dell'irredentismo italiano, dove venne eletto segretario della Camera del Lavoro e diresse il suo primo quotidiano, L'avvenire del lavoratore. Il 7 marzo di quell'anno si rese protagonista di un breve scontro giornalistico con Alcide De Gasperi, direttore del periodico cattolico Il Trentino. Mussolini collaborò anche con il quotidiano Il Popolo, diretto da Cesare Battisti, sulle cui pagine scrisse della "santa di Susà", una contadina di nome Rosa Broll che era stata adescata da un sacerdote del luogo. L'articolo ebbe un tale successo che la direzione del Partito Socialista trentino decise di farne una pubblicazione a sé stante, al prezzo di 6 centesimi. Il 10 settembre dello stesso anno Mussolini venne incarcerato a Rovereto con l'accusa, da cui poi fu assolto, di diffusione di giornali già sequestrati e istigazione alla violenza verso l'Impero asburgico. Il giorno 26 fu comunque espulso dall'Austria e fece ritorno a Forlì. Il caso del "professor Mussolini" divenne di interesse nazionale tanto che durante un'interrogazione parlamentare alla Camera (presentata dal deputato socialista Elia Musatti), fu interpellato il ministro degli Esteri Francesco Guicciardini il quale rispose che "per quanto possa essere dispiacevole che l'espulsione di cittadini italiani dall'Austria si rinnovi con una certa frequenza, pure io non credo in nessun modo di intervenire nella faccenda trattandosi di questione interna dell'Austria". I fatti trentini comunque procurarono a Mussolini una notevole notorietà in Italia, lo spinsero ulteriormente verso l'azione politica e segnarono l'inizio del passaggio da una concezione socialista e internazionalista a posizioni marcatamente nazionaliste. A partire dal gennaio 1910, divenne segretario della Federazione socialista forlivese e diresse il suo periodico ufficiale L'idea socialista, settimanale di quattro pagine (ribattezzato da Mussolini stesso Lotta di classe). Il 17 gennaio Mussolini iniziò a convivere con Rachele Guidi, sua futura moglie, in un appartamento ammobiliato di Via Merenda n° 1. Cominciò inoltre a collaborare con la rivista socialista Soffitta. In questi anni forlivesi, decise anche di prendere lezioni di violino dal Maestro Archimede Montanelli. Fra le opere preferite di Mussolini si ricordano: La Follia di Corelli, le sonate di Beethoven, le composizioni di Veracini, Vivaldi, Bach, Granados, Fauré e Ranzato. Dal punto di vista giornalistico, continuò anche il rapporto con Il popolo di Trento. Cesare Battisti gli chiese di scrivere un romanzo a puntate. Il compenso era di 15 lire a puntata. Mussolini scelse uno dei suoi argomenti preferiti, la critica sociale anticlericale. Ispirandosi a una storia realmente avvenuta a Trento nel Seicento (lo scandaloso amore tra il vescovo-principe di Trento, Carlo Emanuele Madruzzo, e una cortigiana) scrisse L'amante del cardinale. Claudia Particella. Il romanzo uscì a puntate, dal 20 gennaio all'11 maggio 1910. Come rappresentante della federazione di Forlì, Mussolini partecipò al congresso socialista di Milano (1910). L'11 aprile 1911 la sezione socialista di Forlì guidata da Mussolini votò l'autonomia dal PSI. Nel maggio dello stesso anno la prestigiosa rivista letteraria La Voce, diretta da Giuseppe Prezzolini, pubblicò il suo saggio Il Trentino veduto da un socialista, costituito dagli appunti stesi da Mussolini durante il 1909. Il 25 settembre, assieme all'amico repubblicano Pietro Nenni, Mussolini partecipò a una manifestazione contro la guerra con l'impero ottomano per il possesso diCirenaica e Tripolitania, che si concluse con scontri violenti con la polizia. Mussolini aveva definito l'impresa coloniale africana di Giovanni Giolitti un "atto di brigantaggio internazionale"; aveva inoltre definito il tricolore "uno straccio da piantare su un mucchio di letame". Arrestato il 14 ottobre, venne processato e condannato a un anno di reclusione (23 novembre). Il 19 febbraio 1912 la Corte d'Appello di Bologna ridusse la pena a cinque mesi e mezzo e il successivo 12 marzo Mussolini venne rilasciato. L'8 luglio 1912, al congresso del PSI di Reggio Emilia, avanzò una mozione di espulsione (definita da lui anche lista di proscrizione) nei confronti dei riformisti Leonida Bissolati, Ivanoe Bonomi, Angiolo Cabrini e Guido Podrecca, che venne accolta. L'accusa era di "gravissima offesa allo spirito della dottrina e alla tradizione socialista". Quindi entrò nella direzione nazionale del partito. Collaborò poi con Folla, giornale di Paolo Valera, firmandosi con lo pseudonimo "L'homme qui cherche". Grazie agli eventi del 1912 e alle sue qualità di brillante oratore, nel novembre 1912 divenne esponente di spicco dell'ala massimalista del socialismo italiano e giunse alla direzione dell'Avanti!, organo ufficiale del partito, succedendo a Giovanni Bacci (Angelica Balabanoff venne scelta per il ruolo di viceredattore capo). Alle Elezioni politiche del 1913 (il primo turno si svolse il 26 ottobre) Mussolini si presentò, nel collegio di Forlì, come candidato socialista per la Camera dei Deputati, ma venne sconfitto da Giuseppe Gaudenzi, repubblicano (tradizionalmente, i repubblicani erano molto forti nel forlivese). Il mese successivo (novembre 1913) fondò un proprio giornale, Utopia, che diresse fino allo scoppio della guerra e sul quale poté esprimere tutte le proprie opinioni, anche quelle in contrasto con la linea ufficiale del partito. Al congresso del Partito Socialista di Ancona del 1914, presentò con Giovanni Zibordi una mozione, che venne accolta, con la quale si riconobbe esser incompatibile l'appartenenza alla massoneria per un socialista. Il 9 giugno venne eletto consigliere comunale a Milano e fu protagonista della Settimana Rossa. Allo scoppio della prima guerra mondiale interpretò con fermezza la linea non interventista dell'Internazionale Socialista. Mussolini era del parere che il conflitto non poteva giovare agli interessi dei proletari italiani bensì solo a quelli dei capitalisti. Nello stesso periodo, all'insaputa dell'opinione pubblica, il Ministero degli Esteri stava avviando un'operazione di persuasione negli ambienti socialisti e cattolici per ottenere un atteggiamento favorevole verso un possibile intervento dell'Italia in guerra. Riguardo agli ambienti socialisti, individuò nel quotidiano del partito uno strumento per portare i socialisti dalla propria parte. Fu Filippo Naldi, "faccendiere" con numerosi agganci tra gli ambienti finanziari e il giornalismo (e direttore del bolognese Resto del Carlino), a prendere contatti con il direttore dell'Avanti. Il 26 luglio Mussolini pubblicò un editoriale intitolato Abbasso la guerra, a favore della scelta antibellicista; ma negli stessi giorni compaiono altri articoli, a firme di noti esponenti del partito, che pur mantenendo fermo l'atteggiamento di fondo contro la guerra cominciavano a discutere sull'alleato che avrebbe potuto giovare alla causa italiana.[senza fonte] Già nei primi mesi del conflitto appariva quindi tutta l'incertezza del Partito Socialista, che non sapeva risolversi tra la sua inclinazione antimilitarista e la propensione verso la guerra come mezzo per rinnovare la lotta politica e smuovere gli equilibri consolidati nel Paese. Uno dei primi a porre dubbi sulla neutralità assoluta fu Bissolati, a cui seguirono Prezzolini, Salvemini, i repubblicani, i radicali, i massoni, i socialisti riformisti e i sindacalisti rivoluzionari. I primi attacchi a Mussolini relativi ad un suo possibile cambio d'opinione si ebbero il 28 agosto 1914 in un articolo de "Giornale d'Italia" e continuarono in settembre e ottobre su altri quotidiani. Fu in questo contesto che Naldi pubblicò un polemico articolo sul Resto del Carlino (7 ottobre 1914, scritto da Libero Tancredi), in cui accusava Mussolini di doppiogiochismo, ottenendo l'irata reazione del direttore dell'Avanti!. Cogliendo l'occasione per un chiarimento, Naldi si recò a Milano nella sede del quotidiano e conobbe personalmente Mussolini. Sfruttando forse la sua insofferenza per la posizione ambigua del partito, ottenne da Mussolini una prima "conversione", da posizioni antibelliciste a un neutralismo condizionato. Il 18 ottobre, mutando esplicitamente la propria originaria posizione, Mussolini pubblicò sulla Terza pagina dell'Avanti! un lungo articolo intitolato «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante», in cui rivolse un appello ai socialisti sul pericolo che una neutralità avrebbe comportato per il partito, cioè la condanna all'isolamento politico. Secondo Mussolini, le organizzazioni socialiste avrebbero dovuto appoggiare la guerra fra le nazioni, con la conseguente distribuzione delle armi al popolo, per poi trasformarla in una rivoluzione armata contro il potere borghese. La nuova linea non venne accettata dal partito e nel giro di due giorni Mussolini rassegnò le dimissioni (20 ottobre). Nel periodo di direzione Mussolini, il giornale era salito da 30-45.000 copie nel 1913 a 60-75.000 copie nei primi mesi del 1914. Grazie all'aiuto finanziario di alcuni gruppi industriali (ancora con la mediazione di Filippo Naldi), Mussolini riuscì rapidamente a fondare un suo giornale: Il Popolo d'Italia, il cui primo numero uscì il 15 novembre 1914. Dalle colonne del suo giornale, Mussolini attaccò senza remore i suoi vecchi compagni. Col partito era rottura: il 29 novembre Mussolini venne espulso dal PSI. I tempi dell'operazione e la provenienza dei finanziamenti insospettirono gli ex compagni, che accusarono Mussolini di indegnità morale. Secondo il Partito Socialista, egli avrebbe ricevuto fondi occulti da agenti francesi in Italia, che lo avrebbero corrotto per farlo aderire alla causa dell'interventismo pro-Intesa. La questione finì davanti alla commissione d'inchiesta del collegio dei probiviri dell'Associazione Lombarda dei Giornalisti, che escludette ogni ipotesi di corruzione giungendo alla conclusione che la nascita del giornale era da collegarsi esclusivamente al rapporto di simpatia personale fra Mussolini e il direttore del Carlino Naldi. Solo negli ultimi anni stanno uscendo documenti che proverebbero invece il diretto intervento del governo francese a favore di Mussolini, che comunque sappiamo aver incontrato in Svizzera rappresentanti dell'Intesa, i quali gli assicurano il loro appoggio. In particolare, secondo una nota scritta nel novembre 1922 dai servizi segreti francesi a Roma, Mussolini (che venne dichiarato in un'altra nota degli stessi servizi «un agente del Ministero francese a Roma») avrebbe incassato nel 1914 dal deputato francese Charles Dumas, capo di gabinetto del ministro francese Jules Guesde, socialista, dieci milioni di franchi "per caldeggiare sul suo Popolo d'Italia l'entrata in guerra dell'Italia al fianco delle potenze alleate". Nel mese di dicembre prese parte a Milano alla fondazione dei "Fasci di azione rivoluzionaria" di Filippo Corridoni, partecipando poi al loro primo congresso il 24 e il 25 gennaio 1915. Nel marzo 1915, dopo una lunga serie di reciproci articoli durissimi, giunti all'insulto personale, nonostante lo Statuto del Partito Socialista lo vietasse, Claudio Treves sfidò Mussolini a duello. La sfida venne accolta e il duello si svolse a Bicocca (nord di Milano) nel pomeriggio del 29 marzo 1915. Fu un combattimento alla sciabola tesissimo, durato 25 minuti, suddivisi in otto assalti consecutivi, nei quali i duellanti infersero, l'un l'altro, varie ferite e contusioni. Al termine dell'ottavo assalto, su consiglio dei medici, i padrini decisero di porre termine allo scontro, comunque constatando l'univoco rifiuto dei duellanti alla riconciliazione. Pur restando ferito all'avambraccio, alla fronte e all'ascella, Treves riuscì a colpire all'orecchio il futuro Duce, che era uscito indenne da sei precedenti duelli. Secondo il ricordo del figlio di Treves, Piero: "Non credo vi siano mai state due persone più antitetiche. Mio padre era fondamentalmente un uomo di cultura, odiava la demagogia, la retorica vana, il gonfiarsi le gote, insomma tutto ciò che caratterizza il cosiddetto 'villan rifatto'. Questo era precisamente Mussolini, il quale si faceva bello di una cultura che non aveva...". In seguito l'interventismo di Mussolini si fece sempre più acceso, accompagnato dalla veemenza contro le istituzioni parlamentari, che nella sua idea di guerra come anticamera della rivoluzione avrebbero dovuto essere spazzate via dalla novità della guerra mondiale, grazie alla quale le masse rivoluzionarie si sarebbero affacciate armate sul palcoscenico della storia: « Questi deputati che minacciano pronunciamenti alla maniera delle republichette sud-americane, questi deputati che diffondono – con le più inverosimili esagerazioni – il panico nella fedele mandria elettorale; questi deputati pusillanimi, ciarlatani… questi deputati andrebbero consegnati ai tribunali di guerra! La disciplina deve cominciare dall'alto se si vuole che sia rispettata in basso. Quanto a me, sono sempre più fermamente convinto che per la salute dell'Italia bisognerebbe fucilare, dico fucilare, nella schiena, qualche dozzina di deputati, e mandare all'ergastolo un paio almeno di ex ministri. Non solo, ma io credo con fede sempre più profonda, che il Parlamento in Italia sia un bubbone pestifero. Occorre estirparlo.» Alla dichiarazione di guerra all'Austria-Ungheria (23 maggio 1915), Mussolini fece domanda per arruolarsi volontario, e questa come nella maggioranza dei casi venne respinta dagli uffici di leva. Venne chiamato come coscritto il 31 agosto1915, e fu assegnato come soldato semplice al 12º Reggimento bersaglieri; il 13 settembre parti' per il fronte con l'11º Reggimento bersaglieri. Tenne un diario di guerra, pubblicato sul Popolo d'Italia (fine dicembre 1915 - 13 febbraio 1917), nel quale raccontò la vita in trincea e prefigurò se stesso come eroe carismatico di una comunità nazionale, socialmente gerarchica e obbediente. Il 1º marzo 1916 fu promosso caporale per meriti di guerra. Nel "Rapporto Gasti" si legge, tra l'altro, «Attività esemplare, qualità battagliere, serenità di mente, incuranza ai disagi, zelo, regolarità nell'adempimento dei suoi doveri, primo in ogni impresa di lavoro e ardimento». Il 31 agosto successivo venne nominato caporal maggiore. Il 23 febbraio 1917 fu ferito gravemente dallo scoppio di un lanciabombe durante un'esercitazione sul Carso. Fu operato nell'ospedaletto da campo di Ronchi di Soleschiano dal clinico chirurgo Giuseppe Tusini, fondatore e preside dell'Università Castrense di San Giorgio di Nogaro. Durante la convalescenza venne visitato nel sanatorio da Vittorio Emanuele III. In questo periodo fece circolare due leggende: che aveva rifiutato l'anestetico mentre gli estraevano le schegge dal corpo e che gli austriaci, considerandolo il nemico più potente, bombardarono l'ospedale in cui si trovava allo scopo di ucciderlo. Dopo la prima convalescenza in ospedale militare e le due successive licenze venne congedato illimitatamente nel 1919. Mussolini tornò alla direzione de Il Popolo d'Italia nel giugno 1917. Il 1º agosto1918 modificò il sottotitolo da "Quotidiano socialista" a "Quotidiano dei combattenti e dei produttori", indicando chiaramente la strada da intraprendere. In dicembre pubblicò sul giornale l'articolo Trincerocrazia, in cui rivendicò per i reduci dalle trincee il diritto di governare l'Italia post-bellica e prefigurò i combattenti della Grande Guerracome l'aristocrazia di domani e il nucleo centrale di una nuova classe dirigente. Stando a documenti resi pubblici nel 2009, fu in questo periodo che l'allora tenente colonnello del servizio segreto militare britannico Samuel Hoare (futuro Segretario per gli Affari Esteri e successivamente Segretario degli Interni) prese accordi con Mussolini, fornendogli una retribuzione settimanale di 100 sterline in cambio dell'impegno a sostenere la linea bellica anche dopo la sconfitta di Caporetto. Mussolini in questo periodo ricevette per il suo giornale anche, secondo una relazione della Polizia del 10 aprile 1917, finanziamenti da parte di ricchi industriali milanesi, da Banche per la pubblicità dei prestiti di guerra, da singoli sovvenzionatori come Cesare Goldmann e probabilmente Filippo Naldi, dalla Banca Italiana di Sconto e dalla massoneria. Ci furono probabilmente anche legami con i gruppi industriali Ansaldo e Toeplitz (e legata a quest'ultimo la Banca Commerciale Italiana). La fondazione dei Fasci italiani di combattimento avvenne a Milano il 23 marzo 1919 inPiazza San Sepolcro; stando allo stesso Mussolini non erano presenti che una cinquantina di aderenti, ma negli anni successivi, quando la qualifica di sansepolcrista dava automaticamente diritto a vantaggi cospicui in termini economici e di prestigio sociale, furono centinaia coloro che riuscirono a far aggiungere alla lista il loro nome. Tra marzo e giugno i futuristi di Filippo Tommaso Marinetti divennero la componente principale del Fascio milanese e fecero sentire la loro influenza ideologica; tuttavia Mussolini ebbe modo di affermare: "Noi siamo, soprattutto, dei libertari cioè della gente che ama la libertà per tutti, anche per avversari. (...) Faremo tutto il possibile per impedire la censura e preservare la libertà di pensiero di parola, la quale costituisce una delle più alte conquiste ed espressioni della civiltà umana". Dall'esperienza dei Freikorps tedeschi trasse la conclusione che squadre di uomini armati potevano essere utilissime per intimidire l'opposizione: il 15 aprile 1919, subito dopo un comizio della Camera del Lavoro all'Arena Civica, fascisti, arditi, nazionalisti e allievi ufficiali, guidati da Marinetti e Ferruccio Vecchi si lanciarono contro la sede dell'Avanti!, attaccandola e devastandola, dopo una serie di colluttazioni stradali con gruppi socialisti e dopo che dalla sede del giornale venne sparato un colpo di pistola che uccise un soldato, Martino Speroni. Mussolini si tenne in disparte, credendo che i suoi uomini non fossero ancora pronti per combattere una "battaglia di strada", ma difese il fatto compiuto. Procedette quindi a reclutare un esercito di arditi pronti a vari assalti frontali e trasportò nella sede del Popolo d'Italia una grande quantità di materiali bellici, per prevenire un possibile "contrattacco rosso". In giugno Mussolini si schierò contro il governo guidato da Francesco Saverio Nitti; per i fascisti il neopresidente del consiglio era il rappresentante di quella vecchia classe politica che essi intendevano soppiantare. Dalla debolezza dell'esecutivo Mussolini voleva trarre la forza per attuare una rivoluzione, e per tutta l'estate il suo nome fu associato a complotti volti a realizzare un colpo di Stato. Il 12 settembre, Mussolini promosse davanti alla sede de Il Popolo d'Italia una sottoscrizione a favore dell'impresa fiumana di Gabriele D'Annunzio, dopo aver incontrato quest'ultimo per la prima volta a Roma il 23 giugno. Il 7 ottobre era a Fiume, dove ebbe colloqui con D'Annunzio. I rapporti con il Vate furono comunque estremamente fugaci, e condizionati da reciproca diffidenza e rivalità: Mussolini mal sopportava l'idea che D'Annunzio potesse relegarlo in secondo piano; D'Annunzio gli scrisse una lettera tacciandolo di codardia, ma quando la missiva venne pubblicata dal Popolo d'Italia questo passaggio fu censurato. Il 9 ottobre si tenne a Firenze il primo Congresso dei Fasci di Combattimento: venne deciso di presentarsi alle imminenti elezioni politiche senza aderire a nessuna alleanza. Alle elezioni politiche del 16 novembre 1919 i fascisti, nonostante le candidature "eccellenti" dello stesso Mussolini e di Marinetti a Milano, non ottennero neanche un seggio, e nella provincia di Milano presero soltanto 4675 voti. Inoltre, il 18 novembre Mussolini fu arrestato per poche ore con l'accusa di detenzione di armi ed esplosivi, e venne rilasciato grazie anche all'intervento del senatore liberale Luigi Albertini. Dall'infelice esperienza Mussolini trasse la conclusione che il fascismo era guardato con diffidenza dall'elettorato conservatore ed era troppo simile ai socialisti per l'elettorato progressista; pertanto, avendo il fascismo fallito come movimento di sinistra, esso avrebbe potuto trovare un suo spazio come aggregazione di destra. All'inizio del 1920 Mussolini s'impegnò per aumentare i propri consensi nel nord-est, e in particolare a Trieste, città di frontiera dove convivevano non senza attriti italiani e slavi. Il 24 e il 25 maggio 1920 Mussolini partecipò al secondo Congresso dei Fasci di combattimento, che si teneva al teatro lirico di Milano. I Fasci di combattimento, grazie alla progressiva svolta a destra, iniziarono ad avere finanziamenti da parte di industriali, i quali venivano in cambio protetti da squadre di arditi. In giugno si schierò a favore di Giolitti, con il quale in ottobre s'incontrò per la risoluzione della questione di Fiume: pur biasimandolo per aver ritirato le truppe dall'Albania, gli fece capire che un accordo con i liberalconservatori era possibile. Il 12 novembre, con il fondo L'accordo di Rapallo, commentò abbastanza favorevolmente il trattato italo-jugoslavo firmato da Giolitti, con cui Fiume diveniva una città libera. Successivamente ad una discussione del Comitato Centrale dei Fasci del 15 novembre Mussolini modificò la propria opinione sulla bontà del trattato. Nel gennaio del 1921 la minoranza comunista usciva dal PSI per fondare il Partito Comunista d'Italia; ciò mise in allarme Mussolini perché i socialisti, ricollocatisi su posizioni più moderate, avrebbero potuto essere interpellati da Giolitti per una collaborazione governativa, escludendo in questo modo i fascisti dagli scenari politici principali. Il 2 aprile, dopo aver sfilato con gli squadristi in camicia nera in occasione dei solenni funerali delle vittime del terrorismo anarchico del teatro Diana, Mussolini accettò la richiesta di Giolitti di far parte dei Blocchi Nazionali, contando di poter addomesticare i fascisti alle sue posizioni politiche e utilizzarli per indebolire le opposizioni. Il futuro Duce si presentò quindi come alleato dello statista di Mondovì, dei nazionalisti e di una serie di altre associazioni e partiti, alle elezioni del 15 maggio1921, nelle liste dei "Blocchi Nazionali" antisocialisti: la lista ottenne 105 seggi, di cui 35 per i fascisti e anche Mussolini fu eletto deputato. Grazie all'immunità parlamentare poté quindi evitare il processo relativo ai fatti del 1919 (cospirazione e detenzione illegale di armi). Le consultazioni si svolsero in un clima di violenza: i morti furono un centinaio e in molte zone, approfittando del tacito favore della Polizia, i fascisti impedirono ai partiti di sinistra di tenere comizi. A partire da questo momento le camicie nere moltiplicarono i numerosi episodi di violenza e aggressione fisica e verbale contro gli avversari politici del fascismo; bersagli preferiti erano soprattutto socialisti, comunisti e popolari: il fenomeno prese il nome di squadrismo. Il 2 luglio, con un articolo (In tema di pace) sul Popolo d'Italia, invitò i socialisti e i popolari ad aderire a un patto di pacificazione per la cessazione delle violenze squadriste. L'accordo venne siglato il 2 agosto e firmato il giorno successivo grazie alla mediazione del presidente della Camera Enrico De Nicola; tuttavia, le violenze non cessarono perché l'esecuzione dell'accordo venne contestata dai singoli ras e perché ne vennero esclusi i comunisti, che non aderirono per estraneità del patto ai loro principii politici: fra costoro e gli squadristi le violenze continuarono rendendo vuoto di significato il patto; d'altro canto a Mussolini non conveniva recitare più di tanto la parte del pacificatore perché i ras minacciavano di scavalcarlo e destituirne l'autorità sui Fasci. A proposito della notevole autonomia di cui godevano i singoli gruppi squadristi, Renzo De Felice riporta che il futuro duce entrò in contrasto con alcuni esponenti che mettevano in dubbio la sua posizione di guida del movimento (su tutti, Dino Grandi) e che non accettavano la volontà mussoliniana di presentare quest'ultimo come "normalizzatore" dell'ordine sociale. Emblematico da questo punto di vista, sempre secondo De Felice, quanto scrisse Mussolini: «Il fascismo può fare a meno di me? Certo, ma anch'io posso fare a meno del fascismo». Tuttavia, le divergenze vennero superate, e il 7 novembre si tenne a Roma il terzo congresso dei Fasci di Combattimento, che vennero trasformati nel Partito Nazionale Fascista, con Michele Bianchi primo segretario. Il 1º gennaio 1922 Mussolini fondò il mensile Gerarchia, con cui collaborò l'intellettuale (e amante di Mussolini) Margherita Sarfatti, ma già nell'agosto precedente si era affrettato a creare una scuola di cultura fascista che aveva il compito di esporre la dottrina. Nel febbraio del 1922 divenne primo ministro Luigi Facta, l'ultimo liberale prima di Mussolini, personaggio di modesto spessore. La sua nomina fece il gioco dei fascisti poiché dava l'ennesima dimostrazione dell'incapacità del sistema parlamentare democratico di produrre un governo stabile e di mantenere l'ordine. Sotto il suo governo le incursioni delle squadre fasciste si moltiplicarono, soprattutto nelle province di Ferrara e Ravenna (si distinse in questi attacchi Italo Balbo). Il 2 agosto le sinistre indissero uno sciopero, definito da Turati "legalitario" ed organizzato fin dal 28 luglio, contro le violenze delle camicie nere, che intervennero determinandone il fallimento: a Milano, per esempio, gli squadristi dispersero i picchetti degli scioperanti e conquistarono i depositi dei tram, facendo circolare regolarmente i mezzi pubblici con la scritta "gratis - offerto dal Fascio". Nel frattempo, tra il 31 agosto e il 5 settembre, le squadre fasciste occuparono i municipi di Ancona, Milano, Genova, Livorno, Parma, Bolzano e Trento, acquisendone il controllo, dopo violenti scontri armati. Si trattava del crescendo della "rivoluzione fascista", con cui Mussolini tentò un ambizioso colpo di mano per impadronirsi del potere, sfruttando il consenso acquisito presso gli ambienti sociali più influenti del regno. Il 24 ottobre egli passò in rassegna a Napoli le 40.000 camicie nere lì radunate, affermando il diritto del Fascismo a governare l'Italia. In molti si convinsero che ormai dialogare con Mussolini fosse diventato inevitabile: Giovanni Amendola e Vittorio Emanuele Orlando teorizzarono una coalizione di governo che includesse anche i fascisti e Nitti, che sperava nella presidenza del Consiglio, riteneva ora un'alleanza con Mussolini il mezzo migliore per scalzare il suo avversario Giolitti. Proprio Giolitti, secondo lo stesso Mussolini, era l'unico uomo che poteva evitare il successo del fascismo: Facta lo sollecitò più volte a intervenire ma il grande vecchio della politica italiana comunicò che non si sarebbe scomodato se non per prendere direttamente in mano le redini del governo (fu questo un errore di cui si sarebbe pentito). I fascisti lo blandirono promettendogli la presidenza del Consiglio ed egli li accreditò presso il mondo industriale milanese. Tra il 27 e il 31 ottobre 1922, la "rivoluzione fascista" ebbe il suo culmine con la "marcia su Roma", opera di gruppi di camicie nere provenienti da diverse zone d'Italia e guidate dai "quadrumviri" (Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi). Il loro numero non è mai stato stabilito con certezza; tuttavia, a seconda della fonte di riferimento, la cifra considerata oscilla tra le 30.000 e le 300.000 persone. Mussolini non prese parte direttamente alla marcia, temendo un intervento repressivo dell'esercito che ne avrebbe determinato l'insuccesso. Rimase a Milano (dove una telefonata del prefetto lo avrebbe informato dell'esito positivo) in attesa di sviluppi e si recò a Roma solo in seguito, quando venne a sapere del buon esito dell'azione. A Milano, la sera del 26 ottobre, Mussolini ostentò tranquillità nei confronti dell'opinione pubblica assistendo al Cigno di Molnár al Teatro Manzoni. In quei giorni, stava in realtà trattando direttamente col governo di Roma sulle concessioni che questo era disposto a fare al Fascismo, e il futuro Duce nutriva incertezza sul risultato che la manovra avrebbe avuto. Il re, per l'opposizione di Mussolini a qualsiasi compromesso (il 28 ottobre rifiutò il Ministero degli Esteri) e per il sostegno di cui il fascismo godeva presso gli alti ufficiali e gli industriali, che vedevano in Mussolini l'uomo forte che poteva riportare ordine nel paese "normalizzando" la situazione sociale italiana, non proclamò lo Stato d'assedio proposto dal presidente del Consiglio Facta e dal generale Pietro Badoglio, e diede invece l'incarico a Mussolini di formare un nuovo governo di coalizione (29 ottobre). Se il re avesse accettato il consiglio dei due uomini, non ci sarebbero state speranze per le camicie nere: lo stesso Cesare Maria De Vecchie la destra fascista di ispirazione monarchica avrebbero optato per la fedeltà al Re. Il 16 novembre Mussolini si presentò alla Camera e tenne il suo primo discorso come presidente del consiglio (il "discorso del bivacco"), nel quale dichiarò: «Signori! Quello che io compio oggi, in quest'aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza. Da molti anni, anzi, da troppi anni, le crisi di governo erano poste e risolte dalla camera attraverso più o meno tortuose manovre ed agguati, tanto che una crisi veniva regolarmente qualificata un assalto ed il ministero rappresentato da una traballante diligenza postale. Ora è accaduto per la seconda volta nel breve volgere di un decennio che il popolo italiano - nella sua parte migliore- ha scavalcato un ministero e si è dato un governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del parlamento. Il decennio di cui vi parlo sta fra il maggio del 1915 e l'ottobre del 1922. Lascio ai melanconici zelatori del supercostituzionalismo il compito di dissertare più o meno lamentosamente su ciò. Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti. Aggiungo, perché ognuno lo sappia, che io sono qui per difendere e potenziare al massimo grado la rivoluzione delle "camicie nere", inserendola intimamente come forza di sviluppo, di progresso e di equilibrio nella storia della nazione. Mi sono rifiutato di stravincere e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ti abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine, io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di infangare il Fascismo. Potevo fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.» Nella Camera dei deputati Mussolini ottenne la fiducia con 306 voti a favore, 116 contrari (socialisti, comunisti e qualche isolato) e 7 astenuti (rappresentanti delle minoranze nazionali), nel Senato con 19 voti contrari. Tra i favorevoli risultarono Giovanni Giolitti, Vittorio Emanuele Orlando, Luigi Facta e Antonio Salandra mentre Francesco Saverio Nitti abbandonò l'aula per protesta. Il 25 novembre ottenne dalla Camera i pieni poteri in ambito tributario ed amministrativo sino al 31 dicembre1923, al fine di "ristabilire l'ordine". Il 15 dicembre 1922 si istituì il Gran Consiglio del Fascismo. Il 14 gennaio 1923 le camicie nere vennero istituzionalizzate attraverso la creazione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Il 9 giugno, dopo esser riuscito, con minacce, a far dimettere il principale antagonista parlamentare, Don Sturzo, ed a far frazionare il gruppo dei popolari con il suo pacato discorso del 15 luglio, presentò alla Camera la nuova legge Acerbo in materia elettorale, approvata dalla stessa il 21 luglio ed il 13 novembre dal Senato, divenendo poi la legge 18 novembre 1923, n. 2444. Mussolini ebbe un successivo voto di fiducia il 15 luglio con 303 voti a favore, 140 contro e 7 astensioni. Sempre in luglio, grazie all'appoggio britannico, nella conferenza di Losanna fu riconosciuto il dominio italiano sul Dodecaneso, occupato dal 1912. Il 27 agosto si verificò l'eccidio di Giannina: la spedizione militare Tellini, col compito di definire la linea di confine tra Grecia e Albania venne massacrata. Mussolini inviò un ultimatum alla Grecia per chiedere riparazioni, scuse ed onori ai morti e, in seguito al parziale rifiuto del governo greco, ordinò alla marina italiana di occupare Corfù. Con questa azione, il nuovo presidente del consiglio voleva dimostrare di voler perseguire una politica estera forte e ottenne, grazie alla Società delle Nazioni, le riparazioni richieste (dietro l'abbandono dell'isola occupata). Il 19 dicembre presiedette alla firma dell'accordo tra Confindustria e la Confederazione delle Corporazioni fasciste (il cosiddetto "patto di Palazzo Chigi"). Il regio decreto 30 dicembre 1923 n. 2841 stabilì la creazione degli Enti Comunali di Assistenza (ECA) con compito di «coordinamento di tutte le attività, pubbliche o private, volte al soccorso degli indigenti, provvedendo, se necessario, alle loro cure, o promuovendo ove possibile l'educazione, l'istruzione e l'avviamento alle professioni, arti e mestieri». Essi furono unificati in due enti territoriali deputati all'assistenza sanitaria e materiale dei poveri e dell'infanzia abbandonata col regio decreto del 3 marzo 1933 n. 383. [Il R.D. non parla di ECA, che sono nati nel '37.] Il 27 gennaio 1924 venne firmato il trattato di Roma tra Italia e Jugoslavia, col quale quest'ultima riconobbe all'Italia Fiume, annessa il 22 febbraio. In seguito a questo, il 26 marzo il re conferì a Mussolini l'onorificenza dell'Ordine supremo della Santissima Annunziata. A partire dalla marcia su Roma il governo italiano stabilì rapporti diplomatici con l'Unione Sovietica, che vennero migliorati nel corso del febbraio 1923, giungendo al riconoscimento dell'URSS ed alla stipulazione di un trattato di commercio e navigazione il 7 febbraio 1924. Un accordo con il Regno Unito permise all'Italia di acquisire l'Oltregiuba, regione keniota che venne annessa alla Somalia italiana. Il 24 marzo si ebbe il primo tentativo di radiotrasmissione di un discorso politico. Alle elezioni del 6 aprile 1924, la "Lista Nazionale" (nota con il nome di "Listone") ottenne il 60,1% dei voti e 356 deputati (poi ridotti a 355 per la morte di Giuseppe De Nava, non sostituito); ad essi si aggiunsero il 4,8% di voti e i 19 seggi conseguiti dalla "lista bis". Nel complesso le due liste governative raccolsero il 64,9% dei voti validi, eleggendo 375 parlamentari, di cui 275 iscritti al Partito Nazionale Fascista. Oltre al PNF erano entrati nel "Listone" la maggioranza degli esponenti liberali e democratici (tra cui Vittorio Emanuele Orlando, Antonio Salandra, ed Enrico De Nicola, che però ritirò la sua candidatura prima delle elezioni), ex popolari espulsi dal partito, demosociali e sardisti filofascisti, e numerose personalità della destra italiana. Le consultazioni si svolsero in un clima generale di violenza e intimidazioni, nonostante Mussolini avesse inviato reiterati appelli all'ordine ai fascisti e telegrammi ai prefetti affinché impedissero a chiunque intimidazioni, provocazioni e aggressioni, che avrebbero potuto portare le forze di minoranza a chiedere l'annullamento delle elezioni (che vedevano comunque favorito il "Listone"). Allo stesso tempo, Mussolini aveva impegnato telegraficamente i prefetti affinché ogni sforzo fosse effettuato per assicurare la vittoria alla Lista Nazionale, attraverso l'opera di convincimento degli incerti e la lotta all'astensionismo, l'opera di propaganda sulla corretta compilazione della scheda elettorale, e soprattutto attraverso manifestazioni e celebrazioni pubbliche patriottiche e religiose, nelle quali i Fasci locali avrebbero potuto presentarsi come gli unici detentori della legittimità a rappresentare la nazione. Le elezioni si conclusero con una schiacciante vittoria della Lista Nazionale, tale da superare le aspettative dello stesso Mussolini, che sulla base delle informative ricevute dai prefetti si aspettava una percentuale di consensi di poco superiore al 50%. Il "Listone" ottenne invece il 64,9% su base nazionale, tale da raggiungere da solo il premio di maggioranza del 65% previsto dalla Legge Acerbo per il partito di maggioranza relativa. La sconfitta delle opposizioni portò la stampa antifascista e anche quella a fascista ad un serrato attacco contro le violenze e le illegalità commesse dai fascisti e dagli organi dello Stato allineati al fascismo.  Solo pochi giornali riconobbero la vittoria elettorale del blocco nazionale. Gli abusi, i brogli e le violenze perpetrate dai fascisti vennero infine denunciate il 30 maggio dal deputato socialista unitario Giacomo Matteotti con un duro ma circostanziato discorso alla Camera col quale chiese di annullare il risultato delle elezioni. L'intervento provocò una seduta concitata, in cui Matteotti venne interrotto a più riprese, in particolare da Farinacci, il quale a sua volta rinfacciò all'opposizione le illegalità commesse dai movimenti antifascisti, mentre maggioranza e opposizione si scambiavano accuse reciproche. Alcuni esponenti della Lista Nazionale abbandonarono l'Aula per protesta contro le accuse lanciate da Matteotti. Il 10 giugno 1924 Matteotti venne sequestrato per mano di squadristi fascisti e di lui, per settimane, non ci fu più traccia. L'evento provocò grande turbamento in tutta la nazione e numerosi furono gli iscritti del partito nazionale fascista che stracciarono la tessera; la reazione più clamorosa fu tuttavia quella passata alla storia come «secessione dell'Aventino», ovvero l'abbandono del parlamento da parte dei deputati d'opposizione per protesta nei confronti del rapimento. Indicato dalla stampa e dall'opposizione ma anche da alcuni suoi alleati come mandante, Mussolini non venne però imputato nel processo, che portò alla condanna a sei anni per omicidio preterintenzionale di tre militanti fascisti (Amerigo Dumini, Albino Volpi e Amleto Poveromo) che secondo la sentenza avrebbero agito di propria iniziativa nell'assassinare Matteotti (il quale risulterà essere stato accoltellato a morte pochi istanti dopo essere stato rapito). Nonostante la responsabilità politica, se non fattiva, fosse con tutta evidenza di Mussolini e del PNF, anche il processo all'Alta Corte Senato del Regno contro Emilio De Bono non coinvolse Mussolini. La responsabilità di Mussolini come mandante dell'omicidio Matteotti è stata contestata da Renzo De Felice, che ha opinato come egli in quel periodo fosse il più danneggiato nella sua politica e nella sua persona da quel delitto. Lo stress dovuto ai fatti produsse in Mussolini i primi sintomi di un'ulcera duodenale che lo accompagnò per tutto il resto della sua vita. L'autunno 1924 fu denso di tensioni per Mussolini: alcuni fascisti presero le distanze da lui, e molti chiesero le sue dimissioni, affinché il "fascismo" potesse "ritemprarsi libero dalle responsabilità dei supremi poteri" (così il ministro delle Finanze De Stefani, presentò il 5 gennaio 1925 le proprie dimissioni – respinte – a Mussolini). La pubblicazione del "memoriale Rossi" (forse voluta dallo stesso Mussolini) portò altre accuse, ma per le sue incoerenze interne Mussolini riuscì con un'abile campagna di stampa a ritorcerle a suo vantaggio. Mussolini si limitò a cedere l'interim degli Interni a Federzoni, il quale venne incaricato di reprimere innanzitutto ogni moto spontaneo sia delle opposizioni che degli squadristi (i quali, soprattutto dopo l'assassinio come vendetta per Matteotti dell'onorevole Armando Casalini che tornava a casa con la figlia, il 12 settembre 1924 ricostituirono alcune "squadracce" e ripresero le violenze arbitrarie, anche verbali nei confronti di Federzoni stesso). Mentre la situazione si faceva sempre più tesa si agitarono anche voci che sostennero che Mussolini pensasse ad un colpo di Stato per risolvere la questione: una tesi che De Felice ha smentito: proprio l'iniziale volontà di Mussolini di risolvere politicamente e nei limiti della legalità costituzionale la crisi spinse invece i ras a metterlo spalle al muro. Dopo una durissima campagna di stampa portata avanti dalle testate dell'estremismo fascista, la sera del 31 dicembre un gruppo di consoli della Milizia capitanato da Aldo Tarabella ed Enzo Galbiati si recò a Palazzo Chigi. Lo scontro verbale fu violentissimo: gli squadristi accusarono Mussolini di volersi disfare della Milizia e del partito e lo minacciarono di un "pronunciamiento". A Firenze, nel frattempo, si erano radunati oltre diecimila squadristi, pronti all'azione violenta: fu incendiata la sede del Giornale nuovo e altre sedi antifasciste, e dato l'assalto alle carceri delle Murate, dalle quali furono tratti i fascisti ivi detenuti. In tutta questa situazione, il re taceva e l'Esercito non si muoveva. Mussolini, a questo punto "decise di giocare grosso: approfittare dell'atteggiamento del re per mettere fuori giuoco le opposizioni, rassodando così il proprio traballante potere e dando soddisfazione agli intransigenti, ma al tempo stesso tirare anche a questi un colpo mortale". Forte dell'indecisione delle opposizioni e premuto dai suoi compagni più radicali (Balbo, Farinacci e Bianchi soprattutto), il 3 gennaio 1925 Mussolini tenne alla Camera dei deputati un discorso sul delitto Matteotti col quale sfidò chiunque a trascinarlo davanti ad una corte speciale per giudicarlo, se davvero lo si fosse ritenuto correo al crimine commesso contro Matteotti. Inoltre, dopo aver respinto ogni addebito e ogni accusa in merito all'omicidio di Matteotti, espose le vicende della rivoluzione fascista, delle lotte interne e dell'ascesa al potere del fascismo, arrivando a sfidare l'aula sostenendo che se il fascismo non fosse stato altro che "un'associazione a delinquere", si procedesse immediatamente a preparare "il palo e la corda" per impiccarlo seduta stante e quindi concludendo, per riaffermare il proprio potere anche sul fascismo, Mussolini proclamò di volersi assumere "la responsabilità politica, morale, storica" del clima nel quale l'assassinio si era verificato, e dunque anche il comando delle frange più estreme del movimento e del partito che proprio in quei giorni l'avevano brutalmente spinto verso la svolta dittatoriale. Il giorno dopo Mussolini fece diramare a Federzoni una serie di telegrammi ai prefetti coi quali chiedeva la repressione più stringente di ogni sommossa o tumulto di ogni fazione in particolare però sui "comunisti e sovversivi", il controllo della stampa (quella dell'opposizione tramite la censura, quella fascista tramite un richiamo all'ordine perentorio) e poi - direttamente ai dirigenti delle federazioni fasciste un richiamo all'ordine con minaccia diretta nei confronti dei dirigenti che avessero permesso disordini da parte dei propri gregari. Nel gennaio iniziarono le azioni poliziesche di sequestro di giornali (il primo dei quali fu La conquista dello Stato, della sinistra fascista) di chiusura di sedi e circoli dell'opposizione (95 sedi e 150 esercizi pubblici di ritrovo, in particolare contro i comunisti e i circoli di "Italia libera") e di arresto di elementi "sospetti" (111 "pericolosi sovversivi" erano stati arrestati). Alle dimissioni di alcuni elementi liberal moderati dal governo Mussolini, questi rispose con un rapido "giro di poltrone", portando all'interno dei ministeri personalità fondamentali per il fascismo come il giurista Rocco e Giovanni Giuriati. Questi uomini - diretti da Mussolini - avrebbero nel giro di un anno costruito l'intelaiatura giuridica e funzionale dello Stato dittatoriale fascista. Dopo essere divenuto capo del governo Mussolini divenne oggetto di una serie di attentati, dai quali uscì sempre illeso. Il primo fu ideato il 4 novembre 1925 dal deputato socialista e Tito Zaniboni, appostatosi con un fucile alla finestra di una stanza dell'albergo Dragoni, di fronte al balcone di palazzo Chigi dove era previsto che Mussolini si affacciasse per il settimo anniversario della vittoria alle ore 10. La Polizia, che lo sorvegliava da più di un anno, fece però irruzione nella stanza di Zaniboni, alle ore 9. Il processo fu celebrato nell'aprile 1927 e Zaniboni fu condannato a 30 anni di reclusione, che, grazie ad amnistie, scontò per minor tempo. L'attentato creò notevole agitazione nel Paese: molti deputati aventiniani tornarono filo-fascisti - anche opportunisticamente - in Parlamento e la stampa liberale e cattolica, così come la Confindustria, iniziò a sostenere implicitamente od esplicitamente il Governo. Infine, oltre alle molte violenze fasciste vendicatrici, furono messe a soqquadro sedi di giornali ed alcune testate furono soppresse. La mattina del 7 aprile 1926 Mussolini uscì dal palazzo del Campidoglio, dove aveva inaugurato un congresso di chirurgia; Violet Gibson, una nobildonna inglese, gli sparò da distanza ravvicinata, ferendolo lievemente al naso. Non appena medicato Mussolini fu già in grado di presenziare alla cerimonia d'insediamento del nuovo direttorio fascista e, il giorno dopo, prima di recarsi in Libia, commentò: «Le pallottole passano e Mussolini resta». Il terzo attentato fu opera di Gino Lucetti, un giovane marmista anarchico di Carrara che aveva combattuto negli Arditi e che poi, aggredito dai fascisti, era emigrato a Marsiglia. L'11 settembre 1926 egli attese che Mussolini uscisse dalla sua abitazione e gli lanciò una bomba a mano che colpì il tetto dell'auto del duce e scoppiò a terra ferendo otto persone. Nell'interrogatorio disse di aver voluto vendicare i massacri effettuati dagli squadristi a Torino nel dicembre del 1922. Il quarto attentato è il più misterioso. La sera del 31 ottobre 1926 a Bologna, il "duce" aveva appena inaugurato il nuovo stadio sportivo il Littoriale nell'ambito della commemorazione della "marcia su Roma"; su una macchina scoperta stava andando alla stazione quando un colpo di pistola gli lacerò la sciarpa dell'ordine mauriziano. Dietro alla macchina di Mussolini, che proseguì, un gruppo di squadristi di Leandro Arpinati (tra cui anche Balbo) si buttò sul presunto attentatore e lo linciò: il cadavere mostrerà 14 pugnalate, un colpo di rivoltella e tracce di strangolamento. Si trattava di Anteo Zamboni, un ragazzo quindicenne di famiglia anarchica. Secondo alcune recenti ricostruzioni, da alcuni storici ritenute poco documentate e probanti, l'attentato sarebbe stato il risultato di una cospirazione maturata all'interno degli ambienti fascisti emiliani (si sospettano a turno Farinacci, Balbo, Arpinati e Federzoni), contrari alla «normalizzazione» inaugurata da Mussolini, ostile ad ulteriori eccessi rivoluzionari e allo strapotere delle formazioni squadriste. I rapporti di polizia dell'epoca dimostrano come si svolsero inizialmente delle indagini negli ambienti squadristi bolognesi ipotizzando in un primo tempo un coinvolgimento di ras locali come Farinacci e Arpinati, ma che non diedero alcun risultato. A quel punto si concluse che l'attentato non poteva che essere opera di un elemento isolato. Una ulteriore indagine sollecitata dal Ministero degli Interni fu svolta ancora dai magistrati del Tribunale Speciale ma anch'essa approdò alle medesime conclusioni conseguite dalla polizia. L'attentato di Bologna fornì il pretesto per le leggi fascistissime del novembre 1926. Il 5 novembre si registrarono: l'annullamento dei passaporti; sanzioni contro gli espatri clandestini; soppressione dei giornali antifascisti; scioglimento dei partiti; istituzione del confino e la creazione di una polizia politica segreta (che affidata aArturo Bocchini assumerà poi il nome di OVRA); il 9 vi fu la dichiarazione di decadenza dal mandato parlamentare di 120 deputati; il 25 venne istituita la pena di morte per chiunque avesse commesso un fatto diretto contro la vita, l'integrità o la libertà personale del re, della regina, del principe ereditario e del capo del governo, nonché per gli altri delitti contro lo Stato; nella stessa data venne inoltre creato il Tribunale speciale, che entrò subito in azione contro la "centrale comunista" (Gramsci, Terracini e altri). « Dopo la Roma dei Cesari, dopo quella dei Papi, c'è oggi una Roma, quella fascista, la quale con la simultaneità dell'antico e del moderno si impone all'ammirazione del mondo.» Con la legge 17 aprile 1925 n. 473 vennero sancite le nuove norme igieniche per le imprese, con l'obbligo di provvedere al servizio sanitario nell'azienda, di non gravare donne e minorenni con carichi eccessivi e di segnalare come tali e custodire le sostanze nocive. I contratti nazionali di lavoro assumevano forza di legge e i «padroni» («datori di lavoro») potevano stipulare contratti individuali difformi dai collettivi di categoria solo se erano previste condizioni migliori per i lavoratori. Sull'osservanza dell'atto vigilava il neo-costituito Ispettorato Corporativo. Col regio decreto 1º maggio 1925 n. 582 nacque l'Opera Nazionale Dopolavoro ("OND") allo scopo di "promuovere il sano e proficuo impiego delle ore libere dei lavoratori intellettuali e manuali con istituzioni dirette a sviluppare le loro capacità fisiche, intellettuali e morali". Il 14 giugno 1925 il Presidente del Consiglio annunciò l'inizio della battaglia del grano. La campagna aveva lo scopo di far raggiungere l'autosufficienza dell'Italia dall'estero per quanto riguardava la produzione del frumento (la cui importazione era causa diretta del 50% del deficit della bilancia dei pagamenti) e, più in generale, di tutti i prodotti agricoli. Benché l'obiettivo della completa autosufficienza non venisse raggiunto, in termini d'incremento della produzione il successo fu cospicuo. L'agricoltura tuttavia perse redditività e si registrò una perdita di mercati d'esportazione per i prodotti agricoli più pregiati, dovuta al fatto che molte superfici destinate ad altre colture furono coltivate a cereali. Maggior fortuna ebbe il progetto della bonifica dei territori paludosi ancora presenti nella penisola italiana (tra cui l'Agro Pontino) realizzato tra il 1928 e il 1932. I nuovi comuni nacquero spesso in connessione con una particolare destinazione economica prestabilita (Carbonia, ad esempio, fu fondata per lo sfruttamento dei limitrofi giacimenti di carbone). Le bonifiche permisero anche l'attuazione di un'efficace programma sanitario che consentì di debellare la malaria, con risultati significativi anche contro la tubercolosi, il vaiolo, la pellagra e la rabbia. Il 21 giugno del 1925 si tenne il quarto e ultimo congresso del PNF, in cui Mussolini invitò le camicie nere ad abbandonare definitivamente la violenza. Molti elementi squadristi furono resi impotenti entro la fine dell'anno grazie alla riforma del sistema di polizia (e ciò permise il rafforzamento del potere dell'esecutivo) ma le vicende di Giovanni Amendola e Piero Gobetti, conclusesi tragicamente nel principio del 1926, dimostrarono che le squadracce erano ancora attive. Il 18 luglio Italia e Jugoslavia firmarono il trattato di Nettuno per la definizione dei rispettivi confini in area dalmata; nello stesso periodo, a seguito della decisione di "italianizzare" l'Alto Adige, attuata spesso in maniera brutale (lo stesso Mussolini parlò di deportazione di massa delle minoranze linguistiche), il governo italiano pregiudicò per qualche tempo i rapporti diplomatici con l'Austria. Dopo una serie di alti contrasti fra il sindacato fascista e gli industriali, Mussolini giunse il 2 ottobre 1925 al Patto di Palazzo Vidoni, che rese la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali l'unico organo riconosciuto dalla Confindustria. Il 20 ottobre Mussolini nominò Cesare Mori prefetto di Palermo, con poteri straordinari e con competenza estesa a tutta la Sicilia, al fine di porre un freno al fenomeno mafioso nell'isola. Il «prefetto di ferro», anche attraverso metodi extralegali (fra cui la tortura, la cattura di ostaggi fra i civili e il ricatto), con l'esplicito appoggio di Mussolini, ottenne significativi risultati, continuando la sua azione per tutto il biennio 1926-27. Fra le "vittime eccellenti" iniziarono a figurare anche personalità del calibro del generale di corpo d'armata Antonio di Giorgio, il quale riuscì ad ottenere un colloquio riservato con Mussolini, cosa che non impedì né il processo né il pensionamento anticipato dell'alto ufficiale. Ben presto però circoli politico-affaristici di area fascista collusi con la mafia riuscirono a indirizzare, tramite attività di dossieraggio, le indagini di Mori e del procuratore generale Luigi Giampietro sull'ala radicale del fascismo siciliano, coinvolgendo anche il federale Alfredo Cucco, uno dei massimi esponenti del fascio dell'isola. Cucco nel 1927 venne espulso dal PNF "per indegnità morale" e sottoposto a processo con l'accusa di aver ricevuto denaro e favori dalla mafia, venendo assolto in appello quattro anni dopo, ma nel frattempo il fascio siciliano era stato decapitato dei suoi elementi radicali. L'eliminazione di Cucco dalla vita politica dell'isola favorì l'insediamento nel PNF siciliano dei latifondisti dell'Isola, essi stessi affiliati, collusi o quantomeno contigui alla mafia. A questa azione si aggiunse quella delle "lettere anonime" le quali tempestarono le scrivanie di Mussolini e del ministro della Giustizia Alfredo Rocco, avvisando dell'esasperazione dei palermitani e minacciando rivolte se l'operato eccessivamente moralistico di Giampietro non si fosse moderato. Contestualmente il processo a Cucco si rivelò uno scandalo, nel quale Mori veniva dipinto dagli avvocati di Cucco come un persecutore politico e nel 1929 Mussolini decise di porre a riposo il prefetto Mori facendolo cooptare dal Senato del Regno. La propaganda fascista dichiarò orgogliosa che la mafia era stata sconfitta: tuttavia l'attività di Mori e Giampietro aveva avuto drastici effetti soltanto su figure di secondo piano, lasciando in parte intatta la cosiddetta "cupola" (composta da notabili, latifondisti e politici), la quale riuscì a reagire attraverso l'eliminazione di Cucco, e così addirittura installarsi all'interno delle federazioni del fascio siciliane. Alcuni autori sostengono che Mussolini avesse rimosso Mori perché nelle sue indagini si sarebbe spinto eccessivamente in alto, andando a colpire interessi e collusioni fra Stato e mafia. Questa tesi viene recisamente respinta da altri, come Alfio Caruso. Tra il 1925 e il 1926 furono varate le leggi fascistissime, ispirate dal giurista Alfredo Rocco. La legge 26 novembre 1925, n. 2029, sanciva che i corpi collettivi operanti in Italia (associazioni, istituti ed enti) erano tenuti, su richiesta dell'autorità di pubblica sicurezza, a dichiarare statuti, atti costitutivi, regolamenti interni ed elenchi di soci e di dirigenti, pena, in caso di dichiarazione omessa o infedele, lo scioglimento del corpo medesimo, sanzioni detentive indeterminate e sanzioni pecuniarie da un minimo di 2.000 ad un massimo di 30.000 lire. In tal modo, il governo arrivò a disporre di una chiara mappa del tipo e del numero di associazioni non governative presenti. La legge 24 dicembre 1925, n. 2300, stabiliva che tutti i funzionari pubblici che avessero rifiutato di giurare fedeltà allo Stato italiano sarebbero dovuti essere destituiti. La legge 24 dicembre 1925, n. 2263, prevedeva che la dizione «presidente del consiglio» venisse mutata in «Capo del governo primo ministro segretario di Stato»; il «capo del governo» era nominato e revocato solo dal re ed era responsabile solo nei suoi confronti. I ministri diventavano responsabili sia verso il monarca che Mussolini. La legge sulla stampa del 31 dicembre 1925 riconosceva come illegali tutti i giornali privi di un responsabile riconosciuto dal prefetto (e, quindi, indirettamente da Mussolini). La legge 31 gennaio 1926, n. 100, attribuiva a Mussolini, in quanto capo del governo, la facoltà di emanare norme giuridiche. Con la legge 4 febbraio 1926, n. 237, vennero eliminati dall'ordinamento municipale il consiglio comunale e il sindaco, quest'ultimo sostituito dalla figura del podestà, che esercitava le funzioni del sindaco, della giunta e del consiglio comunale ed era nominato con decreto reale dal potere esecutivo. Il 3 aprile 1926 venne abolito il diritto di sciopero e si stabiliva che i contratti collettivi potessero essere stipulati solo dai sindacati legalmente riconosciuti dallo Stato; in tale contesto, l'8 luglio1926 venne costituito il Ministero delle Corporazioni, di cui Mussolini assunse la direzione. Nel frattempo, Mussolini impose all'Albania di Ahmet Zogu una forma non ufficiale di protettorato. Inoltre, l'Italia aderì al Patto di Locarno per la garanzia delle frontiere e la sicurezza generale. Nell'aprile 1926, con un discorso a Tripoli, Mussolini avanzò l'idea del mare nostrum (ovvero di una talassocrazia italiana sul mar Mediterraneo) e contrappose, per la prima volta, fascismo e democrazia. Sempre nel 1926, i confini della Libia vennero ridefiniti a favore dell'Italia, che acquistò, tra l'altro, il Fezzan. Sempre il 3 aprile venne fondata l'opera nazionale balilla (ONB), col compito di «riorganizzare la gioventù dal punto di vista morale e fisico», ovvero all'educazione spirituale e culturale e all'istruzione premilitare, ginnico-sportiva, professionale e tecnica dei giovani italiani tra gli 8 e i 18 anni. Nel 1927 tutte le altre organizzazioni giovanili furono sciolte per legge, ad eccezione della Gioventù Italiana Cattolica. Nel 1937 la ONB sarà sostituita dalla gioventù italiana del littorio (GIL). Il 18 agosto il duce tenne a Pesaro un discorso in cui proclamò che, per combattere la svalutazione, il cambio lira-sterlina sarebbe stato fissato alla fatidica «quota 90»: nel periodo conseguente a questa sua dichiarazione la lira continuò a cadere toccando quota 150 lire per una sterlina ma egli insisté che il cambio a 90 doveva essere conquistato a qualsiasi costo, per il prestigio personale e politico che ne avrebbero tratto lui, il fascismo e l'Italia; le conseguenze economiche per i cittadini non gli importavano. Il ministro delle Finanze Giuseppe Volpi era conscio che ci si era spinti troppo in là (e in effetti i titoli borsistici caddero mentre i costi di produzione e i costi della vita aumentarono) ma Mussolini tenne duro e non volle ammettere di essersi sbagliato. Qualche anno dopo fu costretto ad accettare una massiccia svalutazione, ma a nessuno fu permesso di dire in pubblico che "quota 90" fu un errore. Intanto Mussolini rinunciò a qualsiasi forma di remunerazione pubblica per l'incarico di governo svolto. Giornali internazionali si contesero la sua firma e furono pronti a pagare in maniera rilevante i suoi articoli che, particolarmente negli Stati Uniti d'America, erano considerati di sommo interesse. Nel dopoguerra la vedova Mussolini provò a chiedere la reversibilità della pensione per l'attività svolta dal marito come capo del governo; gli enti previdenziali del dopoguerra risposero a Rachele Mussolini che non le spettava alcuna pensione di reversibilità: non a causa di un giudizio morale sull'azione dittatoriale svolta dal marito, ma per la semplice questione tecnica che Mussolini non aveva mai accettato alcuno stipendio pubblico. L'8 ottobre il Gran Consiglio varò il nuovo statuto del PNF, col quale furono abolite le elezioni interne dei membri del partito. Inoltre, il 12 ottobre Mussolini assunse il comando della MVSN. Il 5 novembre furono sciolti tutti i partiti al di fuori del PNF e si stabilì che la stampa era sottoponibile a censura. Furono introdotti il confino di polizia e la pena di morte per attentati perpetrati od organizzati a danno delle massime figure dello Stato e venne istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Il 30 dicembre il fascio littorio venne dichiarato simbolo dello Stato. Il 15 gennaio 1927 Winston Churchill, allora Cancelliere dello Scacchiere, fu accolto a Roma da Mussolini, che nel frattempo lanciò la campagna a sostegno della crescita demografica: gli scapoli furono tenuti a pagare una tassa speciale, in occasione dei matrimoni lo Stato elargì un premio in danaro agli sposi, e furono previsti prestiti, agevolazioni economiche (anche nel campo dell'educazione scolastica dei figli) ed esenzioni dalle tasse per le famiglie numerose (premi di natalità). Furono istituiti i gruppi universitari fascisti (GUF), per la formazione della futura classe dirigente. Il 21 aprile il Gran Consiglio approvò la Carta del Lavoro per la riforma dell'economia italiana in senso corporativo. Il 5 giugno, parlando al Senato, Mussolini affermò la linea del revisionismo in politica estera, dichiarando che i trattati stipulati dopo la prima guerra mondiale rimanevano validi, ma non erano da considerarsi eterni ed immutabili. Con la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, venne l'istituzionalizzato il Gran Consiglio del Fascismo, ovvero il massimo organo del PNF (presieduto dal duce in persona), che fu riconosciuto come organo costituzionale supremo dello Stato. Il 15 gennaio 1928 venne fondato l'Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR) ente statale cui competeva in esclusiva la gestione del servizio pubblico radiofonico sul territorio nazionale. Nel 1944 verrà ribattezzato RAI (Radio Audizioni Italiane). Il 14 marzo Mussolini presentò alla Camera un disegno di legge di riforma (poi approvato), col quale propose la riduzione a 400 del numero complessivo dei deputati, i quali sarebbero stati eletti in un unico collegio nazionale; la confederazione nazionale dei sindacati fascisti e le associazioni culturali abilitate si sarebbero occupate della presentazione delle candidature. L'11 febbraio 1929 Mussolini pose termine alla decennale questione romana, firmando col cardinale Pietro Gasparri i patti lateranensi, ratificati alla Camera in maggio. Le elezioni del 24 marzo 1929, per il rinnovo della Camera dei Deputati, si risolsero in un plebiscito a favore di Mussolini. Gli elettori vennero chiamati a votare "sì" o "no" per approvare un "listone" di deputati deciso dal Gran Consiglio del Fascismo. La consultazione si tenne in un clima intimidatorio; la scheda con il "sì" è tricolore, e quella con il "no" semplicemente bianca, rendendo così riconoscibile il voto espresso. La partecipazione al voto fu del 90% e i voti favorevoli al "listone" furono pari al 98,4%. Il 2 aprile il duce incontrò il ministro degli esteri inglese Neville Chamberlain e, verso la fine dell'anno, la sede del Governo venne trasferita da Palazzo Chigi a Palazzo Venezia. Nel 1930 l'Italia siglò un trattato di amicizia con l'Austria. Nel gennaio1931 Mussolini, in un'intervista al Daily Mail, affermò la necessità di una revisione dei trattati di pace della grande guerra. Il 9 luglio ricevette il segretario di Stato statunitense Henry Lewis Stimson, mentre in dicembre accolse il Mahatma Gandhi a Palazzo Venezia. Tra il 23 marzo e il 4 aprile 1932, il duce incontrò più volte Emil Ludwig, che ne scriverà in Colloqui con Mussolini. Dopo tredici ore di faccia a faccia (un'ora per ogni sera) Ludwig, che l'anno precedente aveva intervistato Stalin, definisce Mussolini «un grande uomo, molto più grande di Stalin». In questo periodo iniziarono ad allentarsi i suoi rapporti amorosi con Margherita Sarfatti, cui tuttavia continuò ad essere legato. D'altra parte, agli inizi del 1932, aveva incontrato per la prima volta Claretta Petacci. Il 12 aprile venne presentata, al salone internazionale dell'automobile di Milano, la nuova FIAT Balilla, che nelle intenzioni di Mussolini avrebbe dovuto essere l'automobile di tutti gli Italiani; a partire da quell'anno ne fu infatti favorita la diffusione, che tuttavia non raggiunse mai i risultati sperati (una simile iniziativa venne poi adottata anche da Adolf Hitler con la Volkswagen). In giugno, sull'Enciclopedia Treccani venne pubblicata la voce Fascismo, firmata da Mussolini e scritta con la collaborazione di Giovanni Gentile; vi si spiegava la dottrina propria del partito fascista. In occasione del decennale della rivoluzione fascista, fu inaugurata 28 ottobre la via dell'Impero (attuale via dei Fori Imperiali) e furono riaperte le iscrizioni al PNF, chiuse dal 1928. Il 18 dicembre Mussolini inaugurò Littoria (futura Latina), la prima delle "città nuove" costruite nell'Agro Pontino, bonificato negli anni precedenti. Il 29 marzo 1933 Mussolini incontrò a Roma il Ministro della Propaganda tedesco Joseph Goebbels. Per iniziativa di Mussolini il 7 giugno venne firmato a Roma ilpatto a quattro tra Italia, Francia, Regno Unito e Germania, col quale questi stati si assunsero la responsabilità del mantenimento della pace e della riorganizzazione dell'Europa nel rispetto dei principi e delle procedure previste dallo statuto della SdN. Sempre nel 1933 venne creato l'Istituto Nazionale Fascista della Previdenza Sociale (INFPS), che assunse dal 1943 la denominazione di INPS, un ente di diritto pubblico dotato di personalità giuridica e a gestione autonoma con lo scopo di garantire la previdenza sociale ai lavoratori. In quegli anni ebbe origine del primo vero sistema pensionistico italiano: a carico dell'INFPS fu l'assicurazione (obbligatoria) contro la vecchiaia, estesa dai soli dipendenti pubblici (per i quali aveva il nome di pensione) a quelli privati. Nel medesimo anno la pluralità di Casse infortuni cui era deputata la tutela dei lavoratori contro gli infortuni sul lavoro (obbligatoria a partire dal 1898, seppur limitatamente ad alcuni settori) vennero unificate nell'Istituto Nazionale Fascista per l'Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro ("INFAIL"), ribattezzato INAIL nel 1943. Scopo dell'ente statale era quello di «esercitare l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali (parte delle quali vennero equiparate giuridicamente agli infortuni sul lavoro), la riassicurazione di altri Enti autorizzati e assumere particolari funzioni e servizi per conto di essi». Il 5 febbraio 1934 vennero istituite le 22 corporazioni. Nel 1934 si tennero inoltre i primi littoriali della cultura e dell'arte e venne istituita, nell'ambito della terza edizione della Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, la Coppa Mussolini, premio antesignano del Leone d'oro. Il 14 marzo Mussolini incontrò a Roma il cancelliere austriaco Dollfuss e il Capo del Governo ungherese Gyula Gömbös per discutere una revisione degli assetti territoriali nei Balcani. Il 17 marzo venne concluso un "patto a tre" con Ungheria e Austria in funzione anti-tedesca e anti-francese (Protocolli di Roma). Le elezioni del 25 marzo 1934, per il rinnovo della Camera dei Deputati – tenute con lo stesso schema del "listone" unico già adottato nel 1924, con scheda tricolore per il "sì" e bianca per il "no" – si risolsero in un nuovo plebiscito: aumentò il numero dei partecipanti e i voti contrari risultarono 15.201 (lo 0,15%). La legge 22 marzo 1934 n. 654 per la tutela della maternità delle lavoratrici e la legge 26 aprile 1934 n. 653 per la tutela del lavoro della donna e del fanciullo stabilirono il diritto alla conservazione del posto di lavoro per le lavoratrici incinte, un periodo di licenza prima e dopo il parto, e permessi obbligatori per l'allattamento (per le aziende con più di 50 operaie vi era l'obbligo di predisporre un locale per tale scopo). La legge 24 dicembre 1934 n. 2316 stabiliva la creazione dell'ONMI (Opera Nazionale per la Protezione della Maternità e dell'Infanzia); l'ente poteva anche finanziare istituzioni private operanti nei medesimi campi. Nel 1935 si ha l'istituzione del sabato fascista. Il 14 e 15 giugno Mussolini e Hitler si incontrarono a Stra e a Venezia, i colloqui verterono principalmente sulla questione austriaca (il cancelliere tedesco puntava all'annessione dell'Austria). Tuttavia, i rapporti tra i due restarono tesi, anche in seguito al fallito colpo di Stato in Austria (col quale la Germania nazionalsocialista intendeva procedere all'annessione del paese) che portò alla morte di Dollfuss. La situazione si risolse dopo che Hitler desistette dal suo proposito. Il 21 agosto Mussolini incontrò Kurt Alois von Schuschnigg, successore di Dollfuss. Il 6 settembre, a Bari, prese posizione nei confronti della politica estera nazionalsocialista e dalle dottrina razzista hitleriana, proclamando che «trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà a talune dottrine d'Oltralpe, sostenute da progenie di gente che ignorava la scrittura, con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto». Il trattato tra Italia ed Etiopia del 1928, sottoscritto con il placet della Gran Bretagna, aveva fissato la frontiera tra la Somalia italiana e l'Etiopia lungo una linea distante 21 miglia dalla costa del Benadir e parallela alla stessa. Pretendendo di agire sulla base di detto accordo (mentre gli etiopi ritenevano che nell'accordo si intendessero "miglia imperiali", più corte delle miglia nautiche), gli italiani costruirono nel 1930 un forte nell'oasi di Ual-Ual, nel deserto di Ogaden, e lo fecero presidiare da truppe somale, comandate da ufficiali italiani. L'oasi fu scelta dai militari italiani quale luogo da presidiare in mancanza di altre posizioni idonee in pieno deserto. Nel novembre 1934 truppe regolari etiopi, di scorta a una commissione mista inglese-etiope per la delimitazione delle frontiere, contestarono alle truppe italiane lo sconfinamento. I britannici, per evitare incidenti internazionali, abbandonarono la commissione e le truppe italiane ed etiopi rimasero accampate a poca distanza le une dalle altre. Nei primi giorni di dicembre, in circostanze mai chiarite, un combattimento tra italiani ed etiopi costò la vita a 150 soldati etiopi e a 50 soldati italiani (somali). Mussolini chiese delle scuse ufficiali nonché il pagamento di un'indennità da parte del governo etiope, conformemente a quanto stabilito in un trattato siglato tra Italia ed Etiopia nel 1928. Il negus Hailé Selassié, avendone la possibilità in virtù del medesimo accordo, decise di rimettersi alla Società delle nazioni (2 gennaio). Per far luce sulla vicenda, questa si impegnò in un arbitrato, temporeggiando; tuttavia, i rapporti italo-etiopi ne risultarono irrimediabilmente compromessi e Mussolini si appellò all'episodio come motivo per minacciare la guerra e con questo far pressione su francesi e britannici. Sconfinamenti di reparti militari abissini si erano già verificati precedentemente: ad esempio, il 4 novembre 1934 quando il consolato italiano a Gondar era stato attaccato da gruppi armati etiopici. Del pari erano stati frequenti i deliberati sconfinamenti di truppe italiane. Le tensioni italo-etiopiche erano dovute al disegno italiano di unificare territorialmente Eritrea e Somalia, a spese dell'Etiopia, e al desiderio etiopico di conquistare uno sbocco sul mare. Deve inoltre tenersi presente che l'Etiopia era uno dei pochissimi stati africani indipendenti, ossia non controllato da una delle potenze coloniali europee: uno Stato ideale per le mire espansionistiche di Mussolini. Tra il 4 e il 7 gennaio 1935, Mussolini incontrò a Roma il ministro degli esteri francese Pierre Laval: vennero firmati accordi in virtù dei quali la Francia si impegnava a cedere all'Italia la Somalia francese (attuale Gibuti), a riconoscere le consistenti minoranze italiane presenti in Tunisia (che era stata oggetto di rivendicazione da parte italiana) e ad appoggiare diplomaticamente l'Italia in caso di una guerra contro l'Etiopia. Laval e Mussolini speravano così in un reciproco avvicinamento fra Italia e Francia, al fine di dar vita ad un'alleanza in funzione anti-nazista. Il 16 gennaio Mussolini assunse la direzione del Ministero delle Colonie. Il 19 gennaio la Società delle Nazioni riconobbe «la buona fede» di Italia ed Etiopia nell'incidente di Ual Ual e decise che il caso dovesse essere trattato tra le due parti interessate; tuttavia, il 17 marzo gli abissini presentarono un altro ricorso, appellandosi all'articolo XV dell'organizzazione. Nella conferenza di Stresa (vedi Fronte di Stresa), svoltasi tra l'11 e il 14 aprile, Italia, Regno Unito e Francia condannarono congiuntamente le violazioni del trattato di Versailles da parte della Germania. L'8 giugno a Cagliari, di fronte all'ostilità mostrata in tal senso dalla Gran Bretagna, Mussolini rivendicò il diritto dell'Italia ad attuare una propria politica coloniale. Il 18 settembre, in un articolo pubblicato sul Morning Post, egli garantì che non sarebbero stati colpiti gli interessi francesi e inglesi nell'Africa orientale. Il 2 ottobre annunciò la dichiarazione di guerra all'Etiopia dal balcone di Palazzo Venezia. Attaccando il paese africano, membro della Società delle Nazioni, Mussolini aveva violato l'articolo XVI dell'organizzazione medesima: «se un membro della Lega ricorre alla guerra, infrangendo quanto stipulato negli articoli XII, XIII e XV, sarà giudicato ipso facto come se avesse commesso un atto di guerra contro tutti i membri della Lega, che qui prendono impegno di sottoporlo alla rottura immediata di tutte le relazioni commerciali e finanziarie, alle proibizioni di relazioni tra i cittadini propri e quelli della nazione che infrange il patto, e all'astensione di ogni relazione finanziaria, commerciale o personale tra i cittadini della nazione violatrice del patto e i cittadini di qualsiasi altro paese, membro della Lega o no». Per questo motivo, la Società delle Nazioni, espressione principalmente della volontà della Francia e del Regno Unito (i due stati più forti e influenti), condannò l'attacco italiano il 7 ottobre. Gli Stati Uniti d'America invece, pur condannando l'operazione italiana condannarono anche che le sanzioni imposte fossero state votate anche da Francia e Gran Bretagna, a loro volta possessori di imperi coloniali. Il 31 ottobre 1937 inaugurò la nuova città di Guidonia, importante polo strategico di ricerche aeronautiche con il DSSE, e Pontinia il 13 novembre. Il 18 novembre l'Italia venne colpita dalle sanzioni economiche (nonostante queste non fossero state applicate contro il Giappone nel 1931 in occasione dell'invasione della Manciuria e contro la Germania nel 1934 per la tentata annessione dell'Austria) imposte dalla Società delle Nazioni - approvate da 52 stati con i soli voti contrari di Austria, Ungheria e Albania - in risposta alle quali vennero promossi i programmi economici autarchici. Le sanzioni risultarono comunque inefficaci, poiché numerosi paesi, pur avendole votate ufficialmente, mantennero comunque buoni rapporti con l'Italia rifornendola di materie prime. La Germania nazista è uno di questi e la guerra d'Etiopia rappresenta l'inizio dell'avvicinamento tra Mussolini e Hitler. Già del 1935 le sanzioni non vennero applicate completamente da tutti gli stati membri della società delle nazioni, il 15 luglio 1936 furono abolite. La guerra in Etiopia sarebbe stata ostacolata nel caso in cui la Gran Bretagna avesse avuto un atteggiamento più risoluto, atteggiamento che non ebbe poiché consapevole di avere concesso all'Italia fascista, con l'Accordo navale anglo-tedesco, il pretesto per la guerra stessa, e perché forse avrebbe voluto salvaguardare il fronte di Stresa. Le linee di rifornimento italiane passavano di fatti per Suez, e un blocco del Canale da parte britannica avrebbe reso proibitiva la logistica italiana attraverso il periplo dell'Africa. Memore della bruciante sconfitta subita ad Adua dalle truppe italiane, e consapevole della forza e degli armamenti (forniti per anni anche dalla Germania) a disposizione degli abissini, Mussolini seguì in prima persona sia la preparazione, sia lo svolgimento delle operazioni militari, che in soli sette mesi condurranno alla distruzione delle forze armate di uno degli ultimi Stati indipendenti d'Africa, erede dell'antico Impero etiopico. Per assicurarsi una rapida vittoria, Mussolini, esaminate le richieste dei vertici militari, arrivò a triplicare l'entità di uomini e mezzi: nel maggio del 1936 si trovarono così schierati sul teatro di guerra quasi mezzo milione di uomini (inclusi 87.000 àscari), 492 carri armati, 18.932 automezzi e 350 aerei. Dell'arsenale a disposizione degli italiani facevano parte anche ingenti quantità di armi chimiche, proibite dalla Convenzione di Ginevra e sbarcate in gran segreto a Massaua: 60.000 granate all'arsina per artiglieria, 1.000 tonnellate di bombe all'iprite per aeronautica, e 270 tonnellate di aggressivi chimici per impiego tattico. Sin dall'inizio dei combattimenti, il 3 ottobre, Mussolini assunse la direzione delle operazioni e inviò frequenti ordini radiotelegrafati ai suoi generali impegnati sul campo (Rodolfo Graziani sul fronte Sud, Emilio De Bono e poi Pietro Badoglio su quello Nord), dettando loro linee e ordini operativi, fra cui quelli relativi all'uso delle armi chimiche, sul cui impiego egli aveva avocato a sé ogni decisione. Il primo ordine che contemplava l'impiego delle armi chimiche giunse da Mussolini a Graziani il 27 ottobre 1935, per preparare l'assalto alla piazzaforte abissina di Gorrahei, tuttavia furono sufficienti sei tonnellate di granate convenzionali per avere ragione dei suoi difensori il successivo 29. Graziani richiese poi a Mussolini l'autorizzazione all'uso delle armi chimiche per "operazioni difensive" (volte a fermare l'assalto dell'armata di ras Destà Damtù alle linee italiane a Dolo, a fine dicembre 1935) e l'ottenne prontamente e con ampio mandato, sino all'eliminazione dell'intera formazione nemica. Nello stesso periodo (tra il 22 dicembre 1935 e i primi di gennaio 1936), Badoglio ricevette l'ordine di impiegare sul fronte Nord le bombe d'aviazione contro gli abissini, passati all'offensiva nello Scirè. L'ordine, già in corso d'esecuzione (furono sottoposti alla micidiale pioggia di gas vescicanti anche i civili, il bestiame e i raccolti), venne sospeso per motivi politici in vista di una riunione della Società delle Nazioni prevista a Ginevra il 5 gennaio. Badoglio tuttavia ignorò l'ordine di sospensione e proseguì nei bombardamenti chimici sino al 7, e poi nuovamente il 12 e 18 gennaio. Il 19 gennaio Mussolini tornò ad autorizzare la guerra chimica, con queste parole: « Autorizzo Vostra Eccellenza a impiegare tutti i mezzi di guerra, dico tutti, sia dall'alto, come da terra. Massima decisione.» I bombardamenti chimici d'artiglieria e aerei proseguirono sia sul fronte Nord (sino al 29 marzo 1936) che su quello Sud (sino al 27 aprile), arrivando ad impiegare in totale circa 350 tonnellate di armi chimiche. In questo contesto, a fine gennaio, quando nonostante il largo impiego di armi e mezzi le armate italiane del fronte Nord erano in grave difficoltà (tanto che Badoglio, premuto dalle forze di ras Cassa Darghiè era sul punto di ordinare l'evacuazione di Macallè), Mussolini non esitò a prospettare al suo generale l'impiego di ulteriori armi chimiche. Badoglio espresse la propria netta contrarietà, facendo presente a Mussolini le reazioni internazionali che questa scelta avrebbe provocato e il proprio timore circa le conseguenze incontrollabili dell'uso di un'arma mai sperimentata prima; il "duce" recepì tali obiezioni e il 20 febbraio ritirò la proposta. L'uso delle armi chimiche venne nascosto all'opinione pubblica italiana, e Mussolini ordinò di smentire come animate da sentimenti "anti-italiani" le poche denunce sul loro impiego che apparvero sulla stampa internazionale. Il crimine verrà a lungo negato con decisione, anche dopo la fine del fascismo, persino da partecipanti alla guerra come Indro Montanelli, restando ai margini dell'immensa storiografia prodotta sulla figura di Mussolini. Il 7 febbraio 1996 l'allora Ministro della Difesa, generale Domenico Corcione, sostenne davanti al Parlamento l'uso delle armi chimiche da parte italiana durante la guerra d'Etiopia. La conduzione della guerra nei confronti degli etiopici non si limitò all'impiego delle armi chimiche, ma fu condotta anche con altri strumenti, come l'ordine di non rispettare i contrassegni della Croce Rossa del nemico, fatto che portò alla distruzione di almeno 17 tra ospedali da campo (tra i quali uno svedese, ciò che causò il disappunto del duce per il danno politico che ne conseguì) e installazioni mediche abissine, o l'impiego di truppe di ascari libici di fede musulmana contro le armate e la popolazione cristiano-copta abissina. Le truppe libiche - appartenenti a tribù memori delle violenze subite dagli Àscari eritrei utilizzate contro i ribelli libici durante la guerra di Libia - si resero colpevoli di massacri sia nei confronti dei civili, sia dei prigionieri, tanto da spingere il generale Guglielmo Nasi ad istituire un premio di cento lire per ogni prigioniero vivo che gli fosse stato consegnato. I crimini proseguirono anche a guerra finita e almeno sino al 1940 nei confronti dei ribelli, contro la popolazione e anche contro i monaci abissini nei santuari cristiano-copti, che furono trucidati a centinaia a Debra Libanos e altrove. Benito Mussolini alle porte di Tripoli (Libia), il 20 marzo 1937, innalza la "spada dell'Islam", la cui elsa è in oro massiccio, e si proclama "protettore dell'Islam", prima di entrare in città alla testa di 2.600 cavalieri. Il 7 maggio 1936 Mussolini ricevette da Vittorio Emanuele III la Gran Croce dell'Ordine militare di Savoia. Il sovrano, nell'insignire il duce della massima decorazione militare del regno, riconobbe con parole altisonanti il ruolo diretto di guida svolto da Mussolini: «Ministro delle Forze armate, preparò, condusse e vinse la più grande guerra coloniale che la storia ricordi.». Il 6 maggio, sempre dal balcone di Palazzo Venezia, annunciò la fine della guerra d'Etiopia e proclamò la rinascita dell'impero (il re d'Italia assunse il titolo di imperatore d'Etiopia). Nel suo discorso proclamò: «il popolo italiano ha creato col suo sangue l'impero. Lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le sue armi». Contestualmente inEtiopia, che nel 1935 era indicata dalla Società delle Nazioni come uno degli stati in cui ancora si trovavano schiavi in gran numero, venne abolita ufficialmente la schiavitù. La campagna abissina rappresentò il momento di massimo consenso del popolo italiano verso il fascismo. Mussolini stabilì che, nell'indicare la data sui documenti ufficiali e sui giornali, occorresse scrivere l'anno a cominciare dal 28 ottobre 1922 (tale disposizione era già in uso dal 31 dicembre 1926) affiancato da quello dalla fondazione dell'impero (ad esempio, il '36 era indicato come «anno 1936, XIV dell'Era Fascista, I dell'Impero»). Il 4 luglio la Società delle Nazioni decretò terminata l'applicazione dell'articolo XVI e le sanzioni caddero il 15 dello stesso mese (l'unico stato che si oppose fu il Sudafrica); Mussolini ottenne, per la guerra vittoriosa, il titolo di Primo maresciallo dell'Impero (30 marzo 1938). Il 9 giugno affidò al genero Galeazzo Ciano il Ministero degli Esteri. Il 24 luglio 1936 si accordò con Hitler per l'invio di contingenti militari in Spagna a sostegno di Francisco Franco, il cui colpo di Stato del 18 luglio aveva scatenato la guerra civile spagnola. Il figlio di Mussolini, Bruno, partecipò alla guerra come capo di una squadriglia aerea. Il 1º novembre annunciò con un discorso la creazione (sancita il 24 ottobre) dell'Asse Roma-Berlino (non si trattava ancora di una vera alleanza militare, che venne stipulata solo col patto d'acciaio). Il 2 gennaio 1937 venne siglato il cosiddetto gentlemen's agreement tra Italia e Regno Unito, col quale si definirono i diritti di entrata, uscita e transito nel Mediterraneo e si stabilì di evitare la modifica dello «status quo relativo alla sovranità nazionale dei territori del bacino del Mediterraneo», Spagna inclusa. Tale accordo fu confermato dal Patto di Pasqua del 16 aprile 1938. Il 20 marzo, nell'oasi di Bugàra vicino a Tripoli, ricevette dal capo berbero Iusuf Kerbisc la "spada dell'islam", un manufatto dorato, simbolo dell'approvazione di una parte della società libica verso il regime mussoliniano. Il 21 aprile inaugurò Cinecittà, concepita come sede dell'industria cinematografica italiana, consistentemente finanziata dal governo in quegli anni (risale al 1937 il primo colossal italiano: Scipione l'Africano). Il 22 aprile incontrò a Venezia il cancelliere austriaco Schuschnigg e si dichiarò non contrario all'Anschluss dell'Austria con la Germania. Sempre in aprile incontrò il ministro dell'aeronautica tedesco Hermann Göring e il ministro degli esteri tedesco Von Neurath. Il 25 e il 29 settembre incontrò Hitler, prima a Monaco e poi a Berlino. Il 6 novembre l'Italia aderì al Patto Anticomintern, siglato precedentemente tra Germania e Giappone in funzione anti-sovietica. Il 3 dicembre 1937 venne stipulato aBangkok un trattato di amicizia, commercio e navigazione col Siam (attuale Thailandia). L'11 dicembre annunciò l'uscita dell'Italia dalla Società delle Nazioni. Accolse, tra il 3 e il 9 maggio 1938, Hitler, il quale era venuto in visita in Italia. Grazie alla mediazione mussoliniana, di fronte all'eventualità dello scoppio di un conflitto tra il blocco anglo-francese e la Germania, il 29 e 30 settembre si tenne la Conferenza di Monaco. Ad essa erano presenti Mussolini, Hitler, Daladier per la Francia e Chamberlain per la Gran Bretagna; venne riconosciuta alla Germania la legittimità della sua politica in Cecoslovacchia. Mussolini venne festeggiato come «il salvatore della pace» per aver scongiurato il conflitto. Tra l'11 e il 14 gennaio 1939, a Roma, incontrò Chamberlain e il ministro degli esteri inglese Frederik Halifax. Il 19 gennaio 1939 la Camera dei deputati venne soppressa e sostituita dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni. In aprile il duce ordinò l'occupazione e l'annessione dell'Albania; l'Italia già godeva di una forma non ufficiale di protettorato sul paese da molti anni, e l'«invasione» fu presumibilmente dovuta alla volontà mussoliniana di dimostrare all'alleato tedesco la propria forza. La stabilità della dittatura fascista è in gran parte da ascriversi alla capacità di Mussolini di generare attorno alla propria figura un forte consenso. L'abilità mostrata nel rendere la sua personalità oggetto di vero e proprio culto si rifletté non solo nell'approvazione che la società italiana a lungo gli mostrò, ma anche nell'ammirazione che riuscì a guadagnarsi presso numerosi capi di Stato stranieri, intellettuali e, più in generale, presso l'opinione pubblica internazionale, soprattutto negli Stati Uniti e nel Regno Unito. Da questo punto di vista Mussolini divenne un modello di ispirazione per molti futuri dittatori, soprattutto Hitler, ma anche per molti politici di spicco di importanti stati democratici. La popolarità di Mussolini trova probabilmente la sua origine nell'insoddisfazione del popolo italiano nei confronti delle classi dirigenti liberali per via dei trattati di pace, ritenute dai più sfavorevoli, che l'Italia aveva dovuto accettare alla fine della prima guerra mondiale, nonostante gli oltre 650.000 morti e i sacrifici enormi sopportati dal Paese. Non a caso, Gabriele D'Annunzio parlò di «vittoria mutilata». L'Italia guadagnò territorialmente solo parte di ciò che le era stato promesso col patto di Londra e ciò, unito al generale malcontento post-bellico e alla terribile crisi economica dell'immediato dopoguerra, fece crescere il desiderio di un governo forte. Mussolini fu abile a sfruttare tale situazione nonché la paura del cosiddetto "pericolo rosso", accresciutasi durante il biennio rosso: si presentò come il restauratore dell'ordine e della pace sociale, teso alla «normalizzazione» della situazione politica. Da questo punto di vista, molti squadristi fascisti intransigenti criticarono la collaborazione (nel 1922-1924) del PNF a livello governativo con i vecchi partiti, nonché il fatto che fossero rimasti in carica molti dei questori e dei prefetti che erano stati estranei, se non ostili, al fascismo. A partire dal 1925, con la promulgazione delle cosiddette leggi fascistissime e l'inizio della dittatura, ogni forma di collaborazione coi vecchi partiti fu abbandonata e gli stessi sciolti. Il consenso fu poi alimentato grazie al controllo sulla stampa e sul mondo culturale italiano. Mussolini, in quanto giornalista, conosceva bene il potere della stampa, e di conseguenza fece in modo di poterlo controllare. Nei suoi Colloqui con Emil Ludwig giustificò la censura imposta ai giornali con il fatto che nelle liberaldemocrazie i giornali non sarebbero più liberi, ma obbedirebbero solo ad un'oligarchia di padroni, differenti dallo Stato: partiti e finanziatori plutocratici. Inoltre, ogni forma di dissenso sgradita a Mussolini venne repressa attraverso l'OVRA, il Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato, e l'uso massiccio del confino politico. Tuttavia, Mussolini tollerò – e costrinse i suoi a tollerare – alcune "voci fuori dal coro" (come ad esempio Salvemini, Croce, Bombacci) tanto per alimentare la propria immagine di uomo forte ma non di tiranno, quanto per mantenere aperti canali di dialogo anche con l'antifascismo militante. Mussolini dimostrò di avere una personalità carismatica, come testimoniano i discorsi tenuti di fronte a «folle oceaniche», e una notevole abilità oratoria, che attinse in parte dall'esempio dannunziano. Egli incrementò la sua popolarità presentandosi come «il figlio del popolo», ricorrendo all'organizzazione e all'irreggimentazione delle masse, chiamate di continuo a partecipare ad iniziative di varia natura, ma anche grazie all'appoggio di molteplici intellettuali di spicco (Gabriele D'Annunzio, Mario Sironi, Ezra Pound, ifuturisti, Giovanni Gentile) e di uomini di grandi capacità di governo. Mussolini seppe sfruttare abilmente, come mai prima era stato fatto in Italia, i nuovi mezzi di comunicazione (la radio, il cinema e i cinegiornali) nonché i successi sportivi conseguiti dall'Italia fascista (come i Mondiali di calcio del 1934 e del 1938, oltre al titolo mondiale dei pesi massimi conquistato da Primo Carnera), che furono entrambi ampiamente utilizzati in funzione propagandistica. A questi Mussolini unì i primati aeronautici conquistati dall'Italia (le trasvolate atlantiche, la conquista del Polo Nord, i primati di velocità per idrocorsa) e quelli navali (il transatlantico Rex). Mussolini riuscì spesso a interpretare correttamente la volontà della maggioranza del popolo italiano, attuando importanti interventi di tipo sociale, sanitario, previdenziale, economico e culturale. Occorre inoltre sottolineare come la politica di potenza inaugurata dall'Italia fascista fosse vista con favore da gran parte della popolazione. Mussolini mirava a fare dell'Italia un paese temuto e rispettato, restaurando i fasti dell'Impero romano, recuperando i territori irredenti e realizzando il controllo italiano sul mediterraneo (il mare nostro). Questa politica – troncata dallo scoppio della seconda guerra mondiale – non produsse i risultati sperati, e ottenne solo di isolare l'Italia dai suoi ex alleati dell'Intesa, spingendola ad una sempre più stretta – e definitiva – alleanza con la Germania. Hitler considerò Mussolini suo maestro: « [...] concepii profonda ammirazione per il grand'uomo a sud delle Alpi che, pieno di fervido amore per il suo popolo, non venne a patti col nemico interno dell'Italia ma volle annientarlo con ogni mezzo. Ciò che farà annoverare Mussolini fra i grandi di questa Terra è la decisione di non spartirsi l'Italia col marxismo ma di salvare dal marxismo, distruggendolo, la sua patria. A petto di lui, quanto appaiono meschini i nostri statisti tedeschi! E da quale nausea si è colti al vedere queste nullità osar criticare chi è mille volte più grande di loro!» (Adolf Hitler, Mein Kampf, cap. XV. trad. Andrea Irace). Churchill, nel 1933, lo definì «il più grande legislatore vivente» (soprattutto in relazione alla promulgazione del nuovo codice penale, varato nel 1930 dal ministro Alfredo Rocco e tuttora vigente) e «un grande uomo» ancora nel 1940. Il 13 febbraio 1929, Pio XI, a due giorni dai Patti Lateranensi, tenne un discorso a Milano ad un'udienza concessa a professori e studenti dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, che fece passare alla storia la definizione di Benito Mussolini come «uomo della Provvidenza» (mentre invece il Pontefice aveva indicato nel Capo del governo italiano un più neutrale "l'uomo che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare"): « Le condizioni dunque della religione in Italia non si potevano regolare senza un previo accordo dei due poteri, previo accordo a cui si opponeva la condizione della Chiesa in Italia. Dunque per far luogo al Trattato dovevano risanarsi le condizioni, mentre per risanare le condizioni stesse occorreva il Concordato. E allora? La soluzione non era facile, ma dobbiamo ringraziare il Signore di averCela fatta vedere e di aver potuto farla vedere anche agli altri. La soluzione era di far camminare le due cose di pari passo. E così, insieme al Trattato, si è studiato un Concordato propriamente detto e si è potuto rivedere e rimaneggiare e, fino ai limiti del possibile, riordinare e regolare tutta quella immensa farragine di leggi tutte direttamente o indirettamente contrarie ai diritti e alle prerogative della Chiesa, delle persone e delle cose della Chiesa; tutto un viluppo di cose, una massa veramente così vasta, così complicata, così difficile, da dare qualche volta addirittura le vertigini. E qualche volta siamo stati tentati di pensare, come lo diciamo con lieta confidenza a voi, sì buoni figliuoli, che forse a risolvere la questione ci voleva proprio un Papa alpinista, un alpinista immune da vertigini ed abituato ad affrontare le ascensioni più ardue; come qualche volta abbiamo pensato che forse ci voleva pure un Papa bibliotecario, abituato ad andare in fondo alle ricerche storiche e documentarie, perché di libri e documenti, è evidente, si è dovuto consultarne molti. Dobbiamo dire che siamo stati anche dall'altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi quanto più brutti e deformi. E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l'incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti « tamquam per medium profundam eundo » a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all'Italia e l'Italia a Dio.» (Pio XI, allocuzione Vogliamo anzitutto). Pio XI gli conferì l'Ordine dello Speron d'oro nel 1932; molti in Europa, nel 1933, lo chiamarono «il salvatore della pace»; lo stesso Franklin Delano Roosevelt gli riservò commenti lusinghieri;[213] Pio XII lo definì «il più grande uomo da me conosciuto e tra i più profondamente buoni». Lo scrittore americanoEzra Pound, che incontrò di persona Mussolini nel 1933, lo celebrò nel libro "Jefferson and/or Mussolini". A proposito della capacità del duce di edificare attorno a sé un notevole consenso, significativa tra le altre è l'opinione espressa dal giornalista Enzo Biagi in "Lui, Mussolini": «Mussolini è stato un gigante; considero la sua carriera politica un capolavoro. Se non si fosse avventurato nella guerra al fianco di Hitler, sarebbe morto osannato nel suo letto. Il popolo italiano era soddisfatto di essere governato da lui: un consenso sincero». Mussolini inizialmente aveva espresso disapprovazione nei confronti della politica razzista espressa dal nazionalsocialismo. Tuttavia, a partire dal 1938, in concomitanza dell'alleanza con la Germania, il regime fascista promulgò una serie di decreti il cui insieme è noto come leggi razziali, che introducevano provvedimenti segregazionisti nei confronti degli ebrei italiani e dei sudditi di colore dell'Impero. Furono letti per la prima volta il 18 settembre 1938 a Trieste da Mussolini dal balcone del Municipio in occasione della sua visita alla città. Fra i diversi documenti e provvedimenti legislativi che costituiscono il corpus delle cosiddette leggi razziali figura il manifesto della razza, o più esattamente il manifesto degli scienziati razzisti, pubblicato una prima volta in forma anonima sul Giornale d'Italia il 15 luglio 1938 con il titolo Il Fascismo e i problemi della razza e ripubblicato sul numero 1 de La difesa della razza il 5 agosto 1938. Il 25 luglio, dopo un incontro tra i dieci redattori della tesi, il ministro della cultura popolare Dino Alfieri e il segretario del PNF Achille Starace - dalla segreteria politica del partito viene comunicato il testo definitivo del lavoro, completo dell'elenco dei firmatari e delle adesioni, aderenti e simpatizzanti del PNF. Al regio decreto legge del 5 settembre 1938 – che fissava «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» – e a quello del 7 settembre – che fissava «Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri» – fece seguito (6 ottobre) una «dichiarazione sulla razza» emessa dal Gran Consiglio del Fascismo; tale dichiarazione venne successivamente adottata dallo stato sempre con un regio decreto legge che porta la data del 17 novembre. Fra il 1943 e il 1945, il governo della Repubblica Sociale Italiana dichiarò gli ebrei «stranieri appartenenti per la durata della guerra a nazionalità ostile» e procedette al concentramento di numerose persone di religione ebraica, in particolare nel campo di prigionia di Fossoli. In territorio italiano sotto controllo tedesco, nella Risiera di San Sabba, vicino Trieste, sorse un campo prigionia che funse anche da luogo di raccolta per il trasporto degli ebrei nei campi di concentramento tedeschi. Nel campo le autorità tedesche compirono uccisioni di antifascisti locali e al suo interno fu anche installato un forno crematorio per eliminare i corpi dei prigionieri deceduti o giustiziati. « Combattenti di terra, di mare, e dell'aria! Camicie Nere della Rivoluzione e delle Legioni, uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del Regno di Albania. Ascoltate! [...] La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia [...] La parola d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al mondo.» Il 22 maggio 1939 Galeazzo Ciano, ministro degli esteri italiano, firma il Patto d'Acciaio con la Germania, che sancisce ufficialmente la nascita di un'alleanza vincolante italo-tedesca. In merito alla guerra scriveva, il 31 marzo 1940: « ... è solo l'alleanza colla Germania, cioè con uno Stato che non ha ancora bisogno del nostro concorso militare e si contenta dei nostri aiuti economici e della nostra solidarietà morale, che ci permette il nostro attuale stato di non-belligeranza. ... L'Italia non può rimanere neutrale per tutta la durata della guerra, senza dimissionare dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di una Svizzera moltiplicata per dieci. Il problema non è quindi di sapere se l'Italia entrerà o non entrerà in guerra perché l'Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra, si tratta soltanto di sapere quando e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile, compatibilmente con l'onore e la di­gnità, la nostra entrata in guerra... Ma circa il quando, cioè la data, nel convegno del Brennero si è nettamente stabilito che ciò riguarda l'Italia e soltanto l'Italia.» (Benito Mussolini, Roma, 31 marzo XVIII). Il 30 maggio Mussolini incarica il generale Ugo Cavallero di recapitare ad Hitler un memoriale, in cui afferma che la guerra è inevitabile, ma che l'Italia non sarà pronta ad intraprenderla prima di 3 anni. Nonostante le iniziali rassicurazioni in merito, la Germania invade la Polonia il 1º settembre, determinando l'inizio del conflitto. Mussolini dichiara la «non belligeranza», grazie alla quale lo Stato italiano si manterrà momentaneamente fuori dalla guerra. Il 10 marzo 1940 Mussolini accoglie a Roma il ministro degli esteri tedesco Joachim von Ribbentrop e il successivo 18 marzo incontra Hitler al Brennero, ricevendo da entrambi forti pressioni ad entrare in guerra al fianco della Germania. Il 16, il 22, il 24 e il 26 aprile riceve messaggi da Winston Churchill, da Paul Reynaud, da Pio XII e da Roosevelt, i quali gli chiedono di rimanere neutrale. Addirittura Churchill, rimasto grande ammiratore di Mussolini, gli garantisce che, in caso avesse mantenuto l'Italia neutrale, la Gran Bretagna avrebbe sostenuto al termine del conflitto tutte le aspirazioni territoriali italiane, come la Tunisia e Nizza. Di fronte agli straordinari e inaspettati successi della Germania nazista tra l'aprile e il maggio del 1940, Mussolini ritiene che gli esiti della guerra siano oramai decisi, e, sia per poter ottenere eventuali compensi territoriali, sia per timore di un'eventuale invasione nazista dell'Italia se quest'ultima non si fosse schierata apertamente al fianco della Germania (come ebbe poi a spiegare lo stesso Mussolini), il 10 giugno dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. Alla contrarietà e alle rimostranze di alcuni importanti collaboratori e militari (fra cui Pietro Badoglio, Dino Grandi, Galeazzo Ciano e il generale Enrico Caviglia) Mussolini avrebbe risposto: « Mi serve qualche migliaio di morti per sedermi al tavolo delle trattative.» Sul fronte con la Francia, le truppe italiane assunsero inizialmente un atteggiamento difensivo, sia per la mancanza di un'adeguata artiglieria e contraerea (non vi era stato il tempo di mobilitare tutti i reparti necessari all'avanzata), sia per la riluttanza ad attaccare i cugini d'oltralpe. Conseguentemente, i primi a prendere l'iniziativa furono gli avversari: aerei britannici, decollati da aeroporti francesi, bombardano Torino nella notte tra l'11 e il 12 giugno. Come ritorsione, aerei italiani bombardano le basi militari francese di Hyères e Tolone. Il 14 la zona industriale di Genova venne bombardata e, di conseguenza, l'esercito italiano ricevette l'ordine di passare decisamente alla contro-offensiva, programmata per il 18. Gli Italiani attaccano quindi Biserta, Bastia e Calvi. Copertina di un numero del 13 maggio 1940 di Newsweek (3 settimane prima dell'entrata in guerra dell'Italia), che ritrae Mussolini con il titolo: "Il Duce: uomo-chiave del Mediterraneo". Il 22 giugno la Francia firma l'armistizio con la Germania. Il 18, dopo che in territorio alpino si erano avuti solo marginali scontri tra truppe anglo-francesi e italiane, Mussolini partecipa ad un vertice a Monaco di Baviera con Hitler per discutere dell'inaspettata e improvvisa resa: le condizioni di pace richieste dal duce (ossia l'occupazione e amministrazione di Corsica,Tunisia, Somalia francese e del territorio francese sino al Rodano, la concessione di basi militari a Orano, Algeri e Casablanca, la consegna della flotta e dell'armata aerea e la denuncia dell'alleanza col Regno Unito) vengono solo parzialmente accolte, in quanto furono riconosciute all'Italia solo le richieste di occupazione. Il 24 giugno la Francia firma l'armistizio con l'Italia, riconoscendole, oltre alla richieste di occupazione, anche la cessione di una porzione di territorio francese di confine e la smilitarizzazione di una fascia larga 50 miglia lungo il confine franco-italiano e libico-tunisino. Di fronte alla notizia di un imminente sbarco in Inghilterra dei tedeschi (Operazione Leone Marino), Italo Balbo, governatore della Libia, riceve l'ordine di avanzare verso l'Egitto, protettorato inglese (25 giugno). Ma il 28, mentre sorvola Tobruch bombardata dagli inglesi, venne abbattuto dalle batterie antiaeree italiane, che lo avevano scambiato per un nemico. Le iniziali parziali vittorie si rivelano tuttavia effimere, poiché la guerra si prolunga oltre il previsto, rivelando l'impreparazione, la disorganizzazione e le deficienze dell'esercito italiano. In Africa, nel dicembre 1940 gli inglesi danno vita ad una vigorosa contro-offensiva che porterà, tra l'altro, alla conquista dell'Africa Orientale Italiana entro il giugno 1941. Le ultime truppe italiane si arrenderanno a Gondar il 21 novembre. La superiorità numerica e tecnologica degli inglesi e la progressiva perdita d'iniziativa della marina italiana non possono che condurre alla disfatta. In seguito, gli scontri tra le due marine nemiche si limiteranno, da parte italiana, alla guerra sottomarina, alla protezione delle rotte di rifornimento tra la Sicilia e la Libia, a sporadici tentativi di intercettazione di convogli inglesi sulla rotta Gibilterra-Alessandria d'Egitto e ad operazioni temerarie compiute da mezzi d'assalto (quali i MAS, i «barchini» - piccole barche dotate di siluri e mitragliatrice che causarono l'affondamento di molte navi inglesi- e i «maiali» ossia piccoli sommergibili). Il 27 settembre 1940 Italia, Germania e Giappone si uniscono nel Patto Tripartito, cui aderiranno anche nell'ordine, nel corso della guerra, Ungheria (20 novembre 1940), Romania (23 novembre), Slovacchia (24 novembre), Bulgaria (1º marzo 1941) e Jugoslavia (27 marzo). Il 4 ottobre 1940 Mussolini incontra Hitler al Brennero per stabilire di comune accordo una strategia militare; tuttavia, il 12 ottobre i tedeschi prendono controllo della Romania, sita nella zona di influenza italiana e ricca di giacimenti petroliferi, senza avvisare gli Italiani. Conseguentemente, Mussolini decide di imbarcarsi in una «guerra parallela» a fianco dell'alleato tedesco, al fine di non dipendere troppo dall'iniziativa militare e politica di Hitler; sempre convinto che la Gran Bretagna sarebbe scesa presto a patti col führer e che il principale fronte di guerra sarebbe così stato chiuso. Il 19 ottobre il duce gli invia una lettera in cui comunica la sua intenzione di attaccare la Grecia. Hitler si reca a Firenze il 28 ottobre, per dissuadere Mussolini dall'impresa, ma questi lo avvertirà, assumendo un atteggiamento simile a quello avuto dall'alleato con l'aggressione alla Romania, che l'attacco era già iniziato da alcune ore. L'attacco alla Grecia si conclude in un disastro: la stagione invernale e il territorio montuoso ostacolano ogni tentativo d'avanzata, anche a causa dell'equipaggiamento del tutto inadeguato in dotazione alle truppe italiane. L'esercito greco, rafforzato dall'arrivo di oltre 70.000 militari inglesi, si rivela inoltre più agguerrito e organizzato del previsto; anche l'appoggio di numerose squadriglie aeree e navali britanniche risulta determinante. Gli Italiani sono costretti a ripiegare in territorio albanese, dove solo nel dicembre 1940 riescono a bloccare la contro-offensiva degli avversari, trasformando così il conflitto in una guerra di posizione. Il 19 e il 20 gennaio 1941, a Berchtesgaden, Mussolini incontra Hitler, il quale gli promette l'invio di contingenti tedeschi in Grecia e in Africa del Nord a sostegno delle truppe italiane lì presenti, che d'ora in poi dipenderanno sempre più dall'aiuto del potente alleato. L'incontro rappresenta il definitivo abbandono da parte italiana della strategia della «guerra parallela» (rivelatasi insostenibile e fallimentare), e si traduce in una conduzione del conflitto sempre più conforme alle direttive e agli interessi nazionalsocialisti, ovvero in una sorta di «guerra tedesca». Il 9 febbraio la marina britannica bombarda Genova. L'11 febbraio il duce incontra Francisco Franco a Bordighera per convincerlo ad entrare in guerra a fianco delle forze dell'Asse, ma fallisce nel suo intento. A partire dal 12 febbraio giungono in Libia gli aiuti militari promessi dal Führer: i Deutsche Afrikakorps, composti principalmente di mezzi corazzati ("panzer") e da rinforzi aerei, sotto il comando di Erwin Rommel. Rivestendo de facto il ruolo di comandante supremo delle truppe italiane nella regione (seppur ufficialmente fosse un sottoposto del comandante superiore delle Forze Armate in Africa generale Italo Gariboldi), la «volpe del deserto» riesce rapidamente a riorganizzarle e a guidare un'efficace offensiva (cominciata il 24 marzo) contro le armate britanniche del generale maggiore Richard O'Connor, che nel frattempo avevano conquistato la Cirenaica (Operazione Compass). Entro maggio le truppe dell'Asse riacquisiscono il controllo della Libia (eccettuata Tobruch, che resiste al lungo assedio – cominciato il 10 aprile – grazie alla presenza di una forza di occupazione inglese), respingono un tentativo di contro-offensiva (l'Operazione Brevity) e conquistano una porzione di territorio egiziano di confine. In conseguenza delle sconfitte subite, il comando delle truppe del Regno Unito verrà affidato al generale Claude Auchinleck; questi comanderà, nel novembre e nel dicembre, una grande offensiva (l'Operazione Battleaxe) con lo scopo di alleviare l'assedio di Tobruch, ma fallirà nel suo intento. Il 27 marzo in Jugoslavia, che solo due giorni prima aveva aderito al Patto Tripartito, gli inglesi organizzano con successo il colpo di Stato del generale nazionalista serbo Dušan Simović (il reggente Paolo viene esiliato e il Ministro degli Esteri e il Primo Ministro vengono destituiti). Il nuovo governo jugoslavo firma un trattato di amicizia con l'Unione Sovietica (5 aprile). Di fronte al rischio portato dall'eccessivo rafforzamento della presenza inglese nei Balcani e da un'eventuale alleanza in funzione anti-Asse della Jugoslavia con l'Unione Sovietica, la Germania, l'Ungheria e la Bulgaria attaccano la Jugoslavia. Nel medesimo giorno anche l'Italia le dichiara guerra. L'avanzata italiana si rivela un successo in area slovena e in Dalmazia e la Jugoslavia capitola rapidamente (17 aprile). Pietro II fugge a Londra. L'Italia ottiene la maggior parte della costa dalmata e la provincia di Lubiana, mentre il Kosovo viene annesso all'Albania italiana. Nel frattempo, le truppe italiane, dopo mesi di stallo, riprendono ad avanzare in Albania (13 aprile), che viene totalmente riconquistata in pochi giorni, e in Epiro. Sempre nel mese di aprile, le armate italiane e tedesche sferrano congiuntamente un nuovo attacco alla Grecia, che ben presto firma la resa con la Germania (21 aprile). Mussolini, che si sente umiliato a causa dell'esclusione dell'Italia dal trattato di pace, pretende di essere rispettato. Per ordine di Hitler, la cerimonia della firma viene quindi ripetuta due giorni dopo anche in presenza di autorità italiane (23 aprile). Il 3 maggio, truppe italo-tedesche sfilano ad Atene e il 1º giugno cadeCreta, ultimo avamposto nemico rimasto nella regione. Nonostante la conquista dei Balcani fosse dovuta esclusivamente all'intervento delle forze germaniche, Mussolini ottenne il diritto di occupare le isole Ionie e la maggior parte della Grecia, che non rientravano nella zona d'influenza tedesca. Il 2 giugno del 1941 Mussolini incontra nuovamente Hitler, che il 22 ordina l'attacco all'Unione Sovietica (operazione Barbarossa). In luglio viene inviato in Russia il CSIR (composto di 58.800 soldati al comando del generale di corpo d'armata Giovanni Messe), come sostegno dell'alleato tedesco. Il 25 agosto, nel Quartier generale tedesco a Rastenburg, nella Prussia orientale, il Duce passa in rassegna le truppe accanto a Hitler. Il 7 dicembre la flotta giapponese attacca Pearl Harbor, base militare statunitense, determinando l'entrata in guerra degli Stati Uniti. Il 12 dicembre l'Italia dichiara guerra agli Stati Uniti, seguendo l'iniziativa dell'alleato tedesco che aveva assunto lo stesso provvedimento il giorno precedente. Il 18 dicembre un'incursione italiana nel porto di Alessandria d'Egitto causa ingenti danni alla marina britannica. A partire dal 15 febbraio 1942 giungono in Russia numerosi rinforzi italiani a sostegno dell'avanzata tedesca: entro 5 mesi vengono inviati oltre 160.000 soldati. Il 9 luglio il CSIR viene affidato alla guida del generale Italo Gariboldi (che sostituisce il precedente comandante, il generale Giovanni Messe) e muta il proprio nome inARMIR ("ARMata Italiana in Russia"), che arriverà a contare più di 200.000 uomini. L'esercito italiano si distingue per coraggio sul fronte sovietico, in particolar modo a Stalino, tuttavia appare in tutta la sua evidenza l'inadeguatezza e l'arretratezza dell'equipaggiamento in dotazione alle truppe. La battaglia di Stalingrado si rivela decisiva per il destino della campagna di Russia e, più in generale, per le sorti della guerra: il 2 febbraio 1943 le forze tedesche accerchiate nella città sulVolga si arrendono. Il corpo di spedizione italiano viene sconfitto a partire dal 16 dicembre 1942 nella seconda battaglia difensiva del Don; costretto ad una sfibrante ritirata nella neve subisce perdite ingenti di uomini e materiali costringendo i comandi italo-tedeschi a ordinarne il ritiro dal fronte. I superstiti faranno rientro in patria tra l'aprile e il maggio 1943: oltre 60.000 saranno i soldati ufficialmente dispersi, in gran parte prigionieri che moriranno negli anni seguenti nei campi di detenzione sovietici. Il 29 aprile 1942 Mussolini incontra Hitler a Salisburgo: durante questo colloquio i due capi di governo si accordano per scatenare a breve una grande offensiva in Africa settentrionale. Tra il 26 maggio e il 21 giugno le truppe dell'Asse si rendono protagoniste di una vittoriosa avanzata in Libia (battaglia di Ain el-Gazala), che porta, tra l'altro, alla caduta di Tobruch (20 giugno), assediata da oltre un anno. Le armate di Erwin Rommel si trovano a soli 100 chilometri circa da Alessandria d'Egitto, che, secondo le previsioni dei plenipotenziari italiani e tedeschi, avrebbe dovuto esser raggiunta in poco tempo. Il 29 giugno Mussolini parte per la Libia, dove si trattiene sino al 20 luglio. Tra l'1 e il 29 luglio si combatte la Prima battaglia di El Alamein: le truppe italo-tedesche tentano invano di sfondare le linee difensive inglesi. Fra il 31 agosto e il 5 settembre fallisce, nella battaglia di Alam Halfa, l'ultimo tentativo di sfondamento delle armate del Patto Tripartito. Nellaseconda battaglia di El Alamein (combattuta tra il 23 ottobre e il 3 novembre) le truppe del Commonwealth del generale Bernard Law Montgomery (che in agosto aveva sostituito al comando il generale Claude Auchinleck) sconfiggono gli avversari, costringendoli a un disastroso ripiegamento. L'avanzata inglese si rivela incontenibile: l'8 novembre 1942 con l'operazione Torch le truppe anglo-americane sbarcano in Marocco e in Algeria (amministrate fino ad allora dalla Francia di Vichy, stato teoricamente neutrale), la Libia viene rapidamente perduta (il 23 gennaio 1943 cade Tripoli), e tra il 19 e il 25 febbraio 1943 le forze italo-tedesche vengono nuovamente sconfitte nella battaglia del passo di Kasserine, combattuta in Tunisia (che l'Asse aveva fatto occupare in gennaio). Il 13 maggio le ultime truppe dell'Asse, al comando del generale Messe, si arrendono. Mussolini stesso dà l'ordine a Messe di accettare la resa, e contestualmente nomina Messe maresciallo. Nel novembre e nel dicembre 1942, Mussolini, abbattuto e depresso, si lascia sostituire da Ciano in due colloqui con Hitler. Il 2 dicembre, dopo 18 mesi di silenzio e conscio dei recenti rivolgimenti, torna a parlare al popolo italiano da Palazzo Venezia. Dal 7 al 10 aprile 1943 Mussolini incontra Hitler a Klessheim (nei dintorni di Salisburgo). Sempre più pessimista sull'esito della guerra, gli propone di giungere ad un armistizio coi sovietici, al fine di concentrare gli sforzi sugli altri fronti di guerra. Il Führer rimane irremovibile sulle sue posizioni. Hitler ha capito che Mussolini vuole tirare fuori l'Italia dal conflitto, ma se acconsentisse creerebbe un precedente cui si appellerebbero tutte le nazioni dell'Asse. Intanto in Italia si diffondono pressioni sul re affinché licenzi Mussolini e si rivolga agli anglo-americani, anche attraverso la mediazione della Santa Sede. Tali richieste provengono soprattutto da ambienti militari, per i quali la guerra è ormai perduta. Sta maturando anche nelle alte sfere del regime il convincimento che se il re allontanasse Mussolini dal governo, al popolo italiano sarebbe risparmiata una catastrofe maggiore. Berlino viene messa a conoscenza di questi tentativi di fronda dagli informatori dislocati sulla penisola. La notte tra il 9 luglio e il 10 luglio gli anglo-americani sbarcano in Sicilia, avanzando nell'isola. Gli eserciti alleati sviluppano una doppia azione: cominciano a risalire il Paese dal sud e lo bombardano al nord. Il 13 luglio un gruppo di gerarchi guidato da Roberto Farinacci si riunisce per decidere il da farsi. In una seconda riunione il 16 luglio, essi chiedono la convocazione del Gran Consiglio del Fascismo, non più riunitosi dal 1939. L'Italia è stata da poco invasa dalle truppe alleate e Mussolini decide di scrivere a Hitler per manifestare all'alleato l'impossibilità per l'Italia di continuare il conflitto. Ma il Führer lo prende in contropiede annunciandogli la sua venuta in Italia per incontrarlo di persona. Il vertice è previsto dal 19 luglio al 21 luglio 1943 nei pressi di Feltre (BL), nella villa del senatore Achille Gaggia. L'intenzione di Mussolini è dire a Hitler che l'Italia è «costretta a cercare una via d'uscita dall'alleanza e dalla guerra». Tuttavia, di fronte al Führer, che mette chiaramente le carte in tavola e lo inchioda alle sue responsabilità, rimane in silenzio. Il vertice, che doveva durare tre giorni, si risolve in tre ore e mezzo. Mussolini spiega così il suo stato d'animo dopo il fallimento del vertice di Villa Gaggia, replicando alle voci che lo sollecitavano a portare l'Italia fuori dal conflitto: «Credete forse che questo problema io non lo senta agitarsi da tempo nel mio spirito travagliato? Ammetto l'ipotesi di sganciarsi dalla Germania: la cosa è semplice, si lancia un [messaggio via] radio al nemico. Quali saranno le conseguenze? Eppoi, si fa presto a dire sganciarsi dalla Germania. Credete forse che Hitler ci lascerebbe libertà d'azione?» Di ritorno dall'incontro con Hitler, è sconvolto dal bombardamento su Roma, avvenuto proprio durante l'incontro e di cui è stato informato immediatamente assieme ad Hitler. La capitale è stata attaccata da una flotta di circa 200 aeroplani, che ha colpito soprattutto la zona di San Lorenzo. Il 21 luglio Mussolini concede la convocazione del Gran Consiglio per sabato 24, e ordina di non divulgare la notizia agli organi di stampa. Il 22 (giovedì) si reca in mattinata dal Re per il consueto colloquio, durante il quale gli riferisce dell'incontro con Hitler e della convocazione del G.C. Si esaminano i pro e i contro di un eventuale mutamento di alleanze. Viene paventata l'ipotesi che la Germania voglia annettersi i territori conquistati dall'Italia in seguito alla prima guerra mondiale(Alto Adige, Istria, Fiume e Dalmazia). I due convergono sulla decisione di trarre l'Italia fuori dal conflitto, lasciando l'Asse alla sua sorte, ma il presupposto indispensabile è che il Duce lasci il potere. Il Re ricorda infatti a Mussolini che dopo la conferenza di Casablanca la sua presenza al governo è considerata un ostacolo a qualsiasi trattativa con gli anglo-americani. Nel primo pomeriggio dello stesso giorno riceve e prende in esame l'ordine del giorno (corredato dalle firme dei gerarchi che lo sostengono) cheDino Grandi intende presentare alla seduta del Gran Consiglio. Lo definisce "inammissibile e vile". Poi riceve in udienza Grandi in persona. I due discutono gli ultimi avvenimenti politici, poi l'ordine del giorno. Grandi esorta Mussolini a rassegnare volontariamente le dimissioni. Il Duce lo ascolta senza lasciar trasparire nessuna emozione. Nel pomeriggio di sabato 24 luglio, in segreto, si apre una lunga seduta del Gran Consiglio che si concluderà alle prime ore del giorno successivo (25 luglio), con l'approvazione dell'ordine del giorno presentato da Dino Grandi. Viene di fatto approvata l'esautorazione di Mussolini dai suoi incarichi di governo. La votazione, seppur significativa (in quanto votata dai massimi rappresentanti del Partito), non aveva de iure alcun valore, poiché per legge il Capo del Governo era responsabile del proprio operato solo dinanzi al Sovrano, il quale era l'unico a poterlo destituire. La mattina di domenica 25 luglio, dopo essersi recato regolarmente nel suo studio di Palazzo Venezia per occuparsi degli affari correnti, Mussolini chiede al sovrano di poter anticipare l'abituale colloquio del lunedì, e accetta di presentarsi da questi, giungendo insieme al suo segretario Nicola De Cesare alle ore 17 a Villa Savoia (oggi Villa Ada). Vittorio Emanuele III comunica a Mussolini la sua sostituzione con Pietro Badoglio, garantendogli l'incolumità. Mussolini non era però al corrente delle reali intenzioni del monarca, che aveva posto sotto scorta il Capo del Governo e aveva fatto circondare l'edificio da duecento carabinieri. Il tenente colonnello Giovanni Frignani, che coordinava l'operazione, espone telefonicamente ai capitani Paolo Vigneri e Raffaele Aversa gli ordini del re. I carabinieri fanno salire Mussolini e De Cesare in un'autoambulanza della Croce Rossa Italiana, senza specificargli la destinazione ma rassicurandolo sulla necessità di tutelare la sua incolumità (pomeriggio del 25 luglio). In realtà, Vittorio Emanuele III aveva ordinato di arrestare Mussolini. Secondo alcuni autori il re fu spinto a questa decisione anche al fine di salvare il destino della propria dinastia, che rischiava di essere considerata definitivamente compromessa col fascismo. L'armistizio fra l'Italia e gli Alleati firmato il 3 settembre e reso noto la sera dell'8 senza delle precise istruzioni per le truppe italiane, lascia nella confusione più totale un Paese già allo sbando. L'Italia si spacca, in quella che è stata poi definita una guerra civile, tra coloro che si schierano con gli Alleati (che controllano parte del Meridione e la Sicilia), e coloro che invece accettano di proseguire il conflitto a fianco dei tedeschi (che hanno intanto occupato gran parte della penisola, incontrando una debole resistenza da parte delle truppe italiane dislocate alle frontiere e nei pressi di Roma e di altre località). Frattanto il re, con parte della famiglia, Badoglio e i suoi principali collaboratori, fugge in Puglia, ponendosi sotto la protezione degli ex nemici: lì costituisce un governo sotto supervisione alleata, che dichiarerà guerra alla Germania il 13 ottobre. Mussolini, subito dopo il suo arresto, è dapprima trattenuto in una caserma dei carabinieri a Roma. Su sua richiesta, Badoglio pensa di trasferirlo alla Rocca delle Caminate, ma il prefetto di Forlì, Marcello Bofondi, fascista della prima ora, sentito telegraficamente, si oppone recisamente, sostenendo, in un tal caso, di non poter garantire l'ordine pubblico. Così Mussolini viene invece trasportato nell'isola di Ponza (dal 27 luglio), ma i tedeschi sono sulle sue tracce. Per depistarli, viene portato sull'isola della Maddalena (7 agosto-27 agosto 1943) e infine a Campo Imperatore sul Gran Sasso, in un luogo ritenuto inattaccabile dall'esterno. Mussolini, che si sente ormai finito, tenta di uccidersi tagliandosi le vene, ma si procura solo ferite superficiali e viene medicato. Il 12 settembre venne liberato da un commando di paracadutisti tedeschi (Fallschirmjäger-Lehrbataillon) guidati dal capitano delle SS Otto Skorzeny a capo dell'Operazione Quercia. Mussolini venne tradotto in Germania, dove il 14 settembre incontra Hitler a Rastenburg. Questi lo invita a formare unarepubblica protetta dai tedeschi. Il 18 settembre, da Monaco Mussolini pronuncia alla radio il suo primo discorso dopo l'arresto del 25 luglio: « ... Dopo un lungo silenzio ecco che nuovamente vi giunge la mia voce e sono sicuro che voi la riconoscete...» Dopo aver fatto un'ampia esposizione su ciò che stava avvenendo in Italia, addossa la responsabilità della sua destituzione al Re, ai generali e ai gerarchi fascisti, che accusò di alto tradimento. Alla fine del discorso annuncia la ricostituzione dello Stato, delle sue Forze armate e del partito fascista, con la nuova denominazione di Partito Fascista Repubblicano ("PFR"). Mussolini ritorna in Italia il 23 settembre e costituisce un nuovo governo, che si riunisce per la prima volta il 27 settembre alla Rocca delle Caminate (residenza di Mussolini a Predappio, dal 1927). Di fatto la neonata Repubblica Sociale Italiana (RSI) è uno Stato controllato soprattutto dai tedeschi e a Mussolini viene concessa poca libertà di azione. Solo sull'ambito economico e sull'organizzazione militare dei soldati italiani aderenti alla RSI, Mussolini e i suoi gerarchi hanno una certa autonomia. Hitler intanto aveva posto sotto il diretto controllo del Reich l'intera area nord-orientale dello stato italiano (ovvero le province di Trento, Bolzano, Belluno, Udine, Gorizia, Trieste, Fiume, Lubiana e Zara) nonché i territori precedentemente italiani o sotto il controllo italiano al di fuori della penisola (le truppe tedesche nei giorni immediatamente successivi all'armistizio di Cassibile occuparono l'Albania, che essendo unita all'Italia tramite la corona dei Savoia fu dichiarata "indipendente" e gli ustascia si annessero d'arbitrio alla Dalmazia, esclusa Zara). Tra il 23 e il 27 settembre 1943 Mussolini si insedia a Gargnano, sul lago di Garda (tuttavia la maggior parte degli uffici governativi è distribuita in località limitrofe, fino a Brescia). L'agenzia di stampa ufficiale si installa a Salò, da cui il nome non ufficiale di "Repubblica di Salò", a causa dell'intestazione dei comunicati radiostampa. Il 14 novembre si tiene a Verona la prima assemblea nazionale del Partito Fascista Repubblicano, durante la quale viene redatto il Manifesto di Verona, ovvero il programma di governo del PFR. Mussolini (che ricopre la carica di "duce, capo del governo" della repubblica de facto, essendo tale carica prevista nel manifesto ma non essendo stata da lui assunta in forza di elezioni) annuncia che verrà rimandata al termine del conflitto la convocazione di un'assemblea costituzionale per la redazione della costituzione della RSI, della quale si era prefigurata la convocazione il 13 ottobre. L'8 dicembre viene costituita con decreto la Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), posta al comando di Renato Ricci. In essa confluiscono parte degli effettivi dei Reali Carabinieri (corpo che viene disciolto), della Polizia dell'Africa Italiana e della MSVN (mai ufficialmente disciolta sino a tale data). Inoltre alcune migliaia di reclute italiane sono inviate in Germania per essere addestrate e formare quattro divisioni (Divisione Alpina Monterosa, San Marco, Littorio e Italia). Tra l'8 e il 10 gennaio 1944 si tiene il processo di Verona, nel quale vengono giudicati i gerarchi "traditori" che si erano schierati contro Mussolini il 25 luglio 1943: tra questi, viene condannato a morte il genero del duce, Galeazzo Ciano. Non è noto se Mussolini non avesse voluto salvare la vita al marito di sua figlia (nonché dei suoi ex collaboratori) oppure se non avesse effettivamente potuto influire sui verdetti del tribunale giudicante, data la pesante ingerenza tedesca. È invece quasi certo che le istanze di grazia presentate dai condannati non furono inoltrate direttamente a Mussolini per volontà di Alessandro Pavolini, il quale da un lato voleva impedire un eventuale "cedimento sentimentale" del duce e il conseguente placet alla grazia, e dall'altro intendeva risparmiare al duce l'angoscia della scelta, per lui "obbligata". Il 21 aprile il duce si incontra con Hitler a Klessheim, e il 15 luglio si reca in Germania per ispezionare le quattro divisioni italiane che gli ufficiali tedeschi stanno addestrando. Il 20, giorno dell'attentato di von Stauffenberg rivede Hitler per l'ultima volta. Il 16 dicembre, al Teatro Lirico di Milano, pronuncia il suo primo e ultimo discorso pubblico dalla costituzione della RSI. Parla delle "armi segrete" tedesche, di cui Hitler gli avrebbe dato prova, e della possibilità di mantenere "la valle del Po" con le unghie e coi denti. Inoltre afferma la volontà della RSI di procedere alla socializzazione dell'Italia. Nell'aprile 1945, sempre più isolato e impotente, dopo che il fronte della Linea Gotica ha ceduto e le forze tedesche in Italia sono ormai in rotta, Mussolini si trasferisce a Milano. Il 25 aprile, ottiene un incontro con il cardinale Ildefonso Schuster, che sta tentando di mediare con il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) la resa delle forze fasciste, nella speranza di evitare ulteriori spargimenti di sangue. Tuttavia l'indecisione di Mussolini e l'intransigenza delle parti rendono impossibile qualsiasi accordo. I comandi delle SS tedesche (generale Wolff), poco prima dell'arrivo del duce, fanno sapere al cardinale di non aver più bisogno di lui, avendo essi nel frattempo stretto un patto separato con gli Alleati (all'oscuro di Hitler, ovviamente) e con uomini vicini al CLN. Appresa da Schuster la notizia, Mussolini si sente tradito e definitivamente abbandonato anche dai tedeschi, interrompe la discussione e lascia precipitosamente l'arcivescovado. Nonostante il parere contrario di parte del suo seguito, Mussolini decide quindi di lasciare Milano. I motivi della decisione non sono del tutto chiari (nei giorni precedenti si era parlato di un'ultima resistenza in un possibile "ridotto della Valtellina").Vi è chi ritiene che fosse stato concordato un incontro segreto con emissari alleati provenienti dalla Svizzera, ai quali Mussolini si sarebbe dovuto consegnare portando con sé importanti documenti.[senza fonte] Alcuni sostengono che se l'intento fosse stato solo quello della fuga, Mussolini avrebbe potuto utilizzare il trimotore SM79 pronto all'aeroporto di Bresso, con il quale alcuni personaggi minori della RSI e parte della famiglia Petacci ripararono in Spagna il 26 aprile. Si è anche supposto che Mussolini, nell'improbabilità di uscirne indenne, volesse a tutti i costi evitare di cadere nelle mani degli Alleati, pur nella consapevolezza che se fosse finito in mano ai partigiani sarebbe stato certamente giustiziato. Nel tardo pomeriggio del 25 aprile, la colonna di Mussolini parte dalla Prefettura alla volta di Como, per poi proseguire quasi subito verso Menaggio, lungo la sponda occidentale del lago (anziché verso la più sicura sponda orientale, come proposto dal capo del Partito Fascista Repubblicano Alessandro Pavolini). Mussolini trascorre l'ultima notte da uomo libero pernottando in un albergo del piccolo comune di Grandola, a pochi chilometri dal confine svizzero. Il giorno dopo Mussolini, insieme a pochi fedeli e a Claretta Petacci, che lo aveva frattanto raggiunto, ridiscende verso il lago. Sulla statale Regina si unisce ad una colonna della contraerea tedesca in ritirata e alla colonna di Pavolini, che arrivato a Como in mattinata aveva subito proseguito lungo il lago. La colonna viene fermata a Musso alle ore 6:30 dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici" al comando di Pier Luigi Bellini delle Stelle "Pedro". Dopo lunghe trattative, si giunge all'accordo che i tedeschi possono proseguire dopo una perquisizione, mentre gli italiani devono essere consegnati. Mussolini viene convinto dal tenente SS Birzer, incaricato di custodirlo dal suo comando poco prima della partenza da Gargnano, a nascondersi su un camion tedesco indossando un cappotto da sottufficiale e un elmetto. Dopo pochi chilometri la colonna viene fermata a Dongo e, durante l'ispezione, Mussolini viene riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri "Biondino" e subito arrestato dal vice commissario Urbano Lazzaro "Bill". Nel municipio di Dongo viene interrogato e in serata, per sicurezza, viene trasferito a Germasino, nella caserma della Guardia di Finanza. Durante la notte viene ricongiunto con Claretta Petacci e insieme si pensa di trasferirli a Brunate per poi condurli in un secondo tempo a Milano, ma durante il percorso numerosi posti di blocco convincono gli accompagnatori Luigi Canali "Neri", Michele Moretti "Pietro" e Giuseppina Tuissi "Gianna" a desistere e a trovare una diversa destinazione. Per questo vengono portati a Bonzanigo e ospitati presso amici. «Qui Radio Milano liberata!» (Comunicato di Radio Milano, che in seguito annuncerà la cattura e la successiva esecuzione di Benito Mussolini, Claretta Petacci e altri gerarchi fascisti.). Pochi giorni prima era stato emesso un comunicato del CLN nel quale si esprimeva la necessità di una rinascita sociale e politica dell'Italia, attuabile solo attraverso l'uccisione di Mussolini e la distruzione di ogni simbolo del partito fascista. Il documento era a firma di tutti i componenti del CLN (Partito comunista, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, Democrazia del Lavoro, il Partito d'Azione, la Democrazia Cristiana, il Partito Liberale Italiano). La decisione di dar corso pratico al comunicato fu presa da coloro che detenevano Mussolini nell'arco di poche ore, in un contesto in cui era molto difficile mettersi in contatto con Roma e far riunire il Comitato di Liberazione Nazionale. I partigiani che lo avevano catturato informarono (usando il telefono di una centrale idroelettrica) il comando di Milano, che mandò subito un reparto di partigiani appena arrivati dall'Oltrepò Pavese e alcuni emissari politici (Aldo Lampredi, Pietro Vergani e Walter Audisio). Secondo Raffaele Cadorna, nell'impossibilità di contattare il CLN venne presa la decisione che facesse il miglior interesse dell'Italia. Cadorna sosteneva che se Mussolini fosse stato consegnato agli Alleati ne sarebbe scaturito un processo a un intero ventennio di politica italiana, nel quale sarebbe stato difficile separare le responsabilità di un popolo da quelle del suo condottiero. Nel conseguente discredito, l'eventuale sopravvivenza di Mussolini non avrebbe avuto nessuna utilità. La mattina del 28 aprile Leo Valiani portò a Cadorna un ordine di esecuzione a firma del CLNAI, riferendogli che si trattava della decisione raggiunta da Valiani medesimo insieme con Luigi Longo, Emilio Sereni e Sandro Pertini la sera precedente: uccidere Mussolini senza processo, data l'urgenza. L'esecuzione avvenne il 28 aprile 1945. Mussolini fu fucilato assieme a Claretta Petacci a Giulino di Mezzegra in via XXIV Maggio, in corrispondenza del muretto del cancello di Villa Belmonte, a 21 km da Dongo. I tempi e i modi dell'esecuzione furono dettati anche dalla volontà di evitare interferenze da parte degli alleati, che avrebbero preferito catturare Mussolini e processarlo davanti ad una corte internazionale. Nel frattempo a Dongo, un altro gruppo del reparto di partigiani delle Brigate Garibaldi sopraggiunti dall'Oltrepò Pavese fucilava i gerarchi del seguito di Mussolini, tra i quali il filologo Goffredo Coppola (allora rettore dell'Università di Bologna),Alessandro Pavolini (segretario del PFR), Nicola Bombacci (che era stato uno dei fondatori del Partito Comunista d'Italia e aveva successivamente aderito alla RSI), il Ministro dell'economia Paolo Zerbino, il Ministro della cultura popolare Ferdinando Mezzasoma e Marcello Petacci (fratello di Claretta) che si era unito alla colonna a Como nel tentativo di dissuadere la sorella dal seguire Mussolini. I corpi di Mussolini e degli altri giustiziati furono poi trasportati a Milano, dove arrivarono in serata. In via Fabio Filzi quando da poco erano superate le 22 Walter Audisio e i suoi uomini vennero fermati a un posto di blocco da sappisti della Pirelli Brusada appartenenti alla 110ª Brigata Garibaldi che volevano ispezionare l'autofurgone in cui erano contenuti i corpi. Al rifiuto di Walter Audisio seguirono lunghi momenti di tensione, risolti solo con l'intervento del Comando generale. I corpi arrivarono così in piazzale Loreto verso le 3 della notte. Vennero scaricati nello stesso luogo in cui il 10 agosto 1944 erano stati fucilati e lasciati esposti al pubblico quindici partigiani (come rappresaglia per un attentato non rivendicato). Sappisti della 110ª Brigata Garibaldi montarono la guardia fino alle 7 del mattino. La gente accorsa ben presto in piazza prese ad insultare i cadaveri, infierendo su di loro con sputi, calci, spari e altri oltraggi, accanendosi in particolare sul corpo di Mussolini. Il servizio d'ordine, composto di pochi partigiani e vigili del fuoco, decise quindi di appendere i corpi a testa in giù alla pensilina di un distributore di benzina. Ai cadaveri si aggiunse poco dopo quello di Achille Starace (già segretario del PNF ma caduto in disgrazia e privo di cariche nella RSI) fermato per le strade di Milano mentre faceva jogging e fucilato alla schiena dopo un processo sommario. Passate alcune ore, su pressione delle autorità militari alleate preoccupate per la tutela dell'ordine pubblico, i corpi furono trasportati all'obitorio. Il cadavere di Mussolini fu sottoposto ad un'approfondita ricognizione; quello della Petacci fu solo composto in una bara. L'uccisione di Mussolini e della Petacci, e la decisione di esporre i corpi al pubblico ludibrio, ricevettero successivamente numerose critiche anche da parte di esponenti della Resistenza antifascista. Lo stesso Ferruccio Parri, capo del CLN, definì la vicenda "uno spettacolo da macelleria messicana" e Pertini dichiarò: «A Piazzale Loreto l'insurrezione si è disonorata». Ancora oggi alcuni si interrogano sulla legittimità dell'accaduto e sulle motivazioni che vi condussero. Non è tuttavia possibile esprimere una valutazione univoca e oggettiva, che non tenga conto delle circostanze e del contesto storico. Il solo dato di fatto che si può osservare è che in Italia non fu celebrato un processo giudiziario nei confronti dei gerarchi fascisti paragonabile a quello tenutosi a Norimberga contro il nazismo. Nell'aprile del 1946 la salma di Mussolini fu trafugata dal Cimitero di Musocco da un gruppo di fascisti del Partito Democratico Fascista, capitanati da Domenico Leccisi. Il corpo fu portato a Madesimo e successivamente alla Certosa di Pavia. Dopo la restituzione alla famiglia, nel 1956, la salma fu traslata nella cappella di Predappio. La caduta di Mussolini e il timore del risorgere nell'immediato dopoguerra di tendenze neofasciste determinò l'introduzione del reato di apologia del fascismo. Il pensiero politico. « La libertà senza ordine e disciplina significa dissoluzione e catastrofe.» (Da un discorso pronunciato nell'atrio del municipio di Torino da Mussolini, 24 ottobre 1923). Nel 1932, presumibilmente insieme a Giovanni Gentile (o comunque sotto la sua influenza), Mussolini scrisse la voce fascismo per l'enciclopedia Treccani, in cui precisava la dottrina del suo partito. Il 20 aprile 1945, pochi giorni prima dell'ultimo disperato e vano tentativo di fuga verso la Germania, e tre giorni prima del suo ultimo discorso pubblico tenuto davanti ai fedelissimi raccolti nel cortile della Prefettura di Milano, Mussolini concesse la sua ultima intervista. Interlocutore era il direttore del Popolo di Alessandria, Gian Gaetano Cabella. In realtà, più che di un'intervista si trattò di un monologo del Duce del fascismo, quasi un suo atto testamentario. Di questa intervista dà conto il libro Mussolini. Duce si diventa, pubblicato a firma di Remigio Zizzo. L'esordio, lapidario, di Mussolini fu un Intervista o testamento?. Siamo stati i soli ad opporci ai primi conati espansionistici della Germania; mandai – affermava Mussolini – le divisioni al Brennero; ma nessun gabinetto europeo mi appoggiò. [...] Una caldaia non scoppia se si fa funzionare a tempo una valvola. Ma se invece la si chiude ermeticamente, esplode. Mussolini voleva la pace e questo gli fu impedito, è la conclusione a cui il capo del fascismo, ormai avviato al declino, giunse. Lasciate passare questi anni di bufera. Proseguiva poi Mussolini: Un giovane sorgerà. Un puro. Un capo che dovrà immancabilmente agitare le idee del Fascismo. [...] Non so se Churchill è, come me, tranquillo e sereno. Ricordatevi bene: abbiamo spaventato il mondo dei grandi affaristi e degli speculatori. Essi non hanno voluto che ci fosse data la possibilità di vivere. Se le vicende di questa guerra fossero state favorevoli all'Asse, io avrei proposto al Führer, a vittoria ottenuta, la socializzazione mondiale [...] Mi hanno rinfacciato la forma tirannica di disciplina che imponevo agli Italiani. Come la rimpiangeranno. E dovrà tornare se gli Italiani vorranno essere ancora un popolo e non un agglomerato di schiavi. Mussolini ammise che non vi fu un principio ispiratore preciso che portò alla nascita del movimento, che originò da un bisogno d'azione e fu azione. Proprio per questo motivo, durante tutto il ventennio, il Fascismo si caratterizzò per la coesistenza al suo interno di istanze e correnti di pensiero minoritarie fortemente differenti e apparentemente poco conciliabili tra loro. Emblematico, da questo punto di vista, è il programma di San Sepolcro, col quale il movimento dei Fasci di Combattimento si presentò alle elezioni del 1919. In esso erano espresse proposte fortemente progressiste, molte delle quali furono poi man mano abbandonate dal movimento entro l'ottobre 1922 (tra queste l'originale carattere antimonarchico e anticlericale del fascismo, che avrebbe pregiudicato ogni compromesso con la monarchia italiana e col clero), per essere poi riaffermate, anche se prevalentemente solo a livello propagandistico, dal Partito Fascista Repubblicano. Il fascismo sansepolcrista chiese la concessione del suffragio universale, una riforma elettorale in senso proporzionale, la riduzione dell'età di voto a 18 anni e dell'orario di lavoro a otto ore giornaliere, i salari minimi garantiti, la gestione statale (o meglio da parte di cooperative di lavoratori) dei servizi pubblici, la progressività della tassazione, la nazionalizzazione delle fabbriche d'armi, l'eliminazione della nomina regia del Senato e la convocazione di un'assemblea che permettesse ai cittadini di scegliere se l'Italia dovesse essere una monarchia o una repubblica. Riprendendo quanto accennato sopra, la nota dominante del pensiero mussoliniano fu l'attivismo (questo fu uno dei principali motivi per i quali il fascismo esaltò l'intraprendenza e la vitalità della gioventù - facendo di "Giovinezza" il proprio inno - e l'idea di un uomo agonisticamente attivo e preparato): non conta ciò che si è fatto, ma ciò che vi è ancora da fare. A tal proposito, le principali ambizioni del fascismo furono: la rifondazione dell'Impero romano, attraverso una politica aggressiva di potenza (la guerra è «positiva» perché «imprime un sigillo di nobiltà al popolo che l'affronta»), per mezzo della quale l'Italia avrebbe dovuto assurgere al ruolo di guida e modello per le altre nazioni a livello politico, economico e spirituale. A tale scopo si insistette sulla necessità di un esercito forte e ben strutturato (pur non riuscendo a raggiungere in tal senso un risultato concreto). Emblematica, sotto questo punto di vista, è la volontà mussoliniana, ampiamente propagandata; la creazione di un «italiano nuovo», eroico, dotato di senso di appartenenza alla nazione, in grado con la propria azione di forgiare la storia, inserito in uno Stato che ne riassume le aspirazioni (fu Mussolini a definire gli italiani «un popolo di santi, di eroi e di navigatori»). Ciò si sarebbe dovuto realizzare attraverso il completo superamento dell'individualismo e della connessa concezione individualista della libertà: l'individuo deve esplicare la propria libertà non in modo egoistico, in una prospettiva concorrenziale con gli altri soggetti, ma in modo ordinato e disciplinato, concependosi come parte di una collettività (la nazione italiana incarnata dallo stato fascista) indirizzata verso un fine comune e non divisa dall'odio classista (fu abbandonato il concetto socialista di «lotta di classe»). A tal fine, si affermò la necessità di rinsaldare il sentimento di appartenenza nazionale attraverso l'esaltazione dello spirito patriottico italiano e della storia d'Italia. Dunque, l'interesse dello stato prevale su quello dei singoli in nome del raggiungimento del bene comune; esso ha una propria missione e consapevolezza: esaltare l'essenza nazionale. Il fascismo si doveva esaurire non nello Stato fascista, ma nello Stato di tutti gli italiani. Il superuomo, ecco la grande creazione nietzscheana, scrisse Mussolini su «Il Pensiero Romagnolo» nel 1905. Nietzsche fu l'unico filosofo che Mussolini studiò veramente. Ne fu ammaliato in gioventù e dalla sua dottrina del superuomo trasse il senso da dare alla rivoluzione fascista; l'unificazione di tutte le terre considerate "italiane" in un'unica nazione italiana, proponendo il movimento fascista come soluzione della questione dell'Irredentismo e della Vittoria mutilata (mediante l'annessione anche violenta delle terre irredente) e conseguentemente (essendo l'obiettivo originario del Risorgimento l'unificazione dei territori italiani in un unico stato) come il "coronamento del risorgimento". Emerge quindi come il fascismo si sia caratterizzato, nella sua concreta realizzazione storica, come un movimento autoritario, nazionalista e antidemocratico. Nel 1931 Mussolini esplicitò il proprio rifiuto della democrazia, definendo la disuguaglianza come «feconda e benefica» e in "Dottrina del Fascismo" scrisse che «regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l'illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili e segrete». Da ultimo, è importante sottolineare come il fascismo fu sempre considerato dai suoi aderenti un movimento rivoluzionario, trasgressivo e ribelle (emblematico in tal senso il motto «me ne frego») in radicale contrasto col liberalismo dell'Italia pre-fascista. Pur avendo all'inizio tutelato gli interessi della borghesia industriale, Mussolini respinse ogni ipotesi di collusione con essa. I principali discorsi, nei quali esternò le sue idee furono: Discorso di Udine (20 settembre 1922); Discorso del bivacco (16 novembre 1922); Discorso del 3 gennaio 1925; Discorso della riscossa (16 dicembre 1944). Mussolini aveva due fratelli minori: Arnaldo ed Edvige. Nel 1915, con rito civile, sposò a Treviglio Rachele Guidi, figlia della nuova compagna di suo padre. Mussolini e Rachele si unirono successivamente con rito cattolico il 28 dicembre 1925. Rachele e Benito Mussolini ebbero cinque figli: Edda (1910-1995), sposatasi con Galeazzo Ciano il 24 aprile 1930; Vittorio (1916-1997); Bruno (1918-1941), ufficiale pilota, morto il 7 agosto 1941 in un incidente aereo; Romano (1927-2006), noto pianista jazz; e Anna Maria (1929-1968). Alessandra Mussolini, figlia di Anna Maria Villani Scicolone, sorella minore dell'attrice Sophia Loren, e di Romano Mussolini, è una nipote del Duce. A Mussolini vengono attribuite diverse amanti, particolarmente durante il periodo giovanile. Tra le amanti accertate, le più conosciute rimangono Margherita Sarfatti, scrittrice e intellettuale ebrea che nel 1925 pubblicò in Inghilterra una famosa biografia di Mussolini, e, per ultima, Claretta Petacci, che volle condividere la sua sorte durante gli ultimi giorni della Repubblica Sociale Italiana e che venne fucilata con lui. Anche se il numero effettivo delle donne con cui intrattenne relazioni non è certo, si ipotizza che ebbe almeno quattro figli illegittimi: un maschio sarebbe nato a Trento nel 1909 da una giovane socialista, Fernanda Oss Facchinelli, e il bambino non sarebbe vissuto che pochi mesi. Di lui, col tempo, si sarebbe perso anche il nome. Un secondo figlio illegittimo, di nome Benito Albino, lo avrebbe avuto da un'altra ragazza trentina, Ida Dalser, che egli avrebbe sposato, e Mussolini lo avrebbe riconosciuto come figlio naturale dandogli il proprio cognome. Tuttavia né l'atto del presunto matrimonio né quello del presunto riconoscimento sono noti. Una terza figlia, di nome Elena Curti, sarebbe nata negli anni venti a Milano da Angela Curti Cucciati. Elena divenne la segretaria di Alessandro Pavolini e assistette Mussolini fino alla sua cattura a Dongo. Un quarto figlio, maschio, sarebbe nato nel 1929 da Romilda Ruspi, presunta rivale di Claretta Petacci nel ruolo di amante, ma di questo bambino non si sono mai avute notizie precise, così come lui stesso, se è vero che è stato concepito ed è nato, non ha forse mai saputo chi fosse suo padre. Romilda era già coniugata e sono invece note le vicende di suo marito, esiliato in Francia.

Mussolini, la testimonianza choc del partigiano che uccise il Duce. Un documento storico riporta le parole che il partigiano Walter Audisio pronunciò al dittatore, scrive Giulia Ulrich, Giovedì 28/04/2016, su “Il Giornale”. Settantuno anni fa, il 28 aprile 1945, Benito Mussolini e la sua amante Claretta Petacci furono giustiziati dal partigiano comunista Walter Audisio (nome di battaglia "colonnello Valerio") a Giulino di Mezzegra, località in provincia di Como. Il giorno prima Mussolini era stato arrestato a Dongo e la direzione del CLNAI aveva deciso senza indugio per la sua esecuzione immediata. Prelevato dai suoi giustizieri a Bonzanigo, l'ex duce, insieme alla Petacci, fu portato nel pomeriggio in auto in un un piccolo vialetto davanti a Villa Belmonte, un'elegante residenza di Giulino, dove fu fucilato. Questi gli ultimi minuti di vita di Mussolini secondo la testimonianza di Audisio: "Sull'auto lo feci sedere a destra, la Petacci si mise a sinistra. Io presi posto sul parafango in faccia a lui. Non volevo perderlo di vista un solo istante. La macchina iniziò la discesa lentamente. Io solo conoscevo il luogo prescelto e non appena arrivammo presso il cancello ordinai l'alt. Dissi di aver udito dei rumori sospetti e mi mossi a guardare lungo la strada per accertarmi che nessuno venisse verso di noi". "Quando mi volsi la faccia di Mussolini era cambiata: portava i segni della paura. (...) Feci scendere Mussolini dalla macchina e gli dissi di portarsi tra il muro ed il pilastro del cancello. Obbedì docile come un canetto. Non credeva ancora di morire: non si rendeva conto della realtà. Gli uomini come lui temono sempre la realtà, preferiscono ignorarla (...). Improvvisamente cominciai a leggere il testo della sentenza di condanna a morte del criminale di guerra Mussolini Benito". "Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontario della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano". "Credo che Mussolini non abbia nemmeno capito quelle parole: guardava con gli occhi sbarrati il mitra che puntavo su di lui. La Petacci gridò enfatica: "Mussolini non deve morire". Dico alla Petacci che s'era appoggiata a Mussolini: "Togliti di lì se non vuoi morire anche tu". La donna capisce subito il significato di quell'anche e si stacca dal condannato. Quanto a lui, non disse una sola parola: non il nome di un figlio, non quello della madre, della moglie, non un grido, nulla. Tremava livido di terrore e balbettava con quelle grosse labbra in convulsione: "Ma...ma...ma...ma signor colonnello. Ma...ma...ma signor colonnello". "Nemmeno a quella donna che gli saltellava vicino, che si muoveva di qua e di là, disse una sola parola. No: si raccomandava nel modo più vile, per quel suo grosso corpo tremante: solo a quello pensava: a quel grosso corpo appoggiato al muretto". "(...) Faccio scattare il grilletto ma i colpi non partono. Il mitra si era inceppato. Manovro l'otturatore, ritento il tiro ma l'arma non spara. Passo il mitra a Guido (Aldo Lampredi, ndr.), impugno la pistola: anche la pistola si inceppa. Passo a Guido la rivoltella, afferro il mitra per la canna, aspettandomi, malgrado tutto, una qualunque reazione. Ogni uomo normale avrebbe pensato di difendersi ma Mussolini era al di sotto di ogni uomo normale e continuava a balbettare, a tremare, immobile con la bocca semiaperta e le braccia penzoloni. Chiamo a voce alta il Commissario della 52a che viene di corsa a portarmi il suo Mas. Adesso gli sono di fronte, come prima: egli non si è mosso, continua il suo balbettio di invocazione. Vuol salvare solo quel grosso corpo tremante. E su quel corpo scarico cinque colpi". "Il criminale si afflosciò sulle ginocchia, appoggiato al muro, con la testa reclinata sul petto. Non era ancora morto, gli tirai una seconda raffica di quattro colpi. La Petacci, fuori di sé, stordita, si mosse confusamente, fu colpita e cadde di quarto a terra. Mussolini respirava ancora e gli diressi, sempre col Mas, un ultimo colpo al cuore. L'autopsia constatò più tardi che l'ultima pallottola gli aveva troncato netto l'aorta. Erano le 16.10 del 28 aprile 1945".

Nelle borse del Duce c'erano lettere di Hitler e dossier sui traditori. Nuove testimonianze sulle carte che il dittatore teneva con sé negli ultimi giorni. Le valigette erano due. Con segreti esplosivi, scrive Roberto Festorazzi, Sabato 19/07/2014, su "Il Giornale". Il pomeriggio del 27 aprile 1945, poco dopo il suo arresto a Dongo, al partigiano Urbano Lazzaro «Bill» che accennava a sbirciare dentro la borsa piena di carte che Benito Mussolini aveva portato con sé, il dittatore disse con tono grave: «Guarda che questi documenti sono molto importanti per il futuro dell'Italia». Quante erano le borse di carteggi, dalle quali il Duce non volle mai separarsi, fino alle ore dell'epilogo? E che cosa contenevano? In questa nostra inchiesta produrremo documenti e testimonianze inediti e di eccezionale rilevanza storica sugli enigmi riguardanti le «carte parlanti» mussoliniane che avrebbero dovuto formare l'arsenale della sua autodifesa di fronte alla Storia. Secondo le fonti più accreditate, il dittatore recava con sé due borse: una, di colore giallo-marrone, che teneva personalmente, e una seconda, affidata al suo aiutante di campo, Vito Casalinuovo. Le ricostruzioni più note parlano anche di altre due borse colme di incartamenti, rimaste nella disponibilità di Marcello Petacci, fratello di Claretta, e anch'esse intercettate dai partigiani. Di queste ultime, non si è saputo più nulla. Una prima considerazione da farsi, è che, al contrario dell'oro di Dongo, che divenne immediatamente oggetto delle bramosie dei partigiani comunisti, i documenti duceschi, in prima battuta, vennero snobbati dai «rossi». Furono invece i partigiani di orientamento moderato a dedicare fin da subito le loro attenzioni ai carteggi. Tra questi vi erano il comandante della 52ª Brigata Garibaldi, il nobile fiorentino Pier Bellini delle Stelle, il suo braccio destro, «Bill», e i loro sodali: Aldo Castelli «Pinon», Stefano Tunesi, il finanziere Antonio Scappin «Carlo», il simpatizzante partigiano Gianfranco Venini, il colonnello Galdino Pini, Aimone Canape, il cittadino svizzero Alois Hoffman, e pochi altri. Le testimonianze più articolate sono quelle riguardanti il contenuto della famosa borsa giallo-marrone del Duce. Essa custodiva una selezione altamente rappresentativa dei dossier esteri. In un suo memoriale, rimasto ancora quasi del tutto inedito e sconosciuto ai più, Castelli, che ebbe modo di scorrere quantomeno le intestazioni dei fascicoli, testimonia che la cartella raggruppava materiali sul Principe di Piemonte, carte sul processo di Verona, la corrispondenza Mussolini-Churchill, documenti sull'ingresso dell'Italia nel secondo conflitto mondiale e sull'intervento nella guerra civile spagnola. Il comandante «Pedro», che volle escludere la presenza dell'epistolario del Duce con il premier britannico, riferì invece dell'esistenza del carteggio Mussolini-Hitler. Aggiunse anche che, tra i materiali sequestrati al capo del fascismo, fossero compresi dossier sulle trattative per il passaggio di poteri dalla Rsi al Partito socialista. Altri ancora hanno invece citato la presenza, negli scomparti della borsa, di poesie a Claretta, vergate su foglietti da taccuino, di documenti riguardanti Pietro Nenni, di incartamenti sulla situazione di Trieste e sull'eventuale passaggio di Mussolini e del suo governo in Svizzera, oltre ad altri dossier ancora, sulle attività partigiane nelle varie zone. Quasi tutti questi fascicoli vennero fatti sparire. Di enorme interesse, a tale proposito, risulta essere il memoriale redatto da Angelo Zanessi, un agente segreto alleato, ma in divisa germanica, che con abile mimetismo riuscì a infiltrarsi nella colonna italo-tedesca, giungendo fino a Dongo. La sua testimonianza non è raccolta né citata in alcuno dei molti studi esistenti sulle ultime ore del dittatore. Zanessi, alias capitano Zehnder, o Ennio Belli, o ancora W. Z., è una delle più affascinanti primule rosse delle vicende terminali del fascismo: un personaggio che agì con grande scaltrezza nei punti «di cerniera» sensibili, tra i fascisti più autonomi, come i nazionalisti della X Mas, gli Alleati e la Resistenza. Ufficiale del Sicherheitsdienst di Verona, fu mandato a rafforzare il servizio di protezione germanico del Duce, sul lago di Garda. In realtà, a quel tempo era già attivo come «punta» del controspionaggio americano. Messo alle costole di Mussolini, a Como, alle prime ore del 26 aprile, riuscì a impadronirsi del contenuto di una borsa del Duce che Claretta Petacci teneva con sé: lettere di Churchill e una relazione di Chamberlain. Ciò che Zanessi-Zehnder fece, una volta giunto sul Lario, è ancora in buona parte avvolto da mistero. La superspia alleata racconta numerosi dettagli, rimasti finora in ombra, relativi al contenuto della borsa giallo-marrone, che raccoglieva un piccolo, ma ultraselezionato archivio sugli affari internazionali, nel quale spiccavano, tra gli altri: lettere di Churchill e di Chamberlain; il dossier Savoia, comprendente epistole del sovrano Vittorio Emanuele III, e anche una lettera del principe Umberto al Duce, di poco anteriore al 10 giugno 1940, nella quale domandava «l'onore di aprire le ostilità sul fronte occidentale prima che la travolgente avanzata in Francia divenga una vittoria prettamente tedesca»; due missive dell'ex re Boris di Bulgaria; la corrispondenza con Hitler; dossier sui «traditori», sul «caso Canaris» e sulla vicenda dei diari di Ciano. Di straordinaria rilevanza, i materiali concernenti le responsabilità nello scoppio della seconda guerra mondiale, con le prove degli sforzi tenaci condotti fino all'ultima ora da Mussolini per evitare lo scatenamento del conflitto. La borsa cui si riferisce Zanessi è la stessa di cui parlano le fonti partigiane: buona parte del contenuto di essa venne trafugato dalla missione alleata, probabilmente già a breve distanza dalla morte del Duce, lasciando agli italiani soltanto una porzione modesta di fascicoli. Pochi dei quali sono giunti fino a noi: dedicheremo un successivo articolo, ad esempio, alla sottrazione dei materiali sui Savoia. Non meno esplosive le rivelazioni della spia circa una seconda borsa del Duce, di colore nero: forse - dico forse, perché in questo campo minato non si può esser sicuri di niente - è la cartella affidata da Mussolini a Casalinuovo. Fatta pervenire dai partigiani di Dongo al comando del Cln di Como, divenne oggetto di un singolare scambio tra servizi statunitensi e forze di Liberazione. L'ambita preda poté essere recuperata dopo la cessione, al Comitato di Liberazione, dei dossier Ovra e del fascicolo Nenni che gli 007 americani riuscirono a scovare a Villa Mantero di Como ove aveva soggiornato la moglie del Duce, Rachele, con i figli minori Romano e Annamaria. Zanessi-Zehnder, infine, fornisce una notizia-bomba: nomina, tra gli agenti che collaborarono con gli Alleati, anche due personaggi come il capitano «Neri» (Luigi Canali) e la sua compagna-staffetta «Gianna» (Giuseppina Tuissi). Entrambi comunisti, erano però entrati in conflitto con il loro partito per vecchie questioni e, a quanto pare, vennero così reclutati dai servizi segreti statunitensi per il recupero della documentazione di Mussolini.

Il culto del Duce. Quando Benito era una divinità. Al MuSa di Salò bronzi, statue, ritratti di Mussolini: testimonianze di una «fede popolare» durata vent’anni, scrive Luigi Mascheroni, Domenica 29/05/2016, su "Il Giornale".  C’ è Mussolini futurista, c’è Mussolini dalla mascella volitiva e marmorea, c’è Mussolini che si trasfigura nel fascio littorio, ci sono innumerevoli Mussolini equestri, c’è il meraviglioso Mussolini di Renato Bertelli del ’33, una terracotta dipinta di nero con il Profilo continuo del Duce, identico da qualunque parte si guardi, l’occhio dell’Insonne che controlla a 360 gradi, che tutto vede, tutto sa e tutto risolve – quando gli italiani si sussurravano «Se lo sapesse lui...» - e poi c’è, 1937, anno XVI dell’Era Fascista, il Mussolini di Albino Manca, che sguaina la spada dell’islam, e c’è un piccolo esercito bronzeo di Mussolini-mascelloni, c’è un bizzarro «pezzo» di Antonio Ligabue, un bronzetto del 1942-43 che raffigura Mussolini a cavallo, realizzato su commissione, rifatto due volte (evidentemente un po’ malvolentieri): il Capo, come l’artista, ha gli occhi e l’espressione da pazzo...E poi c’è un elegante Mussolini in marsina, un gigantesco Mussolini di cemento ricoperto di lamine d’ottone, e c’è la fantastica e fantascientifica Espressione immaginativa del Duce di Barbara (all’anagrafe Olga Biglieri), un volto di Mussolini in marmo statuario che è - in bianco - la maschera di Dart Fener, cinquant’anni prima, e chissà se George Lucas l’aveva visto su qualche catalogo... C’è l’intero catalogo della figura e del mito di Mussolini nelle sale del terzo piano (lo stesso della sezione permanente sulla Rsi) del MuSa, il museo di Salò che oggi inaugura la mostra – durerà un anno esatto, fino al 28 maggio 2017 – Il culto del Duce. L’arte del consenso nei busti e nelle raffigurazioni di Benito Mussolini voluta, pensata e realizzata dallo storico Giordano Bruno Guerri, direttore del museo e presidente del Vittoriale degli Italiani, la casa di Gabriele D’Annunzio a Gardone Riviera, poche migliaia di metri da qui. «In gioventù Benito Mussolini era stato un attento lettore di Gustave Le Bon, lo studioso di psicologia delle folle – ci dice Giordano Bruno Guerri che ci accompagna in una visita in anteprima -, e aveva ben presente il suo famoso aforisma: “Una credenza religiosa o politica si fonda sulla fede, ma senza i riti e i simboli la fede non può durare”. E così il Duce trasformò il fascismo in una religione, e se stesso in un dio». Ed eccola, la religione fascista e il suo dio: la divinizzazione procede in ordine cronologico, attraverso due grandi sale e un centinaio di opere (quasi tutte di collezionisti privati e mai viste prima) di artisti sconosciuti, noti, meno noti e celeberrimi, da Salvatore Monaco a Giacomo Balla, da Fortunato Longo a Ernesto Michaelles in arte Thayath (autore del Dux prettamente futurista), da Enrico Prampolini a Mino Delle Site: in tutto 33 sculture e decine e decine di xilografie, dipinti, incisioni, ceramiche (alcune, colorate, bellissime). Iconografie di vario tipo e materiale. Nessuna celebrazione, ovviamente. Ma, per tagliare la testa alle polemiche che pure da giorni agitano questa sponda del Garda, solo la volontà, dice Giordano Bruno Guerri e gli fa eco il sindaco di Salò Giampiero Cipani, di studiare i vari momenti del fascismo, che proprio qui morì: «La mostra è storico-artistica, non politica». E infatti è la prima di una serie che sotto l’occhiello «Il lungo viaggio attraverso il fascismo» per citare Ruggero Zangrandi, racconterà prodromi, glorie, tragedie ed epilogo del Ventennio: il prossimo anno sarà la volta di antifascismo e Resistenza. Intanto, mentre in Italia non c’era ancora l’antifascismo ma solo 45 milioni di fascisti, prima dell’entrata in guerra e delle disillusioni, l’illusione era massima, e il consenso montante. Si inizia negli anni Venti con un Mussolini ancora liberale, ritratto in cravattino e collo di camicia inamidato, dall’aria giolittiana (come in Per la battaglia del grano di Romeo Pazzini, del 1927) e, semmai, risorgimentale, un padre della Patria più che il Primo degli italiani. Poi, negli anni Trenta, dopo il Concordato, alla «fede» del littorio si sovrappone il culto del Duce come strumento di affermazione del regime. «Il carisma di Mussolini fu istituzionalizzato, rafforzato, impostato dalla propaganda divenendo il medium tra la fede delle masse e il futuro della nazione», spiega Giordano Bruno Guerri. E il Duce diventa il prodotto mainstream e vendutissimo della fabbrica del consenso. Mussolini è statista, legislatore, filosofo (c’è una meravigliosa xilografia di Mussolini-Machiavelli di Carlo Guarnieri), scrittore, artista, profeta, messia, maestro infallibile, inviato da Dio, eletto dal destino e portatore di destino, come ha scritto Emilio Gentile. È l’Uomo della Provvidenza. E la Provvidenza ha i suoi corifei. Che raffigurano il Duce sempre più forte, fiero, potente. Mussolini ad un certo punto dismette gli abiti borghesi, si rasa e indossa soltanto divise e camicie nere, oppure la toga romana da Imperatore. E, nella sua apoteosi, è a petto nudo: senza vestiti supera tutte le divisioni di classe. Infatti la seconda parte della mostra – che a dispetto di possibili contestazioni si snoda dentro le sale del museo permanente della Repubblica sociale italiana: alle pareti è appesa la gloria effimera dei Colli fatali, in mezzo si vive la tragedia dell’Italia divisa e sconfitta – si chiude con il gigantesco «dipinto museale» di Alberto Beltrame, una tela 220x117 intitolata Verso la meta che rappresenta Mussolini completamente nudo e vincitore. E che sintetizza la concezione ideologica del pensiero fascista e della sua rivoluzione. Poi sarà il momento dell’Impero e dell’ora fatale, quando il Duce, in fase bellica, è sempre raffigurato con l’elmetto e, metaforicamente, il pugnale in bocca... Quanti volti ha l’Uomo. L’uomo Mussolini ha mille volti, ma è sempre se stesso. Cambia tutto, eppure il piglio marziale resta uguale. C’è un curioso Mussolini su un cavallo imbizzarrito che intima di tacere alle personificazioni di Stati Uniti, Inghilterra e Francia che guardano timorose. C’è un incredibile Mussolini con gli occhi azzurri. C’è un piccolo ritratto stilizzato di Mario Sironi, c’è un ritratto aeropittorico, ci sono alcuni «pezzi» anonimi e di mano «semplice» che testimoniano la fede popolare nel Duce (l’idea della mostra è di portare fuori dalle case le «opere» dell’epoca, quelle realizzate da donne e bambini: ricordate il ritratto del Duce fatto con i bottoni da Sophia Loren in Una giornata particolare? Ce ne sarebbero di storie da raccontare...). E, infine, c’è il manifesto del plebiscito per le elezioni della Camera dei fasci del 1934: un collage di Mussolini e il popolo italiano che sembra anticipare la pop art di Roy Lichtenstein. A proposito. Per la cronaca, e per la propaganda, gli iscritti a votare furono 10 milioni e 526mila 504, i votanti 10 milioni e 61mila 978, i favorevoli il 99,8% e i contrari – perché il regime sa tollerare il dissenso – lo 0,15%, ossia 15.201 italiani. Quando l’Italia, insomma, concedeva il massimo consenso al Duce.

Vita, opere e misfatti del compagno Mussolini. Una mostra che aprirà in settembre a Predappio racconta gli anni giovanili di Benito. I pezzi inediti sono moltissimi e raccontano l'ascesa di un leader, scrive Matteo Sacchi, Venerdì 31/05/2013, su "Il Giornale". Benito, non il Duce. Il Mussolini che c'era prima, molto prima della Marcia su Roma o anche solo dei fasci di combattimento. La testa calda figlia del fabbro rosso e mangiapreti, il ragazzo socialista sino al midollo pronto a giurare, come in una lettera inedita ad Alfredo Polledro del 2 aprile 1905: «il mio fucile non saprà mai tradire la causa della rivoluzione». A lui è dedicata la mostra presentata ieri in anteprima a Milano e che inaugurerà a Predappio il 29 settembre, intitolata «Il giovane Mussolini 1883 - 1914». Nella casa natale della frazione di Dovia, quella che negli anni del fascismo era considerata la «Betlemme degli italiani», verranno esposti più di 200 cimeli, alcuni dei quali mai precedentemente esposti al pubblico, che raccontano la giovinezza di Mussolini. Tra gli inediti, di cui molti di proprietà del collezionista Franco Moschi, spiccano un olio su tela che ritrae Mussolini arrestato dai carabinieri e tradotto a Forlì. Una sorta di istantanea a colpi di pennello che fino a ora praticamente nessuno ha mai visto. A realizzarla fu Pietro Angelini, un amico dell'allora irrefrenabile socialista dotato incredibilmente di lunga barba. Come spiega la dedica sul verso del quadro, è il «ricordo storico dell'Arresto di Benito Mussolini a Predappio dopo una conferenza». E poi un sacco di documenti come la locandina elettorale del 1913 che pubblicizza la candidatura di Mussolini alle elezioni nel collegio di Forlì. Si batteva contro il repubblicano Giuseppe Gaudenzi il quale, nonostante l'oratoria mussoliniana, trionfò con 4536 voti contro i 1425 del futuro Duce. Eppure anche in chiave socialista l'oratoria di Benito (chiamato così in onore del rivoluzionario Benito Juárez) aveva già una sua precisa veemenza che la locandina conserva: «Chi vota per me, vota per le idee che rappresento e difendo, vota per la lotta di classe e per il passaggio dei mezzi di produzione e di scambio alla collettività produttrice, vota in una parola per il socialismo». Eccezionale la copia di L'uomo e la divinità del 1904. È il resoconto dello scontro verbale avvenuto a Losanna, nella «Maison du peuple», il 26 marzo di quell'anno, tra Mussolini e il prete evangelista Alfredo Taglialatela sull'esistenza di Dio (che Mussolini negava). La mostra che ha un comitato scientifico di ampio respiro - ci sono tra gli altri Maurizio Ridolfi, Emilio Gentile, Roberto Balzani e Luigi Lotti - non mira solo all'antiquaria, quanto a un vero e proprio riesame scientifico degli anni meno conosciuti della vita di Mussolini. E nel 2014 uscirà un volume a più mani, per i tipi de Il Mulino che, prendendo spunto proprio dall'esposizione, racconterà il Mussolini giovane. Come spiega Maurizio Ridolfi, professore di Storia contemporanea all'Università della Tuscia: «I rapporti di Mussolini con la Romagna sono sempre rimasti sotto traccia, noi vogliamo ricostruire meglio gli anni della sua formazione. Nel 1912, con l'appoggio dell'ala massimalista Mussolini inizia a diventare uno degli uomini più importanti del socialismo italiano. Tutto questo non si riesce a capire senza indagare ciò che accadde prima». E gli fa eco Roberto Balzani, ordinario di Storia a Bologna e sindaco di Forlì. «Il fascismo nel Ventennio ha trasformato Predappio in una sorta di luogo originario e messianico. Questa immagine ha oscurato il resto. Ma la verità è che la Romagna del Mussolini giovane era un luogo incredibile: culturalmente desolato ma politicamente attivissimo. Si faceva una politica che doveva essere inevitabilmente populista, basata su simboli semplici, immediati, di forte presa... Era una Vandea rossa che per Benito è diventata una sorta di palestra politica. Ha imparato le regole per poi andare oltre, per reinvestire quello che aveva imparato a livello nazionale e non solo. Abbiamo molto da imparare su di lui e sui suoi compagni di strada di allora». Da qui l'idea accarezzata anche dal sindaco di Predappio, Giorgio Frassinetti del Pd, di trasformare la ex Casa del Fascio e dell'ospitalità, oggi in stato di abbandono, in un centro di studi di storia politica comparata. «Noi non vogliamo nostalgie e non vogliamo rimozioni, vogliamo capire e studiare».

29.X.1922: Mussolini al Governo. "Se ci fosse qui papà ...": sono le parole con cui Benito commenta l'incarico ricevuto da re di formare il Governo, scrive il 31 ottobre 2014 Emma Moriconi su” Il Giornale d’Italia”. Il futuro Duce decide di partire per Roma con un treno normale: "Cominciamo a farlo risparmiare un po', questo Stato". 28 ottobre 1922, "Roma, hotel Moderno, ore 16,30 circa. De Vecchi sbatté la cornetta del telefono e uscì dalla cabina: 'Niente, non c'è! Non si trova!'. Si lasciò cadere in una poltrona. Dino Grandi si massaggiò il viso. 'Ci scommetto che si fa negare!', disse. 'E' inconcepibile'. 'E' Mussolini!', sospirò Grandi. 'Cosa dico al re?'. 'La verità. Mussolini non risponde'. 'Mi domanderà che significato può avere'. 'E tu diglielo'. 'Cioè?'. Grandi si strinse nelle spalle. De Vecchi azzardò: 'Che vuole tutto lui?'. 'E' evidente'. 'E' matto, è matto!'". È ancora il resoconto di Venè su quelle convulse ore che precedettero l'avvento del Fascismo. De Vecchi dunque va dal re, il quale lo esorta a provare ancora, alla fine è il generale Cittadini a riuscire a mettersi in contatto con lui: "Io non mi muovo da Milano se non ho l'incarico", gli risponde Mussolini. Intanto i fascisti che sono accampati a Santa Marinella hanno fame e sete: De Vecchi chiede per loro "qualche camion di vettovaglie calde e qualche autobotte di acqua potabile". Richiesta che viene subito esaudita. Vittorio Emanuele, nel frattempo, incarica ufficiosamente Salandra di formare il governo, mentre in piazza i fascisti urlano i loro "alalà". "Accetto per dovere Maestà - risponde Salandra - premetto tuttavia che un governo si può fare soltanto se Mussolini è d'accordo". Salandra è realista. "Ci pensi lei, Salandra. Auguri", gli dice il re. Salandra non trova di meglio che incaricare De Vecchi di contattare, in un modo o nell'altro, Mussolini. Le sue richieste sono perentorie: "Le chiedo formalmente, De Vecchi: primo, se Mussolini ci sta a entrare in un mio ministero, magari come ministro dell'Interno. Secondo, se non ci sta lui, voglio sapere chi designa al suo posto. Terzo, quanti posti vogliono i fascisti, una volta per tutte". Ha tempo fino al mattino successivo per trovare Mussolini e chiudere la faccenda. De Vecchi e Grandi gli mandano un messaggio via telegrafo, pregandolo di accettare. La risposta: "Fate pure. Io non parteciperò mai a un simile ministero - Mussolini". Se Salandra è stato perentorio, Mussolini è inflessibile. De Vecchi, invece, è disperato: "O è finito lui, o siamo finiti noi", dice. Salandra dunque incarica Cittadini di spedire a Mussolini un telegramma: "Sua Maestà il re mi incarica di pregarla di recarsi a Roma, desiderando conferire con lei". Nel frattempo lui, Benito, a Milano, va a teatro. È la notte tra il 28 e il 29 ottobre 1922. Sta per uscire un suo fondo sul Popolo d'Italia che non ammette repliche: "Il governo deve essere nettamente fascista. Ogni altra soluzione è da respingersi. Il Fascismo vuole il potere e lo avrà". Alle 9 del mattino del 29 ottobre, forse Salandra capisce che Mussolini non ha alcuna intenzione di andare a Roma. Il re insiste: dia ai fascisti più ministeri, faccia ciò che vuole, ma mantenga l'impegno preso. Ci prova ancora, Salandra: tenta persino di offrire un ministero a De Vecchi, che però allarga le braccia e fa di no con la testa. E continua a dire no anche quando è il re in persona a offrirglielo. "Darò l'incarico a Mussolini" dice alla fine il re, di fronte a un sollevato Salandra e a uno sconvolto De Vecchi, alla sua seconda o terza notte insonne. L'orologio batte le 12. Quindici minuti dopo a casa Mussolini squilla il telefono. Una affaccendata Rachele risponde, al telefono è Polverelli, la comunicazione è disturbata: "Mussolini non c'è, non so che dirle" replica la moglie del futuro Duce, e riaggancia. Il telefono squilla ancora: "E' ancora lei signor Polverelli? Ho già detto che mio marito non c'è, lasci detto a me semmai". Ma al telefono questa volta è l'aiutante in campo del re, Cittadini. Mussolini non si trova, nemmeno al Popolo d'Italia, dove arriva pochi minuti dopo i vani tentativi di Polverelli e Cittadini. Finalmente Polverelli riesce a parlarci, a passare la telefonata al futuro Duce è il fratello Arnaldo: "Io e Grandi siamo qui al Quirinale e abbiamo il piacere di comunicarti che il re ha deciso di affidarti l'incarico di costituire il nuovo gabinetto". Mussolini pretende un telegramma ufficiale di Cittadini. Quando riaggancia, guarda il fratello. Non c'è bisogno di parlare, i due si abbracciano. Dopo una mezz'ora arriva un fattorino del telegrafo, che si rifiuta di consegnare il telegramma in mani diverse da quelle di Mussolini in persona: "O Mussolini in persona o niente - dice - Io so già cosa c'è scritto ed è troppo importante". La rivoluzione sta per cominciare: "Sua Maestà il re la prega di recarsi al più presto a Roma desiderando darle incarico di formare il ministero. Ossequi - Cittadini". La redazione freme, Arnaldo è commosso, Benito pensa a quel rivoluzionario che tanti anni prima aveva scelto la politica come ragione di vita: "Se ci fosse qui papà ..." dice al fratello. Arnaldo avverte subito la sorella Edvige: "Esultiamo ricordando nostri indimenticabili genitori - Benito, Arnaldo". Benito telefona a casa: "Ma dove eri finito? - gli domanda Rachele - ti cercano da Roma, dicono che è urgente ...". Benito la tranquillizza: lo hanno trovato, ora occorre che lei gli prepari una valigia, lui deve andare a Roma, ce l'ha fatta. Decide di partire con un treno normale, il Direttissimo 17: "Cominciamo a farlo risparmiare un po', questo Stato", dice.  

QUANDO I NAZISTI CORTEGGIAVANO IL DUCE.

Quando i nazisti corteggiavano il Duce. La nostra iniziativa editoriale, scrive "Il Giornale", Sabato 09/07/2016. Renzo De Felice - Sarà nelle edicole da domani, in abbinata facoltativa con il Giornale al prezzo di 9,90 euro oltre al prezzo del quotidiano, il libro di Renzo De Felice Mussolini e Hitler. I rapporti segreti 1922-1933 con documenti inediti. È il quinto volume della nostra iniziativa editoriale dedicata a «Hitler e il Terzo Reich», iniziata con l'opera di William Lawrence Shirer. Allo stato delle fonti, i primi a prendere l'iniziativa di cercare un contatto tra fascisti e nazionalsocialisti furono i tedeschi. Né la cosa può meravigliare. Nel 1922 Hitler era ancora un oscuro agitatore e il suo movimento era praticamente limitato alla Baviera. Non vi è dunque nulla di strano nel fatto che Mussolini non ne conoscesse l'esistenza o, almeno, non lo considerasse un personaggio con cui valesse la pena avere rapporti. Per Hitler era invece tutto il contrario. Mussolini, infatti, era già una personalità di rilievo della vita politica italiana ed era noto anche all'estero, se non altro per l'esecrazione che verso di lui dimostrava la stampa socialista e comunista e per gli echi delle imprese fasciste. Da qui l'interesse con cui sin dal '21 Hitler aveva seguito gli sviluppi del fascismo e la sua via via crescente ammirazione per Mussolini. In questa prospettiva il fatto che l'idea di inviare da Mussolini un proprio emissario, Kurt G.W. Lüdecke, sia stata di Hitler o gli sia stata suggerita dallo stesso Lüdecke è praticamente irrilevante. Ciò che importa è che egli autorizzò la missione e che ciò avvenne nella seconda metà del settembre '22; prima dunque della «marcia su Roma»; e ancor più importa che essendosi conclusa la missione con un nulla di fatto ed essendo emerso chiaramente dal colloquio che Lüdecke ebbe in ottobre a Milano con Mussolini che il «duce» si rifiutava di considerare la questione ebraica un problema reale per l'Italia e, soprattutto, che per lui l'italianità dell'Alto Adige era fuori discussione, non solo Hitler incaricò qualche mese dopo Lüdecke di una nuova missione in Italia, ma, per spianargli il terreno e raggiungere un accordo politico (l'appoggio o la neutralità italiana in caso di un conflitto franco-tedesco) ed economico (aiuti in denaro) con il nuovo governo italiano, lo autorizzò a dire a Mussolini e a far sapere all'opinione pubblica italiana che i nazionalsocialisti si sarebbero disinteressati dell'Alto Adige e, per rendere più credibile quest'assicurazione, si affrettò a fare pubbliche dichiarazioni in merito e ad avviare un'azione per predisporre il partito nella sua grande maggioranza tutt'altro che ben disposto verso l'Italia e lo stesso fascismo a non osteggiare troppo duramente questa sua svolta. Il secondo incontro di Lüdecke con Mussolini avvenne a Milano, probabilmente il 10 settembre '23, ed ebbe un seguito nella notte successiva sul treno che riportava il «duce» a Roma. Mussolini fu affabile, ma, come Lüdecke ha scritto nelle sue memorie, «era evidente che non voleva impegnarsi in alcun modo». Né a Roma Lüdecke riuscì più a vedere Mussolini, sicché dovette accontentarsi di essere ricevuto dal suo capo di gabinetto Giacomo Barone Russo, che mostrò di interessarsi alle sue avances, ma «non offrì alcun aiuto o particolare impegno». Sicché, in pratica, la missione dell'inviato di Hitler dovette limitarsi ad una serrata azione presso la stampa fascista e fiancheggiatrice romana per influenzarla in senso favorevole al nazionalsocialismo. In questa direzione Lüdecke sembrò in un primo momento ottenere risultati non del tutto trascurabili. Riuscì ad influenzare in qualche misura Il Corriere italiano e L'epoca e a far parlare di Hitler anche da L'Idea nazionale e da Il Messaggero. Oltre alla possibilità di poter egli stesso illustrare ampiamente le tesi hitleriane, il maggior successo conseguito da Lüdecke fu quello di far intervistare dagli inviati de Il Corriere italiano e de L'epoca Hitler. Delle due interviste la più importante politicamente fu quella rilasciata a Leo Negrelli, de Il Corriere italiano. In essa infatti Hitler affermò di star conducendo «una lotta disperata per far capire qui che fra l'Italia e la Germania la questione dell'Alto Adige non deve affatto costituire elemento di discordia fra i due paesi». Fu probabilmente proprio questo atteggiamento di Hitler che indusse 10 giorni dopo il Negrelli a scrivere un articolo che lasciava trasparire simpatia per il leader nazista.

ALCUNE CITAZIONI DI BENITO MUSSOLINI

"La razza non tradisce la razza" - 4 giugno 1919

"Primo pilastro fondamentale dell'azione fascista è l'italianità. Noi siamo orgogliosi di essere italiani" - Trieste, 20 settembre 1920

"Noi ci sentiamo fratelli in spirito con coloro che lavorano" - 3 aprile 1921

"Non possiamo dare la libertà a coloro che ne profitterebbero per assassinarci" - 4 ottobre 1922

"L'aumento del prestigio di una nazione nel mondo è proporzionato alla disciplina di cui dà prova all'interno" - Roma, 16 novembre 1922

"I lavoratori devono amare la patria. Come amate vostra madre, dovete, con la stessa purezza di sentimento, amare la madre comune: la patria nostra" - 10 aprile 1923

"Continueremo la nostra marcia severamente, perchè questo ci è imposto dal destino. Non torneremo indietro, non segneremo il passo" - Padova, 1 giugno 1923

"Il lavoro è la cosa più alta, più nobile, più religiosa della vita" - 25 ottobre 1923

"Chi dice fascismo dice prima di tutto bellezza, dice coraggio, dice responsabilità, dice gente che è pronta a tutto dare e nulla chiedere quando sono in gioco gli interessi della Patria" - Milano, 28 ottobre 1923

"Noi, ieri come oggi ed oggi come domani, quando si tratta della Patria e del Fascismo, siamo pronti ad uccidere come pronti a morire" - Roma, 28 gennaio 1924

"Per me il passato non è che una pedana dalla quale si prende lo slancio per il più superbo avvenire" - Roma, 1 febbraio 1924

"Il Fascismo non è soltanto azione, è anche pensiero" - Roma, 7 agosto 1924

"Un popolo per giungere alla potenza ha bisogno della disciplina" - 4 ottobre 1924

"Il comunismo, essendo per sua tendenza egualitario, è contrario alla vita e alla storia, oltre che alla natura che è profondamente diseguale, e che vive di questa disuguaglianza" - Roma, 20 maggio 1925

"Dopo aver conquistato la sicurezza, dobbiamo tendere alla potenza" - 24 maggio 1925

"La battaglia del grano significa liberare il popolo dalla schiavitù del pane straniero" - Roma, 30 luglio 1925

"La battaglia della palude significa liberare la salute di milioni di italiani dalle insidie letali della malaria e della miseria" - Roma, 30 luglio 1925

"Fascisti all'estero: dovete considerarvi in ogni opera vostra e in ogni momento della vostra vita come dei pionieri, come dei missionari, come dei portatori della civiltà latina, romana, italiana" - Roma, 31 ottobre 1925

"La nostra pace più sicura sarà all'ombra delle nostre spade" - Roma, 29 gennaio 1926

"Noi siamo i portatori di un nuovo tipo di civiltà" - 5 ottobre 1926

"Bisogna creare, altrimenti saremo degli sfruttatori di un vecchio patrimonio; bisogna creare l'arte nuova dei nostri tempi, l'arte fascista" - Perugia, 5 ottobre 1926

"Le qualità, anzi le virtù immutabili del vero fascista devono essere la freschezza, la lealtà, il disinteresse, la probità, il coraggio, la tenacia" - Roma, 28 ottobre 1926

"Chi non sa fare la guerra, molto difficilmente può fare la pace" - 31 dicembre 1927

"La bonifica integrale del territorio nazionale è un'iniziativa, il cui compito basterà da solo a rendere gloriosa, nei secoli, la rivoluzione delle camicie nere" - Roma, 14 ottobre 1928

"La giustizia senza la forza sarebbe una parola priva di significato, ma la forza senza la giustizia non può e non deve essere la nostra formula di governo" - Roma, 8 dicembre 1928

"La giovinezza è un dono divino, che però la maturità consapevole degli anziani deve salvaguardare dalle insensate dissipazioni e dalle malcerte precocità" - Roma, 22 dicembre 1928

"Solo col Fascismo i contadini sono entrati di diritto nella storia della Patria" - 10 marzo 1929

"L'Italia Fascista è un'immensa legione che marcia sotto i simboli del Littorio verso un più grande domani. Nessuno può fermarla. Nessuno la fermerà" - Roma, 27 ottobre 1930

"Fra tutti i nemici dell'umanità e fra tutti i mali che l'affliggono, uno dei peggiori è l'ottimismo facilone, imbelle e imbecille" - "Il Popolo d'Italia", 2 gennaio 1934

"Nel tempo fascista il lavoro, nelle sue infinite manifestazioni, diventa il metro unico col quale si misura l'utilità sociale e nazionale degli individui e dei gruppi" - Roma, 23 marzo 1936

"La conquista dell'Impero è destinata, non già a ritardare quello che deve essere lo sviluppo politico, economico, spirituale dell'Italia meridionale, ma ad accelerarlo" - Potenza, 27 agosto 1936

"Se c'è un paese dove la democrazia è stata realizzata, questo paese è l'Italia Fascista" - Milano, 1 novembre 1936

"Violentare il moto della storia è impossibile. Cercare di comprimere quelli che sono gli impulsi inarrestabili della vita dei popoli, è semplicemente assurdo" - "Il Popolo d'Italia", 1 dicembre 1937

"Per noi fascisti la fonte di tutte le cose è l'eterna forza dello spirito" - 18 settembre 1938

"La prima cosa per vincere una battaglia, è quella di fermamente credere: e noi crediamo nella potenza del Littorio e nell'avvenire della Patria" - Torviscosa, 21 settembre 1938

"Le madri devono educare i loro figli al lavoro della terra e combattere tutte le tendenze ad abbandonarla per cedere alle illusioni della città" - Roma, 20 dicembre 1938

"I soldati che si battono con cognizione di causa sono sempre i migliori" - Enciclopedia Italiana Treccani 

IL DUCE COMUNISTA.

Il Socialismo/Comunismo è una ideologia cattiva, così come l’Islam è una religione cattiva. Socialisti e mussulmani hanno un credo di avversione contro i loro nemici ed usano violenza e prevaricazione per affermare i loro valori.

I Socialisti/Comunisti, così come i Mussulmani, mirano al potere assoluto al netto della democrazia. Sono talmente intolleranti che il nemico lo scovano addirittura nel loro interno. Ecco che si moltiplicano, come le cellule, in miriadi di fazioni, correnti, sub partiti. La loro disgregazione è solo lotta per il potere.

Il Fascismo è l’immagine allo specchio del Socialismo/Comunismo talmente brutta agli occhi di chi la guarda, che la stessa parte riflessa nega che sia essa stessa rappresentata.

Purtroppo la verità e questa: non esiste destra e sinistra, ma esiste una parte moderata e liberale ed una parte reazionaria. Gli estremisti, dunque, son figli di una sola stirpe.

La scissione dell’anima Socialista/Comunista ai tempi di Mussolini fu indotta dalla scelta di consegnare o meno la nazione ad una potenza straniera, ossia l'Urss.

Mussolini Socialista/comunista era un nazionalista. I suoi avversari erano decisi a consegnare la patria in mano a Stalin ed all'Unione Sovietica.

Arrigo Petacco. Il comunista in camicia nera. Nicola Bombacci tra Lenin e Mussolini. Nicola Bombacci, il comunista in camicia nera ucciso dai “liberatori”.

Introduzione: Nicola Bombacci tra Lenin e Mussolini. Diversi in tutto: uno violento, l’altro mite; uno donnaiolo, l’altro monogamo; uno fondatore del Partito fascista, l’altro fondatore del Partito comunista… Benito Mussolini e Nicola Bombacci condussero due vite parallele, ma non si odiarono mai. La loro amicizia, nata sui banchi di scuola, superò ostacoli e avversità, e terminò tragicamente a Dongo, il 28 aprile 1945, davanti ai mitra spianati dei partigiani. Nell’intreccio dei loro destini c’è mezzo secolo di storia italiana. Ma, mentre di Mussolini sappiamo ormai quasi tutto, il suo amico-nemico Nicola Bombacci, personaggio scomodo per la destra quanto per la sinistra, finora è rimasto nell’ombra. Ma chi era Bombacci? Chi aveva “tradito” per meritare la morte?

Commento: L’ottimo e intellettualmente onesto Arrigo Petacco, col pretesto di illustrare al grande pubblico un’importante figura storica condannata dalla vulgata antifascista (soprattutto comunista) alla damnatio memoriae, offre al lettore uno spaccato di R.S.I. colpevolmente trascurato dalla storiografia corrente. Viene alla luce, più che la storia della vita di Nicola Bombacci, fautore della scissione del Partito Comunista d’Italia dal PSI, consumatasi nel celeberrimo Congresso di Livorno del 1921, il “filo rosso” che il Duce del Fascismo pare non aver mai spezzato col proprio passato, tanto da farlo prepotentemente riemergere negli epici 600 giorni della Repubblica, denominata appunto “Sociale”. Nicola Bombacci, amico d’infanzia del poco più giovane e molto più celebre – almeno oggi – futuro Duce, aveva sostenuto memorabili campagne per il trionfo del Socialismo in Italia, divenendo il nemico numero uno dei Fascisti ante e post Marcia. Negli anni del Ventennio aveva subito persecuzioni politiche, soprattutto da parte dei cosiddetti “intransigenti”, ma non aveva mai perso la profonda stima e benevolenza del vecchio amico Benito. La sua lunga e bionda barba, come recitavano gli stornelli degli Squadristi, sarebbe dovuta servire a produrre “…spazzolini per lucidar le scarpe a Benito Mussolini!”. Eppure quest’uomo, stimato membro del COMINTERN, vicino a Lenin e a Zinov’ev, protetto dai Sovietici come loro inviato in Italia, infervorato tribuno della sovietizzazione della penisola, non aveva mai smesso di sognare l’”unione delle due Rivoluzioni”, di Roma e di Mosca, anche se non sarebbe mai stato capace di tradire la propria Patria per raggiungere tale scopo. Nonostante l’estrema povertà patita sotto il Regime e le persecuzioni politiche, si riavvicinò progressivamente a Mussolini, mentre via via emergeva il disinganno per la reale situazione dell’URSS, ormai schiavizzata sotto il tallone di Stalin. La tesi di fondo sostenuta da Petacco – che probabilmente risulterà particolarmente gradita alla “Sinistra Fascista” attuale – concerne il sostanziale permanere, in capo al Duce, durante tutto il corso della sua entusiasmante avventura politica, dell’intenzione di far trionfare l’originaria e autentica Idea Socialista, di cui era espressione il programma del Fascio primigenio. Al termine dell’avventura, i due “compagni” Benito e Nicola si ritroveranno sul Lago di Garda, in camicia nera, a studiare i piani di una Socializzazione che avrebbe dovuto realizzare tale ideale, piani bruscamente interrotti dal disastro militare. Finiranno entrambi a Piazzale Loreto. Nicola Bombacci, fucilato in quanto “supertraditore” (del Comunismo), verrà cancellato dalla storia per l’imbarazzante verità che la sua vicenda avrebbe svelato agli occhi degli operai italiani: l’unico vero Socialismo mondiale fu realizzato in Italia e portava la firma di Benito Mussolini. Recensione curata per Ilduce.net da: Luigi Vatta il 6 ottobre 2013.

Nicola Bombacci, il comunista in camicia nera ucciso dai “liberatori”, scrive Francesco Carlesi il 25 aprile 2016 su "Il Primato Nazionale". Oggi sono 71 anni di “liberazione”: la cultura ufficiale si scatena nelle celebrazioni e il mondo politico si ricompatta sotto la sempreverde bandiera dell’antifascismo. Ma il 25 aprile 1945, insieme al Duce non moriva solo la repubblica di Salò erede del Ventennio, ma anche una serie di esperienze e personaggi la cui traiettoria “fuori dagli schemi” è stata dimenticata. Uomini che avevano capito che dietro la caduta del fascismo si celava una trappola: la subordinazione dell’Italia a Stati Uniti e Unione Sovietica e la fine di ogni “sogno socialista”, di cui le riforme mussoliniane del ‘44 erano un piccolo quanto ardito esempio. Nicola Bombacci è stato il più fulgido e allo stesso tempo controverso simbolo di questo mondo, capace di compiere un itinerario unico, dal comunismo al fascismo sempre al motto di “Viva il socialismo!”. Un rivoluzionario e un dissidente nel vero senso del termine, perfettamente indicativo dei fermenti che hanno animato il nostro paese nella prima parte del secolo scorso. Passioni che oggi, stretti tra pregiudizi e gabbie mentali, fatichiamo incredibilmente a comprendere. Per questo vale la pena, proprio in questi giorni, ripercorre d’un fiato la vita e le idee di Nicolino, come era soprannominato dai compagni Bombacci. Romagnolo e socialista come Mussolini, fu un importante esponente dell’ala massimalista del Psi. La sua strada e quella del futuro Duce si divisero in occasione del primo conflitto mondiale: Bombacci si schierò contro l’intervento, allineandosi stranamente per una volta alle scelte ufficiali dei capi del socialismo italiano, con cui spesso era in polemica. Al termine della guerra divenne addirittura segretario del partito, per poi fondare il Partito Comunista d’Italia nel 1921. Anche qui si distinse per le posizioni anticonformiste: prima appoggiò entusiasticamente l’occupazione dannunziana di Fiume, poi propugnò l’avvicinamento del Fascismo all’Urss, nel nome dell’anticapitalismo che caratterizzava entrambe le rivoluzioni. Si trattava di un personaggio scomodo sia per i fascisti avviati alla conquista del potere quanto per i suoi stessi compagni di partito, da cui fu espulso nel 1927. Togliatti, dall’alto della sua cieca ortodossia, addusse quale motivazione la colpa di non essere abbastanza marxista e di volere “tutto e subito”. Secondo lui un vero comunista non avrebbe dovuto affidarsi all’ “azione diretta” di marca soreliana, ma creare le condizioni per lo sviluppo ed il crollo del sistema capitalista. Curioso che Togliatti non si avvedesse del fatto che l’Urss, ove lui risiedeva ed il comunismo era al potere, fosse all’epoca della Rivoluzione d’Ottobre uno Stato post-feudale. Ma per Bombacci gli spiragli politici non erano del tutto chiusi. Mussolini aveva riconosciuto ufficialmente l’Urss nel 1924, tra i primi leader europei. Questa scelta, dettata soprattutto da interessi economici, fu accolta con entusiasmo dal fondatore del Partito Comunista d’Italia, che cercò, tra molte difficoltà, di portare il suo contributo ideale all’interno del dibattito culturale italiano. Interessanti a questo proposito le sue posizioni riguardo al corporativismo ed alla Guerra d’Etiopia. Egli riconobbe alla politica economica fascista una maggiore efficacia rispetto ai provvedimenti attuati in Urss, apprezzando i primi risultati raggiunti dal regime. Ancor più sorprendente la sua lettura del conflitto coloniale italiano, che Bombacci descrisse come il naturale proseguimento sul piano geopolitico del conflitto tra “popoli giovani” e plutocrazie capitaliste. Una tesi che portava alla mente le teorizzazioni del capo dei nazionalisti italiani Enrico Corradini, riassumibili nell’equazione: “proletari contro capitalisti = lotta di classe; popoli poveri contro popoli ricchi = nazionalismo”, datata 1910. Nel 1936 l’impegno di Nicolino fu finalmente riconosciuto grazie all’uscita della rivista “La Verità” (traduzione della Pravda sovietica), da lui diretta e punto di incontro di molti esponenti del vecchio mondo socialista. È in questo stesso periodo che Palmiro Togliatti pubblica il famoso “appello ai fratelli in camicia nera”, in cui cerca un terreno d’incontro tra comunisti e fascisti sul programma di S. Sepolcro del 1919. Nel frattempo una personalità del calibro del filosofo Ugo Spirito, che vedeva di buon occhio un avvicinamento tra le due rivoluzioni, aveva dato il suo contributo elaborando la teoria della “corporazione proprietaria”, auspicando il passaggio della proprietà dei mezzi di produzione alla corporazione, per la definitiva distruzione delle logiche del sistema capitalista. E poi come non menzionare il tentativo di Ivanoe Bonomi, membro storico del parlamentarismo prefascista, di fondare l’ “Associazione socialista nazionale”, assieme agli ex deputati Bisogni, D’Aragona e Caldara, disposti a collaborare con il regime. Una serie di fermenti quanto mai interessanti e degni di nota, anche se allo scoppio della Guerra di Spagna i rapporti tra Italia ed Urss tornarono più che mai tesi. Pochi anni dopo, nel momento del breve idillio Stalin-Hitler, fu proprio “La Verità” (che continuerà ad uscire pressoché ininterrottamente fino al 1943, nonostante l’avversione degli intransigenti Farinacci e Starace) ad esprimersi favorevolmente a questa convergenza, in un’Italia fascista comprensibilmente disorientata. Già dieci anni prima “Roma e Mosca o la vecchia Europa?” era stato l’intrigante titolo di un lungo dibattito sulle colonne di “Critica Fascista”. “Eppure giorno verrà, in cui il sovieto, permeandosi di spirito gerarchico e la corporazione di risoluta anima rivoluzionaria, si incontreranno sopra un terreno di redenzione sociale”, scrisse Walter Mocchi su “La Verità” del 13 ottobre 1940. Ma la guerra andò in una direzione totalmente differente, fino al disastro del 1943 e la rinascita del Fascismo con la Rsi, Bombacci, che non ebbe mai la tessera del Pnf, si schierò da subito con la decisione che lo caratterizzava: “Duce, già scrissi in “La Verità” nel novembre scorso – avendo avuto una prima sensazione di ciò che massoneria, plutocrazia e monarchia stavano tramando contro di Voi – sono oggi più di ieri con Voi. Il lurido tradimento del re-Badoglio, che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l’Italia, vi ha però liberato di tutti i componenti di una destra pluto-monarchica del ’22″, affermò perentoriamente in una lettera a Mussolini. L’analisi sopra contenuta conteneva grani di verità: liberati dalle “forze della reazione” (la “destra” interna opportunista e conservatrice), i fascisti stilarono i 18 punti di Verona e diedero inizio alla socializzazione, per lasciare ai posteri un messaggio di civiltà. Le realizzazioni furono comprensibilmente incomplete, per ovvi motivi di tempo e l’ostilità di taluni esponenti di governo e dei tedeschi. Inutile dire che Bombacci si batté entusiasticamente a favore delle riforme, impegnandosi non solo nelle fabbriche ma anche nelle politiche della casa. A questo proposito si impegnò per la stesura e l’attuazione del rivoluzionario punto 15 del Manifesto di Verona: “Quello della casa non è soltanto un diritto di proprietà, è un diritto alla proprietà. Il partito iscrive nel suo programma la creazione di un ente nazionale per la casa del popolo il quale, assorbendo l’istituto esistente e ampliandone al massimo l’azione, provveda a fornire in proprietà la sua casa alle famiglie dei lavoratori di ogni categoria, mediante diretta costruzione di nuove abitazioni o graduale riscatto delle esistenti. In proposito è da affermare il principio generale che l’affitto, una volta rimborsato il capitale e pagatone il giusto frutto, costituisce titolo di acquisto. Come primo compito, l’ente risolverà i problemi derivanti dalle distruzioni di guerra con requisizione e distribuzione di locali inutilizzati e con costruzioni provvisorie». Il “canto del cigno” di Bombacci avvenne nel marzo 1945, quando a Genova tenne un comizio a cui accorsero ben trentamila operai, nonostante la fine della Repubblica Sociale fosse ormai questione di giorni. Erano ancora in tantissimi a voler ascoltare le parole rivoluzionarie di questo “combattente sociale”, le cui scelte furono spesso controcorrente ma mai opportunistiche. Quando morì accanto al Duce, gridò in faccia ai suoi assassini il motto della sua vita: “Viva il socialismo!”. E così proprio lui, quello del “me ne frego di Bombacci/ e del sol dell’avvenire” cantato dai giovani fascisti, scelse di dare tutto al fianco di Mussolini, nel nome del riscatto sociale di una nazione intera. Nel dopoguerra non pochi esponenti (tra quelli rimasti, viste le vendette dei partigiani) di quella “sinistra fascista” che aveva avuto mirabili esempi nei sindacati e nei Guf, confluirono nel Pci, opportunisticamente alla ricerca di quadri competenti per il partito. Il Msi invece nacque tenuto ostaggio dalla “destra”, come ha riportato nei suoi scritti Giuseppe Parlato. Ed infatti, in assenza di colui che aveva saputo tenere in equilibrio le diverse tendenze durante il Ventennio, i “continuatori” del fascismo troppo spesso fecero scelte non in linea con il loro passato. Ma questa è un’altra storia. Francesco Carlesi

PIETRO INGRAO COMPIE 100 ANNI, PRIMA FASCISTA POI COMUNISTA, LA BOLDRINI LO INDICA COME UN ESEMPIO DI COERENZA DEMOCRATICA, scrive il 31 marzo 2015 Valerio Melcore. Auguri a Pietro Ingrao che compie 100 anni. Uno dei più longevi uomini politici italiani. Nato della provincia di Latina da una famiglia di ricchi proprietari terrieri. Di lui si sa quasi tutto, è noto per essere stato all’interno del PCI uno dei compagni più duri. Ha ricoperto diversi e prestigiosi incarichi sia nel Partito comunista che nel Parlamento italiano. Quel che invece non viene detto, per ovvi motivi, e che da giovane, nonostante le tradizioni antifasciste della sua famiglia, aderì con entusiasmo al Fascismo. Tanto è vero che il secondo premio di poesia ai littoriali della cultura dell’anno XIII° và ad un ventenne del GUF di Roma, Pietro Ingrao, per la poesia STAGIONE, il testo viene pubblicato dal giornale di Telesio Interlandi “Quadrivio”. Il 16 settembre 1934 vince, ai bagni di Lucca, il premio di G. Ciano “I poeti del tempo di Mussolini”. Il 28 aprile 1935 partecipa ai Littoriali del 1935 con il GUF di Littoria, in qualità di fiduciario del GUF di Formia. Risulta 10°, dopo Liugi Longo, al Convegno di Organizzazione Politica del Partito Nazional Fascista, del 1935. Come scrive lo storico Aldo Giannuli sul suo blog: “Eterno secondo ai littoriali fascisti della cultura, Pietro Ingrao appartiene a quella seconda generazione di dirigenti comunisti che ebbe la sua prima formazione nell’Italia fascista e che scoprì solo in un secondo momento il comunismo, attraverso il tunnel doloroso della guerra, della Resistenza, per incontrarsi con Togliatti prima ancora che con Gramsci. Si tratta di un tema a lungo eluso, direi esorcizzato, dal Pci, come da tutti i partiti antifascisti, che avevano nel proprio seno, chi più chi meno, uomini passati per il medesimo cammino. E se ne comprende il motivo: il bisogno di presentare la nuova classe politica repubblicana in totale rottura con il passato fascista, reagendo con gelido disprezzo alla pubblicistica fascista (ad esempio “Italia fascista in piedi!” di Nino Tripodi) che sottintendeva, invece, conversioni opportunistiche all’antifascismo. Questo portava alla rimozione del tema ed all’enfatizzazione dell’antifascismo come negazione assoluta ed incontaminata del fascismo. In realtà le cose non stavano così (ne riparleremo) e il fascismo seminò concetti, che poi sono restati, finendo impastati con la successiva cultura politica dell’Italia repubblicana. La cosa non deve né stupire né scandalizzare (come invece accade ad una recente pubblicistica, cito per tutti il lavoro di Mirella Serri “I Redenti” che pure si basa su un’ottima ricerca d’archivio): la storia ha i suoi tornanti e le culture politiche sono corsi d’acqua che spesso si contaminano, magari attraverso passaggi carsici.” Ma leggiamo ancora sul blog aldogiannuli.it . “Ingrao, in particolare, fu influenzato dalla figura e dal pensiero di Giuseppe Bottai, il maggior intellettuale del regime (Fascista) ed, insieme, il gerarca più attivo nel promuovere la formazione delle giovani generazioni: dalle sue riviste presero le mosse alcuni dei nomi migliori dell’intellettualità post fascista ed antifascista, come Salvatore Quasimodo, Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Carlo Muscetta, Mario Alicata, Vitaliano Brancati, Cesare Pavese, Vasco Pratolini, Vittorio Sereni, Giuseppe Ungaretti, Luigi Salvatorelli, Giorgio Spini, Enzo Biagi, Renato Guttuso, Sandro Penna, Eugenio Montale e decine di altri. E diversi di loro, come Giame Pintor, li ritroveremo fra i primi a combattere con la Resistenza. Quella di Bottai fu una sorta di serra degli eretici, della quale, eretico egli stesso, si compiacque. E proprio questo tratto di dirigente politico-intellettuale con vocazione all’eterodossia fu, forse inconsapevolmente, quello che affascinò il giovane Ingrao. Ad avvicinare queste due figure inconsuete del Novecento italiano, non fu solo la propensione all’eresia e la profonda compenetrazione fra politica e cultura, ma anche il gusto del dubbio sistematico, la propensione all’astrattezza (per la verità, più spiccata nel secondo che nel primo), una certa sofisticatezza intellettuale, l’eterna insoddisfazione per la propria ricerca. Ma da questi stessi tratti discesero per entrambi anche il forte narcisismo, l’irresolutezza, la mancanza di tempismo politico, lo scarso coraggio.” Insomma Pietro Ingrao fu tante cose prima Fascista poi Comunista, essere definito, come ha fatto la Boldrini, “un esempio di coerenza democratica”, forse non sarebbe piaciuto neanche a lui. Auguri a questo anziano politico del passato millennio.

Benito Mussolini Socialista, Italia Comunista, ovvero: il Biennio Rosso, scrive Homer (Daniele Novati). Ho sempre pensato con un certo interesse ad un Mussolini ancora socialista prima della Grande Guerra (come del resto era, e pure direttore dell'Avanti) e ancora socialista dopo di essa. Le agitazioni postbelliche di tipo rosso del 1919-1920 in Italia sono molto forti e hanno un peso specifico notevole. Tra l'altro il PSI nel novembre del 1919 era il primo partito con il 32% delle preferenze, quasi tutte le fabbriche del nord erano occupate e più di 400000 lavoratori occuparono gli stabilimenti del triangolo industriale (Milano, Torino, Genova). Mussolini, da socialista convinto si lancia con entusiasmo nella lotta di classe, che sfocia rapidamente in una guerra civile, ma andiamo con ordine:

1918: Il 4 Novembre l'Italia forza l'Austria Ungheria all'armistizio. Intanto in Russia crescono i fermenti bolscevichi, che iniziano a prendere il paese in mano con aspri combattimenti contro le forze “Bianche” e le truppe delle nazioni borghesi. L'Ala Massimalista del Partito Socialista prende la maggioranza su quella Riformista, ben salda nelle mani di Serrati, alla quale aderisce anche Mussolini, sebbene la minoranza riformista Turatiana sia ancora forte e la crescente corrente comunista guadagna sempre più consenso.

1919: Si aprono i lavori della Conferenza di Versailles: l'Italia ottiene Trento, Bolzano, Trieste e parte dell'Istria, ma non Fiume. Forte delusione nazionalista, e aumentata dal carovita e dal ritorno dei reduci dal conflitto, la situazione si fa esplosiva. I Sovietici conquistano l'Estonia in Gennaio, si ritirano da essa nel tardo gennaio e ad inizio febbraio invadono la Ucraina e la occupano, e a metà del mese dichiarano guerra alla Polonia. In Marzo Lenin e Trotskij aprono i lavori della Terza Internazionale Comunista, che chiede l'espulsione dell'ala riformista dal PSI. In questo mese l'Ungheria si costituisce come repubblica socialista; e Benito Mussolini, sempre più fervente massimalista, tendente al comunismo ormai organizza le Squadre di Autodifesa Operaia (SAO) a Milano. In Aprile la Baviera si rende indipendente dalla Germania e diviene una repubblica socialista: sullo slancio del momento è proclamata a Milano una Repubblica Socialista Milanese, il cui triumvirato è composto dallo stesso Mussolini, Serrati e Turati (un componente per ogni corrente del partito, sebbene i Comunisti ormai stiano assorbendo i Massimalisti). Gramsci fonda l'Ordine Nuovo, giornale della corrente Comunista del PSI, che esorta alla lotta. Il Governo Orlando cade in seguito alle agitazioni nelle fabbriche e nelle campagne del Nord, dove i “Rossi” sono molto forti, gli succede Nitti, che proclama lo stato d'assedio a Milano, Genova e Bologna. In Maggio la Germania schiaccia i socialisti rivoluzionari bavaresi e in luglio è restaurata la monarchia in Ungheria, con la reggenza dell'Ammiraglio Horthy. In settembre, reduci, arditi, nazionalisti e teste calde (circa 2500 volontari) attaccano Fiume sotto il comando di D'Annunzio, vengono massacrati dall'Esercito Italiano. La città verrà assegnata all'Italia insieme a Zara e a numerose isole e località dalmate nel 1920. Ad Ottobre, nella Bologna sotto stato d'assedio la corrente comunista è maggioritaria ed espelle i riformisti dal partito, assorbendo la linea Massimalista al proprio interno nasce il nuovo Partito Comunista d'Italia. Le nuove linee guida sono quelle rivoluzionarie e gli operai si armano. Si diffonde capillarmente nelle città il movimento mussoliniano, che organizza ovunque gruppi di difesa delle fabbriche sotto occupazione, con il solo compito di cacciare le forze governative.

1920: Forze Comuniste e Socialiste Rivoluzionarie arrivano ad occupare l'intera Milano, parti di Torino (con la FIAT in mano agli operai dal tardo dicembre), numerose fabbriche in tutto il Nord, la Città di Bologna e vaste porzioni di Romagna e Toscana. I Governativi e i movimenti nazionalisti che si riconoscono nella tentata Impresa di Fiume sono la reazione agli scioperi e alle occupazioni. A Milano il 2 Febbraio si costituisce il governo provvisorio della neonata Repubblica Socialista d'Italia nella quale il socialista rivoluzionario Mussolini è vice commissario generale. Il Commissario Generale è il comunista Amadeo Bordiga. In Luglio, dopo agitazioni rivoluzionarie nel Triveneto le forze nazionaliste di Francesco Giunta bruciano l'Hotel Balkan a Trieste, in tutta risposta le forze rivoluzionarie occupano numerose città venete come Verona e Monfalcone, e la stessa Trieste. La rivoluzione prosegue e si diffonde anche nel Centro Sud, i braccianti si ribellano in tutta la Puglia e la Sicilia, mentre a Canneto Sabino (RI) i Carabinieri sparano sui braccianti che chiedevano una revisione del contratto colonico lasciando undici morti sul terreno. La figura del Re è sempre più compromessa agli occhi della popolazione e il governo Liberal-Popolare minaccia d'espellere i deputati del ex-PSI dal parlamento. Alla seduta successiva tutti i deputati socialisti rivoluzionari e comunisti si dimettono dalla carica e dichiarano decaduto lo stato monarchico italiano. Molti di loro vengono catturati. A macchia d'olio, nel tardo 1920 i Rivoluzionari controllano quasi tutta l'Emilia-Romagna e le Marche odierne, la Bassa Lombardia con Milano, Torino, Genova e numerose località liguri, L'entroterra veneto tra Verona e Treviso, oltre a importanti città friulane come Monfalcone, Cividale, Pordenone e Trieste. La Toscana è quasi del tutto in mano ai rivoluzionari e aree agricole di Puglia, Lazio, Abruzzo e Sicilia sono cadute in mano ai ribelli. Gli Alleati dell'Intesa si affrettano a sostenere i nazionalisti quando si accorgono che il Re è ormai totalmente senza poteri, il governo liberal-popolare è debolissimo e l'esercito è allo sbando, con diserzioni vicine al 40% del totale. Per loro è troppo tardi, le forze nazionaliste dannunziane vengono sconfitte nella Bassa Veneta da una sommossa popolare in seguito al tentato omicidio del deputato Matteotti, riconosciuto come animatore delle lotte nel Polesine. Il consenso verso i nazionalisti è al minimo storico e la fiducia nella monarchia è quasi del tutto un ricordo, i vecchi alleati si presentano restii ad un intervento e perciò la situazione volge rapidamente a favore dei Comunisti e dei Socialisti Rivoluzionari, che si preparano a controllare tutto o quasi il Norditalia nel 1921.

1921: A Livorno si apre il primo congresso del Partito Comunista: ne emergono le importanti figure di Gramsci, Terracini e Bordiga, senza contare quella ingombrante del capo delle SAO, Benito Mussolini. Dal congresso nasce il nuovo giornale di partito, il Comunista, e la linea di condotta di avvicinamento all'URSS; iniziano le collettivizzazioni, gli espropri e il passaggio nel Centro Nord ormai sotto controllo Comunista ad un'economia socialista con elementi della NEP Leninista. Si programma inoltre l'apertura a Milano della nuova Università Proletaria per tutti coloro che saranno meritevoli d'un istruzione superiore anche se non nelle loro possibilità. Il Governo Provvisorio della Repubblica Socialista d'Italia è riconosciuto dall'URSS. Vengono organizzate regolari elezioni nei vari Gruppi Sociali (Soviet) dell'Italia Rivoluzionaria: ne emerge un monocolore comunista a parte la presenza del Socialista Rivoluzionario Mussolini che ottiene il Commissariato della Lotta, (Ministero della Difesa), mentre Gramsci lo sostituisce come Vice Commissario del Popolo, e Bordiga è confermato Commissario Generale del Popolo. La Linea guida del nuovo governo è dura: espropri agli agrari, cessione del controllo delle fabbriche ai Gruppi Sociali di Lavoro (GSL) degli Operai, passaggio della terra alle Comunità Agricole Sociali (CAS), riforma economica, concessione della giornata lavorativa di otto ore, delle malattia, della maternità e della previdenza sociale. Dal punto di vista militare, le SAO confluiscono nel ben più ampio e progettato esercito, l'Armata Rossa Italiana. La Repubblica Socialista controlla tutto il Norditalia in giugno e insedia suoi Commissari del Popolo nelle Prefetture, la Armata Rossa di Mussolini sta schiacciando i nazionalisti e i realisti che si difendono ancora in Valtellina e Carnia, mentre in Toscana, Marche ed Emilia Romagna la situazione è ormai sotto controllo degli insorti. Più a sud dei CAS sono sorti nel Basso Lazio, in Abruzzo, in Puglia e Sicilia, mentre GSL tengono sotto controllo diverse industrie nelle città di Bari, Taranto, Palermo e Napoli. I Liberal-Popolari che controllano ormai solo Roma, la Sardegna, parti dell'Umbria e della Campania, e vaste zone del meridione sono ormai debolissimi e al governo Nitti è sostituito da Facta. Vittorio Emanuele II chiede il supporto degli ex alleati della Prima Guerra Mondiale, ma questi non si vogliono impegnare in un conflitto direttamente, e rispondono picche sebbene stiano aiutando con armi, munizioni e supporto logistico i nazionalisti che si annidano nel Nordest. L'Alto Adige, appena annesso si dichiara per plebiscito austriaco e caccia gli Italiani in Trentino, l'Austria vede la regione dichiararsi indipendente anche se la Società delle Nazioni la assegnerà all'Austria nel 1925. In Novembre le prime riforme diventano operative: la creazione dei GSL non causa molti problemi a causa delle fabbriche occupate fin dal tardo 1919, per quanto riguarda la creazione dei CAS si hanno maggiori problemi perché spesso gli agrari usano delle milizie di sbandati, teste calde e nazionalisti esagitati per difendere le proprie terre e così molte volte bisogna ricorrere alle armi. La giornata lavorativa di otto ore e 15 giorni di malattia vengono riconosciuti ai lavoratori, nei GSL e nei CAS il diritto di voto diviene a suffragio universale, anche femminile. Si progetta la riorganizzazione del governo del territorio, con GSL e CAS riuniti in un'entità più grande, il Settore (Comune) a loro volta riuniti in una nuova suddivisione chiamata Zona (Circondario), che ha un Commissariato del Popolo come centro principale (Prefettura e Provincia). Forze Francesi vengono scoperte nel tentativo di invadere la Valle d'Aosta e le Valli Piemontesi, perciò scoppia la guerra tra Italia Rivoluzionaria e Francia. In quest'anno migrano dall'Italia rivoluzionaria circa duecentomila membri della Borghesia, Agrari e Nobili, ma anche semplici nazionalisti. I Rivoluzionari battono i Francesi a Susa e a Ventimiglia, cacciandoli fuori dai confini nazionali e arrivando ad occupare Mentone e Modane. La Francia riconosce la Repubblica Socialista, che ritira le forze dalla Francia, sebbene Mussolini sia fermamente contrario e chiedeva di estendere la rivoluzione proletaria anche a quei paesi italiani fuori dall'Italia stessa. I successi della riorganizzata Armata Rossa portano alla conquista di Viterbo, Perugia e Teramo, mentre nel Sud la rivolta si fa sempre più accesa.

1922: Viene fondato a Monza l'Istituto Superiore d'Industrie Artistiche, Achille Ratti viene eletto Papa, mentre il 3 Aprile Stalin diviene Segretario del PCUS. Forze Rivoluzionarie marciano su Roma, Re Vittorio Emanuele si imbarca su un piroscafo ad Ostia e si rifugia in Sardegna con il suo entourage. Le forze dell'Armata Rossa guidate da Mussolini sfilano nei Fori Imperiali, mentre nel sud la resistenza monarchica e nazionalista è piegata con la forza, con le vittorie rivoluzionarie del Novembre 1922 a Modugno e a Sibari. I pochi realisti rimasti, i nazionalisti, gli agrari e la borghesia, ma anche numerosi cristiani fuggono dall'Italia Socialista, che si estende dalle Alpi alla Calabria, mentre il Re controlla Sardegna e Sicilia. L'Italia è riconosciuta dalla Svizzera, mentre Squadre di Autonomi conquistano San Marino e ne dichiarano l'annessione all'Italia. Nel tardo 1922 Mussolini tenta il colpo di mano per diventare Dittatore del Popolo, ma né Gramsci, né Bordiga, né Matteotti gli permettono di compierlo e così Mussolini, l'idolo dell'esercito ed eroe della rivoluzione è costretto a fuggire dal proprio paese in Svizzera. (Si noti l'analogia con Trotskij, sebbene quest'ultimo non tentò mai di assumere la leadership dell'Unione Sovietica). A Dicembre i rivoluzionari hanno terminato la suddivisione del paese in zone, settori, gruppi sociali di lavoro e comunità agricole sociali, istituendo le elezioni del Commissariato Generale nel Maggio 1923. Regno Unito, Repubblica di Weimar e numerosi paesi sudamericani, oltre al Commonwealth riconoscono la Repubblica Socialista Italiana. Sul piano delle riforme viene organizzato un abbozzo di previdenza sociale sotto il Commissario alle Necessità Popolari Terracini, vengono nazionalizzati i beni stranieri sul suolo italiano, con il disappunto Inglese, viene inoltre varato il Primo piano quinquennale, con il fine di aumentare la produzione industriale e di raggiungere l'autonomia agricola. Dal punto di vista diplomatico dopo i vari riconoscimenti del nuovo stato italiano, il Commissario agli Esteri, Palmiro Togliatti, si reca a Mosca per conferire con il neo segretario del PCUS Stalin, riguardo una alleanza dei due paesi socialisti in funzione antiborghese e anticapitalistica. Alcune collettivizzazioni nel Centro Sud si rivelano più difficili del previsto e diversi scontri avvengono tra i pochi piccoli proprietari e i braccianti. In quest'anno abbandonano il paese circa trecentomila persone, mentre la guerra civile ha ucciso circa quattrocentomila persone.

1923: Riorganizzazione ulteriore all'interno dello Stato, viene fondata la città di Garibaldi (la nostra Imperia), vengono aboliti ufficialmente i partiti differenti dal PCI il 10 febbraio sono sciolti dal commissariato Bordiga, che stava in quel periodo concludendo il proprio mandato popolare: si presentano quattro “liste” alle elezioni del Maggio 1923:

- Sinistra (candidato Commissario Amadeo Bordiga), posizioni molto internazionaliste, vuole una abolizione del centralismo democratico dell'URSS adottato finora e l'adozione del sistema del centralismo organico, che consisteva nell'utilizzo delle varie cellule del partito in modo quasi biologico e simbiotico che partecipano insieme al tutto e quindi alla organizzazione e gestione dello stato.

- Centro (candidato Commissario Antonio Gramsci), posizioni più moderate riguardo l'internazionalismo, sebbene sia molto importante questa componente all'interno della corrente, moderatamente approva una bolscevizzazione ulteriore del partito e del paese. Sostiene il centralismo democratico Leninista.

- Destra (candidato Commissario Angelo Tasca), posizioni meno forti e apertura ad una possibile creazione di liste non comuniste e quindi non del PCI. Antistalinista e con posizioni vicine alla vecchia ala massimalista.

- Ex-Socialisti (candidato Commissario Giacinto Menotti Serrati), ultimi superstiti degli ex-massimalisti, fortemente antistalinisti, posizioni tiepide verso Lenin, per un ritorno alla democrazia popolare e un'attuazione meno dura della rivoluzione.

I voti delle 167 Zone esistenti si distribuirono in questo modo:

- 87 Commissari per la Sinistra (52,09%)

- 41 Commissari per il Centro (24,55%)

- 25 Commissari per la Destra (14,97%)

- 14 Commissari per gli Ex-Socialisti (8,39%)

Questo comportò la rielezione di Bordiga per la terza volta a Commissario Generale del Popolo, come Vicecommissario venne scelto Palmiro Togliatti, alle Necessità Popolari (Lavoro, Sanità, Scuola) venne posto Grieco, alla Lotta (Difesa,Ordine Pubblico) Terracini,  agli Esteri Antonio Gramsci. In Germania il nazionalsocialista Adolf Hitler prende il potere del Lander di Baviera, vincendo le elezioni con il NSDAP.

1924: Muore Lenin, gli succede Stalin. Cordoglio di tutto il PCI e del governo Socialista Italiano. Nasce il giornale dell'Unità, fondatore il Commissario agli Esteri Gramsci. Il commissario di Rovigo, componente del gruppo Ex-Socialista, Giacomo Matteotti viene ucciso da forze della sinistra del PCI, crisi politica; la Sinistra perde una ventina di commissari che si dimettono in seguito alle indagini, che li ritrovano collusi, Bordiga mantiene il governo, ma è costretto a concedere numerosi compromessi al Centro Gramsciano, che porta a termine il proprio piano di partecipazione democratica al partito e quindi al governo del paese. Homer

Ed ecco ora la continuazione di Ainelif: (Pivo Squash)

1925: Il plebiscito che anni prima aveva sancito il ritorno del Trentino Alto-Adige all'Austria è impedito da una reazione di alcuni soldati italiani posizionati in Lombardia e Veneto che occupando le strade di Trento appendono la bandiera italiana con la falce e il martello sul municipio. Il governo di Vienna invita gli Italiani a ritirarsi dalla regione altoatesina e si affida alle sanzioni della SdN, sperando che essa sappia domare lo spirito irredentista della rossa Italia; ma l'Armata Rossa Italiana il 3 gennaio ben riammodernata quasi al livello delle grandi potenze occidentali travolge le fanterie austriache sul confine ed entra prima a Trento e poi a Bolzano dove è cancellata ogni segnaletica germanica e perseguitata duramente la tedescofilia; l'Austria, uno dei paesi più sconfitti della Prima Guerra Mondiale non può che accettare e rimanere muta di fronte alla riannessione italiana del Trentino Alto-Adige, successivamente la Repubblica Socialista Italiana esce dalla Società delle Nazioni che vi era entrata pochissimi anni prima. Il Commissario Bordiga esautora il Parlamento e dichiara di volersi impossessare delle colonie d'oltremare di Libia, Eritrea, Dodecaneso e Somalia; ma difetta del problema di bolscevizzare l'intero corpo militare italiano ed eliminare il rimanente Regno Sabaudo ridotto alle sole Sicilia e Sardegna. Inizia l'instaurazione di una dittatura comunista nazionale, come la definisce Togliatti "Via Italiana al Socialismo" che è incaricato da Bordiga di sciogliere ogni partito politico che non sia di ispirazione radicale di sinistra; le SAO mussoliniane compiono stragi efferate in Emilia-Romagna nei confronti di nobili ed aristocratici che rifiutano al dover rinunciare ai propri beni e titoli, è il caso dei Visconti e Sforza che sfuggono alle persecuzioni sempre in Francia e Austria. Per quanto riguarda le elezioni, una speciale legge le abolisce sostituendole con dei plebisciti popolari; il Commissario del Popolo però è vista come una carica politica debole, quasi facilmente corruttibile e deponibile dalle forze "reazionarie" esterne occidentali così, il Ministro degli Interni, Gramsci crea il Gran Consiglio del Popolo, formato dai massimi esponenti del Partito.

1926: Alcide De Gasperi, il nuovo segretario del Partito Popolare Italiano aizza i partigiani cattolici nel loro movimento clandestino anticomunista Giustizia e Libertà, una formazione che riunisce anche i Liberali; in più lo stesso leader cattolico centrista ha preso la cittadinanza a Parigi insieme al repubblicano Randolfo Pacciardi e a monarchici come Italo Balbo e il celebre poeta Gabriele d'Annunzio. L'Italia Socialista viene ad essere in conflitto con la Spagna di Miguel Primo De Riviera appoggiato dal Re Alfonso XIII di Borbone per l'abisso ideologico e politico; il Frent Popular spagnolo è finanziato dal regime comunista italiano al fine di sovvertire il sistema politico iberico e trovare un forte alleato. Il governo portoghese per non cadere ad una rivoluzione rossa dà la propria accondiscendenza ad Antonio De Oliviera Salazar, che a Lisbona trasforma la debole repubblica portoghese in regime fascista. Hitler costruisce un regime totalitario nazista dove promulga le prime leggi razziali a danni di ebrei, comunisti, e democratici, la Baviera diventa uno degli stati più ricchi del Mitteleuropa.

1927: Il regime dittatoriale staliniano avvicina la R.S.I. alle politiche moscovite, ma Bordiga nega un'influenza politica sovietica su quella italiana. Mussolini dopo essersi ripreparato in territorio svizzero con purghe delle SAO diventa Alto Generale dell'Armata Rossa Italiana che con il consenso del governo centrale inizia una guerra personale contro la monarchia sabauda sbarcando a Messina nel mese di maggio; i Siciliani sono in maggioranza anticomunisti ferventi e non accettano l'ascesa della R.S.I., i Savoia fomentano i banditi siculi e latifondisti sull'isola contro l'Armata Rossa Italiana che commette crimini fuori dal comune e impicca Salvatore Giuliano (nella Timeline più vecchio) a Palermo dopo aver conquistato ogni angolo della Trinacria. In pochi mesi, gli incrociatori italiani circondano la Sardegna, il Re Vittorio Emanuele III chiamato satiricamente dai rossi "Re Sciaboletta" non si arrende e difende per mare e per terra la sua residenza a Cagliari dove l'11 agosto viene fucilato per ordine del nuovo Dittatore del Popolo, Benito Mussolini che ha provveduto ad emarginare Amedeo Bordiga nel ruolo di Commissario delle Colonie d'Oltremare dopo che i Savoia sono stati dichiarati decaduti; nella notte fra il 13 e il 14 agosto, il legittimo erede al trono Umberto II con Maria Josè del Belgio fuggono a Londra con i più fedeli monarchici e l'avvocato reale Falcone Lucifero. L'esercito italiano provvede ad occupare tutte le colonie oltre il Mediterraneo, con migliaia di deportazioni di oppositori libici ed abissini al comunismo nazionalista del "Duce". Trattato di mutua non-aggressione di Addis Abeba tra Repubblica Socialista d'Italia e l'Impero Abissino in ottobre. In Albania, Zogu instaura una repubblica eleggendosi presidente a vita e poi autoproclamandosi re, inimicandosi la vicina Italia che cerca nuove zone dove esportare la rivoluzione.

1928: in marzo occupazione di Tirana da parte delle truppe italiane, alcuni navigli entrano nelle baie di Durazzo e Valona bombardando la costa per impaurire gli Albanesi che hanno provveduto ad organizzare sotto dettatura del Re Zog I una guerriglia civile sulle montagne destinata a dilungarsi oltre questo anno. Sanzioni da parte della SdN all'Italia che si riavvicina all'Unione Sovietica e alla Repubblica Popolare Tedesca; la Baviera Hitleriana e la Polonia di Pilsudki il 3 febbraio si alleano militarmente nel Patto Monaco-Varsavia con la visita del Fuhrer bavarese nella capitale polacca. Il Re Paolo II di Jugoslavia posiziona alcune sue legioni militari ai confini albanesi insieme alla Grecia che vede a rischio la propria integrità territoriale nella penisola balcanica. 1929: Venerdì Nero negli USA, si scatena la Grande Depressione con il crollo di Wall Street a New York; milioni di elettori statunitensi non fidandosi dei partiti della sinistra americana che alcune voci infangano accusandola di voler instaurare un regime comunista nel Nordamerica danno la propria fiducia ai Repubblicani di Herbert Hoover, simpatizzante dei regimi autoritari di destra europei, è sconfitto il simpatizzante stalinista Franklyn Delano Roosvelt dei Democratici. In seguito alla crisi falciatrice che devasta anche i Paesi scandinavi, in Norvegia il Re Olaf dà il proprio consenso al nazionalista Vidkun Quisling che provvede ad annunciare prima ad Alesund e poi ad Oslo la costituzione dell'Impero Norvegese, rivale delle vicine Danimarca e Svezia.

1930: In questo anno, i disastri della Grande Depressione si sentono maggiormente in tutta l'America e in Europa. In Francia le proteste operaie e contadine a Lione, Parigi e Marsiglia si dimostrano più violenti ed aggressivi; il governo italiano vedendo la situazione prende contatti con Maurice Thorèz, capo dei Comunisti Francesi per sovvertire la Terza Repubblica, il premier Andrè Tardieu estromette la sinistra radicale dall'Assemblea Nazionale di Parigi provocando una grave scissione politica oltrechè una crisi senza precedenti. Stalin vorrebbe fornire a Thorèz equipaggiamenti sovietici per scatenare una guerra civile in Francia ed eliminare la "presenza reazionaria". In Spagna, il Re Alfonso XIII vede l'incapacità politica di De Riviera e lo licenzia, i problemi principali del paese sono ancora evidenti e alle elezioni municipali i movimenti di sinistra repubblicana del Frent Popular guidati dal "Lenin spagnolo" Francisco Largo Caballero e da Juan Negrìn in aprile ottengono un grande successo elettorale. La monarchia grida ai brogli ed Alfonso XIII non abdica e dunque non prende nemmeno la strada per l'esilio, rimane sul trono e più determinato che mai si ostina a voler un democratico referendum; i comunisti più estremisti non accettano compromessi con lo stato borghese; l'8 giugno scoppia la Guerra Civile Spagnola anticipatamente alla nostra Timeline, il vicino Portogallo sotto il regime di Salazar non interviene ma è favorevole alla vittoria dei Franchisti, che si sono riuniti sotto l'emblema falangista e di destra di Francisco Franco Bahamonde, già governatore delle Canarie. Totale annientamento degli ultimi ribelli libici nel Fezzan da parte della poderosa operazione militare varata dal Generale Graziani per italianizzare la Libia, la dinastia dei Senussi ripara a Il Cairo.

1931: Manifestazioni studentesche di protesta a Washington contro il presidente Hoover che in segreto aveva visitato la Monaco di Hitler rimanendo impressionato dall'architettura nazista e dai suoi progetti politici. L'Armata Rossa Italiana occupa il Canton Ticino ricevendo minacce economiche e sanzioni dalla Svizzera e dalla SdN. Mussolini annuncia insieme a Stalin in visita a Roma di dichiarare guerra alla Falange franchista e sostenere i repubblicani, viene approvato dal Gran Consiglio del Popolo l'invio di ingenti soldati italo-sovietici in Spagna. Il 20 agosto Edouard Herriot, Premier di Francia, incapace di reggere le sorti di estremi fanatismi che si contendono il potere del paese si ritira dalla vita politica e dà il posto governativo con un plebiscito speciale in Parlamento a Henri-Philippe Pètain, già prossimo alla pensione ed eroe militare nel primo conflitto mondiale contro i Tedeschi. Col suo esercito personale dei Maquis (in questa Timeline sono la versione delle SS in francese) aveva annientato 50.000 soldati civili che si erano schierati con il Front Populaire.

1932: Iniziano le prime riprese economiche negli USA, il proibizionismo degli anni '20 si dilunga anche in questo decennio provocando l'accrescimento di opposizione e delinquenza, specialmente negli stati federali meridionali. Fallito attentato a sfondo comunista a Pètain a Lione, il Maresciallo proclama la Quarta Repubblica Francese, mettendo fuori legge il Partito Comunista e quello Socialista, Léon Blum rimane ucciso dall'assalto dei Maquis alla sede della sinistra nazionale, Thorèz invece fugge a Mosca prendendo la cittadinanza russa. Il Regno Unito condanna gli assalti petainisti aldilà della Manica e simpatizza per i democratici di sinistra affinchè rimettano in sesto la democrazia, Ramsay MacDonald, Primo Ministro britannico laburista emargina il BUF (British Union of Fascists) ed esilia in Irlanda il loro capo Oswald Mosley. In giugno, l'Impero Norvegese vara le leggi razziali sul modello bavarese, Quisling inoltre invia qualche contingente militare in aiuto ai Franchisti.

1933: Con l'annuncio di Pètain di voler difendere il suolo francese dal comunismo, all'inizio dell'anno all'Eliseo proclama il Terzo Impero di Francia sotto la sua stessa corona, Imperatore dei Francesi e Gran Maresciallo, vengono abolite le libertà fondamentali, e sostituite le normali elezioni con plebisciti come accadeva sotto Napoleone III. Repubblica Popolare Tedesca e R.S.I. intensificano i rifornimenti ai repubblicani spagnoli che entrano il 19 aprile dello stesso anno a Madrid abolendo la monarchia e cacciando dal trono Alfonso XIII; i Franchisti si accalcano ai confini francesi e portoghesi per sfuggire alle persecuzioni rosse, nasce la Seconda Repubblica o Repubblica Socialista Spagnola; iniziano durissime ripercussioni contro cattolici, anticomunisti e preti in tutto il paese che provocheranno la morte di circa 6800 religiosi e quasi un milione di civili, Francisco Franco si ritira in esilio negli USA. Mentre in Ucraina si scatena una carestia disastrosa che provocherà decine di milioni di morti, il regime staliniano saldamente al Cremlino deporta chi non va a genio al Conducator russo nei campi di internamento siberiani chiamati "gulag". Il Ministro degli Esteri britannico, Neville Chamberlain si reca a Monaco per convincere Hitler a non annettere l'intera Austria alla Baviera, cosa che avviene a marzo con l'entrata delle truppe naziste a Vienna, avviene l'Anchluss, "l'Appeasement" fallisce miseramente e il leader dei Conservatori, Winston Churchill condanna lo stesso Chamberlain come un incapace.

1934: Secondo incontro tra Mussolini e Stalin a Trieste con gli sguardi degli Esteri di Togliatti e Molotov, nasce il Cominform come alleanza tra paesi socialisti, vi entra anche la Germania; la Spagna invece si astiene. I Giapponesi impongono nello stato collaborazionista di Manciuria una monarchia sotto l'ultimo Imperatore della Cina, Pu Yi che nel 1911 a soli cinque anni aveva abdicato e lasciato il trono; l'esercito Manciù, filonipponico occupa la Mongolia in primavera venendo in conflitto con l'Unione Sovietica che posiziona ai confini asiatici alcune sue legioni militari. Chiang Kai-Shek, l'erede delle idee popolari di Sun Yat-Sen, primo presidente cinese, ritorna nella scena politica a Pechino prima rendendosi amici gli apparati governativi e i Signori della Guerra, con questi appoggi prende il potere, e crea la Repubblica Nazionale Han, usando l'esercito del Kuomintang come polizia segreta e repressiva. La Norvegia occupa Reykjavík e tutta l'Islanda, il regime di Quisling discrimina pesantemente gli Inuit, non conformi alle discendenze vichinghe e quindi "divine". 

IL DUCE ISLAMISTA.

Benito Mussolini alle porte di Tripoli (Libia), il 20 marzo 1937, innalza la "spada dell'Islam", la cui elsa è in oro massiccio, e si proclama "protettore dell'Islam", prima di entrare in città alla testa di 2.600 cavalieri.

Il Duce amico dell'islam (persino nel cognome). C'è stato un tempo in cui l'Italia poteva vantarsi di avere stretto intensi rapporti con il mondo di Maometto, scrive Giancarlo Mazzuca, Venerdì 05/08/2016, su “Il Giornale”. Sotto i colpi dei micidiali attentati perpetrati dai terroristi dell'Isis, ora l'Europa intera, nonostante le parole del Papa, guarda all'Islam con sentimenti d'odio e di grandissima paura. Ma c'è stato un tempo in cui l'Italia poteva vantarsi, pur tra luci ed ombre, di avere stretto intensi rapporti con il mondo di Maometto. Un grande «feeling» che venne propiziato dall'affettuosa amicizia che il futuro duce intrattenne, quando era ancora direttore dell'Avanti!, con la giornalista Leda Rafanelli di fede musulmana. E che, poi, culminò con il matrimonio di Tripoli del 20 marzo 1937, testimone di nozze Italo Balbo, quando un impettito Mussolini, in sella a un magnifico puledro, sguainò la famosa spada dell'Islam ricevuta in dono dai berberi. Quell'immagine è diventata il simbolo di un lungo corteggiamento nato nel 1919, prima ancora della Marcia su Roma, con la pace di Versailles alla fine della Prima guerra mondiale. Quella conferenza più che un trattato si rivelò, infatti, un vero e proprio «diktat» non solo per la Germania sconfitta, ma anche per l'Italia che, pure, quella guerra l'aveva vinta. A ispirare lo spirito di rivalsa nei confronti dell'asse franco-inglese era stato Gabriele D'Annunzio, il Vate della «vittoria mutilata» e il protagonista dell'impresa di Fiume, che mise il Belpaese sullo stesso piano del mondo arabo da sempre in conflitto con le potenze coloniali. Pur con le dovute differenze, il nazionalismo che cominciava a serpeggiare in una parte dell'Europa era della stessa matrice di quello che già si respirava sulla «quarta sponda». Revanscisti gli uni, revanscisti gli altri, divenne quasi naturale cercare punti d'incontro. Se la conquista dell'Etiopia venne presentata - i due amici-nemici Mussolini e D'Annunzio in primis - come la guerra santa contro il Negus Hailé Selassié, nemico dichiarato dei musulmani, il «bel suol d'amore», Tripoli, diventò il terreno fertile per rinsaldare quell'intesa cordiale che oggi sembra davvero una grandissima utopia. Nel 1939, infatti, il governatore Balbo, nonostante i dissapori con il duce, fece ottenere la cittadinanza speciale italiana a tutti i libici islamici della costa, a differenza dei beduini e degli ebrei che restavano cittadini di serie B. Ci furono, in quegli anni, tanti punti d'incontro: se già nel 1934 Radio Bari cominciò a trasmettere programmi in lingua araba perché la comunicazione era un pallino del duce, i rapporti commerciali con i Paesi dell'Islam divennero intensi tanto che lo Yemen dell'imam Yahyà si trasformò, di fatto, in un protettorato italiano. Parallelamente, dalle parti della Mezzaluna, si diffusero movimenti giovanili che guardavano al fascismo con particolare interesse, dalle Falangi Libanesi al Partito Giovane Egitto, dalle Camicie Verdi a quelle Azzurre. Anche allora, comunque, non tutti si trovarono d'accordo sull'innamoramento per gli «infedeli»: a parte il malumore di qualche alto prelato, è il caso di Leo Longanesi, romagnolo come Mussolini e amico della prim'ora, che, all'indomani dell'«incoronazione» del duce con la spada dell'Islam, sentenziò: «Sbagliando s'impera». Eppure, piccola curiosità, il fatto che Benito fosse amico del mondo musulmano starebbe nel cognome stesso: secondo un'ipotesi, non del tutto infondata, Mussolini deriverebbe da muslimin, plurale di muslin che, in arabo, significa musulmano. Strani gli scherzi del destino...

Quando il Duce in Africa sguainò la Spada dell'Islam. Nel 1937, giunto in Libia, il capo del fascismo promise alle popolazioni locali «pace e benessere», scrivono Giancarlo Mazzuca e Gianmarco Walch, Domenica 12/03/2017, su "Il Giornale". Nel marzo 1937 andò in onda l'apoteosi di Mussolini: il coronamento del suo sogno africano, musulmano e islamico. Tutto si consumò in pochi giorni con la missione del duce in Libia, organizzata minuto per minuto da Italo Balbo, il mitico trasvolatore nominato il 1º gennaio 1934 governatore a Tripoli, che allora si rivelò vincente sul piano politico e propagandistico. Una vera e propria passerella che Benito concluse, in sella a un cavallo, sguainando la famosa Spada dell'Islam, simbolo dell'autoincoronazione come «protettore dei fedeli di Allah». Sbarcato il 12 marzo a Tobruk dall'incrociatore Pola, il capo del fascismo percorse la Via Balbia, la litoranea dedicata a Italo Balbo e da lui voluta, che congiungeva Tripolitania e Cirenaica, fino ad allora sprovviste di proprie reti stradali. (...) All'inizio della missione il capo del fascismo si mosse con prudenza. A un gruppo di giornalisti egiziani dichiarò: «Dite, dite ai vostri lettori che il Governo e il popolo italiano desiderano vivere con il popolo egiziano nei termini della più cordiale simpatia e amicizia». D'altronde, il viaggio in Libia aveva soprattutto lo scopo di consolidare il consenso attorno al regime, dopo la crisi, a cavallo del decennio, dovuta soprattutto alla riduzione dei salari. Raccontavano le cronache dettagliate dei cronisti al seguito, embedded si direbbe oggi, che il duce aveva visitato città, villaggi e concessioni, passato in rivista formazioni militari, regionali e indigene. Aveva sostato nelle Case del Fascio, nelle scuole. Si era interessato della vita dei coloni e delle aspirazioni dei locali. Al villaggio Luigi Razza, nelle vicinanze di Cirene, l'avevano accolto emigrati dall'Abruzzo e dalla Calabria, ottanta famiglie, seicentoventisette persone. Proseguendo lungo la litoranea, Mussolini aveva inaugurato l'Arco dei Fileni. Notte in tenda, gli ascari a fargli da guardia d'onore. All'alba, alle 5.30, rito dell'alzabandiera, poi in auto all'aerodromo «Arae Philaenorum», la gloriosa e furba reminiscenza dei due fratelli cartaginesi, i Fileni, che si erano scontrati, loro lealmente, in una gara di corsa contro avversari di Cirene: parola di Sallustio. A quel punto, Mussolini salì su un trimotore, rotta Sirte. Quindi Tauorga, Misurata, Tripoli. Vi arrivò poco dopo il tramonto. Alle mura, scese dall'auto e fece un ingresso scenografico a cavallo, primo di 2600 cavalieri. Trionfo. Ovazioni. Bagno di folla. Il giorno dopo il duce aveva inaugurato la Fiera di Tripoli pronunciando il primo dei due discorsi politici di peso nel corso della missione. (...) «Nel 1926 io venni qui per dare quello che fu chiamato, e come tale rimase nelle cronache, uno scossone alla Colonia. I risultati sono visibili agli occhi di chiunque. Corona, questa opera di trasformazione, la Litoranea libica, impresa gigantesca, che soltanto ingegneri italiani e operai italiani potevano portare a compimento in termine di tempo rapidissimo». Agli altri, ai musulmani, riservò poche parole. E una sintetica assicurazione: «Le popolazioni musulmane sanno che, col tricolore italiano, avranno pace e benessere e che le loro usanze e, soprattutto, le loro religiose credenze saranno scrupolosamente rispettate». Benito si doveva già barcamenare nelle sabbie mobili della guerra civile spagnola ed era costretto a replicare agli allarmismi «nevropatici» diffusi dalla stampa internazionale: «Questo viaggio è imperialista? Sì, nel senso che a questa parola hanno dato, danno e daranno i popoli virili. Ma non ha disegni reconditi e mire aggressive contro chicchessia. Ci armiamo sul mare, nel cielo e sulla terra, perché questo è il nostro imperioso dovere di fronte agli armamenti altrui». (...)

Il 18 marzo, Benito aveva assistito a un'azione tattica, ammirato una «fantasia» indigena, inaugurato scuole. Finalmente era arrivato all'oasi di Bùgara, dove lo attendevano duemila cavalieri arabi. Quando apparve sulla duna più alta, i tamburi cominciarono a rullare freneticamente al triplice grido di guerra «Uled!». Ed ecco, Mussolini, in sella a uno splendido cavallo, ricevere la Spada dell'Islam finemente decorata con fregi in oro massiccio. A consegnargliela Yusuf Cherbisc, un capo berbero grande sostenitore dell'alleanza con gli italiani, che si rivolse al duce con queste parole: «Vibrano accanto ai nostri animi in questo momento quelli dei musulmani di tutte le sponde del Mediterraneo che, pieni di ammirazione e di speranza, vedono in te il grande uomo di Stato, che guida con mano ferma il nostro destino».

Benito sguainò la spada puntandola verso il sole. E lanciò a sua volta il grido di guerra. Con tutto il seguito, rientrò poi a Tripoli: in piazza Castello l'attendeva una folla immensa. Sempre a cavallo, la spada assicurata alla sella, Mussolini era salito su una piattaforma di terra pressata. «Saluto al duce!» ordinò Balbo, che aveva fatto proprio un recente ordine di servizio: il capo del fascismo viene prima del re. «Uled!» urlarono ancora, tre volte, i cavalieri arabi, ritti sulle staffe. Un imperioso cenno di silenzio. A quel punto, fece risuonare le parole tanto attese, anche dalle cancellerie europee: «Musulmani di Tripoli e della Libia! Giovani Arabi del Littorio! Il mio Augusto e Potente Sovrano, Sua Maestà Vittorio Emanuele III, Re d'Italia e Imperatore d'Etiopia, mi ha mandato, dopo undici anni, ancora una volta su questa terra dove sventola il tricolore per conoscere le vostre necessità e venire incontro ai vostri legittimi desideri». E la spada? «Voi mi avete offerto il più gradito dei doni: questa spada, simbolo della forza e della giustizia, spada che porterò e conserverò a Roma fra i ricordi più cari della mia vita. (...) L'Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell'Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all'Islam e ai Musulmani del mondo intero». Quindi, non solo Tripoli e Addis Abeba, ma anche Egitto, Palestina, Siria: dovunque i muezzin diffondevano la parola di Maometto. Chiusura con un ultimo punto esclamativo: «Voi sapete che io sono un uomo parco nelle promesse, ma quando prometto mantengo!». Con la spada brandita, il duce aveva lanciato il suo grande messaggio. (...) A coronamento dell'operazione, l'anno successivo, nella stessa piazza Castello di Tripoli verrà eretto un monumento a Mussolini. L'iscrizione sul basamento di travertino era tutta un programma: «A Benito Mussolini/ pacificatore/ redentore della terra di Libia/ le popolazioni memori e fiere/ dove fiammeggiò la spada dell'Islam/ consacrano nel segno del Littorio/ una fedeltà che sfida il destino». Il dado era, ormai, tratto. (...) Dalla sfida con il destino anche la Spada dell'Islam, non solo il fascismo, uscì sconfitta. La sua sorte la rivelò Rachele Mussolini: «Era conservata in una teca di vetro alla Rocca delle Caminate. Fu rubata nel 1943, quando la Rocca venne devastata dagli antifascisti». (...) Probabilmente neppure lei sapeva che il simbolico manufatto non era stato forgiato da abili artigiani berberi, come voleva la leggenda, ma era d'importazione toscana: prodotta dalla ditta Picchiani e Barlacchi made in Florence. E forse non sapeva neppure che la fotografia di Benito a cavallo che sguaina la spada era un falso. Be', non totalmente. Solo era stato cancellato il palafreniere che, per sicurezza, reggeva le redini al quadrupede. Vizio classico dei regimi, manipolare le foto... E non solo.

Mussolini e la Mezzaluna: un rebus mai risolto. In quell'asse con il mondo islamico ci furono anche punti oscuri come l'alleanza con il Gran Muftì di Gerusalemme, un personaggio molto discutibile che faceva l'occhietto a Hitler, scrive Giancarlo Mazzuca, Lunedì 20/03/2017, su "Il Giornale". Con l'amico Renato Farina ho combattuto tante battaglie politiche e giornalistiche e raramente ci siamo trovati su fronti opposti. È successo ieri quando sulla prima pagina di Libero, recensendo per la verità molto bene il libro Mussolini e i musulmani che ho scritto con Gianmarco Walch, il collega parla di «peccato mortale del duce» che spalancò le porte all'islam. Secondo lui è stato proprio il duce che ha, così, trasformato l'Italia in un avamposto musulmano del mondo occidentale. Io penso esattamente l'opposto. Lungi da me appoggiare in qualche modo una dittatura di per sé esecrabile. Ma nel caso dei rapporti con l'islam il duce aveva visto giusto, tanto è vero che fieri avversari del fascismo, come furono nel Dopoguerra i democristiani Enrico Mattei, Aldo Moro e Giulio Andreotti, cercarono di portare avanti anch'essi quella politica di convivenza ufficializzata esattamente ottant'anni fa, il 20 marzo 1937, con la consegna a Mussolini della Spada dell'islam vicino a Tripoli. In quell'occasione il romagnolo disse: «L'Italia fascista intende assicurare ai musulmani di Libia e di Etiopia la pace, la giustizia, il benessere e il rispetto delle leggi del Profeta». E non furono solo parole di circostanza perché proprio a Tripoli, grazie al governatore Italo Balbo, i musulmani, dal 1939, diventarono cittadini equiparabili a tutti gli effetti ai residenti italiani. Facendo il confronto con lo sbarco sulle nostre coste di migliaia di clandestini provenienti proprio dalla Libia, Balbo fu capace di gettare veri ponti verso il mondo arabo: oggi ne avremmo bisogno. È vero, in quell'asse con il mondo islamico ci furono anche punti oscuri come - ricorda Farina - l'alleanza con il Gran Muftì di Gerusalemme, un personaggio molto discutibile che faceva l'occhietto a Hitler. Per non parlare del maresciallo Rodolfo Graziani il quale, dopo un attentato, si macchiò di una brutale repressione contro i cristiani copti in Etiopia. Eppure dietro il feeling di Benito con l'islam non c'erano solo motivi di mera convenienza politica (gli italiani erano stati «mutilati» nel trattato di Versailles come i Paesi islamici) ma anche da ragioni culturali che risalgono, secondo lo storico Franco Cardini, addirittura alla Rivoluzione francese. Del resto, l'avvicinamento all'islam non impedì al duce di avere buoni rapporti pure con il Vaticano con cui aveva già stretto i Patti Lateranensi del 1929 e proprio negli stessi anni dell'avvicinamento all'islam, Mussolini divenne cavaliere di gran croce dell'Ordine di San Sepolcro. Un po' di qua e un po' di là. Giancarlo Mazzuca

IL FEDIFRAGO BENITO MUSSOLINI.

Mussolini a luci rosse, svelata la vita sessuale del Duce: «Era violento e insaziabile», scrive Federica Lupino il 25 febbraio 2016 su "Messaggero". "Voglio essere brutale con te". E poi: "Sono un animale selvaggio". Un Benito Mussolini inedito quello che emerge dalle pagine di “Claretta: Mussolini’s Last Lover”, una sorta di biografia a luci rosse scritta dallo storico inglese R.J.B. Bosworth per la Yale University Press. Uno spaccato inedito da cui emerge un uomo “malato di sesso” e insaziabile, come rivelano gli stralci pubblicati dal Daily Mail. Già sin dall’adolescenza, il futuro Duce era un regolare frequentatore di bordelli. Per tutta la vita, a chi lo circondava raccontava che per eccitarsi doveva immaginare che la donna con cui condivideva il letto fosse una prostituta. Crescendo, col potere è aumentata anche la sua voglia sessuale: lo storico racconta come pretendesse di avere rapporti con quattro donne diverse al giorno. E per sceglierle coinvolgeva i suoi collaboratori: dovevano leggere tutte le lettere delle ammiratrici e selezionare quelle che pensavano fossero più adatte a soddisfare le fantasie del Duce. Le sue preferenze ricadevano spesso sulle sposate. Bosworth sostiene che per Mussolini fare sesso equivaleva a stuprare: l’atto non durava più di cinque minuti, non si interessava minimamente di provocare piacere nella partner, preferiva le donne di classi sociali basse perché quelle potenti lo intimidivano. Addirittura quando la figlia del re, la principessa Maria Josè, ha tentato di sedurlo spogliandosi davanti a lui in una cabina al Lido di Roma, si è tirato indietro. Quante osavano resistergli scatenavano invece ancora di più la sua aggressività. In una lettera lo stesso Duce ha descritto lo stupro di una vergine: “L’ho afferrata per le scale, l’ho buttata in un angolo dietro una porta e…”. Dopo essere tornata dal viaggio di nozze, Claretta è corsa dal Duce e il rapporto tra i due sarebbe stato tanto violento da lasciarle segni dei denti sulla spalla e nell’orecchio. Proprio alla sua amante confessò: "Perdo il controllo". E ancora: "Perché il mio amore si esprime con una tale violenza?”. Lei scrive di avergli risposto così: "Mio grande amore, eri aggressivo come un leone, violento e potente".

La biografia a luci rosse di Mussolini: sesso violento, prostitute, stupri. Le rivelazioni shock, scrive “Libero Quotidiano" il 25 febbraio 2017. Era appassionato, brutale, "malato di sesso". E' un Benito Mussolini a luci rosse quello rappresentato nell'ultima biografia su Claretta Petacci dello storico inglese Richard Bosworth. Il Daily Mail, svela alcuni passaggi del libro. Si parte dall'adolescenza del Duce. Il giovane Benito era un frequentatore del bordello della città e per tutta la vita avrebbe sostenuto che per eccitarsi doveva immaginare che la donna con cui condivideva il letto fosse una prostituta. Nella biografia si racconta che per Mussolini fare sesso equivaleva allo stupro e che il suo desiderio sessuale era insaziabile. Aveva bisogno di quattro donne al giorno. Si dice anche che dopo il 1922 il suoi collaboratori dovevano vagliare le lettere delle ammiratrici e selezionare le candidate alle sue notti di sesso. Bosworth sostiene anche che il sesso con il Duce raramente durava più di cinque minuti e che Mussolini non aveva alcun interesse a dare piacere alla sua partner. Non gli piacevano le donne potenti, perché lo inibivano. Addirittura quando la figlia del re, la principessa Maria Josè, ha tentato di sedurlo spogliandosi davanti a lui, il Duce si è ritratto. A Claretta confessò: "Perdo il controllo", "voglio essere brutale con te". E ancora: "Perché il mio amore si esprime con una tale violenza?", "sono un animale selvaggio". E lei: "Mio grande amore, eri aggressivo come un leone, violento e potente".

E poi ci sono le donne fantasma di Mussolini. Il libro di Manola Aramini, uscito lo scorso anno, sarà presentato domenica 23 marzo a Novi Ligure, scrive Emma Moriconi il 13/03/2014 su “Il Giornale D’Italia”. Opinioni sul lavoro della scrittrice, che presenta una certa originalità ma che inciampa negli stereotipi. È un libro che continua a riscontrare un certo consenso: si chiama "Gabbiani luminosi – Le donne fantasma di Mussolini", Milena edizioni, di Manola Aramini. La trama è avvincente e soffusa di mistero: l’anziana Costanza vede approssimarsi la fine e decide così di narrare alla nipote la sua vita. La giovane viene così catapultata in appassionanti vicende che hanno come protagonista proprio lui, il Duce.  In un’atmosfera caratterizzata dal paranormale, Costanza racconta di aver ereditato dalla madre, Ludovica, amica di Margherita Sarfatti, nota amante e confidente di Benito Mussolini, la capacità di relazionarsi con i fantasmi: Ludovica ha condiviso, nel corso della sua vita, le emozioni di Margherita ed ha vissuto accanto ad un uomo, Edoardo, suo marito, fervido fascista. Che è un violento: la Aramini, originale in molti casi, qui segue lo stereotipo trito e ritrito di un’equazione che ormai lascia decisamente perplessi anche i più convinti antifascisti. Costanza, che ha il dono di parlare con i defunti, intreccia un legame con Benito Mussolini: gli spiriti delle donne che il Duce ha amato nella sua movimentata vita sentimentale tornano a pulsare: c’è, per esempio, Ida Dalser, sulla cui vicenda molto ci sarebbe da dire. C’è Claretta Petacci (che svelerebbe di affacciarsi di nuovo al mondo provenendo dagli inferi dove sarebbe stata catapultata). Molti sono i personaggi femminili che la Aramini propone; la critica ha valutato questo tipo di approccio narrativo ponendo una questione: visto che i nomi proposti dall’autrice non sono molto noti ai più, diventa difficile seguire la trama della vicenda. Sarà anche così, ma delle donne del Duce si è fatto sempre un gran parlare (oltre che un gran scrivere), il che le ha rese arcinote. E poi sono donne che vivono di emozioni, e un volume che racconta le emozioni è sempre piacevole da leggere. Quando poi queste emozioni costituiscono il condimento di un’epoca storica, lo scritto che ne viene fuori è certamente apprezzabile. Nella stesura delle varie situazioni, poi, come pure nei riferimenti scelti – o in quelli non scelti -  si potrebbe argomentare molto. Per fare un esempio: "Mi chiamo Ida Dalser e sono morta in uno squallido manicomio nel 1937, dopo essere stata la moglie rinnegata di Benito Mussolini – scrive la Aramini, e ancora -  … vorrei che avesse ben chiaro che Benito Mussolini non era un uomo capace di amare, né me, né Margherita Sarfatti, che fu solo una delle tante amanti, né alcun essere vivente in quanto era troppo impegnato a pensare a se stesso". Un passaggio che meriterebbe un approfondimento: la signora Ida Dalser, che è stata una delle numerose amanti di Benito Mussolini, non è mai stata sua moglie. Benito non la sposò mai. Pare che da lei abbia avuto un figlio, ma tra i due non ci fu mai un rapporto coniugale. La donna morì – è vero – in un manicomio, dove era stata rinchiusa dopo anni di pazzia. Ancora, l’uomo "incapace di amare … troppo impegnato a pensare a se stesso" aveva, nel momento estremo, una donna accanto. Si chiamava Claretta Petacci, e volle morire con lui, infrangere per sempre la sua giovinezza contro i colpi di un fucile per restargli vicino. Il fatto che la Aramini collochi la Petacci all’inferno, poi, è una scelta almeno discutibile: in quale girone per l’esattezza? Quali colpe avrebbe Claretta Petacci per meritare di essere collocata all’inferno? L’uomo incapace di amare ha avuto accanto una moglie, per tutta la sua vita. Donna Rachele Guidi non ha mai lasciato il suo posto, neppure dopo la morte di lui, accudendone la salma al suo rientro a Predappio, dopo gli anni di note vicissitudini. Una donna che è rimasta la moglie di Mussolini fino all’ultimo giorno della sua vita. Tutto ciò non significa che il volume non sia appassionante o che non meriti di essere letto, tutt’altro. Va però sottolineato come, ancora, si continui a presentare il Mussolini uomo come un personaggio esecrabile, il che è frutto di una cultura indotta e che ormai ha un po’ stancato. Peccato, perché il lavoro potrebbe essere davvero lodevole, se non si percepisse un punto di vista antifascista che non giova alla narrazione. L’autrice, forse non volendo, mostra il suo giudizio personale sul Fascismo: se fosse rimasta semplice osservatrice di un’epoca e si fosse dedicata alle sole vicende delle sofferenze umane, magari tutte, il romanzo ne avrebbe guadagnato. Sarebbe stato interessante, per esempio, avere del Duce una versione più originale, meno uniformata alla vulgata che lo dipinge come un uomo senza scrupoli nei confronti delle donne. E visto che la Aramini è stata originale nel presentarci le sue donne, ci si sarebbe aspettati un’angolazione originale anche per quanto riguarda l’uomo. Che non fu ‘uno stinco di santo’, ma neppure un aguzzino. Emma Moriconi

Benito Mussolini e le donne: Mussolini seduttore. Corriere della Sera -  Il Club de La Lettura - Articolo - Mussolini il poligamo, gli amori di un egoista. Benito Mussolini amava le donne come amava, a suo modo, l’Italia. Nutriva passioni violente, possessive, tiranniche. Per chi si ribellava al suo smisurato egocentrismo non c’era pietà, come dimostra la sorte terribile inflitta alla trentina Ida Dalser e a suo figlio Benito Albino (la vicenda rivisitata dal regista Marco Bellocchio nel film Vincere del 2009), rinchiusi e morti entrambi in manicomio. Ma ci furono anche amanti del Duce dalla vocazione profittatrice, che seppero sfruttare abilmente a loro vantaggio i favori del dittatore. E di solito si trattava di aristocratiche (vere o presunte), come Giulia Carminati di Brambilla, Alice Corinaldesi de Fonseca Pallottelli, Giulia Alliata di Montereale. Il libro di Mimmo Franzinelli Le donne del Duce (Mondadori) per la prima volta affronta la questione in maniera organica, incrociando la memorialistica con le carte d’archivio e sfruttando appieno l’enorme materiale, solo da poco disponibile, prodotto dalla grafomane Claretta Petacci. Mussolini non ne esce molto bene, anche se certo risulta pienamente confermato il fascino enorme che esercitava sull’altro sesso, già prima di diventare l’uomo più potente d’Italia. Le sue conquiste sono di ogni genere: alcune dalla personalità molto spiccata, come l’anarchica musulmana Leda Rafanelli, la socialista russa Angelica Balabanoff, la scrittrice ebrea Margherita Sarfatti. Pare quasi certo che tra di esse ci sia stata la principessa Maria José, moglie belga del futuro «re di maggio» Umberto II, una di quelle che riuscirono a mettere in soggezione il vulcanico romagnolo. Certo fa un po’ sorridere che si ergesse a paladino della famiglia tradizionale un poligamo incorreggibile come Mussolini, regolarmente sposato con Rachele Guidi, ma uso a intrattenere contemporaneamente più legami duraturi (a parte le numerose avventure occasionali), con tanto di abbondante prole. Ma più grave è il suo «uso privatistico della polizia», dalla quale faceva spiare e sorvegliare le amanti, di cui era molto geloso, come se la loro condotta fosse «un affare di Stato». E inquietanti appaiono le sue propensioni verso ragazze giovanissime, come Fiammetta, figlia della Sarfatti, e Myriam, sorella della Petacci. Una delle sue prede più inermi è la dattilografa minorenne del «Popolo d’Italia» Bianca Ceccato, con la quale, scrive Franzinelli, Mussolini «si comporta né più né meno come le migliaia di padroni che costringono la servetta a soddisfarne le voglie». La fa anche abortire. E tuttavia proprio Bianca, esempio ammirevole di dignità femminile, «esce volontariamente dal cono d’ombra di Benito: riacquista e difende la propria autonomia, si ricostruisce una vita per sé e per il figlio» (suo e di Mussolini). Per il Duce, nota Franzinelli, la libidine ha un ruolo centrale: «Vive la propria prorompente sessualità come l’altra faccia della politica, convinto che la folla, come la femmina, ami essere posseduta e dominata». In questo è ben diverso da Adolf Hitler, sulle cui perversioni vere o presunte si è scritto parecchio, ma la cui feroce dedizione alla causa ne sminuì senza dubbio l’interesse per le donne. Il più egoista si rivela quindi anche il meno fanatico dei due despoti. È uno dei tanti fattori che differenziano due regimi segnati dalle personalità dei rispettivi capi supremi, pur senza cancellare l’intreccio ideologico tra fascismo e nazionalsocialismo, che emerge anche dal volume di documenti Mussolini e Hitler, pubblicato molti anni fa da Renzo De Felice per Le Monnier e ora riproposto da Laterza con una prefazione di Christian Goeschel. Se in un primo tempo fu il tedesco a imitare il suo predecessore italiano, fu poi il Duce a tentare di seguire le orme del Fuhrer. Ma certo il debole di Mussolini per le donne contribuisce a renderne la figura forse per certi versi più meschina, ma in fondo di gran lunga più umana. Mimmo Franzinelli, Il Duce e le donne. Avventure e passioni extraconiugali di Mussolini, Mondadori. Renzo De Felice, Mussolini e Hitler. I rapporti segreti 1922-1933, Laterza. Antonio Carioti.

Le donne del duce - Amori e passioni. Chi sono le donne di Mussolini: mogli, amanti, “libere unioni”, figlie, e come sono le donne durante il fascismo? Ida Dalser, Margherita Sarfatti, donna Rachele, Claretta Petacci sono solo alcune di quelle che godono dei frettolosi favori del Duce; e quale è poi il rapporto tra il regime fascista e la donna? Secondo la tradizione la donna è relegata in secondo piano: madre prolifica, discriminata sul lavoro, scoraggiata a proseguire gli studi, massaia ideale e, meglio ancora, massaia rurale ideale: «obbedire, badare alla casa, mettere al mondo figli e…portare le corna». È del 1927 la grande la battaglia per l’aumento delle nascite e si deve a Benito Mussolini la creazione dell'Opera Nazionale Maternità e Infanzia, alla scopo di tutelare madri e figli in difficoltà. Così come il continuo incoraggiamento affinché la donna venga considerata il centro della famiglia, la regina della casa e dell'autarchia. Per sfruttare il desiderio delle donne di identificarsi e di servire la comunità nazionale il regime dunque cercherà un difficile equilibrio tra modernizzazione ed emancipazione. 

Un’amante al giorno, ogni pomeriggio, posseduta nella Sala del Mappamondo, scrive Cinzia Ficco. “Alle assidue - si legge nel libro L’amore e il potere di Bruno Vespa (Mondadori) riservava il vasto tappeto che usciva di sotto la scrivania, alle nuove, il sedile di pietra, ricoperto da un lungo cuscino trapunto ricavato nel vano dei finestroni. Durata dell’amplesso, un quarto d’ora, visto che il tempo dell’intera visita era il doppio. Più che di amanti, a dire il vero, si trattava di visitatrici fasciste, che si accostavano a lui come per deporre una corona d’alloro ai piedi del vicino Altare della Patria”. Alle amanti vere, Benito Mussolini (1883 – 1945) concedeva un trattamento meno frettoloso nella più romantica Sala dello Zodiaco, sotto un soffitto di stelle e pianeti. Sempre secondo il giornalista abruzzese, il Duce non era un adone. Sembra che fosse alto 1,67, avesse una corporatura tarchiata, capelli castano chiaro, viso pallido, lungo. Occhi scuri. Naso aquilino. Barba castano scuro, bocca larga ed espressione simpatica. Ma a colpire le donne era l’eloquio. Un grande oratore! Ebbe probabilmente due mogli e tantissime storie. Cinque le più importanti, per il giornalista Gian Carlo Fusco. “Mussolini – scrive Vespa- scoprì il corpo femminile all’età di sedici anni, quando fu introdotto furtivamente in un postribolo. Pagò il godimento sessuale con una blenorragia, ma da quel momento fu tormentato dal fascino della nudità”. Si legge nel libro di Vespa che le donne del Duce erano quasi tutte di estrazione borghese. Il Dux non amava le aristocratiche e non frequentò granché donne provenienti da famiglie modeste. Fece eccezione per Angela Curti, figlia di un tipografo socialista. Sposò Rachele Guidi nel 1909, quando conobbe a Trento Ida Dalser. La biondona di Predappio passò accanto al marito trentacinque anni. “Prima compagna- scrive Fusco nel suo libro Mussolini e le donne (Sellerio)- poi moglie legittima. Prima soltanto donna, poi Donna, prima bionda, poi grigia. Fu perfettamente consapevole di essere cornificata”. Prima di sposarlo sapeva che Benito frequentava i casini. Comunque, a sentire Fusco, per il Dux “le donne, in linea di massima non ebbero importanza ed interesse ad di fuori della monta. Le trattò quasi sempre, in modo sbrigativo. Quasi brutale. Tanto è vero che gli piacque moltissimo la definizione orinali di carne, coniata da Giovanni Papini”. Oltre a Rachele, il Duce forse si unì in matrimonio a Ida Dalser, che conobbe a Trento nel 1909. “Una possibile prova- scrive Vespa- dell’avvenuta celebrazione delle nozze si ebbe quando Benito partì per la guerra, il 31 agosto 1915. Negli anni Cinquanta Pieroni (Alfredo, biografo di Mussolini, ndr) rinvenne un documento del sindaco di Milano in cui si attestava ‘che la famiglia del militare Mussolini Benito è composta dalla moglie Dalser Ida e da figli numero uno”. “E’ dunque probabile, fa sapere Vespa, che Mussolini avesse dichiarato di avere moglie (reale o presunta?) e un figlio (ancora non nato) per assicurare un piccolo sussidio alla povera donna incinta”. Il bimbo nacque in seguito e fu chiamato Benito. Ma madre e figlio non ebbero un felice destino.

“Nel 1923- si legge nel libro di Fusco- la Dalser sparì, rinchiusa, secondo alcuni, nel manicomio di Verona”. Benito, il figlio, che somigliava molto al padre, fu dato fra i “marò dispersi nel marzo del ‘41”. Tra le cinque rivali, da cui donna Rachele, pare, si sentisse minacciata, Fusco mette Leda Rafanelli Polli, scrittrice e pittrice anarchica, sacerdotessa di Zoroastro, che andava in giro per le strade di Milano vestita da odalisca. La relazione terminò di colpo con l’entrata in guerra dell’Italia. E poi Angela Curti Cacciati, figlia di un ammiratore del Duce. Ancora. Margherita Sarfatti. Fusco scrive: “E’ senz’altro la più importante. Quella che impensierì maggiormente Rachele. Forse, perfino più di Claretta Petacci”. Perché quest’ultima era solo bella, aveva un bel seno, la Sarfatti, che entrò nella vita del Duce quarantenne, inquieto e voglioso, aveva cervello. Si lasciarono nel ‘’34, per motivi soprattutto politici. Cornelia Tanzi, poetessa. Ad innamorarsi di Benito fu anche Angelica Balabanoff, un’esule russa, di tredici anni più grande. La storia con Claretta Petacci, più piccola di lui di 29 anni, (sposata con Riccardo Federici, da cui si separò nel ’36), fu per il Duce un modo per sentirsi ancora giovane, secondo lo storico De Felice. Ma Claretta visse sempre con l’incubo che qualche altra glielo portasse via. “L’amante del Duce- si legge nel libro di Vespa- faceva una vita certo molto comoda, ma di straordinaria monotonia. Viveva in casa dei genitori, s’alzava tardi, pranzava frugalmente in famiglia e, tra le quindici e le sedici- quasi dovesse timbrare il cartellino- si presentava a Palazzo Venezia, dopo essersi fermata da un fioraio a comperare un mazzetto di fiori stagionali che il Duce aveva sempre sulla scrivania. Mussolini, a quell’ora teneva le sue udienze nella Sala del Mappamondo. L’amante l’aspettava per ore in solitudine, leggendo e ascoltando musica classica dal grammofono. Spesso i loro amori giornalieri si riducevano a una scarsa mezz’ora serale”. A Roma non dormirono mai insieme. Molti pensano che l’unica notte trascorsa nello stesso letto sia stata quella che precedette la fucilazione ad opera dei partigiani. Cinzia Ficco

DUX - UNA BIOGRAFIA SESSUALE DI MUSSOLINI. Di Roberto Olla, Rizzoli 2012. Scrive David Frati. “Abbi paura del mio amore, è come un ciclone, è tremendo, travolge tutto. Devi tremare”, disse una volta durante l'amplesso Benito Mussolini a Claretta Petacci, o almeno così racconta la donna nel suo diario. E la formosa Rachele Guidi (tollerante e tradizionalista first lady del Fascismo), la rivoluzionaria Angelica Balabanoff, la colta Margherita Sarfatti, la stalker Ida Dalser, la brillante Alice De Fonseca Pallottelli se potessero racconterebbero parole simili, amplessi simili. Ma in quale storia affonda le radici la sessualità violenta e rapace dell'uomo che fu agitatore socialista, maestro autoritario, giornalista ammirato e disinvolto, uomo politico aggressivo e infine dittatore fascista? Mussolini era nato nel 1883, figlio di un fabbro ventottenne chiamato Alessandro, noto a Predappio e in tutta la Romagna come un rivoluzionario convinto. Il nome del bambino era un omaggio a Benito Juárez, il condottiero messicano che “aveva abbattuto l'imperatore fantoccio Massimiliano d'Asburgo, che aveva annullato i privilegi di preti e vescovi e iniziato ad applicare il socialismo”. Appena Benito ebbe 5 o 6 anni, il padre iniziò a portarlo con sé a comizi e riunioni: l'aria era gravida di tensione, la storia italiana ed europea era a una svolta. Il bambino respirò sin da subito aria di rivoluzione, di rovesciamento della morale comune, di determinazione che non si ferma di fronte a nulla: e il suo carattere ribelle iniziò a formarsi... Il Duce era un uomo. Un uomo non bello, non alto, non magro: eppure per vent'anni “una gran massa di italiani visse in una sorta di simbiosi psicologica col suo corpo” desiderandolo (le donne) o sognando di essere come lui (gli uomini). Perché? Molti studiosi si sono misurati con questa domanda. Roberto Olla, documentarista e giornalista del TG1, in questa biografia - il cui titolo richiama forse non a caso quello del celebre libro di Margherita Sarfatti, una delle più importanti amanti del Duce - più modestamente registra e racconta con puntiglio da ragioniere (e compiacimento da gossiparo) le storie d'amore e di sesso più importanti della vita di Mussolini, o meglio “evidenzia i punti di contatto tra le sue numerose avventure galanti e le alterne vicende della sua avventura politica”, come sottolinea con più finezza di me Piero Melograni nella prefazione al volume. E negli interstizi tra una storia sentimentale e l'altra Mussolini - ricordiamolo: sposato, con figli legittimi e non - snocciola un rosario interminabile di avventure sessuali da un'ora ciascuna, una galleria infinita di prostitute, contadinotte, pasionarie politiche, nobildonne, impiegate, giornaliste e così via. Conquistatore patologico, seduttore seriale, copulatore compulsivo, macho latino: ma anche stanco e frustrato prigioniero delle sue manie e del suo mito.

Mussolini e i suoi triangoli: con la figlia dell’amante e la sorella di Claretta, scrive il 12 marzo 2015 Alessandro Camilli su "Blitz Quotidiano". Che tra i suoi pregi Benito Mussolini non annoverasse la fedeltà coniugale non è certo un mistero. Ma che fosse dannunziano più di quanto lo stesso poeta potesse immaginare, che si intrattenesse con regine e menage a trois, coinvolgendo anche minorenni e portandosi a letto madri e figlie lo svela nel suo saggio “Il duce e le donne” Mimmo Franzinelli. Diverse le curiosità e i particolari storici che dal testo di Franzinelli, riportato da Mirella Serri su La Stampa. Scorrendo le righe si legge, ad esempio, dell’omosessualità dell’ultimo Re d’Italia Umberto, “noto per i suoi gusti sessuali descritti nei mattinali di polizia impilati sul tavolo del dittatore”. Come si apprende che la di lui consorte, la futura regina Maria Jose del Belgio, finì nel letto del Duce. Fu anzi, la consorte del principe ereditario, se non una delle poche ad infilarcisi autonomamente, quasi certamente l’unica che, per lignaggio e ruolo, potesse giocare a suo piacimento con il dittatore vizioso. Si apprende infatti dal saggio in questione che Mussolini non era solo, come si è sempre riconosciuto, un donnaiolo che mai avrebbe disdegnato un’occasione romantica. Ma era probabilmente un uomo ossessionato dal sesso tanto da destare preoccupazione nelle persone che lo circondavano: Claretta Petacci in testa. Amori fugaci e clandestini ma anche “triangoli” che coinvolgevano madri e figlie e vere proprie violenze, per non parlare delle occasioni in cui nel letto del duce finivano ragazze poco più che adolescenti e abbondantemente minorenni. Anche la Petacci che fu l’amante “ufficiale” di Mussolini, tanto da condividerne il destino sino a Piazzale Loreto, era probabilmente suo malgrado coinvolta. Scrive la Serri: “Anche la Petacci finì nel tourbillon del ménage à trois, come denunceranno i giornali l’indomani della caduta di Mussolini nell’agosto del 1943. Fin dal 1938 la quindicenne Myriam, detta Mimì, fece da mediatrice nella liason tra la sorella maggiore e Benito. Toccava a Mimì, ad esempio, fare da chaperon nelle trasferte del Duce e di Claretta al Terminillo. Ma a un certo punto la Petacci si impensierì: ‘Viene Mimì, lui si sofferma a parlare e la guarda con occhio diverso, da maschio, come prima mai. Rimango un po’ perplessa. Infatti dopo, riprendendo la passeggiata, ha uno strano atteggiamento d’uomo che pensa di poter piacere, di avere ciò che vuole, e altri pensieri che qui non trascrivo’. Da quel momento sarà sempre più preoccupata: ‘In tutto il tempo che ha parlato ha guardato molto Mimì e mi ha veramente seccato che abbia tenuto questi discorsi dinanzi a lei. Tanto che molte volte ho cercato di farlo smettere, ma inutilmente: non capisce queste cose…’. Non è solo Claretta a notare la bramosia del maturo satiro. Le chiacchiere sul terzetto dilagano e i Petacci faranno sposare Myriam in gran pompa e in gran fretta”. Mimi però non è che una delle “prede” o delle mire del maturo uomo di Stato. Prima di lei aveva destato le attenzioni del duce un’altra ragazzina: la 17enne Bianca Ceccato, segretaria del giornale Popolo d’Italia. Il direttore, Mussolini, quando incontrò Bianca era già un uomo che aveva superato i 30 anni e le si propose come un buon padre. Alla scoperta però di un interesse della giovane per un coetaneo bersagliere, la licenziò, lasciandola senza lavoro e sostentamento. Quindi la convocò in un albergo. Le fece bere spumante e la violentò in una squallida camera, costringendola addirittura ad abortire una prima volta e, quando gli darà un figlio, rifiutandosi di vederlo. Sarà poi la volta di un’altra minorenne, questa volta figlia di una sua amante, la 14enne Fiammetta figlia dell’ebrea Margherita Sarfatti. La Sarfatti, che sarà costretta dalle leggi razziali a fuggire a Montevideo, supplicò in una lettera il quarantenne statista di non ‘farle richieste indegne’. Richiesta che sarà però, nemmeno a dirlo, inascoltata così che il duce non rinunciò al rapporto a tre che durerà, tra scenate e rivalità tra madre e figlia, almeno una decina di anni. Anche questa ricostruzione nel libro di Franzinelli e nell’articolo di Mirella Serri. Dunque donne, e a volte fanciulle, per lo più costrette o comunque impossibilitate visti ruolo, carisma e poter di Mussolini, a gestire e condurre i rapporti secondo schemi a loro confacenti. Vittime magari consenzienti quindi più che amanti consenzienti. Unica, forse, eccezione, la principessa Maria Jose. La futura regina, prima di diventare antifascista, fu colpita dalla personalità del duce fino a volerlo trasformare in suo amante. In una relazione che, per una volta, vedeva il capo del governo italiano in una posizione di sudditanza. Era infatti la principessa che disponeva del suo amante per una volta e non viceversa. Condizione che al maturo seduttore, abituato a ben altro copione, non andava giù. Tanto che arrivò al punto di farsi negare alla principessa pur di sfuggirle e tornare alle più facili relazioni in cui era lui signore e padrone. Tutto cominciò, raccontano Franzinelli e Serri, “un’estate del 1937 con Claretta Petacci chiusa per ben due ore nella cabina doccia nel capanno del duce a Castelporziano mentre Mussolini si intratteneva con un’ospite presentatasi all’improvviso…Maria Josè di Savoia si presentò seminuda al capanno spiegando di essere naturista, abituata ai bagni di sole…”.

“Anche Sua Altezza”. Maria José di Savoia fu amante del Duce? Anche Mussolini ebbe il suo harem. I nomi di alcune amanti sono ben noti. Quelli di altre sono rimasti sconosciuti, o quasi. Mimmo Franzinelli, nel saggio Il duce e le donne, edito da Mondadori (288 pagine, 20 euro), ricostruisce le vicende delle principali protagoniste di avventure prolungate e rivela le identità di alcune delle centinaia di femmine, più o meno belle, che si offrirono per incontri occasionali. Il grande amatore non ebbe preconcetti di rango o di cultura: cameriere e precettrici, borghesi e nobili; un censimento di nomi e nomi di donne rimaste in ombra. Fonte dell’intrigante ricerca sono stati gli inediti rapporti di polizia consultati da Franzinelli all’Archivio di Stato di Roma. Articolo di Attilio Mazza da l’Arena del 1 ottobre 2013. Mussolini era tenuto sotto controllo dallo stesso regime. Gerarchi e capi della polizia erano preoccupati che gli innumerevoli incontri femminili potessero costituire un potenziale pericolo per la sicurezza del capo e seguivano attentamente le sue molteplici frequentazioni, schedando amanti e ammiratrici pronte a donarglisi. I fascicoli riservati, gestiti dal capo della polizia Arturo Bocchini, oggi documenti preziosi, sono stati consultati dallo storico bresciano che ha potuto così ricostruire un quadro inedito dell’energico Benito, erotomane forse più prestante dell’amoroso Gabriele d’Annunzio che nella vita non gli fu forse da meno con 500 donne, fra professioniste e muse volontarie, finite nelle sue alcove, come ipotizzato da alcuni ricercatori fra cui l’indimenticabile Ivanos Ciani. Oltre ai documenti d’archivio, Franzinelli si è giovato delle memorie dei collaboratori di Mussolini, in particolare dell’autista Ercole Boratto, e anche delle testimonianze di Claretta Petacci, forse la più importante, sicuramente la più famosa fra le sue amanti che sacrificò addirittura la propria vita per essergli vicina sino all’ultimo giorno. Scavando nella vita intima di Mussolini lo studioso ha ricomposto anche un quadro psicologico del personaggio: le sue piccole e grandi vanità, il suo bisogno di disporre contemporaneamente di più partner, la sua brama di possesso, il tormento della gelosia. Visse la propria sessualità come l’altra faccia della politica, convinto che la donna, al pari della folla, amasse essere dominata. Non furono tutti incontri privi di conseguenze. Nacquero figli naturali che resero burrascoso il ménage famigliare. Alcune storie finirono pure drammaticamente. Fra le più note, quella di Ida Dalser, nata a Sopramonte di Trento (all’epoca territorio dell’Impero austroungarico). Incontrò Mussolini quand’era espatriato a Trento prima della Grande guerra e lo avrebbe sposato (la caccia ai documenti del caso continua ad appassionare gli storici) continuando comunque la relazione nel dopoguerra a Milano, all’epoca in cui Benito era direttore del Popolo d’Italia; si vuole abbia anche finanziato la sua attività politica, al pari di Margherita Sarfatti, altra sua amante ben nota. Dagli incontri con Ida nacque nel 1915 Benito Albino, riconosciuto dal padre, nel frattempo già papà di Edda. Allo scoppio della guerra Mussolini si era infatti unito con Rachele Guidi, che diventerà poi la moglie ufficiale: la donna Rachele celebrata dal regime. Dopo la Marcia su Roma Mussolini cercò di far sparire la scomoda Ida Dalser, che non si rassegnava al silenzio. Proprio per questo fu sottoposta per un lungo periodo al controllo della polizia, quindi internata nel manicomio di Pergine Valsugana, poi in quello di San Clemente a Venezia, dove cessò di vivere nel 1937. Non meno drammatica fu l’esistenza del figlio Benito Albino, costantemente sorvegliato dalla polizia, educato in un collegio dei Barnabiti, arruolato in marina e poi sepolto come la madre in manicomio, dove morì nel 1942. Se questo era il Mussolini padre, neanche l’amatore è esente da critiche. Vittima di una défaillance sarebbe stato con la principessa Maria José di Savoia (poi Regina di Maggio) che gli si sarebbe offerta nuda di fronte a un Mussolini per una volta imbarazzato; anche per questo, malignano, Sua Altezza sarebbe poi diventata antifascista. Mussolini, secondo Franzinelli, «intimidito dalla spregiudicatezza e dal lignaggio, si sentì in posizione di sudditanza». E sì che l’aveva corteggiata, la principessa: lo ricostruisce Franzinelli ed è detto anche in una lettera di Romano, figlio di Mussolini e Rachele, al giornalista Antonio Terzi, che fu pubblicata dal settimanale Oggi: «effettivamente spesso in casa nostra si è parlato dei rapporti sia politici e sia sentimentali tra Maria José e mio padre, e ti posso dire con sincerità che mia madre», scrive Romano Mussolini, «a tale proposito è stata sempre (anche se con i logici riserbi) assai esplicita: tra mio padre e l’allora principessa di Piemonte v’è stato un breve periodo di relazione sentimentale intima, poi credo sicuramente interrotta per volontà di mio padre». Fu Maria José a scaricare Mussolini o fu lui a chiudere la relazione? Ecco un interrogativo che non troverà mai risposta. La principessa non fu tuttavia la sola nobildonna a invaghirsi del potente Benito. Pagina dopo pagina sfilano nel saggio di Franzinelli altre donne di rango, oltre a quelle citate, fra cui Magda de Fontanges e l’autorevole Giulia Alliata di Montereale principessa di Gangi. Tra tante amanti la più strana fu Leda Rafanelli, che Mussolini trentenne incontrò a Milano: tipografa, editrice, poetessa, scrittrice di romanzi e pamphlet, giornalista, anarchica, ammiratrice dell’Islam al punto da abbracciare la religione musulmana e da apprendere la scrittura araba; si accreditava come sensitiva e cartomante. Si dedicò anche al culto delle antiche civiltà egizie e venne attratta dal mondo orientale e dalle «scienze occulte». La figura della Rafanelli, nata a Pistoia nel 1880 e scomparsa a Genova nel 1971, è tornata recentemente di attualità grazie al suo dattiloscritto inedito curato da Milva Maria Cappellini, Memorie d’una chiromante, pubblicato da Nerosubianco nella collana Le drizze, diretta da Luciano Curreri. Il suo stile orientale suggestionò Mussolini. «Quando vorrò portare una parentesi nella mia vita tumultuosa, congestionata e solitaria», le scrisse il trentenne Benito, «verrò da voi e mi sembrerà di essere lontano mille chilometri da Milano, dal giornalismo, dalla politica, dall’Italia, dall’Occidente, dall’Europa. Perché nel vostro salotto originale — forse unico a Milano — mi farete vivere alcune ore orientali. Parleremo disordinatamente del passato, dell’attualità, del futuro: di tutto e di nulla. Leggeremo Nietzsche e il Corano». La Rafanelli si considerava veggente, ma a Mussolini, che avrebbe voluto farsi leggere la mano, Leda oppose un rifiuto: «Non mi piace conoscere la vita intima né il carattere vero dei miei amici: forse per non deluderli». Commentò, molti anni dopo il tragico epilogo di Piazzale Loreto: «Ora penso, se la sua mano l’avessi guardata, in quel lontano giorno, che cosa avrei veduto? Avrei indovinato il suo tragico destino?»

MARGHERITA SARFATTI. La "vergine rossa" amante del Duce. Un sodalizio sentimentale e intellettuale tra socialismo e avanguardie, scrive Ivan Buttignon su "Totalità" il 15/11/2014. Del Duce, Margherita Sarfatti è amante ma anche il consigliere politico più fidato. Eppure viene ricordata semplicemente come la protagonista della più lunga storia d’amore con Mussolini. E dopo l’esposizione del cadavere di Claretta a Piazzale Loreto, per gli italiani è quest’ultima a diventare la prediletta mentre Margherita diventa “l’altra donna del Duce”. Margherita contribuirà, e notevolmente, a edificare quell’ingranaggio politico che prenderà il nome di fascismo e che, inesorabilmente, la stritolerà. Spazzata via dalla corrosiva esaltazione del protagonismo “al maschile”, Margherita, come donna, è appunto ricordata solo in quel ruolo di subordine sessuale in funzione di un uomo arcinoto. Tramontata l’epopea fascista, a differenza di Grazia Deledda, Sibilla Aleramo, Amalia Guglielminetti e Ada Negri, la Sarfatti non ha modo di rilanciare la sua figura e mietere qualche successo artistico e letterario negli anni a venire. E non ci prova neppure; l’ipoteca di “amante del Duce” che grava sul suo capo è uno stigma troppo scomodo. Ma l’avvincente vita di questa straordinaria figura artistica e politica ha un retrogusto romanzesco e avvincente. Piacevole da raccontare e da ascoltare. Margherita si avvicina al marxismo a quindici anni. La “colpa” è di un suo ammiratore, un quarantenne “con una fiammeggiante barba rossa, il profilo ascetico e la voce profonda” che la inonda di libri, opuscoli e giornali marxisti. Sono gli anni, questi, che vedono Crispi ricorrere all’esercito, alla legge marziale, alla censura e agli arresti di massa. Venuto a conoscenza di un complotto anarchico contro la sua vita, il primo ministro forza la costituzione italiana all’estremo limite per sradicare anarchici e socialisti dal Paese. E’ ovvio quindi che Amedeo Grassini vede con preoccupazione la passione socialista della figliola. "Marta Grani". Questo lo pseudonimo con il quale Margherita firma il suo primo articolo su una rivista socialista. Pezzo che sarà il primo di una lunga seria e che sancisce ufficialmente il suo ingresso nel socialismo italiano. Il nome Marta è ricavato dall’accostamento della prima con l’ultima sillaba di Margherita. L’articolo è oggetto di ammirazione per i compagni (tant’è che la nominano “la Vergine rossa” in onore a Louise Michel, femminista che nel 1871 aveva capeggiato la rivolta della Comune di Parigi, primo esperimento di attuazione delle idee socialiste) ma anche di contrasti familiari. Il papà, infatti, va su tutte le furie. E non solo lui. I tre maestri della giovane neosocialista rimangono sbigottiti di fronte a questa scelta, radicale e fermissima al tempo stesso. Ma Margherita fa di più. Per esempio convince il marito Cesare Sarfatti ad abbandonare la causa repubblicana, strada imboccata dopo un trascorso conservatore e decisamente di destra, per abbracciare quella marxista. Dal punto di vista culturale, l’avversione al positivismo e al razionalismo tipicamente ottocenteschi mette d'accordo già in epoca prefascista personaggi molto diversi sia per caratura culturale che politica come Prezzolini, Papini, Soffici e Corradini. I primi due fondano nel 1908 "La Voce"; il secondo e il terzo, in aperta polemica col primo, nel 1913 fondano “Lacerba”. Entrambe le riviste sono tutte tese al rinnovamento della cultura italiana a colpi di rivoluzioni emotive, poetiche e spirituali della vita. La foggia recisamente antipositivista ma al contempo antisocialista che caratterizza "La Voce" non lascia indifferente la Sarfatti che si complimenta con Prezzolini scrivendogli che la rivista è “viva e sincera…non posso dirle con quanto entusiasmo io segua la libera e magnifica strada che percorre la sua ‘Voce’ […] e voce veramente di tutti gli alti e forti ideali, […] la sola veramente italiana”. In quel progetto culturale Margherita riconosce un esperimento rinnovatore della società, cosa che anche i socialisti, con diverse sfumature, agognano. E’ proprio grazie agli stimoli vociani che, come appunto molti suoi compagni, Margherita si smarca dal socialismo per volgere il suo sguardo politico all’eresia fascista. La goccia che fa traboccare il vaso è il suo sostegno alla guerra, che la pone in chiave antagonista nei confronti del suo partito. A quel punto, sconfessa sia il socialismo che il femminismo, ma anche l’internazionalismo. D’altra parte, acquisisce definitivamente il sentimento nazionalista.  Il “salto della quaglia” avviene nel triennio ’12 – ’15 e sarà più tardi condiviso da molti compagni. Sempre più socialisti si convincono del ruolo demiurgico degli intellettuali che soli possono ricostruire la nazione. Fanno propria cioè la concezione mazziniana, mistica e spirituale, che vede nell’élite cerebrale il ruolo guida della missione nazionale. Lo spartiacque che divide l’esperienza socialista da quella nazionalista è probabilmente il secondo articolo di Margherita su “La Voce”, scritto nell’agosto del 1913 e dedicato al problema della malaria nell’Agro Romano. Spiega il dramma dei lavoratori costretti a rischiare la pelle per meno di una lira al giorno. Sei settimane dopo, sempre su “La Voce”, la Sarfatti pubblica un contributo sul suo impegno per la conquista del voto alle donne. Tre anni prima, nel 1910, al congresso milanese del partito socialista la Sarfatti infatti è tra i promotori del suffragio universale per entrambi i sessi, punto che fa approvare da quel consesso. Nella stessa colonna fa un annuncio destinato a lasciare tracce indelebili nella sua formazione politica: annuncia la sua conversione alla violenza politica. Mussolini, esaltato da queste sue parole e appena “sollevato” dall’assistenza di Angelica Balabanoff alla direzione dell’ “Avanti!”, propone a Margherita un percorso insieme. Prendere o lasciare. Margherita, attratta sempre più da Mussolini e orfana di una giuda riformista ormai esautorata (proprio dal suo amante!) due anni prima, decide di prendere. La carica critica e biasimatrice delle riviste antiliberali e antigiolittiane, come appunto “La Voce” (alla quale la Sarfatti collabora) e “Lacerba”, si riverbera sempre più nella società intellettuale soprattutto grazie alle parole d’ordine interventiste. E’ l’eco guerresca che innesta negli animi dei letterati (perlopiù) nuova verve, più dissacrante e sprezzante che mai. Sono gli anni, questi, in cui Margherita occupa il posto mantenuto dalla Kuliscioff sino al ’14, anno del suo declino: quello di “regina dei salotti”. E sono gli anni in cui conosce un giovane passionale dal nome Benito Mussolini, direttore dell’ “Avanti!” dal 12 dicembre 1912. In tutta probabilità, Margherita incontra il futuro Duce durante una delle sue apparizioni nel leggendario salotto della Kuliscioff, subito dopo il congresso di Reggio Emilia. Margherita resta affascinata dal tentativo mussoliniano di trasformare il partito socialista da organizzazione politica ad aristocrazia dell’intelligenza e di volontà. Tentativo effettuato al Congresso di Reggio Emilia del ’12 e parzialmente riuscito. Bissolati, Bonomi e Cabrini, leader della “destra riformista”, sono infatti espulsi grazie a Mussolini. Di più: Treves viene sostituito da Mussolini nella direzione dell’ “Avanti!” (e deve rinunciare alla sua liquidazione) mentre l’altro leader riformista, Turati, non viene eletto. A quel punto, Cesare e Margherita si rendono conto che la loro componente, quella riformatrice appunto, è ora subordinata a quella rivoluzionaria, di Mussolini. Prendono quindi atto della sconfitta e ripongono il loro destino politico nelle mani dell’amico Benito, assurto ormai a demiurgo socialista. La lunga collaborazione s’inaugura ufficialmente il 22 novembre 1913, giorno in cui compare “Utopia”, “Rivista quindicinale del socialismo rivoluzionario italiano”. Benito è direttore e Margherita sua collaboratrice principale. Nel 1913 Margherita e Benito iniziano una infuocata ma schizofrenica relazione. Il rapporto passa dall’attrazione morbosa al litigio più aspro. D’altronde, è noto che Mussolini ama sedurre le donne e garantirsi un certo turn over. Ed è proprio in questo forsennato viavai di amanti che si inserisce il rimpiazzo di Angelica Balabanoff con Margherita, contemporaneamente alla frequentazione con Leda Ravanelli. I due giovani amanti iniziano la loro congiunta battaglia politica nelle file dell’interventismo, per poi interrompersi molti anni dopo, presumibilmente nel ‘32. E’ con la partecipazione attiva di Margherita che il futuro Duce fonda il suo nuovo giornale socialista. Il “Popolo d'Italia”, questo il celeberrimo nome del foglio, rappresenta la principale piattaforma dell’interventismo di sinistra. La “Vergine rossa” non è l’unica icona femminile della sinistra a convertirsi all’interventismo. Nello stesso anno, il ’14, l’ex sindacalista rivoluzionaria e ora anarchica Maria Rygier aderisce alle tesi guerresche di Alceste De Ambris. Tesi esposte nella conferenza milanese che in quell’anno il celebre sindacalista nonché futuro fiumano propone. Non paga di ciò, la Rygier sarà anche ispiratrice del “Manifesto degli anarchici interventisti”, compilato da Oberdan Gigli su invito di Maria. Gli intellettuali di sinistra o di estrema sinistra che passano alla causa interventista solitamente si considerano, come in questo caso, ortodossi. Non revisionisti né ancor meno eretici. Anzi, ritengono di pensare e agire nel solco della migliore tradizione libertaria perché in (estremo) contrasto con i neoassolutisti Imperi centrali. Durante il suo cambio di pelle in senso interventista Margherita ha 34 anni e si distingue per la sua stimatissima attività di critica d’arte. Il suo salotto in Corso Venezia diventa un passaggio obbligato per tutti quegli intellettuali che covano velleità politiche, ma anche per le giovani promesse dell’arte modernista e per gli esponenti della letteratura internazionale quali Shaw, Joséphine Baker e Cocteau. Avida di successo e di fama, la “Venere rossa” punta sempre più in alto. Non paga del suo prestigiosissimo salotto, ambisce alla creazione di uno stile nazionale in arte e letteratura. Creare una nuova Nazione a colpi di opere artistiche e lettere, ecco il tormentone che infiamma Margherita. Questa ambizione piace al futuro Duce. Ed è il motivo che li lega in modo ancora più fitto. Mussolini capisce sin da subito che i suoi obiettivi di grandezza e quelli della sua amante si assomigliano. E che la sua partner è molto intelligente. In altre parole, che la sua collaborazione è quanto mai conveniente. E’ questa consapevolezza che instillerà nei due amanti una formidabile complicità. Margherita e Benito s’innamorano fra l’estate e l’autunno del ’18 quando sono certi della vittoria dell’Italia. L’affetto, l’infatuazione, insomma il legame sessuale e intellettuale che dura ormai da sei anni, si trasforma in amore. Gli ultimi quattro anni di battaglie politiche combattute fianco a fianco hanno creato un’affinità spirituale. Ma è il Primo conflitto mondiale a fare da anticamera del loro sentimento. Mussolini rischia la vita già dal primo giorno di trincea; la Sarfatti perde il figlio Roberto mentre è impegnato in un’azione guerresca. Ma dopo le tenebre dei massacri, la luce dell’amore. Alla fine del gennaio ’22 gli innamorati Margherita e Benito fondano una nuova rivista che sostituisce “Ardita”, nome ormai fuori luogo viste le rotture tra Mussolini e il fronte D’Annunzio - Associazione degli Arditi. E’ Margherita a battezzare il nuovo foglio, che chiama “Gerarchia: Rivista Politica” e che diventa subito un’arena di critica culturale “al di fuori di ogni angusta pregiudiziale di parte”. Durante l’ascesa al potere del fascismo il compito principale di Margherita è quello di legittimare l’astro nascente. Grazie al suo salotto e alle sue frequentazioni in generale Margherita esercita un ascendente sull’alta società. E’ così che smussa gli angoli rozzi del futuro Duce per introdurlo nella Milano “bene”, formidabile trampolino di lancio per il suo successo. I borghesi liberali si illudono che Mussolini sia “l’uomo giusto al momento giusto” proprio come la Sarfatti lo dipingeva. Convinti che le “parentesi squadriste” siano una degenerazione effimera della “politica dell’ordine” mussoliniana, iniziano a vedere nell’ex socialista la necessaria soluzione allo scompiglio nazionale. La Sarfatti diventa strategica alla creazione dei nuovi miti, che al movimento fascista sono indispensabili al suo consolidamento al potere. Ecco l’invenzione della classicità mediterranea e romana, tutta tesa a una rivisitazione di Roma. Dopo quella dei Re e dei Papi, c’è la Roma fascista. Il mito per eccellenza che lancia la cosmologia simbolica del fascismo e lo consolida. Lo stesso mito che, affatto per caso, diffonderà il suo gruppo di artisti, Novecento, che fonda a Milano nel ’22 e che è costituito da Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi, Mario Sironi. I sette pittori, tutte scoperte della “Venere rossa” che animata da una continua tensione esplorativa e conoscitiva li aveva poi raccolti all'interno di questo gruppo appunto chiamato Novecento e fondato a Milano nel '22. Inizia così la fortuna di Novecento, che ingrossa le sue fila, accogliendo al artisti come Martini, Carrà, Casorati, Rosai e Campigli, provenienti perlopiù dal futurismo ma anche dalla metafisica di De Chirico (è il caso di Carr), protendono al recupero della tradizione italiana, sai essa giottesca piuttosto che etrusca. Nel 1926 si tiene la prima mostra ufficiale, seguita da numerose esposizioni in Italia e all’estero. Ma oltre a questo ruolo di punto nell’organizzazione culturale nazionale, la Sarfatti è arcinota per diffusione del culto del Duce, che trova in Dux, la sua biografia autorizzata da Mussolini, un primo, decisivo collaudo. Il saggio esce nel maggio del 1926 pubblicato da Mondadori, primo di quella che diventerà la celebre collana “Le scie”. Dux esce un anno dopo l’edizione inglese (The life of Benito Mussolini), stampata a Londra e recensita da oltre centocinquanta tra giornali e riviste. Questo testo sacro del mito ducesco, ispirerà gli studi del massimo esperto del fascismo Emilio Gentile. Tale anticipazione è spiegata con l’ascendente del genere biografico sviluppato proprio in Gran Bretagna, implicito partner dell’Italia sino almeno alla vigilia dell’aggressione etiopica. Ma Margherita è molto di più di una coordinatrice culturale e di una biografa. Sa essere un’eccellente funzionaria diplomatica. E lo dimostra gestendo in qualità di responsabile l’ufficio stampa che fornisce informazioni sulla politica interna alla stampa estera, soprattutto statunitense. Nel ’29 iniziano le prime incrinature tra Margherita e il Duce, che scrive una lettera al vetriolo contro la sponsorizzazione di “900”. Tuttavia, la rottura completa tra i due amanti risale al 1932, anno della svolta sentimentale del Duce, che ha occhi solo (si fa per dire) per Claretta Petacci. Allontana così Margherita prima dalla sua vita privata e poi da quella pubblica. È la morte culturale ma soprattutto politica di uno dei più straordinari personaggi del Novecento italiano.

CLARETTA PETACCI. A Clara. Tutte le lettere a Clara Petacci. 1943-1945. Di Mussolini Benito 2011, 404 p. Curatore Montevecchi L. Editore Mondadori Electa (collana Libri illustrati). 

Descrizione. "Cara, comincio col dirti: per la giovinezza che m'hai dato, per la fedeltà che mi hai portato, per le torture che hai coraggiosamente sopportato, durante il periodo più nero della storia italiana, io ti amo, come nel 1936-39, come nel 1940, come sempre." Con questa dichiarazione d'amore, del 10 ottobre 1943, inizia la prima delle 318 lettere che Benito Mussolini invierà quasi ogni giorno a Clara Petacci fino al 18 aprile 1945, data dell'ultima missiva. L'epistolario, che coincide sostanzialmente con il periodo della Repubblica Sociale Italiana, viene qui pubblicato integralmente per la prima volta: ciò rappresenta per la ricerca storica un evento eccezionale, la cui portata va ben oltre il mero contenuto delle carte e riguarda piuttosto il significato dell'ultima esperienza politica di Mussolini. Di estrema importanza per ricostruire il clima all'interno del partito fascista repubblicano, le lettere rivestono un interesse anche per i non specialisti, poiché chiariscono l'atteggiamento del duce nell'ultima fase della sua vita e ne mostrano il lato intimo e umano: il sentire di un uomo che, rendendosi conto della tragedia del Paese e del suo fallimento personale, si rifugia in quello che, almeno secondo queste carte, sembra essere rimasto l'unico elemento positivo della sua vita, l'amore per una donna. Dopo una lunga vicenda legale, iniziata nel 1950 con il ritrovamento e l'acquisizione da parte dello Stato del fondo Petacci, l'Archivio Centrale dello Stato pubblica l'edizione scientifica delle lettere.

La voce della critica. Nell'ultimo triennio sono apparsi diversi libri costruiti su documenti mussoliniani, in un fervore editoriale che conferma l'appeal editoriale del duce e dimostra la produttività di giacimenti archivistici rimasti inesplorati per oltre sessant'anni. Nel 2009 si è aperto alla consultazione l'imponente fondo Claretta Petacci, conservato presso l'Archivio centrale dello Stato e costituito da una pluralità di annotazioni diaristiche, lettere e pubblicazioni a stampa, sequestrate dai carabinieri nel 1950 in una località gardesana, e incamerato dallo stato dopo una vertenza con gli eredi Petacci. Da questo fondo derivano due volumi di diari (stampati da Rizzoli nel 2009-2010: Mussolini segreto 1932-38 e Verso il disastro 1939-41; un terzo tomo è bloccato dal contenzioso tra l'editore e Ferdinando Petacci, nipote di Clara) e le lettere del duce ora pubblicate a cura di Luisa Montevecchi. Per una curiosa coincidenza, in parallelo all'edizione di queste fonti, innovative e di sicura autenticità, Bompiani ha avviato la pubblicazione di cinque volumi dei Diari di Mussolini (veri o presunti), sponsorizzati dal senatore Marcello Dell'Utri ma clamorosamente falsi, come risulta, tra l'altro, dal raffronto con il fondo Petacci (cfr. "L'Indice", 2011, n. 2). Le 318 missive scritte dal dittatore all'amante tra il 10 ottobre 1943 e il 18 aprile 1945 sono corredate da un fitto apparato di note su personaggi e vicende. La trascrizione è introdotta da quattro contributi di Agostino Attanasio, Elena Aga Rossi, Giuseppe Parlato e Luisa Montevecchi, di inquadramento dell'epistolario dentro gli itinerari biografici dei due corrispondenti. Il corposo materiale è di estremo rilievo per la conoscenza dell'ultimo Mussolini, qui illuminato da nuova luce, in un'autoanalisi spesso spietata e a tratti spiazzante. Gli scritti sono naturalmente da inquadrarsi in un'ottica soggettiva, dentro il tenace rapporto sentimentale con la giovane amante che dal 1936, tra alti e bassi, clamorose rotture e subitanee rappacificazioni, è a fianco del duce, e che nell'estate del 1943 viene imprigionata con la famiglia per volontà di Badoglio. Quella carcerazione dimostra a Mussolini come, mentre il fascismo si è squagliato e gli opportunisti saltano sul carro del vincitore, Claretta non lo abbia tradito. Nell'autunno 1943 il legame amoroso si riallaccia proprio a partire da tale constatazione, che commuove l'oramai anziano dittatore e inaugura l'epistolario: "Cara, comincio col dirti: per la giovinezza che mi hai dato, per la fedeltà che mi hai portato, per le torture che hai coraggiosamente sopportato durante il periodo più nero della storia italiana, io ti amo, come nel 1936-39, come nel 1940, come sempre". Il filo della relazione si intreccia alle vicende politiche e militari che scandiscono la precaria esistenza della Repubblica sociale italiana. Su questo versante, che rappresenta il punto di maggiore interesse delle lettere, si registrano notevoli novità. Il Mussolini descritto da Mussolini è un uomo in profonda e irreversibile crisi su tutta la linea, nichilista e a tratti autolesionista, senza alcuna fiducia nei collaboratori, vincolato ai tedeschi da rapporti di amore-odio, consapevole – in momenti di spietata lucidità – della rovina incombente. Un uomo sull'orlo della follia, ossessionato dalla tentazione del suicidio, che trova nell'amante l'indispensabile sostegno per mantenere un instabile equilibrio. Intrappolato nel meccanismo da lui stesso congegnato con l'alleanza subalterna ai tedeschi e l'entrata in guerra, Mussolini rigetta le colpe della disfatta sugli italiani, impari ai suoi ambiziosi progetti: "Ti assicuro che oggi vorrei essere morto. La mia è una fatica di Sisifo. Questo è un popolo che non ce la fa. Dopo il 25 luglio e l'8 settembre, è stroncato. Un passo avanti, dieci indietro" (16 febbraio 1945). Nel marzo-aprile 1945 soffia sulla Rsi la bufera finale, ma tra Salò, Gargnano e Gardone Mussolini combatte una guerra domestica, diviso tra moglie e amante, ognuna delle quali dispone di un servizio spionistico e congiura per stroncare la rivale e i suoi sostenitori. Esasperato dalla situazione priva di vie d'uscita, Benito è disperato: "Bisogna evitare di finire al manicomio, su queste oramai da me bellissime e odiatissime rive", scrive il 16 marzo. E il 18 aprile, nella missiva finale, comunica alla Petacci il voltafaccia del governo spagnolo, che tramite l'ambasciatore tedesco Rahn gli ha comunicato il rifiuto di "ogni volo sul suo territorio"; sfuma così la possibilità di mettere in salvo Claretta, ma il dittatore non rinuncia ai progetti salvifici: "Questa ingratissima notizia aggiunge un altro motivo a quelli che mi sollecitano per andare a Milano per agire sul piano politico". L'ultima frase esprime totale incertezza: "Arrivederci in qualche modo a Milano. Spero di poter tornare qui. Ti abbraccio". Il trasferimento nella metropoli lombarda, sul cui significato gli storici si sono a lungo interrogati, era dunque condizionato dal tenace vincolo sentimentale. L'epistolario oltrepassa di molto il carattere privato, diffondendosi – con la schiettezza della disperazione – in meditazioni e confessioni utili alla revisione di importanti tasselli della biografia e della personalità di Mussolini. Se ne ricava un senso di desolazione per il degradante tramonto umano e politico di uno statista, che rimedita amaramente sulla rovina del progetto ventennale di guidare l'Italia sulle strade dell'autarchia, del nazionalismo, del militarismo, dell'impero. La consapevolezza di essere a un tempo prigioniero e complice dei nazisti, qui espressa impietosamente, non si riflette sulla condotta pubblica del dittatore, improntata a esigenze di propaganda e a valutazioni di convenienza. La lettura comparata dell'epistolario e degli scritti pubblici di Mussolini del 1943-45 demistifica slogan e comportamenti del capo della Rsi, mostrandone il tragico bluff e la schizofrenia tra pubblico e privato. Queste missive si prestano anche a una lettura psicoanalitica, per comprendere cosa si celi dentro le stanze del potere, quali miserie morali e contorsioni allignino dietro il personaggio che per "onore e fedeltà" mandò allo sbaraglio migliaia di giovani che, irretiti dalla pedagogia del regime, gli accordavano persistente fiducia. Quanti serbassero una visione mitica del tardo Mussolini, potranno valutarne la figura in modo realistico nelle pagine di A Clara, scoprendo dimensioni sinora insondate. Il duce, conscio della "sconvenienza" delle sue lettere, intimò ripetutamente alla corrispondente di stracciarle in minuscoli brandelli poiché il contenuto distruggeva l'automonumentalizzazione cui Mussolini si era dedicato ossessivamente per un ventennio. Claretta volle invece salvare il carteggio che la esalta nel ruolo di amante e di consigliera del capo del fascismo. Conclusa la lettura di A Clara, si rimpiange il divieto opposto dai dirigenti dell'Archivio centrale dello Stato a Renzo De Felice, che, presago dell'importanza dell'epistolario, ne richiese invano la consultazione. Questo materiale, oltre a consentirgli di arricchire l'ultimo tomo dell'imponente biografia mussoliniana, gli avrebbe completato l'immagine di Mussolini nelle confessioni che chiudono il cerchio umano e politico dentro cui si è dipanata l'esistenza dell'uomo che dominò per un ventennio l'Italia e la condusse alla rovina. Mimmo Franzinelli  

Benito Mussolini, il documento che dimostra il tradimento di Claretta Petacci: chi era l'amante della ragazza...scrive “Libero Quotidiano” il 22 marzo 2015. Il Duce? Cornuto. E infuriato. Il 13 luglio 1937 squilla il telefono, e risponde Claretta Petacci, l'amante 25enne e più giovane di lui di quasi 30 anni. Al telefono è un furioso Benito Mussolini: "So tutto, di voi non ne voglio più sapere". E lei risponde: "Non so di che parlate". Ne segue un diluvio di improperi, rivolti dal Duce alla Petacci. Lei scoppia in lacrime, dunque annota sul suo diario: "Il mondo crolla su di me. Io muoio...". Una liason segreta, insomma, con Luciano Antonetti, latin lover d'antan nonché ex militare dannunziano. Un tradimento le cui prove non erano emerse fino ad oggi. Nella vicenda si è imbattuto Giuseppe Pardini, professore di Storia contemporanea, che ha lavorato sulle carte di Renzo De Felice. Lo studioso ha ritrovato preziosi documenti, dei quali erano state effettuate delle fotocopie dal biografo ufficiale di Mussolini. Questi inediti, oggi, vengono pubblicati in un saggio di Pardini, L'amante di Claretta. Il duce, i confidenti, la gelosia, l'Ovra, che uscirà nel numero della rivista Nuova storia contemporanea tra pochi giorni in edicola. Stando ai documenti, il tradimento di Claretta è stato scoperto da Enzo Attioli, un noto fiduciario della polizia politica, al quale fu affidato il compito di sorvegliarla. Una notte clandestina col seduttore Antonetti, scoperta proprio da Attioli, e immediatamente riferita a Mussolini.

E Claretta fece di Mussolini un magnifico cornuto. Nel ’37 il duce scoprì la tresca della sua amante con un ex miliziano dannunziano Uno storico ha trovato la documentazione tra le carte di Renzo De Felice, scrive Mirella Serri su “La Stampa”. “Il mondo crolla su di me. Io muoio...”, annota Clara nel diario il 13 luglio 1937. Alle ore 19 è squillato il telefono di casa Petacci. Nel microfono ruggisce una voce possente nota a tutti gli italiani: “So tutto, di voi non ne voglio più sapere”. Claretta finge di cascare dalle nuvole. “Non so di che parlate”. Alla tempesta di improperi che la investe scoppia in un pianto dirotto, il Duce, è di Lui che si tratta, sempre urlando attacca. L’indignazione del dittatore non conosce limiti, ha appena saputo che è “stato fatto becco” dall’amante 25 enne, più giovane di lui di quasi 30 anni. Della liaison segreta di Claretta Petacci con Luciano Antonetti, latin lover ed ex miliziano dannunziano, sono state fino a oggi, cancellate accuratamente le tracce. Una vicenda in cui si è imbattuto Giuseppe Pardini, professore di Storia contemporanea, lavorando sulle carte di Renzo De Felice. Lo studioso ha ritrovato i documenti, conservati in fotocopia, tra i materiali del biografo di Mussolini, il quale, come sostiene Pardini, probabilmente voleva utilizzarli per integrare la sua sterminata opera sul Duce. Si tratta di cinque relazioni redatte da un noto fiduciario della polizia politica, Ezio Attioli, che nei suoi rapporti racconta la ferita inferta al più desiderato e acclarato esponente della fallocrazia fascista (copy Carlo Emilio Gadda), all’uomo che del suo dominio sul gentil sesso ha fatto un simbolo e una bandiera. Ora questi inediti vedono la luce nel saggio del docente, “L’amante di Claretta. Il duce, i confidenti, la gelosia, l’Ovra”, che uscirà nel numero della rivista “Nuova storia contemporanea” (gennaio-febbraio 2015) a giorni in edicola. A incaricare Attioli di sorvegliare Claretta, da poco separata dal marito, è il papà Francesco Saverio, medico personale del papa Pio XI. Ha visto la figliola “rincasare con gli occhi gonfi, e con segni evidenti di strapazzi subiti”. Già, proprio così. La fedifraga ha trascorso una nottata con il seduttore Antonetti. Nel timore che Clara si lasci irretire da quel “magnaccio”, il dottor Petacci si propone di affrontarlo per strada ma si trattiene per timore dello scandalo. Arruola lo spione Attioli in modo che pedini il corteggiatore e gli infligga al momento opportuno una bella lezione. L’informatore ha mire nascoste: è un doppiogiochista, segue l’intrigo di amore e di gelosia e lo trascrive in rapporti che spedisce al capo della polizia, Arturo Bocchini. Attioli è convinto che Clara non abbia alcuna intenzione di liberarsi del Duce nonostante sia molto presa dal bel Luciano. “Il suo agire ostinato, lascia un po’ perplessi”, rileva lo spione, “da un lato non vuole perdere la benevolenza del Duce e nulla trascura per far credere che lo ama; dall’altro lato si abbandona spesso a nottate fuori di casa in compagnia dell’amico Antonetti e non si perita dal palesare tale sua debolezza anche a terzi, come, ad esempio, alla sarta Dolores Sereni e alla cameriera”. L’incosciente Claretta si confida con la sarta e con la domestica mentre i solerti genitori cercano di prendere provvedimenti. Non sono proprio disinteressati. “Vorrebbero che il Duce riconoscesse al loro casato un titolo nobiliare”, registra l’Attioli, mentre “donna Giuseppina si lascia scappare di bocca che vedrebbe volentieri il marito senatore”. In contemporanea, però, anche il capo del fascismo viene informato della tresca con colui che, sempre stando ai questurini, è “un cattivo arnese”, cerca di fare contrabbando di armi e si accompagna pure a una “prostituta ermafrodita”. Il leader in camicia nera di licenze amorose se ne intende, di amanti ne ha parecchie ma a Claretta non fa sconti. Tra le accuse e le offese, le ingiunge, sempre telefonicamente, di riprendersi i quadri che la fanciulla pittrice in erba ha portato a Palazzo Venezia, e di non farsi più vedere. Poi, con stile da pochade, ci ripensa: “Il Duce ha telefonato; rispose la Clara”, riporta l’informatore, “ma Lui si limitò a dirle: ‘Ho bisogno di parlare con vostra madre. Fatela venire da me alle 8 di questa sera’ ”. Il despota interroga donna Giuseppina se sua figlia è “limpida”. “Sono solo voci malevole”, racconta Attioli che la mamma avrebbe detto a Mussolini. “E il Duce finì col dirmi ‘sorvegliate, sorvegliate, la affido a voi!’”. Perdonata dal capo del governo, Claretta non lo è dai genitori: “Se ora non fili dritta, ti dò un pugno in testa e ti ammazzo”, l’allerta il padre. E la madre: “Ti ho salvata; ho fatto il mio dovere; ma d’ora in avanti se non lasci per sempre Luciano, ti metto io a posto!”. L’Antonetti verrà malmenato per strada da “estranei”, riferiscono i questurini che lo portano al gabbio senza motivo. Privo di lavoro, tallonato da un segugio, finirà la vita povero e malato. Nella dittatura anche il sesso è un affare di Stato e ogni violenza è permessa. L’onore del Duce-stallone d’Italia è salvo, il segreto de “Il magnifico cornuto” alla Tognazzi rimane inviolato e la fiducia degli italiani, secondo i parametri mussoliniani, non viene intaccata. Almeno per il momento.  Mirella Serri 

Mussolini e l'amante tedesca per sostituire Claretta Petacci. Un documento inglese svela l'inedita passione del Duce. Il Vaticano premeva perché lasciasse l'italiana, troppo ossessiva, scrive di Roberto Festorazzi su “Libero Quotidiano” il 27 gennaio 2012. Mussolini ebbe una giovane amante tedesca. La notizia che il Duce possa aver stretto tra le sue possenti e maschie braccia una valchiria bionda balza da una corrispondenza diplomatica inedita trovata al Public Record Office di Londra, sede degli archivi nazionali britannici. Si tratta di una nota riservata che, il 5 gennaio 1939, l’ambasciatore inglese a Parigi, sir Eric Phipps, manda a Edward Ingram, funzionario del Foreign Office. Il succo della comunicazione è questo: l’amante fissa di Mussolini, l’assillante Clara Petacci, è troppo stressante per il dittatore, che ha deciso di passare a una più riposante ragazza teutonica. Phipps, che fino all’inizio del 1938 era stato ambasciatore a Berlino, afferma di aver raccolto l’indiscrezione da Alexis Léger, segretario permanente del Quai d’Orsay, il ministero degli Esteri francese. Questi gli avrebbe spiegato che «l’ostinata signora» (in inglese «Pertinacious Lady», definizione in assonanza con il nome Petacci) sarebbe stata «accantonata dal Duce in favore di una placida tedesca». La Pertinace Signora, prosegue la missiva diplomatica, avrebbe infatti generato ansietà tra i medici di Mussolini, avendo messo a dura prova i nervi già molto tesi del dittatore. Phipps registra inoltre che tale preoccupazione è condivisa dallo stesso Vaticano, che si sarebbe «messo all’opera per rimpiazzarla [la Petacci, ndr] con l’attuale donna, più rilassante sia da un punto di vista fisico che mentale». Il diplomatico chiosa con ironia: «Il che è divertente in quanto la Numero Uno [la Petacci, ndr] è figlia di un medico del Vaticano, e avrebbe dovuto essere meglio istruita». Il nodo del contendere è tutto politico: si teme infatti, tanto a Londra quanto a Parigi, che una donna con le caratteristiche di Claretta Petacci, emotivamente instabile, possa far degenerare l’equilibrio di Mussolini, inducendolo a compiere colpi di testa, in un momento assai impegnativo e delicato per le sorti del mondo. Siamo infatti nel 1939, anno che vedrà incrinarsi la pace europea, con lo scoppio di un nuovo conflitto. Che una donna tedesca potesse distendere i nervi scossi del Duce, sollevandolo dalle influenze nefaste della Petacci, suona abbastanza curioso, perché dal carteggio diplomatico non emerge l’ipotesi che la bionda teutonica potesse essere una spia nazista. Senza per questo indulgere alla tentazione di fare della fantastoria, il gioco di Hitler potrebbe essere stato quello di irretire Benito sfruttando la sua ben nota bulimia sessuale. Ignoriamo se la valchiria del Duce sia veramente esistita o meno. L’indiscrezione, rimbalzata nei dispacci diplomatici, era tuttavia basata su una fonte estremamente affidabile, svelata dagli stessi documenti degli Archivi britannici, e tale da non poter essere ignorata. La gola profonda era Hubert Lagardelle. Questi, teorico del socialismo francese e discepolo di Georges Sorel, non era un personaggio qualunque: era un amico personale di Mussolini, e negli anni Trenta svolse a Roma, dalla sede dell’ambasciata di Francia a Palazzo Farnese, una sorta di missione diplomatica permanente per spianare la strada a un’intesa tra il governo di Parigi e il Duce. Lagardelle fu poi condannato ai lavori forzati a vita per aver ricoperto, a partire dal 1942, la carica di ministro del Lavoro nel governo di Vichy. Quindi, non era possibile trascurare una tale notizia, giunta da una personalità in stretto contatto con il Duce e da questi costantemente consultato. La storia dell’amante germanica di Mussolini è emersa, seppure indirettamente, nelle carte intime della Petacci, pubblicate recentemente da Rizzoli. Dai racconti di Claretta, apprendiamo che, il 24 gennaio 1939, ossia tre settimane dopo il dispaccio di Phipps al Foreign Office, Mussolini lesse a Claretta l’articolo di un giornale francese che sostanzialmente riprendeva le notizie diffuse per canali diplomatici. Nel pezzo, si forniva l’identikit della rivale della Petacci: una bionda diciannovenne, «fortemente piazzata», e meno impegnativa per la salute del Duce. Insomma, una specie di infermierona, una sinecura sentimentale. Incalzato dalla gelosia di Clara, Benito (che aveva una gran coda di paglia in proposito) si protestò del tutto innocente e senza macchia: «Questa tedesca è inesistente!», le giurò. Certo, se Mussolini fosse stato fedifrago, probabilmente non le avrebbe letto il trafiletto del giornale francese. Ma, se di leggenda si tratta, certo è tale da lasciarci più di un dubbio in proposito. Marco Antonini, 86 anni, è figlio di Hetty Marx, un’olandese che ebbe una lunga relazione con Lagardelle, dalla fine del 1932 alla tarda primavera del ’40, quando l’amico francese del Duce fu costretto a lasciare l’Italia. A lui ho domandato se conoscesse il retroscena dell’amante germanica di Benito: «Questa storia io non l’ho mai sentita prima. Ma non mi sorprenderebbe se fosse vera. Anzitutto, perché Lagardelle frequentava Mussolini e lo seguiva molto da vicino. In secondo luogo, perché i tedeschi erano maestri nell’arte di piazzare donne nel letto di chi volevano sorvegliare e condizionare. Lo fecero con Ciano e probabilmente anche con D’Annunzio».

MUSSOLINI, AMORE E DISPERAZIONE. L'inedito carteggio fra il Duce e l'amante Claretta Petacci è al centro del documentario in onda stasera su Rai 3, con le voci di Michele Placido e Maya Sansa, scrive "Famiglia Cristiana” il 05/09/2012. Una delle 318 lettere scritte da Benito Mussolini a Claretta Petacci fra il 1943 e il 1945. Il Duce si rivolgeva all'amata chiamandola “Piccola cara”. Un «sognatore naufragato», un «buffone», un «ridicolo personaggio», un «fantoccio grottesco», fino al definitivo «cadavere vivente». Era questo che Benito Mussolini pensava di sé nelle 318 lettere scritte all’amante Claretta Petacci durante i 600 giorni della Repubblica di Salò. Pagine ingiallite custodite per oltre 60 anni nei sotterranei dell’Archivio centrale dello Stato e ora rese pubbliche dopo un lunghissimo iter giudiziario con gli eredi Petacci. Un carteggio che approda anche in Tv con il documentario «Mussolini. Il cadavere vivente» di Giuseppe Giannotti, Davide Savelli e Clemente Volpini, in onda mercoledì 5 settembre alle 21.10 su Rai 3, con Michele Placido e Maya Sansa che daranno voce ai due protagonisti. I documenti sono importanti per due ragioni. Che Mussolini, dopo essere stato liberato dai tedeschi dalla sua prigionia del Gran Sasso si considerasse un uomo stanco, malato e ormai sconfitto, è cosa risaputa. Perfino durante quei tragici 600 giorni e pure tra i fascisti non accecati dal fanatismo, si sapeva che la Rsi era solo un Stato fantoccio nelle mani dei nazisti e che il Duce, di fatto, era un loro prigioniero, tanto che il 21 giugno del 1944 il direttore della “Stampa” di Torino Concetto Pettinato si permise di scrivere un editoriale dall’eloquente titolo: “Se ci sei, batti un colpo”. Un altro estratto di una lettera scritta da Mussolini a Claretta Petacci. Da notare la firma finale: “Ben”. Ma un conto è la lucida consapevolezza del proprio fallimento e un altro è la totale disperazione che emerge da queste lettere. L’uomo che per un ventennio aveva guidato con pugno di ferro una nazione, suscitando l’ammirazione perfino di Churchill, si ritrova ad essere solo un servile burocrate e desolato scrive all’amante: «Debbo occuparmi delle mense, dei buoni di prelievo e dove e quando e quanto e da chi e come. Un’infinita noia mi sopraffà. Pur così vuoto e detestandomi ti abbraccio. Ben». E ancora: «Vivo solo. Non parlo con nessuno. Mi sento circondato. Non mi si vuole dare la possibilità di muovermi. Quando mi muovo, l’apparato italo-germanico di protezione è imponente». Solo l’odio per i traditori del Gran consiglio del fascismo, per il re Vittorio Emanuele III e per Badoglio, sembrano scuoterlo dallo scoramento, senza tuttavia essere mai lontanamente sfiorato da un’ombra di autocritica per aver trascinato lui l’Italia nella catastrofe della guerra: «Ma prima di parlare di noi, parlo della nostra cara, grande, infelicissima Italia, due volte massacrata e tradita il 25 luglio e l’8 settembre. Quale infamia nei capi, re e Badoglio, quale incoscienza nel popolo, quanti tradimenti e viltà». L’unica vera consolazione è la fedeltà di Claretta: «Tu sei e rimani il mio amore immutabile. Il destino ti ha voluto accanto a me. Ci rimarrai a qualunque costo anche nel futuro». Per poi aggiungere, con amara ironia: «Ciò è storico, anche se la parola è grossa». Claretta Petacci. Conobbe Mussolini nel 1932, appena ventenne. Ed ecco il secondo grande motivo di interesse di questo carteggio: Claretta Petacci. La sua figura è stata finora confinata al ruolo di «amante» devota e passiva del Duce. Le risposte alle lettere tratteggiano invece una donna risoluta, che fa di tutto per pungolare il suo amato “Ben” a tornare a esser il Duce che aveva conosciuto appena ventenne. Prima di un incontro con Hitler, si spinge addirittura a dargli dei consigli su cosa dire quando si troverà di fronte il dittatore. «Tu devi sostenere il tuo diritto assoluto di decidere senza sindacare delle questioni interne italiane, nonché degli uomini che tu ritieni più adatti alla tua grandiosa e faticosa opera di ricostruzione». Ma è tutto inutile. Il 29 settembre 1944 gli scrive: «Caro bellissimo, la tua debolezza di fronte a uomini a te inferiori mi brucia e mi umilia. Ricordati, Ben, tu sei il Duce, il Capo, anche se di pochi, anche su di un metro quadrato di territorio, sei e sarai sempre Mussolini e per te si vive e si muore!». C’è un unico sussulto, dopo l’ultimo discorso del dittatore al Teatro Lirico di Milano del 16 dicembre 1944: «Finalmente! Tu non credevi più in te stesso e il popolo, pur credendo in te, non ti sentiva. Ora ti sei ritrovato in te e nel tuo popolo». Ma sono solo illusioni. Tutto precipita e nell’ultima lettera che Mussolini invia a Claretta, datata 18 aprile 1945, non si fa nessun accenno alla tragedia incombente, ma solo alla gelosia dell’amata: «Vedo che sei sempre bene informata. Ieri sera ho ricevuto la signorina Pia Piazzi e naturalmente sono accadute tremende cose. Non è accaduto assolutamente niente…». Il vecchio dittatore tenta pateticamente di esorcizzare la fine indossando per l’ultima volta i panni del Don Giovanni, dell’uomo virile e risoluto che per vent’anni aveva ammaliato una nazione intera. Solo undici giorni dopo i corpi dei due amanti saranno uniti nello scempio di piazzale Loreto.

Clara Petacci da Biografia On Line. Dati sintetici: Amante del Duce, nata Mercoledì 28 febbraio 1912 a Roma, Italia, morta Sabato 28 aprile 1945 a Giulino di Mezzegra, Italia per Assassinio. Clara Petacci, detta Claretta, nasce a Roma il 28 febbraio 1912 a Roma. Appassionata di pittura e con velleità cinematografiche, pare fosse innamorata del Duce fin da giovanissima. Il 24 aprile 1932 la speranza di Claretta viene esaudita. L'incontro con Benito Mussolini avviene alla rotonda di Ostia: Claretta ha vent'anni, è nel pieno della sua giovinezza e della sua bellezza; il Duce ne ha quarantotto. Nonostante tutto Claretta sposa il fidanzato, il tenente dell'aeronautica Riccardo Federici, da cui si separerà nel 1936. Dopo la sua separazione inizierà la relazione intima con il Duce. Claretta lo aspetta ogni giorno pazientemente nella stanza dei loro incontri e anche se gelosissima sopporta tutte le umiliazioni, che nonostante le volesse bene, Mussolini le infligge. Claretta non chiederà mai a Mussolini di lasciare la moglie per lei. Accettava quello che il suo uomo poteva darle, fino alla fine, fino a voler morire vicino a lui, per dimostrargli fino in fondo la sua dedizione e per compensarlo, a suo modo di vedere, di tutti gli abbandoni subiti nella fase finale del suo potere. Travolta dagli eventi della Seconda guerra mondiale, alla caduta del regime, Clara Petacci viene arrestata il 25 luglio 1943 per essere poi liberata il giorno 8 settembre, quando viene annunciata la firma dell'armistizio di Cassibile. Tutta la famiglia abbandona Roma e si trasferisce nel nord Italia controllato dalle forze tedesche, dove poi sorge la Repubblica di Salò. Clara si trasferisce in una villa a Gardone, non lontano dalla residenza di Mussolini. Il 25 aprile, sia Clara sia Marcello si allontanano da Milano assieme alla lunga colonna di gerarchi fascisti in fuga verso Como. Il 27 aprile 1945, durante l'estremo tentativo di Mussolini di sottrarsi alla cattura, Clara viene bloccata a Dongo. Il giorno seguente, il 28 aprile, dopo il trasferimento a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, Benito Mussolini e Claretta Petacci vengono fucilati, sebbene su Clara non pendesse alcuna condanna. La versione ufficiale della morte di Mussolini è stata tuttavia contestata ed esistono diverse versioni sull'andamento dei fatti. Il giorno dopo (29 aprile) i corpi vengono esposti in piazzale Loreto a Milano (assieme a quelli delle persone fucilate a Dongo il giorno prima e Starace, che venne giustiziato in Piazzale Loreto poco prima), appesi per i piedi alla pensilina del distributore di carburante, dopo essere stati oltraggiati dalla folla. Il luogo viene scelto per vendicare simbolicamente la strage di quindici partigiani e antifascisti avvenuta il 10 agosto 1944, messi a morte per rappresaglia in quello stesso luogo.

Clara Petacci da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Claretta Petacci. Clarice Petacci, conosciuta come Claretta o Clara (Roma, 28 febbraio 1912 – Giulino di Mezzegra, 28 aprile 1945), è stata l'amante di Benito Mussolini, da lei idolatrato fin dall'infanzia, e per tale motivo uccisa dai partigiani insieme a lui. Era sorella dell'attrice Miria di San Servolo (vero nome Maria Petacci). Era figlia di Giuseppina Persichetti (1888-1962) e del medico Francesco Saverio Petacci (1883-1970), direttore per alcuni anni di una clinica a Roma e introdotto negli ambienti vaticani in qualità di medico dei Sacri Palazzi apostolici. Per un periodo di vari anni ebbe anche una sua clinica personale, "La Clinica del Sole". Clara studiò con rendimenti alterni musica e fu allieva del violinista Corrado Archibugi, amico dei suoi genitori. Il 24 aprile 1932 la Lancia Astura vaticana con a bordo oltre all'autista Saverio Coppola, Claretta Petacci, la sorella Myriam, la loro madre e il futuro marito di Claretta, Riccardo Federici, lungo la via del Mare che da Roma va al Lido di Ostia, viene sorpassata dalla rossa Alfa 6C 1750 Gran Turismo Zagato guidata da Benito Mussolini. La Petacci, che già da tempo inviava al duce numerose lettere di ammirazione, lo riconosce e trova il modo di attirare la sua attenzione, lui accetta poi di scambiare qualche parola con lei. Da allora sempre più frequenti furono le "udienze" a Palazzo Venezia, che dopo una serie di colloqui confidenziali acquisirono il carattere di una vera e propria relazione. La Petacci, ormai sposata con il sottotenente dell'Aeronautica Militare Italiana Riccardo Federici (1904-1972), aveva in realtà già preso le distanze da quest'ultimo (dal quale si sarebbe separata ufficialmente nel 1936. Il divorzio ancora non era consentito). All'epoca del suo incontro con Mussolini, Clara aveva vent'anni, trenta di meno del suo amante. Mussolini era sposato dal 1915 con rito civile e dal 1925 con rito religioso con Rachele Guidi (detta "donna Rachele"), che aveva conosciuto già durante l'infanzia e alla quale era legato sin da prima del 1910. Gli erano inoltre state attribuite numerose amanti, tra le quali Ida Dalser (che gli diede il figlio Benito Albino Mussolini), e aveva da poco concluso una lunga ed importante relazione con Margherita Sarfatti. Mussolini prese a frequentare la Petacci con regolarità, ricevendone le visite puntuali anche nel suo studio di Capo del governo a Palazzo Venezia. Clara rimase per molti anni fedele «all'amato "Ben"», come chiamava Mussolini anche nella corrispondenza, solo in parte pubblicata. Diversi gerarchi del fascismo, d'altra parte, reputavano la relazione tra il duce e la Petacci - per quanto ufficialmente inesistente e tollerata da donna Rachele - molto inappropriata, perché possibile fonte di scandalo e di accuse di corruzione al regime, suscitando altresì facezie ed amenità tra quanti ne erano informati. Clara era appassionata di pittura. Ebbe il ruolo di compagna segreta di Mussolini, di cui condivise i momenti più bui e il destino finale, pare senza mai avanzare la pretesa che l'amante lasciasse per lei la moglie Rachele. La vicinanza di Clara a Mussolini finì per innalzare il rango della sua famiglia, alimentando voci relative a favoritismi e possibili episodi di corruzione, dei quali veniva prevalentemente ritenuto responsabile (anche da ambienti legati alla gerarchia fascista) il fratello Marcello Petacci (Roma 1º maggio 1910 - Dongo 28 aprile 1945). Verso la fine del 1939 i Petacci si trasferirono dalla residenza medio-borghese di via Lazzaro Spallanzani (confinante con villa Torlonia) nella splendida villa "Camilluccia" (sita sulle pendici di Monte Mario, allora ai margini della città), progettata dagli architetti italiani Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti, e che rappresentava un notevole esempio del Razionalismo italiano. La grande casa era divisa in 32 locali distribuiti su due piani sovrastati da una terrazza. Nel sottosuolo, come nella residenza del duce di Villa Torlonia, era ricavato un rifugio antiaereo, mentre nell'ampio parco erano presenti anche una piscina, un campo da tennis, un giardino fiorito, curato da Clara, un orto e un pollaio, curati dalla madre. L'accesso al complesso era sorvegliato da una guardiola per il portiere ed una per la guardia presidenziale assegnata alla proprietà. Nell'ala destra del piano terreno (probabilmente per ragioni di sicurezza dovute alla necessaria vicinanza con il rifugio) era posizionata l'alcova di Claretta e Benito. Composta da una camera con pareti e soffitto ricoperte da specchi ed arredata con mobili rosa, era servita da una stanza da bagno rivestita in marmo nero e dotata di grande vasca mosaicata, posta a filo del pavimento, che voleva imitare le vasche termali romane. All'indirizzo della residenza Petacci (via della Camilluccia 355/357) erano inviate numerose lettere che richiedevano i buoni uffici di Clara per petizioni rivolte a Mussolini. Dopo la caduta del fascismo la villa fu confiscata con l'accusa che fosse stata acquistata da Mussolini con fondi sottratti al bilancio dello Stato. La famiglia riuscì ad opporsi a tale provvedimento di esproprio e successivamente ottenne la restituzione della villa, dimostrando l'accusa come infondata. Più tardi la villa fu venduta, e finì in stato di abbandono, fino ad essere definitivamente demolita per far posto ad un complesso di edifici che oggi ospitano le ambasciate dell'Iraq presso l'Italia e la Santa Sede. Travolta dagli eventi della seconda guerra mondiale, Clara Petacci fu arrestata il 25 luglio 1943, alla caduta del regime fascista, per essere poi liberata l'8 settembre, quando venne annunciata la firma dell'armistizio di Cassibile. Tutta la famiglia abbandonò Roma e si trasferì nel Nord Italia controllato ancora dalle forze tedesche, e dove poi si instaurò la Repubblica di Salò. Clara si trasferì in una villa a Gardone, non lontano dalla residenza di Mussolini e dalla sede del governo repubblicano a Salò. In questo periodo ebbe un fitto rapporto epistolare con Mussolini e nonostante il parere contrario del Duce conservò tutte le missive: in una di queste, chiese che al processo di Verona Galeazzo Ciano fosse condannato a morte in quanto "traditore, vile, sudicio, interessato e falso", esprimendo quindi una posizione durissima (valevole anche per Edda Mussolini, "sua degna compare") che venne definita dallo storico Emilio Gentile di "rigore nazista". Trasferitisi a Milano a seguito dell'abbandono della riviera gardesana da parte del duce, poco dopo la metà di aprile del 1945, il 23 aprile i Petacci - salvo Clara e il fratello Marcello, che rimasero nel capoluogo lombardo - si misero in salvo in aereo, giungendo a Barcellona dopo un avventuroso volo durato quattro ore. Il 25 aprile, sia Clara sia Marcello si allontanarono da Milano assieme alla lunga colonna di gerarchi fascisti in fuga verso Como, Marcello tentando di riparare in Svizzera con false credenziali da diplomatico spagnolo. Il 27 aprile 1945, durante l'estremo tentativo di Mussolini di sottrarsi alla cattura, Clara fu bloccata a Dongoda una formazione della 52ª Brigata Garibaldi partigiana, che intercettò la colonna di automezzi tedeschi con i quali il duce viaggiava. Taluni affermano che le sia stata offerta una via di scampo, da lei ricusata decisamente. Avrebbe potuto fuggire in Spagna con i suoi familiari in aereo (Miriam Petacci: "Chi ama è perduto"). Il giorno seguente, 28 aprile, dopo il trasferimento a Bonzanigo di Mezzegra, sul lago di Como, Mussolini e la Petacci furono uccisi, secondo la versione diffusa a Giulino di Mezzegra, sebbene su Clara non pendesse alcuna condanna. La versione ufficiale, e anche alcune versioni alternative, affermano che venne uccisa perché si oppose all'esecuzione di Mussolini, frapponendosi tra il duce e l'esecutore, oppure perché testimone scomoda. Nella stessa giornata anche il fratello di Clara, Marcello Petacci, fu ucciso a Dongo dai partigiani, insieme ad altre quindici persone che accompagnavano la fuga di Mussolini. Il giorno successivo, il 29 aprile, a Piazzale Loreto (Milano), i corpi di Benito Mussolini e Claretta Petacci furono esposti (assieme a quelli delle persone fucilate a Dongo il giorno prima e Achille Starace, che venne ucciso in Piazzale Loreto poco prima), appesi per i piedi alla pensilina del distributore di carburanti Esso, dopo essere stati oltraggiati dalla folla. Il luogo venne scelto per vendicare simbolicamente la strage di quindici partigiani e antifascisti, messi a morte per rappresaglia in quello stesso luogo il 10 agosto 1944. Non appena comprese che c'era l'intenzione di appendere per i piedi anche il cadavere della Petacci alla pensilina, don Pollarolo, cappellano dei partigiani, prese l'iniziativa di chiedere a una donna presente tra la folla, la sarta Rosa Fascì, una spilla da balia per fissare la gonna indossata dal corpo di Clara. Tale soluzione si rivelò però inefficace e così intervennero i pompieri, sopraggiunti con gli idranti a sedare l'ira della folla, a provvedere a mantenere ferma la gonna con una corda. Dopo essere stata sepolta in un primo tempo al Cimitero Maggiore di Milano, sotto il nome fittizio di Rita Colfosco, nel 1959, con autorizzazione del ministro dell'interno Fernando Tambroni, è stata inumata nella tomba di famiglia al Cimitero Comunale Monumentale Campo Verano di Roma.

“Claretta Petacci pensava fossi l’amante del duce. Invece sono sua figlia” scrive il 4 maggio 2011 Mauro Suttora. «Questa precoce prostituta che hai elevato a tua consigliera, amante e confidente, mentre si dava a te per calcolo, per orgoglio, per vizio, ti ridicoleggia con giovani amanti… Tolleri che questa indefinibile ragazza, mocciosa e impudente, ti spubblichi e ti invilisca sfruttando il tuo nome e vendendo il tuo prestigio?». Estate 1944. La guerra infuria, e [...] «Questa precoce prostituta che hai elevato a tua consigliera, amante e confidente, mentre si dava a te per calcolo, per orgoglio, per vizio, ti ridicoleggia con giovani amanti… Tolleri che questa indefinibile ragazza, mocciosa e impudente, ti spubblichi e ti invilisca sfruttando il tuo nome e vendendo il tuo prestigio?». Estate 1944. La guerra infuria, e a Salò (Brescia) Benito Mussolini guida la Repubblica sociale sotto il controllo dei nazisti. Ogni giovedì riceve a rapporto nel proprio studio una bellissima ragazza 21enne, che lavora per il segretario del partito Alessandro Pavolini. È la sua figlia naturale Elena Curti, avuta a Milano da una relazione con Angela Cucciati, moglie del capo fascista Bruno Curti. La madre, poi separata, aveva rivelato il segreto alla figlia quando compì 18 anni. Ma la gelosissima Claretta Petacci, principale amante del duce, non conosce questo legame di sangue. E sospetta che la giovane Elena sia l’ennesima conquista del suo Benito, traditore seriale. Attraverso i propri informatori Claretta scopre che Elena lavora con i giovani del battaglione Bir El Gobi. E che in quel clima da caserma le vengono attribuite molte relazioni. Intima a Mussolini di interrompere gli appuntamenti settimanali. Il dittatore acconsente, ma Elena vuole vederlo ancora. E lui la riceve. Sapendo però che la tremenda Claretta sarebbe venuta a saperlo quasi subito, si affretta a scriverle: «Ha tanto insistito che si trattava di cose politiche che l’ho ricevuta oggi alle 12, con a immediata portata il vicesegretario del partito. Aveva qualcosa da dirmi sull’ambiente della Mas, che pare dominato da una donna, e sul Barbarigo, battaglione totalmente fascista. Non la vedevo dal 6 giugno. Questi mesi di attività hanno lasciato tracce sul suo volto. Il colloquio è durato una decina di minuti, dopodiché l’ho pregata di non venire più a Gargnano, per nessun motivo. L’ha capito e si è allontanata. Questa è la assoluta verità. Chiedo, perché lo merito, il tuo abbraccio». Questo messaggio, e quello di risposta di Claretta, sono stati appena pubblicati nel libro L’ultima lettera di Benito (Mondadori) di Barbara Raggi e Pasquale Chessa. Ai quali l’Archivio Centrale dello Stato ha permesso di visionare tutti i diari e le lettere della Petacci, resi pubblici dopo 70 anni. La replica di Claretta a Mussolini è furibonda: «Giurasti sulla memoria di tuo figlio che mai più la Curti avrebbe varcato la soglia del tuo ufficio… [E invece] la Curti sgonnellava nelle prime ore del pomeriggio in bici in pieno sole, e in pieno giorno veniva da te… Prendi come vessillifera questa pettegola immorale, e non senti tutto il ridicolo e la miseria morale di questo gesto? I segni che tu trovi sul suo volto e che attribuisci alla sua attività lavorativa – sono infatti lavorativi: anche per una costituzione così robusta un battaglione è estenuante invero!». Insomma, Claretta accusa la povera Elena («Donna screditata, chiacchierata, in continua vita dissoluta») addirittura di relazioni contemporanee e promiscue. E fa qualche nome: Gai, Ciolfi… Elena Curti, oggi lucidissima ed elegante signora 88enne, ci riceve a casa sua e leggendo la lettera scoppia a ridere: «E certo, il povero Ciolfi era il mio fidanzato. Più per volontà di sua madre che mia, per la verità… Invece Giulio Gai era figlio dell’ex ministro dell’Economia Silvio. In quell’ambiente di intrighi le voci correvano. Io ero la madrina del battaglione Bir El Gobi. Frequentavo tanti uomini, perfino Mussolini una volta si preoccupò per la mia verginità. Che invece persi anni dopo con un altro fidanzato, se proprio si vuole saperlo…». La Curti ha affidato le proprie memorie al libro Il chiodo a tre punte (ed. Iuculano, 2003): «La guerra non ci impediva di andare a spettacoli di varietà come quelli di Dario Fo e della bellissima Franca Rame, che facevano furore con la loro ironia piccante. Spirava aria di fronda, ma nessuno censurava gli spettacoli». Il 25 aprile ‘45 anche Elena Curti fa parte del convoglio di gerarchi che con Mussolini cerca di raggiungere la Valtellina. Quando dicono a Claretta che c’è anche lei, la Petacci dà in escandescenze. A quel punto qualcuno la informa della parentela segreta. «E allora quando ci siamo incontrate per la prima e ultima volta, il 27 aprile», racconta la signora Curti, «lei mi ha rivolto uno sguardo indagatore, incuriosito. Notai i suoi occhi azzurri, quasi viola. Io ero nell’autoblindo accanto a Mussolini, lei invece viaggiava su un’auto con il fratello Marcello, la cognata Zita Ritossa e i loro due piccoli figli. Poi Mussolini salì sul camion tedesco in cui lo arrestarono i partigiani. La fine è nota». Mauro Suttora

Sex dux - dai diari di Claretta Petacci, la vita sessuale di Benito - un arcitaliano per il quale il matrimonio è sacro nonostante le tanti amanti - la moglie Rachele DIVENUTA ACIDA CON L’ETÀ. E PER CALMARLA OGNI TANTO il duce DEVE "PAGARE LA TASSA" - "mia moglie Non è accogliente, è poco gentile, nervosa e sgarbata, come tutte le donne di 50 anni che vorrebbero averne 40, quelle di 40 trenta, e quelle di 30 venti"...Mauro Suttora per "Libero Quotidiano" il 22 giugno 2010. Tratto dai diari di Claretta Petacci, resi pubblici dall'Archivio centrale dello Stato dopo 70 anni di segreto. In queste pagine i rapporti tra Benito Mussolini, per il quale il matrimonio è sacro nonostante le tanti amanti, e la moglie Rachele. Che venne a conoscenza della relazione con la Petacci solo dopo il crollo del regime. Incredibilmente, Rachele Mussolini viene a sapere di Claretta Petacci, amante fissa di suo marito, soltanto dopo il crollo del regime, il 25 luglio 1943: a ben otto anni dall'inizio della relazione. E solo perché i giornali cominciano a scriverne. Nei suoi diari Claretta mostra sempre rispetto per la moglie del dittatore. Il quale, peraltro, non la illude: lui è sposato, il divorzio non esiste, e mai lei oltrepasserà il rango di amante. La famiglia è sacra. Mussolini si preoccupa del gossip: «No, non possiamo [mostrarci insieme] per via del pettegolezzo. Ce n'è già molto in giro, ti devi togliere dalla mente che noi si possa andare in pubblico o fuori di qui [palazzo Venezia], per qualche tempo. Bisogna essere prudenti», dice a Claretta il primo gennaio 1939. E il 17 aprile, quando lei vorrebbe partecipare al ricevimento per la conquista dell'Albania, Benito glielo vieta: «Non ci faccio venire mia moglie, e ci porto l\'amante? Sono cose che offendono, non si possono fare, abbi pazienza. No, la Sarfatti una volta che venne le voltai le spalle». In febbraio Mussolini preannuncia a Claretta: «Andrò qualche giorno al Terminillo con mia moglie e i bambini. Donna Rachele nel 1943 a Torlonia con la nipote Raimonda Ciano (Olycom). All'Anna [la figlia poliomelitica di nove anni] fa molto bene sciare. Tu potrai dormire al[l'albergo] Quattro Stagioni, ci vedremo da lontano. Mia moglie è molto allegra e tranquilla, speriamo bene». Poi però cambia idea. Il 19 febbraio Claretta scrive: «È stanco e fiacco, facciamo l\'amore senza eccessivo entusiasmo. Mi dice che partirà domani mattina alle 11 con la moglie [per il Terminillo]: "Guarda di non venire, sarà uno scandalo...". Vede che sto per piangere, allora mi chiede: "Ma proprio mi ami tanto da non resistere?"». La Petacci gli risponde che lo seguirà lo stesso. Allora Mussolini si arrabbia: «Ci sarà qualche anima buona che lo farà sapere a mia moglie. Desidero farmi vedere molto con lei, appunto per sviare un po' di chiacchiere. Tutta Rieti sarà piena del tuo arrivo, tutto il Terminillo, gli alberghi. E diranno "Mussolini è venuto ad un albergo con la moglie, e all'altro c'è l'amante". Se questo conviene al mio prestigio, al mio nome, al nostro amore, a te, a me, al nostro avvenire, e la tua sensibilità non ti consiglia il sacrificio, fai come vuoi. Ma te ne pentirai». Si pente invece Benito, due giorni dopo. Telefona alle otto e venti del mattino dal Terminillo a Claretta, rimasta a Roma: «Mia moglie questa notte è stata malissimo, non ha fatto che vomitare dalle quattro. Abbiamo chiamato il dottore a Rieti, che non ha capito nulla». Alle cinque del pomeriggio altra telefonata di Mussolini, da Roma: «Siamo dovuti tornare. Sta male, molto. Il vomito continuava e la soffocava, che pena. Non ho mai dormito. Il dottore ha detto che non si assumeva la responsabilità se rimaneva fuori, che venisse subito a Roma. Ma ce n'è voluto per convincerla. Piangeva, voleva restare. Non è stata un\'impresa facile metterla in macchina e farle fare il viaggio. [...] Non ti dico questa notte lassù nella neve, soli senza una medicina, senza una farmacia. Volevano l'atropina, non si trovava, non so se c'era. E lei che si torceva. A un certo punto mi dice: "Non credevo che fosse così difficile morire. Ti raccomando i bambini, curali, non li abbandonare". Mi sono messo a piangere anch'io. Non sapevo più che fare, avevo paura. Io poi non lo capisco il male, mi spaventa. Non posso veder soffrire». Mussolini utilizza Rachele come informatrice, perché il viso della riservatissima moglie è ignoto alla maggioranza degli italiani. Il 10 settembre '39, per esempio, la signora Mussolini torna in incognito a Roma con il treno da Forlì: «Pessimo viaggio», racconta poi il duce a Claretta, «dieci ore quasi sempre in piedi perché ha ceduto il posto a donne incinte, ed era pienissimo. A ogni stazione il treno si fermava per caricare soldati. E tutti dicevano: "Per il Duce andiamo pure a farci ammazzare, ma per Hitler neanche se ci manda il Padreterno". Nessuno l'ha riconosciuta, e lei stava a sentire». Confermata, insomma, la giustezza della decisione presa dal duce dieci giorni prima: non entrare in guerra a fianco della Germania. A volte Mussolini si lamenta: «Mia moglie è diventata una donna difficile. Baccaglia per ogni nonnulla con le donne, fa un gran baccano per niente. E poi non risponde, mugugna. Insomma, è veramente difficile viverci insieme» (2 luglio '39). E in settembre: «Mia moglie è molto nervosa, come una che vive lontana dal marito. Era talmente acida, sì, infatti l'ho placata. In fondo dopo quaranta giorni si aspettava che le dessi questa soddisfazione. Ma puoi immaginare con quale entusiasmo. Bisogna che un po' ci sappia fare, è già molto stanca. E poi è una donna che ha qualcosa che le rode». Benito parla apertamente con Claretta di quando va a letto con la moglie. Lo fa per placare l'ossessiva gelosia dell'amante, che lo sospetta (e a ragione) di tradirlo con altre. Allora utilizza Rachele come "male minore", accettabile dalla Petacci: «Mia moglie è partita. Stamane alle otto ho pagato la tassa... È venuta lei, sai come sono queste cose, partiva... Così rimarrà fuori più a lungo. Sono di quelle cose meccaniche». (10 aprile '39). E ancora: «Ieri sera ho pagato il tributo, ma anche questa finirà perché non c\'è più corrispettivo, è una cosa assolutamente senza sapore. Non devi essere inquieta, non do importanza a queste tasse che pago. Sono un contribuente. Sì, a me dispiacerebbe [se lo facessi tu], hai ragione. Ma è necessario quando si devono evitare tragedie, scene, cose spiacevoli». Il 20 settembre Claretta scrive: «Facciamo l'amore. Fiacco, sento che è stato con un'altra. "No, non sono stato con mia moglie. Non è accogliente, è poco gentile, nervosa e sgarbata, come tutte le donne di 50 anni che vorrebbero averne 40, quelle di 40 trenta, e quelle di 30 venti"».

UNA SPIA CHIAMATA CLARETTA su STORIA IN RETE i veri retroscena del rapporto Mussolini-Petacci, scrive Fabio Andriola. E’ oscura e ambigua l’altra faccia di Claretta Petacci, la donna che per amore volle seguire Mussolini fini all’ultimo, fino alla tragica morte. La donna infatti, sia durante gli ultimi anni del Regime sia nei mesi della RSI, ebbe un ruolo molto lontano da quello dell’iconografia dominante che la vuole ciecamente innamorata e basta. La Storia invece racconta altro: racconta di una Claretta intrigante, interessata agli affari di Stato, pedina più o meno consapevole di alcuni gerarchi e dei tedeschi ma anche del fratello Marcello e, negli ultimi tempi, dei servizi segreti alleati. Lo stesso Mussolini ordinò la perquisizione della sua casa sul Lago di Garda, l’8 ottobre 1944, alla ricerca di copie di sue lettere che la donna passava regolarmente ai tedeschi. E quelle lettere, già copiate, vennero trovate. Così come, poche settimane dopo, vennero fuori altre carte compromettenti per la donna durante un’irruzione, a metà tra la pochade e la tragedia, effettuata sempre da Donna Rachele Mussolini, la moglie del Duce. Di questi fatti si occupa il servizio di copertina dell’ultimo numero del mensile «Storia In Rete» in edicola. Il giornale anticipa alcuni passi del nuovo libro di Fabio Andriola («Carteggio Segreto Churchill-Mussolini», Sugarco) che dedica alla Petacci un capitolo in cui si analizzano le varie prove e testimonianze che fanno di Claretta un personaggio chiave nella vicenda del carteggio Mussolini-Churchill, vicenda di cui il libro di Andriola ricostruisce tutti i dettagli, inserendo quel segreto scambio di accordi tra Roma e Londra nella primavera del 1940 nel fitto panorama di episodi di diplomazia parallela verificatisi nel corso della Seconda guerra mondiale. Como, 25 aprile sera. Lasciata Milano alla volta della Valtellina, Mussolini si fermò alcune ore alla Prefettura di Como. Lì lo raggiunse la notizia che il camioncino che portava numerosi e importanti documenti ed effetti personali, benché regolarmente partito da Milano, non era mai arrivato a Como. Nella Prefettura comasca ci sono molte persone: numerosi sono infatti i gerarchi e i ministri al seguito di Mussolini che viaggiano con le famiglie. Anche il ministro della Cultura Popolare Fernando Mezzasoma è accompagnato dalla moglie Anna, che in un angolo, accanto alla moglie del ministro degli Interni Paolo Zerbino, osserva «i movimenti dei nostri mariti che escono ed entrano nella stanza del Duce». La notizia che si sono perse le tracce del camioncino aumenta la concitazione e, con lei, esplodono rancori e contraddizioni rimaste sopite per tutti i lunghi mesi della RSI. E’ infatti in quel frangente, mentre il capo della segreteria di Mussolini, il prefetto Luigi Gatti, e l’aiutante del Duce, il colonnello Vito Casalinuovo, partono alla ricerca del camioncino, che Zerbino sbotta: «Secondo Zerbino – ricorda una stupefatta Anna Mezzasoma – il “camioncino è stato consegnato dalla Petacci al generale Wolf”. La frase mi suona misteriosa e priva di senso». E invece, Zerbino, non a caso ministro degli Interni – e in quanto tale conoscitore di molti retroscena – oltre che uomo di fiducia dell’ultimo Mussolini, aveva più di una ragione per pronunciare quelle parole. Quello che sfuggiva alla moglie del ministro Mezzasoma era ben chiaro a molti uomini di vertice della RSI: Claretta Petacci, l’amante storica di Mussolini, era un vero pericolo. E con lei la sua famiglia: il padre, il professor Francesco Saverio, la madre, Giuseppina, la sorella, Myriam, e soprattutto il fratello maggiore, Marcello. La storia del «clan Petacci» non è stata ancora fatta nel senso che l’attenzione che la figura di Claretta ha focalizzato su di se da sempre ha sviato la curiosità dalle personalità e soprattutto dalle attività di altri membri della sua famiglia. Attività che dovevano essere ben note soprattutto nei mesi della RSI e che non dovevano riscuotere il plauso dei vertici repubblicani visto l’atteggiamento riservato a Marcello Petacci sulla piazza di Dongo dai 15 membri della colonna Mussolini che i partigiani guidati dal Colonnello Valerio si stavano apprestando a fucilare. Un membro del plotone di esecuzione, «Dick» cioè Oreste Alpeggiani, ha raccontato così la scena: «Quando li vidi allineati al parapetto del lungo lago, scortato da due partigiani giunse Marcello Petacci, fatto portare da Valerio. L’uomo, privo delle scarpe, si lagnava di essere scambiato per Vittorio Mussolini e chiedeva ai gerarchi di riconoscerlo davanti a tutti. Cosa che fecero per poi iniziare una cagnara di proteste perché lo dicevano un traditore non degno di morire con loro. Pavolini e Barracu erano i più accesi nella protesta». Impossibile separare, nel ruolo “politico” oltre che nella considerazione dei gerarchi, la figura di Marcello da quella di Claretta e non solo perché il primo evidentemente operava sfruttando il ruolo della sorella. Su entrambi pesava infatti il sospetto di collusioni con servizi segreti stranieri: i tedeschi per la donna, forse gli inglesi per Marcello che comunque si era distinto nei traffici di frontiera con la Svizzera. E’ in virtù di questo, ma anche di altro come vedremo, che il tema del carteggio passa attraverso i Petacci. Un’evidenza che si è andata arricchendo di nuovi contorni nel corso degli anni ma che era tale già non molti anni dopo la fine della guerra. «La morte di Claretta - ha osservato Dino Campini, segretario del ministro Biggini - non ha dunque un senso se non alla luce del mistero della linea d'ombra, del segreto dei carteggi. La donna sapeva o poteva sapere e quindi doveva sparire. Non è logico pensare che uccidendola si sia voluto punirla per l’attaccamento a un uomo: sarebbe stupido anche per dei criminali. Dietro la morte di Claretta si sentono frusciare carte compromettenti, quelle di cui qualcosa poteva magari sapere». Ormai, in qualche maniera, il giudizio che viene dato di Claretta Petacci, una giovane donna immolatasi per il suo amore verso Mussolini, può quindi essere corretto. Amore e sacrificio finale a parte, Claretta Petacci ha giocato sicuramente un ruolo tutt'altro che secondario nella storia segreta della RSI, arrivando a conoscere fatti di straordinaria importanza e rivelando, al tempo stesso, una scarsa propensione alla discrezione. Intorno a lei e al fratello si muoveva in continuazione una fitta schiera di agenti segreti e controllori: durante la RSI molti sospettavano la Petacci, più che di fiaccare lo spirito di Mussolini, di trescare con i tedeschi e con gli inglesi: «Il capo del servizio segreto della Repubblica, Apollonio - scrive Zanella - non esita a sorvegliare i rapporti tra Clara e i tedeschi facendo collocare un microfono in un lampadario di villa Mirabella: tale attività la porta avanti fino a quando, per ordine del Reich, come rappresaglia all’estromissione di Buffarini, viene spedito a Dachau». Nel dopoguerra Apollonio, confermò di non essersi sbagliato: «Che poi il Petacci, uomo ambizioso ed estremamente intrigante, fosse proprio in Svizzera in contatto con gli Alleati, si può solo supporre. Per quanto mi riguarda, sarei portato a non escluderlo per niente. E' assai probabile che attraverso lui (e attraverso Claretta che non capiva la gravità di ciò che le chiedeva di fare suo fratello) gli angloamericani controllassero di primissima mano il pensiero e le decisioni di Mussolini». Ed era lo stesso Mussolini però, a ben vedere, a non fidarsi troppo di questa donna ingombrante di cui aveva tentato più volte di liberarsi ma invano. Perché tanta debolezza in un uomo che in diversi periodi della propria vita non aveva esitato a troncare bruscamente lunghe relazioni, a volte nonostante la presenza di figli? Cosa aveva Claretta in più delle altre per poter contare sul fatto che, magari anche contro voglia, il Duce non l’avrebbe mai allontanata da se in modo definitivo? Non a caso, Franco Bandini ha parlato di un «triplice mistero» che circonderebbe la figura di Claretta: «Quello, tutto psicologico, del suo legame con Mussolini; l’altro, politico della sua influenza vera o presunta che lei e la sua famiglia ebbero sulle vicende del periodo che va dal 1934 al 1945; ed infine quello della sua morte, assieme all’uomo amato, in qualche luogo del basso Lago di Como». E, dopo aver parlato della scarsità e della incertezza di molte fonti e testimonianze, Bandini conclude che, ad ogni modo, tutto quello che oggi sappiamo non ci dice nulla circa il punto «maggiormente interessante per lo storico: e cioè del sentimento, variabile col tempo, che per lei Mussolini nutrì e per converso della reale influenza che Claretta ebbe, o poté illudersi di avere». Mussolini quindi non seppe, non volle o non poté mai liberarsi di Claretta. E tutto questo nonostante non si fidasse completamente di una donna che pure non aveva lesinato prove e parole di dedizione. Una fiducia la sua tutt’altro che incondizionata come testimonierebbero – sembra – numerosi e pressanti inviti a distruggere le lettere che le inviava nei mesi della RSI. Quelle lettere, insieme alle minute di quelle di lei e ai diari tenuti da Claretta per gran parte della sua vita, non sono ancora consultabili perché, con una decisione che ha destato più di uno stupore, fin dal 12 aprile 1956 la Corte di Cassazione ha stabilito che quelle carte dovevano restare in possesso dello Stato «in quanto contengono riferimenti alla politica estera e interna dell’Italia». La decisione sanciva, di fatto quanto già il governo guidato da Alcide De Gasperi aveva stabilito giusto sei anni prima, quando cioè i carabinieri si erano presentati a Villa Mirabella, a Gardone sul Garda, per farsi “consegnare” dai padroni di casa, i coniugi Cervis, le carte che Claretta aveva affidato loro prima di partire per Milano, a fine aprile 1945. In realtà la consegna fu “coatta” in quanto i carabinieri si erano presentati a colpo sicuro e si erano fatti consegnare quanto i Cervis avrebbero voluto continuare a nascondere fino al giorno in cui avessero potuto consegnare il tutto agli eredi di Claretta. Tra il giardino e il porticato vennero fuori tre piccole casse – ma forse una di quelle casse era in realtà una valigia – colme di carte. Lettere scambiate tra Mussolini e la Petacci, i diari della donna e una divisa del dittatore. Subito si sparse anche la voce che tra le carte ci fossero anche i diari, o parte di essi, di Mussolini dal 1921 al luglio 1943. Ma fu impossibile qualunque verifica perché, come già si è detto, il governo italiano dispose il segreto sulle operazioni di recupero. Villa Mirabella, posta nel complesso del Vittoriale dannunziano, era stata la seconda residenza di Claretta sul Garda. A differenza della precedente abitazione, Villa Fiordaliso, non era stata teatro di scene drammatiche come quelle che esamineremo tra poche righe ma anche tra quelle mura si era parlato di questioni importanti. E dal telefono di Villa Mirabella erano partite telefonate che, intercettate dai tedeschi al pari di varie lettere, ci dicono molto di quanto la Petacci sapeva e, soprattutto, faceva (…):

Claretta: «Mi permetti, dunque, di fare un paio di fotocopie?»

Mussolini: «Tu sai che volentieri te lo permetterei, ma sai anche ciò che temo».

Claretta: «Questo timore è infondato, conosco molto bene la persona, e il lavoro sarà fatto da lui personalmente».

Mussolini: «So anche questo, ma per ora non ti dò alcun permesso. Forse troverò io stesso una strada sicura».

Claretta: «Non devi essere così diffidente, c’è ancora gente fidata e seria».

Mussolini: «Non lo dubito, ma devi ancora attendere.

Claretta: «Sono un po' arrabbiata, ma come sempre ti perdono, quindi aspetterò».

La cosa stupefacente è che quella telefonata avvenne non più di due o tre mesi – molto probabilmente nel dicembre 1944 – dopo il rapido consumarsi di uno dei maggiori scandali della RSI. Uno scandalo datato 8 ottobre 1944 e ambientato nella prima residenza sul Garda dell’amante di Mussolini: era stato lo stesso dittatore ad ordinare al questore Emilio Bigazzi Capanni, capo della "Presidenziale", la squadra di agenti addetti alla persona del Duce, di andare a perquisire la casa di Claretta Petacci. Il fondato sospetto di Mussolini era che Claretta avesse fatto copie di sue lettere personali e avesse passato ai tedeschi gli originali. Ad ogni modo, quello che è certo è che la denuncia era partita da Donna Rachele, preoccupata che il marito si potesse compromettere politicamente «perché in quelle lettere sfoga i suoi risentimenti nei confronti dei tedeschi, rivela la verità sui colloqui con l’ambasciatore Rahn e il comandante delle Ss Wolff, fa capire di considerare un bluff l’insistenza di Hitler nel dichiarare che vincerà la guerra. Come si può essere tanto ingenui da lasciarsi andare a confessioni del genere, pur sapendo che la Petacci è controllata ora per ora dai tedeschi? Che è stato Wolff in persona a farla liberare dal carcere di Novara dopo l’otto settembre per ricondurla accanto al Duce, a Gardone? Che tutte le telefonate della signora passano attraverso il centralino della Gestapo? Che in casa sua, a Villa Fiordaliso, vive con lei, con la scusa di proteggerla, il tenente SS Franz Spoegler, agente dei servizi segreti nazisti? Come non sospettare che, sia pure in buona fede, la signora sia tenuta a ricambiare i favori e la protezione, accettando di fornire elementi di cui le si assicura che serviranno soltanto a tutelare il più possibile Mussolini nell'opinione del Führer, proprio grazie al "filtro" dell'affezionato Wolff? La "dritta" a Donna Rachele era arrivata da Nino Martini, un industriale romagnolo a lei fedele, che aveva un figlio nel comando del battaglione della Guardia del Duce. Il ragazzo era sveglio e aveva scoperto un traffico di documenti. E anche altro: «Martini sapeva anche altre cose, o credeva di saperle. Per esempio, che intorno alla Petacci c'era un giro di agenti segreti non solo tedeschi, ma anche Alleati. Sapeva che, fingendosi cameriere d'un ristorante di Torri del Benaco, agiva sul Garda una spia dell'OSS americano, tale Edward Como; che un certo Kurt Muller, tedesco, lavorava in realtà per conto dell'Intelligence service inglese; che un ufficiale italiano, Paolo Bernari, venuto dal Sud, si era infiltrato come telefonista a Gargnano». Alle 9,30 dell’8 ottobre, Bigazzi, accompagnato da un commissario di Ps, da due agenti e dallo stesso Martini si recano a Villa Fiordaliso. La reazione della Petacci è furiosa tanto che arriva a minacciare con una pistola i presenti. Poi sviene. Nonostante l’atmosfera melodrammatica la realtà però si fa strada prepotentemente: le informazioni di Martini si rivelano infatti esatte. Durante la perquisizione saltano fuori 13 copie di lettere di Mussolini: una ventina di fogli in tutto e nessun originale. Nonostante le precedenti promesse di far arrestare "quella donna" «se mi porterete una sola copia», Mussolini di fronte all'evidenza non prenderà alcun provvedimento. Anzi, convocherà Martini per apostrofarlo duramente: «Dunque avevate ragione, e con ciò? Credete forse d’essere riuscito a fermare i carri armati di Alexander?». Dopo cinque giorni fece pace con l’amante. «Invece l'affare delle copie era serio – ha scritto Silvio Bertoldi - Sia perché confidenze private, rivelazioni, giudizi polemici di Mussolini venivano trasmessi a chi non avrebbe mai dovuto conoscerli, sia perché si mormorò che altre fotocopie avessero preso la via della Svizzera, probabilmente insieme con gli originali. E né allora, né poi, se ne è più saputo qualcosa». La pace sul lago durò molto poco. Un paio di settimane in tutto. Quanto cioè separò la perquisizione di Bigazzi, ispirata da Donna Rachele, da un vero e proprio blitz della stessa signora Mussolini a Villa Fiordaliso. Di quella tragica serata, condita da pioggia battente, svenimenti, telefonate di un imbarazzato Mussolini, urla e comprimari (l’SS Spoegler, il ministro Buffarini Guidi, il solito Martini…) incapaci di metter pace tra le due donne, restano due versioni: quella riferita da Myriam Petacci, che raccolse a caldo le confidenze della sorella, e quella di Donna Rachele. Ovviamente, nelle rispettive versioni è sempre “l’altra” a fare la figura peggiore anche se non si può non notare che, a posteriori, i racconti di Donna Rachele siano venati da una certa pietà e compassione. Quello che in questa sede importa è però un’altra cosa. Un particolare confermato, nella sostanza, da entrambe le versioni e che, tra le altre cose, ci dice che Bigazzi non aveva frugato bene a Villa Fiordaliso. Secondo la versione Petacci, durante il litigio Claretta per dimostrare che Mussolini l’amava tirò fuori delle lettere che il dittatore le aveva scritto. Donna Rachele scattò: «Non le voglio vedere! Non m’interessano! Non voglio portarvi via niente! Tenetevele pure ché, tanto, vi pentirete, e si pentirà anche lui, perché un uomo che non rispetta la moglie…». Claretta ribatté che «il Duce ha sempre manifestato il massimo rispetto per voi, come madre dei suoi figli…» e il discorso prese un’altra direzione. In realtà, visto che da tempo Donna Rachele batteva sul tasto delle lettere che Claretta possedeva, duplicava e distribuiva, non sembra credibile che l’offerta della Petacci cadesse così rapidamente nel vuoto. Infatti, nella versione ribadita più volte nel dopoguerra dalla stessa consorte del dittatore, la scena è un po’ diversa: «Si sollevò lentamente dalla poltrona e scomparve su per le scale. Quando tornò, aveva fra le mani dei fogli bianchi arrotolati e me li tese dicendo: “Sono trentadue lettere. Me le ha mandate vostro marito”. Mi bastò un’occhiata: non erano lettere, erano solo copie dattiloscritte. Allora gridai: “Non voglio portarvi via niente, non è questo lo scopo della mia visita…”». Dunque Claretta non solo non distruggeva le lettere che Mussolini gli scriveva ma le copiava. O, peggio, le faceva copiare. Perché? Donna Rachele quella sera mostrò di sapere quello che l’amante del marito, apparentemente incline soprattutto ai pianti e ai mancamenti, faceva da chissà quanto tempo: «Allora, esasperata, le dissi che non potevo soffrire le donne che risolvono ogni problema con le lacrime e gli svenimenti e le rinfacciai molte cose: di aver fatto fotografare e messo al sicuro, in Svizzera e in Germania, alcune lettere delicatissime che mio marito le aveva scritto durante la loro lunga relazione (…); di avere permesso l’impianto di un cavo telefonico fra la nostra villa e la sua abitazione e infine di tenere contatti con persone poco raccomandabili. (…) Le dissi tutto: che ognuna delle telefonate che si scambiavano lei e Benito veniva registrata e il testo inviato in cinque copie ai comandi tedeschi. Che i servizi d’informazione inglese e americano facevano capo anche a lei per tenere Mussolini sotto controllo e che doveva diffidare di tutti…». A questo punto è difficile dubitare che Claretta, non si sa fino a che punto consapevole e consenziente, non fosse al centro di un complesso – o forse semplicemente tortuoso - gioco che, nella migliore tradizione della politica e dello spionaggio, prevedeva più ruoli e più livelli di impegno per uno stesso protagonista. Quello che sapeva Donna Rachele ovviamente lo sapeva anche Mussolini. Claretta, a quanto risulta, non fece sostanziali e decise obbiezioni alle accuse mossele. Abbiamo anche visto che effettivamente duplicava documenti di provenienza mussoliniana chiedendone a volte – come risulta dall’intercettazione telefonica – il permesso allo stesso Mussolini. Alla luce di quanto emerso non possiamo quindi non considerare a tutti gli effetti la Petacci come un giocatore di una partita la cui mano finale si sarebbe dovuta giocare sul Lago di Como, a fine aprile 1945. Mussolini, sul finire della RSI si ritrovò, anche se non sappiamo fino a che punto lo aveva desiderato davvero, ad avere in Claretta un pezzo della sua strategia. Una tessera di cui comunque non si poteva più fare a meno, sia perché ormai era tardi e sia perché quella tessera ne se ne tirava regolarmente dietro un’altra, non meno ambigua e sicuramente meno disinteressata: Marcello Petacci. Non è forse un caso che sia stato proprio il segretario del P.F.R. Alessandro Pavolini a guidare la rivolta dei condannati a morte di Dongo (…) Dal suo punto di vista, l’odio di Pavolini verso Marcello Petacci (odio condiviso da molti altri gerarchi che magari intuivano quello che non sapevano) era ben indirizzato. Via via che la fine della RSI si avvicinava, Petacci aveva intensificato i suoi viaggi in Svizzera, l’ultimo dei quali era iniziato il 19 aprile ed era terminato il 23 aprile successivo, alla vigilia del crollo. In Svizzera Petacci, si ritiene, teneva i contatti con gli inglesi, forse con lo stesso sir John Clifford Norton, ambasciatore di Londra in territorio elvetico. E’ lui, probabilmente, l'oscuro regista dello strano girovagare di Mussolini, nella giornata del 26 aprile, su e giù per la sponda sinistra del lago di Como: Como, Menaggio, Grandola e poi ancora Menaggio. Che cercava Mussolini, ben attento ad aver con sé solo alcuni fidati gerarchi, deciso a non ascoltare i richiami di Pavolini che lo voleva tra i fascisti concentrati a Como e desideroso di scrollarsi di dosso la scorta tedesca che, con la scusa della sicurezza, ne condizionava i movimenti? Cercava un contatto con emissari inglesi, un contatto magari prospettato e organizzato da Marcello Petacci? E' una vecchia convinzione, messa nero su bianco già nel 1950, da Ferruccio Lanfranchi, il primo cronista che si sia interessato a fondo alle vicende di Dongo: «... Mussolini, dopo il colloquio con Petacci (il 26 aprile a Menaggio, nella casa del Federale Castelli, nda), si sarebbe indotto a scrivere, di suo pugno, una lettera al ministro Norton. Noi crediamo che questa lettera non sia stata distrutta. Quella lettera era stata scritta nella fiducia di poter contare su dichiarazioni fatte precedentemente da Churchill e, forse su impegni presi dal Premier britannico o su promesse di lui. Logico quindi che i documenti fossero affidati a colui che si era assunto il compito di intermediario sfidando, per salvare la vita a Mussolini (e quindi alla sorella, che sapeva votata alla stessa sorte) il disprezzo dei capi fascisti che non si erano tutti resi conto della fine inevitabile: Marcello Petacci. Ecco perché, considerandolo dal loro punto di vista un "traditore", per aver trattato con gli inglesi, i gerarchi condannati a morte dal colonnello Valerio chiesero di non essere fucilati con lui. Che il carteggio fosse tenuto da Marcello Petacci è ormai provato. Ma nessuno sinora ha fatto piena luce su questa vicenda, la quale conserva, anche per noi che pure abbiamo indagato con scrupolo alla ricerca della verità, parecchie lacune...». Forse l’unica pecca della ricostruzione di Lanfranchi sta nel fatto che quella lettera a Norton Mussolini non la scrisse il 26 aprile a Menaggio ma il giorno prima, nella prefettura di Milano. Il sofisticato (o semplicemente contorto?) piano di salvezza organizzato da Mussolini prevedeva anche il coinvolgimento del segretario di prima classe del Consolato spagnolo di Milano, Don Fernando Canthal y Giron. Canthal incontrò varie volte Mussolini negli ultimi giorni alla prefettura di Milano: l'ultimo incontro fu proprio il 25 aprile poco prima del fallimento dell'incontro in Arcivescovado. Dietro a tutto ci sarebbe stato ancora Marcello Petacci che, quel mattino, chiede a Canthal asilo per la sua famiglia nel consolato di Spagna e con l'occasione domanda al diplomatico anche se «è disposto a portare un messaggio di Mussolini a Berna, all'ambasciatore inglese Norton. Lo spagnolo risponde che è pronto a compiere la sua delicata e importante missione di pace. Incoraggiato, Marcello Petacci lo invita ad andare con lui in prefettura: incontrano il Duce, che apprezza l’iniziativa e la collaborazione del console e prepara la lettera con la quale offre tra l'altro "la resa delle forze armate della Repubblica Sociale"». In questo senso va la testimonianza della compagna di Marcello, Zita Ritossa, ma il contenuto della conversazione è confermato, oltre che dal fatto che nelle tragiche ore di Dongo Petacci si qualificherà come diplomatico spagnolo con tanto di credenziali e bandiera sul cofano della propria auto, anche dal rapporto inviato dallo stesso Canthal il 6 maggio 1945 al suo ministero degli Esteri. Il tergiversare dei fascisti sul lago di Como può quindi essere messo in relazione con l’attesa spasmodica per i risultati della missione di Canthal. Al riguardo non è senza significato che, nel momento estremo, Mussolini abbia pensato di rivolgersi ad un inglese ed è altrettanto plausibile che, comunque sia, il passo successivo sarebbe stato un lungo esilio. Lo dimostrerebbe quel lasciapassare per la Spagna, ben piegato in una busta gialla del "Fascio Repubblicano Sociale di Dongo" (e questa busta, già da sola, sembra suggerire molte cose) trovato addosso a Mussolini, nella tasca posteriore dei suoi pantaloni, sul tavolo delle autopsie a Milano, il 30 aprile 1945. Quella busta venne trovata da uno dei medici presenti, il professor Pierluigi Cova che ricorda che il documento era datato 14 settembre 1944 ed era intestato a due coniugi di cui Cova non ricorda il cognome. Un ufficiale partigiano presente all’autopsia strappò di mano il foglio a Cova che non fece in tempo ad esaminarlo per bene. Ma quella busta del Fascio di Dongo può voler dire che forse quel documento cambiò di mano proprio nelle ultimissime ore di vita del dittatore visto che è impensabile che a Milano, in prefettura o al consolato di Spagna, qualcuno avesse provveduto a rinchiudere un simile documento in una busta intestata al Fascio repubblicano di uno sconosciuto paesino del comasco. E perché mai quel qualcuno consegnò un lasciapassare per la Spagna ad un Mussolini ormai solo, già prigioniero o sul punto di diventarlo? Infatti il particolare della busta fa propendere per la circostanza secondo la quale Mussolini non partì da Milano col documento in tasca ma lo ricevette sul Lago. (…) Ma qualcosa Mussolini riuscì, in extremis, a mandarlo ugualmente in Spagna. Dovevano essere la stessa Claretta e probabilmente una copia di importanti documenti da mettere al sicuro. Invece la donna non obbedì alle sollecitazioni dell’amante e rimase a Milano, forse compromettendo così una parte dei piani di Mussolini per mettere al sicuro le sue carte. Al suo posto invece partirono i genitori, la sorella e il cognato di Claretta e poche altre persone (tra cui, sembra, il leader filo nazista belga, Leon Degrelle, capo del partito rexista) con un aereo Savoia-Marchetti S.83 con insegne croate decollato dall’aeroporto milanese di Linate all’alba del 23 aprile 1945. L’arrivo dell’aereo, nonostante l’atterraggio su una pista secondaria dell’aeroporto militare di Prat de Llobregat di Barcellona, fu subito notato dalle autorità diplomatiche del Regno d’Italia le quali subito si attivarono per chiedere agli spagnoli che «severe indagini fossero fatte sui beni e valute portate dalle persone in questione e soprattutto sui documenti che essi potevano aver trafugati in Italia». (…) Il sospetto che tra gli 80 bauli caricati a fatica sul Savoia-Marchetti ci fossero anche altri documenti oltre a queste lettere di Mussolini era diffuso in Spagna in quei giorni. Al punto che, poco dopo l’atterraggio, significativamente, si mosse anche l’ambasciata inglese a Madrid, la cui richiesta di sequestro dei beni dei passeggeri del velivolo cadde però nel vuoto. Era la fine di maggio del 1945: in quei giorni come si è visto la caccia ai documenti di Mussolini era già frenetica. E’ quindi così azzardato ipotizzare che, al pari del suo collega di Roma, anche l’ambasciatore inglese a Madrid non volesse lasciare nulla di intentato per cercare di recuperare carte e documenti di qualche interesse per Londra? Il rifiuto di Claretta di volare in Spagna con i documenti che le sarebbero stati affidati fu probabilmente uno degli intoppi che il piano di Mussolini incontrò al momento finale. Fallite tutte le altre strade, Mussolini si vide costretto a sciogliere in extremis tutti i fili sul lago di Como: costeggiando la frontiera svizzera, ma senza mai avvicinarsi troppo, Mussolini ha tratto in inganno molti studiosi, convinti che stesse in realtà cercando il momento migliore per tentare l'espatrio. Invece era probabilmente qualcun altro che lo doveva raggiungere. (…) E’ molto probabile che Mussolini, il 26 aprile, attendesse, oltre alle camicie nere che gli aveva promesso Pavolini e che invece si stavano disperdendo nel caos di Como, qualche emissario con cui continuare la lunga trattativa dei mesi precedenti. Per farlo non aveva bisogno di Claretta, ovviamente. Ma forse erano i tedeschi a volere che la donna stesse con lui. E per farlo bastava assecondare la cocciuta determinazione della Petacci a stare vicino al suo Ben. In questo senso può essere letto un episodio poco noto ma illuminante. In un frangente in cui Mussolini cerca di seminare in tutti i modi i tedeschi (lo ha fatto lasciando la prefettura di Como, lo farà poche ore dopo sulla strada per Grandola), Claretta ha un modo decisamente singolare di presentarsi a Menaggio. All’entrata del paese un posto di blocco delle Brigate Nere la ferma e solo l’intervento del colonnello Casalinuovo può farla arrivare a una villa attigua alla caserma della Brigata Nera. Ancora una volta, a pochi metri da Mussolini che in quel momento, siamo nelle prime ore del mattino del 26 aprile, sta riposando nella casa del vice federale del paese, Paolo Emilio Castelli: «La donna arriva poco dopo Mussolini. Si presenta con due tedeschi alla sorella della padrona di casa, Cornelia Pezzara. “La signora deve dormire qua!”. Di fronte all’imposizione, alla donna non resta che replicare: “Si accomodi”. Due tedeschi controllano l’entrata principale e altri due quella secondaria, dall’altra parte della casa: ma lo fanno dall’interno, per non dare nell’occhio, mentre nel palazzotto di fronte stazionano in gran mostra gli uomini di Birzer». Poche ore più tardi, non invitata, Claretta raggiungerà col fratello e la famiglia di lui, anche Grandola, dove nel frattempo si è trasferito Mussolini con il grosso dei gerarchi. E, stando ai testimoni, il vederla di lontano non aiutò il Duce a mutare di umore, comprensibilmente pessimo in quelle ore. Difficile dire che valore ebbe realmente la «carta Claretta» nel gioco dei tedeschi e in quello di Mussolini. Due giochi divergenti come dimostrerà la circostanza della salita di Mussolini sul camion tedesco per superare lo sbarramento partigiano di Dongo. «Quando arrivò il momento del distacco – ricorda l’attendente di Mussolini, Pietro Carradori – Gatti chiese: “Duce, devo venire con voi?”. E Mussolini rispose: “No, soltanto Carradori mi seguirà”. Ero in borghese, con un giubbone di pelle nera. Presi dall’autoblinda i due mitra, il mio e il suo, le due borse che mi aveva consegnato a Milano, in Prefettura, all’atto della partenza, e il pacco con dentro i cinque milioni di lire, e tenendo tutto ben stretto nel braccio destro, afferrai con la sinistra il parapetto del cassone del camion per issarmi a bordo. Fu Fallmeyer a strapparmi giù dalla ruota su cui avevo appoggiato il piede sinistro, gridando come un forsennato: “Nein! Nein!”. In quel momento vidi poco distante Giovanni, un maresciallo delle SS di origine altoatesina della scorta di Birzer che parlava perfettamente italiano e di cui ero amico. “Giovanni”, gli gridai, “diglielo tu a questo stronzo che è il Duce che mi vuole!”. Niente da fare. Il camion partì a tutto gas. Feci appena in tempo a lanciare oltre il parapetto del cassone le due borse. Soltanto quelle». E così, solo, con un pastrano troppo largo e lungo, con due borse di documenti (di cui una sola entrerà con lui, poco dopo, nel municipio di Dongo) Mussolini muove verso l'appuntamento col destino, circondato da tedeschi. Claretta, imperterrita e inconsapevole, dopo averlo incitato a seguire l’infido consiglio dei tedeschi, sarà ancora con lui di lì a poco (…). Così come Claretta è morta perché sapeva è altrettanto vero che, ad un certo punto, il piano di salvezza che avrebbe dovuto portare Mussolini vivo e prigioniero lontano dal lago di Como comprese, contro ogni logica apparente, anche Claretta. Perché lei e non qualche ministro, come ad esempio il ministro degli Interni repubblicano, Paolo Zerbino, oppure quel Barracu che sappiamo aver partecipato a più di un colloquio con emissari stranieri durante la RSI? O il comunque noto e rappresentativo – oltre che odiato – Alessandro Pavolini? Oppure, perché non il colonnello Casalinuovo, aiutante di Mussolini e custode di tanti suoi segreti? No, alla fine, la notte tra il 27 e il 28 aprile 1945 si scelse di unire al dittatore una donna di cui pochi avevano sentito parlare e che probabilmente Mussolini non avrebbe mai scelto come compagna in quel frangente. Sia perché aveva cercato di allontanarla da sé più volte sia perché avrebbe dovuto coinvolgerla in situazioni pericolose sia, infine, perché a livello di immagine non ci avrebbe fatto una bella figura a trovarsi in mano al CLN o agli anglo-americani in compagnia della propria amante. Del resto, che una certa sorpresa abbia colto Mussolini nel momento in cui scoprì che era stato ricongiunto alla Petacci lo si ricava dallo scarno scambio di battute riportato dai testimoni:

- Anche voi, qui, signora?

- Preferisco così, Eccellenza.

Secondo quanto asserito per anni da lui stesso, fu «Pedro» a decidere di unire i due, dopo un lungo e drammatico colloquio con Claretta, nel municipio di Dongo, la sera del 27, mentre Mussolini è a Germasino. Secondo «Pedro» Mussolini, nella caserma della Finanza, gli avrebbe chiesto, in modo goffo e imbarazzato, di salutargli "quella signora" svelando così la presenza della Petacci tra i prigionieri della colonna. Tornato a Dongo Pedro avrebbe avuto quindi un lungo colloquio con una piagnucolosa Petacci, nel corso del quale lei gli avrebbe chiesto con insistenza di essere riunita al suo Ben. (…) Secondo Lazzaro invece il colloquio avrebbe avuto contenuti decisamente meno romantici con Pedro deciso a sapere tutto sui piani della coppia per contattare gli anglo-americani. La Petacci avrebbe cercato in tutti i modi di negare ma alla fine, di fronte alle minacce brutali di «Pedro», cede e confessa la presenza di una borsa di documenti tra le valige trasportate sull'auto del console spagnolo. «L'interrogatorio di Clara - osserva Zanella - ha come fine di scoprire dove siano nascosti i documenti che Mussolini deve offrire a Churchill per salvarsi la vita; e questo significa che chi ha rivelato a «Pedro» l’identità della donna sa bene che ella ha quei documenti o almeno ne conserva una copia. Facile quindi intendere che voglia impossessarsi di quei documenti». (…) Non resta quindi che accentrare l’attenzione sulle mosse di Bellini delle Stelle “dopo” il colloquio con Claretta. Per prima cosa si reca (dicendo poi, quasi sicuramente mentendo, di essere stato chiamato) all’albergo Dongo per parlare con Marcello Petacci. Poi, subito dopo, decide di trasferire immediatamente Mussolini e la Petacci in un luogo segreto. E’ l'inizio di quello che da molti è stato interpretato come l'estremo tentativo dell'ala moderata e filo-alleata del movimento partigiano di portare in salvo i due prigionieri e, una volta trasferitili sull'altra sponda del lago, a Villa Cademartori, di consegnarli il prima possibile agli alleati. «Pedro», a Dongo, non era che il terminale di una catena che partiva da Milano, da Raffaele Cadorna, comandante del Comitato Volontari della Libertà (C.V.L.), il braccio armato della resistenza, e che aveva il più importante trait d'union nel colonnello Giovanni Sardagna, comandante C.V.L. di Como: «Io ricevetti - racconterà in seguito Sardagna - nella notte dal 27 al 28 aprile l'ordine del comando generale Volontari della Libertà di Milano (CGCVL) di portare Mussolini e gli altri a Milano o quanto meno a Como, al sicuro. Il trasporto non era facile per mancanza di mezzi e più ancora di scorta sicura, tuttavia presi gli accordi con il comandante della 52ma che lo aveva catturato; questi mi assicurò che avrebbe spedito il prigioniero, come infatti fece, per un tratto di strada, rientrando poi per sopraggiunge difficoltà». (…) A Moltrasio Mussolini e la Petacci non furono imbarcati su nessun motoscafo per raggiungere Villa Cademartori e invece, dopo una breve sosta, prese la via di Bonzanigo, per Casa De Maria da cui forse non uscì più vivo. La sorda lotta tra falchi e colombe all'interno del movimento partigiano si era risolta evidentemente con la vittoria dei primi. Più del moderato «Pedro», poterono i comunisti come Michele Moretti, «Pietro» e l’ambiguo Luigi Canali, il «capitano Neri» che, non a caso, l’avevano seguito-scortato da Dongo. E così la sorte di uomini e carte fu decisa. Con disappunto di qualcuno. Infatti il 10 maggio 1945 Churchill scrisse al Feldmaresciallo Alexander per chiedergli che venisse ordinata un’inchiesta sulla morte di Mussolini e, in particolare, sul perché fosse stata uccisa anche la Petacci. Il premier in quella lettera arrivò a definire l'azione del colonnello Valerio «proditoria e codarda». Perché Churchill se la prese così tanto? Forse davvero erano stati violati dei patti, impedita l’esecuzione di accordi presi in precedenza. O forse, più semplicemente, la soppressione repentina di Mussolini e della Petacci aveva tolto sì di mezzo due pericolosi testimoni ma aveva complicato terribilmente il recupero delle loro carte di cui, già dopo il loro arresto, era iniziata la diaspora (e la moltiplicazione per fotocopie) che abbiamo visto e che fece dannare i servizi segreti inglesi per molti anni. Fabio Andriola

Clara Petacci è stata violentata? Scrive Marco Barone martedì 10 luglio 2012 su "Agora Vox”. Chi è Clara Petacci? Chi sono i Partigiani? Domande legittime, anzi doverose perché le nuove generazioni non conoscono la storia, e quando leggi che per molti studenti tedeschi Hitler altro non era che un democratico, allora comprendi che quando si parla di tematiche calde e delicate che hanno segnato la storia del secolo scorso, non si deve mai dare nulla per scontato. Nella serata del 6 luglio 2012 Rai Tre, conosciuto come canale di sinistra, oggi io direi sinistra sinistrata, ha trasmesso un programma storico interessante che riguardava la Marcia su Roma, la morte ed i misteri di Mussolini. Il programma era "La Grande Storia". Ha voluto conferire una diversa visione della verità storica ufficiale conferendo grande credito a teorie sostenute specialmente dai nostalgici del fascismo. Certo la storia o meglio la verità storica per essere tale non dovrebbe essere politicizzata, ma ciò è a dir poco impossibile visto il funzionamento della società. Ieri sera mi son voluto mettere nei panni di un ragazzo qualunque, non che io sia un grande conoscitore della storia, però qualche nozione minima la coltivo, ed ho voluto vedere quel programma con gli occhi di un ragazzo qualunque che nulla conosce di quel periodo storico, mi riferisco al momento storico compreso tra il 25 aprile ed il 28 aprile 1945. Beh è emersa l'idea di un PCI ladrone, che si sarebbe appropriato di una buona parte dell'oro sottratto ai fascisti nel momento dell'arresto della colonna mussoliniana nei pressi del lago di Como. Si ipotizzava che una parte di quell'oro, ma si parlava anche di danaro in contante, sia stato utilizzato per esempio per comprare le sedi storiche del PCI o per finanziare le campagne elettorali sostenute da questo nel corso del tempo. Certo, si parlava di mere ipotesi, ma per come ipotizzate in realtà, specialmente agli occhi di chi nulla conosce di quel periodo, il tutto poteva essere percepito come una sorta di elemento indiziario grave preciso e concordante destinato a divenire pregiudizio ovvero verità. E' emerso che Mussolini è stato tradito dai tedeschi, che durante la perquisizione del camion ove lui si trovava celato sotto un telone, sia stato proprio un tedesco ad indicare ai partigiani ove lui si celava, visto che durante la perquisizione non sarebbe stato subito individuato. Si è riproposta la verità alternativa sulla fucilazione di Mussolini, con un intero paese, Giulino che per oltre 50 anni ha vissuto l'intimidazione del silenzio, che pur conoscendo la verità non ha mai sostenuto la verità reale. 50 anni di silenzio dubbiosi. Ma ciò che mi ha lasciato perplesso più di ogni altra cosa è stata la questione che ha riguardato la brutale fine di Clara Petacci, conosciuta nella storia come l'amante del Duce. In quel programma si sono spinti, lì ove non si è spinta neanche la storiografia alla quale si sono ispirati in quella trasmissione, una storiografia che collabora con siti come quello della Federazione Nazionale Combattenti della RSI, una storiografia a dir poco di parte ma che poneva solo delle supposizioni. Dico questo perché, ribadisco, il tutto deve esser visto e percepito con l'emozione e lo sguardo di chi nessuna cognizione ha di quel momento storico. Emergeva con forza l'ipotesi che la Petacci riportasse graffi sulle gambe ed in varie parti del corpo; una testimonianza diceva che era non solo senza mutandine ma anche senza reggiseno al momento della sua morte e che l'autopsia della donna non veniva effettuata diciamo volutamente per nascondere l'evidenza, lasciando intendere l'unica cosa che si poteva in quel momento intendere, visto che la donna era prigioniera dei partigiani. Violentata dai Partigiani? Questo è quello che io ho percepito guardando quel programma, osservandolo senza pregiudizio. Ovviamente ho vissuto un grande senso di nausea e di tentativo di revisionismo nel senso di revisionismo negativo che ribalta la storia reale mistificando la verità, a dir poco meschino. Ora, ma essere più cauti ed oggettivi ed equilibrati quando si affrontano tematiche come queste è chiedere troppo specialmente ad una televisione che dovrebbe fare servizio pubblico? Magari le mie saranno state solo sensazioni fuorvianti, oppure no, ma la sottigliezza con cui si coltivava la via sostenuta dagli ex fascisti era talmente ben curata che non si poteva rimanere indifferenti. Con ciò non voglio negare l'esistenza di errori realizzati da chi ha lottato per la resistenza, senza mai dimenticare che ogni cosa deve essere contestualizzata nel momento storico, sociale, in cui trova affermazione, ma da qui a sostenere certe teorie...Magari mi sbaglierò, ma a questo punto riapriamo il dibattito, riapriamo la discussione, perché lanciare il sasso nell'oceano dell'opinione pubblica su quell'episodio senza conferire replica alcuna è altamente pericoloso. La domanda è Clara Petacci è stata violentata prima di essere giustiziata?

Prima di essere assassinata, Claretta Petacci subì violenza carnale? Si chiede anche Maurizio Barozzi su "Il Corriere Caraibi” il 13.10.2010. Negli articoli–inchiesta sulla morte di Mussolini, da noi pubblicati su queste pagine, in altre riviste o Siti vari, abbiamo sempre cercato di attenerci a fatti accertati e riscontrabili, evidenziando soprattutto le palesi falsità della “versione ufficiale”, la vulgata e tutto al più avanzando delle ipotesi alternative solo quando supportate da elementi concreti. Un impegno di serietà il nostro anche a costo di deludere il desiderio di scoperte “sensazionali” per i lettori. Insomma il compito che ci eravamo prefisso non era solo quello di fare controinformazione, ma anche quello di abituare i lettori a ragionare su testi di riconosciuta serietà e a diffidare di certe ricostruzioni storiche letteralmente campate in aria. Navigando in Internet alla ricerca di articoli e notizie su la morte di Mussolini, per esempio, o partecipando a qualche forum, si trovano un guazzabuglio di storie di ogni genere condite da episodi inventati di sana pianta e informazioni inattendibili. Troveremo chi darà credito al fumettone di quel Lonati, colui che pretende di aver fucilato il Duce assieme ad un ufficiale inglese; poi ci sono i sostenitori di esecuzioni all'alba nella stanza dei contadini De Maria (quelli che nascosero in casa loro Mussolini e la Petacci), quindi assertori della presenza di misteriosi killers stranieri, di tentativi di suicidio del Duce e così via. Per i nomi dei possibili assassini poi, si sprecano le fantasie più incredibili e tra i più gettonati, dato il richiamo del personaggio, c'è ovviamente quello di Luigi Longo. Niente di tutto questo ovviamente viene comprovato, se non con testimonianze e fatti di scarsa attendibilità o totalmente inventati. In campo editoriale, infine, non è che siamo messi meglio: tra articoli, saggi e inchieste su riviste e rotocalchi, oltre a libri di ogni genere, non si sa più a chi dare retta. Non mancano ovviamente i patetici nostalgici della “storica versione” di Walter Audisio, veicolata più che altro dalla finction filmica del regista Carlo Lizzani: “Mussolini ultimo atto”, alla quale oramai non crede più neppure lo stesso regista visto che nel suo libro di memorie “Il mio lungo viaggio nel secolo breve”, Einaudi 2007, ha voluto rivelare che già nel 1975 Sandro Pertini gli scrisse che non era stato Walter Audisio a uccidere Mussolini. Nel gran calderone dei Siti on line, infine, salta fuori anche il racconto di un misterioso “medico legale”, che asserisce di essere stato presente alla autopsia sul cadavere del Duce, il quale avrebbe raccontato ad una misteriosa radio, che ebbe a constatare spaventose sevizie, inferte in vita, su Mussolini e la Petacci. Particolari raccapriccianti che, per decenza, evitiamo di riportare tanto più che trattasi di una evidente fola, a cui però molti hanno abboccato. Nessuno si è posto il dubbio che un riscontro del genere sarebbe stato notato in sala settoria da tutti i presenti e non avrebbe potuto rimanere nascosto, mentre nulla di tutto ciò venne accennato dai cronisti italiani e americani presenti quel giorno all'obitorio. Ne consegue che siamo in presenza di una vera e propria “leggenda metropolitana”, tanto più che le foto della salma del Duce o della Petacci, pur martoriate da selvagge e orribili percosse e traumi inferti dopo morti, non fanno sospettare altri tipi di sevizie inferte in vita. Abbiamo voluto fare questa lunga introduzione, non solo per denunciare l'inattendibilità della letteratura inerente la morte di Mussolini e la inaffidabilità di Internet, dove è presente materiale taroccato o falso, ma anche per specificare che ogni storico serio, di fronte ad alcune ipotesi o intuizioni che gli si presentano nella decifrazione dei fatti storici, come per esempio quella che stiamo per esaminare ovvero l'ipotesi che su Claretta Petacci, prima di essere assassinata, venne consumata una violenza sessuale, dovrebbe sempre seguire un metodo di doverosa correttezza, che in genere si estrinseca in pochi passaggi.

1. Raccolta di ogni informazione o testimonianza sufficientemente attendibile;

2. elaborazione delle possibili ipotesi su come possano essersi svolti i fatti in questione;

3. riscontri per stabilire se i dati acquisiti confermano o smentiscono le singole ipotesi.

E' proprio quello che cercheremo di fare in questa sede, sottoponendo ad indagine retrospettiva le ipotesi che adombrano una violenza sessuale sulla Petacci, una eventualità questa che viene alquanto dibattuta anche tra i ricercatori storici impegnati a dirimere il mistero della morte di Mussolini, ma che non trova concordia di pareri, nè soluzione. Applicando anche noi, a questo sospetto, il corretto metodo di indagine storica, vorremmo dare a chi si interessa di queste vicende dei validi spunti di riflessione. Tanto per cominciare stabiliamo un punto fermo: da tutta una serie di testimonianze, rilievi e considerazioni di ogni genere, possiamo dare quasi per certo (il dubbio è riferito solo alla impossibilità di eseguire alcune verifiche) che Mussolini venne ucciso la mattina del 28 aprile 1945 nel cortile sotto casa dei De Maria a Bonzanigo, in un orario che oscilla tra poco dopo le nove e poco prima della 10. Claretta Petacci invece venne uccisa, con una sventagliata di mitra alle spalle, intorno al mezzogiorno, su di un prato all'inizio della mulattiera via del Riale che porta a Bonzanigo. Lo abbiamo già fatto tante altre volte e quindi non staremo ora qui a fornire le considerazioni e le prove che attestano questi orari e modalità di morte antimeridiana smentendo, al contempo e definitivamente, la “fucilazione” davanti al cancello di Villa Belmonte in Giulino di Mezzegra alle 16,10, descritta dalla mentoniera “storica versione”, la “vulgata”. Del resto se, per assurdo, fosse invece veritiera la “storica versione” ovvero Mussolini e la Petacci portati da Audisio il pomeriggio davanti al cancello e ivi fucilati, il problema di una possibile violenza sulla Petacci neppure si porrebbe perchè non si avrebbe lo spazio di consumazione dell'atto senza stravolgere totalmente i fatti e volare di fantasia. Cominciamo con il fornire i dati che si conoscono circa lo stato in cui si presentava il cadavere della Petacci portato a Piazzale Loreto e poi all'obitorio di via Ponzio a Milano. Utilizzeremo gli studi del medico legale dott. Aldo Alessiani, le considerazione del prof. Giovanni Pierucci comprensive di una perizia, resa nota nel 2006, da parte di una sua equipe all'Istituto di medicina legale di Pavia, alcune considerazione del prof. Pierluigi Baima Bollone dell'Istituto di medicina legale di Torino, i rilievi emersi dalla osservazione di foto e filmati d'epoca ed altre informazioni correlate. Le foto del cadavere di Claretta Petacci (non sottoposto ad autopsia) ci mostrano il vestito aperto sul petto, nel quale si rilevano diversi fori di arma da fuoco. Alcuni sono sicuramente d'uscita (colpita alle spalle), altri dubbi. In molti casi è però impossibile attestare se furono sparati in vita oppure post mortem. In prossimità del lato Dx del collo, compare una serie di piccole, tondeggianti lesioni (escoriazioni?) dalla natura discutibile. Poco utili per avanzare ipotesi. Le grossolane escoriazioni in regione sottomandibolare ed altre ancora, sono quasi sicuramente postmortali (calci), così come l'impronta della suola di uno scarpone sul viso, esito infame di un calcio rifilato ad un cadavere. Alquanto sensibile invece la tumefazione ecchimotica della palpebra inferiore Dx ed una certa tumefazione della regione orbitaria Dx. Anche al naso sembrano esserci leggere contusioni. Questi ultimi rilievi fanno presumere che la donna venne raggiunta, in vita, da uno o due colpi al viso, ma tanto per essere cavillosi, in teoria non potrebbe escludersi che queste contusioni si determinarono a causa della repentina caduta della donna in avanti quando venne colpita a morte alle spalle, essendo in questo caso una contusione in limine mortis. E' anche interessante conoscere la dichiarazione ufficiale del maggio 1956, rilasciata dal legale della famiglia Petacci, avv. A. D'Altilia dopo alcuni accertamenti peritali, a seguito di denuncia presentata contro Walter Audisio per omicidio volontario pluriaggravato. Questa dichiarazione, tenendo comunque presente che è di parte, diceva: <<... durante l'espletamento delle operazioni di riesumazione e ricomposizione dei resti di Clara Petacci... si è accertato che Clara aveva ricevuto in vita un violento colpo al viso con un corpo contundente... Inoltre lo zigomo destro presentava un foro di sfondamento con segmenti ossei rientrati, e il perito accertò che tale frattura non poteva essere stata prodotta post mortem. Altro documento in nostro possesso rivela che la donna fu abbattuta proditoriamente. L'insieme di questa documentazione, di quanto reperito fra i resti mortali e le risultanze delle nostre recenti indagini, stanno a dimostrare che Mussolini e Clara Petacci non furono uccisi contro il cancello di villa Belmonte, dinanzi al quale fu allestita solamente una macabra messa in scena>>. Come vedesi siamo purtroppo in presenza di tutta una serie di rilievi e considerazioni che poco aiutano a sciogliere il dubbio su una probabile violenza carnale inferta alla donna. Proprio a questo proposito, però, alcune osservazioni vennero invece fatte dal medico legale Pierluigi Baima Bollone che venne poi a pubblicarle nel suo libro “Le ultime ore di Mussolini “, Mondatori 2005. Il Bollone intese escludere una possibile violenza carnale subita dalla Petacci in considerazione, secondo lui, di alcune immagini della salma le quali, farebbe intravedere che le parti intime della Petacci non presentavano escoriazioni o ecchimosi né segni di imbrattamento e che i reggicalze erano ben assestati. Un rilievo questo, del medico legale torinese, alquanto peregrino e poco comprovante. Egli intanto parte dalla presunzione che la “vulgata” sia veritiera e quindi Mussolini e la Petacci furono fucilati insieme alle 16,10, quando invece ci sono oramai pochi dubbi di una morte antimeridiana e che la Petacci restò in vita dopo Mussolini per oltre 2 ore ancora, uscì dalla casa, camminò, ecc. E' quindi possibile, nonostante la violenza nel frattempo subita, che la donna si era in qualche modo riassettata il vestiario. Il libro scritto dal Bollone diede, all'epoca, l'impressione di essere una mezza “ciambella di salvataggio” per la “storica versione”, la “vulgata”, che oramai era naufragata da ogni punto di vista. Il Bollone nel suo studio intese revisionarla un poco, accettando almeno quanto era oramai a tutti evidente, ovvero che Mussolini e la Petacci erano stati uccisi da almeno due tiratori e con due armi diverse, quindi non il solo Audisio. Ma, stabilito questo, l'autore si arrampicò in tutta una serie di spiegazioni poco convincenti per cercare di confermare che Mussolini e la Petacci furono uccisi al pomeriggio, davanti al cancello di Villa Belmonte in Giulino di Mezzegra e non il mattino in quel di Bonzanigo. Il medico disse di aver sottoposto a perizie parte del vestiario di Mussolini che si vedeva nelle foto e nei filmati, ma “dimenticò” di fare la stessa analisi proprio sul giaccone indosso al cadavere e che pur si mostrava ampiamente nei filmati di Piazzale Loreto. Se l'avesse fatto (o dobbiamo pensare che proprio per questo non la fece?) si sarebbe facilmente reso conto che quel giaccone non presentava buchi o strappi quali esito di una fucilazione (dove ben 9 colpi avevano attinto il corpo del Duce) e quindi era stato fatto indossare ad un cadavere. Ergo, a Villa Belmonte era stata recitata una messa in scena. Comunque sia, i dubbi che fanno presumere un infame sfregio alla donna, sono almeno due: il fatto che il cadavere della Petacci, portato a Piazzale Loreto, risultasse privo delle mutandine e la mancata autopsia della salma. Vediamoli separatamente. La mancanza delle mutandine. Senza neppure considerare le idiozie gratuite di chi insinua presunte arti amatorie del Duce (assurde per un uomo di quasi 62 anni, reduce da una giornata e una nottata devastanti, privo di riposo da giorni e in condizioni di cattività e guardiania), alla domanda perché il cadavere della Petacci era senza mutandine, tanto più che testimonianze dei coniugi De Maria ci raccontano che la donna aveva il ciclo mestruale e venne accompagnata più di una volta ai servizi igienici ubicati fuori della casa, possiamo ragionevolmente adombrare queste ipotesi:

a) Gliele avevano tolte i partigiani dopo morta come ulteriore gesto di denigrazione. Non ci sono però testimonianze o elementi che la possano confermare, resta quindi una ipotesi del tutto teorica e serve a poco.

b) Se le era tolte la Petacci stessa per lavarle, a causa delle mestruazioni che sappiamo gli vennero quella notte e poi magari, non asciutte, le mise momentaneamente nella tasca del cappotto o della pelliccia (i servizi igienici, come detto, erano all'esterno). Quando poi rientrò in stanza venne sopraffatta dagli avvenimenti (arrivo dei partigiani) e non potè rimettersele. Anche a questa ipotesi mancano elementi di prova perchè il cappotto sembra che rimase in possesso dell'autista Giovanbattista Geninazza, mentre la pelliccia, prima di scomparire, passò in varie mani e, per esempio, i primi di maggio 1945 venne fotografata a Dongo nel giardino di Luigi Conti (fu sindaco comunista del paese), mettendo in evidenza i fori nello schienale, ma nessuno denunciò di aver ritrovato queste mutandine, che pur sarebbero state un “cimelio”. Oltretutto sappiamo che la Petacci venne uccisa a mezzogiorno, mentre il Duce era stato ammazzato tra le 9 e le 10 di mattina. Nel frattempo la donna era uscita da casa De Maria e a quanto riferì Dorina Mazzola, teste al tempo nei pressi residente, seguì, costernata e disperata, il trasporto del cadavere di Mussolini per la mulattiera via del Riale, prima di essere uccisa nel prato proprio a lato di casa Mazzola. E' prevedibile quindi che, seppure prima non le indossava, avendole lavate, aveva poi comunque avuto tutto il tempo per rimettersele, a meno che la concitazione di quei momenti non glielo abbia impedito. Quindi, pur con qualche dubbio, anche questa ipotesi che le aveva in tasca resta inutilizzabile.

c) Venne violentata poco dopo che fu ucciso il Duce e le mutandine si strapparono andando poi perdute o fatte sparire. E' questa una dinamica possibile, seppur non dimostrabile, che si regge proprio su la mancanza delle mutandine e sul perchè non venne fatta l'autopsia.

La mancata autopsia sulla salma della Petacci. Come ben sappiamo, già sul cadavere di Mussolini venne compiuta una autopsia più che altro come un riscontro diagnostico per le morti violente e non naturali che in quei tempi di guerra erano all'ordine del giorno. Non furono quindi forniti elementi utili per una indagine sulle cause, la dinamica e le modalità di quella morte. Anzi il verbale stilato dal prof. Caio Mario Cattabeni, desta alcune perplessità e fa sospettare che quel giorno, in sala settoria ci furono delle imposizioni esterne. Tanto più poi che, stranamente, non venne eseguita la necroscopia sulla salma della Petacci. Il medico antifascista Pierluigi Cova Villoresi, che dicesi presente a quell'avvenimento, affermò negli anni '90, che secondo lui non venne fatta l'autopsia alla donna perchè non era stato ritenuto assolutamente necessario, aggiungendo così, con questa stupida osservazione, ulteriori perplessità. E' ridicolo infatti sostenere che la necroscopia sulla salma della Petacci era inutile e non necessaria, quando la donna era stata fucilata assieme a Mussolini, aveva condiviso le sue ultime ore di vita ed essendone stata notoriamente l'amante rappresentava pur sempre una “celebrità”. Quindi la mancata necroscopia ha altre ragioni ed a questo proposito bisogna considerare il ruolo e la presenza a quella autopsia di quel “Guido, Generale medico della Direzione Generale di Sanità del Comando Generale del CVL”, firmatario del verbale di Cattabeni, che molti sospettano, a ragione, abbia condizionato la necroscopia di Mussolini e impedito quella sul cadavere della Petacci. Il fatto sconcertante è che questo misterioso Guido è poi letteralmente sparito nel nulla. Non ha mai più dato segni di vita, nè è mai stato possibile dargli un nome, solo supposizioni e nessuna autorità del CLNAI, del CVL, di partecipanti alla Resistenza, ecc., ha mai dato indicazioni per rintracciarlo. Questo Generale medico del CVL aveva quindi presenziato alla necroscopia, probabilmente aveva imposto qualcosa, quindi aveva firmato il verbale autoptico e si era poi volatilizzato nel nulla! Un comportamento questo di chi aveva avuto sicuramente molto da nascondere e quindi venne “coperto” rendendolo sconosciuto e irreperibile per non correre il rischio di far emergere circostanze inquietanti. Tirando le somme comunque, con i dati che abbiamo fornito, l'ipotesi di una possibile violenza carnale alla Petacci, pur restando in piedi non è possibile attestarla con prove. Giorgio Pisanò autore del libro più importante e attendibile sulla fine di Mussolini (“Gli ultimi 5 secondi di Mussolini” Il Saggiatore 1996), aveva anticipato che alla presentazione del libro, verso l'estate del 1996, avrebbe rivelato la violenza alla Petacci e fatto i nomi degli ignobili criminali autori del gesto. Poi però non portò prove o nomi. Da quanto ci risulta Pisanò, pur certo della violenza alla Petacci, non potendolo provare con certezza, preferì desistere per non essere successivamente querelato. Personalmente crediamo, il dubitativo è d'obbligo, ma non possiamo dimostrarlo (la mancanza delle mutandine e la mancata autopsia, però, sono indizi non da poco) che effettivamente la Petacci venne violentata. Ma in questo caso quando? Sul quando dobbiamo rifarci alle testimonianze della signora Dorina Mazzola e della Savina Santi vedova Cantoni (la moglie di Sandrino Guglielmo Cantoni, uno dei due partigiani lasciati di guardia in quella casa). Da queste testimonianze si deduce che due partigiani venuti da fuori, accompagnati da Michele Moretti (Pietro, il comunista che aveva portato Mussolini e la Petacci in quella casa) fecero, verso le 9, una aggressiva irruzione nella stanza del Duce. E' poco, ma sicuro che i due prigionieri reagirono. Forse la Petacci, donna impulsiva, si scagliò contro costoro e venne colpita al viso. Mussolini, che sicuramente cercò di difendere la Petacci e sé stesso, lottò contro gli aggressori, finì in terra e restò ferito da uno o due colpi di pistola al fianco e forse al braccio. Le osservazioni balistiche e su le ferite, da parte del medico legale Aldo Alessiani, almeno fino a questo punto, sono molto attendibili. Quindi Mussolini ferito venne fatto scendere in cortile, ancora in maglietta bianca di salute a mezze maniche e poco dopo fu assassinato con una esecuzione ravvicinata di tipo gangsterico (colpi ravvicinati di pistola e di mitra). Fin qui non crediamo che la Petacci fosse stata violentata, tanto che la Dorina Mazzola riferisce, che mentre il Duce veniva tradotto nel cortile dello stabile, una donna si affacciò a una finestra, gridando “Aiuto”, “Aiutateci”, ma venne ricacciata dentro in malo modo. La Petacci poi riapparve circa un paio di ore dopo, quando i partigiani trasportarono a braccia Mussolini morto per via del Riale e sappiamo che, lei dietro, si disperava e piangeva. Ecco, se c'è stata violenza carnale, come personalmente riteniamo, sia pure con riserva, ci fu in quelle due ore. Da parte di chi e se più di uno, sinceramente non è possibile ipotizzarlo. Questo è tutto. Un po' poco, ma non è colpa nostra.

Le nude pudenda di Claretta Petacci, scrive "Italoeuropeo" il 30 giugno 2008. Parlando dello scempio di piazzale Loreto (29 aprile 1945), Edgarda Ferri (L’alba che aspettavamo. Mondadori, 2005) ha scritto: “Il secondo corpo che sale è quello della Petacci (appendimento per i piedi alla putrella metallica di un chiosco della Oil Standard). Ha le mani socchiuse, le unghie smaltate di rosa chiaro. La camicia insanguinata ed infangata è slacciata fino alla metà del petto: un petto rigoglioso, giovane. Un petto bellissimo. Mentre stanno alzando il suo corpo, la gonna le scende fino alla vita, scoprendo il ventre nudo, morbido e largo, le cosce tornite, il reggicalze rosa, le calze di seta. Si leva un brusio misto a osceni sghignazzi: <Non ha le mutande>. Quasi sotto di lei, una donna si toglie di dosso una spilla da balia. E’ Piera Barale, la staffetta partigiana “Carla la bionda”. Piera allunga la spilla a don Franco Pellarolo (il vero nome è Giuseppe Pollarolo, ndr) che ai partigiani chiede una sosta, appena il tempo di rialzare la gonna intrisa di polvere e sangue e con la spilla fissarla tra le gambe della Petacci morta ammazzata”. Com’è noto, l’autopsia sul cadavere di Claretta non è stata eseguita. Franco Bandini in proposito ha affermato (Vita e morte segreta di Mussolini. Mondadori, 1978): “Precauzione che si rese necessaria proprio perchè già esisteva il fatto pietoso ed imbarazzante della mancanza delle mutandine di Claretta: i milanesi si erano chiesti il perchè di un fatto così strano. Occorreva che altri fatti strani non emergessero”. L’assenza di quell’indumento intimo sul corpo dell’amante del Duce è indubbiamente difficile da spiegare. Prima di morire Claretta era nella fase mestruale del ciclo femminile. Probabilmente lo stress, la fatica e la paura che aveva dovuto sopportare dopo il suo arresto avvenuto sulla piazza di Dongo (pomeriggio del 27 aprile 1945) ne erano stati la causa scatenante. Ecco quello che ha asserito Ezio Saini (La notte di Dongo. Casa Editrice Libraria Corso, 1950): “Claretta non si sentiva bene, riferisce Lia De Maria (la padrona del rustico di Bonzanigo dove il Duce e la Petacci erano tenuti prigionieri la notte tra il 27 ed il 28 aprile 1945, ndr) e indica dalla finestra la garitta nello spiazzo del cortile. A causa dei suoi disturbi, Claretta ci si fece accompagnare più volte nella notte da uno dei due partigiani di guardia (Lino e Sandrino) (Giuseppe Frangi e Guglielmo Cantoni, ndr). La buona volontà documentaria di Lia giunge a mostrare il rozzo catino in cui Claretta si lavò le parti intime prima di coricarsi”. Per gli agiografi fascisti l’assenza delle mutandine era dovuta ad un tentativo di violenza carnale che i partigiani avrebbero tentato di fare ai danni della Petacci. Volevano mortificare e sbeffeggiare il Duce prigioniero (R. Putignani. Processo alla storia. La verità sulla morte del Duce. Prime-Time Edizioni, 1999; R. Putignani. Caccia ai vinti. Iniziative Editoriali, 2004; R. Roggero. Oneri e Onori. Greco & Greco, 2006; Il mitra MAS del “Colonnello Valerio”. foonews.net. Reperibile per via telematica). Giorgio Pisanò ha fatto persino il nome di colui che sarebbe stato l’artefice di quell’atto vandalico: Martino Caserotti (capitano Roma) (D. Messina. Pisanò: il Duce ucciso da Longo. archiviostorico.corriere.it. Reperibile per via telematica). Insigni cattedratici di Medicina Legale hanno detto che non esistono indizi per poter affermare che Claretta è stata sottoposta a stupro (G. Pisanò. Gli ultimi cinque secondi di Mussolini. Il Saggiatore, 2004. P. L. Baima Bollone. Le ultime ore di Mussolini. Mondadori, 2005). Le fotografie scattate all’Obitorio milanese di via Ponzio mostrano che le calze ed il reggicalze della giovane donna erano perfettamente allacciati. Il che non avrebbe dovuto essere se Claretta fosse stata vittima, in precedenza, di un abuso sessuale. Il riscontro dell’assenza dell’indumento intimo al momento dell’impiccagione per i piedi non era dovuto ad atti imputabili alla ferocia della folla che si era assiepata a piazzale Loreto il 29 aprile di mattina. I partigiani dell’Oltrepò pavese che avevano caricato il cadavere della Petacci sul camion in partenza da Azzano avevano già notato questo particolare imbarazzante (F. Bernini. Così uccidemmo il Duce. C.D.L. Edizioni, 1998). Luciano Garibaldi lo ha così interpretato: “Qualcuno strappò le mutandine alla povera donna dopo morta, perché il ludibrio fosse completo” (La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci? Ares, 2002). A tal proposito un partigiano ha detto che un suo collega si è impossessato per feticismo delle mutandine della Petacci prima che la giovane donna venisse gettata sul pianale del camion che doveva trasportare i cadaveri del Duce, di Claretta e dei gerarchi fascisti, fucilati a Dongo, a piazzale Loreto (E. Cicchino, comunicazione personale). Del tutto paradossali sono del pari le affermazioni del cruscaiolo Sandrino (Guglielmo Cantoni), il quale ha sostenuto che, nella notte tra il 27 e il 28 aprile, sarebbe dovuto intervenire per interrompere effusioni amorose preagoniche (e relativo spogliarello) tra il sessantunenne Duce e l’amante Claretta (R. Putignani, opera citata). Assurdo è anche quello che avrebbe detto Walter Audisio (il colonnello Valerio) quando la Petacci si attardava perchè non riusciva a ritrovare le sue mutandine: “Tira via, non importa, tanto non sei stata mai completamente vestita” (M. Barozzi. Mussolini: La versione storica della morte. Effedieffe.com. reperibile per via telematica). Per rispetto dell’informazione, è opportuno riportare quanto affermato dal professor Umberto Maria Milizia, vicepresidente della Società di Cultura e Storia Militare (SCSM): “Come Lei ha potuto vedere, il sottoscritto ha pubblicato, prima che fossero diffuse in televisione, alcune foto sulla morte di Mussolini, deducendone che la Petacci aveva le mutandine prima di essere appesa per i piedi”. Il Milizia ha poi aggiunto. “Le fotografie sono state pubblicate nel sito della SCSM, a mio nome, in un articolo dedicato a La Settimana, il giornale da cui sono state prese. Il giornale fu sequestrato, prima ancora che uscisse a Roma, dalla polizia e portato nei sotterranei del Ministero dell’Interno, da dove mio padre, allora giovane funzionario (finì la carriera come prefetto di prima classe) ne portò via una copia”.  Si tratta del numero del 6/5/1945, intitolato “L’insurrezione nel Nord”, contenente alcune foto d’epoca, già conosciute, relative alla morte di Mussolini. Sul sito della SCSM c’è scritto: “L’unico rilievo che facciamo (quello del Malizia) è relativo alla presenza, sul corpo della Petacci, di un paio di mutandine che attesterebbe come la gonna non fosse stata annodata tra le gambe della medesima, quando fu appesa, per evitare che si vedesse che era nuda, fatto che avrebbe implicato un probabile stupro. Notiamo che la gonna sciolta avrebbe impedito di vedere il volto, cosa indispensabile a chi voleva rendere certa la popolazione della morte di Mussolini e dei suoi per mettere definitivamente fine alla guerra civile; notiamo ancora che sarebbe stato facile mettere le mutande al corpo prima di esporlo come anche di ritoccare la fotografia non altrimenti pubblicabile, allora, se fosse stato visibile un pube” (arsmilitaris.org. Reperibile per via telematica). Un fatto è certo. Le mutandine sono scomparse. Se fossero rimaste in casa dei contadini De Maria, Lia non avrebbe mancato di riferire questo particolare piccante. Quella notte pioveva e faceva freddo. La Petacci per recarsi nella toilette esterna di casa De Maria ha indossato la pelliccia. Ha lavato e strizzato alla meglio le mutandine per poi riporle in una tasca della stessa. Poiché di lì a poco è stata fucilata, la lingerie è rimasta dove l’aveva riposta Claretta (A. Bertotto. La morte di Benito Mussolini. Una storia da riscrivere. PDC Editori, 2008). La pelliccia è stata successivamente regalata al partigiano Lino (G. Frangi), uno dei due carcerieri che avevano sorvegliato i prigionieri rinchiusi in casa De Maria a Bonzanigo (F. Bernini. Walter Audisio. Il giustiziere di Dongo. Gianni Iuculano Editore, 2004). Il Frangi ha fatto scomparire le mutandine prima di donare la costosa pelliccia ad una coppia di patrioti che si trovavano in disastrate condizioni economiche (W. Conti, comunicazione personale). Lino è morto nei primi giorni di maggio. Non si sa se è stato un incidente o se lo abbiano ammazzato i suoi compagni comunisti per impedirgli di continuare a fare esecuzioni sommarie di fascisti reclusi nella caserma dei Carabinieri di Dongo (F. Borzicchi. Dongo. L’ultima autoblinda. Ciarrapico, 1984). Solo lui, probabilmente, avrebbe potuto svelare il mistero che ancora circonda le mutandine di Claretta Petacci. 

Parla il nipote di Claretta Petacci. Intervista a Ferdinando Petacci. "Il diario di zia Claretta dirà che fu Churchill a farla uccidere". "Lo Stato nasconde i suoi scritti e le lettere a Mussolini", dice Ferdinando. "Quei documenti proveranno gli accordi top secret tra il Duce e il premier inglese che, per evitarne la divulgazione, avrebbe ordinato l'eliminazione di Benito e dell'amante che sapeva". Phoenix (Arizona), intervista di Mauro Suttora del 5 febbraio 2003. Dopo sessant' anni bisogna venire fino in Arizona, a diecimila chilometri dall'Italia, per sapere qualcosa di più su uno dei grandi misteri del Ventesimo secolo: l'uccisione di Benito Mussolini e dell'amante Claretta Petacci. "Terra di sogni e di chimere" era definito questo Stato americano in una famosa canzone dell'era fascista, il Tango delle capinere. Ma il suo autore, Cesare Andrea Bixio, aveva scelto l'Arizona per far rima con una "chitarra che suona". E oggi arriviamo fra deserti e grand canyon solo perché qui abita l'unico erede vivente dei Petacci: Ferdinando, 61 anni, figlio di Marcello e nipote di Claretta. C'era anche lui, bimbo di tre anni, sull' Alfa Romeo fermata a Dongo (Como) dai partigiani il 28 aprile 1945, assieme alla zia Claretta, a papà Marcello, alla mamma e al fratellino di cinque anni. Assassinati i primi due, violentata per giorni la madre, bloccato lo sviluppo mentale del fratello (morto poi giovane di cancro) perché aveva assistito alla fucilazione del padre, Ferdinando è il solo sopravvissuto al dramma. "Per decenni non ho voluto sapere nulla di quelle vicende", mi confessa nella hall dell'albergo dove abbiamo appuntamento, "anche se dopo aver perso la nostra casa di Merano mia madre dovette mandarmi in collegio sotto falso nome. Non sono fascista, non lo sono mai stato, mi sono costruito da solo la mia vita e la mia carriera di dirigente industriale. Mi sono sposato e ho avuto due figli che vivono negli Stati Uniti come me.  Poi, con l'età, mi sono reso conto che la nostra famiglia ha subito una grossa ingiustizia. Non c'era alcun motivo di uccidere Clara Petacci, che ebbe l'unico torto di amare un uomo. Non c'era alcun motivo di ammazzare mio padre, che non era un gerarca fascista: lo urlarono i ministri di Salò ai partigiani comunisti mentre li stavano fucilando. Mio padre riuscì a scappare, si tuffò nel lago, ma fu colpito mentre si allontanava. Dopo la morte di zia Miriam, una decina di anni fa, sono subentrato a lei nella richiesta allo Stato italiano di rientrare in possesso dei diari di mia zia e delle sue lettere a Mussolini".

E questo è il motivo per cui siamo qui. Lei si oppone alla pubblicazione di questo carteggio. Come mai?

"Perché lo Stato italiano ha preso in giro noi eredi per oltre mezzo secolo, e ancora adesso non vuole ridarci ciò che è di nostra legittima proprietà. Il diario e le lettere private, infatti, furono affidati da mia zia Clara a una sua cara amica, la contessa Cervis, prima di fuggire dal lago di Garda nell' aprile ' 45: vivevano assieme nel Vittoriale di D' Annunzio. La contessa seppellì il plico nel giardino della sua villa. Claretta, giunta a Milano, preferì restare con Mussolini, rifiutando di scappare in aereo per la Spagna con la sorella Miriam. Ma a lei si raccomandò: "Se mi capitasse qualcosa, i documenti sono lì". A guerra finita Miriam restò in Spagna e i carabinieri sequestrarono il carteggio. Ma qui cominciano i misteri. Perché dall' inventario del sequestro risulta che le lettere di Mussolini e le minute di quelle di mia zia fossero 600, mentre ora sono la metà. Dove sono finite le lettere mancanti? Perché sono sparite? Chi le ha prese? E che cosa c'era scritto di così delicato da rendere necessario un trafugamento?".

Lei non ha mai potuto neanche visionare il diario e le lettere?

"No. Dicevano che c'era il segreto di Stato, che in Italia dura cinquant' anni. Ma nel ' 95, alla scadenza del termine, hanno trovato un'altra scusa per mantenere il segreto: Paola Carucci, sovrintendente dell'Archivio centrale dello Stato, mi ha scritto opponendo un fantomatico diritto alla privacy, che scadrebbe dopo settant' anni. Quindi, secondo loro, io dovrei aspettare ancora fino al 2015. Ma non solo io: tutti gli storici sono esclusi dalla consultazione. Perfino al più prestigioso fra loro, Renzo De Felice, è stato negato l'accesso a quelle preziose carte. Prima con la scusa del segreto, poi con quella della privacy. Proprio contro gli unici che potrebbero dolersene, e cioè i legittimi eredi".

La sovrintendente Carucci è stata sostituita cinque mesi fa dal governo Berlusconi.

"Ma anche i nuovi dirigenti mi deludono", dice Petacci, "quando annunciano che lettere e diari verranno pubblicati, senza restituirli ai legittimi proprietari: si tratterebbe di un ulteriore esproprio senza indennizzo ai danni della mia famiglia".

Si può facilmente immaginare il valore storico ma anche commerciale di una pubblicazione di questi documenti. I misteri sulla fine di Mussolini (dal famigerato "oro di Dongo", il tesoro che i gerarchi in fuga portavano con loro e poi scomparso, alla vera identità del colonnello Valerio, il presunto giustiziere del dittatore fascista, fino alle prove dei contatti segreti fra il premier britannico Winston Churchill e Mussolini e all' assassinio di vari testimoni di quelle vicende) hanno sempre messo in imbarazzo gli eredi dei partigiani comunisti che ammazzarono in quattro e quattr' otto l'ex Duce in fuga. Perché tutta quella fretta di fare giustizia sommaria? Sull' argomento sono state avanzate le ipotesi più inquietanti, come quelle contenute nei libri dell'ex capo partigiano Urbano Lazzaro (quello che catturò Mussolini) e dello storico Luciano Garibaldi. Quest' ultimo ne dà un panorama completo nella sua opera più recente, La pista inglese (edizioni Ares, 15 e). Una pista, quella del coinvolgimento dei britannici, a cui crede anche Ferdinando Petacci: "Sono convinto che la decisione di uccidere Mussolini, mia zia e mio padre fu frutto di un accordo fra agenti inglesi e il colonnello Valerio, che secondo Lazzaro era Luigi Longo, numero due del Pci di Palmiro Togliatti e suo successore".

C' è anche chi ipotizza che Valerio, giunto a prendere i prigionieri per portarli a piazzale Loreto, li trovò già cadaveri. E che fu inscenata una macabra doppia fucilazione, perché i comunisti non volevano perdere il merito di avere giustiziato il Duce. Ha qualcosa da aggiungere sulla pista inglese rispetto agli storici?

"La vicenda della mia famiglia. Mio padre Marcello ci aveva portati in salvo in Svizzera qualche tempo prima, attraversando di notte il confine nella Val d' Intelvi. Eppure ci fece tornare tutti in Italia, me, mia madre, mio fratello, per prendere mia zia Clara. Perché rischiare? Mio padre non era certo un pazzo. Aveva dato a tutti noi un passaporto spagnolo, lui si faceva passare per un diplomatico di Madrid, e quando l'Alfa Romeo fu fermata dai partigiani soltanto l'intelligenza di Lazzaro, che era un'ex guardia di Finanza, abituato ai controlli di frontiera, gli fece scoprire un'incongruenza fra il passaporto personale di mia madre e quello collettivo. Così ci arrestarono. Altrimenti Clara Petacci si sarebbe salvata: nessuno l'aveva riconosciuta".

Perché Marcello Petacci era così tranquillo?

"Perché fino alla sera prima aveva trattato a Milano con agenti spagnoli e inglesi. Churchill era ricattabile da Mussolini, col quale aveva condotto trattative segrete per tutto l'anno precedente. Lo statista inglese aveva capito che il pericolo del futuro non era più la Germania, ma l'Unione Sovietica di Stalin. Quindi aveva contattato Mussolini fin dal giugno 1944, subito dopo il successo dello sbarco in Normandia, con due obiettivi. Il primo era quello di una pace separata con l'Italia, che avrebbe permesso di liberare truppe preziose impegnate sul fronte degli Appennini, spostandole su quello francese per arrivare a Berlino prima di Stalin. Il secondo era quello di convincere Hitler, tramite Mussolini, a negoziare un armistizio a Ovest. Così la guerra sarebbe continuata solo fra nazisti e comunisti, sul fronte orientale. Di tutto questo era al corrente non solo mia zia, ma anche mio padre".

Prove?

"Non le deve chiedere a me, ma allo Stato italiano che nasconde da 58 anni il diario privato di Clara Petacci e le lettere Petacci Mussolini. Comunque esistono testimonianze inequivocabili di incontri segreti fra capi fascisti ed emissari inglesi sul lago d' Iseo. E lo stesso duce si recò due volte in auto di notte da Salò a Ponte Tresa, fra Varese e la Svizzera, per incontrare agenti britannici. Lo doveva fare di nascosto, eludendo la "scorta" delle SS. Anche le trascrizioni delle sue telefonate con Hitler dimostrano come cercasse di convincere il Fuehrer a un armistizio non solo sul fronte italiano, ma anche su quello francese. Hitler però non ne volle sapere".

Fra gli occidentali, gli Stati Uniti non erano disposti a un armistizio coi nazisti, né a tradire l'alleato Stalin. Pretendevano la resa di Hitler.

"Infatti. Per questo la posizione di Churchill era delicata. Se Mussolini avesse subito un processo pubblico, avrebbe esibito le prove delle trattative con il capo inglese, mettendolo in imbarazzo. Per questo gli agenti del controspionaggio inglese, ricevuta la notizia della sua cattura sul lago di Como, si attivarono per eliminarlo. E con lui dovettero uccidere mia zia, che era al corrente di tutto. Infatti lei negli ultimi tempi era diventata una sua stretta confidente anche per le vicende politiche: il diario e il carteggio lo dimostreranno. Non c'era alcun'altra ragione per ammazzarla. Né c'era ragione che Churchill si precipitasse sul lago di Como poche settimane dopo, nell'estate 1945, con la scusa di trascorrere le vacanze nella villa di Moltrasio che oggi appartiene ai Versace, a pochi chilometri da Dongo. È provato che il capo inglese incontrò il funzionario della banca dove era stata depositata la borsa di documenti dalla quale Mussolini non si separava mai: "Lì dentro c'è il futuro dell'Italia", si raccomandò il Duce col partigiano che gliela prese. Anche quei documenti sono spariti". Mauro Suttora

Sigilli alla tomba di Claretta Petacci. «In abbandono, gli eredi sono in Usa». Roma, il dirigente del servizio cimiteri: senza di loro non si può intervenire. Vicino alla sua tomba c’è quella in cui è sepolto il partigiano che la fucilò: «Per lui fiori di plastica, quelli veri li tolgono», scrive Tommaso Labate il 22 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Le ultime tracce dell’intervento di un essere umano sono l’impianto di un doppio reticolo di quelli che si usano per delimitare i cantieri, nylon verde fuori e filo di ferro dentro, più un foglio A4 plastificato, col timbro dell’Ama (la municipalizzata dei rifiuti di Roma), che certifica la presenza di un «manufatto in stato di abbandono». Oltre a un buco, creato forse con l’aiuto di un temperino. Uno squarcio attraverso il quale s’intravede il mausoleo che ospita, nel lato inferiore, i resti del «Nobilis Homo Professor Francesco Saverio Petacci», morto nel 1970, e della moglie «Giuseppina Persichetti in Petacci», deceduta nel 1962. Più in alto, ed è il motivo che ha armato la mano o il temperino dell’anonimo curioso, la gigantesca lapide di marmo con l’incisione a caratteri cubitali. Una sola parola, «Claretta». Al cimitero monumentale del Verano, confinante con la cappella di famiglia di Peppino de Filippo, c’è una tomba abbandonata e messa sotto sigilli. È la tomba di Claretta Petacci, amante di Mussolini, con lui condannata a morte il 28 aprile 1945 a Giulino di Mezzegra e con lui appesa a testa in giù a Piazzale Loreto, a Milano. «L’accertamento dello stato di abbandono di questo manufatto», si legge nel foglietto dell’Ama, «ha determinato l’avvio del procedimento amministrativo di dichiarazione dell’avvenuta decadenza della concessione come previsto dall’articolo 52 del Regolamento di polizia cimiteriale vigente». Maurizio Campagnani, dirigente del Servizio cimiteri capitolini, scuote la testa. «Senza l’intervento degli eredi, che sono proprietari della concessione, non possiamo fare nulla. Li abbiamo rintracciati negli Stati Uniti, abbiamo spedito due raccomandate ma non abbiamo mai avuto risposta... Si è fatta avanti un’associazione di reduci fascisti per prendersi cura della manutenzione. Ma senza gli eredi, se non si cambia l’articolo 52, abbiamo le mani legate...». L’articolo 52 del Regolamento di polizia cimiteriale vigente a Roma prevede che — qualora i concessionari non rispettino l’obbligo di curare la manutenzione prevista dall’Amministrazione entro sei mesi — la concessione decade. E sarà «carico dell’Amministrazione di provvedere alla conservazione dei resti mortali, nel modo in cui essa giudicherà più opportuno». In linea teorica, dunque, il mausoleo Petacci potrebbe anche sparire. E toccherebbe all’amministrazione del Verano decidere l’ultima sorte di Claretta Petacci. Per un beffardo scherzo del destino, a qualche decina di metri, c’è un’altra lapide che non trova pace. È quella di Walter Audisio, il leggendario «colonnello Valerio» che eseguì la fucilazione di Mussolini e della Petacci, tumulato in una cappella comune. A omaggiarlo, soltanto un fiore finto. «Perché ogni volta che qualcuno va a metterci dei fiori veri», raccontano al Verano, «c’è sempre qualche mano misteriosa che li toglie». Il fiore del partigiano, «bel» in Bella Ciao, è diventato un fiore di plastica. Oltre il reticolo che avvolge il malridotto mausoleo dei Petacci, invece, la parvenza di quelli che erano stati sette fiori sopravvive all’incedere del tempo. Sono sette fiori vecchi, ormai appassiti.

Da Mussolini alla Dc, il sesso ai tempi del potere. Napoleone e Vittorio Emanuele II si facevano portare donne per rapporti brevissimi. Col Duce si mettevano in fila. La Democrazia cristiana faceva tutto con discrezione: gestiva l’amante di Scelba e l’omosessualità di alcuni suoi esponenti di punta col riserbo di un grande partito. Di Alessandro Marzo Magno su “L’Inkiesta” del 22 Maggio 2011. Il sesso compulsivo dei potenti non è certo una novità: la storia rigurgita di personaggi che badano solo alla quantità, che praticano un sesso onanistico mirato all'autosoddisfazione e che non ha alcun riguardo per la donna in quel momento coinvolta. Una contessa veneziana racconta di esser stata un sera portata (consenziente) nella stanza occupata in quel momento da Napoleone Bonaparte, al tempo semplice generale, che aveva appena messo fine alla millenaria storia della Serenissima. Bonaparte è assiso alla sua scrivania, quando la donna entra nemmeno si volta, le dice di spogliarsi e sistemarsi nel letto, cosa che la tapina fa. A un certo punto il generale corso si alza, si congiunge per un tempo brevissimo (minuti? Più probabilmente secondi) con la contessa, si riassetta, si rimette alla scrivania e invita la nobildonna a rivestirsi e a levarsi dai piedi. La scena si ripeteva più o meno ogni sera. Un vero e proprio malato di sesso è Vittorio Emanuele II. Non passa giorno senza che il primo re d'Italia grugnisca in piemontese di portargli una donna, cosa che gli efficienti servizi di sicurezza di Casa Savoia fanno. Gli consegnano una donna purchessia con la quale re Vittorio ha un velocissimo rapporto e poi, saziato all'istante, la paga e la manda via. Ma chi fa giungere al parossismo questo tipo di bulimia sessuale è Benito Mussolini. Come andassero le cose lo spiega Mimmo Franzinelli, storico del fascismo, a Gorizia per è Storia, che ha curato l'edizione dei diari di Claretta Petacci 1939-40 appena uscita con Rizzoli. «La novità di Mussolini – spiega – è il culto della personalità. Non aveva bisogno che la polizia segreta gli procurasse le donne, perché gli si offrivano spontaneamente. L'Archivio centrale dello Stato, a Roma, conserva una quantità di lettere di femmine in delirio che gli chiedono un incontro». A gestire il traffico è il segretario del duce, Quinto Navarra, che conoscendo gusti e attitudini del capo sceglie tra le lettere le donne che più si avvicinino alle sue esigenze. Gli incontri avvenivano a Palazzo Venezia, spesso truccati da udienze. Le donne venivano introdotte nell'ufficio del capo del governo, dove veniva consumato un rapporto di natura conigliesca sulla scrivania, sul tappeto, sul divano. In questo modo Mussolini vedeva rassicurata la sua mascolinità con donne che non avrebbe mai più rivisto. E cambia anche il rapporto delle donne con lui: sono soddisfatte di esser state toccate, di averlo visto da vicino, di aver subito una sorta di imposizione taumaturgica da parte del maschio più maschio d'Italia. Erano donne di tutte le classi sociali, dalla popolana alla principessa, in deliquio per aver soddisfatto le voglie del simbolo della virilità. Tutto ciò accadeva mentre Mussolini aveva Claretta Petacci come amante e Rachele come moglie. «Nemmeno una donna giovane e desiderabile come la Petacci lo soddisfaceva», sottolinea Franzinelli. In compenso non disdegnava di prendersi ulteriori extra, come la giornalista francese (e spia tedesca) Magda de Fontanges che, ammaliata dal maschio latino, gli si concede durante un'intervista. La Petacci è gelosissima, nonostante questo (o forse proprio per questo) Mussolini la informa regolarmente delle altre, facendola infuriare. Claretta scrive nei suoi diari che Mussolini continua ad avere rapporti, seppur molto diradati, con Rachele. La moglie ogni tanto lo cerca, imponendogli di adempiere ai doveri coniugali e lui si concede purché lei si levi di torno e lo lasci in pace. «Avevano anche un gergo», osserva Franzinelli, «Mussolini diceva alla Petacci: “Oggi ho pagato il tributo”, lei capiva, lo insultava, piangeva, si disperava perché lo voleva tutto per lei». Nel dopoguerra, con i democristiani cambia tutto. Nelle zone più bianche, tipo Veneto, se un politico diccì si fa l'amante viene convocato in Curia e il vescovo in persona gli impone di tornare all'ovile. Questo testimonia due cose: che si stava ben attenti alla non ricattabilità dei politici e che i veri capi della Dc erano i vescovi. C'erano eccezioni, naturalmente: Mario Scelba ha per amante una signora romana dalla quale ha avuto anche una figlia segreta. Ma quando il “ministro di polizia” non è più in posizione tale da poter far saltare qualche testa e si oppone al neonato centrosinistra, si vede recapitare in busta chiusa una foto di lui con l'amante ai tavolini di un bar. Sono i servizi segreti: gli vogliono far capire che sanno e che è meglio se ne stia buono. Ma gli amori etero non fanno storia nella Dc. Ben più importanti sono i rapporti gay. Emilio Colombo proprio per questo non sarà mai candidato alla presidenza della Repubblica, pur avendo le carte in regole per aspirare alla carica. Nessuno, mai, si incaricherà di opporsi alla sua candidatura, semplicemente nessuno, mai, lo candiderà (la Dc era così, per chi non se lo ricordasse). Emilio Colombo, Mariano Rumor e Fiorentino Sullo erano soprannominati le “Sorelle Bandiera” e neanche tanto riservatamente, se in un famoso congresso Dc i delegati hanno apertamente applaudito alle “Sorelle Bandiera”. Il vicentino Mariano Rumor arriva a fare il Presidente del consiglio e si narra che nel suo studio privato romano avesse un balcone con una splendida vista sulla città e che invitasse i giovani virgulti ad affacciarsi per poterne poi contemplare le forme. Fiorentino Sullo, originario della provincia di Avellino, diventa più volte ministro, ma l'ostracismo di Amintore Fanfani verso di lui si fa talmente forte che abbandona la Dc per passare al Psdi. Ormai da qualche anno non è più un segreto che Bettino Craxi abbia a lungo avuto per amante Ania Pieroni, un'attrice romana, e che abbia avuto una più breve relazione con la pornostar Moana Pozzi. Ben più misteriosa è invece la storia di un politico della Seconda repubblica che avrebbe avuto una crisi dovuta a un'overdose di Viagra durante un rapporto con una show girl. 

IL BENITO ROMANZIERE.

Politica, intrighi, lussuria. E Mussolini si diede al feuilletton. Domani con "il Giornale" l'unico romanzo scritto da Mussolini, scrive Francesco Perfetti, Lunedì 26/11/2018, su "Il Giornale". Era il 1910 quando il giovanissimo Mussolini, rientrato a Forlì dopo essere stato dapprima incarcerato a Rovereto e poi espulso dal Trentino, scrisse, alla maniera di Alexandre Dumas, un romanzo d'appendice dal titolo L'amante del cardinale che ebbe, ai suoi tempi, un discreto successo (e ora arriva in edicola, allegato al Giornale). Quando, negli anni successivi, al culmine del suo potere, gli veniva ricordata da qualche interlocutore quella sua fatica giovanile, egli tendeva a minimizzarla. A Emil Ludwig, per esempio, che ebbe con lui diverse conversazioni fra il 1929 e il 1932, poi raccolte nei celebri Colloqui con Mussolini (ora ristampati da Castelvecchi), e che gli aveva chiesto se gli piacessero ancora i libri scritti in gioventù, rispose con una battuta lapidaria: «La storia del cardinale è un orribile libraccio... l'ho scritta con intenzioni politiche, per un giornale. Allora il clero era veramente inquinato da elementi corrotti. È un libro di propaganda politica». Era una risposta che celava un certo infastidito imbarazzo perché Mussolini aveva allora, subito dopo la firma dei Patti Lateranensi, raggiunto il culmine del consenso come pacificatore dei rapporti fra Stato e Chiesa e il ricordo di quel lavoretto giovanile dovette dargli fastidio. Qualche tempo dopo gli incontri con Ludwig, conversando con il suo biografo ufficioso, Yvon De Begnac, il Duce era stato più sincero: «Su Claudia Particella si è fatto molto romanzo. La realtà è semplice. Battisti voleva aiutarmi. Claudia era il mio solo provento nella stagione successiva alla mia cacciata da Trento. Ero io a farne dunque le puntate, a moltiplicarne i capitoli. Il lavoro mi appassionava come narratore di una storia popolare. Tutto qui». E aveva aggiunto che Cesare Battisti era «un uomo semplice» che «non aveva nemici» ed era «la dolcezza in persona». Parole, queste, che testimoniano di un rapporto particolare - fatto oltre che di consonanze politiche di affettuosa e sincera amicizia - fra Battisti e Mussolini. I due si erano conosciuti di persona solo nel 1909 ma da tempo erano in corrispondenza. La verità sulla nascita del romanzo L'amante del cardinale sta proprio qui, nella profonda amicizia fra l'irredentista trentino e l'agitatore socialista. Dopo la sua espulsione dal Trentino, Mussolini si era trovato in difficoltà economiche, tanto più che si era appena accasato con Rachele, e Battisti gli era venuto in aiuto, aprendogli le pagine del suo giornale Il Popolo per la pubblicazione di un romanzo a puntate. A Forlì Mussolini cominciò la stesura del romanzo e ne inviò la prima parte a Battisti che ne fu entusiasta e cominciò a pubblicarla a partire dal 20 gennaio 1910. Il successo fu talmente clamoroso che, due giorni dopo, il giornale si trovò costretto a dedicare al testo mussoliniano un'intera pagina e a ristampare le prime due puntate. Il romanzo apparve in cinquantasette puntate consecutive fino all'11 maggio 1910 e per ognuna delle quali Mussolini ricevette un compenso di quindici lire. Non era poco se si tiene conto del fatto che, a detta sua e di Rachele, ogni puntata lo impegnava per poco più di un quarto d'ora. Il termometro del successo lo si trova nelle lettere che Battisti inviava all'amico per sollecitargli l'invio di nuove puntate: «L'appendice è letta con molta avidità. I compensi finanziari sono scarsi, ma rischi di avere un monumento in piazza Duomo. Ti par poco?». L'amante del cardinale - o meglio Claudia Particella. L'amante del cardinale - aveva come sottotitolo «Grande romanzo storico dell'epoca del Cardinale Carlo Emanuele Madruzzo» e prendeva spunto da una torbida vicenda di amore e di sangue del XVII secolo ambientata nel principato vescovile di Trento. Nella pubblicità editoriale per il lancio si annunciava che il romanzo avrebbe trasportato il lettore «in mezzo alla corruzione dilagante nella corte principesca» e avrebbe documentato «una serie di intrighi, di tradimenti, di passioni agitantisi attorno alla lussuriosa e volpina figura del cardinale Madruzzo». La storia riprendeva un episodio realmente accaduto sul quale erano stati scritti numerosi lavori soprattutto nell'800: la travolgente e scandalosa passione nutrita dal principe vescovo di Trento Carlo Emanuele Madruzzo per una bella nobildonna, Claudia Particella, figlia di un suo consigliere. Una vicenda che, nella realtà storica, vide il cardinale scontrarsi con il pontefice Alessandro VII che si rifiutava di concedere una dispensa papale per consentire il matrimonio. Scritto secondo le tecniche narrative del feuilleton di origine francese, con un susseguirsi di colpi di scena per garantire un continuo stato di tensione e con un linguaggio agile e pulito e fondato prevalentemente sul dialogo, il romanzo del non ancora trentenne Mussolini rispondeva pienamente ai canoni della letteratura popolare dell'epoca. Una volta giunto al potere, Mussolini non pensò più, se non con qualche imbarazzo, al quel suo lavoretto iniziale, cercando di relegarlo a un peccato di gioventù: lo considerava, soprattutto per la sua carica anticlericale, poco compatibile con il suo nuovo ruolo di Duce. Durante il periodo fascista non fu mai pubblicato in Italia anche se, invero, ne furono fatte traduzioni in più lingue: inglese, polacco, spagnolo, tedesco, bulgaro. Forse, sotto sotto, Mussolini a quel suo peccato di gioventù, malgrado quel che ne dicesse, era affezionato. Tant'è che, quando un produttore americano, in pieno regime, gli propose di cavarne un film che in realtà non venne realizzato, egli non seppe dire di no, ma pose come condizione che i proventi andassero ai figli di Cesare Battisti.

IL BENITO DRAMMATURGO.

Quando Benito sfinito dalla politica decise di fare il drammaturgo. Una serie di articoli inediti del giornalista Giorgio Pini racconta dettagli poco noti della vita del Duce: dal rapporto con Arturo Toscanini alla passione per le auto da corsa passando per gli atti di generosità improvvisi, scrive Roberto Festorazzi, Sabato 07/01/2017, su "Il Giornale". Nel 1959, il giornalista fascista Giorgio Pini scrisse, per il settimanale Candido, fondato da Giovannino Guareschi, una serie di articoli su Mussolini aneddotico e uomo di cultura. Concordato il compenso, di 250mila lire, Pini inviò i suoi servizi alla testata, allora rizzoliana: ma i pezzi non furono mai pubblicati. Per quale ragione? Lo spiegò lo stesso Pini, in una lettera ad Alessandro Minardi, che nel 1957 era subentrato a Guareschi, alla direzione del giornale. Il problema era che Candido aveva una linea politica, ostile all'Eni di Enrico Mattei, che Pini non condivideva, e ciò gli impediva, per una ragione di coerenza ideale, di firmare gli articoli con il proprio nome. Ergo, i servizi rimasero nei cassetti redazionali e solo oggi abbiamo potuto prenderne visione, grazie alla cortesia del figlio di Minardi, Maurizio, che li ha conservati. Giorgio Pini aveva conosciuto come pochi altri Mussolini, osservandolo per anni da distanza ravvicinata e raccogliendone le confidenze. Nato a Bologna il primo febbraio 1899, squadrista, diresse il foglio del Fascio della sua città, L'Assalto, ed è noto per essere stato tra i primi biografi di Benito. La sua carriera giornalistica, passata per la direzione di testate regionali, ebbe un balzo, alla fine del 1936, quando il Duce lo nominò caporedattore del Popolo d'Italia, incarico che Pini mantenne fino al 25 luglio 1943. Mussolini si fidava totalmente di lui, e gli telefonava, spesso da Palazzo Venezia, per trasmettergli valutazioni e direttive riguardanti il giornale di sua proprietà. Il fido Pini rinvigorì e svecchiò il Popolo d'Italia, innalzandone la tiratura media, già nel 1938, oltre le 200mila copie. Nei suoi scritti inediti per Candido, il giornalista bolognese narra il volto nascosto del dittatore, svelando episodi e aspetti dell'uomo rimasti fino a oggi in ombra: dalle sue corse sfrenate in automobile, alle predilezioni per il teatro e la musica, specie quella operistica, con la minuziosa ricostruzione della sua formazione intellettuale, che, da un punto di vista letterario, attingeva al repertorio della poetica carducciana, pascoliana e dannunziana, in voga agli albori del secolo passato. Pini racconta che, nel 1919, dopo la clamorosa sconfitta delle liste fasciste alle elezioni, Benito, oltre a meditare il ritiro dalla vita politica, pensò di sfogare la delusione gettandosi a capofitto nella drammaturgia, sua passione poco nota, che lo condusse a scrivere testi teatrali. Parte di queste opere è rimasta incompiuta, o è andata persa. Ma, durante il regime, Mussolini, in collaborazione con il commediografo e regista Giovacchino Forzano, firmò due drammi, Campo di maggio, e Villafranca, rappresentati in Italia e poi nella Germania hitleriana, nella traduzione tedesca. Lo sapevate, ad esempio, che il Duce coniò vari neologismi, che sono entrati, d'imperio (è il caso di dire), nel lessico comune? Dalla sua mente, infatti, sortirono nuovi vocaboli, come cruciale, inequivocabile, controproducente, autista, velleitario. Ma è l'intera sua vicenda biografica a uscire, non soltanto rivisitata, ma arricchita, dalla preziosa testimonianza diretta di Giorgio Pini. Come è per l'episodio dell'intervento salvifico svolto da Mussolini, allora socialista, a Trento, nel 1909, per sventare le trame di una strage contro gli austriaci. Al tempo, nel Trentino non ancora unito all'Italia, Benito reggeva la locale Camera del Lavoro stringendo rapporti di amicizia e di collaborazione con il leader degli irredentisti di matrice socialista, Cesare Battisti. Rivela Pini che «un gruppo di giovani estremisti capeggiato dal falegname Cesare Berti e composto dal fotografo Pichi, dal muratore Grüber, da Italo Conci, da Gino Buffa, da un cesellatore e da uno studente, tutti irredentisti, deciso a far saltare la sede della polizia austriaca, aveva preparato una grossa bomba con venticinque chili di dinamite. I congiurati avevano potuto procurarsi l'esplosivo e le capsule detonanti, sottraendoli con l'aiuto di complici da un cantiere dell'impresa che costruiva in Val di Non l'acquedotto di Mezzacorona». Ecco cosa accadde: «Quando l'azione fu imminente, nessuno dei capi socialisti trentini, avvertiti di ciò che stava per succedere, riuscì a convincere quei giovani a recedere dal loro proposito, che avrebbe potuto avere gravi conseguenze. Invano si adoperarono verso di loro l'avvocato Piscel, il deputato Avancini e anche lo stesso Cesare Battisti. Benché avvertito all'ultimo momento, fu solo Mussolini, che, intervenuto energicamente e con ragioni rese più efficaci dal conquistato prestigio personale, impose agli ostinati di rinunciare al gesto, e fu da loro ubbidito». Non meno interessanti alcuni retroscena, estratti dalla memoria diretta degli eventi serbata dall'autore di questo excursus biografico. Da poco divenuto capo del governo, il 22 dicembre 1922, su interessamento del filosofo Giovanni Gentile, Mussolini ricevette, a Palazzo Chigi, in udienza, il sacerdote, organista e compositore di musica sacra Lorenzo Perosi, «in quel tempo ossessionato dall'idea che la Chiesa dovesse essere riformata in senso protestante e nazionale». Il colloquio, racconta Pini, imbarazzò, e non poco, il dittatore in erba: «Perosi si presentò accompagnato da alcuni amici preoccupati di controllarlo, e insistentemente sollecitò il Duce a farsi promotore di una chiesa di Stato, reiterando la sollecitazione anche dopo la risposta che la cosa non era possibile. Invano Mussolini tentò di distrarlo facendogli l'elogio delle sue composizioni musicali e incitandolo a dedicarsi a nuove creazioni. Tutto fu inutile. Il Maestro protestò e finì col chiedere il passaporto per potersi recare a Londra, dove voleva studiare a fondo la chiesa anglicana. Concluse che non sarebbe tornato dall'estero fin quando in Italia non fosse stata applicata la riforma da lui sostenuta. Nel congedarlo, francamente Mussolini gli disse: No, Maestro. L'Italia sarà riformata politicamente, ma non religiosamente». Perosi, che aveva già sofferto nella sua vita di disturbi nervosi, a quel tempo stava attraversando una violenta crisi spirituale aggravatasi in seguito alla morte della madre. Ciò determinò l'emissione nei suoi confronti, da parte del Tribunale di Roma, di un decreto di interdizione che venne revocato nel 1930. Il sacerdote, peraltro, soltanto nel 1936 ricevette da Pio XI il permesso di poter celebrare nuovamente la messa. Nel frattempo, era stato nominato accademico d'Italia, a riconoscimento del suo grande talento artistico. Un altro episodio, che Giorgio Pini contribuisce a ricollocare nei suoi esatti contorni, riguarda l'antifascismo di Arturo Toscanini, che la vulgata dipinge ancora oggi come l'eterno nemico del Duce. In realtà, se è noto che il grande direttore d'orchestra si fosse candidato, nelle liste fasciste, con Benito e Filippo Tommaso Marinetti, alle elezioni politiche del 1919, non altrettanto risapute sono le ottime relazioni che questi mantenne con il regime e con il suo capo, almeno per un decennio. Ossia, fino a quando un evento spiacevole lo schiaffeggiamento di Toscanini, avvenuto al Teatro Comunale di Bologna, il 14 maggio 1931, e causato dal suo rifiuto ad eseguire Giovinezza e la Marcia Reale ruppe l'idillio. Pini così ricostruisce la vera storia del lungo e felice connubio tra Mussolini e il musicista: «Nel marzo del '23, essendo il Duce in visita alla Scala, durante una prova generale diretta da Toscanini, il Maestro lo accolse sul palcoscenico e gli presentò la cantante Toti Dal Monte. Nel novembre dello stesso anno si rivolse al Duce per ottenere dalla stampa una soddisfazione contro l'accusa mossagli da un critico musicale di ostacolare l'affermazione di artisti e direttori giovani. Nel maggio del '24 chiese e ottenne che Mussolini assistesse alla Scala alla prima rappresentazione del Nerone di Boito, da lui diretta. Nel maggio del '29 gradì molto un telegramma con il quale Mussolini si congratulava del grande successo ottenuto dall'orchestra della Scala in un giro di concerti all'estero. Ed è capitato a noi di rinvenire fra un cumulo di carte e libri nelle disastrate stanze della Rocca delle Caminate, uno spartito musicale recante in testa al primo pentagramma una calda dedica di Toscanini al Capo del governo». Alcuni ulteriori aneddoti, che Pini offre, contribuiscono a delineare altri tratti tra i meno conosciuti del carattere del Duce. Uno dei questi riguarda la sua proverbiale memoria: «Nei primi anni del regime, un giorno gli fu riferito che il giurista Vittorio Scialoja, suo collaboratore in campo diplomatico, parlando con alcuni colleghi senatori e lasciandosi andare a una delle sue frequenti battute ironiche, aveva detto che non sempre il Duce stava con la testa a posto. Ciò non impedì affatto che Mussolini continuasse a utilizzare l'opera del grande giurista sia all'interno sia all'estero, e che Scialoja si dimostrasse sempre fermo sostenitore del regime in Senato, sebbene Mussolini, la prima volta che Scialoja era capitato in udienza da lui, non avesse rinunciato ad accoglierlo con questa frase sarcastica di sottintesa replica: Spero, senatore, che oggi mi troverete con la testa a posto!». Un altro carattere distintivo dell'uomo era rappresentato dai suoi slanci di spontanea generosità verso i più derelitti, avendo egli stesso sperimentato la povertà e la fame. Rievoca Pini «Nel novembre del '21 notò davanti al portone di casa a Milano un giovane male in arnese e dalla barba incolta, che più volte si fece trovare appoggiato a un albero, lo sguardo fisso su di lui, come in attesa. Senza dir parola, accennava solo a un timido saluto. Un giorno decise di chiedergli se avesse bisogno di qualcosa, e quello, incoraggiato, gli confessò di essere un ex ufficiale disoccupato, con famiglia alla fame. Mussolini gli disse di attenderlo, salì in casa, si fece dare da Rachele pane, biancheria usata e indumenti smessi; portò il tutto all'uomo che attendeva, e gli diede appuntamento al giornale. Là, con alcune telefonate, riuscì a procurargli lavoro come taxista. Mesi dopo, essendo andato in redazione in taxi, si vide rifiutare l'importo della corsa dall'autista, il quale gli disse: Non mi riconoscete più? Nello scorso inverno mi avete salvato la vita e avete salvato la mia famiglia procurandomi voi stesso questo lavoro. Permettetemi almeno di portarvi una volta gratuitamente perché non potrò mai disobbligarmi in altro modo». Un sorprendente aspetto di Mussolini riguarda infine la sua ingenuità, ossia la tendenza a cadere nei raggiri di chi patrocinava, presso di lui, i propri interessi. Accadde, ad esempio, che, nel 1938, il pittore Vico Viganò riuscì a strappargli il via libera all'edificazione, accanto al Duomo di Milano, di un campanile neogotico alto 164 metri. Un mostro di 2.500 metri cubi di marmo, per una spesa preventivata di 120 milioni di lire dell'epoca. Ma ecco il racconto di Pini: «Il progetto Viganò era costoso oltreché anacronistico, ma l'autore, scavalcando gli organi competenti, era riuscito a farsi ricevere dal Duce e a perorare presso di lui la sua causa con tal calore da indurlo ad annunciare una favorevole decisione, che sbalordì le autorità milanesi interessate. Fra l'altro, l'erezione del campanile implicava l'impiego di marmo di Candoglia in una quantità materialmente indisponibile». Come finì la vicenda? «Ben presto un memoriale fatto pervenire a Mussolini a mezzo del ministro Bottai, lo convinse di aver agito troppo precipitosamente, e lo indusse a revocare l'annunciata decisione. Egli non esitò a spiegare a un collaboratore che per buona fede si era lasciato ingannare dal progettista, il quale si era ben guardato dall'avvertirlo che l'innalzamento del campanile avrebbe implicato una radicale modifica» del piano regolatore. Giorgio Pini, durante la Repubblica sociale italiana, dall'ottobre del 1944, fu sottosegretario al ministero degli Interni. Nel primo dopoguerra, fu tra i fondatori del Movimento sociale italiano, dal quale tuttavia si distaccò molto presto, in polemica con la tendenza di destra di quella forza politica. Egli rimase infatti, fino all'ultimo, ciò che era sempre stato: un mussoliniano di sinistra. Si spense, nella sua Bologna, il 30 marzo 1987. 

MUSSOLINI GIORNALISTA. ODIERNO COMUNISTA.

Mussolini giornalista. Ecco gli articoli con cui scrisse la storia

Esordì sulla Voce, fece decollare l'Avanti!, fondò nel 1914 Il popolo d'Italia. Fu direttore capace e firma di peso, scrive Francesco Perfetti, Domenica 31/07/2016, su "Il Giornale". Che Benito Mussolini fosse un grande giornalista lo riconobbe, fra i primi, un intellettuale di vaglia come Giuseppe Prezzolini. Questi, già all'indomani della presa di potere da parte del fascismo, osservò che Il Popolo d'Italia veniva letto proprio «in quanto c'era Mussolini» e in quanto «era il giornale di una personalità»: non un foglio di notizie, ma un giornale «che si faceva leggere per le idee, per il tono, per i commenti». E in altra occasione giunse a paragonare Mussolini a un «mostro» riconosciuto del giornalismo contemporaneo, Mario Missiroli, per la capacità di saper fondare o dirigere giornali con una ben precisa fisionomia. Prezzolini che aveva in un certo senso «scoperto» Mussolini e ne aveva pubblicato su La Voce quegli scritti che avrebbero poi costituito il nucleo di un volumetto del futuro capo del fascismo dal titolo Il Trentino veduto da un socialista aveva visto giusto sottolineandone le doti di giornalista ma anche di direttore. Mussolini, infatti, il giornalismo ce l'aveva nel sangue. Aveva cominciato, giovanissimo, a scrivere su molte testate, più o meno diffuse, del socialismo e del sovversivismo dei primi anni del secolo ventesimo, da L'Avvenire del Lavoratore a l'Avanguardia socialista, da La Lima a Il Proletariato fino a Pagine Libere, la celebre rivista del sindacalismo rivoluzionario dove pubblicò un famoso articolo intitolato «La filosofia della forza» di sapore nietzschiano. Aveva collaborato con Cesare Battisti e aveva svolto le funzioni di redattore capo nel suo giornale Il Popolo per il quale si era cimentato a scrivere anche dei romanzi d'appendice a puntate fra i quali la scandalosa storia L'amante di un cardinale. Claudia Particella dedicato all'amore passionale di un vescovo-principe per una cortigiana. Era passato, quindi, ormai impegnato ufficialmente in politica, a dirigere il settimanale ufficiale della Federazione socialista di Forlì, L'Idea Socialista, che volle ribattezzare Lotta di Classe. Quando, all'indomani del Congresso socialista di Reggio Emilia del 1912, venne designato alla guida dell'Avanti!, insomma, Mussolini era un nome ben conosciuto nel mondo della carta stampata. I suoi articoli, brevi e incisivi, scritti con uno stile essenziale e disadorno, rivelavano la sua convinzione che il giornalismo dovesse essere non tanto cronachistico ma militante, un mezzo per incidere sulla realtà politica. La sua scelta era stato frutto della vittoria, all'interno del Partito socialista, della corrente massimalista e della intenzione di un suo rilancio rivoluzionario. Fu una scelta vincente perché il quotidiano socialista, nel periodo in cui Mussolini ne fu direttore fino allo scoppio della guerra mondiale, registrò un incremento di vendite, passando dalle 30-40mila copie del 1913 alle 60-75mila dei primi mesi del 1914. Naturalmente, egli, pur seguendo la linea ufficiale della direzione del partito, aveva una personalità troppo indipendente per esserne un esecutore pedissequo. Del resto, la sua formazione intellettuale e la sua vicinanza con gli ambienti del sindacalismo rivoluzionario italiano e francese lo rendevano, per un verso, inquieto e, per altro verso, aperto alle discussioni teoriche. Così, quando scoppiò la guerra mondiale, egli prese posizione con un breve ed efficace articolo, «Abbasso la guerra!» (26 luglio 1914), ma, al tempo stesso, aprì le pagine del quotidiano a un dibattito che coinvolse personalità non del tutto convinte di quella scelta. La «conversione» di Mussolini all'interventismo non fu un voltafaccia: fu, piuttosto, una maturazione dovuta allo stretto rapporto con i sindacalisti rivoluzionari favorevoli all'intervento e all'idea di una «guerra rivoluzionaria». Il lungo articolo intitolato «Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante» (18 ottobre 1914) segnò la svolta, ma le premesse si trovavano già nelle pagine della rivista Utopia, che Mussolini fondò e diresse in quello stesso periodo per accogliervi a dimostrazione, anche, del fatto che la sua visione del giornalismo andava oltre la cronaca e la politica riflessioni teoriche di quegli intellettuali che non gli era possibile accogliere sulle pagine del quotidiano. Il passaggio dalla neutralità all'interventismo, l'espulsione dal Partito socialista e l'abbandono della direzione dell'Avanti! spinsero Mussolini a fondare un nuovo quotidiano, Il Popolo d'Italia, il cui primo numero uscì il 15 novembre 1914 con un articolo di fondo dal titolo «Audacia!» che concludeva invocando «una parola paurosa e fascinatrice: guerra». Il nuovo giornale, con una tiratura iniziale di 30mila copie che avrebbero raggiunto presto quota 80mila, divenne, in un certo senso, l'organo ufficioso dell'interventismo rivoluzionario. Mussolini, con i suoi più stretti collaboratori, ne seguiva personalmente la fattura: la sede del giornale divenne una sua seconda casa. Ne lasciò la direzione, lasciandola al fratello Arnaldo, il 1° novembre 1922 dopo la marcia su Roma e la costituzione del suo primo governo. In seguito avrebbe confessato che quel giornale lui lo amava «sino alla follia» anche perché gli aveva impresso, «attraverso migliaia di articoli, di titoli, di trafiletti, di disegni» da lui stesso ispirati, «un carattere polemico, aggressivo, di continua battaglia» che esprimeva «uno dei dati fondamentali» del suo «temperamento». Ma l'avventura giornalistica, sia come scrittore sia come direttore, di Mussolini non finì in quel momento. Non solo perché egli continuò a seguire le sorti della sua creatura Il Popolo d'Italia fu pubblicato fino al 25 luglio 1943 ma anche perché continuò a dirigere la rivista mensile Gerarchia, fondata nel gennaio di quello stesso 1922, come periodico ufficiale di «pensiero fascista». La prosa del Mussolini giornalista era, per sua ammissione, una «prosa personalissima» che egli non era mai riuscito a «mascherare, né con pseudonimi né con altri espedienti». Una prosa che utilizzava frasi brevi ed efficaci, che procedeva per slogan, essenziale ma precisa, diretta e priva di sbavature. Leggendo gli articoli di Mussolini si comprende subito perché i famosi diari, che più volte furono proposti, non potevano essere autentici: al di là di incongruenze storiche e di dati sbagliati, contenevano errori di grammatica e di sintassi che un giornalista, così attento e innamorato della sua professione non avrebbe mai potuto fare.

La Grande guerra e la rivoluzione proletaria. I sindacalisti rivoluzionari dal neutralismo all’interventismo, scrive Fabio Polese, Giovedì 10/09/2015, su "Il Giornale". Un saggio di Stefano Fabei ricostruisce, a distanza di un secolo, il confronto culturale e dottrinale dei sindacalisti soreliani in occasione dello scontro tra interventisti e neutralisti e rappresenta la clamorosa fine di due miti – quello pacifista e quello internazionalista – che sembravano intramontabili nel sindacalismo rivoluzionario italiano. Da quest’ultimo, che fu l’anima dell’interventismo rivoluzionario, ebbero inizio le turbolenze di un dopoguerra, fatto di sovversivismo e richiami all’ordine, da cui partirono sia il fascismo sia l’antifascismo. Ne La Grande guerra e la rivoluzione proletaria (in Edibus, 18.00 €) Fabei rappresenta l’alta tensione ideologica di allora e offre un quadro finalmente completo delle sfumature di pensiero e dei vari comportamenti di quei sindacalisti (da Filippo Corridoni ai fratelli De Ambris, da Angelo Oliviero Olivetti a Sergio Panunzio, da Paolo Orano a Edmondo Rossoni e Michele Bianchi, tanto per citare i più noti) che non solo dettero scandalo aderendo alle ragioni della nazione mostrandosi consapevoli di come si potesse essere al contempo nazionalisti e rivoluzionari, ma videro nella la guerra qualcosa di pedagogico, di esaltante e di fortemente sovversivo: imparando a fare la guerra, i lavoratori italiani, delle industrie e delle campagne, avrebbero imparato a fare la rivoluzione. Per un eccesso di entusiasmo e forse per la troppa ingenuità, gli «anarco-sindacalisti» non compresero – ma come avrebbero potuto farlo? – che la loro visione di un autogoverno delle categorie, di una società organizzata in termini sindacali, con una limitata entità politica suprema e molta responsabilità di categoria sarebbe stata cancellata dopo la guerra, quando lo Stato dimostrò come il peso accumulato durante il conflitto, inserendosi profondamente nel tessuto economico, non sarebbe stato abbandonato, anzi. Il Fascismo, nel quale molti sindacalisti rivoluzionari interventisti confluirono, spesso con un significativo apporto sul piano organizzativo e dottrinario, non avrebbe infatti trovato ostacoli nell’affermare, in contrasto con le loro premesse iniziali, un ruolo dello Stato che andava ben oltre il peso del Partito fascista e dei sindacati, trasformati in organismi di diritto pubblico. Fabei giustamente rappresenta il contesto in cui operarono quei sindacalisti che non potevano prevedere gli sbocchi del loro pensiero e delle battaglie da essi combattute prima e durante la guerra. Il secondo semestre del 1914 e i primi mesi del 1915 furono, d’altra parte, un periodo in cui il movimento rivoluzionario in Italia visse uno stato di crisi, dottrinaria, morale e politica, dopo una precedente fase di consolidamento dimostrato, tra il 1912 e il 1914, dall’accresciuto numero di militanti e di consensi attorno alle tesi dei leader più intransigenti della sinistra, come Mussolini, pure lui protagonista di una parallela, e per certi aspetti simile, evoluzione. Scoppiato il conflitto, messi in discussione importanti cardini ideologici, come il pacifismo e l’internazionalismo, peraltro falliti per le scelte compiute dai compagni francesi, austriaci e tedeschi, i nostri sindacalisti soreliani si convinsero che la guerra potesse offrire non soltanto una lezione di pedagogia eroica e rivoluzionaria al proletariato italiano, ma creare, attraverso la sconfitta degli imperi germanico e austro-ungarico, baluardi della reazione e della conservazione, i presupposti per fondare una società più libera e giusta, con al centro il lavoro. Dotato di un’introduzione di Giuseppe Parlato, quello di Fabei è un libro avvincente per la leggibilità e al tempo stesso specialistico; un saggio interessante, data l'originalità dei contenuti, per chi vuole conoscere la storia nazionale dalla vigilia della Prima guerra mondiale alle origini del fascismo.

I fucili della borghesia e i sassi dei lavoratori. Ecco il pezzo apparso sull'Avanti! di Benito Mussolini del 14 giugno 1913 (pubblicato da "Il Giornale l' 01/08/2016). "Con le feroci condanne pronunciate ieri contro gli implicati nello sciopero metallurgico di Milano, il Tribunale di Milano - e per esso il Presidente Allara - si è creato un vero, innegabile, immortale titolo di benemerenza presso tutta la classe capitalistica italiana. Fu un verdetto di classe che appunto perché tale merita l'attenzione di tutti i socialisti, di tutti i lavoratori coscienti e dignitosi. Sarebbe triste e vergognoso che lo sdegno e la protesta che il verdetto ha provocato si dovesse limitare alla sola Milano, e non trovasse eco in tutta Italia. Noi non ci meravigliamo della ferocia con cui la borghesia colpisce i suoi nemici, i suoi futuri espropriatori. Se ce ne meravigliassimo dimostreremmo di essere affatto ignari di ciò che la lotta di classe è, di ciò che deve essere, di ciò che non può non essere. Nella società capitalistica il «diritto» è sinonimo di forza, di prepotenza, di violenza. Il Tribunale - specialmente quando si tratta di un processo che porta una impronta di classe così palese come quella del processo di ieri - non è altro che l'esecutore fedele della volontà della classe che è al potere. I protagonisti e i vincitori della indegna commedia giudiziaria di ieri sono: il Consorzio metallurgico e l'intera classe capitalistica. I giudici e il Presidente del Tribunale hanno voluto e potuto essere feroci, emettere una sentenza inaudita, sorpassare la stessa misura suggerita dal Pubblico Ministero, hanno potuto insomma permettersi il lusso di sfidare l'opinione pubblica, perché sapevano di essere gli esponenti di una classe che si sente ancor forte e difende il prestigio della propria forza basata sulla prepotenza e sul privilegio. È l'inaugurazione di un metodo: il capitalismo italiano, pur essendo giovane e poco agguerrito, ha la fortuna di poter scimmiottare i metodi che in altri paesi il capitalismo ha acquistato attraverso decenni di esperienza, di lotta tenace con una classe lavoratrice organizzata, disciplinata, consapevole dei mezzi e dei fini della propria battaglia. Il capitalismo italiano si organizza, si solidarizza e fa valere la propria forza. I «padroni» dell'industria metallurgica fanno scuola: è un'industria moderna, ricca, fornita dei più perfezionati e raffinati mezzi di produzione. Richiede e forma una mano d'opera scelta, e questa appunto perché tale è più ribelle, più consapevole dei propri diritti, più dignitosa, più organizzabile. Il più numeroso sindacato d'Europa è appunto quello dei metallurgici tedeschi. In Italia, purtroppo, il trust capitalistico precede e supera per forza e compattezza i salariati della metallurgica. Ecco perché i consorziati a Torino protestano perché le autorità non si mettono palesemente, sfacciatamente a servizio dei capitalisti. A Milano fanno arrestare, ammanettare, condannare per direttissima, applicando delle pene capitali a chi dello sciopero è stato esponente partecipante o semplice spettatore. Il procedimento è così spudoratamente forcaiolo che ha suscitato le ire anche di chi di solito è indifferente anzi ostile alla classe lavoratrice. Vedremo la stampa di molti colori protestare contro «l'esagerata severità» della sentenza, sappiamo che gruppi d'individui e di Partiti hanno iniziato un'agitazione per ottenere l'allontanamento da Milano dell'Allara e che venga affrettato l'appello. Auguriamo pieno successo alla iniziativa, per vedere liberati al più presto dal carcere coloro che la giustizia borghese ha voluto colpire come tanti capri espiatori. Ma diciamo subito e lo diciamo forte che se anche l'agitazione dovesse avere esito felice, non riterremmo questo né una soluzione e nemmeno un'attenuante della situazione generale che si palesa gravissima e sulla quale attiriamo l'attenzione dei nostri e dei lavoratori italiani in genere. Quello di ieri è stato un episodio feroce, sanguinoso, i proletari non lo possono lasciar passare senza trarne l'insegnamento che ne scaturisce con tanta evidenza. Farebbero male i lavoratori se vedessero nella sentenza di ieri una semplice lesione del diritto umano. È molto di più e assai peggio. E il riconoscimento legale delle più ignobili disuguaglianze di classe. È la sanzione pubblica, palese delle più ignobili disuguaglianze di classe. Poco importa se i condannati abbiano o non abbiano gettato dei sassi, siano o non siano ricorsi a dei mezzi che si chiamano violenti. Il sintomatico è che noi si viva in una società in cui fra due classi in contesa all'una si concede la possibilità di difendere il proprio privilegio con innumeri fucili e altri mezzi di violenza e d'intimidazione, e si creano delle situazioni che assorbono la maggior parte degli introiti e delle energie del popolo, per difendere questi privilegi; mentre quell'altra classe che non possiede altro che la vita viene accusata e condannata se si permette di lanciare qualche volta un sasso - istintivamente - per difendersi dalla violenza dei difensori armati della borghesia. Nella contesa fra capitale e lavoro non esiste mai parità di condizioni. Parlare del diritto umano uguale per tutti vuol dire fare delle affermazioni prive di contenuto e di sincerità. È demagogia della peggiore specie. Se i sassi che si presume siano stati gettati dagli scioperanti nella esasperazione della lotta fossero stati gettati da figli di papà, da dimostranti nazionalisti? Sarebbero pur essi stati condannati per direttissima? I lavoratori devono sentire profonda, irrefrenabile indignazione e ribellione contro la sentenza perché essa dimostra che nella società capitalistica, la proprietà privata sta al disopra di tutto, essa è inviolabile, alla sua inviolabilità vengono immolate innumerevoli vite umane, e tutto è lecito in sua difesa. Deve scaturire per il proletariato dalla mostruosa sentenza di classe la persuasione che nella società capitalistica esso «non possiede altro che le catene». Tentare d'infrangere queste catene vuol dire scatenare tutte le ire, tutte le più basse vendette della classe privilegiata. Quante volte non hanno detto i socialisti nei loro scritti, nelle loro conferenze: nella società capitalistica l'operaio possiede una libertà sola: quella di... morire. Tutto il resto gli è conteso. Deve vegetare sottomettendosi allo sfruttamento e alla oppressione delle classi dominanti. Appena manifesta il minimo malcontento, il timido desiderio di essere una volta tanto almeno per un attimo qualche cosa di più di una bestia da soma, qualcosa di più e di diverso d'una semplice merce, ecco che si armano e procedono contro di lui tutti i poteri costituiti, tutti i ben pensanti della società attuale, per ricordargli la triste e umiliante realtà. E di questa triste e umiliante realtà il verdetto di oggi non è che un episodio. Ecco perché non basta insorgere contro l'episodio, ecco perché bisogna combattere senza tregua l'iniquo sistema che genera tali episodi. E in questa titanica lotta, contro la società capitalistica, contro tutti i suoi tenaci difensori più o meno togati, il proletariato non può avere che una guida, che un alleato, che una bussola, che un programma. Il proletariato deve assalire e combattere e vincere il nemico di tutte le sue libertà e di tutto il suo diritto in alleanza con i proletari socialisti di tutti i paesi. Deve aver per bussola il programma della lotta di classe, essenzialmente rivoluzionaria, perché tende a trasformare, a sovvertire le stesse basi della società. Nessuna alleanza coi Partiti e cogli individui che protestano o fingono di protestare contro una singola sentenza, contro singoli esponenti e applicatori della giustizia borghese, salvo a sostenere in tutto il resto la società capitalistica con tutte le sue fondamentali ingiustizie, ma lotta ad oltranza, con ogni mezzo, per rendere il proletariato consapevole delle offese che gli si recano, per renderlo sensibile ad ogni ingiustizia, solidale con gli oppressi. E la protesta contro l'infame sentenza di classe del Tribunale di Milano sarà tanto più tenace e virile in quanto i socialisti in essa vedono una delle manifestazioni di quel sistema borghese al quale non da oggi hanno dichiarato guerra ad oltranza, sarà tanto più virile in quanto i mezzi di lotta li attingono al ricco arsenale della internazionale socialista, in quanto sono ispirati e guidati dalla fede socialista, suscitatrice di innumerevoli energie combattive, e fonte inesauribile di idealismo rivoluzionario". 14 giugno 1913.

Vogliamo fare la storia e non subirla: al lavoro! Un milione di voti comincia ad essere un carico pesante per un Partito come il nostro, scrive Benito Mussolini (pubblicato da "Il Giornale il 02/08/2016). "Bando alle illusioni e parliamoci chiaro, ora che il momento è opportuno. Che il Partito Socialista abbia condotto una buona battaglia e che i suoi sforzi siano stati coronati dal più lusinghiero successo, nessuno contesta più. È un fatto. Sono cifre. Ma... son dolori se il Partito crede o s'illude di aver compiuta l'opera spazzando via dalla scena politica parecchi rappresentanti della reazione dernier cri, e i dolori aumenteranno se la elezione di 53 deputati sembrerà a taluno giustificazione sufficiente per ricadere nell'inerzia fatalistica che ha seguito sempre ogni agitazione elettorale. Diciamo la verità, noi, prima degli stessi avversari: un milione di voti comincia ad essere un carico alquanto pesante per un Partito come il nostro. Noi abbiamo vinto un po' per virtù nostra, ma moltissimo per la debolezza dei Partiti che ci stavano di fronte, e per un complesso di circostanze a noi propizie. Sulle quali si potrà - a tempo opportuno - ragionare. Noi non sappiamo se in un'altra «congiuntura» per dirla con un tedeschismo, riusciremo a strappare una così brillante vittoria. E poiché i Partiti si organizzeranno come noi, formando gruppi e federazioni; poiché la storia - checché si possa dire in contrario - non si ripete, ma presenta sempre nuove situazioni di fatto e nuovi problemi, è necessario non abbandonarci ai facili entusiasmi cui seguono immancabilmente le dolorose sorprese. È necessario agguerrirci. È necessario agguerrire il Partito che è l'organo delle nostre conquiste politiche. Questo diciamo ai deputati vecchi e nuovi, i quali hanno dispiegato un'attività veramente encomiabile durante il periodo elettorale; questo diciamo ai propagandisti - illustri o no - del Partito che hanno corso in lungo e in largo l'Italia portando la parola del socialismo dalle città ai borghi, alle campagne; questo diciamo ai quarantamila inscritti del Partito che leggono, o dovrebbero leggere, le nostre parole. Noi diciamo che paragonato a ciò che resta da fare, il già fatto è poco. Noi sappiamo una cosa sola: che la piattaforma elettorale del Partito Socialista ha trovato quello che si direbbe un ambiente «simpatico», ma niente ci autorizza a ritenere che questo ambiente sarà lo stesso domani o non sarà invece indifferente o refrattario. Noi non possiamo fare eccessivo calcolo sulla massa elettorale e per ragioni intuitive: la nostra milizia è il Partito. Ora, riflettano bene i socialisti italiani, il pericolo che si delinea è uno solo: quello, cioè, che il Partito resti schiacciato sotto il pondo inaspettato delle sue stesse vittorie elettorali. Il caso non è nuovo nella storia e nella vita. Si può cadere toccando una meta, si può morire nell'atto di dare la vita, si può essere dei vinti vincendo. Dinanzi a tali eventualità, noi, come si vede, non indugiamo molto a lanciare il nostro grido d'allarme. Prima del suffragio universale accadeva spesso di udire tra i socialisti italiani frasi di questo genere: Ah se noi avessimo un milione di voti!... Ecco: il milione di voti c'è; e, forse, abbondante. Questa enorme massa elettorale ci ha creduto, ha riposto fiducia in noi e... aspetta. Ma noi saremo incapaci di realizzare uno solo dei postulati del nostro programma elettorale, se il Partito non raddoppierà almeno i suoi contingenti; se i quarantamila inscritti non diventeranno ottanta o centomila; se questo giornale non circolerà sempre più diffusamente fra le moltitudini che l'esperimento del 26 ottobre ha lanciato nel girone della vita politica. Un Partito come il socialista, non può rassegnarsi ad avere un'influenza meramente elettorale. Prima di tutto perché le elezioni non sono che un episodio preliminare di una più vasta attività politica; in secondo luogo perché nella vita dei popoli moderni ci sono avvenimenti dai quali - pena il suicidio - il Partito non può essere dominato o travolto. Il milione di voti che noi volevamo toccare e abbiamo toccato, è cagione di legittimo orgoglio, ma è anche di gravissima preoccupazione e responsabilità. Noi non possiamo più retrocedere, e nemmeno sostare. Alle prossime elezioni politiche - diciamo prossime perché è convincimento generale che la nuova legislatura non avrà lunga vita - se noi non aumenteremo ancora il numero dei voti, gli avversari ritorneranno a cantarci più noioso e insistente l'elogio funebre. E se i nostri voti diminuissero che cosa diventerebbero - nel ricordo - i funerali simbolici che noi abbiamo fatto nei giorni scorsi agli altri? Questi interrogativi ci dicono tutta la portata e l'«urgenza» del compito che il Partito è chiamato ad assolvere. Avanzare! questa è la parola d'ordine. Gli uomini moderni vanno in fretta più che i morti della ballata di Burger e noi socialisti abbiamo più fretta degli altri. Noi vogliamo vedere trasformarsi sotto ai nostri occhi la realtà e coll'opera delle nostre mani. Noi vogliamo «fare» la storia e non subirla. Incidere sulle istituzioni e sugli uomini che ci circondano sempre più profondo il segno della nostra volontà. Al lavoro! Al lavoro! La strada è aspra e la meta è lontana". 4 novembre 1913

Abbasso la guerra! Né uomini né soldi. Per ripercorrere la storia del Mussolini giornalista, il Giornale fino al 31 agosto pubblicherà ogni giorno un articolo del futuro Duce. Oggi pubblichiamo un pezzo apparso sull’Avanti! il 26 luglio 1914, due giorni prima della Guerra scritto da Benito Mussolini. (Pubblicato da "Il Giornale" il 03/08/2016). Benito Mussolini, come ha scritto lo storico Francesco Perfetti, è stato - al di là del giudizio della Storia come uomo politico - uno dei grandi giornalisti del suo tempo (e il primo a usare la stampa come arma di propaganda). Per ripercorrere la storia del Mussolini giornalista, il Giornale fino al 31 agosto pubblicherà ogni giorno un articolo del futuro Duce. Oggi pubblichiamo un pezzo apparso sull’Avanti! il 26 luglio 1914, due giorni prima della Guerra. "L'ipotesi terribile che non volemmo formulare ieri perché un ultimo barlume di speranza ci sorreggeva, è divenuta, oggi, realtà di fatto. Il termine fissato dall'Austria è trascorso e la risposta della Serbia è stata trovata «insufficiente» dal Governo austriaco. La diplomazia non ha più nulla da dire o da fare: ora entrano in scena gli eserciti. È la guerra! Le responsabilità della catastrofe sono già fissate. Esse ricadono in massima parte sull'Austria-Ungheria. La Nota consegnata alla Serbia era un ultimatum. Ognuna delle «ingiunzioni» in essa contenute era - dice la consorella Arbeiter Zeitung - «una negazione dell'indipendenza della Serbia». Quella Nota, prosegue il foglio socialista viennese, non ha precedenti nella storia del nostro tempo. Il Partito militare austriaco voleva la guerra: ecco la realtà. Senza questo obiettivo, da raggiungersi nel più breve tempo possibile, le trattative diplomatiche si sarebbero svolte in modo diverso. La situazione, dal punto di vista dell'Italia, si presenta in questi termini: se il conflitto rimane isolato fra l'Austria e la Serbia la guerra non potrà durare lungamente. Se l'Italia non avesse una diplomazia la cui inettitudine è ormai riconosciuta da tutti (quel marchese Di San Giuliano è proprio un disastro nazionale!) compito dell'Italia sarebbe quello di adoprarsi a concludere rapidamente il conflitto guerresco e a tenersi intanto in atteggiamento di assoluta neutralità. Ma se la Russia scende in campo, allora la guerra austro-serba diventa guerra europea. L'Austria sarà appoggiata dalla Germania (le dichiarazioni degli «ufficiosi» tedeschi non lasciano alcun dubbio in proposito) e la Russia dalla Francia. L'atteggiamento dell'Inghilterra è incerto. Da quanto si sa essa non ha «impegni» formali né colla Russia né colla Francia. D'altra parte il linguaggio di molti giornali inglesi è tutt'altro che ispirato da simpatia verso la Serbia. E l'Italia? Nel caso deprecato di una conflagrazione europea, qual è il suo posto? Accanto all'Austria contro la Francia? Noi non sappiamo quali siano i «patti» segreti di quella Triplice che fu così precipitosamente rinnovata dai monarchici all'insaputa e contro la volontà dei popoli; sappiamo solo e sentiamo di poterlo dichiarare altamente, che il proletariato italiano straccerà i patti della Triplice se essi lo costringessero a versare un sola goccia di sangue per una causa che non è sua. Anche nel caso di una conflagrazione europea, l'Italia, se non vuole precipitare la sua estrema rovina, ha un solo atteggiamento da prendere: neutralità assoluta. O il Governo accetta questa necessità o il proletariato saprà imporgliela con tutti i mezzi. È giunta l'ora delle grandi responsabilità. Il proletariato d'Italia permetterà dunque che lo si conduca al macello un'altra volta? Noi non lo pensiamo nemmeno. Ma occorre muoversi, agire, non perdere tempo. Mobilitare le nostre forze. Sorga, dunque, dai circoli politici, dalle organizzazioni economiche, dai Comuni e dalle Provincie dove il nostro Partito ha i suoi rappresentanti, sorga dalle moltitudini profonde del proletariato un grido solo, e sia ripetuto per le piazze e strade d'Italia: «Abbasso la guerra!». È venuto il giorno per il proletariato italiano di tener fede alla vecchia parola d'ordine: «Non un uomo! Né un soldo!». A qualunque costo!" 26 luglio 1914

Audacia e guerra per fare la storia. "Siamo uomini e uomini vivi che vogliamo dare il nostro contributo, sia pure modesto, alla creazione della storia", scrive Benito Mussolini. (Pubblicato da "Il Giornale" il 04/08/2016). Benito Mussolini, come ha scritto su queste pagine lo storico Francesco Perfetti, è stato - al di là del giudizio della storia come uomo politico - uno dei più grandi giornalisti del suo tempo (e il primo a usare la stampa come arma di propaganda). Per ripercorrere la storia del Mussolini giornalista, il Giornale fino al 31 agosto pubblicherà ogni giorno un articolo del futuro Duce. Oggi leggiamo il primo fondo sul "Popolo d'Italia" datato 15 novembre 1914. "All'indomani della famosa riunione ecumenica di Bologna, nella quale - per dirla con una frase alquanto solenne - fui "bruciato", ma non "confutato", io posi a me stesso il quesito che oggi ho risolto creando questo giornale di idee e di battaglia. Io mi sono dimandato: debbo parlare o tacere? Conviene che mi ritiri sotto la tenda come un soldato stanco o deluso, o non è invece necessario che io riprenda - con all'altra arma - il mio posto di combattimento? Vivere o morire, sia pure inghirlandato di molti elogi... postumi, alcuni dei quali avevano la deliziosa insincerità delle epigrafi pei defunti? Sicuro come sono che il tempo mi darà ragione e frantumerà il dogma stolto della neutralità assoluta, come ha spezzato molti altri non meno venerabili dogmi di tutte le chiese e di tutti i partiti, superbo di questa certezza ch'è in me, io potevo aspettare con coscienza tranquilla. Certo, il tempo è galantuomo, ma qualche volta è necessario andargli incontro. In un'epoca di liquidazione generale come la presente, non solo i morti vanno in fretta come pretendeva il poeta, ma i vivi vanno ancor più in fretta dei morti. Attendere, può significare giungere in ritardo e trovarsi dinnanzi all'inesorabile fatto compiuto, che lamentazioni inutili non valgono a cancellare. Se si fosse trattato e si trattasse di una questione di secondaria importanza, non avrei sentito il bisogno, meglio, il "dovere", di creare un giornale: ma, ora, checché si dica dai neutralisti del socialismo conservatore, una questione formidabile sta per essere risolta: i destini del socialismo europeo sono in relazione strettissima coi possibili risultati di questa guerra; disinteressarsene significa staccarsi dalla storia e dalla vita, lavorare per la reazione e non per la Rivoluzione Sociale. Ah no! I socialisti rivoluzionari italiani - sian essi guidati dal raziocinio o sospinti da oscure, ma infallibili intuizioni sentimentali - sanno qual è il grido che conviene lanciare al proletariato italiano. La neutralità non può essere un dogma del socialismo. Esisterebbero dunque solo nel socialismo e per giunta, nel socialismo italiano, delle verità "assolute" che possono sfidare impunemente le ingiurie del tempo e le limitazioni dello spazio, come le verità indiscutibili e eterne della rivelazione divina? Ma la verità assoluta attorno alla quale non si può più discutere, che non si può più negare o rinnegare, è la verità morta; peggio, è la verità che uccide. Noi non siamo, noi non vogliamo esser mummie perennemente immobili con la faccia rivolta allo stesso orizzonte, o rinchiuderci tra le siepi anguste della beghinità sovversiva, dove si biascicano meccanicamente le formule corrispondenti alle preci delle religioni professate; ma siamo uomini e uomini vivi che vogliamo dare il nostro contributo, sia pure modesto, alla creazione della storia. Incoerenza? Apostasia? Diserzione? Mai più. Resta a vedersi da quale parte stiano gli incoerenti, gli apostati, i disertori. Lo dirà la storia domani, ma la previsione rientra nell'ambito delle nostre possibilità divinatorie. Se domani ci sarà un po' più di libertà in Europa, un ambiente, quindi, politicamente più adatto allo sviluppo del socialismo, alla formazione delle capacità di classe del proletariato, disertori ed apostati saranno stati tutti coloro che al momento in cui si trattava di agire, si sono neghittosamente tratti in disparte: se domani - invece - la reazione prussiana trionferà sull'Europa e - dopo alla distruzione del Belgio, - col progettato annientamento della Francia - abbasserà il livello della civiltà umana, disertori ed apostati saranno stati tutti coloro che nulla hanno tentato per impedire la catastrofe. Da questo ferreo dilemma non si esce, ricorrendo alle sottili elucubrazioni degli avvocati d'ufficio della neutralità assoluta o ripetendo un grido di "abbasso" che prima della guerra poteva avere un contenuto e un significato, ma oggi non lo ha più. Oggi - io lo grido forte - la propaganda antiguerresca è la propaganda della vigliaccheria. Ha fortuna perché vellica ed esaspera l'istinto della conservazione individuale. Ma per ciò stesso è una propaganda anti-rivoluzionaria. La facciano i preti temporalisti e i gesuiti che hanno un interesse materiale e spirituale alla conservazione dell'impero austriaco; la facciano i borghesi, contrabbandieri o meno, che - specie in Italia - dimostrano la loro pietosa insufficienza politica e morale; la facciano i monarchici che, specie se insigniti del laticlavio, non sanno rassegnarsi a stracciare il trattato della Triplice che garantiva - oltre alla pace (nel modo che abbiamo visto) - l'esistenza dei troni; codesta coalizione di pacifisti sa bene quello che vuole e noi ci spieghiamo ormai facilmente i motivi che inspirano il suo atteggiamento. Ma noi, socialisti, abbiamo rappresentato - salvo nelle epoche basse del riformismo mercatore e giolittiano - una delle forze "vive" della nuova Italia: vogliamo ora legare il nostro destino a queste forze "morte" in nome di una "pace" che non ci salva oggi dai disastri della guerra e non ci salverà domani da pericoli infinitamente maggiori e in ogni caso non ci salverà dalla vergogna e dallo scherno universale dei popoli che hanno vissuto questa grande tragedia della storia? Vogliamo trascinare la nostra miserabile esistenza alla giornata - beati nello statu quo monarchico e borghese - o vogliamo invece spezzare questa compagine sorda e torbida di intrighi e di viltà? Non potrebbe essere questa la nostra ora? Invece di prepararci a "subire" gli avvenimenti preordinando un alibi scandaloso, non è meglio tentare di dominarli? Il compito di socialisti rivoluzionari non potrebbe essere quello di svegliare le coscienze addormentate delle moltitudini e di gettare palate di calce viva nella faccia ai morti - e son tanti in Italia! - che si ostinano nell'illusione di vivere? Gridare: noi vogliamo la guerra! non potrebbe essere - allo stato dei fatti - molto più rivoluzionario che gridare "abbasso"? Questi interrogativi inquietanti, ai quali, per mio conto, ho risposto, spiegano l'origine e gli scopi del giornale. Questo ch'io compio è un atto d'audacia e non mi nascondo le difficoltà dell'impresa. Sono molte e complesse, ma ho la ferma fiducia di superarle. Non sono solo. Non tutti i miei amici di ieri mi seguiranno; ma molti altri spiriti ribelli si raccoglieranno attorno a me. Farò un giornale indipendente, liberissimo, personale, mio. Ne risponderò solo alla mia coscienza e a nessun altro. Non ho intenzioni aggressive contro il Partito Socialista, o contro gli organi del Partite nel quale intendo di restare, ma sono disposto a battermi contro chiunque tentasse di impedirmi la libera critica di un atteggiamento che ritengo per varie ragioni esiziale agli interessi nazionali e internazionali del Proletariato. Dei malvagi e degli idioti non mi curo. Restino nel loro fango i primi, crepino nella loro nullità intellettuale gli ultimi. Io cammino! E riprendendo la marcia - dopo la sosta che fu breve - è a voi, giovani d'Italia; giovani delle officine e degli atenei; giovani d'anni e giovani di spirito; giovani che appartenete alla generazione cui il destino ha commesso di "fare" la storia; è a voi che io lancio il mio grido augurale, sicuro che avrà nelle vostre file una vasta risonanza di echi e di simpatie. Il grido è una parola che io non avrei mai pronunciato in tempi normali, e che innalzo invece forte, a voce spiegata, senza infingimenti, con sicura fede, oggi: una parola paurosa e fascinatrice: guerra!" 15 novembre 1914

Chiamiamo a raccolta tutti gli spiriti ribelli, scrive Benito Mussolini il 14 dicembre 1914 (pubblicato su "Il Giornale" il 05/08/2016). "La camera italiana gentilonizzata e perciò nell'intimo dell'animo «neutralista» malgrado l'ovazione a Trieste la camera italiana si è chiusa l'altro ieri in un enorme sbadiglio. Questa che doveva essere una sessione «storica» è stata in realtà al disotto della cronaca. Riletto ad alcuni giorni di distanza lo stesso discorso dell'onorevole Salandra si presenta come un discorso rigidamente «neutrale». Poteva essere pronunciato quattro mesi fa o di qui a quattro mesi. Non c'era bisogno di riaprire la camera per dire cose che tutti sapevano e sanno. Il paese è rimasto deluso. La camera ha poi sminuito l'importanza e attenuato il senso della sua manifestazione d'entusiasmo. Non sono mancate nella stampa conservatrice le voci «autorevoli» a disapprovare la dimostrazione d'italianità della camera. Aggiungete a tutto ciò l'episodio Giolitti da noi sufficientemente illustrato e l'impressione di disagio e di disgusto sarà completa e profonda. Dalla camera dall'alto non c'è d'aspettare nulla. Il governo è ancora triplicista e mercanteggia e patteggia. La linea direttiva della sua politica ci è ancora totalmente ignota. Non sappiamo dove andiamo. L'incertezza delle sfere dirigenti ha il suo pendant nell'opacità del paese. La neutralità vigile e armata che splendida cuccagna per i fornitori! è diventata uno stato di fatto nel quale si adagiano tutti i «vigliacchi di dentro». Sono molti e appartengono a tutti i partiti a tutte le professioni a tutte le categorie. Vogliono lo statu quo. È comodo anche se abominevole. Statu quo cioè «conservazione». Conservazione degli stipendi dei posti della tranquillità di spirito del denaro della vita delle idee. I conservatori delle idee sorpassate dalla storia sono i peggiori reazionari. La guerra pone sul tappeto tutto ciò mette in gioco tutto ciò. La neutralità diventa quindi una tavola di salvezza per la moltitudine dei «conservatori» rossi neri grigi pluricolori. Il popolo non è neutralista. Il popolo che è accorso alle conferenze dei profughi irredenti e belgi ha manifestato le sue fervide simpatie per la causa dei popoli oppressi. Date un obiettivo a questo stato d'animo e il popolo che non ha nulla da «conservare» il popolo generoso la «santa canaglia» risponderà «guerra» se voi gli direte a cuore aperto e con aperta parola «guerra!». Occorre vincere le esitazioni oramai colpevoli del governo; occorre spezzare con impeto e con tenacia la sorda e ignobile coalizione «neutrale». Noi chiamiamo a raccolta come un mese fa tutti gli spiriti ribelli d'Italia. Domenica prossima anniversario dell'impiccagione di Oberdan tutto il popolo d'Italia si rovesci nelle strade e nelle piazze. Dalle adunate di cittadini che sentono la vergogna di questo stato di cose si elevi il monito formidabile e solenne verso chi di ragione. Basta cogli indugi sapienti! Basta cogli intrighi diplomatici! Noi ci opporremo con tutte le nostre forze ad ogni meditato assassinio dell'Italia attraverso patteggiamenti e mercati. Signori che state in alto! Ci sono delle forze nuove che fermentano e che maturano. La palude fangosa della neutralità italiana comincia ad essere increspata dai primi sintomi della tempesta. Tutto ciò che si doveva dire fu detto! 14 dicembre 1914"

Arriva il crepuscolo della grande Germania. La creazione superba di Bismarck scricchiola qua e là nella sua armatura possente, scrive Benito Mussolini il 16 febbraio 1915 (Pubblicato da “Il Giornale” il 06/08/2016). Deutschlandsdämmerung. È il crepuscolo della Germania. L'impero tedesco, la creazione superba di Bismarck, condottiero vittorioso di tre guerre di rapina, scricchiola qua e là nella sua armatura possente, coi paurosi moti precorritori della catastrofe. Mille sintomi denotano che per la Germania la guerra gigantesca è giunta ormai nella fase suprema della disperazione. Gli eserciti si battono ancora alle trincee su tre fronti diverse, ma non avanzano, e i loro successi non sono che parziali e locali. Né mancano nelle file dell'esercito più disciplinato del mondo i segni di stanchezza e di abbandono. All'interno, non c'è il pane per nutrire le bocche degli uomini, scarseggiano i proiettili per riempire le bocche dei cannoni. Prima della guerra, la Germania era una caserma; oggi è una fortezza. Si requisiscono e si ripartiscono i viveri fra la popolazione - in parti uguali - come nelle cittadelle sottoposte a un lungo assedio; si strappano dai portoni i battenti di bronzo, si raccolgono tutti gli arnesi di metallo delle case e delle officine, per farne munizioni e riparare i vuoti dell'enorme consumo di questi mesi di guerra. Non c'è la materia prima per le officine di Essen, e se il blocco inglese non rallenta la sua vigilanza, fra poco la Germania non avrà più pane, né potrà più combattere. Dovrà chieder mercé. Certo, lo spirito pubblico della Germania, è depresso. La visione del domani conturba le popolazioni tedesche. Al periodo dell'esaltazione è subentrato quello della meditazione. Si parla di pace. Se ne parla pubblicamente, in pieno Landtag prussiano. Se ne discute sui giornali. Oh, sono ben lontani i giorni, in cui Massimiliano Harden esaltava il fulmineo trionfo delle armi germaniche, i giorni d'agosto - terribili - quando tutta Europa parve tremare sotto al passo formidabile degli eserciti del Kaiser. Cadevano una dopo l'altra le fortezze del Belgio, il Belgio stesso scompariva sommerso sotto la fiumana travolgente degli invasori; i soldati della Repubblica si ritiravano oltre la Marna, mentre le avanguardie degli ulani giungevano a dodici chilometri da Parigi. La Francia sembrava finita: l'operazione guerresca si compiva nel termine di sei settimane, prescritto dal Grande Stato Maggiore germanico. Occupata Parigi, disarmata la Francia; rimaneva ancora il settembre e l'ottobre per abbattere i russi; il natale del 1914 avrebbe visto e celebrato la grande pax germanica e il dominio della Germania su tutta l'Europa. Erano i bei giorni nei quali Harden magnificava la superiorità della razza germanica destinata a redimere il mondo. I pangermanisti tracciavano sulla carta geografica le linee dell'impero ampliato nelle terre e nei mari di tre continenti: da Calais a Tangeri, da Amburgo a Salonicco. Il sogno che aveva ubbriacato un popolo intero è finito e con esso è dileguato l'incubo che opprimeva noi, uomini nati e vissuti sulle rive del Mediterraneo luminoso. E il sogno durava da un secolo. Per ciò era divenuto coscienza e volontà nazionale. Ernest Moritz Arndt già nel 1802 vaticinava nel suo libro - La Germania e l'Europa - il giorno in cui un grande genio «despota e capitano, avrebbe fuso, colla conquista e il massacro, in una sola massa, i tedeschi». Arndt è un precursore di Treitschke e degli altri campioni del pangermanismo. Arndt è uno dei primi imperialisti senza scrupoli. Egli riteneva - ad esempio - che l'Olanda indipendente «fosse il più scandaloso degli affronti per la Germania»; Bethmann-Hollweg aveva - evidentemente - la stessa opinione nei riguardi del Belgio. E il Belgio è stato distrutto. Durante un secolo il tedesco è stato avvelenato dalla continua apologia della razza bionda, unica creatrice e propagatrice della Kultur in una Europa giunta al tramonto. L'impero doveva essere lo strumento di quest'opera di salvezza. Ma l'impero trova nel suo estendersi i limiti fatali della sua potenza. L'impero è intensione, non estensione. Dilatandosi, muore. La storia d'Europa ha visto tre imperi crollare. Quello di Carlo Magno, quello di Carlo V, quello di Napoleone. Né miglior sorte è toccata al quarto impero: quello del Papa sulle anime. Anch'esso è infranto. Né diverso destino attende il quinto impero vagheggiato nella sua megalomania sinistra da Guglielmo di Hohenzollern. Ha già trovato i suoi confini. Non li supererà. È ormai deciso. Gli automi dell'elmo puntato non varcheranno i molteplici ordini di trincee scavate sul suolo di Francia. Non giungeranno più a Parigi. Non si ripeterà nella Parigi occupata la cerimonia della fondazione dell'impero europeo, come nella Versaglia conquistata, al 19 gennaio del 1871, fu celebrata la creazione dell'impero tedesco. Guglielmo II, invecchiato, è tornato nel suo castello di Potsdam, al suo esercizio preferito: abbattere gli alberi della foresta. Così, forse, si era illuso di abbattere i nemici. Ma i nemici si sono serrati attorno a lui: più numerosi, più forti di quello che la diplomazia tedesca avesse previsto o pensato. Ed ora la partita è disperata. Si tratta di vita o di morte. Il Kaiser deve scegliere: o la guerra ad oltranza o una pace non lontana. La guerra ad oltranza può significare lo schiacciamento totale e definitivo della Germania, poiché a una vittoria completa dei tedeschi non è più il caso di pensare; la pace non lontana, è, anch'essa, la fine ingloriosa dell'impero. Ma è in questa pace, un grande pericolo per un'Italia rimasta neutrale. No, non la pace finché qualcuno non sia costretto a chiederla, senza porre condizioni di sorta. È necessario che questa guerra si concluda col trionfo assoluto degli uni o degli altri. Altrimenti l'Europa di domani rassomiglierà a quella di ieri: tornerà una caserma. Bisogna che la Germania sia schiacciata. E può esserlo, rapidamente, col concorso dell'Italia. I tedeschi sanno che il nostro intervento è decisivo. Ci hanno mandato per tenerci fermi, prima Sudekum, poi Billow. Ci blandiscono e ci minacciano. In Germania tutti - dai grandi agli infimi - sentono che la campana a morto dell'impero tedesco sarà suonata dall'Italia. L'Italia può, per fatalità di eventi, assolvere questo compito grandioso: chiudere un ciclo della storia europea. Nel 1815 si chiuse il ciclo napoleonico, nel 1915 si chiuderà quello degli Hohenzollern. Nel 1815 ci fu un mercato di popoli, nel 1915 ci sarà la liberazione dei popoli col trionfo dei diritti delle nazionalità. Italiani, voi non potete rimanere assenti da questo grande avvenimento. A voi, a noi affida la Storia il compito di vibrare il colpo mortale al gigante che voleva stringere nel suo pugno di ferro i popoli liberi e civili dell'occidente. Questo colpo sia vibrato, con animo forte e con braccio non meno forte. Il gigante aveva creato una macchina mostruosa per assicurarsi il dominio sulle genti: il militarismo. Occorre che questa macchina sia frantumata. Sarà un giorno memorabile nella Storia, il giorno in cui le officine del pederasta Krupp a Essen saranno date alle fiamme di un grande incendio che abbaglierà l'Europa e purificherà la Germania. In nome delle città e delle borgate belghe straziate e distrutte, in nome delle vittime innumerevoli della guerra scatenata dal bestiale orgoglio tedesco, Essen, la città dei cannoni, dovrà venir rasa al suolo. Solo allora, e soltanto allora i tedeschi, predoni e omicidiari, riacquisteranno il diritto di cittadinanza nel genere umano. 16 febbraio 1915

Per la pace di domani grido: abbasso la pace! Scrive Benito Mussolini il 1 aprile 1915 (Pubblicato da Il Giornale il 7/08/2016). La pace? No. Non ancora. Non adesso. La possono auspicare - più o meno accademicamente o sinceramente - i quacqueri del Nord America o della... Svizzera. Non noi. Le voci pacifiste che circolano sui giornali - anche socialisti - esprimono piuttosto un desiderio vago che una eventualità di un domani immediato. La pace è impossibile, oggi. La Triplice Intesa non può volerla. Ci sono delle ragioni fondamentali che si oppongono ad ogni prematuro tentativo di pace. Le dicerie di accordi «separati» fra Russia ed Austria non hanno fondamento alcuno. Sono «manovre» di... guerra fatte... coi giornali. Comunque, i socialisti e i sovversivi interventisti devono reagire energicamente contro alla formazione di uno stato d'animo pacifista, specie in paesi, che come l'Italia, devono «necessariamente» scendere in guerra. La pace - oggi - sarebbe un delitto di lesa umanità. Quest'affermazione non è - come potrebbe sembrare a prima vista - paradossale. Si possono prospettare tre ipotesi: la pace con vantaggio della Germania, la pace ai danni della Germania, la pace-compromesso che lascia intatto o quasi lo statu quo europeo. Dal punto di vista rivoluzionario tutte e tre le ipotesi sono da rigettarsi. Una pace con vantaggio - più o meno notevole - per la Germania, significherebbe, con molta probabilità, la annessione del Belgio e un grave sacrificio per la Francia. Una pax germanica rialzerebbe il prestigio del militarismo prussiano e preparerebbe - a breve scadenza - un nuovo tentativo di egemonia tedesca sull'Europa. È possibile una pace - oggi - che conduca a una umiliazione della Germania? No. La situazione militare della Germania è ancora buona, specie nell'Occidente. Ma, supponendo che la Germania fosse costretta dalla sua disperata situazione economica a chiedere la pace, tale pace celerebbe un'insidia. La Germania, che non ha subito che in minima parte i danni dell'invasione, potrebbe «rifarsi» rapidamente dei danni sopportati nella guerra e ricominciare fra qualche tempo la partita. La terza ipotesi di una pace di transazione è la peggiore di tutte e non vale nemmeno la pena di spendervi attorno molte parole. Ora è necessario che il gruppo austro-tedesco sia battuto e sia costretto ad arrendersi senza condizioni, com'è avvenuto per la resa di Przemysl. La guerra deve continuare sino al giorno in cui i tedeschi dovranno chiedere la pace in ginocchio. Altrimenti la guerra avrà mancato al suo scopo. Milioni di uomini, miliardi di denaro saranno stati sacrificati invano. Questa immensa ecatombe di giovani, deve liberare l'Europa dall'incubo del militarismo prussiano. Se così non fosse, fra pochi anni avremmo un'altra guerra. Una pace duratura non è possibile se i problemi di nazionalità - che spiegano in gran parte la guerra attuale - non saranno risolti. L''Austria deve essere ridotta ai minimi termini o, meglio ancora, deve essere fatta «saltare» come un conglomeramento eterogeneo; la Germania dev'essere fiaccata e resa, almeno per cinquant'anni, completamente innocua. Solo così il Belgio potrà ricostruire dalle rovine le sue città e rivivere la sua vita, solo così la Francia potrà sanare le ferite profonde dell'invasione. Caso contrario, i tedeschi ripeteranno il colpo. Non per nulla essi hanno teorizzato la guerra come «un'industria». Nel 1878, pochi anni dopo alla guerra franco-prussiana, Bismarck - irritato e preoccupato della rapidità colla quale la Francia si era riavuta dalle disfatte del 1870 - meditava di vibrare un altro colpo mortale alla nazione nemica. La minaccia russa trattenne le armate di Moltke. Se una pace anticipata e provvisoria conservasse alla Germania la sua preponderanza militare, un'altra guerra, a breve scadenza, devasterebbe e insanguinerebbe l'Europa. Perché questa guerra conduca a un più stabile equilibrio internazionale, perché questa guerra imponga la limitazione degli armamenti e, quindi, crei una situazione favorevole per le lotte della classe operaia, è necessario che sia una guerra di liquidazione, una guerra a fondo, sterminatrice di coloro che l'hanno voluta. Un ministro inglese ha ricordato che questa è la quarta volta, nel corso di appena cinquant'anni, che la Prussia ha scatenato la guerra. Nel 1864 contro la Danimarca, nel 1866 contro l'Austria, nel 1870 contro la Francia, nel 1914 contro l'Europa. Ma questa dev'essere l'ultima. La pace - così stando le cose - è un desiderio inutile; peggio, un'aspirazione criminale. I pacifisti nord-americani sono dei collaboratori insperati e graditi che assicurano le fortune della Germania e quindi il premio alla sua barbarie. Come l'internazionalismo, fatto ingenuamente sul serio dai socialisti dei paesi latini, costituiva un prezioso elemento di successo per la Germania dove i socialisti - con in testa Bebel - anteponevano la loro qualità di tedeschi alla loro qualità di socialisti, così il latte e miele e... tartine del pacifismo wilsoniano e dollaresco finisce per esercitare il suo influsso deprimente non sui tedeschi - organizzati sin dall'infanzia per la guerra - ma su gli altri popoli, che disperatamente si difendono dalla Germania. Fortunatamente, questi primaverili ramoscelli d'olivo, queste... pasquali nostalgie, non turbano il corso fatale delle cose, né fanno tacere la voce tonante dei cannoni. Dopo il Natale rosso, avremo la Pasqua rossa. Non vi fu tregua il 25 dicembre, non vi sarà sosta domenica prossima. La resurrezione del Cristo - come già la nascita - non farà deporre le armi a coloro che cercano la vittoria. Per la pace di domani, oggi, bisogna gridare: abbasso la pace! 1 aprile 1915

Gli italiani disciplinati trattati da deficienti. Scrive Benito Mussolini l'11 aprile 1915 (Pubblicato da Il Giornale l'8/08/2016). Ancora una volta - e non sarà l'ultima - i fastidiosi e semi-ufficiosi pedagoghi dell'Italia neutrale, ci hanno impartita la lezione. Ci hanno, cioè, consigliati di star bonini, di mettere il "cuore in pace", di attendere, con fiduciosa aspettazione, la "provvidenza" governativa. Pare quasi inverosimile, al Giornale d'Italia, che ci sia del "nervosismo" nei giornali, dell'ingratitudine nel Paese. È certo che il Giornale d'Italia preferirebbe il viceversa: una stampa addomesticata che fa la cronaca della guerra e per ciò che riguarda l'Italia si rimette all'altissimo senno dei suoi ministri; un Paese acefalo che modella la sua opinione sullo stampo di qualsiasi "fatto compiuto". Ora, le minoranze "nervose e irrequiete" che esistono e che noi - con maggiore o minore fortuna - rappresentiamo, non accettano le "paternali" semi-ufficiose e respingono - come indegna di un popolo civile e arbitro dei suoi destini - la disciplina "coatta" dell'inazione e dell'impotenza, la disciplina complice dei "negozi"...Ma prima di tutto, perché il Giornale d'Italia non ricerca le cause di questo "stato d'animo" che potrebbe domani estrinsecarsi nelle forme della violenza e della rivolta? In fin dei conti, non potrebbe essere esorbitante questa pretesa del Governo, di imporre una "disciplina" morale della neutralità, di un regime che prolungandosi oltre il lecito, è la negazione di ogni "morale"? Ha il Governo il diritto di esigere la disciplina e il silenzio dei cittadini italiani? Discutiamo. Le cause del "nervosismo", dell'indisciplina morale, sono in relazione col sistema di politica seguito dai governanti d'Italia. Da nove mesi essi considerano il popolo italiano come una collettività di pupilli, di minorenni, di deficienti. Da nove mesi, noi tutti viviamo in uno stato spaventevole di oscurità. Nessun popolo ebbe mai i suoi nervi messi - per tanto tempo - a così dura prova. O il popolo italiano non ha nervi - come certi viscidi insetti - o li ha fortissimi. Noi tutti sentiamo che, insieme con quello delle Nazioni impegnate nel conflitto, anche il nostro destino è in gioco. Ma non sappiamo nulla. Siamo ciurma vile che deve rimettersi completamente nelle mani del pilota. Il popolo italiano è dunque una ciurma? Tutti gli altri popoli sono stati "illuminati" sulle origini, le fasi, l'epilogo stesso della guerra. C'è ormai una Biblioteca intera di libri diplomatici, di pubblicazioni militari, di discorsi di re e di ministri. In Italia, niente. Il "Libro Verde" annunciato è rimasto inedito in qualche polveroso scaffale della Consulta, di dichiarazioni ce n'è stata una sola e insignificante: quella dell'onorevole Salandra alla Camera nella seduta del tre dicembre. L'unico sprazzo di luce concesso al popolo italiano è venuto dall'onorevole Giolitti, colla sua famosa - ma concertata coll'onorevole Salandra - rivelazione sui propositi austriaci di muover guerra alla Serbia sin dall'agosto del 1913. Sono state intavolate delle trattative fra l'Italia e l'Austria, e il Governo non ha sentito il pudore elementare di annunciarlo in forma ufficiosa agli italiani. Non chiediamo il diario delle trattative, né l'oggetto delle medesime, né i verbali dei colloqui: chiediamo che il Governo con un semplice comunicato della Stefani confermi o smentisca l'esistenza delle trattative. Nemmeno questo. I governanti italiani sono impenetrabili e freddi come le Sfingi egiziane. Il popolo - malgrado il suffragio universale - deve obbedire, tacere e rassegnarsi - quando sarà l'ora - al fatto compiuto. E basta. Ebbene, questo popolo - malgrado l'oscurità in cui lo si è "volutamente" tenuto - ha dato "finora" saggio di disciplina. Sono passati mesi terribili durante i quali i socialisti stessi si sono piegati a necessità d'ordine nazionale. Se avessero voluto - non tutti, ma qualcuno - "pescare nel torbido", secondo il linguaggio dei procuratori del re, l'occasione non sarebbe mancata. Bastava gettare del petrolio sulle fiamme delle rivolte per la fame. Bastava dare una linea a un movimento spontaneo e grandioso e "legittimo". L'Italia - minata e demoralizzata all'interno - sarebbe stata necessariamente "distrutta" dai problemi d'ordine internazionale e non avrebbe mai chiesto la guerra. Bisogna avere il coraggio di dire che i socialisti "sedando" le rivolte della fame o prevenendole, come è avvenuto nei grandi Comuni da loro conquistati, hanno fatto - consciamente o no - opera di patriottismo molto superiore a quella degli onesti "borghesi". La disciplina "nazionale" c'è stata. Due miliardi sono stati spesi, settecentomila uomini sono sotto alle armi e nessuno ha protestato. Ma ora la disciplina comincia a pericolare. Il popolo che ha atteso - per lunghissimi nove mesi - una parola, oggi non ne può letteralmente più e domanda e vuol sapere qual destino gli sia riservato, di qual morte deve morire. È umano. Abusare ancora della sua pazienza, sarebbe bestiale. Intanto che cosa fa il Governo? Ci consiglia di mettere il "cuore in pace", ci fa sapere che attende un "evento decisivo" per muoversi e che l'attesa gioverà a rendere perfetta la nostra preparazione militare. Noi ci domandiamo - esterrefatti - in quale stato di incredibile disorganizzazione doveva trovarsi il nostro esercito nel mese di agosto, se con due miliardi e nove mesi non siamo ancora "al punto". O l'impreparazione è una scusa per le tergiversazioni diplomatiche? O è annunciata per reclamare nuovi miliardi? Quanto al "fatto decisivo", che tutti aspettano e che non viene mai, non ha dunque considerato il Governo la verità di questa proposizione fondamentale: che il miglior modo per rendere un "fatto decisivo" è quello di contribuire a crearlo? Przemysl pareva un "fatto decisivo", adesso il "fatto decisivo" sarebbe costituito dalla ormai avvenuta traversata dei Carpazi da parte dei russi. Ma non è intuitivo che se domani le baionette italiane si affacciassero alle frontiere austriache, si faciliterebbe l'invasione dei russi in Ungheria e si sarebbe compartecipi del "fatto decisivo", impedendo anche una precipitosa pace austro-russa? Noi siamo indotti a sospettare che l'eventualità di una pace austro-russa lusinghi i nostri diplomatici e i nostri governanti. Se la Germania da una parte e la Triplice Intesa dalla altra, acconsentono a una pace separata austro-russa, i nostri diplomatici farebbero il loro gioco e raggiungerebbero il loro obiettivo che è quello della "piccola guerra" soltanto contro l'Austria. Se la Germania - dopo una pace austro-russa si "disinteressa" dell'Austria-Ungheria - la Germania si disinteresserà allo stesso modo di una guerra dell'Italia contro l'Austria, guerra che, non coinvolgendo la Germania, renderebbe ancora possibile una collaborazione diplomatica italo-tedesca. Colla Serbia è facile raggiungere un accordo particolare. Sono ipotesi, eventualità, ma questa incertezza perdurante rende legittimo ogni sospetto e, fra poco, ogni esasperazione. Noi restiamo quindi sordi agli appelli per la disciplina nazionale. Per esigere la "disciplina" da un popolo, nel secolo XX, bisogna "illuminarlo". Noi "indisciplinati" abbiamo la coscienza di avere assolto a un nobilissimo dovere patriottico. Rendendo "popolare" la necessità della guerra, noi abbiamo contribuito a creare il "morale" delle truppe che dovranno combattere domani. Gli "interventisti" disseminati nella compagine dell'esercito, saranno di sprone agli altri e saranno i migliori soldati perché sapranno la "ragione" della guerra. Data la compagine prevalentemente "rurale" dell'esercito italiano, questa infusione di elementi "idealisti" avrà, senza dubbio, benefiche ripercussioni sull'esito della guerra. I nostri propositi sono chiari. D'ora innanzi noi accettiamo una sola disciplina: quella della guerra. Se il generale Cadorna non dirà la parola che attendiamo, l'Italia sarà fatalmente insanguinata dalla "guerra civile"...11 aprile 1915 

Siate cittadini, non servi del potere! "Data la frequenza delle brutalità poliziesche quest'ultima ha colmato la misura. Nessuna meraviglia se la massa operaia ha proclamato lo sciopero generale", scrive Benito Mussolini il 14 aprile 1915 (Pubblicato da "Il Giornale" il 9/08/2016). Benito Mussolini, come ha scritto su queste pagine lo storico Francesco Perfetti, è stato - al di là del giudizio della storia come uomo politico - uno dei più grandi giornalisti del suo tempo (e il primo a usare la stampa come arma di propaganda)... "Malgrado le due lezioni del passato lontano e recente i governanti d'Italia sembrano più che mai ostinati a non convincersi di una verità elementare e storicamente irrefutabile; questa: che le polizie vessatorie e omicidiarie meglio e più rapidamente di ogni sovversivismo "tesserato" "sabotano" il regime e preparano la fossa alle istituzioni. La nostra non è una "doglianza" ma una semplice constatazione di fatto. Constatazione che l'assassinio efferato di domenica sera rende ancora una volta di attualità. In qualunque altro paese civile del mondo cosiddetto civile dove il cittadino non sia considerato dai detentori alti e bassi del potere come un servo inutile, le autorità politiche avrebbero tenuto un contegno diverso. Il cittadino ci sia o no il suffragio universale è sacro. Che la polizia non lo tuteli passi; ma è inconcepibile che la polizia aggredisca e uccida senza nemmeno la lontana parvenza di una giustificazione. Che cosa fa l'autorità politica milanese? Un'inchiesta i cui risultati sono sin da questo momento facilmente prevedibili. Non si è proceduto all'arresto dei presunti o veri colpevoli non c'è stato finora un atto qualsiasi di onesta riparazione. La polizia tiene invece un atteggiamento cinico e non è improbabile una "versione" sapientemente manipolata che attribuisca ogni colpa all'ucciso. Orbene bisogna dichiarare alto e forte che le responsabilità gravissime della polizia sono di due specie: una d'indole generale e una d'indole particolare. La prima tocca anche il governo. Si deve appunto ad una circolare emanata dall'onorevole Salandra se il contegno della forza pubblica fu domenica scorsa tanto bestiale in ogni parte d'Italia. La polizia ha "ecceduto" elegante eufemismo! dovunque. C'erano degli "ordini" venuti dall'alto. Bisognava "reprimere" ogni tentativo di manifestazione da parte degli "interventisti". Qualcuno che credeva di trovare una spiegazione alle violenze poliziesche di Roma nel fatto che nella capitale ci sono ministeri ambasciate corte vaticano ecc. si sarà accorto del suo errore leggendo la cronaca delle dimostrazioni milanesi. Nella capitale "morale" si pestava sodo come nella capitale politica e con conseguenze letali. L'ordine di "reprimere" era dunque generale. Poi è venuta l'interpretazione "locale" della malfamata polizia milanese. Interpretazione rigida alla lettera. Il ministro prescrive di impedire le dimostrazioni dei fasci? Benissimo. Al modo penseremo noi si è detto in questura. E il "modo" dei gendarmi di San Fedele è stato quanto di più ignobilmente poliziesco si potesse pensare. Dopo l'occupazione armata della piazza ci sono state le cariche furiose dei poliziotti armati di bastoni che fracassavano le ossa. Ma la dimostrazione era dunque così violenta da richiedere una "tutela" così brigantesca dell'ordine? Mai più. Non una lastra spezzata non un lampione infranto non un solo "agente" contuso. Gruppi esigui di disputanti o di entusiasti occupavano qua e là la piazza e in atteggiamento tranquillo. In fondo tutte le dimostrazioni in Italia si svolgono così. Qualche grido qualche sasso e poi lo sbandamento. Tutti i giornali cittadini sono unanimi nell'ammettere che la "carica" finale fu un atto di violenza fredda e meditata. Tanto più esecrabile allora è la condotta della polizia. L'ucciso non era nemmeno un dimostrante non aveva fedi politiche non parteggiava né per la guerra né per la neutralità: era un "curioso" un "innocuo" obbligato per rincasare a traversare quella piazza dove egli ha trovato la morte. I poliziotti erano armati di bastoni e miravano nel colpire alla testa, alla parte più delicata del corpo. A mezzanotte piazza del Duomo era sgombra...Data la frequenza delle brutalità poliziesche quest'ultima ha colmato la misura. Nessuna meraviglia se la massa operaia ha proclamato lo sciopero generale. Ed è certo che lo sciopero riuscirà magnificamente. La parte migliore della cittadinanza guarderà con simpatia la protesta. Lo sciopero sarà solenne perché unanime. Non è qui questione di neutralità o d'intervento: qui si tratta di salvaguardare i fondamentali diritti dei cittadini e di "protestare" contro sistemi che devono una buona volta cessare e per sempre. Questione interna e italiana pur troppo! Se si vuole la "concordia nazionale" e questa è più che mai indispensabile se si ritiene inevitabile di scendere in campo bisogna instaurare nuovi metodi cambiare uomini trasformare o spezzare gran parte dell'ingranaggio statale. Si è detto d'altra parte che "la protesta della Milano lavoratrice sarà alta serena ed esemplare". Non ne dubitiamo. Ma secondo noi ad un patto: che la polizia non si faccia vedere oggi. Né in divisa né in borghese. Resti chiusa a San Fedele. L'esibizione di poliziotti o altri agenti dell'ordine lungo le strade dove si svolgerà il corteo sarebbe una provocazione in termini. Lasciate una volta tanto che la folla controlli e sorvegli sé stessa. Nell'esternare il suo dolore nell'esprimere la sua protesta la moltitudine dei lavoratori milanesi terrà un contegno virile e offrirà ai suoi «tutori» un memorando esempio di "civismo". Infine se per uscire una buona volta dal servaggio se per rivendicare l'elementare diritto alla vita occorrerà uscire dalla legalità i «cittadini» si preparino con fermezza e con audacia al sacrificio estremo. Chi deve chi può raccolga il monito sanguinoso finch'è tempo! 14 aprile 1915"

Mai sputarsi addosso: l'esercito è pronto. Ha ragione d'essere questo pessimismo sconsolato che vede forza solo oltre frontiera, scrive Benito Mussolini il 16 aprile 1915. (Pubblicato da "Il Giornale" il 10/08/2016). "Il proverbio è di origine russa ma il vizio è anche italiano. È facile purtroppo! constatarlo specialmente in questi giorni che dovrebbero segnare l'agonia della neutralità. Gli italiani che si «sputano addosso» sono innumerevoli e appartengono a tutte le categorie della popolazione. Ne trovate fra i borghesi e fra i proletari. Tra i conservatori e fra i socialisti. L'abitudine è diffusa specialmente fra i neutralisti che non volendo ancora passare all'interventismo verso al quale si sentono portati dalla ragione o dal sentimento sono costretti ad auto-denigrarsi e a denigrare la nazione. È una specie di «masochismo» neutrale. Lo sorprendete in espressioni verbali di questo genere: io sarei interventista ma non ho troppa fiducia nella invincibilità dell'esercito nella saldezza dell'economia nazionale nella forza morale del popolo. Con queste obiezioni d'ordine puramente contingente i neutralisti conservatori salvano il «loro» patriottismo e i socialisti trovano una giustificazione «pratica» al loro atteggiamento che non saprebbe inspirarsi a nessun postulato ideale. Ha ragione d'essere questo pessimismo sconsolato che vede soltanto oltre le frontiere d'Italia la forza la grandezza il progresso mentre in Italia tutto sarebbe miseria decadenza decomposizione? E le previsioni catastrofiche di certi «profeti della vigliaccheria nazionale» su quali basi più o meno solide poggiano? E questi neutralisti ipocriti che vanno escogitando pretesti su pretesti onde inchiodare l'Italia all'inazione non sarebbero per caso infinitamente più pericolosi delle superstiti scimmie urlatrici dell'herveismo? Tre elementi richiede la guerra moderna la guerra fra nazioni e quindi una «grande guerra»: una buona preparazione materiale e morale dell'esercito una oculata preparazione economica del paese e una forte preparazione spirituale dei cittadini. In quali condizioni si trova oggi l'Italia? Se le nostre informazioni sono esatte del che non dubitiamo data la fonte a cui le abbiamo attinte la preparazione dell'esercito è ultimata. Con questo non si vuol dire che tutto sia in ordine sino... all'ultimo bottone dell'ultimo fantaccino. La frase è del maresciallo Leboeuf prima del '70. Ma il maresciallo sbagliava. L'unico esercito che fosse realmente e completamente «al punto» nell'agosto scorso era quello tedesco che veniva da quarant'anni preparandosi alla nuova guerra mondiale. Ma se dobbiamo credere alle rivelazioni del senatore Humbert esposte pochi giorni prima dell'apertura delle ostilità l'esercito francese si trovava in uno stato di disgregazione e di impreparazione inverosimili. Può darsi che l'Humbert caricasse le tinte ma è certo che nessuno in Francia prese sul serio l'ottimismo confidente del Messimy. E quando a guerra iniziata ad invasione inoltrata la Francia ebbe bisogno di un ministro della guerra Messimy dovette «naturalmente» cedere il posto al Millerand che aveva precedentemente introdotto serie riforme materiali e morali nell'armata della repubblica. La verità ormai universalmente ammessa è che la Francia ha «fatto» il suo esercito sotto l'invasione tedesca. La battaglia della Marna ha «rivelato» l'esistenza di un esercito francese capace di battersi e vincere. Da allora l'urto tedesco fu infranto e la situazione dei francesi è andata di poi progressivamente migliorando. Le condizioni dell'Italia sono al confronto ottime. Nove mesi di preparazione intensa non sono, non devono essere passati invano. D'altra parte non si può subordinare la guerra a una preparazione militare che sia sotto ogni riguardo perfettissima anzitutto perché la perfezione è irraggiungibile poi perché non bisogna lasciar trascorrere il momento opportuno per l'azione. Sarebbe ridicolo aver preparato un esercito formidabile per farlo... arrivare sui campi dove si decide il destino d'Europa colla vettura Negri... Dal punto di vista militare la situazione non legittima le previsioni catastrofiche di coloro che si «sputano addosso». Lo stato dell'economia nazionale inquieta di più lo studioso e l'osservatore. La nostra economia industriale è giovane fragile e vincolata in gran parte al capitalismo straniero. Ma le nostre industrie e i nostri commerci attraversano già un periodo di crisi acutissima e la guerra non peggiorerà la situazione. Per alcune di esse come le industrie cotoniere la crisi è antecedente alla guerra. L'Italia la cui economia è prevalentemente rurale si trova in condizioni migliori delle nazioni a economia di tipo esclusivamente industriale come la Germania. La guerra paralizza le industrie per ragioni intuitive ma permette in misura più o meno ridotta l'esercizio dell'agricoltura. La terra nutre i suoi figli che combattono. Al governo spetta il compito di escogitare tutte le altre misure adatte ad alleviare la crisi. È necessario che si lavori; è necessario che là dove non è possibile lavorare non manchi al popolo il pane quotidiano. Resta la preparazione «morale» del paese. Qui lo scetticismo e l'autosputacchiamento fanno strage. Alcuni neutralisti sono vere e proprie sputacchiere ambulanti. I discorsi che si odono sono questi: un insuccesso un'incursione di Zeppelin l'eventuale bombardamento di una città indifesa getteranno il panico nella popolazione. Rivedremo le donne scarmigliate rovesciarsi sui binari per impedire la partenza delle riserve... È il cliché del 1896. I tempi sono cambiati. Comunque io ho una fiducia quasi illimitata nella solidità dell'anima italiana. Anche qui ci soccorre l'esempio della Francia. Chi avrebbe mai sospettato tanta fermezza tanto coraggio tanta tenacia in quel popolo di Francia che i tedeschi avevano caricato di tutte le qualità più «frivole» della natura umana? Tutti hanno gridato al «miracolo...». Ma il miracolo si spiega con una ragione assai semplice: la Francia aveva delle grandi e insospettate riserve di energia fisica e morale che la guerra ha «rimesso in valore». So bene che l'Italia non ha le tradizioni militari della Francia che la nostra costituzione nazionale è più recente ecc. ma nonostante queste deficienze cui fanno riscontro altri vantaggi da parte nostra io credo che la prima grande guerra d'Italia farà tra noi quello stesso «miracolo» che abbiamo constatato in Francia. La stampa ha a questo proposito una grande missione da compiere. Ma bisognerà abbandonare la retorica mistificatrice e abituare il popolo a non... cercare più la letteratura che ha effetti qualche volta più deleteri dell'alcool. Quando il periodo della neutralità sarà chiuso e colla dichiarazione di guerra agli imperi centrali passerà un fremito immenso per il corpo della nazione tutti gli italiani sapranno assolvere al loro dovere. Se i conigli «seminatori di panico» e le cassandre della neutralità si ostineranno a propinarci in pubblico o in privato le loro lugubri profezie c'è un modo molto semplice per ridurli al silenzio. Possiamo anche in questo caso ispirarci all'esempio della Francia repubblicana. 16 aprile 1915."

Abbasso il Parlamento, un bubbone pestifero, scrive Benito Mussolini l’11 maggio 1915 (pubblicato da "Il Giornale" l'11/08/2016). Mentre il Paese attende di giorno in giorno, con ansia sempre più spasmodica, una parola da Roma, da Roma non ci giungono che rivoltanti storie o cronache di non meno rivoltanti manovre parlamentari. La vigilia del più grande cimento d'Italia è contrassegnata da questo rigurgito estremo di tutte le bassezze della tribù medagliettata. Sdegno e mortificazione si alternano negli animi nostri. Questi deputati che minacciano «pronunciamenti» alla maniera delle repubblichette sudamericane, questi deputati che vanno a scuola e a pranzo dal principe di Bülow, questi deputati che diffondono - con le più inverosimili fantasticherie ed esagerazioni - il panico nella fedele mandria elettorale; questi deputati pusillanimi, mercatori, ciarlatani, proni ai voleri del Kaiser; questi deputati che dovrebbero essere alla testa della nazione per incuorarla e fortificarla, invece di deprimerla e umiliarla com'essi fanno; questi deputati dovrebbero essere consegnati ai Tribunali di guerra. La disciplina deve cominciare dall'alto, se si vuole che sia rispettata in basso. Quanto a me, io sono sempre più fermamente convinto che per la salute d'Italia bisognerebbe fucilare, dico fucilare, nella schiena, qualche dozzina di deputati e mandare all'ergastolo un paio almeno di ex ministri. Non solo, ma io credo, con fede sempre più profonda, che il Parlamento in Italia sia il bubbone pestifero che avvelena il sangue della Nazione. Occorre estirparlo. C'è da rabbrividire al pensiero che si trovano, in questo momento, a Roma, più di duecento deputati. E costoro tramano, brigano, ciarlano: non hanno che un pensiero: conservare la medaglietta; non hanno che una speranza: quella di entrare - sia pure come la quinta ruota del carro - in qualche «combinazione» ministeriale. Intanto, coll'ostentato ritorno di Giolitti a Roma, noi siamo costretti ad occuparci della «situazione parlamentare». Siamo, cioè, ricondotti alle nostre miserie. E triste! I colloqui di ieri che cosa significano? Non si sa. Buio pesto, ancora. Noi siamo dei minorenni, degli interdetti. Però, è sintomatico il linguaggio dei giornali austriacanti, a cominciare dalla cirmeniana Stampa di Torino. Erano molto abbacchiati i neutralisti clerico-moderati, l'altro giorno, quando il Consiglio dei ministri decise di prorogare al 20 corrente la riapertura della Camera, perché interpretavano il fatto come il vero e decisivo squillo di guerra. Sono passati quattro giorni e nuove speranze risorgono nei cuori degli incarogniti triplicisti. Secondo loro l'Austria ci farebbe -adesso - delle concessioni tali da accontentare il più frenetico degli imperialisti italiani. Non si precisa nulla, ma si afferma che l'Austria è disposta a darci il «parecchio» di giolittiana invenzione e qualche cosa di più. La possibilità di un accordo non sembra, dunque, definitivamente dileguata: nei circoli politici e parlamentari cui si ispira la Tribuna, ad esempio, si invita il Governo alla prudenza e alla saggezza, cioè all'accordo cogli Imperi Centrali. Sembra però che ci sia un ostacolo insormontabile: il già avvenuto accordo colla Triplice Intesa. Ma i neutralisti inveterati hanno già una soluzione pronta per «bere» l'ostacolo: Sonnino fa come Venizelos e si dimette insieme col Ministero. Il nuovo Ministero - capeggiato, naturalmente, da Giolitti - scinde i patti stipulati colla Triplice Intesa e si rimette a «negoziare» coll'Austria-Ungheria. Questi progetti sono semplicemente criminali. Il «parecchio» che l'Austria sembra incline a concederci in questo momento è un vero e proprio agguato. Sciogliendoci dalla Triplice Intesa, noi saremmo tremendamente isolati ed è molto probabile che invece del «parecchio» ci capiterebbe sul capo la rappresaglia degli austro-tedeschi. Sarebbe il castigo meritato del nostro doppio ed equivoco atteggiamento mercantile. Tutto ciò che qui si è esaminato, è il portato logico e fatale del regime di neutralità. Ci siamo imbastarditi. Demoralizzati. Se la neutralità dovesse durare ancora qualche tempo, il popolo italiano diverrebbe incapace di reggere la prova delle armi. Non si tiene un popolo - per ben dieci mesi - sospeso fra la neutralità e l'intervento, e nelle tenebre più fitte. E tempo di parlare! Perché si ritarda? Lo stato di guerra fra noi e gli austro-tedeschi esiste già. La fuga dei tedeschi che ci liberano dalla loro molesta presenza, l'esodo degli italiani che abbandonano precipitosamente la Germania, sono i dati di fatto della nuova situazione. La guerra «virtualmente» è già dichiarata. E allora che cosa si attende, prima di porre in campo l'esercito d'Italia? Dobbiamo dunque mettere nel novero delle possibilità, quella di un tradimento perpetrato all'ultima ora? Dobbiamo dunque credere che poche decine di medagliettati tedeschi d'Italia, siano capaci di fermare - con una miserabile mossa di «corridoio» - il corso dei nostri destini? E se ciò è assurdo, perché il Governo non tranquillizza una buona volta gli italiani, mettendoli al corrente della situazione? Siamo cittadini o sudditi? 11 maggio 1915

Cittadini alle armi! Viva l'Italia! "Gli eventi incalzano. L'unione degli italiani è ormai un fatto compiuto. Nessuno deve turbarla. Nessuno la turberà. È il segnacolo della vittoria", scrive Benito Mussolini il 21 maggio 1915 (pubblicato da "Il Giornale" il 12/08/2016). "Il parlamento ha detto la sua parola. Non c'è stata l'unanimità ma il numero dei voti di maggioranza è stato comunque imponente grandioso. Nel segreto dell'urna si sono ancora una volta confusi i socialisti ufficiali i preti austriacanti e i giolittiani traditori. Il discorso dell'onorevole Turati è stato ancora una volta amletico. Questo voler far coincidere gli interessi ideali e morali del proletariato colla neutralità è assurdo. Una delle ragioni che consigliavano al Turati tale atteggiamento è caduta. Ora che si posseggono gli elementi i dati di fatto ora che il "Libro verde" è entrato nella circolazione pubblica nessuno nemmeno Turati può accusare il governo italiano di soverchia precipitazione o di richieste eccessive. La verità è precisamente il contrario. Tra il minimum delle domande italiane e il maximum delle offerte austriache è tale e tanta la differenza che nessuna buona volontà nemmeno quella dell'onorevole Turati basterebbe a cancellare. E allora che cosa doveva fare l'Italia? Rimanere nella triplice alleanza accettando il "parecchio" bulowiano e giolittiano? No rispondono i socialisti. Doveva abbandonare forse Trento e Trieste all'arbitrio e alla tirannia dell'Austria? No rispondono moltissimi socialisti. E allora? Da qualunque lato si esamini la questione e noi lo abbiamo fatto in questi mesi non una ma innumerevoli volte la necessità economica politica morale umana dell'intervento italiano è chiaramente provata. Il discorso "elettorale" dell'onorevole Turati appunto perché elettorale è stato infelice. Sarebbe stato facile a Napoleone Colajanni smontare le fragili argomentazioni turatiane. Ad ogni modo la nota del socialismo interventista è stata fatta echeggiare vibratamente dal deputato di Napoli Ettore Ciccotti. Ci ripromettiamo di dare appena ci sarà giunto il testo stenografico del suo discorso. Nelle dichiarazioni dell'onorevole Turati ci sono tuttavia delle promesse. Scoppiata la guerra i socialisti ufficiali non creeranno imbarazzi alla nazione. Faranno il loro dovere. Questo è l'importante. È necessario. Ma occorre che i socialisti lo dicano al proletariato. Occorre che i socialisti diffondano questa necessità imprescindibile del "dovere" nazionale fra le masse campagnuole dove l'herveismo più ignobile ha fatto strage di anime. Altrimenti le dichiarazioni di Montecitorio non avranno efficacia alcuna. Ma è tempo di cessare ogni schermaglia polemica. Gli eventi incalzano. L'unione degli italiani è ormai un fatto compiuto. Nessuno deve turbarla. Nessuno la turberà. È il segnacolo della vittoria. Cittadini alle armi! Viva l'Italia! 21 maggio 1915".

L'Italia è del popolo, non della borghesia. Il popolo italiano dimostra di essere all'altezza dell'eccezionale momento storico, scrive Benito Mussolini il 12 luglio 1915 (Pubblicato sa "Il Giornale il 13/08/2016). A titolo di pregiudiziale, sia pure teorica, esiste in Italia una borghesia, che abbia i requisiti economici, storici, morali e la coscienza dei suoi interessi e della sua missione? C'è in Italia una «borghesia» nel senso marxista della parola? Basta possedere dei mezzi di produzione o di scambio, per acquisire l'onore e l'onere di essere catalogati fra la borghesia? O non ci vuole qualche cosa in più? Io credo dopo tutto che la discussione sia accademica. La critica economica più recente ha fatto giustizia dell'internazionalismo della borghesia, come l'attuale tragica esperienza ha demolito il fragile castello dell'internazionalismo proletario. Ogni Nazione ha la sua borghesia. Il concetto di «borghesia» - come quelli, ad esempio, di razza, umanità ecc. - non è rigido, fisso, riconoscibile, identificabile in ogni tempo e in ogni luogo. Non è una verità geometrica, ma una verità ambientale. Quando io dico triangolo, la mia mente individua subito un poligono che ha tre lati e tre angoli e non può avere che tre lati e tre angoli, ma quando dico «borghesia» io esprimo un concetto elastico, che può avere un «dato» fondamentale, ma caratteri differenziali da tipo a tipo e, qualche volta, antitetici l'uno coll'altro. Pretendere, dunque, di scindere l'umanità in due classi «geometriche» può essere utile ai fini della dottrina astratta, ma la realtà è diversa. Nella realtà varia, multiforme, dinamica, il «tipo» non esiste: tutto è sfumatura e «approssimazione». È solo ragionando per «approssimazione» che si può dividere la società italiana in: popolo e borghesia. Ci sono - per usare una terminologia un po' démodé - i ricchi e i poveri. Quelli che hanno dei «beni» (terreni, fabbriche, case, miniere, bastimenti, coupon, ecc.), e quelli che vivono quotidianamente del loro lavoro e non posseggono nulla. Affibbiamo, ai primi, per semplificare il ragionamento, il titolo «globale» di «borghesia»; comprendiamo gli ultimi nella parola bella e grande di popolo. I confronti sono odiosi, ma, come molte altre faccende odiose, necessari. Ora, la verità, detta senza eufemismi, è questa: mentre il popolo italiano dimostra di essere all'altezza dell'eccezionale momento storico, la borghesia - salvo qualche lodevole eccezione - dimostra nel suo complesso di essere inferiore alla situazione. Noi, dinnanzi al fatto della guerra, abbiamo messo al secondo piano le nostre particolari ideologie politiche per ricordarci di essere italiani e per agire soltanto nella nostra qualità fondamentale di italiani; i «borghesi» antepongono, troppo spesso, la loro qualità di borghesi alla loro qualità di italiani. Esiste una «unione sacra» di popolo, ma la borghesia italiana si estrania volontariamente da questa unione. Il popolo dà tutto, la borghesia dà poco o nulla. Il popolo è generoso, la borghesia è tirchia. Lo spettacolo offerto dalle masse popolari italiane è stato ed è ancora semplicemente meraviglioso. Alle migliaia di umili figli del popolo che si sono rovesciati alle frontiere orientali per offrire il loro sangue all'Italia, dovevano fare degno riscontro le folle dei ricchi che avrebbero dovuto rovesciarsi agli sportelli delle Banche per sottoscrivere - a condizioni, dopo tutto, di favore - il Prestito Nazionale. Ma la borghesia nostrana non fa del patriottismo nemmeno quando sia premiato, coll'interesse abbastanza remunerativo del 4,50 per cento: il contrabbando che continua ancora e al quale si prestano fior fiore di avvocati, di ingegneri e - naturalmente! - di commendatori, dava e dà molto di più. Anche in materia di denaro, è il popolo che dà la lezione e l'esempio alla borghesia pavida e spilorcia. Sembra inverosimile, ma, diceva Casanova, riferendosi ad altra materia, nulla di più vero dell'inverosimile! Agli sportelli va la povera gente: sono i facchini di Savona che investono trentamila lire della loro cassa, nel prestito nazionale; sono i ferrovieri che chiedono - per lo stesso scopo - di poter stornare partite dei loro stipendi; e l'esemplificazione potrebbe continuare attraverso la minuta cronaca delle cento città. La borghesia invece nicchia ed ha bisogno di un pungolo morale, sotto la forma della... dilazione nella chiusura del prestito. Anche le sottoscrizioni nelle diverse città d'Italia sono altrettanti indici segnalatori di questa insufficienza e deficienza politica della borghesia. Eccettuata Milano, che segna i milioni, nelle altre città la sottoscrizione agonizza nelle migliaia di lire. Bologna, ad esempio, città ricca, non è ancora alle 400mila lire; Cremona, facoltosa, non è alle 50mila; né meno irrisoria è la cifra raccolta a Ferrara e Padova, città dove i milionari abbondano. Farò, un altro giorno, delle considerazioni più diffuse sulle contribuzioni date dalle città d'Italia. Ma la realtà che può essere già denunciata è questa: le classi abbienti italiane non offrono alla Patria nemmeno il denaro...E dopo questa constatazione, io aggiungo, che il fenomeno, se non mi sorprende, certamente non mi addolora. Il Governo può, quando voglia, ricorrere ai mezzi energici per trovare il denaro necessario alla guerra, per cui, l'avarizia esosa dei nostri borghesi, non potrà influire menomamente sull'indirizzo e sui risultati della guerra. Ma se la taccagneria borghese rivelasse il proposito sinistro di «sabotare» la guerra, riducendola a una guerra di semplice occupazione territoriale, noi vigileremo perché il piano sia sventato e la prima guerra d'Italia assuma veramente quell'amplitudine morale e materiale che noi abbiamo vagheggiato e voluto. Comunque, quel miscuglio eterogeneo di ceti al quale noi abbiamo dato il nome riassuntivo di «borghesia», si avvia al suicidio. Quei signori non han voluto la guerra: questa guerra non è la «loro» guerra. È la nostra. Ora che la guerra è scoppiata, il popolo dà - con entusiasmo - tutto il suo sangue e tutto il suo denaro; quei signori danno pochissimo sangue e ancora meno denaro. La «borghesia» italiana si esilia dalla Patria nell'ora suprema. Benissimo. È aperta sin da oggi la successione. La Patria di domani, l'Italia di domani, apparterrà di diritto e di fatto, a coloro e soltanto a coloro che hanno offerto alla guerra il denaro ed il sangue. Gli altri - quei signori - saranno violentemente cacciati via dalle loro posizioni «economiche» e politiche. Come l'oggi, anche il domani dell'Italia, sarà del popolo. Gli assenti hanno torto, oggi, ma avranno ancora più torto domani. 12 luglio 1915

"Quale altro esercito terrebbe duro in un conflitto come il nostro?". Uno stralcio tratto da "Giornate di guerra, Alto Isonzo-Carnia-Carso (1915-1917) di Benito Mussolini. "Amano la battaglia questi uomini? No. La odiano? No, l'accettano come un dovere", scrive Benito Mussolini Martedì 2 novembre 1915. Pubblicata su "Il Giornale" il 02/01/2016. Pubblichiamo in questa pagina per gentile concessione dell’editore Leg uno stralcio tratto da Giornale di guerra Alto Isonzo - Carnia - Carso (1915-1917) di Benito Mussolini (pagg. 218, euro 22, a cura e con una postfazione di Mimmo Franzinelli). Il testo di Mussolini non veniva pubblicato dal 1923. L’edizione Leg si avvale del testo originale che uscì durante la guerra sulle pagine del quotidiano Popolo d’Italia ed è accompagnato da un vasto apparato fotografico e di note che consente di contestualizzare appieno lo scritto. Nel passo che abbiamo scelto, Mussolini riflette sulle caratteristiche dei suoi commilitoni e del soldato italiano in generale. "Corridoni è caduto sul campo di battaglia. Onore, onore a Lui! Scrivo alcune righe per il Popolo dedicate alla sua memoria. Ho comunicato la notizia al mio commilitone, il gasista milanese Pecchio. Sulle prime era incredulo. Quando gli ho mostrato la prima pagina del Popolo ha creduto ed ha pianto Nevica rabbiosamente. Tutti i monti sono già bianchi: ordine di affardellare gli zaini e di tenersi pronti per partire. La nostra Compagnia deve sostituire la 9a che si trova già da cinque giorni ai posti avanzati. Dopo due mesi comincio a conoscere i miei commilitoni e posso esprimere un giudizio su di loro. Conoscere è forse troppo dire. Le mie conoscenze sono limitate al mio plotone e un poco alla mia Compagnia. La trincea nell'alta montagna costringe ogni soldato a vivere da solo o con qualche compagno, nella propria tana. Cerco di scrutare la coscienza di questi uomini, fra i quali, per le vicende guerresche, io debbo vivere e chissà... morire. Il loro morale. Amano la guerra, questi uomini? No. La detestano? Nemmeno. L'accettano come un dovere che non si discute. Il gruppo degli abruzzesi che ha per capo o comparo il mio amico Petrella, canta spesso una canzone che dice: E la guerra s'ha da fa, Perché il Re, accussi vuol. Non mancano coloro che sono più svegli e coltivati. Sono quelli che sono stati all'estero, in Europa e in America. Hanno letto prima della guerra qualche giornale. In guerra sono anti-tedeschi e belgofili. Quando il soldato brontola, non è più per il fatto guerra, ma per certi disagi o deficenze ch'egli ritiene imputabili ai capi. Io non ho mai sentito parlare di neutralità o di interventismo. Credo che moltissimi bersaglieri, venuti dai remoti villaggi, ignorino l'esistenza di queste parole. I moti di maggio non sono giunti fin là. A un dato momento un ordine è venuto, un manifesto è stato affisso sui muri: la guerra! e il contadino delle pianure venete e quello delle montagne abruzzesi, hanno obbedito, senza discutere. Nei primi tempi della guerra, i bersaglieri hanno valicato il confine, cogli inni sulle labbra e la fanfara alla testa dei battaglioni. Dopo due mesi di sosta a Serpenizza, venuto finalmente l'ordine di riprendere l'avanzata, i bersaglieri hanno conquistato al passo di corsa, malgrado un turbine di cannonate la Conca di Plezzo e si sono trincerati a quattrocento metri oltre la città, che gli austriaci hanno poi quasi completamente distrutta colle granate incendiarie. Quando i bersaglieri narrano gli episodi di quell'avanzata, vibra ancora nelle loro parole la soddisfazione e l'entusiasmo della conquista. La vita di trincea monotona e aspra contrassegnata soltanto dallo stillicidio quotidiano dei morti e feriti, indurisce i soldati. Parlar loro non si può. Riunire gli uomini, in prima linea, per tener loro un discorso, significa esporli a un sicuro immediato massacro da parte dell'artiglieria nemica. È il nemico, la presenza del nemico che spia e spara a cinquanta, cento metri, ciò che tiene elevato il morale dei soldati: non i giornali che nessuno legge; non i discorsi che nessuno tiene...Sono religiosi questi uomini? Non credo troppo. Bestemmiano spesso e volentieri. Portano quasi tutti al polso una medaglia di santo o madonna, ma ciò equivale a un porte-bonheur. È una specie di mascotte sacra. Chi non paga il suo tributo alle superstizioni delle trincee? Tutti: ufficiali e soldati. Lo confesso: porto anch'io nel dito mignolo un anello fatto con un chiodo di ferro di cavallo...Questi soldati sono nella loro grandissima maggioranza solidi, sia dal punto di vista fisico che morale. Se il vecchio Enotrio Romano tornasse al mondo, dinanzi a questi uomini meravigliosi nella loro tenacia, nella loro resistenza, nella loro abnegazione, non direbbe più come un tempo: La nostra Patria è vile! Quale altro esercito terrebbe duro in una guerra come la nostra? Martedì 2 novembre 1915".

Viva le bandiere rosse della rivoluzione. Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie, scrive Benito Mussolini il 5 luglio 1917, (pubblicato da "Il Giornale" il 14/08/2016).  Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie che dopo aver sventolato una prima volta nelle strade e nelle piazze di Pietrogrado in un pallido nevoso mattino di primavera, sono diventate oggi l'insegna dei reggimenti che il 1° luglio sono andati all'assalto delle linee austro-tedesche in Galizia e le hanno espugnate. Io m'inchino davanti a questa duplice consacrazione vittoriosa, contro lo zar prima, contro il Kaiser oggi. Non soluzione di continuità fra le barricate e le trincee; fra il sacrificio cruento per abbattere la tirannia interna ieri e lo sforzo ancora sanguinoso per infrangere la tirannia esterna di uno Stato di predoni e di assassini. L'antitesi, non necessaria, anzi artificiosa fra la rivoluzione e la guerra è composta. Io non ho mai disperato, definitivamente. Non ho mai creduto che la Russia repubblicana volesse perdersi. Le vicende tempestose e complesse di questi mesi possono aver prodotto delle oscillazioni sulla valutazione della situazione russa. Se l'imperversare di Lénine e dei suoi gregari, spinse l'opinione pubblica occidentale al pessimismo, una voce profonda, un senso d'intuizione, ritornava la mente all'ottimismo ed io chiedevo ai miei amici che volessero «accordare un po' di credito morale e politico» alla giovane repubblica slava. C'è dell'impazienza nel mondo: ecco spiegata la ragione di molti giudizi ostili sulla nuova Russia. Non più tardi d'ieri, Francesco Coppola - il leader filosofico del nazionalismo italiano - si gettava sulla Rivoluzione russa con tutte le collere e le esasperazioni di un uomo che ha bevuto e si è ubriacato di De Maistre e che non ammette altre forme di convivenza politica e di disciplina sociale, all'infuori di quelle del pre '89. L'onorevole Pantaleoni, in un articolo sulla Vita Italiana, rivelava, a proposito della Russia, il suo animo ardente per la corda insaponata. Entrambi sbofonchiavano la stasi dell'esercito russo, e ne rendevano responsabile la Rivoluzione. Ecco gli avvenimenti smentire clamorosamente la tesi reazionaria del nazionalismo e la tesi non meno reazionaria di Zimmerwald. Lungi dall'averne diminuita l'efficienza morale, la Rivoluzione ha esaltato le energie e la combattività dell'esercito russo. Non c'è forse nel proclama di Kerensky un'eco, non attenuata dalla distanza, di quegli ordini del giorno travolgenti che spingevano alle battaglie «l'esercito scalzo cittadino» di Francia e lo lanciavano alle calcagna dei re congiurati contro la Rivoluzione? E nelle «ondate» che si sono avvicendate il 1° luglio sulle trincee nemiche di Galizia, non trovate, voi, quello stesso impeto eroico, quello spirito di abnegazione sino alla morte, che infiammava i sanculotti a Valmy? E Kaniuchi, l'oscura borgata galiziana, non avrà la sua luce di gloria, come il villaggio francese? Ma insieme colla tesi nazionalista, fatta a pezzi dal risveglio moscovita, ecco Zimmerwald che più si avvolgeva nel sudario della sua sterilità. Lénine ha chiamato il popolo di Pietrogrado a raccolta, proprio alla vigilia dell'offensiva, ma non ha potuto impedire l'evento. Il tentativo è stato fatto, in forme più modeste e superficiali, anche in altri paesi, ma con identico risultato. Il contadino russo, che aveva abbandonato le trincee per andare alla terra, per prendere possesso una volta per sempre della terra, ha compreso coll'orientazione profonda delle anime non inquinate dalle teologie terrestri e divine, che la pace separata sarebbe stata un tradimento e che la pace universale non era possibile senza la disfatta della Germania. Una voce misteriosa, ma suaditrice, pareva dire al mugic russo: se tu non allontani la minaccia tedesca, le terre non saranno tue. Domani, i nuovi padroni, ridaranno il potere agli antichi, e la tua schiavitù sarà saldata con un nuovo anello più pesante di quello che hai spezzato. Kerensky ha raccolto queste voci segrete, le ha fuse e confuse insieme; ha ridato un'anima a un organismo che non si disfaceva - come pensavate voi reazionari di tutte le scuole! - ma presentava soltanto gli inevitabili disordini, le esuberanze e - perché no? - le follie della giovinezza ritrovata; e quest'organismo - oggi - è in grado di compiere lo sforzo vittorioso segnalato dalle cronache militari. Chi avrebbe detto che un giorno le bandiere rosse sarebbero state concesse in premio ai reggimenti vittoriosi? Le bandiere rosse piantate sulle trincee galiziane hanno il valore estremo di un simbolo. È la Rivoluzione che non teme la guerra; è la guerra che salva la Rivoluzione. È la fatica che si sostituisce all'ignavia, il movimento che uccide l'inerzia, è l'azione che fa giustizia di tutte le parole inutili, è il sangue, necessario ancora e sempre, per fecondare le forme superiori della vita. Dopo il periodo della «fraternizzazione», le truppe russe insegnano ai servi del Kaiser, coll'unico argomento possibile ed efficace: il cannone, come si battono i popoli per salvaguardare la loro e la libertà del mondo. Un anno fa, noi sentimmo il trotto serrato dei cosacchi risuonare verso le strade dell'Occidente e nel cuore sobbalzarono le speranze: oggi è il passo grave dei battaglioni di Kerensky che suscita la nostra commozione. È la Russia che torna all'Occidente e all'Europa. Le bandiere colle aquile imperiali non resisteranno alle bandiere rosse della Rivoluzione. Bandiera rossa la s'innalzerà anche sul castello di Potsdam quando gli eserciti della Rivoluzione e delle democrazie occidentali avranno schiantato la Germania degli Hohenzollern e di Scheidemann. Nessun'altra via è aperta. Non v'è altro mezzo. Quel giorno, correranno pel mondo gli entusiasmi che salutarono la caduta della Bastiglia. Bisogna serrare i denti, irrigidire i muscoli, cementare le anime, non vedere, non volere, non tendere ad altro scopo: vincere. Per la libertà delle Nazioni, delle moltitudini. Fu detto che questa è una guerra rivoluzionaria: ecco, infatti, le bandiere rosse alla testa degli eserciti. Presentiamo le armi ai soldati della Rivoluzione. A quella che ha trionfato in Russia e riceve oggi, sui campi di Galizia il crisma sacro della vittoria. 5 luglio 1917 

L'enciclica del Papa e il morale dell'Italia, scrive Benito Mussolini il 18 agosto 1917 (pubblicato da "Il Giornale" il 16/08/2016). "Noi torniamo, con deliberato proposito, sull'ultima parte della nota pacifista del Vaticano, perché ci sembra che nei commenti della stampa italiana l'importanza e la gravità e il pericolo estremo di quella parte del documento pontificio non sian stati afferrati e posti nel dovuto rilievo. Si tratta del più grande atto di sabotaggio della nostra guerra di difesa e di rivendicazione nazionale che sia stato perpetrato dal maggio del 1915. Zimmerwald, Kienthal, Stoccolma, se ci sarà; tutte le agitazioni passate e future in senso pacifista intraprese dai socialisti ufficiali italiani, possono essere considerate insignificanti e superficiali, a paragone della perorazione abile e suggestiva della nota di Benedetto XV, nella quale è incastonata questa frase terribile: «La guerra rivela sempre più il suo carattere d'inutile strage». Si noti. Anche prima di adesso, il papa, nelle sue encicliche e nelle sue allocuzioni ai fedeli, aveva deprecato e condannato la guerra, ma a questa deprecazione e condanna, intesa in ordine generico o universale, tutti gli uomini «umani» potevano aderire. Oggi, il caso è sostanzialmente diverso. Il papa condanna «questa» guerra e in un documento politico destinato non soltanto ai governanti, ma ai popoli. La condanna, oggi, che nuove forze immense vengono dai continenti d'America e d'Asia a giustificare, a consacrare - se ve ne fosse bisogno - la «utilità» di questa guerra; ad assicurare la nostra vittoria, a garantire la «nostra» pace. Il pontefice, alle popolazioni che hanno sofferto durante tre anni e sono, malgrado tutto, decise o rassegnate agli altri inevitabili sacrifici necessari per vincere, getta non una parola di consolazione, ma una parola di cupo pessimismo; non un balsamo, ma un tossico, poiché se la strage rattrista, proclamarne dall'alto della Cattedra Santa l'inutilità perfetta, significa centuplicare la somma del dolore umano e esasperarlo fino alla rivolta. All'indomani della conferenza di Londra e delle intese fra gli Alleati e dei discorsi dei ministri responsabili; nel momento in cui gli eserciti dell'Occidente reggono da soli il peso delle armate teutoniche, e si accingono a sforzi maggiori per ricacciarle dal suolo sacro e contaminato del Belgio, il pontefice giudica la guerra dal punto di vista dell'«utilità», mentre per gli Alleati si tratta d'una «necessità». Oggi, come all'inizio del conflitto. Prima di essere «utile» è «necessario» difendersi dagli assassini tedeschi e ridurli all'impotenza. È stato detto e ripetuto, qui e altrove, che per l'Italia il problema della maggiore o minore durata della guerra, era un problema di resistenza «morale». Orbene, domandiamoci senza tanti falsi rispetti: quale contributo al «morale» della Nazione offre Benedetto XV quando dichiara che la guerra è oramai soltanto un'«inutile strage»? Dal vertice della piramide cattolica rappresentata dal papa, alla base, dove stanno milioni di credenti, attraverso la gerarchia secolare, ferreamente disciplinata nella formula del perinde ac cadaver degli ignaziani, la parola del Vicario di Cristo giunge dovunque, dalle città agli ultimi casolari della campagne. Tutta un'organizzazione formidabile, in parte religiosa, in parte profana, giovandosi di mezzi a volta a volta spirituali e materiali, diffonde per mille vie aperte e sotterranee, sino alle estreme lontananze, il verbo che parte dal Vaticano. Le madri che non vedranno più tornare il figlio o quelle che trepidano nell'attesa dell'ignoto, i soldati che si macerano nelle trincee, i credenti che oggi impugnano i fucili, dinanzi all'affermazione del papa chiederanno a se stessi: perché soffrire? Perché combattere? Perché morire? Tutto ciò è inutile. È la strage per la strage. Il massacro per il massacro. Il sangue versato e quello che dovremmo versare ancora è infecondo, come il seme gettato sulla mobile sabbia del deserto. Lo dice il papa. Lo dice Iddio. Ma queste domande ne suscitano altre. Se questa strage è inutile, perché i re, i governi, i generali non vi pongono fine? La parola del papa, essendo per i credenti la parola di Dio, annulla tutte le dichiarazioni e l'opera dei governi, intese a dimostrare la necessità della guerra e la necessità della vittoria. Colla sua frase il pontefice ha creato o acutizzato il dissidio fra lo spirito dei cristiani e quello dei governi nazionali. Se il cristianesimo suscitasse ancora gli entusiasmi e la volontà di martirio dei primi secoli della chiesa è certo che i soldati cattolici deporrebbero le armi per obbedire alla parola di Cristo. Non si giungerà a tanto, perché accanto alla fede nel papa altri impulsi si agitano e un oscuro intuito guida le moltitudini, ma non v'è dubbio che l'enciclica papale avrà conseguenze sul morale della Nazione e dei combattenti. In Italia, dove il clericalismo non ha accettato la guerra nazionale, ma l'ha subita e spesso l'ha insidiata nelle forme più subdole; in Italia, dove altre forze tendono a debilitare l'animo della popolazione e dei soldati, la parola del papa rappresenta - in se stessa - un pericolo grave. Essa minaccia di far apparire agli ingenui e ai semplici i governanti della Quintuplice, da Wilson a Kerensky, come degli assetati di sangue, che, più mostruosi di Nerone, si rallegrano della strage inutile e la vogliono prolungata all'infinito. Occorre vigilare. Benedetto XV, con una menzogna demagogica, ha giustificato tutta l'opera sabotatrice di ieri e ha dato alle turbe una parola d'ordine, che, se fosse raccolta, aprirebbe ancora la strada al trionfo della Germania. 18 agosto 1917”.

Caporetto, sconfitta che va restituita. Un anno dopo Caporetto, alla vigilia di Vittorio Veneto, Benito Mussolini pubblicava questo articolo sul Popolo d'Italia, scrive Benito Mussolini il 24 ottobre 1918 (pubblicato da "Il Giornale" il 20/08/2016. Un anno dopo Caporetto, alla vigilia di Vittorio Veneto, Benito Mussolini pubblicava questo articolo sul Popolo d'Italia. "Un anno è passato, dodici mesi ricchi di eventi come dodici secoli ma noi cittadini italiani non sappiamo ancora come fu. Su la rotta oscura di Caporetto la Commissione di inchiesta non ha gettato alcun fascio né grande né piccolo di luce. Era da prevedersi. Le inchieste in Italia sono fatte perché c'è l'abitudine di farle. È un mezzo per mettere «in tacere» le cose specialmente ingrate. Le inchieste italiane non scoprono ma affogano le responsabilità. Ebbene non ce ne importa. L'on. Orlando può sciogliere quella Commissione di valentuomini. Tanto non ci farà sapere più di quanto si sappia. Sistema tristissimo degno della vecchia Italia che non ha avuto ancora il coraggio di pubblicare i bollettini nemici e la lista delle nostre perdite. Non sembri un paradosso ma io affermo che ai fini della Nazione non si è «sfruttato» abbastanza Caporetto. Una sciagura può essere utile come un colpo insperato di fortuna. À quelque chose malheur est bon opinava il vecchio fabulista francese. Ma perché Caporetto desse tutti i frutti che poteva dare bisognava scolpirne le linee nel cuore e nella coscienza degli Italiani. Non frasi ma cifre. Non attenuazioni del disastro ma piuttosto amplificazioni. Non anonimia vaga delle responsabilità ma individuazione con nome cognome e al caso plotone d'esecuzione. Chi di noi non ha sentito cadere e morire qualche cosa nel profondo del cuore durante la settimana che va dal 24 ottobre al 1º novembre? Diciamo oggi che non fummo sorpresi. Nelle retrovie e all'interno dominava l'ottimismo degli incoscienti nutriti di frasi. Ma chi era stato lassù, chi aveva vissuto lassù - soldato fra i soldati - immedesimato compenetrato in quel mondo - aveva notato da tempo le fenditure nella compagine. Era un lento processo di erosione. Qualche cosa si sfaldava. I soldati! Chi se ne ricordava più? Erano o sembravano assai lontani oltre un fiume che, sino alla vigilia della guerra, era perfettamente ignoto alla maggioranza degli Italiani. La Nazione invece di un contegno severo di guerra si esibiva ai ritornanti dalle trincee specie nelle città in una veste di urtante frivolezza. Curioso! Si pretendeva di conservare l'andamento della vita normale per una metà della Nazione mentre l'altra metà era condannata ad una anormalità terribile nella vita e nella morte. Stati d'animo di negazione si erano formati nelle masse profonde. Quando a precipitare la crisi giunsero gli episodi della nostra politica interna dell'agosto. Alle soglie dell'inverno dal Vaticano e dal Parlamento partirono voci di sfiducia, consigli di sedizione e di resa. Quelli che nelle due capitali di guerra e di pace - Udine e Roma - avrebbero dovuto avvertire i sintomi della crisi ignoravano o fingevano di ignorare. L'Italia era affidata a un vecchio che non aveva - ahimè! - la stoffa di Clemenceau. La situazione verso la metà d'ottobre era questa: la Nazione era estranea all'Esercito; l'Esercito stava per rendersi estraneo alla Nazione. La disfatta di Caporetto è la disfatta della Nazione. La rivincita di Caporetto è la rivincita della Nazione. Ed ecco da qualche tempo le voci che incitano all'oblio. Caporetto è un ricordo noioso e molesto. Tutti gli eserciti hanno avuto Caporetto. Dopo Caporetto c'è il Piave. Dimentichiamo. No. Non bisogna dimenticare. Bisogna vivere di questo ricordo. Come i romiti della Trappa che si ricordano vicendevolmente l'ineluttabilità della morte così gli Italiani dovrebbero nelle ore grigie del dubbio e anche in quelle della sorte lieta ricordarsi di Caporetto. Non consoliamoci col pensiero di quanto può essere capitato ad altri eserciti. È una consolazione da femminette superficiali. I popoli forti sanno guardare in faccia al loro proprio destino. Roma repubblicana non nascose a se stessa quella grande Caporetto che fu la battaglia di Canne. La utilizzò per tendere sino al possibile l'arco delle energie. Il bruciore rovente di una percossa può stimolare - muscoli e nervi - alla rivincita. C'è stata la nostra rivincita? Non ancora. Non siamo ancora tornati là dov'eravamo. Ed eravamo andati molto innanzi oltre il fiume sui monti verso Trieste, verso Trento. Dalle quote sabbiose del Carso si vedeva nei mattini chiari spazzati dalla bora Trieste biancheggiante fra monte e mare nel suo arco di case. Noi soldati finivamo per amare le nostre «quote». Dietro le «doline» brulicavano o stavano nell'immobilità trogloditica della trincea gli uomini mentre una vita tragica e primitiva uguagliava i giorni e le notti senza data e senza fine. Visioni indimenticabili! Ecco il Podgora spelato, il Sabotino lugubre, il San Michele bianco di ossa. Gorizia bella nella pianura verde e luminosa e i cimiteri continui lungo l'Isonzo. Poi il Sei Busi e il bastione pauroso di Seltz. L'altipiano di Doberdò. Il Vallone. Quota 144 col suo cimitero tormentato. Io chiedo a coloro che ci sono stati e che evocando i nomi del deserto di pietra devono sentire la mia stessa emozione: «Non vi pare che la parte più intima di noi stessi sia rimasta oltre Isonzo?» Sì perché là sono rimasti i nostri. L'immagine di quei luoghi è così netta nel mio spirito che io saprei riconoscere le pietre ad una ad una. Dormono là i soldati dei reggimenti magnifici che puntavano su Trieste. Due anni di battaglie, due anni di vittorie e di gloria! Quando pareva che si dovesse intraprendere l'ultima tappa ecco annullato in poche ore tutto ciò ch'era costato infinito sangue, infinito sacrificio. Eravamo alle porte di Trieste gli austriaci giunsero alle porte di Venezia... Non sono passati. Non passeranno più. Ma sono ancora sul Piave. Caporetto è vendicato soltanto a metà. Bisogna compiere l'ultimo sforzo. Difendersi non basta. Non si può attendere la pace sul Piave. Chi può ci dia i mezzi per osare. Per attaccare. Per ripagare gli austriaci. Per restituir loro Caporetto ma in proporzioni ancora più rovinose. La parola d'ordine di questo primo anniversario eccola: restituire Caporetto al nemico! Un anno fa Carlo e Guglielmo s'illusero di mettere fuori di combattimento l'Italia. Non ci riuscirono malgrado il colpo tremendo. L'Italia è in piedi ed ha il coraggio di ricordare, di notomizzare la sua disfatta mentre si accinge a saldare i conti con l'Austria-Ungheria. Date in questo momento, date presto una Caporetto agli Absburgo. Noi ci siamo ripresi perché siamo un popolo che ha un passato ed avrà un avvenire; ma con una quarta Caporetto la vecchia monarchia senza popolo non si rialzerà più. Fiamme nere. Fiamme rosse a voi! Cinque anni! Cinque anni di guerra mondiale! Ma ecco la Pace come noi la volemmo: vittoriosa. Ecco la Pace come noi la vorremmo: giusta. Ecco la pace che reca in una mano l'olivo e nell'altra l'edera repubblicana. La Germania che aveva dichiarato la guerra al genere umano è percossa a morte. È in ginocchio. La costruzione bismarckiana è tutta una rovina. Dov'è il Kaiser? Forse su una delle più deserte strade dell'Olanda. Dove sono gli altri re e principi del vivaio tedesco? Scomparsi. Fuggiti. Non dall'interno ma dall'esterno è venuta e verrà la salute del popolo tedesco. Coi cannoni e con le baionette dei liberi popoli quello che si riteneva il popolo eletto si contenterà d'ora innanzi di essere uguale se non inferiore agli altri. Ecco oltre alle rivendicazioni nazionali l'obiettivo più alto della guerra. Bisogna essere degni della pace come siamo stati degni della guerra e della vittoria. Bisogna pur nella gioia, pur nel grido irrefrenabile e umano della contentezza avere senso supremamente religioso di questa ora. È l'ora in cui il destino batte col suo martello d'oro alle porte del silenzio e chiama i nostri caduti alla seconda vita della immortalità. È l'ora in cui la Coscienza addita i più aspri doveri e segna le vette luminose verso le quali bisogna andare portando nel cuore l'odio necessario per nutrire il più grande amore. È la pace! In alto i cuori! Con dignità, con disciplina, con fede fermissima nei destini della Patria e del Mondo. 24 ottobre 1918".

Amate i profughi, sono l'Italia dolorante. Dobbiamo spezzare con loro il nostro pane. Sono i fratelli percossi dalla sventura, scrive Benito Mussolini il 28 novembre 1917 (pubblicato da "Il Giornale" il 17/08/2016). “Non basta soccorrere i profughi che i treni e le tradotte dal Veneto rovesciano ogni giorno a migliaia e migliaia nelle nostre città. Bisogna comprenderli. Non basta comprenderli: bisogna amarli. La ospitalità dev'essere - soprattutto - amore. La commiserazione che si esaurisce nella serie delle interiezioni esclamative non è di un popolo forte. La pietà in se stessa può apparire pesante e ingrata a chi riceve. Quasi sempre il gesto della mano che porge nobilita l'offerta anche se esigua. Bisogna amare i profughi. È il comandamento di quest'ora. Amarli come si ama l'Italia. Essi sono l'Italia viva e dolorante. Dobbiamo spezzare con loro il nostro pane. Sono nella nostra famiglia i fratelli percossi dalla sventura. Non hanno più nulla. La loro casa dov'è? Qualcuno volgendosi indietro nella fuga precipitosa l'ha vista già preda alle fiamme. Quasi tutti non sperano più di ritrovare ancora una casa quando l'ora del ritorno sarà suonata. Bisognerà ricostruire dalle fondamenta. Non c'è da nutrire illusioni - dopo l'esperienza triennale della guerra - sulla longanimità sulla civiltà dei barbari culturizzati. Tutto ciò che i loro complici dell'intervento vanno cautamente propalando è pura sfrontata menzogna. Deserto nei campi rovine nei paesi: ecco la sorte che attende il Friuli dolce e sacrificato. Tutti i profughi non hanno più nemmeno una famiglia. Il ciclone improvviso ha separato violentemente ha sbalestrato agli opposti orizzonti i componenti delle famiglie. Ora si «cercano». Ci sono delle madri che ricercano i figli dei figli che domandano notizie delle madri. L'esodo è stato così repentino e tumultuoso che le famiglie sono state sommerse nella moltitudine senza nome. Ci sono migliaia di «dispersi». La marcia al di là dei fiumi verso il suolo della Patria non minacciato ha le tappe segnate di morti. Sono stati travolti dalle acque o la pioggia e il freddo o la fame li ha uccisi o sono stati straziati dalle bombe e dalle mitragliatrici degli aeroplani tedeschi. Queste folle dolenti sono state lasciate per giornate e notti intere lungo i binari morti delle stazioni o abbandonate nell'aperta campagna alla sete al freddo alla fame. Dopo viaggi interminabili sono giunte fra noi. Ma la loro odissea non è finita; si può dire che comincia. Fra le mura della grande città si sentono ancora «disperse». La grande città può sembrare loro egoista. Non vedono i segni evidenti di una partecipazione al loro dolore. La gente le guarda appena. E forse in questo grande mare umano in movimento dalla mattina alla sera esse sentono più acutamente la loro condizione di naufraghi. Ma nelle grandi città l'egoismo è nelle cose. Viviamo stretti pigiati accatastati in questi alveari in queste caserme; siamo - pur vivendo nella stessa casa allo stesso piano - estranei gli uni agli altri. Nelle nostre case moderne non c'è posto non ci sono i focolari imponenti come nel Friuli. Il nostro spazio è misurato le scale non uniscono più; i cortili fra le mura grige rassomigliano a quelli delle prigioni. Ma nelle vecchie città di provincia l'ospitalità per i profughi - l'ospitalità della casa - è più facile. Le case non sono moderne. Non sono sempre brutte scatole di pietra. Mancano del comfort medio-borghese ma sono grandi. Il posto per i nuovi venuti c'è sempre. Ed è la casa che i profughi cercano con un desiderio fatto di nostalgie e di rimpianti. Date le case ai profughi! Requisite gli appartamenti vuoti; requisite - almeno! se non avete il coraggio di misure più radicali - gli appartamenti le ville le fabbriche gli alberghi dei sudditi nemici. Ma soprattutto non fate della burocrazia dinanzi ai bisogni primordiali della vita. Non avvelenate il soccorso. Che importa il denaro se è accompagnato da una smorfia di indifferenza di noia? Non bisogna stupirsi né tanto meno irritarsi se qualche volta accade che i profughi siano insistenti o si lagnino e esagerino... È umano. Non tutti sanno affrontare la rovina con animo fiero. Molti si accasciano. Il passaggio tra l'ieri e l'oggi è stato troppo rapido e tempestoso. L'equilibrio delle anime è profondamente turbato. Un po' di tempo dovrà passare prima che sia ristabilito. Ma soprattutto l'amore nazionale deve andare con predilezione maggiore verso i profughi che sono più profughi degli altri. Verso quelli che non hanno parenti conoscenti amici: che non hanno nessuno. Sono costoro che devono sentire onnipresente fraterna devota la solidarietà della Nazione che li protegge li soccorre li fa suoi. Si cerchi che questa solidarietà acquisti il meno possibile l'aspetto odioso di una elemosina timbrata e burocratizzata. Forse un po' di burocrazia è inevitabile. Ma accanto alla burocrazia al disopra delle sue pratiche dei suoi numeri dei suoi sussidi deve esserci caldo il soffio dell'amore. L'invasione nemica deve renderlo più delicato e profondo deve stringere più forte il vincolo fra le genti che vivono dalle Alpi alla Sicilia oggi affratellate nel comune dolore e nel comune proposito di lottare e di vincere; unite domani nella esultanza e nella riconsacrazione della Patria riconquistata sino a Trieste! 28 novembre 1917”

Bisogna osare: la vittoria è audacia. Io credo che sia urgente introdurre sempre più decisamente l'elemento qualitativo in questa enorme guerra quantitativa, scrive Benito Mussolini il 13 giugno 1918 (pubblicato da "Il Giornale" il 18/08/2016). "Il Capitano di Corvetta Luigi Rizzo con 16 uomini d'equipaggio partì da Ancona su due motoscafi italiani (mas) per perlustrare le coste dalmate. Alla altezza di Premuda la mattina del 10 giugno 1918 incontrò una divisione austriaca composta di due «super-dreadnoughts» (S. Stefano e Tegetthoff) e da 10 navi leggere: i due «mas» italiani osarono affrontare la divisione austriaca riuscendo ad affondare la S. Stefano e a danneggiare altre unità. A questa impresa - che ha del leggendario per la sua temerarietà - è destinato il presente articolo pubblicato sul Popolo d'Italia del 13 giugno 1918. La nuova audacissima impresa del marinaio Rizzo e dei suoi compagni mi richiama alla mente un ordine di considerazioni che manifestai per la prima volta a Genova in una riunione molto simpatica di operai e più tardi al Teatro Comunale di Bologna: le considerazioni sulla guerra qualitativa. Io credo che sia urgente introdurre sempre più decisamente l'elemento qualitativo in questa enorme guerra quantitativa. Credo che il fattore qualità debba prendere una parte dominante nel gioco bellico che è stato sinora quantità; quasi esclusivamente quantità. È un fatto che la Germania non solo ci ha imposto la guerra ma ci ha costretti a subire i suoi metodi di guerra, la sua mentalità di guerra. Noi non abbiamo introdotto nessuna novità. A una guerra di posizione abbiamo risposto con una guerra di posizione, a una guerra di masse con una guerra di masse. Non siamo mai stati in anticipo sulla Germania. Abbiamo adottato l'impiego su vasta scala dei gas asfissianti dopo che i tedeschi li avevano lanciati in una diecina di battaglie. Così per i lancia-fiamme. Siamo giunti a selezionare le truppe di fanteria per costituire reparti speciali d'assalto molto tempo dopo che la Germania aveva creato le sue Stosstruppen (truppe d'urto). Nella condotta della guerra da parte della Quadruplice Intesa c'è stata una sola novità: i tanks inglesi o carri d'assalto. Ma sembra che ci si sia fermati a metà. La Quadruplice Intesa poteva trarre un rendimento altissimo dall'aviazione; ma anche in questo campo hanno veduto più lontano i giornalisti e i poeti che gli uomini di Governo responsabili. La nozione della guerra qualitativa o integrale, della guerra che cerca e attua con esasperazione ostinata tutte le novità grandi o piccole che possono avvicinare il giorno della vittoria, non è apparsa che molto tardivamente e vagamente alla intelligenza dei governi. Molti degli uomini che ci governano hanno una mentalità statica. Sono paurosi delle novità. Il «rischio» non li attira. Anche la convinzione che la guerra sarebbe stata breve ha «pesato» sul modo col quale la guerra è stata condotta. Io vorrei fare questa affermazione di massima: vincerà la guerra quel gruppo di belligeranti che più presto e più profondamente tramuterà il carattere della guerra e convertirà in guerra di guerrieri consapevoli e pronti a tutto ciò che è stato sino ad ora fatica e sacrificio di masse rassegnate. I mezzi materiali e morali per giungere a queste trasformazioni esistono. Bisogna far vibrare certe corde. Bisogna mettere nel giuoco carte d'ordine materiale e carte d'ordine morale. Bisogna convincersi che un individuo cosciente e coraggioso vi dà il rendimento di cento e che viceversa cento individui ignavi o vigliacchi non vi danno il rendimento di uno solo. Io sono d'avviso che invece di saturare le trincee con elementi negativi fisiologicamente e spiritualmente sia più utile e redditizio ai fini della guerra di moltiplicare gli strumenti meccanici affidati a uomini che facciano la guerra con convinzione e con passione. Il macigno è la massa la mina è la volontà. La mina fa saltare il macigno. Ponete una volontà di acciaio tesa e implacabile contro una massa e voi riuscirete a sgretolare la massa. Le leggi della fisica sono universali. Voi potete far «leva» anche sugli uomini come fate «leva» sulle cose inerti. Le masse umane hanno la stessa «inerzia» delle masse inorganiche. Il «datemi un punto d'appoggio e vi solleverò il mondo» è vero anche e soprattutto forse nel mondo dello spirito. Si tratta di trovare un punto d'appoggio. Quello che Schuré ha chiamato «i grandi iniziati» hanno trovato questo punto d'appoggio; Buddha Cristo Maometto hanno trovato un punto d'appoggio e hanno sollevato tre mondi. Torniamo alla guerra. Una domanda: «È fatale che questa guerra sia massa inerzia numero quantità e non possa essere niente di diverso?» Lo escludo. Spetta a noi latini e anglo-sassoni introdurre la qualità nella quantità. Se la nostra genialità non è una fola qui dovrebbe mostrarsi. Ora la guerra moderna si presta magnificamente alla valorizzazione, alla utilizzazione prodigiosa delle qualità umane individuali. Pensate a un aviatore che riuscisse a gettare una bomba sulle centrali elettriche che danno la forza alle officine Krupp. Pensate a Rizzo e ai suoi compagni. In pochi hanno vinto una battaglia. Per lanciare un siluro non c'è bisogno di essere in molti: basta un uomo. E un siluro manda a picco una corazzata. Gli ordigni di guerra moderni - per la loro potenzialità distruttiva che ha del fantastico - offrono in se stessi un premio all'audacia. Gli audaci sanno che se il colpo riesce il colpo è buono. Il gioco vale la candela e franca la spesa. Tra il rischio di sacrificare un manipolo d'individui e la possibilità - sia anche in proporzioni modeste - di inferire un colpo terribile al nemico è il secondo elemento quello che deve orientare l'azione. Valorizzare l'individuo. Non frenare gli audaci. Non lasciare nulla d'intentato. Non rifiutarsi a nessun rischio, a nessun pericolo. Non far prevalere i criteri statici della burocrazia sugli impulsi dinamici degli individui. Bisogna fissare a priori questa verità: non c'è nulla d'impossibile! Per un signore che sta chiuso in un ufficio di Roma può sembrare a priori impossibile forzare una scorta di torpediniere e silurare due corazzate austriache: per Rizzo è stato possibile. Possibile perché è stato tentato, perché esisteva la volontà di tentare. L'azione ha ragione degli schemi consegnati nei libri. L'azione forza i cancelli sui quali sta scritto «vietato». I pusillanimi si fermano, gli audaci attaccano e rovesciano l'ostacolo. 13 giugno 1918"

Io voglio essere l'"uomo del dopo". Nella vita bisogna essere sempre "quello di dopo" non mai "quello di prima", scrive Benito Mussolini l'11 agosto 1918 (pubblicato su "Il Giornale" il 19/08/2016). "Il cambiamento del sottotitolo del mio giornale, è piaciuto a moltissimi. Non erano pochi quelli che lo attendevano. Mi sono giunte lettere significative di simpatia, soprattutto dalle trincee. Il grosso pubblico non ha l'obbligo di sapere che da parecchi mesi io avevo deciso di togliere l'etichetta inutile e quindi pericolosa. Coloro che mi leggono non sono stati sorpresi, non potevano esserlo. Ricordate il mio articolo di primo maggio: «Il fucile e la vanga»? Non era che il preludio dell'ultima «Novità». Solo i disgraziati che non hanno vibrazioni intellettuali, solo gli impotenti che sono negati alla gioia divina della creazione spirituale, solo gli ignavi che rifuggono da ogni sforzo quando segni una variazione nella loro consacrata e idiotissima routine, solo questi lamentevoli mezzi uomini che hanno bisogno di riempire col tritume dei vecchi clichés il loro cranio minuscolo, solo costoro potevano e dovevano abbozzare la smorfia inintelligente o sibilare la loiolesca malignazione. Pietà per costoro e galera, se occorre! Da tempo io domandavo a me stesso: che cosa è il socialismo sotto la specie delle dottrine economiche, filosofiche e politiche? Che cosa è il socialismo sotto l'aspetto della sua attività pratica e quotidiana? Esiste ancora un socialismo? O come opina l'amico mio Lanzillo in un vient de paraître presso «La Voce» e del quale mi occuperò fra poco, è quella subita dal socialismo politico europeo una grande, irreparabile disfatta? Per quanto capace di lunghe meditazioni, io non trovavo una risposta soddisfacente a queste domande. Credo che i socialisti stessi, quelli che portano la tessera nel portafoglio, accanto ai bigliettoni di grosso taglio guadagnati talvolta colle forniture di guerra, non sappiano trovarla. Il punto interrogativo rimane. Subordinatamente io mi chiedevo: sono socialista? Prima di rispondere: no, ho dovuto colla fredda ragione soffocare i richiami nostalgici del sentimento, oscurare il «chiaro di luna» dei ricordi della famiglia e della giovinezza, passare oltre gli scogli che sembravano insuperabili, nel mare di tante memorie, spezzare definitivamente un'abitudine mentale. Mi sono persuaso che, per me, la parola «socialista» era vuota di significato. Un uomo intelligente non può essere una cosa sola. Non può - se è intelligente - essere sempre la stessa cosa. Deve mutare. Non si può essere sempre socialisti, sempre repubblicani, sempre anarchici, sempre conservatori. Lo spirito è soprattutto «mobilità». L'immobilità è dei morti. Un uomo che non cambia mai la direzione del suo pensiero, che non cambia mai l'espressione del suo pensiero, non è un uomo di nervi, è un macigno. Peggio ancora! Poiché le ultime ricerche scientifiche hanno rilevato delle manifestazioni di sensibilità - quindi di vita - anche nelle molecole delle pietre inerti. Per certi uomini le formule sono dei cinti di castità spirituale. Noli me tangere. Ma o il pensiero che è maschio li spezza, oppure è la condanna orribile al zitellonaggio mentale. Voi li conoscete, certamente, i zitelloni dello spirito. Acidi, noiosi, maldicenti e, alla fine, insopportabili. Si sente subito che manca loro qualche cosa. Che sono degli incompleti. La vita passa col suo corteo tumultuoso e trionfale di dolori e di gioie, di uomini e di maschere, demolitrice e costruttrice, sempre varia, sempre «imprevista», sempre adorabile anche quando per conquistarla bisogna morire e i rimasticatori delle formule brontolano cupamente e plumbeamente nella malinconia rassegnata o rabbiosa dei vinti. Quell'etichetta che io ho cancellato, non mi legava, ma tuttavia oggi mi sento più libero. Libero di essere a volta a volta me stesso, soltanto me stesso, niente altro che me stesso. «Tu non sei più quello di prima» mi grida dall'angolo, il «salutista» della coerenza cadaverica! Ma tu mi fai il più grande elogio, mio piccolo filisteo. Nella vita bisogna essere sempre «quello di dopo» non mai e non soltanto «quello di prima». Se tu rimarrai sempre quello di prima, t'accorgerai di aver vissuto un solo istante della tua vita, o una sola vita delle mille che tu avresti potuto vivere. Ti accorgerai di essere rimasto fermo, mentre avresti potuto camminare dai monti agli oceani, per strade e sentieri, verso ai quattro orizzonti, nell'ampia terra che ti avrebbe offerto, prodigalmente, i tesori della sua bellezza. Ti accorgerai di aver rinunciato, mentre potevi ghermire. Infelice mortale! Mi permetterai di non invidiare la tua sorte e soprattutto di non seguire il tuo esempio. Io ci tengo ad essere l'uomo del «dopo». In altri termini l'uomo che anticipa. La collezione di questo liberissimo, personalissimo, indipendentissimo e strafottentissimo giornale è là a dimostrare - clamorosamente - che parecchie volte ho «anticipato». Sono stato cioè l'uomo del dopo, mentre gli altri, quasi tutti, erano rimasti gli uomini del prima. Ho scritto contro la strategia passiva, quando tutti la ritenevano una utilità o una necessità. Oggi, su altre questioni, sono già al «dopo». Quelli che si afferrano alle vecchie etichette, mi danno l'idea di naufraghi aggrappati ai rottami di una nave affondata. I rottami si chiamano: socialismo, liberalismo, repubblicanesimo, elezionismo, riformismo. Credono, aggrappati a questi rottami, di giungere in porto, e di ricominciare. Quello che avviene da quattro anni, non li tocca. Siamo nel 1918 e gli zitelloni parlano ancora il linguaggio del 1913. Come quel tal frate, reduce dalla lunga captività fra i mori, anch'essi credono di poter riprendere in predica il punto interrotto con un semplice heri dicebamus. Eh no. Noi li rovesceremo dal pulpito e profaneremo, colle nostre violenze, la loro chiesa. Non permetteremo che la lettera uccida lo spirito. Saremo - non sembri un bisticcio - non quello che fummo, né quello che siamo, ma quello che saremo e vorremo essere. Sia detto una volta per tutte. 11 agosto 1918".

Oggi il fascismo è la forza più audace, scrive Benito Mussolini il 3 luglio 1919 (pubblicato su "Il Giornale" il 22/08/2016). Per valutare nella giusta misura l'importanza sempre più grande del movimento dei Fasci Italiani di Combattimento, bisogna ricordare ch'essi sono nati il 23 di marzo, nella prima adunata di Milano. Bisogna ricordare ancora che a quella adunata intervennero soltanto gli interventisti non rinunciatari e gli altri che non intendevano e non intendono accodarsi - Maddaleni pentiti - al carro del Pus. L'adunata del 23 marzo fu anti-rinunciataria e antipussista. Sono passati tre mesi e si può affermare - senza cadere nel bluff così caro alla tattica bagolistica degli altri gruppi e partiti - che il movimento dei Fasci di Combattimento si è imposto all'attenzione pubblica ed è, oggi, la forza più viva, più audace, più rinnovatrice, più rivoluzionaria, non nel senso bestiale dei vandeani, che ci sia in Italia. All'infuori del Partito Socialista, che pretende di possedere il monopolio esclusivo della piazza, non ci sono altri gruppi o partiti di quelli segnati nei vecchi cataloghi che osino scendere in piazza. I Fasci di Combattimento contendono al Pus questo privilegio e nella recente agitazione anti-nittiana sono stati i fascisti di Torino, di Milano, di Roma e di altre città quelli che, fra il passivismo di tutti, hanno agitato e scosso il popolo italiano. L'attività di alcuni Fasci, citiamo ad esempio quello di Torino, è semplicemente meravigliosa. Governo e pussismo, bolscevismo dall'alto e bolscevismo dal basso in tutto ciò che faranno e non faranno dovranno tener conto dei Fasci di Combattimento. Non è, forse, prematuro esaminare i motivi che hanno provocato questa rapida ascesa, questo trionfale sviluppo del Fascismo, malgrado l'aperta ostilità e la perfida malignazione di certa piccola gente invasata a freddo di rivoluzionarismo letteraloide. Trattasi di gente che non ha mai condotto folle in piazza e che oggi è rivoluzionista semplicemente per questione di concorrenza. Il Fascismo è un movimento spregiudicato. Esso non ha sdegnato di prendere contatto con uomini e con gruppi che l'idiota filisteismo dei benpensanti ignorava o condannava. La gente mediocre ha sempre affettato di «non prendere sul serio» il futurismo; ora, a dispetto di questa gente, il capo dei futuristi, Marinetti, fa parte del Comitato Centrale dei Fasci di Combattimento. Gli Arditi hanno subìto in questi ultimi tempi due diffamazioni: quella di coloro che li avrebbero voluti sfruttare e quella dei vigliacchi che sbandieravano ogni delitto comune commesso da Arditi o falsi Arditi. Ora, a dispetto dei calunniatori e dei fifoni, uno dei capi dell'Arditismo in Italia, il capitano Vecchi, fa parte del Comitato Centrale dei Fasci. Il Fascismo ha preso altri contatti con l'Associazione dei volontari di guerra, il Fascio popolare di educazione sociale e alcune organizzazioni minori di combattenti, come l'U.N.U.S.; l'Italia redenta, la Zona operante. Tutti questi contatti, quali d'ordine locale, quali d'ordine nazionale, non hanno condotto a stipulazioni formali, a nessuna di quelle intese protocollate che ripugnano allo spirito del Fascismo. L'essenziale è di sapere che tutte queste forze possono essere utilizzate per uno scopo comune. Per le eterne ostriche della pregiudiziale, apparve come inaudito che i Fasci non avevano pregiudiziali di sorta. Non si vuole capire che il Fascismo cessa di essere tale non appena si scelga una pregiudiziale. Il Fascismo pregiudiziaiolo diventa un Partito. I Fasci non sono, non vogliono, non possono essere, non possono diventare un partito. I Fasci sono l'organizzazione temporanea di tutti coloro che accettano date soluzioni di dati problemi attuali. Poiché abbiamo rifiutato di caricarci le spalle con l'inutile fardello di una qualsiasi pregiudiziale, i melanconici «scagnozzi», come dicono a Palermo, della pregiudiziale, ci hanno abbaiato dietro l'appellativo pauroso e massacrante di reazionari. Noi, i reazionari! Il guaio è che il numero di questi «reazionari», invece di diminuire, aumenta. Nel recente congresso dell'Associazione Combattenti è stato approvato un programma che non ammette pregiudiziali. Il presentatore di questo programma, lo Zavattaro, ha dichiarato ripetutamente ch'egli non accetta pregiudiziali, né monarchiche, né repubblicane, né cattoliche, né anticattoliche. Una domanda ci sale alle labbra e noi la rigiriamo a certi signori: che sia, dunque, un covo di reazionari novantotteschi l'Associazione nazionale dei combattenti? Il Fascismo è anti-accademico. Non è politicante. Non ha statuti, né regolamenti. Ha adottato una tessera per la necessità del riconoscimento personale, ma potendo ne avrebbe volentieri fatto a meno. Non è un vivaio per le ambizioni elettorali. Non ammette e non tollera i lunghi discorsi. Va al concreto delle questioni. Poteva darsi un programma di almeno quindici punti, come quello repubblicano, o di quindicimila punti come quello pussista o pipista (P.P.I.). Poteva elencare le cento piaghe d'Italia e metterci accanto il relativo rimedio più o meno eroico. Poteva darsi delle arie truculente per la galleria popolare. Lascia questo apparato demagogico a coloro che cercano ogni mezzo per far dimenticare o farsi perdonare l'interventismo di una volta. Ha limitato il suo programma a pochi punti essenziali e di immediata attuazione! La riforma elettorale, l'espropriazione delle ricchezze, i consigli nazionali economici. Questa è la novità interessante del programma fascista: la rappresentanza integrale. Per le rivendicazioni d'ordine proletario, il Fascismo è sulla linea del sindacalismo nazionale, rappresentato dall'Unione Italiana del Lavoro. Anche qui delle due l'una; o noi siamo reazionari e allora lo è anche l'Unione Italiana del Lavoro della quale accettiamo il programma, o l'Unione non è reazionaria e allora - questa constatazione lapalissiana ci intenerisce! - non lo siamo nemmeno noi. Aggiungiamo ancora che il Fascismo non solo non osteggia, ma fiancheggia, sul terreno professionale, anche l'azione della Confederazione Generale del Lavoro, poiché il Fascismo è antipussista, ma essendo produttivista, non può essere e non è antiproletario. Il Fascismo è un movimento di realtà, di verità, di vita che aderisce alla vita. È pragmatista. Non ha apriorismi. Né finalità remote. Non promette i soliti paradisi dell'ideale. Lascia queste ciarlatanate alle tribù della tessera. Non presume di vivere sempre e molto. Vivrà sino a quando non avrà compiuto l'opera che si è prefissa. Raggiunta la soluzione del nostro senso dei fondamentali problemi che oggi travagliano la nazione italiana, il Fascismo non si ostinerà a vivere, come un'anacronistica superfetazione di professionali di una data politica, ma saprà brillantemente morire senza smorfie solenni. Se la Gioventù delle trincee e delle scuole accorre ai Fasci (il Fascio giovanile romano di combattimento conta già parecchie centinaia di soci) gli è perché, nei Fasci, non c'è la muffa delle vecchie idee, la barba veneranda dei vecchi uomini, la gerarchia dei valori convenzionali, ma c'è della giovinezza, c'è dell'impeto e della fede. Il Fascismo rimarrà sempre un moto di minoranze. Non può diffondersi all'infuori delle città. Ma fra poco ognuna delle trecento principali città d'Italia avrà il suo Fascio di Combattimento e l'imminente adunata nazionale raccoglierà nell'armoniosa e libertaria unità dell'azione questo formidabile complesso di forze nuove. 3 luglio 1919".

Gridiamo con forza viva Fiume italiana! Scrive Benito Mussolini il 13 settembre 1919 (pubblicato su "Il Giornale" il 21/08/2016). "L'impresa a cui si è accinto Gabriele d'Annunzio, quella di restituire Fiume all'Italia, è destinata a suscitare la più grande emozione in tutto il mondo. Su la città del Quarnaro si era in questi dieci mesi di snervante attesa concentrata l'attenzione universale e la fama dell'Uomo, che vi è entrato ieri a sciogliere col gesto intrepido il nodo gordiano dei plutocrati occidentali, ha varcato i confini d'Italia e d'Europa. Dopo dieci mesi, firmata la pace coll'Austria, bisognava dare la pace all'Italia anche sull'Adriatico, poiché i mercanti d'occidente non si decidevano a concludere e trascinavano la cosa all'infinito, il gesto della violenza era necessario. Non sappiamo quale sia il pensiero del governo dell'on. Nitti: quel che possiamo affermare è che con d'Annunzio andranno, se sarà necessario, decine di migliaia di volontari, tutta la migliore giovinezza d'Italia. Comprendiamo le preoccupazioni degli ambienti politici romani, specialmente parlamentari. Ma noi, pur riconoscendo che la situazione politica generale è delicatissima, non condividiamo le eccessive preoccupazioni dei soliti pantofolai. Diciamo subito, per sventare l'inevitabile speculazione socialista, che il gesto di d'Annunzio non è affatto il preludio di un'altra guerra che possa impegnare il popolo italiano. L'occupazione e la difesa di Fiume non condurranno ad un'altra guerra semplicemente perché non vi sono nemici. Se la Croazia non ci dichiara guerra, saranno forse l'Inghilterra e la Francia che useranno violenza? L'ipotesi è assurda. Il Consiglio supremo manda delle note, e come ne ha mandate quando si trattava del bacino di Teschen o dell'occupazione di Klagenfurt, così può mandarne una per Fiume, ma sarà fatica sprecata. Non così assurda è l'ipotesi di eventuali rappresaglie economiche da parte della plutocrazia anglo-americana. Ma al punto cui sono giunte le cose questo ricatto non ci atterrisce più. Si noti bene quello che diciamo in questo momento: piuttosto che essere strangolati dall'esoso capitalismo degli anglo-sassoni, gli italiani possono dare una direttiva tutt'affatto opposta alla loro attuale politica estera: possono attuare la politica «orientale» che ci accosterebbe ad un mondo dalle risorse inesauribili. Noi seguiremo attentamente la situazione nuova e drammatica ed eccezionalmente interessante scaturita dal gesto di Gabriele d'Annunzio e intanto gridiamo con tutta l'anima: «Viva Fiume italiana!». 13 settembre 1919".

I fascisti milanesi ​in campo da soli. Il blocco fascista ha deciso di affrontare in pieno la battaglia elettorale, scrive Benito Mussolini il 29 ottobre 1919 (pubblicato da "Il Giornale" il 23/08/2016). "La notizia che il fascismo milanese unitamente coi suoi naturali e oramai inseparabili alleati che sono gli Arditi e i Volontari di guerra scende in campo da solo sarà accolta con un moto di gioia e di orgoglio da parte di tutti i fascisti d'Italia. L'ordine del giorno votato all'unanimità nell'adunata nazionale di Firenze stabiliva delle «preferenze» ma non escludeva là dove si fosse resa necessaria e possibile la lotta fascista con candidati fascisti e programma fascista. Ripetiamo che la parola fascista comprende anche gli Arditi e i Volontari di guerra poiché le tre associazioni sono distinte nella forma ma fuse e confuse nella sostanza: si tratta di tre corpi e di un'anima sola. Ora il blocco fascista che potrà anche chiamarsi il blocco delle «teste di ferro» ha deciso di affrontare in pieno la battaglia elettorale senza nascondere una linea dei suoi Programmi, senza camuffare la sua mentalità. L'Avanti! di ieri proclamava su sei colonne che i «più arrabbiati sostenitori della guerra si ritirano vergognosamente dalla lotta» ma questa che è vera vergogna (una volta tanto siamo perfettamente d'accordo col foglio pussista) non ci riguarda perché noi non ci nascondiamo, non ci ritiriamo e soprattutto non cerchiamo coi trucchi dell'ultima ora di ottenere dieci centesimi di perdono o di oblio dai nostri avversari e nemici. Ci presentiamo quali siamo e con questo crediamo di rendere un discreto servizio anche agli avversari delle coalizioni più agguerrite: la pussista e la pipista i quali avversari per la bellezza estetica e la sincerità della lotta devono apprezzare anche se apertamente non lo dicono il nostro gesto di rivolta e di sfida. Siamo giunti all'intransigenza fascista per necessità di cose e per volontà di uomini. Il fascio milanese che è lo si voglia o no il raggruppamento politico più importante di Milano immediatamente dopo la sezione del partito socialista ufficiale è stato trattato da parte di taluni sinistri con una specie di «sufficienza» sconveniente e irritante. Per molte ragioni d'ordine pratico sulle quali è inutile in questo momento di iniziare discorso ma soprattutto per una ragione d'Indole politica che si riattacca direttamente alle famose polemiche bissolatiane, noi fascisti che non rinunciamo a Fiume e nemmeno alla Dalmazia italiana non abbiamo potuto andare col gruppo cosiddetto di sinistra patrocinato dai combattenti inscritti all'Associazione Nazionale. A destra (usiamo questa terminologia per intenderci ma aggiungiamo subito che destra e sinistra non hanno oggi che un valore il più delle volte puramente retrospettivo) abbiamo trovato della gente arrendevole nei programmi e anche nei candidati ma ciò che da quelle brave persone ci divide è la nostra mentalità, il nostro stato d'animo, un insieme di sentimenti, d'impulsi, di ribellioni che non si pesano col bilancino e che tuttavia scavano fra uomini e uomini un solco profondo come un abisso. E allora terza e unica via, scartato l'astensionismo che in queste circostanze sarebbe equivalso a una pietosa e clamorosa auto-confessione di impotenza, la via dell'affermazione fascista che sarà, noi pensiamo, consacrata per acclamazione dall'imminente assemblea del fascio milanese. In fondo bisogna pensare che noi eravamo andati a prescindere da altre questioni verso forze inconsistenti o quasi. Il nostro gesto liquida diverse situazioni, seppellisce organismi già invecchiati e finiti. I liberali più che un partito sono una tendenza. Molti quadri, pochi soldati, niente masse di popolo. La «Democrazia Lombarda» è un'associazione che ha fatto il suo tempo. In due assemblee in questo periodo di accesa tensione politica non è mai riuscita a raggranellare più di 70 soci. La più stracca delle assemblee fasciste non ha mai avuto meno di duecento presenti... Il blocco di destra verso il quale si inclinava era un matrimonio di convenienza: noi apportavamo la nostra giovinezza, il nostro impeto, il nostro fegataccio e quelli là ci offrivano la loro dote, le loro «posizioni». Ma quando abbiamo aperto gli scrigni abbiamo trovato la dote e le posizioni del 1914: tutta roba che oggi è fuori corso o quasi. A «sinistra» ci avrebbero detto: non comprometteteci parlando di Dalmazia e a destra: non toccate troppo violentemente certi tasti interni perché i 51 sindaci clerico-moderati del collegio di Febo Borromeo e relativi buoni villici potrebbero... squagliarsi! Di fronte a questa situazione ogni fascista veramente fascista si convince che soltanto lottando da fascisti si può dare alla lotta la «nostra» colorazione fatta di meditata audacia e di giovanile scapigliatura. La nostra non è una lotta elettorale: questo bisogna bene inchiodarlo nel cervello: è una lotta politica: è la lotta che noi condurremo contro tutte le forze anti-nazionali oggi riassunte e simboleggiate nel governo di Nitti. Quando «le teste di ferro» milanesi si riuniranno a comizio lo apriranno con questo grido: A chi l'onore? A Fiume! Viva chi? D'Annunzio! Abbasso chi? Cagoia! 29 ottobre 1919".

"Navigare necesse anche contro corrente", scrive Benito Mussolini l'1 gennaio 1920 (pubblicato da "Il Giornale" il 24/08/2016). Questo articolo venne pubblicato sul Popolo d'Italia l'1 gennaio 1920 quando - quattordici mesi dopo la firma dell'armistizio di Compiègne che segnò la fine, per l'Italia, della Prima guerra mondiale - il nostro Paese era ancora senza pace. I nomi di Abbo e Barberis qui citati sono quelli di due deputati socialisti. "Un anno è finito. Un anno incomincia. Un'altra goccia è caduta a perdersi nell'oceano infinito del tempo che non passa perché siamo noi che passiamo. E i cronisti in quest'ora che richiama echi sentimentali si affrettano a ricapitolare in tutte le manifestazioni salienti della vita individuale e collettiva l'anno che fu. Certamente tempestoso è stato il primo anno di pace. La bellicosità innata e immortale checché si dica dai rammolliti del pacifismo arcadico e arcadicheggiante si è semplicemente spostata nello spazio e dalle trincee è venuta a manifestarsi nelle piazze e nelle strade delle città. Tutta Europa e non soltanto l'Italia è stata percorsa e scossa dai «bradisismi» sociali. Il movimento continua e il travaglio oscuro e tormentoso dei popoli all'interno e all'estero non è cessato. Ha delle soste e delle riprese acute; modifica attenua o esaspera le sue espressioni ma l'equilibrio psicologico non è ancora dovunque raggiunto. La crisi economica è aggravata da una vera e propria crisi di nervi. Noi non ci facciamo illusioni. Non entriamo nel 1920 con la speranza che le cose ritorneranno nella normalità. Anzitutto: in quale normalità? Nuove e fiere lotte ci attendono poiché molti dei problemi che furono posti devono essere risolti o negati. Comunque non ci associamo al pessimismo imbelle e nemmeno ci lusinghiamo in un ottimismo panglossiano. L'esame della situazione generale italiana è tale da confermarci al nostro ottimismo basato sulla realtà e sulla nostra volontà. La pace che l'Italia non ha ancora - a quattordici mesi dalla sua vittoria! - e che avrà attraverso un faticoso compromesso diplomatico qualunque sia nei riguardi territoriali non potrà annientare lo «slancio vitale» dal quale sembra animata la nostra Nazione. Può anzi acutizzarlo, tonificarlo. Qualcuno si meraviglia della nostra incrollabile fede nell'avvenire del popolo italiano. Si tratta in genere di individui affetti da «masochismo» nazionale. Oppure di persone che vedono soltanto il lato più rumoroso e superficiale dell'attività nazionale e da quello appaiono ipnotizzate. Quella che si chiama «politica» non è che una parte nella vita complessa di una collettività umana. Al di sotto o al di sopra di quella detta comunemente «politica» ci sono mille forme d'attività - silenziose e ignorate - che avviano un popolo alla grandezza. Al di là e al di sopra degli schiamazzatori parlamentari o comiziaioli ci sono in ogni nazione alcune centinaia di migliaia di persone che «lavorano». Accanto e al di sopra degli Abbo e dei Barberis ci sono degli uomini che si affaticano su gli alambicchi, che «ricercano» nella materia inerte le fonti vive della ricchezza, che «osano», che trafficano, che navigano, che producono: e quest'ultima parola non va intesa nel gretto senso materialistico delle «cose» ma in quello più alto che abbraccia tutti i valori della vita: il poeta il musicista l'artista il filosofo il matematico producono e produce anche l'astronomo, che dalla sua specola remota segue e scruta gli innumerabili mondi stellari. I nomi di tutti questi individui non escono quasi mai dal ristretto cerchio della loro scuola, della loro categoria, del loro cenacolo; non corrono sui giornali se non in occasioni rarissime ma tuttavia è a questi produttori della materia e dello spirito che le fortune sostanziali e immanenti della Nazione sono affidate. Vive il motto che prima di essere dell'anseatica Brema fu di Roma imperiale: «navigare necesse». Navigare non soltanto per i mari e per gli oceani. Che l'Italia di domani debba «navigare» va diventando verità acquisita alla coscienza italiana: non la croce vorremmo vedere sullo stemma nazionale ma un'ancora o una vela. È assurdo non gettarsi sulle vie del mare quando il mare ci circonda da tre parti. Ci sono anche in questo campo dei «frigidi pessimisti» dall'anima perdutamente e irrimediabilmente libresca che sollevano delle obiezioni e dei dubbi: poveri di spirito che saranno sorpassati dalla realtà dei fatti. Ma per noi «navigare» significa battagliare. Contro gli altri, contro noi stessi. La nostra battaglia è più ingrata ma è più bella perché ci impone di contare soltanto sulle nostre forze. Noi abbiamo stracciato tutte le verità rivelate, abbiamo sputato su tutti i dogmi, respinto tutti i paradisi, schernito tutti i ciarlatani - bianchi rossi neri - che mettono in commercio le droghe miracolose per dare la «felicità» al genere umano. Non crediamo ai programmi, agli schemi, ai santi, agli apostoli: non crediamo soprattutto alla felicità, alla salvazione, alla terra promessa. Non crediamo a una soluzione unica - sia essa di specie economica o politica o morale - a una soluzione lineare dei problemi della vita perché - o illustri cantastorie di tutte le sacrestie - la vita non è lineare e non la ridurrete mai a un segmento chiuso fra bisogni primordiali. Ritorniamo all'individuo. Appoggeremo tutto ciò che esalta, amplifica l'individuo, gli dà maggiore libertà, maggiore benessere, maggiore latitudine di vita, combatteremo tutto ciò che deprime, mortifica l'individuo. Due religioni si contendono oggi il dominio degli spiriti e del mondo: la nera e la rossa. Da due Vaticani partono oggi le encicliche: da quello di Roma e da quello di Mosca. Noi siamo gli eretici di queste due religioni. Noi soli immuni dal contagio. L'esito di questa battaglia è per noi d'ordine secondario. Per noi il combattimento ha il premio in sé anche se non sia coronato dalla vittoria. Il mondo d'oggi ha strane analogie con quello di Giuliano l'Apostata. Il «Galileo dalle rosse chiome» vincerà ancora una volta? O vincerà il Galileo mongolo del Kremlino? Riuscirà ad attuarsi il «capovolgimento» di tutti i valori così come avvenne nel crepuscolo di Roma? Gli interrogativi pesano sullo spirito inquieto dei contemporanei. Ma intanto «navigare necesse». Anche contro corrente. Anche contro il gregge. Anche se il naufragio attende i portatori solitari e orgogliosi della nostra eresia. 1 gennaio 1920".

Bloccata Fiume! Andiamo alla riscossa! La situazione adriatica cambia di ora in ora. Tutte le speranze non sono perdute, scrive Benito Mussolini il 2 dicembre 1920 (pubblicato su "Il Giornale il 25/08/2016). "La situazione adriatica cambia di ora in ora. Nella giornata di ieri abbiamo avute diverse manifestazioni che aggravano sensibilmente la situazione pur non rendendola ancora catastrofica. Tutte le speranze di un accordo non sono perdute. La nota ufficiosa del Governo malgrado il tono dimesso non ci convince. Non è vero che «l'occupazione di Veglia e di Arbe minaccia di far passare davanti al mondo l'Italia come un paese senza onore e senza parola». L'Italia non c'entra. Non si può pretendere dall'Italia quello che non può dare. Si può pretendere dall'Italia lo sgombro di Veglia e di Arbe quando il Trattato sia diventato esecutivo ma nessuno può chiedere all'Italia di massacrare i suoi soldati in un episodio di guerra civile. La situazione fiumana si è aggravata e complicata per questa ragione: perché Giolitti vuole sloggiare i legionari della Reggenza dalle isole di Veglia e di Arbe. Questa precipitazione di Giolitti non si spiega o si spiega troppo. Non ci risulta che da Belgrado siano partite rimostranze in proposito e non potevano partire perché il Trattato non è ancora esecutivo. E allora perché il cav. Giolitti si propone di sgombrare a qualunque costo anche a costo di sangue le due isole del Carnaro? Poi è venuto a tarda ora il comunicato Stefani nel quale è detto che il generale Caviglia ha «intimato alle truppe della Reggenza di rientrare nei limiti dello Stato di Fiume stabiliti dal Trattato di Rapallo». Ma questi limiti non sono ancora definitivi perché il Trattato è ancora «sub judice» tanto in Italia quanto a Belgrado; e di più: questi limiti non sono stati riconosciuti dalla Reggenza perché sono stati tracciati senza averla minimamente consultata. Anche dal punto di vista giuridico la Reggenza è perfettamente a posto. La questione del porto Barros di Sussak di Castua e delle due isole rientra nei dettagli che potevano formare argomento di ulteriore trattative a due o a tre. Non c'era e non c'è bisogno di ricorrere a iniqui mezzi coercitivi come il «blocco» per consegnare terre italiane ai croati. Il «blocco», anche «pacifico» come si vuol dare ad intendere debba essere quello giolittiano, è sempre una misura odiosa e tanto più indegna quando colpisce italiani. Le incognite del blocco sono paurose: o è veramente «blocco» e allora un giorno o l'altro i legionari faranno la sortita della disperazione e riavremo in più vaste proporzioni la tragedia di Aspromonte, o non è blocco e allora la situazione attuale si prolungherà penosamente all'infinito. Non è con questi mezzi che si risolve il problema. Noi invocammo invano che prima di andare a Rapallo si passasse da Fiume. Ora si sconta l'errore. Si è in tempo a ripararlo? Interrogativo angoscioso. Tutto è possibile. Ma perché sul tormentato Carnaro ritorni la pace bisogna andare verso d'Annunzio non con battaglioni di carabinieri o con reticolati di fili di ferro bensì con lealtà; da Governo a Governo, da italiani a italiani. Il «blocco» è forse il preludio della guerra civile la cui responsabilità ricade sul Governo di Roma perché ripetiamolo ancora una volta non c'è nessun bisogno e anche nessuna urgenza di consegnare ai croati Veglia e Arbe che vogliono essere italiane. 2 dicembre 1920".

L'intatta grandezza dell'impresa di Fiume. Pochi giorni dopo il tragico Natale fiumano, il 5 gennaio 1921 Benito Mussolini pubblicava sul Popolo d'Italia il seguente articolo (pubblicato da "Il Giornale" il 26/08/2016). "L'avvenimento è di ieri e già esso appare come trascolorato nei cieli della leggenda. Gli è che il tempo della vita è oggi straordinariamente affrettato e i fatti grandi e piccoli non appena accaduti sembrano precipitare in un gorgo profondo. Chi si ricorda più in Italia dell'abbandono di Valona? Eppure fu una cosa dolorosissima straziante. Questione per taluni di ore: per altri di giorni. Oggi nessuno ci pensa più. La ferita è rimarginata. Addio Valona! E il grido echeggia come l'eco di un avvenimento remoto. Giunta al suo quinto atto - e dobbiamo riconoscere che non è stato completamente di «stile» come i precedenti poiché varie e contrastanti necessità e passioni e deficienze ne hanno turbato irreparabilmente la linea di sviluppo e tutto ciò è stato in gran parte indipendente dalla volontà dei singoli protagonisti - giunta al suo quinto atto la tragedia fiumana che va dal settembre del 1919 al gennaio del 1921 perde le sue stigmate precise la materialità che l'accompagnava le inevitabili scorie il tritume della cronaca per diventare passione sacra e pura bellezza e incancellabile storia! Oggi è lo spirito che spezza le catene della contingenza. Che cosa vale e che può importare se domani scenderanno a Fiume i nemici della prima e dell'ultima ora i subdoli e i violenti; quelli che hanno diffamato la causa con le parole e gli altri che hanno tentato di assassinarla coi cannoni e sciorineranno al sole i piccoli insignificanti miserabili dettagli del lungo periodo di occupazione dannunziana e tenteranno di diminuire con la diffamazione la grandezza dell'impresa vittoriosa? Già si scorgono gli inizi di questo sordido lavoro al quale si dedicheranno particolarmente con zelo i compagni di Misiano e i compari di Giolitti. Inutilmente. Forse che i legionari di Garibaldi erano tutti farina da fare ostie? E nella sequela delle meravigliose gesta garibaldine non è forse mai accaduto di vedere insieme l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo; l'idealista e l'avventuriero l'estremista e il moderatore? E dissidi e polemiche e abbandoni? Non sempre è concessa all'artefice che lavora nella storia la possibilità di scegliere accuratamente i suoi materiali. Li prende - spesso - come li trova come sono come gli si offrono: e qui comincia la sua dura fatica di coordinazione di selezione di preparazione; qui - e la parola non è grossa - comincia il martirio. Ora noi evocando la Legione di Ronchi non ci attardiamo a sofisticare o spulciare i quindici mesi di occupazione fiumana. Prescindiamo da tutta questa cronaca. Qualunque cosa si dica si scriva o si faccia. Anche se la cronaca fiumana fosse tutta «nera» e non lo è perché è invece fulgida di resistenza di eroismi e di passione l'impresa che ebbe nome da Ronchi - e anima da Gabriele d'Annunzio - rimane intatta nella sua grandezza. La Legione di Ronchi che oggi va dispersa in ogni angolo d'Italia obbedì partendo nella lontana notte settembrina dalle sponde del fiume rosso a questi principi: libertà e giustizia. Fu un'impresa di libertà poiché Fiume stava per essere schiacciata dalla polizia inglese e per essere consegnata all'orda croata; fu un'impresa di sovrana giustizia perché evitò l'esecuzione preordinata di un enorme delitto. E fu - anche - un gesto di volontà; una sfida superba al mondo; la prova che accanto all'Italia ufficiale già compromessa nei più obliqui patteggiamenti un'altra Italia esisteva un'Italia guerriera che non intendeva lasciarsi aggiogare al carro delle plutocrazie trionfanti. Per ben quindici mesi l'attenzione del vasto mondo fu inchiodata sulla piccola città ribelle e indomabile! Già si scorgono gli inizi di questo sordido lavoro al quale si dedicheranno particolarmente con zelo i compagni di Misiano e i compari di Giolitti. Inutilmente. 5 gennaio 1921"

La sinistra vuol cancellare i Legionari. Schiaffo a D'Annunzio, petizione a Ronchi per cambiare nome al paese e sostituirli coi Partigiani. "No" del sindaco Pd, scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 07/08/2014, su "Il Giornale".  Gabriele D'Annunzio si starà rivoltando nella tomba. Il Vate viene cancellato dal logo del comune di Pescara, la sua città. E nel Nord Est un comitato di sinistra raccoglie firme per trasformare «Ronchi dei Legionari» in «Ronchi dei Partigiani». Dalla cittadina di 12mila anime, in provincia di Gorizia, partì la celebre impresa di Fiume del poeta guerriero. Il gruppo nato su Facebook ha incassato l'entusiastico appoggio dell'Associazione nazionale partigiani, ex senatori comunisti, circoli Arci locali e altre anime. Per ora «Ronchi dei partigiani» conta su Facebook solo 706 mi piace, ma il gruppetto nato lo scorso anno ha già messo a segno la cancellazione della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. Forti del successo, si sono lanciati nella missione di stravolgere la storia sostenendo che per la città è ben più importante la medaglia d'argento per la lotta partigiana conferita nel 1993. E per ottenere il cambio raccolgono firme per arrivare al referendum. Ronchi si chiama dei Legionari perché l'11 settembre del 1919, prima dell'avvento al potere del fascismo, D'Annunzio arrivò in città iniziando l'impresa di Fiume. Circa 2600 Granatieri di Sardegna avevano ricevuto l'ordine di ritirarsi dal capoluogo del Quarnaro nonostante le suppliche della popolazione e le manifestazioni di italianità. I soldati furono acquartierati a Ronchi, ma un gruppo di ufficiali scrisse un accorato appello a D'Annunzio: «Noi abbiamo giurato sulla memoria di tutti i morti per l'unità d'Italia: Fiume o morte! L'Italia non è compiuta. In un ultimo sforzo la compiremo». Il Vate ruppe gli indugi e febbricitante raggiunse Ronchi per guidare i Granatieri ribelli. Altri volontari e reparti di bersaglieri che dovevano fermare gli ammutinati ribattezzati «legionari» si unirono alla colonna del Vate che il 12 settembre 1919 entrò a Fiume e proclamò l'annessione al Regno d'Italia. Ronchi, grazie ad un Regio decreto del 1925, divenne «dei Legionari» per ricordare la storica impresa. «Dopo aver ottenuto la revoca della cittadinanza onoraria a Mussolini ha sottolineato sulla stampa locale Luca Meneghesso - adesso è il momento di mettere seriamente in discussione la denominazione dei Legionari. Si tratta di una battaglia per la dignità e per l'antifascismo che ha raccolto diverse adesioni di personalità del mondo della cultura e dello spettacolo». Fra questi Alesandra Kersevan, che considera le foibe una specie di comprensibile vendetta contro i fascisti e il discusso scrittore della minoranza slovena Boris Pahor. Il 25 luglio l'ex senatore comunista, Silvano Bacicchi, presentando un suo libro a Ronchi, ha caldeggiato l'iniziativa di cancellare il ricordo dei legionari di D'Annunzio. I promotori ricordano che su 175 caduti del luogo, durante la Seconda guerra mondiale, ben 147 erano partigiani. In tutta risposta è sorto il «Comitato per Ronchi dei Legionari» che difende il nome storico. La pagina Facebook ha già 4.723 fan e gli organizzatori sfidano i rivali raccogliendo firme contro Ronchi dei Partigiani. Il sindaco del Pd, Roberto Fontanot, ha preso le distanze dai revisionisti di sinistra sostenendo di essere contrario al nome «dei Partigiani» perché «è un tirare per la giacchetta la storia». Il primo cittadino ricorda che molti dei Legionari hanno poi «abbracciato il movimento antifascista». E pure fra i morti delle Fosse Ardeatine c'erano due volontari dell'impresa di Fiume di D'Annunzio. La Lega nazionale di Trieste, che dai tempi dell'irredentismo difende l'italianità, ha bollato, «senza se e senza ma» l'idea del cambio del nome «come una proposta grottescamente antistorica, degna dell'Enciclopedia Sovietica».

Bisogna lavorare per essere grandi, scrive Benito Mussolini l'8 gennaio 1921 (pubblicato da “Il Giornale” il 27/08/2016). "Abbiamo lanciato una parola d'ordine agli italiani per il 1921: riguadagnare il tempo perduto, che, per il solo 1920, si compendia in questo pauroso totale: ventuno milioni di giornate di...vacanza! Lavorare! Questo monito ha il torto di ricordare il famoso nonché nittiano... produrre. Ci limitiamo ad osservare che, già durante l'ultima fase della guerra, noi ci eravamo posti sul terreno produttivista e dal punto di vista nazionale e dal punto di vista sociale. Lavorare!, Noi diciamo o ripetiamo oggi, non soltanto per ridotare la nazione e l'umanità dell'enorme, inverosimile quantità di ricchezze distrutte dalla guerra. Questo è un lato del problema. Certamente, non è trascurabile. In tempi, come gli attuali, di nera miseria, malgrado certe ostentazioni dell'alto e del basso e di spaventoso caro-viveri, che si producano o non si producano beni materiali, non è cosa che possa lasciare indifferenti gli uomini. I quali non vivono di solo pane, ma nemmeno di sole frasi, siano pure cantaridizzate dalla più smagliante rettorica. Le cicale, si dice, vivono e muoiono del loro canto; gli uomini di carne e d'ossa, no. Del resto anche quelli che paiono avere in sommo dispregio le banali necessità della vita, alla prova dei fatti sono meno ascetici di quel che amino far credere. Non è semplicemente per aumentare la quantità di beni materiali che noi incidiamo sulle nostre insegne la parola «lavorare!»; e non è soltanto in omaggio ai criteri della vecchia, rispettabile morale secondo la quale il lavoro nobilita e l'ozio, ecc., ecc. C'è una ragione più profonda, nella quale si riassume tutta l'esperienza e la lezione tragica della nostra guerra: bisogna lavorare, cari italiani, se volete essere liberi a casa vostra e nel mondo. Lavoro è uguale a libertà. Un popolo parassita non può sfuggire al suo destino, che è quello di essere ridotto nella più miserevole delle schiavitù. L'equilibrio dell'Europa, qual è uscita mal combinata dalle radunate diplomatiche di Versailles, Trianon, Sèvres, Neuilly, Rapallo è instabilissimo. L'Europa non ha ancora ritrovato la sua pace. O la ritroverà, giungendo a creare la sua unità politica, economica, spirituale, il che le permetterà di non essere semplicemente il bottino da spartire fra i due continenti virtualmente già in guerra (America, e Giappone-Asia); o continuerà a vivere qualche decennio ancora nell'attuale stato d'incertezza, ottimo per la penetrazione commerciale americana e giapponese. È lecito prevedere che fra qualche decennio i rapporti demografici fra le varie nazioni europee si saranno di nuovo profondamente alterati. Il mondo russo, ricacciato in piedi dall'americano Vanderlip e dal tedesco Stinnes, tornerà a gravitare, fatalmente e pesantemente, verso il Mediterraneo e l'Atlantico. L'enorme ondata del mondo slavo spazzerà via gli Stati periferici, come la Polonia, e si abbatterà, in un primo tempo, sulle pianure della Vistola. I settanta-ottanta milioni di tedeschi si metteranno allora di nuovo in movimento, «aspirati» dalla rarefazione della massa francese, il cui squilibrio fra territorio e popolazione - malgrado i premi di natalità - tende irresistibilmente ad aumentare. L'Inghilterra, che, nel frattempo, sarà stata bandita dall'oceano indiano e dal Mediterraneo, grazie alla sollevazione - già in atto - del mondo islamico, affiderà alla sua flotta navale e aerea la protezione estrema della sua libertà. Nessun dubbio che la storia europea di domani sarà opera principale del mondo russo e del mondo germanico. E l'Italia? Dopo la Russia e dopo la Germania, l'Italia è il blocco nazionale più compatto ed omogeneo. Verso il 1950 potrà contare circa sessanta milioni di abitanti, quindici o venti dei quali diffusi sulle rive del Mediterraneo o nei paesi d'oltre Atlantico. Nessuno può mettere in dubbio la vitalità straripante della nostra razza. Ebbene, nel momento nuovamente topico e tragico della storia europea, quando gli infiniti nodi verranno fatalmente al pettine, noi, italiani, potremo o non potremo scegliere, potremo o non potremo fare una politica da nazione libera, a seconda della maggiore o minore libertà economica che ci saremo conquistati nell'intervallo di tempo. Noi siamo oggi economicamente schiavi. Schiavi di chi ci dà il carbone; schiavi di chi ci dà il grano. Se verso il 1950 avremo ancora bisogno d'importare dall'esterno trenta milioni di quintali di grano, e non avremo «redenti» nemmeno gli ottocentomila ettari di terreno paludoso - che, secondo il recentissimo studio dell'on. Buoncompagni Ludovisi, possono aumentare la superficie del nostro terreno coltivabile a cereali - noi saremo costretti a fare la politica che piacerà allo Stato nostro fornitore di grano: Russia o America che sia. Se verso quell'epoca non avremo elettrificato le nostre ferrovie, utilizzato e sfruttato sino al possibile tutte le risorse del nostro sottosuolo, la nostra politica sarà dipendente dalla politica della nazione che ci darà o ci negherà il carbone. Insomma: bisogna ridurre al minimo il nostro vassallaggio economico per avere il massimo di libertà e di autonomia in materia di politica estera. In altri termini: bisogna lavorare! Solo a questo patto l'Italia può diventare la nazione dominatrice del bacino del Mediterraneo e scaricare sulle rive africane di quel mare il più della sua popolazione e delle sue energie. Il mondo che circonda l'Italia ad oriente e ad occidente è straordinariamente rarefatto. Per popolazione e territorio, Italia e Spagna stanno come Francia e Germania. Certi straripamenti delle masse umane sono inevitabili e necessari. Rappresentano i fecondatori «rovesci» della storia. Il dilemma che attende l'Italia è questo: o dividere con Germania e Russia l'onere e l'onore di dirigere la vita del nostro vecchio e tormentato continente, o diventare un grande «casino» internazionale. Gli italiani che non amano il ruolo di Alfonsi della loro patria smettano d'incarognire su ognuno di tutti gli scogli dell'Adriatico e mettano mano ai torni, ai telai, alle navi, agli aratri. Lavorare per essere liberi e grandi! 8 gennaio 1921".

Facciamo il partito per governare l'Italia, scrive Benito Mussolini il 9 ottobre 1921 (pubblicato il 30/08/2016 su "Il Giornale"). "Il fascismo, o meglio quella parte di fascismo che pretende di fare della politica, dimostrerà dunque - dopo avere avuto in dispregio sommo le nominologie e i nominalismi ed aver avuto il coraggio di chiamarsi rivoluzionario e reazionario, democratico ed aristocratico - dimostrerà dunque di essere schiavo di folle terrore davanti a una parola: «partito»? Siamo davanti a una parola diabolica che non bisogna impiegare? Siete pregati, cari contraddittori, di non riportarvi al 1919, poiché il confronto mancherebbe di ogni qualsiasi serietà. Nel 1919, il fascismo si riduceva ad un pugno, veramente un pugno, di uomini di tutti i partiti: c'erano socialisti, repubblicani, anarchici, sindacalisti, democratici. In queste condizioni, il fascismo, raccogliendo uomini di tutti i partiti, non poteva essere che un antipartito. È di un'evidenza cristallina. Ma in questi due anni di tempestose battaglie è accaduto nel fascismo un fenomeno di esodo di taluni elementi, un fenomeno di entrata, quasi invasione, di altri. C'è stato un travaglio formidabile di selezione in mezzo a noi. Gli avvenimenti precipitavano a poco a poco le situazioni. Avendo il fascismo, sin dal 1919, preso netta posizione contro la politica estera rinunciataria, ci fu un primo esodo: quello dei democratici wilsoniani. Successivamente, avendo il fascismo osteggiato taluni scioperi politici di ferrovieri e impiegati statali, se ne andarono dalle nostre file tutti gli elementi che non avevano potuto bruciare i ponti dietro il loro passato di sovversivi più o meno estremi. Naturalmente gli elementi che si perdevano da una parte, si riguadagnavano dall'altra. Non si può affermare che questo travaglio di chiarificazione sia compiuto, mentre è in corso la crisi provocata dal trattato di Roma; ma è certo che oggi il vecchio conglomerato del 1919 è scomparso e il fascismo è venuto via via assumendo una sua precisa e inconfondibile individualità. Rendersi conto di questo processo, che ha avuto conseguenze nell'organizzazione interna dei Fasci (si sono costituite ovunque le Federazioni provinciali, si sono ovunque elaborati degli statuti, si sono diffusi i distintivi, ecc., ecc.), significa convincersi che il partito è già un fatto compiuto, forse già troppo compiuto e che è puerile ostinarsi a negare questa vivente realtà. Un altro elemento della situazione da porre nel dovuto rilievo è il seguente. Il fascismo non ha limitato la sua azione al campo strettamente politico-militare, ma ha straripato nel campo economico-sociale, tentando di creare un movimento sindacale e cooperativo. Questo movimento perirà se il fascismo non si darà l'organizzazione di partito. La nostra profezia è facile perché i segni abbondano. La ragione fondamentale - e trascuriamo le minori altre, come quella del fascismo parlamentare - del partito è questa: quando un movimento da contingente - qual era il fascismo nel 1919 - diventa trascendente; quando assume caratteri di finalismo, esso diventa partito. O altrimenti decade e muore. Io comprendo l'antipatia per la parola «partito», poiché essa, specie in Italia, suscita impressioni di chiesuola, di inquisizione, di dogmatismo e di camorra; ma quest'antipatia non basta a giustificare un atteggiamento di pregiudiziale opposizione. Partito pur si chiamava quel Partito d'Azione, che, durante il Risorgimento, mantenne viva, colla vita e colle opere, la fede nella redenzione nazionale; partito non aveva timore di definirsi quel Partito della Destra Storica, che tracce così profonde ha lasciato dal '60 al '70 nella storia italiana. Noi abbiamo il torto di guardare solamente ai partiti socialisti o ai democratici. Ci fa ribrezzo il demagogismo dei primi e l'inconsistenza degli altri. Ma ecco, proprio in Italia, un partito, quello Repubblicano, che ha un secolo di vita ed è certamente, per il glorioso e sanguinoso contributo dato alla causa italiana dal 1821 al 1918, degno di ogni rispetto e ammirazione; il che aumenta il nostro rammarico di vederlo accodato, sotto le suggestioni dell'ora, a quel sovversivismo antieducativo che Giuseppe Mazzini, a suo tempo, acerbissimamente fustigò. Signori, che vi aggrappate ad una pregiudiziale, quella dell'antipartito ad ogni costo, siete pregati di considerare che il partito non è sempre e necessariamente un soffocatore dell'ideale. Lo spirito fascista, se esiste, non evapora costringendolo nel partito. Al contrario! Il bolscevismo - idea che ha infiammato milioni di uomini in ogni parte del mondo - è diffuso, sostenuto, predicato da un «partito», organizzato e sottoposto ad una disciplina ferrea. Il clericalismo, quando ha voluto «agire» nella storia contemporanea, si è dato anima e corpo di partito. Credere che la bellicosità fascista debba soffrirne, è assurdo. Gli altri partiti, dai comunisti ai cattolici, hanno costituito le loro squadre d'azione, di difesa e di avanguardia, copiando il fascismo. Se questo è stato possibile in partiti più o meno antifascisti, perché non dovrebbe essere possibile nel fascismo divenuto partito? Nella natura e nella storia, si va sempre da un indistinto ad un distinto; da un amorfismo caotico ad una differenziazione sempre più precisa. Più si sale nella scala, e più ciò risulta evidente. Individualità significa differenziazione. Più è sviluppato l'organismo e più è differenziato. Il fascismo non può sfuggire a questa legge di bronzo e non deve quindi nutrire ansie e preoccupazioni di natura squisitamente misoneistica e conservatrice-reazionaria, ostinandosi a chiamarsi «movimento» quando è già «partito», ostinandosi in un'ambiguità ormai insostenibile. Il partito è un gesto di coraggio. È un segno di giovinezza e di vitalità. È un fatto di fede, poiché dimostra che il fascismo può accingersi ad un lavoro positivo in vista del raggiungimento di mediati e immediati ideali; e questo smentirà in pieno tutti coloro che non ci ritengono dotati di altre virtù all'infuori di quelle d'ordine pugilistico. È tempo di tracciare il solco di divisione attorno alla nostra città quadrata. Questo e non altro è il partito. Questo significa salvare il fascismo in ciò che ha di vivo e immortale e prepararlo al compito supremo di domani: il governo della nazione. 9 ottobre 1921".

Il diario al fronte di Benito scatena guerre editoriali. Scadono i diritti sul testo scritto in trincea e parte la corsa alla pubblicazione del reportage bellico, scrive Matteo Sacchi, Sabato 02/01/2016, su "Il Giornale". Un testo in presa diretta dalle trincee, anche se da zone del fronte che non erano sempre al centro dell'azione. Un diario, pubblicato a puntate sul Popolo d'Italia, che doveva essere la prova provata che Benito Mussolini era capace di far seguire i fatti alle parole. E, a più di cent'anni dall'inizio della prima pubblicazione un testo che è ancora un caso editoriale in grado di scatenare una piccola corsa tra editori. Stiamo parlando del Giornale di guerra che il futuro duce vergò dopo essere stato richiamato alle armi, come bersagliere, per quel Primo conflitto mondiale di cui aveva voluto a tutti i costi l'Italia partecipe. Cosa racconta il trentenne Mussolini della vita al fronte? Moltissime cose e, a tratti, in maniera molto meno enfatica di come ci si potrebbe aspettare da un propagandista del conflitto. Nel testo c'è la noia, l'effetto terrificante dei bombardamenti, la vita minuta dei soldati. Anche un divertente glossario per far capire al lettore il linguaggio delle trincee. Ma soprattutto c'è il senso di freddo e di umido della guerra in montagna. Non manca, sotto traccia, anche la polemica a distanza con quei giornali, tra cui il Mattino di Napoli e L'Avanti! che accusavano il direttore del bellicista Popolo d'Italia di godere di troppi privilegi e troppe licenze. Il futuro duce sottolinea sempre il suo essere un semplice soldato. Di certo era un cronista di razza e quindi il suo racconto è sempre vivido, avvincente. Non sacrifica mai alla retorica la capacità narrativa. Insomma è un testo che «prende» a differenza di altre memorie, magari scritte mesi o anni dopo il conflitto. Insomma quando Mussolini si ritaglia un ruolo forse più eroico di quello che ebbe, lo fa con sapienza. Soprattutto nel testo originale del '15-'17, nella pubblicazione in volume del '23 invece alcune parti (soprattutto quelle più irreligiose) vennero espunte. Ecco perché il testo tentava da anni molti editori. Ma, come ci ha spiegato Adriano Ossola della Leg, era quasi impossibile mettersi d'accordo sui diritti con gli eredi Mussolini. Ora però sono scaduti e dal 14 di questo mese ci saranno in libreria ben 3 edizioni. Una è proprio quella della Leg (pagg. 218, euro 22), con una postfazione di Mimmo Franzinelli. Un'altra, che ha per curatore Alessandro Campi, esce per i tipi di Rubbettino (pagg. 336, euro 16). La terza è invece curata dal Mulino e si avvale dell'esperienza storica di Mario Isnenghi. Ed è significativo che editori di ogni orientamento politico si «contendano» un testo, per certi versi minore, di Mussolini. L'ego giornalistico di Benito, che «depose la penna per imbracciare il fucile» senza però deporla mai troppo, ne sarebbe lunsingato.

Il Duce nelle trincee: ecco chi era il Mussolini soldato. Alessandro Campi, docente universitario e politologo, racconta il lavoro che ha portata alla riedizione dei diari del Duce scritti durante la Prima Guerra Mondiale, scrive Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 04/01/2016, su "Il Giornale". Un diario di guerra, scritto sul campo e senza ricorrere alla memoria. Mentre l'Italia combatteva il suo primo conflitto Mondiale, Benito Mussolini viveva le trincee nei panni del bersagliere semplice. Dal dicembre 1915 al febbraio 1917, nel bel mezzo degli scontri, Mussolini scrisse le pagine del suo diario, poi apparso a puntate sul "Popolo d'Italia" e pubblicato nel 1923 in un volume unico. Gli scritti del Duce combattente sono stati per lungo tempo dimenticati. E non solo perché i diritti di pubblicazione sono scaduti solo con la fine del 2015, ma anche e soprattutto perché "è stato considerato dai critici uno scritto strumentale e propagandistico". In occasione del centenario della Grande Guerra, Alessandro Campi - politologo e professore all'Università di Perugia - ne ha curato una edizione storico-critica per conto dell'editore Rubbettino (Giornale di guerra, pp. 350, euro 14, con foto e illustrazioni) in libreria dal prossimo 16 gennaio.

Professor Campi, perché rileggere i Diari del Duce?

«Perché è una delle cose migliori mai scritte da Mussolini. Ha un carattere asciutto, sobrio, essenziale. Non può che colpire la novità dello stile mussoliniano. Inoltre, Mussolini è stato uno dei primi (già nell’inverno del 1915) a raccontare il logoramento e l’abbrutimento della guerra di trincea. Ma il diario è anche pieno di annotazioni interessanti sulla psicologia dei combattenti, sul rapporto tra ufficiali e truppe, sulla nascita al fronte di quello spirito da “comunità guerriera” che avrebbe poi contribuito alla nascita del fascismo».

Eppure lei invita il lettore a non leggere questi testi alla luce del Mussolini capo del governo fascista.

«I pochi studiosi italiani che si sono occupati di questo scritto, ad esempio Mario Isnenghi e Luisa Passerini, lo hanno interpretato come l’inizio del “culto del duce”. Ma così si commette un errore di prospettiva storica. Quando Mussolini cominciò a scrivere il suo diario non aveva ovviamente la più pallida idea di cosa avrebbe fatto finita la guerra»».

Mi vuole dire che non ci fu alcun intento strumentale da parte del futuro Duce?

«Mussolini faceva politica. Aveva appena rotto col socialismo ufficiale divenendo uno dei capi del fronte interventista. Nello scrivere il diario perseguiva indubbiamente degli obiettivi politici. Ad esempio, raccontando i pericoli incontrati al fronte, voleva scacciare da sé la nomea di imboscato e di vigliacco addossatagli da neutralisti, socialisti e cattolici. Lo accusarono di aver voluto l’ingresso dell’Italia in guerra e poi non essersi arruolato volontario. E dopo esser partito perché richiamato, che in realtà si era imboscato in qualche ufficio o si era dato malato. Al tempo stesso, Mussolini aveva da difendere pubblicamente la causa degli interventisti, una minoranza per niente amata dagli altri combattenti. Quando nel diario Mussolini racconta di quanto sia benvoluto dagli altri soldati e dagli stessi ufficiali, lo fa perché vuole dimostrare a chi lo legge che gli interventisti come lui sono tutt’altro che odiati e disprezzati. Ma dire ciò è cosa diversa dal considerare il suo diario lo strumento attraverso il quale Mussolini cercò di costruire in modo cosciente e deliberato la sua nuova immagine pubblica».

Chi era Mussolini come soldato?

«Fu un combattente semplice, arrivato al grado di caporale maggiore. Quando provò a partecipare ad un corso per ufficiali, prima fu chiamato, poi rimandato a casa senza alcuna spiegazione. Gli alti comandi non amavano né i volontari, né gli interventisti. E Mussolini in particolare aveva la fama di testa calda. Nel complesso fu un buon soldato, disciplinato e rispettoso dell’autorità, come peraltro la maggioranza di coloro che fecero la guerra anche senza condividerne le motivazioni. Oggi va di moda enfatizzare il “coraggio” dei disertori e dei renitenti, ma forse bisognerebbe prima ricordare quelli che la guerra l’hanno semplicemente fatta, per amor di patria e senso del dovere, senza per questo essere degli esaltati guerrafondai o considerarsi degli eroi».

Che tipo di lavoro ha fatto su questo testo? 

«Non è un’edizione critica in senso proprio perché manca il manoscritto originario sul quale operare il confronto tra quest’ultimo e tutte le edizioni a stampa: quella apparsa a puntate sul Popolo d’Italia e quelle successive in volume. Ma ho egualmente fatto un lavoro di comparazione tra tutte queste diverse versioni che mi ha permesso di individuare e segnalare al lettore i cambiamenti intervenuti tra di esse, comprese le censure vere e proprio imposte da Mussolini a partire dal 1923».

Ad esempio?

«Nel diario originario c’era diversi passaggi che esprimevano un atteggiamento insofferente (persino sprezzante) nei confronti della religione e della Chiesa, che il Mussolini capo del governo fece ovviamente sparire in tutte le edizioni del diario pubblicate a partire dal 1923. Le ho puntualmente segnalate. Il testo è accompagnato da più di trecento note a pie’ di pagina. Mussolini ha combattuto su tre diversi fronti: l’Alto Isonzo, la Carnia e il Carso friulano. Nel diario cita fiumi, montagne, valli, paesi che si fatica a posizionare in modo esatto. Ci sono quindi parecchie note di carattere geografico. E altrettante di tipo storico: i personaggi che cita, i molti militari e commilitoni protagonisti del suo racconto: ho cercato di ricostruire, in modo essenziale, la storia di ognuno di essi».

Come leggere, in conclusione, questo diario? 

«Come un documento storico scritto a caldo e in presa diretta. Di nessuna pretesa letteraria, ma con un taglio quasi da reportage. Anti-retorico e spesso assai crudo, ma senza compiacimento. Chi non l’ha mai letto e si aspetta un Mussolini guerrafondaio resterà assai deluso, o semplicemente sorpreso».

Così Mussolini raccontava la sua vita nelle trincee, scrive Matteo Sacchi, Sabato 13/02/2016, su "Il Giornale". Una cronaca in presa diretta dalle trincee, a volte densa d'azione, a volte dedita a fatti minuti della vita del fante, a volte frappunta della retorica interventista dell'epoca (sono queste le parti meno riuscite e per fortuna rare). Un diario, pubblicato in 28 puntate sul Popolo d'Italia, che doveva essere prova testimoniale che Mussolini era stato capace di far seguire i fatti alle parole. E, a più di cent'anni dalla prima pubblicazione (ne venne fatta una seconda nel 1923), un testo capace di raccontare la Prima guerra mondiale con un'ottica assolutamente particolare. Stiamo parlando de Il mio diario di guerra 1915-1917 (da oggi in edicola con il Giornale a euro 7,50 più il prezzo del quotidiano e con la prefazione di Giordano Bruno Guerri) che il futuro duce vergò richiamato alle armi - bersagliere - per partecipare di persona a quel conflitto di cui aveva voluto, a costo di rompere con il socialismo, l'Italia partecipe. Come racconta Mussolini la vita al fronte? Da bravo giornalista. C'è tutto, senza omissione: la noia, il terrore per i bombardamenti, anche dei glossari per rendere edotti i lettori del linguaggio, tutto particolare, che stava nascendo nelle trincee. Ma soprattutto c'è il senso di gelo che caratterizza la guerra in montagna. Ne nasce un testo «immediato», diverso da altre memorie, magari scritte mesi o anni dopo il conflitto. E per di più un testo che per sua stessa natura racconta una strana contraddizione. L'agitatore politico ai militari piace ma non troppo, meglio relegarlo al ruolo di semplice fante. E all'agitatore piacciono di sicuro più i soldati al fronte che i generali. Consciamente o inconsciamente Mussolini si ritaglia un ruolo in cui oscilla tra l'adesione all'etica umile del soldato e il mantenimento del ruolo di politico trainante. Lo caratterizzerà a lungo e caratterizzerà l'immaginario del regime che verrà.

Un secolo fa la presa di Gorizia, nei diari dell'epoca la vittoria e la rabbia dei soldati. La conquista della città (8-9 agosto 1915) fu il primo successo bellico dall’inizio della prima guerra mondiale. Ma in quei giorni si espresse anche lo sconforto di chi vedeva il massacro di decine di migliaia di commilitoni. Come raccontano le lettere e i diari di Pieve Santo Stefano, consultabili online grazie al progetto del Gruppo L'Espresso, scrive Nicola Maranesi il 5 agosto 2016 su "L'Espresso". La mattina del cinque d'agosto/si muovevan le truppe italiane/per Gorizia, le terre lontane/e dolente ognun si partì. Recita così la prima strofa di “O Gorizia tu sei maledetta”, canto popolare nato nelle trincee italiane della Prima guerra mondiale. Esattamente un secolo fa. Sono i primi giorni dell’agosto 1916 e i soldati del Regio esercito si preparano a combattere la Sesta battaglia dell’Isonzo. Quella che passerà alla storia per la “vittoria” e per la “presa” (8-9 agosto) di Gorizia, città oggi al confine orientale della Penisola, un tempo inclusa nei territori dell’Impero austroungarico. Il primo successo bellico dall’inizio del conflitto, per quanto effimero, suscita entusiasmo nel Paese e tra le truppe al fronte. Ma trova anche una traduzione immediata e inaspettata in quella canzone di protesta, che si propaga tra i fanti di bocca in bocca. Esprime la rabbia di milioni di uomini, spettatori da più di un anno del massacro di decine di migliaia di commilitoni. Vittime designate, hanno appena compreso quale prezzo sono disposti a pagare i comandi militari pur di ottenere una conquista modesta. Tra il 6 e il 16 agosto l’Italia conta oltre 20.000 morti e più del doppio dei feriti. L’Austria-Ungheria circa 5.000 morti e quasi 20.000 feriti. Una carneficina inaccettabile. Persino i soldati semplici se ne rendono conto, ne parlano tra di loro fin quando le parole non diventano un ritornello da intonare durante le marce, lontano dalle orecchie degli ufficiali. Voi chiamate il campo d'onore/questa terra di là dei confini/Qui si muore gridando assassini/maledetti sarete un dì. Cantano e scrivono, i soldati. Nei diari, nelle lettere che spediscono a casa. Molte di quelle pagine, raccolte e custodite dall’ Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, sono consultabili online dal giugno 2014 grazie al progetto “La Grande Guerra, i diari raccontano”, lo speciale del Gruppo Editoriale L’Espresso che per la prima volta ha reso accessibili e navigabili da casa, da chiunque, circa 200 testimonianze inedite. Quella dell’artigliere Achille Salvatore Fontana, 22 anni, di Como, racconta in modo esemplare del mito e del contro-mito che si crea intorno alla conquista, e del duplice stato d’animo che vivono i soldati. L'orrore della Grande Guerra raccontato dalla trincea. "Carissimo padre e sorella, Ricevetti ieri sera la vostra desiderata lettera, ed eccomi subito a rispondervi, intanto che ho un momento di tregua. Mi metto a scrivervi tanto per non farvi pensare male, ma a dirvi è vero la mia testa non è ancora a posto, il mio cuore non si trova tranquillo come prima. Sento ancora nelle orecchie il rombo assordante del cannone, ed il fragoroso bombardamento che abbiamo fatto con le nostre potenti bombarde all’inizio della grande offensiva per la presa di Gorizia. Davanti a me ho ancora la visione di quei poveri soldati feriti, che gementi trasportavano sulle barelle, di quei poveri morti che si trovavano per terra sfracellati. Però nel medesimo tempo sento in me (come pure nel cuore di tutti) un certo raggio di gloria, una certa consolazione, per la bella vittoria riportata dalle nostre valorose truppe, che, dopo 15 mesi di dura lotta e sofferenze, entrarono (nelle prime ore del pomeriggio) nella città di Gorizia." Un conflitto interiore che si proietterà dai singoli individui alla collettività, e dalla cronaca a una memoria che continuerà a rimanere divisa per molti anni. Nel 1964, l’anno in cui Fabrizio De Andrè canta “La guerra di Piero”, anno a metà strada tra lo scoppio della Grande Guerra e i nostri giorni, al festival dei Due Mondi di Spoleto divampa la polemica più eclatante. L’antimilitarismo si è “appropriato” da tempo di “O Gorizia” le cui strofe accompagnano molti cortei degli anarchici e della sinistra. Soprattutto in una delle molte versioni in circolazione, che punta decisamente il dito contro i comandi militari e che il Nuovo Canzoniere Italiano, gruppo di musicisti-ricercatori-intellettuali, decide di proporre provocatoriamente al pubblico tradizionalmente borghese della rassegna. Traditori signori ufficiali/che la guerra l’avete voluta/scannatori di carne venduta/e rovina della gioventù. Le cronache, che riempiono per giorni i giornali dell’epoca, raccontano dei brusii della sala che si trasformano in grida di protesta e tafferugli e di uno strascico di polemiche che si abbatte sugli organizzatori del festival. Infine, di una denuncia per vilipendio delle forze armate che avrà l’effetto di amplificare il successo dello spettacolo che porta in scaletta la canzone, intitolato Bella ciao e pensato come tributo al patrimonio di canti popolari italiani. Da quei giorni e da quelle polemiche non sono stati fatti passi in avanti. Nonostante gli storici non perdano occasione per ricordarci che viviamo nell’“era post ideologica”, la memoria su Gorizia continua a essere divisa, contesa o tutt’al più taciuta. Almeno fino a oggi. Nei prossimi giorni, giorni di celebrazioni o commemorazioni a seconda dei punti di vista, ci saranno nuove occasione per cercare una sintesi. Il programma delle iniziative per “il centenario della presa di Gorizia”, che compare sul sito del comune, si presenta con luci e ombre. Staremo a vedere. E a sentire. O Gorizia, tu sei maledetta/per ogni cuore che sente coscienza!/Dolorosa ci fu la partenza/che ritorno per molti non fu.

L'orrore della Grande Guerra raccontato dalla trincea. La testimonianza che diventa denuncia. Il diario del sottotenente aretino Giuseppe Salvemini ha vinto la trentunesima edizione della competizione letteraria organizzata dall'Archivio di Pieve Santo Stefano. Un evento che rientra tra quelli realizzati per i cento anni dallo scoppio del primo conflitto mondiale, in collaborazione con il Gruppo Espresso, scrive Nicola Maranesi il 22 settembre 2015 su "L'Espresso". Il diario della Prima guerra mondiale del sottotenente aretino Giuseppe Salvemini ha vinto la Trentunesima edizione del Premio Pieve Saverio Tutino, il concorso annuale organizzato dall’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano e riservato alle scritture autobiografiche inedite degli italiani. E attraverso le pagine scritte da questo giovane soldato anche l’Archivio, come l'Espresso ha fatto da tempo, si schiera a favore di un atto di clemenza per i soldati italiani condannati a morte per motivi disciplinari, e fucilati, durante la Prima guerra mondiale. Perché sarebbe impossibile, per chiunque, non fare propria la denuncia che affiora da uno dei passaggi più sconvolgenti di questa testimonianza di guerra. Io stesso – scrive Salvemini in un momento di pausa delle ostilità - ho assistito alla fucilazione di molti soldati! Non posso raccontare lo strazio che ho provato nell’udire i loro rantoli! Nulla in paragone sono i gemiti dei feriti, i lamenti, le grida e le imprecazioni dei combattenti! Nulla la scena terribile del campo di battaglia! Lo spettacolo della fucilazione è qualcosa di opprimente e di soffocante. A noi stessi par di soffocare dal dolore e di morire allo sparo dei fucili! I miseri condannati, legati mani e piedi, vengono gettati come sacchi di stracci, in un greppo o scarpata del monte e nessuno si cura se si sono rotti qualche braccio o qualche gamba! Tanto è gente che deve morire! Essi rantolano terribilmente! Il loro rantolo non ha nulla di umano! Sembra il rantolo di bestie strozzate! Altri hanno la faccia di dementi e vanno ripetendo, come presi da fissazioni: “Mamma, o mamma, o mamma…” oppure: “figli miei, figli miei”. Altri ripetono di continuo nel rantolo il nome di Dio! I loro occhi sono fuori le pupille e il loro sguardo è spaurito e stravolto! Tutto il loro corpo trema, come preso da convulsioni! A toccarli e a chiamarli non sentono! Dove vengono buttati, lì rimangono, anche se la posizione è scomoda. Sono corpi incolumi e sembrano già morti. Intanto sei o sette carabinieri, a tre o quattro metri di distanza, s’allineano e fanno sentire lo scattare delle loro armi! In questo momento alcuni, quelli più in sé, gettano grida disperate e invocano Iddio; altri rinforzano i loro rantolo! Una scarica improvvisa pone fine al loro martirio! Il piombo, pare che l’inchiodi nel terreno! Dopo poco però, si vede ancora qualche braccio o qualche gamba muoversi, ed il corpo loro tremare come un individuo che abbia il ticco nervoso! Un’altra scarica li inchioda ancora al terreno! Bensì per ucciderli bene, danno sempre 3 o quattro scariche! I cadaveri vengono lasciati lì! Sono bucherellati come crivelli! Dopo un paio di giorni puzzano, insieme agli altri! La metà di loro, io credo siano innocenti! O almeno ignari e inconsci di quello che hanno commesso! Questa è la terribile giustizia del fronte! Al Comando di Divisione, ovunque giriamo lo sguardo, vediamo mucchietti di cadaveri allineati. Sono tutti stati fucilati! Queste parole riaffiorano oggi dall’oblio anche grazie all’attività dell’Archivio dei diari e alla collaborazione nata due anni fa con l’Espresso per commemorare il Centenario dallo scoppio della Grande Guerra. Il progetto online “La Grande Guerra - I diari raccontano” e la collana di libri “Cronache dal fronte” hanno acceso fari di interesse sulla memorialistica del ’15-18, favorendo la riscoperta delle testimonianze inedite da parte delle famiglie proprietarie e stimolando la trasmissione delle documentazioni verso i centri di raccolta. Il diario di Salvemini sarà conferito dalla famiglia al fondo inedito “L’Espresso – I diari raccontano” istituito presso la fondazione di Pieve Santo Stefano, e alcuni tra i frammenti di scrittura più significativi saranno presto consultabili su “La Grande Guerra – I diari raccontano” insieme alle decine di altri diari, memorie ed epistolari che sono stati esaminati, trascritti e resi fruibili a centinaia di migliaia di utenti internet. La testimonianza di questo giovane soldato, che verrà in seguito pubblicata integralmente da Terre di Mezzo nella collana I diari di Pieve, che ci appare emblematicamente divisa in due parti, come scritte da autori diversi. Della prima è protagonista un ragazzo spensierato, il Salvemini che parte per la guerra lasciando la guerra sullo sfondo di una vita che è concentrata sull’amicizia, sull’amore, sulle passioni scatenate dall’incontro con le ragazze che conquista durante il periodo di addestramento e persino al fronte, a pochi chilometri dalla prima linea, nei momenti di pausa dai combattimenti. Sarà la Decima battaglia dell’Isonzo del maggio 1917 e saranno gli orrori ai quali assiste Salvemini a reprimere questa spensieratezza, segnando l’inizio della seconda parte di un diario che finisce per traboccare dolore e violenza. Continuamente cadevano vicino e sopra noi membra spezzate, frammenti di corpo, materia calda e sanguinolente e ci macchiava gli abiti, il volto e ci terrorizzava dallo spavento. Il medico […] continuava a tagliare ed a gettare davanti a se, in un mucchio, braccia, gambe, mani, pezzi di carne e ritagli di pelle sanguinanti. Poi i due aiutanti indoravano con la tintura di iodio la parte amputata e la impacchettavano di cotone, fasciandola strettamente con la garza. Quindi prendevano il misero e, come una balla di stracci, lo gettavano nel mucchio dei feriti fasciati! […]. Da sotto a quei corpi umani colava il sangue, come cola l’acqua da un mucchio di stracci bagnati! Ricoverato in ospedale a causa di un’intossicazione da gas asfissianti, Giuseppe subisce anche l’affronto di non veder riconosciuto il proprio sacrificio dai comandi militari e dalla struttura ospedaliera, che insiste per fargli firmare un documento di dismissione dall’ospedale che sminuisce la gravità delle sue condizioni di salute. Ottenuto il congedo, un anno dopo il ritorno a casa, a soli 21 anni Giuseppe muore proprio per i postumi di quella intossicazione.

Nazario Sauro, che fu sepolto tre volte. Storia dell’irredentista impiccato. Il 10 agosto 1916 il militare istriano fu impiccato a Pola. Gettata in una fossa comune dagli austriaci, la salma fu riesumata nel 1919 e nel 1947 traslata a Venezia, scrive Gian Antonio Stella il 7 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. «C’è lavoro pel boia, vecchio Sire d’Absburgo!» Vibra di indignazione contro Francesco Giuseppe, l’anonimo corsivista del «Corriere» in quell’estate di un secolo fa: «La forca austriaca non vuol rimanere oziosa. Non può! Appena un eroe è spirato a Trento dal suo legno maledetto, un altro spira a Pola». Prima Cesare Battisti ora Nazario Sauro. Tutti gli italiani, in quei giorni di guerra, sanno chi è Nazario. È così famoso che nel decimo anniversario dell’impiccagione lo Stato sarà costretto a comprare la sua casetta natale a Capodistria perché «gli attuali inquilini ricevevano, da anni, ogni giorno, le visite di pellegrini che chiedevano di veder i cimeli di famiglia». Ma cosa resta, oggi, di quell’irredentista dimenticato? Centinaia di vie e di piazze intitolate a testimonianza di uno stagionato culto patriottico. Una figurina in vendita su eBay col disegnino del naufragio del sommergibile sulla costa del Quarnero. Una miriade di scuole: «Istituto Nazario Sauro, patriota». Poco più. Eppure, come ricorda il libro Impiccateli! (Imprimatur) che Paolo Brogi ha dedicato a quei due uomini protagonisti della fase finale del Risorgimentoappesi alla forca come traditori dell’heimat austriaca a un mese di distanza l’uno dall’altro (il 12 luglio 1916 l’irredentista trentino, il 10 agosto l’istriano), l’uomo che fu sepolto tre volte, e poi vedremo perché, fu per l’immaginario collettivo una figura centrale. Figlio di un pescatore di origine laziale, battezzato col nome della barca di famiglia, di carattere esuberante, generoso, combattivo, studente svogliato ma con spiccate doti per la marineria (narra la leggenda che la levatrice sussurrò al neonato: «Picinin, ricordite che chi vol navigar no devi ’ver paura de le onde»), il ragazzo si fece conoscere presto dai poliziotti austriaci. Per l’ostilità verso l’apprendimento del tedesco e dello sloveno. Per lo spirito ribelle. Per aver inscenato una manifestazione nel centenario della nascita di Garibaldi cantando l’Inno di Garibaldi: «Va’ fuori d’Italia! Va’ fuori che è l’ora! Va’ fuori d’Italia! Va’ fuori, stranier!», per l’appoggio agli indipendentisti albanesi, aiutati «garantendo gli approvvigionamenti d’armi» sfidando coi suoi trabaccoli da pesca i controlli dell’imperiale marina. Per alcune intemperanze inutilmente esagitate, come le urla lanciate per interrompere un concerto di Richard Wagner: «Basta con questa musica tedesca!». Portati la moglie e i figli a Venezia nel 1914, si offre volontario per la guerra in arrivo. Curriculum: conosce «a menadito tutta la costa dell’Istria e della Dalmazia, il Quarnero, le isole, ogni porto e ogni secca, ogni rifugio e ogni scoglio». In attesa di essere arruolato, accorre coi primi volontari ad Avezzano dopo il sisma del 13 gennaio 1915 e, rientrato a Venezia, si ficca in tutti gli assembramenti dove si parla di patria, guerra, terre irredente. Fino a scagliarsi al Caffè Quadri, ignaro che mesi dopo l’irridente invettiva gli sarebbe stata rinfacciata al processo, contro il Kaiser: «Quel mona de vecio ormai el xe insempiado». Cioè rimbambito. Scoppiata la guerra, guida una dopo l’altra decine e decine di spericolate incursioni sulle coste dell’Istria e del Quarnero, diventando popolarissimo tra i compagni d’arme e fastidiosissimo per gli austriaci. «Bassotto di statura ma largo di torace e di spalle come un atleta», lo descrive l’amico Giovanni Quarantotti, «troneggiava davvero sul ponte di comando, dall’alto del quale soleva, come un oratore sacro dal pergamo, scagliare a dritta e a manca, con quel suo vocione stentoreo, ordini, lodi, rimproveri, facezie, a seconda delle circostanze e dell’umore, usando sempre il saporoso dialetto natio e gesticolando con l’energia e l’infaticabilità di un semaforo». Alla sessantaduesima spedizione, dopo avere ricevuto una medaglia d’argento per le «numerose ardite difficili missioni navali», gli andò male. E col sottomarino «Pullino» finì sugli scogli dell’isolotto della Galiola, all’imbocco del Quarnero. Era la notte del 30 luglio 1916. Per ore, dopo aver mandato due piccioni viaggiatori per segnalare il naufragio e chiedere aiuti, gli italiani cercarono di disincagliare il sommergibile. All’alba, recuperate due barche, decisero di disperdersi. Inutile. Catturato, Nazario Sauro fu portato a Pola. Aveva in tasca un biglietto con quattro strofe: «Finché il trionfo ti sorrida e sia/ tutto di lauri il tuo vessillo altero/ e seguan le vittorie la tua scia/ sovra il mar di Trieste e del Quarnero». Non aveva scampo. E lo sapeva. Lo attendeva la forca. E per giorni, anche se qualche polesano l’aveva subito riconosciuto all’arrivo, tenne duro negando: «Mi chiamo Nicolò Sambo». Perfino la madre Anna e la sorella Maria, nel tentativo di salvarlo, negarono fino all’ultimo di conoscerlo. Annotò un ufficiale austriaco: «Durante il confronto la donna ha cambiato di colore nel viso, divenendo rossa e pallida». Finché il fratello della moglie, un maresciallo, ammise: «È mio schwager, mio cognato». Il processo è solo una formalità burocratica. L’imputato chiede un avvocato di fiducia. Negato. Gliene danno uno d’ufficio, un sottotenente austriaco, Josef Takacs. Il verdetto è implacabile: «Colpevole di alto tradimento per essere entrato, come suddito austriaco, nella marina da guerra italiana». Impossibile ogni ricorso: la sentenza va eseguita entro due ore. Va incontro al patibolo, raccontano le cronache, urlando «Viva l’Italia! Morte a Francesco Giuseppe… Morte all’imperatore degli impiccati, mascalzone!». Una guardia gli mette una mano sulla bocca per zittirlo, lui gliela morde. Rifiuta il prete tedesco: meglio pregare da solo. «Cara Nina, non posso che chiederti perdono per averti lasciato con i nostri cinque figli ancora col latte sulle labbra e so quanto dovrai lottare e patire per portarli e lasciarli sulla buona strada», leggerà la moglie in una lettera lasciata dal marito a un amico in caso di morte, «Insegna ai nostri figli che il loro padre fu prima italiano, poi padre e poi uomo. Nazario». Buttano la salma, ultimo insulto, in una anonima fossa sconsacrata, subito coperta e resa irriconoscibile. Ma è solo la prima sepoltura. Nel 1919, le autorità italiane riescono a individuare la fossa, celebrano una solenne cerimonia e danno all’eroe, medaglia d’oro al valor militare, una nuova tomba, monumentale. Resterà lì meno di trent’anni. Persa la Seconda guerra mondiale, gli italiani in fuga da Pola, caricheranno nel 1947 sul «Toscana», la nave dei profughi in lacrime, anche la bara di Nazario Sauro, destinata per la terza sepoltura al Lido di Venezia. E quella bara appesa ai cavi di una gru resterà uno dei simboli della tragedia dell’esodo…

Enrico Toti oltre la retorica. La sfida di un disabile di guerra. Cento anni fa, il 6 agosto 1916, cadeva sul Carso il mutilato romano, privo della gamba sinistra destinato a diventare un mito, scrive Antonio Caroti il 4 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. Oggi, a cento anni dalla sua morte, possiamo considerare la figura di Enrico Toti con la dovuta ammirazione senza ricadere negli eccessi di retorica che l’hanno circondata nel passato. Intorno al mutilato romano, privo della gamba sinistra, che cadde sul Carso sotto il fuoco austro-ungarico il 6 agosto 1916, è stato costruito un mito che può essere discusso e criticato, come ha fatto lo studioso Lucio Fabi nel saggio Enrico Toti. Una storia tra mito e realtà (Persico, 2005). Di certo, a partire dalla copertina che gli dedicò Achille Beltrame sulla «Domenica del Corriere», l’icona del combattente che muore gettando la stampella contro il nemico è rimasta impressa nell’immaginario collettivo del nostro Paese, come dimostra la vasta documentazione raccolta da Angelo Pinci nel recente volume Enrico Toti. Iconografia di un eroe. Enrico Toti (1882-1916), caduto in combattimento sul Carso nei pressi di Monfalcone, fu insignito della medaglia d’oro. Per capire la vicenda di Toti bisogna però conoscerne anche il retroscena, lo spirito di un giovane che a 25 anni, per via di un incidente di lavoro, si ritrova la gamba sfracellata e poi amputata fino quasi al bacino, ma reagisce con un’energia formidabile. Prosegue l’attività sportiva nel nuoto e nel ciclismo; escogita piccole invenzioni; percorre migliaia di chilometri in Europa e in Africa con una bicicletta dotata di un pedale solo, da lui stesso modificata. Amava l’avventura Toti, come aveva dimostrato imbarcandosi da mozzo nel 1897, e vide nella Prima guerra mondiale l’occasione per non essere da meno degli altri. Eccolo correre al fronte con la bici, anche se la menomazione gli preclude l’arruolamento. Eccolo prestarsi a tutte le mansioni (falegname, cuciniere, portalettere) pur di rimanere a ridosso delle retrovie. Eccolo implorare il duca d’Aosta, cugino del re e comandante della Terza Armata, di aggregarlo a qualche reparto. Eccolo fra i bersaglieri ciclisti, sia pure con una qualifica incerta. Oltre la retorica. Il 6 agosto 1916 i combattimenti per la quota 85, a est di Monfalcone, offrirono a Toti l’opportunità che desiderava. Per coglierla pagò con la vita, sacrificata nel nome di un ideale patriottico sinceramente sentito. Anche se oggi guardiamo alla Grande guerra con sgomento più che con fierezza, l’esempio di quel disabile grave pronto a sfidare la sorte rimane degno di essere ricordato tra le luci di un periodo terribile della nostra storia.

Dubbi e ricordi di Salandra. Così l'Italia entrò in guerra. Primo ministro fra il marzo 1914 e il giugno 1916 fu lui, con Sonnino, a "pilotare" il Paese dalla neutralità all'intervento a fianco dell'Intesa, scrive Francesco Perfetti, Giovedì 12/03/2015, su "Il Giornale.  Il 2 giugno 1915 Antonio Salandra pronunciò in Campidoglio, nella bella sala degli Orazi e Curiazi, un celebre e appassionato discorso per illustrare le motivazioni che avevano spinto l'Italia a imbracciare le armi. Disse che la guerra, appena iniziata per l'Italia, era «santa» e si combatteva «a tutela delle più antiche e più alte aspirazioni, dei più vitali interessi della patria». Aggiunse che sarebbe stata «più grande di qualunque altra la storia» ricordasse e che avrebbe coinvolto tutti gli italiani. Per dare al discorso il carattere di un solenne atto di governo era stato scelto un giorno non festivo. Salandra aveva lavorato al discorso per due mattinate, ma gran parte di esso fu pronunciato a braccio sulla base di appunti. Cionondimeno ebbe successo e piacque persino a Benedetto Croce non certo tra i fautori dell'intervento, che vi trovò parole «veramente da italiano, da italiano antico e moderno, insieme borghese nel miglior senso della parola» e del quale gli piacque «quell'assenza completa di fanatismo nazionalistico, quella concezione patriottica e umana insieme, che è una delle più belle note dell'italianità». Salandra era succeduto a Giolitti nel marzo 1914. Aveva superato i sessant'anni e aveva alle spalle una lunga carriera politica: eletto deputato per la prima volta nel 1886, aveva poi ricoperto più volte incarichi di sottosegretario e ministro. Era, anche, uno studioso illustre di diritto amministrativo, formatosi culturalmente alla scuola di Francesco De Sanctis e di Silvio Spaventa. Liberal-conservatore, si era battuto per «l'unione di tutte le forze liberali» contro i partiti estremi e, formando il governo, si era ispirato al principio di creare una «concentrazione liberale» alla quale partecipassero esponenti della sinistra zanardelliana, del centro e della destra. Interessato soprattutto alla politica interna, all'amministrazione, al rafforzamento dello Stato e alla costruzione del grande partito liberale, si trovò subito a dover gestire la posizione dell'Italia, allora legata dalla Triplice Alleanza all'Austria-Ungheria e alla Germania, di fronte alla guerra scoppiata nell'estate del 1914. La sua prima scelta fu la neutralità, il 3 agosto di quello stesso anno. Poi venne, l'anno successivo, dopo le «radiose giornate» del maggio 1915, la decisione di prendere parte al conflitto per portare «a compimento il Risorgimento» ed «elevare l'Italia alla realtà di grande potenza». Proprio al periodo compreso fra la scelta neutralista e quella di entrare in guerra Salandra dedicò un importante volume di «ricordi e pensieri» intitolato L'intervento che la Fondazione Biblioteche Cassa di Risparmio di Firenze ha ristampato in una curata edizione anastatica e che verrà distribuito gratuitamente a tutti i partecipanti al grande convegno Niente fu più come prima. La Grande Guerra e l'Italia cento anni dopo, che si svolgerà a Firenze il 13 e 14 marzo. L'opera è una testimonianza che ricostruisce, sulla base dei ricordi di un protagonista e sulla documentazione, le trattative con l'Austria e quelle con l'Intesa, la stipulazione dell'accordo di Londra, le battaglie in piazza e in Parlamento fra neutralisti e interventisti, la crisi del maggio 1915, gli estremi tentativi diplomatici per evitare l'ingresso in guerra e le fasi della mobilitazione militare e civile. Salandra aveva cominciato a pensare che la neutralità fosse destinata a finire quando «l'ambizioso piano germanico della guerra di poche settimane» si era infranto sulle rive della Marna. C'erano, quindi, state, prima, la crisi governo per divergenze sul finanziamento del piano militare e, poi, la formazione del nuovo gabinetto del quale entrarono a far parte personalità come Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino. Quest'ultimo, nominato ministro degli Esteri, era legato a Salandra da una trentennale amicizia e da una «solidarietà politica» in nome di una concezione «forte» del liberalismo e della necessità di un «ritorno allo Statuto» per recuperare o tonificare il prestigio e l'autorità dello Stato. I veri protagonisti dell'attività diplomatica svolta in maniera sotterranea nei difficili e drammatici mesi compresi fra il novembre 1914 e la primavera del 1915 furono, proprio, loro due, Sonnino e Salandra. Questi lo riconosce senza mezzi termini: «del bene e del male a noi due spetta l'onore e il biasimo». Le trattative con Vienna e Berlino iniziarono nel dicembre 1914 ma si arenarono per l'insufficienza dei compensi offerti all'Italia dalle potenze della Triplice. Quelle con l'Intesa, che avrebbero portato al Patto di Londra e all'impegno italiano a entrare in guerra entro un mese, cominciarono all'inizio di marzo. La descrizione che Salandra fa della crisi di maggio è precisa e ricca di chiaroscuri. Il fronte interventista era costituito da intellettuali e studenti, nazionalisti, irredentisti, sindacalisti rivoluzionari. Era, per così dire, un vario interventismo raccolto attorno al progetto di completare l'unità nazionale e assicurare all'Italia un ruolo paritario fra le potenze. A esso si contrapponeva il fronte neutralista comprendente liberali giolittiani, socialisti e cattolici. Sottolinea Salandra come la spinta venisse proprio dal Paese: «mentre i neutralisti tenevano il campo a Montecitorio, gli interventisti occupavano le piazze». Poi, finalmente, ci fu la dichiarazione di guerra contro l'Austria. Dal volume emerge la personalità di un uomo che, liberale con una visione conservatrice della politica in linea con la tradizione della Destra storica, segnò la fine dell'età giolittiana e del tentativo di Giolitti di proporre un liberalismo fondato sull'arte del compromesso e sulla prassi della mediazione. Con la sua «politica nazionale» contrapposta alla «sana democrazia» di Giolitti, Salandra diventò il naturale punto di riferimento della «borghesia liberale» costituita dai nuovi ceti medi sorti dal processo di industrializzazione e modernizzazione dell'Italia postunitaria.

IL FASCISMO E' DI SINISTRA!

Mussolini. Un dittatore italiano. In questa biografia Richard J.B. Bosworth esamina Mussolini non nelle vesti del "grande uomo" che pretendeva di essere, quanto piuttosto come espressione della società e della cultura del suo tempo. Il duce infatti incarnò, nel bene e nel male, lo spirito della nazione italiana e, più che un indomito rivoluzionario, fu il garante della "continuità" istituzionale. Soprattutto, si sentì sempre "il più italiano degli italiani", convinto di agire in perfetta sintonia con la volontà e i desideri del suo popolo. La stessa analisi della vita privata del duce ne rivela la natura complessa e contraddittoria. Ciò che emerge è la figura di un individuo "non diverso da tanti altri". Riduci Perché, dopo l'irresistibile ascesa, il duce mancò l'obiettivo più ambizioso del suo progetto politico: la "fascistizzazione" della società e la costruzione dell'"uomo nuovo fascista"? Richard J.B. Bosworth cerca di rispondere a questa domanda indagando la vita quotidiana degli italiani di ogni status sociale e culturale, nelle città e nelle campagne, sotto la dittatura, e offrendo al lettore l'immagine di un paese così variegato e frammentato in una miriade di reti clientelari e centri di potere locali da trasformare l'imposizione del totalitarismo in un fallimento. Le tante storie di eminenti gerarchi e di semplici cittadini raccolte nel libro, frutto di una ricerca capillare condotta negli archivi dei comuni e delle prefetture di ogni parte della penisola, testimoniano che gli italiani, a dispetto del formale ossequio al fascismo e di una generica ammirazione per Mussolini, conservarono il senso della propria identità, fondata su valori estranei, se non antitetici, all'ideologia fascista: il cattolicesimo, la famiglia, il particolarismo regionale, l'orgoglio campanilistico.

Tra sigle e scissioni, la storia della sinistra lunga un secolo. Dal primo Partito socialista a Sinistra ecologia e libertà, ripercorriamo nascita e divisioni di tutti i soggetti che hanno scritto la storia della sinistra italiana, scrive "Il Corriere della Sera" il 17 febbraio 2017.

1. Il primo Partito socialista (1892). La storia della sinistra italiana è ricca di esperienze, di nascita di nuovi soggetti come di scissioni e di spaccature. Proviamo a ripercorrere le principali vicende con i simboli dei partiti che si sono affacciati sulla scena politica nazionale. Il Partito socialista è la prima formazione organizzata della sinistra in Italia. Viene fondato a Genova e nel 1895 assume la sigla di Psi. Il fascismo nasce ufficialmente il 23 marzo 1919 a Milano. Benito Mussolini, ex dirigente del Partito Socialista Italiano e convertito alle idee del nazionalismo e della prima guerra mondiale, riuscì a fondere la confusa congerie di idee, aspirazioni, frustrazioni degli ex combattenti reduci dalla dura esperienza della guerra di trincea, in un movimento politico che all'inizio ebbe una chiara ispirazione socialista e rivoluzionaria che subito si contraddistinse per la violenza dei metodi impiegati contro gli oppositori.

2. Il Partito Comunista Italiana (1921). A Livorno la corrente rivoluzionaria del Psi, insoddisfatta per l’esito del congresso, lascia l’organizzazione e fonda il Partito comunista italiano.

3. Partito socialdemocratico (1947). La corrente moderata del Psi guidata da Giuseppe Saragat, in polemica con la linea di collaborazione con i comunisti, fonda il Partito socialdemocratico.

4. Partito socialista di unità proletaria (1964). Dopo i fatti di Ungheria (1956) i rapporti tra Psi e Pci peggiorano. I socialisti filo Pci fondano il Partito socialista di unità proletaria.

5. Partito di unità proletaria (1974). Nel Partito di unità proletaria per il comunismo confluisce il gruppo del Manifesto (radiato dal Pci) e altre sigle dell’estrema sinistra.

6. Partito democratico della sinistra (1991). A febbraio il Pci, sotto la guida di Achille Occhetto, si scioglie per dare vita a un nuovo partito di orientamento socialista e democratico, il Pds.

7. Rifondazione comunista (1991). I contrari alla fine del Pci, insieme ad altre sigle della sinistra radicale, a dicembre varano il Partito della rifondazione comunista.

8. Democratici di sinistra (1998). A febbraio il Pds e altre sigle di ispirazione socialista, cristiano sociale, comunista e repubblicana, danno vita ai Democratici di sinistra.

9. Comunisti italiani (1998). Una parte di Rifondazione comunista, favorevole al governo Prodi, rompe con il resto del partito e fonda in ottobre i Comunisti italiani.

10. Partito democratico (2007). Dalla fusione di Ds e Margherita (la sigla che aveva raccolto la tradizione della sinistra Dc) nasce con le primarie il Partito democratico.

11. Sinistra ecologia e libertà (2009). L’unione di Sinistra democratica, ex Ds contrari alla nascita del Pd, con un gruppo fuoriuscito da Rifondazione dà vita a Sel.

"Per questo sono fascista, perché sono socialista". Parliamo ancora dei diari di Vanni Teodorani, un vero e proprio salto indietro nel tempo, scrivono il 10 gennaio 2015 Emma Moriconi e Chantal Capasso su "Il Giornale D'Italia". "Mussolini non mi ha dato solo interessanti lezioni di politica sociale ed internazionale, ho anche distillato da Lui una larga e umana filosofia che esclude l’odio". Andiamo avanti con il ragionamento interrotto ieri e sottoponiamo al lettore un piccolo passo, tratto sempre dall’introduzione di Giuseppe Parlato ai “diari” di Vanni Teodorani, allo scopo di proporre una riflessione: “[…] sempre secondo Teodorani, proprio l’essere caratteristica del fascismo l’inclusività (ad esso aderirono socialisti, cattolici, liberali, ecc.) porterà la memoria del fascismo ad essere condivisa dalla popolazione, ad essere quella memoria civile comune che appartiene di diritto a tutti gli italiani”. E, in nota, le parole di Teodorani: “Per questo sono fascista, perché sono socialista. Approvo i democristiani, mi piacciono i comunisti, mi sento liberale, ma soprattutto sono italiano, e non posso rinnegare tutto il bene e tutto il male racchiuso in questa qualifica”. È un passo che poi ritroveremo nei “diari” e che impone una seria riflessione: il Fascismo fu “inclusivo”, furono moltissime le “anime” che vi si ritrovarono, che vi cedettero, che operarono al suo interno. Ora, in tema di sistemi totalitari, si è mai vista un’inclusività di questo tipo? Ne abbiamo parlato a lungo nel corso dei mesi passati e abbiamo visto come moltissimi punti di vista coabitarono in quel Ventennio della nostra storia. Il merito fu principalmente proprio di Benito Mussolini: quando si nasce socialisti, così si muore. Dunque una riflessione su due fronti: da una parte, sul fronte “esterno”, occorre che i libri di storia ne prendano finalmente atto e spieghino con chiarezza agli studenti dei giorni nostri cosa fu questa “inclusività”. Dall’altro, sul fronte per così dire “interno”, varrebbe la pena riflettere su questo aspetto e valutare come certi episodi di fanatismo e di eccessi siano dettati, in fondo, anche da una certa ignoranza in merito al Fascismo e a ciò che quella rivoluzione fu nel nostro Paese. Episodi di intolleranza, spesso solo verbale o “virtuale” (ne sono pieni i social network, per esempio), dimostrano che a volte ci si dichiara “fascisti” senza sapere fino in fondo di cosa si parla. In alcuni casi sembra una “moda”, in altri si incorre nello stesso errore che ha fatto certa stampa e certa informazione nel corso dei decenni appena trascorsi. L’autoghettizzazione che ne deriva va così ad aggiungersi alla ghettizzazione imposta da settant’anni di demagogia. Partendo dal presupposto che occorre, ed è tempo, storicizzare l’epoca fascista (ma anche la resistenza e la cosiddetta liberazione), bisognerà guardare avanti ma con la consapevolezza di ciò che è stata la nostra storia. E questa storia oggi ci appare sempre più chiara: la pubblicazione dei “diari” di Vanni Teodorani, per esempio, è qualcosa su cui continuare a ragionare. Cominciamo dunque riferendo ai nostri lettori un piccolo passo della prefazione dello stesso Teodorani, ne conosceremo così anche la vena ottimistica e un po’ ironica, caratteristica di questo personaggio straordinario che finalmente, dopo decenni, esce da quell’alone di estrema segretezza a cui lo aveva destinato il suo ruolo di uomo fidatissimo e carissimo al Duce. “Una delle più forti ambizioni della mia vita – scrive in apertura – sarebbe stata quella di poter anteporre a un mio libro una prefazione vergata da Mussolini. Ma era un sogno inarrivabile, ché per chiedere e ottenere simile riconoscimento, avrei dovuto prima finire di scrivere un libro. E quando c’era Lui in fondo avevamo tutti qualcosa di meglio da fare, e io sia che mi illudessi di varare un romanzo o di allineare delle impressioni di viaggio, o di cimentarmi in un trattato di politica, metropolitana o coloniale, dopo aver riempito le prime cinquanta, cento cartelle, piantavo tutto, chiamato altrove sia da nuove esperienze politiche o professionali, sia da altri viaggi, sia infine, perché no, da qualche contingente romanzetto strettamente personale, poco letterario, ma passionalmente piacevole”. Insomma, il tempo per scrivere un libro ed avere l’onore di una prefazione firmata dal Duce, Teodorani proprio non lo trova. E così la scrive da sé, e mentre scrive si rende conto che “vi sarebbero ancora tante cose da dire che non basterebbe tutta la carta del mondo”. Continua scrivendo che il libro va considerato come un “documento umano e basta”, che nel comporlo non ha mai avuto preoccupazioni di carattere politico ma ritiene si senta “forse ovunque come motivo dominante l’amarezza di non poter vedere armonicamente fusi il rosso e il nero”. Ne parlavamo ieri, ecco, l’ “inclusività”. Importante un passaggio, tratto ancora dalla prefazione: “I miei compagni, quelli che hanno sofferto con me e quelli che hanno sofferto molto più di me, noteranno che manca una pagina di puro odio. Magari anche semplicemente lirico. Ma non è colpa mia. Mussolini, che è stato per me, come per infiniti altri, il più grande maestro, non mi ha dato solo interessanti lezioni di politica sociale ed internazionale, ho anche distillato da Lui una larga e umana filosofia che esclude l’odio, l’odio che Lui non ha saputo insegnare nemmeno quando sarebbe stato un indispensabile ingrediente per l’inebriante posizione della Vittoria. Ho letto sullo stesso argomento poche frasi di Stalin e ho compreso come egli sappia e possa ammaestrare all’odio. Il Nostro proprio non poteva, poiché gli mancava la dote fondamentale, non sapendo odiare nemmeno Lui”. Un passaggio dotato di alta liricità, e anche queste parole dovrebbero far riflettere a lungo. Ci sono passaggi, poi, in cui Teodorani anticipa che nel testo il lettore troverà molti riferimenti a Dio: “… solo il pensiero di Dio – scrive – è continuo, fecondo conforto”. Il volume è bellissimo, si legge con slancio e passione, nella sua trattazione non possiamo fermarci qui. L’appuntamento è dunque per domani, con la terza parte di questo speciale.

L’intervista. “La suora a mia madre: il Duce andrà incontro ad Arnaldo in Paradiso”. Anna Teodorani: commossa e meravigliata dal successo del Quaderno del padre, memorie che toccano il cuore. Prosegue la nostra chiacchierata del tutto informale con Anna Teodorani, figlia di Vanni. Siamo ancora sedute nel suo soggiorno accogliente e abbiamo sempre il suo sorriso gentile davanti agli occhi. Le chiediamo di raccontarci qualche altro particolare.

“Sono rimasta meravigliata e commossa per questo successo – ci dice, riferendosi alla pubblicazione dei “diari” di suo padre -  Tempo fa mi ha chiamata un prefetto in pensione che ogni tanto incontro nei pranzi che si organizzano fra i vecchi colleghi. E mi ha ringraziata, dicendomi che leggendo il libro si è ringiovanito, avendo rivissuto quei momenti. Ma anche tanti altri … mi ha chiamata la figlia di Fernando Mezzasoma (ministro della Cultura Popolare di Mussolini, fucilato a Dongo il 28 aprile 1945 insieme agli altri fascisti rastrellati dai partigiani, ndr), molto commossa; tra l’altro le tre bambine, le figlie di Mezzasoma, sono citate nel libro”.

Quanti ricordi porta con sé, non è vero? – le chiediamo - Su piazzale Loreto, per esempio … E la signora Anna comincia a raccontare quei momenti: “Eravamo chiusi in convento, avevo sei anni. Guardavo dalla finestra, c’erano tanti cortei, sai da piccolini si è curiosi. Ad un certo punto passò un uomo con un giornale e mia madre si mise a piangere, ed io lì capii subito che qualcosa era successo. Nei titoli delle testate si leggeva: “Giustizia è fatta!” forse era “L’Avanti”. Poi arrivò la suora e cercò di rincuorarla con le parole più adatte in quei momenti. Mia madre disse: "Era tanto legato a mio padre …" … parlava del Duce, che era legatissimo ad Arnaldo. La suora disse a mia madre: “Gli sarà andato incontro in Paradiso” … avevo solo sei anni ma quelle parole mi sono rimaste impresse”.

L’occasione ci porta a ragionare insieme sulla religiosità di Benito Mussolini, la signora Anna ricorda la figura di don Ennio Innocenti: “fu portato in un campo di concentramento – dice - perché era figlio di un caduto della Repubblica Sociale, poi ha parlato alla radio per tanto tempo. Ha scritto tante cose sul Duce”.

Le chiediamo che ricordi ha di suo zio, Benito Mussolini: “Mi ricordo quando andavamo a Gargnano, a Villa Feltrinelli, per noi era un avvenimento; ci mettevano tutti in fila raccomandandoci di fare gli educati, di salutare romanamente, poi quando arrivavamo, Lui ci salutava tutti chiedendoci come state? e ci diceva: giocate e rompete tutto”. Era molto indulgente con noi bambini. E questo mi colpì, perché noi venivamo ossessionati dai genitori e dalle stesse istitutrici. Allora i bambini avevano una vita quadrata. Mi ricordo che c’era un calcio balilla e un mio cugino, cominciò subito a svitare i pezzi. Mi colpì tanto la Sua indulgenza. Voleva molto bene a mia mamma, lei era vissuta con loro: dato che era rimasta orfana, venne a vivere a Roma a Villa Torlonia. Mia madre era una ragazza molto tranquilla, buona. Mia madre e suo fratello vennero trattati dallo zio (Benito Mussolini) come se fossero figli suoi. Quando fu messo in vendita lo stabilimento de “Il popolo d’Italia”, invece di dividerlo in 5 parti fece una divisione per sette”.  

Il Comunista Benito Mussolini ucciso dai comunisti. Quello che la sub cultura post bellica impedisce di far sapere ai retrogradi ed ignoranti italioti. Non fu lotta di liberazione, ma solo lotta di potere a sinistra. La sola differenza politica tra Mussolini e Togliatti era che il Benito Leninista espropriò le terre ai ricchi donandola ai poveri, affinchè lavorassero la terra per sé ed i propri cari in una Italia autonoma ed indipendente nel panorama internazionale; il Palmiro Stalinista voleva espropriare le proprietà ai ricchi per far lavorare i poveri a vantaggio della nomenclatura di Stato assoggettata all’Unione Sovietica.

Mussolini è stato più comunista di Fidel Castro. Quel Castro che mai si era dichiarato comunista. Se non che, con l'appellativo di Líder Máximo ("Condottiero Supremo"), a quanto pare attribuitogli quando, il 2 dicembre 1961, dichiarò che Cuba avrebbe adottato il comunismo in seguito allo sbarco della baia dei Porci a sud di L'Avana, un fallito tentativo da parte del governo statunitense di rovesciare con le armi il regime cubano. Nel corso degli anni Castro ha rafforzato la popolarità di quest'appellativo. Castro doveva scegliere: o di qua o di là. L'hanno costretto a scegliere l'Unione Sovietica.

Ecco chi era “Il Compagno Mussolini”. Il 18 marzo 1904, a Ginevra, Benito Mussolini tenne una conferenza per commemorare la Comune di Parigi. Secondo Renzo De Felice, il più noto biografo di Mussolini, è stata, questa, l’unica occasione in cui il Duce vide Vladimir Ilic Uljanov Lenin, anche lui presente al convegno. Ma Mussolini potrebbe avere incontrato l’esiliato russo anche a Berna, l’anno prima: era solito, infatti, pranzare alla mensa Spysi, dove anche Lenin e Trotsky mangiavano con regolarità. Dopo la Marcia su Roma, il Capo del Cremlino aveva rimproverato una delegazione di comunisti italiani (c’era anche il romagnolo Nicola Bombacci): «Mussolini era l’unico tra voi con la mente e il temperamento adatti a fare una rivoluzione. Perché avete permesso che se ne andasse?».

Viva le bandiere rosse della rivoluzione. Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie, scrive Benito Mussolini il 5 luglio 1917, (pubblicato da "Il Giornale" il 14/08/2016).  Io saluto con ammirazione devota e commossa le bandiere vermiglie che dopo aver sventolato una prima volta nelle strade e nelle piazze di Pietrogrado in un pallido nevoso mattino di primavera, sono diventate oggi l'insegna dei reggimenti che il 1° luglio sono andati all'assalto delle linee austro-tedesche in Galizia e le hanno espugnate. Io m'inchino davanti a questa duplice consacrazione vittoriosa, contro lo zar prima, contro il Kaiser oggi.

«Le conquiste sociali del Fascismo? Non si trattava solo dei treni in orario. Assegni familiari per i figli a carico, borse di studio per dare opportunità anche ai meno abbienti, bonifiche dei territori, edilizia sociale. Questo perché solo dieci anni prima Mussolini era in realtà un Socialista marxista e massimalista che si portò con sé il senso del sociale, del popolo. Le dirò in un certo senso il fascismo modernizzò il paese. Nei confronti del Nazismo fu dittatura all’acqua di rose: se Mussolini non avesse firmato le infamanti leggi razziali, sarebbe morto di morte naturale come Franco. Resta una dittatura, ma anche espressione d’italianità. Bisognerebbe fare un’analisi meno ideologica su questo. Quello che ha ottenuto il fascismo in campo sociale oggi ce lo sogniamo». – Margherita Hack. La celebre astrofisica Margherita Hack candidata nel movimento politico "Democrazia Atea" come capolista alla Circoscrizione Veneto 2, ha rilasciato il 23 marzo 2013 un'intervista alla rivista Barricate che sicuramente farà molto discutere. Margherita Hack nell'intervista però ammette anche di essere comunista nonostante "il Comunismo ha soppresso le libertà. Io sono per la tutela della proprietà privata, il rispetto dell'individuo che non è solo gruppo. Questo è socialismo puro. Poi guardi basterebbe rispettare la Costituzione per avere una società più giusta".

Casapound "celebra" Che Guevara e Castro? Insorgono i Giovani Comunisti. CasaPound, organizzazione notoriamente di estrema destra celebra Fidel Castro e Che Guevara, vale a dire due "miti" dell'estrema sinistra? A denunciarlo sono i Giovani Comunisti che lamentano l'esproprio dei propri punti di riferimento, scrive il 4 giugno 2014 "Forlì Today". CasaPound, organizzazione notoriamente di estrema destra celebra Fidel Castro e Che Guevara, vale a dire due “miti” dell'estrema sinistra? A denunciarlo sono i Giovani Comunisti di Forlì, con una nota in cui lamentano l'esproprio dei propri punti di riferimento. Scrivono i Giovani Comunisti nel comunicato: “Come reso noto tramite la pagina Facebook dello “Spazio Barbanera”, l'associazione neofascista CasaPound Italia di Forlì ha organizzato, nella giornata del 7 giugno, l’ennesimo evento da inserire nel novero del mimetismo politico che quest’organizzazione suole utilizzare per le sue iniziative. Questa volta si tratta della celebrazione delle figure di Ernesto Che Guevara e Fidel Castro, tramite la presentazione di un libro che collega tali personalità ad una cosiddetta “origine del nazionalismo rivoluzionario”. Come Giovani Comunisti di Forlì non possiamo esimerci dal contestare categoricamente tale evento e tali iniziative, dove spesso e incoerentemente si espropriano personalità appartenenti alla sinistra radicale e rivoluzionaria, le stesse che per tutta la vita hanno combattuto strenuamente il fascismo, in tutte le sue forme”. Precisano i Giovani Comunisti: “Ciò detto, riteniamo che questa nostra contestazione non sia strettamente vincolata e dovuta al senso di appartenenza che noi sentiamo nei confronti di Castro e Guevara, ma sia più urgentemente collegata al dovere di smascherare la vera natura di un’associazione dichiaratamente neofascista che, attraverso la promozione di eventi di questo tipo, produce disinformazione tra la società civile e permette un’ulteriore violazione della nostra cultura e della nostra identità. CasaPound, così come le altre forze xenofobe e reazionarie dell’estrema destra europea, critica il sistema finanziario che i poteri forti impongono alla nostra sovranità, utilizzando questi argomenti come strumento per catalizzare il malcontento della popolazione, cavalcando l’onda del disagio sociale per spostare a destra gli equilibri politici fino ad arrivare ad una vera e propria involuzione in senso autoritario delle istituzioni dello Stato. CasaPound e le destre sopracitate, ritengono di dover rovesciare questo sistema mediante le forme che, come ben sappiamo, hanno soppresso ogni libertà e pluralismo nel nostro continente e nel mondo intero”. Quindi tornano su Castro e Che Guevara: “In relazione ad esigenze di coerenza intellettuale e storica, risulta necessario chiarire pubblicamente l'inesattezza della presente espropriazione delle figure di Guevara e Castro. La Rivoluzione Cubana, così come anche altri tentativi rivoluzionari nei paesi dell'America Latina, non ha niente a che vedere con le nozioni tipiche di “nazionalismo” da cui derivano, invece, i regimi fascisti e nazisti del Novecento. Va precisato, inoltre, che per i rivoluzionari comunisti e socialisti del Sud del mondo, le parole “patria” oppure “indipendenza”, hanno assunto un significato non in senso ideologicamente nazionalistico - dove si concepisce la propria nazione come ente superiore alle altre nazioni e superiore a qualsiasi altro valore esistente - ma, al contrario, come viatici per i percorsi di indipendenza dei paesi colonizzati, che equivalgono proporzionalmente ai processi di liberazione delle nazioni del Sud del mondo dall'imperialismo, sia economico che politico, sistematicamente applicato da parte delle nazioni più avanzate su quei territori. Ed è proprio su questo versante che il fascismo è ulteriormente vulnerabile. Non a caso, l'imperialismo applicato a questi Paesi ha trovato nel fascismo uno strumento di forza per il consolidamento e la perpetuazione di questo sistema. Perciò, riteniamo che l'incoerenza logica che presenta l'esistenza stessa di CasaPound e, conseguentemente, l'irrazionalità assoluta degli eventi organizzati come quello del 7 giugno, trovino la loro spiegazione sempre nelle parole di Palmiro Togliatti che affermava che “non si può sapere ciò che è il fascismo se non si conosce cosa sia in realtà l'imperialismo”. Sempre nell’ambito dell’imperialismo, lo stesso Guevara affermava che “tutta la nostra azione è un grido di guerra contro l’imperialismo”, e sia la Storia italiana che la circostanza cubana pre-rivoluzionaria si configurano come esempi chiari e funzionali a questa specifica analisi. Quindi l'invito a non partecipare: “Ecco perché come Giovani Comunisti di Forlì invitiamo le cittadine e i cittadini tutti non solo a non partecipare a tali eventi. Inoltre, lanciamo nuovamente un appello alle autorità locali e alla popolazione per tentare di combattere queste associazioni facendo chiudere immediatamente le loro sedi. Giù le mani dalla Storia e dalla Rivoluzione Cubana”.

I neo comunisti? Poveri illusi ed ignoranti della storia.

CI POSSIAMO FIDARE DEI FRATELLI CASTRO? I CUBANI DICONO NO. Che cosa sta veramente accadendo a Cuba? Le cose sono cambiate dopo gli accordi con Obama e l'annunciata visita di Papa Francesco? Lo abbiamo chiesto a Carlos Enrique Carralero Almaguer, noto dissidente cubano, dal 1995 esule in Italia e residente a Milano. Carralero è autore di molti volumi tra cui la celebre trilogia «Saturno», un'allegoria della dittatura castrista. Il suo ultimo libro è «Fidel Castro – L'abbraccio letale» (Greco & Greco Editori, 2013). Intervista a Carlos Carralero.

Potrebbe fornirci qualche elemento sul suo background politico?

«Io mi proclamo cristiano. Sono stato membro di alcune associazioni di opposizione al regime comunista. Concretamente, ho collaborato con CID (Cuba Independiente y Democrática), l'organizzazione fondata da Huber Matos nell'esilio. Facevamo un'azione di propaganda ideologica pacifica, evidentemente clandestina. Se fossi stato preso, mi aspettavano almeno vent'anni di carcere duro. Nel 1990 sono stato cacciato via dal lavoro. Sono stato allora avvicinato da Oswaldo Payá, coordinatore nazionale del Movimiento Cristiano de Liberación, col quale ho collaborato per alcuni mesi. Nel 1993 ho raccolto 72 firme nel mio quartiere in sostegno a un plebiscito per restaurare la democrazia in Cuba. L'articolo 88 della Costituzione contiene un comma secondo il quale, con 10mila firme, i cubani possono chiedere all'Assamblea Nacional (Parlamento) di convocare un plebiscito. Evidentemente il regime non ne ha mai tenuto conto. Le mie firme, quindi, non sono servite a niente. Espulso da Cuba nel 1995, sono approdato in Italia. Qui, nel 2003, ho fondato l'Unione per le libertà a Cuba, per cercare di aiutare i miei connazionali perseguitati e, nello stesso tempo, aprire gli occhi agli italiani sulla reale situazione nell'isola-prigione. A questo scopo organizziamo conferenze, pubblichiamo libri, interveniamo in programmi radio e TV e via dicendo. In collaborazione col giornalista Aldo Forbice, questa associazione ha raccolto 100mila firme in favore dei prigionieri politici e della democrazia a Cuba. Bisogna registrare che, prima, in Italia c'era il Comité italiano por los derechos humanos en Cuba, fondato da Laura González, scomparsa nel 2005».

Una "scheda" di tutto rispetto. In Europa in generale, e in Italia in particolare, conosciamo la situazione di Cuba soltanto attraverso la lente deformante dei mass media. Che cosa è, in realtà, il regime dei fratelli Castro? Che cosa ha significato per Cuba?

«Rispondo con qualche ricordo di famiglia. Io sono il più giovane di una famiglia che, nel suo piccolo, fece la Rivoluzione. Mio padre, quattro zii di parte paterna, uno zio di parte materna e un cugino formavano un nucleo di opposizione alla dittatura di Batista. La mia casa era praticamente un accampamento ribelle. Tra noi alcuni raggiunsero Fidel Castro alla Sierra Maestra, ma non combatterono mai né incontrarono personalmente Castro, sempre protetto dalle sue guardie del corpo. Tornando in pianura, sul finire del 1959, poche settimane prima del trionfo della Revolución, ricevettero la notizia che i due membri della famiglia rimasti a casa, mio padre e mio cugino, erano stati uccisi dai corpi paramilitari. Io ero ancora piccolo, ma il fatto mi sconvolse molto. I miei zii, invece, sono morti nella povertà. Essendo nato in una famiglia rivoluzionaria, io sono entrato a far parte del sistema. Col tempo, però, ho acquisito la coscienza che il regime castrista non era, nemmeno da lontano, l'ideale per il quale avevamo lottato e che tanti cubani avevano sognato. Oggi, quasi tutti questi rivoluzionari della prima ora, compresi i miei parenti, sono morti, uccisi dallo stesso regime che avevano aiutato a instaurare. Fidel Castro aveva ripetutamente giurato di non essere comunista e di voler restaurare la democrazia in Cuba. Balle che egli raccontò fino ai primi mesi del 1961. Diceva che non era una "rivoluzione rossa" ma "verde come le palme". La Palma Real, alta ed elegante, è l'albero nazionale di Cuba. Dopo il 1961, egli tradì questi begli ideali, trasformando la rivoluzione verde in rossa. Fu la cosiddetta svolta comunista, in cui Castro si mise nelle mani di chi lo poteva proteggere, ossia l'Unione Sovietica. Più di uno all'epoca, tra cui Rafael Díaz-Balart, fratello della prima moglie di Castro, aveva profetizzato che egli avrebbe scelto il "rosso"».

Cuba allora era un paese piuttosto ricco. La rivoluzione non è stata fatta col pretesto di combattere la povertà?

«Cuba era uno dei paesi più sviluppati dell'America Latina, classificata allora come potenza emergente, o "paese in fase di decollo economico", secondo la classifica del celebre economista Whitman Rostov. Aveva la più bassa mortalità infantile del continente e uno dei più alti indici di scolarità. L'economia era fiorente. Il peso cubano era una delle valute più solide del mondo. Alla vigilia della rivoluzione, c'erano più investimenti cubani negli Stati Uniti, che investimenti americani a Cuba. Avevamo un'industria di zucchero molto fiorente, e più di un capo di bestiame per abitante. Castro ha distrutto tutto ciò, gettando la mia patria in una miseria quale non si era mai vista. A Cuba, oggi, ci sono medici, tecnici e ingegneri. Si potrebbe, dunque, dire che esiste una buona educazione. Il nostro popolo, però, ha perso la sapienza. La sapienza unifica. Il popolo cubano oggi è diviso, le manca assolutamente una bussola spirituale. Perché un popolo che perde la Fede è un popolo smarrito spiritualmente. Perfino la tanto biasimata dittatura di Batista non era poi tanto cattiva. Egli era un dittatore nello stile classico degli "uomini forti" latinoamericani. Niente a che fare con figure come Hitler o Stalin, o anche Castro. Batista permetteva l'esistenza di partiti politici di opposizione e non infieriva contro la stampa contraria al suo governo. La Costituzione varata nel suo primo governo, nel 1940, era considerata da molti una delle più avanzate del mondo. Batista indurì il regime solo quando il movimento 26 de Julio, capeggiato da Fidel Castro, cominciò a piantare bombe nelle città. Una notte, per esempio, scoppiarono quasi cento bombe all'Avana. Questo era terrorismo. Non difendo quel regime, anche perché Batista era circondato da militari senza scrupoli. Ma se proprio di mancanza di scrupoli dobbiamo parlare, allora il primato va senza dubbio a Fidel Castro e a i suoi seguaci. Poi, nessuna dittatura nella storia dell'America Latina è durata cinquantasei anni».

Com'è il controllo del regime sulla popolazione?

«A Cuba ci sono due forme di repressione. Una diretta e un'altra indiretta. La repressione diretta è rivolta ai "dissidenti", che in realtà vuole dire chiunque non la pensi come il regime comunista. Minacce, ricatti, arresti e via dicendo, completati dai famosi processi stalinisti, in cui i "dissidenti" vengono condannati senza pietà. L'accusa più comune è "propaganda nemica", reato che non è definito da nessuna parte, ma che vuol dire semplicemente avere idee diverse da quelle del regime. Per esempio, io ho visto persone condannate per aver detto che Fidel Castro sbagliava tale o tale politica. Oppure, accusare qualsiasi membro del regime, perfino i più modesti, costituisce "propaganda nemica". Castro abolì la Costituzione del 1940 e promulgò una Ley Fundamental, di carattere prettamente comunista, vigente fino al 1975, quando fu sostituita da una nuova Costituzione, anch'essa comunista. Bisogna, però, dire che i primi a violarla furono gli uomini del regime. Per esempio, l'articolo 53 garantisce la libertà di riunione. Ma provi Lei a riunirsi senza l'autorizzazione del regime! La repressione indiretta è rivolta a tutta la popolazione. A partire dai cinque anni i bambini devono frequentare la scuola statale, dove sono vittime di un vero lavaggio del cervello. La giornata scolastica comincia col grido "¡Por el comunismo!", al quale i bambini rispondono in coro "¡Seremos como el Ché!". Se un bambino non aderisce all'ideologia ufficiale, convocano i genitori e li minacciano di escluderlo dal sistema scolastico. Si stabilisce, in questo modo, un sistema di terrore che appiattisce le coscienze e terrorizza i cittadini. La tanto decantata educazione cubana non è che un'immensa operazione di lavaggio di cervello. Questo controllo continua poi durante tutta la vita. Per esempio, se un medico vuole promuoversi professionalmente, deve superare l'esame di idoneità ideologica sostenuto presso un Comitato del regime. Se devi traslocare in un'altra città, hai bisogno di un certificato del regime. Poi esiste il controllo del sistema sanitario nazionale, che accompagna ogni cittadino, non solo nelle sue vicende di salute, ma anche nelle sue scelte politiche. In questo modo, la tua vita è sempre condizionata dalla tua integrazione politica. Il controllo diventa capillare attraverso i Comités de Defensa de la Revolución (CDR), una sorta di soviet di quartiere, che controllano ogni cittadino anche nella sua vita privata».

Questo è cambiato negli ultimi anni?

«La situazione dei diritti dei cittadini non è cambiata in assoluto. Ogni volta che si leggono cose su Cuba, anche sui social network, si vedono persone perseguitate per le loro idee. A Cuba non esiste una sola organizzazione di opposizione che sia legale. Sono tutte illegali. Perfino il Movimento Cristiano de Liberación, nonostante il suo fondatore Oswaldo Payá fosse un fisico di prestigio, perfino candidato al Nobel per la pace, è stato perseguitato. Payá era vicino mio all'Avana, e mi ricordo quando hanno vandalizzato la sua casa, per spaventarlo, senza che la Polizia intervenisse».

Quali effetti avrà l'accordo recentemente firmato tra Obama e Cuba, con la mediazione di Papa Francesco?

«Non mi atteggerò a profeta. Potrebbe succedere ciò che è successo in Romania, cioè che vi sia un inizio di vera contestazione che cresca fino a rovesciare il regime. Ma è una probabilità molto ridotta. Il popolo cubano è diventato inerte. È affetto da ciò che gli psicologi chiamano "Sindrome d'indifendibilità appresa". È un riflesso condizionato, come quello di Pavlov, per il quale dopo anni di sottomissione a un giogo, la persona non reagisce più. Le persone afflitte da questa sindrome soffrono una sorta di paralisi psicologica che gli toglie la capacità di reagire di fronte a ingiustizie, umiliazioni e via dicendo. Questo è tipico dei regimi comunisti, e il popolo cubano si è abituato. Tutti dicono "Esto no hay quien lo tumbe" (questo non lo rovescia nessuno). È un atteggiamento arrendevole. Bisogna riconoscere che il regime castrista è riuscito, crudelmente, a sviluppare nell'anima cubana questa sindrome. Se soltanto un 5% dei cittadini si fosse ribellato seriamente, credo che la storia sarebbe stata molto diversa. Forte di questo fatto, il regime comunista cubano, in sostanza, non ha alcuna intenzione di cambiare. Detto ciò, credo che si potrà camminare verso una sorta di capitalismo di Stato alla cinese. È una cosa che io stesso ripeto ormai da anni».

Ma, se il regime castrista ha un tale controllo sulle istituzioni, e anche sulla mente dei cittadini, che bisogno ha di firmare tali accordi? Perché cerca il riconoscimento da parte del suo ex arci-nemico, gli Stati Uniti?

«Raul Castro non è un dittatore nato, come suo fratello. Egli lo è diventato. Raul non è un dilettante, un improvvisatore: è militare, ha una mente organizzatrice. Per esempio, è lui a gestire l'immensa fortuna dei Castro. Non è un ideologo, bensì un pragmatico».

Che cosa cerca Raul con questa manovra?

«La manovra ha due scopi. Anzitutto, immagine. E devo dire che ci è riuscito. Come ripetendo uno slogan, molti dicono: "todo está cambiando" (qui sta cambiando tutto). Questo slogan è poi amplificato dai mezzi di comunicazione, a livello mondiale. Con l'immagine viene anche il riconoscimento ufficiale. Obama ha legittimato il regime comunista, come adesso sembra voler fare anche Papa Francesco. Bisogna, però, dire che non vi è stata nessuna apertura politica. Un esempio personale: da anni io ho la cittadinanza italiana. Il Consolato cubano si rifiuta di lasciarmi entrare nel Paese col passaporto italiano, che è l'unico che possiedo. D'altronde, io avrei paura di tornarci. Se riuscissi a mettere piede a Cuba, avrei subito sulle mie spalle cento poliziotti dei servizi che mi piantonerebbero giorno e notte. Potrebbero, per esempio, creare un incidente stradale. Che libertà è questa? Ancor oggi, manifestare un'opinione politica diversa da quella del regime è la via più sicura per il carcere. Il secondo scopo della manovra di Castro è economico. In conseguenza della manovra, il regime sta ricevendo molti più soldi. Con la liberazione delle transazioni bancarie, dagli Stati Uniti stanno arrivando palate di soldi, inviate dai residenti cubani. Il numero di turisti sta aumentando esponenzialmente. Ogni aereo che arriva dagli Stati Uniti implica fior di quattrini iniettati nella fragile economia dell'isola. Per esempio, solo la mancia lasciata da un turista gringo può significare metà dello stipendio mensile di un cubano. Il famigerato embargo non fu mai effettivo. Non vi fu mai un blocco a Cuba. In realtà era un colabrodo. Ma è evidente che adesso ci sarà più facilità per commerciare con l'isola. È un mistero, ma Castro ha sempre avuto l'appoggio del mondo. Il regime comunista di Fidel Castro è la dittatura più aiutata di tutti i tempi. Dall'URSS Cuba ricevette tanti soldi, in sostanza quasi quanti col famoso Piano Marshall per la ricostruzione dell'Europa. Un debito che non pagherà mai. Crollata la Cortina di ferro, i Paesi occidentali hanno gareggiato negli aiuti al dittatore. Solo dal Venezuela, per esempio, arrivano gratuitamente a Cuba ogni giorno centomila barili di petrolio».

Un'ultima domanda. Fra tutti, forse, l'appoggio più importante, a livello morale, è stato quello di non pochi rappresentanti della Chiesa?

«In concreto, non credo che ci sia stato un sostenitore più utile e tenace del comunismo cubano dell'arcivescovo de l'Avana, cardinale Jaime Ortega. Ricordo che, dopo la morte di Zapata nel 2010, proprio Ortega bloccò le manifestazioni delle Damas de Blanco contro il regime. Egli convocò le Damas in Curia per dire loro che non potevano manifestare in pubblico. Poco tempo dopo, la leader delle Damas, Laura Pollán, morì in circostanze misteriose. Nemmeno una volta Ortega ha protestato contro i maltrattamenti che queste donne, alcune anziane, ricevono continuamente da parte degli sbirri di Castro. L'appoggio di Ortega è tanto più sconvolgente in quanto, ancora semplice sacerdote, egli patì il campo di concentramento. Ortega, però, è solo la punta dell'iceberg dell'appoggio cattolico al regime comunista. C'è tutta una corrente allineata alla cosiddetta teologia della liberazione, che appoggia il comunismo. Non a caso sono venuti a Cuba i fratelli Boff e il domenicano fra Betto. Sì, purtroppo c'è stato molto appoggio cattolico a Castro. Anzi, i casi di sacerdoti oppositori si contano sulle dita della mano». (Rivista Tradizione, Famiglia, Proprietà - Ottobre 2015)

Fidel, la Storia ti assolverà? Forse...scrive Lanfranco Caminiti il 14 ago 2016 su “Il Dubbio”. A Cuba il lider maximo ha compiuto 90 anni. In più di mezzo secolo di potere ha sfidato undici presidenti americani, governando la sua isola tra conquiste sociali e la paranoia politica tipica dei regimi autoritari. «La historia necesita tiempo / La storia ha bisogno di tempo», ha sussurrato Paco Ignacio Taibo II per rispondere a una domanda sulla rivoluzione cubana. E quanta prudenza e quanta consapevolezza e quanta tenerezza c'è in queste parole - «amoroso y critico», ha definito il proprio sentimento verso Cuba il grande scrittore di lingua spagnola, che di rivoluzionari e rivoluzioni ha impastato le sue storie. Solo che il tempo sembra esserselo preso tutto lui, Fidel, che compie novant'anni. E non sembra abbia intenzione di smettere, benché in Florida gli emigré cubani continuino a accendere ceri a Nuestra Señora de la Caridad pregando che arrivi presto the biological solution. In più di cinquant'anni di potere ha sfidato undici presidenti Usa, da Eisenhower a Obama. Su questo tempo, dalla metà del secolo scorso, l'avvocato Castro, nato il 13 agosto 1926 a Biràn, provincia di Holguìn, parte meridionale di Cuba, ha giganteggiato. Dall'alto del suo metro e novanta. «La historia me absolverá»  concluse così la propria arringa difensiva, vero atto d'accusa contro il golpe del 10 marzo 1952 e la dittatura a Cuba il giovane Fidel, citando Tommaso d'Aquino, John Locke e Martin Lutero, non certo Marx o Lenin, dopo il disastroso attacco alla caserma Moncada il 26 luglio 1953 in cui morirono ottanta uomini, armati per lo più di fucili da caccia, dopo di che erano fuggiti sulla Sierra e erano stati poi catturati, e che pure divenne l'atto fondativo della rivoluzione cubana. Raccontò al processo: «Abel Santamaria con ventuno uomini aveva occupato l'Ospedale Civile; con lui c'erano un medico e due nostre compagne per accudire i feriti. Raul Castro, con dieci uomini, occupò il Palazzo di Giustizia; e a me toccò attaccare l'accampamento con il resto, novantacinque uomini. Arrivai con un primo gruppo di quarantacinque, preceduto da un'avanguardia di otto... ». Ah, come invidio gli scrittori sudamericani - è già tutto magicamente raccontato dalle cose, che ci vuole a metterle assieme. La storia lo assolverà? Non fosse per quella tuta sportiva della Adidas, che ormai indossa da anni, Fidel sembrerebbe oggi una mummia sovietica, una di quelle che si trovavano sul palco della Piazza rossa a Mosca a veder sfilare missili e carri armati, e che salutavano con la mano o con gesto militare, e poi si abbracciavano e si baciavano congratulandosi l'uno con l'altro per la potenza sfoggiata del comunismo. Ma, come dice l'Ecclesiaste, c'è un tempo per la divisa e un tempo per la tuta, un tempo per la guerriglia e un tempo per la pensione. E Fidel l'ha capito. Lui che comunista lo è stato, lo è per la verità aveva cominciato militando nel Partito ortodosso cubano, un miscuglio di riformismo e nazionalismo, ma cubano. I comunisti cubani sono una razza strana: quando lo arrestano in Messico nel 1956 nel campo di Santa Rosa, insieme al Che e altri compagni che si andavano preparando per lo sbarco a Cuba, Batista, il dittatore cubano, ne vuole l'estradizione, perché teme "un complotto comunista". Fidel scriverà allora una lunga lettera al settimanale Bohemia, per spiegare perché lui non sarà mai comunista, ricordando che era stato proprio Batista, nel 1940, il candidato ufficiale del Partito comunista cubano, e che in quel momento al governo ci sono ministri comunisti. Il fatto è che una razza strana erano i comunisti sudamericani: rigidi come soldatini di piombo, obbedienti a Mosca perinde ac cadaver, guarderanno sempre con malcelato fastidio alla rivoluzione cubana, quando non con ostilità. E Fidel poi si rimangerà tutto. E che poteva fare se il mondo era diviso a metà e o stavi di qua o stavi di là, e se quelli con la bandiera a stelle e strisce, gli americani, ti organizzano con la peggiore feccia della terra lo sbarco alla Baia dei Porci per rovesciarti e provano mille modi per farti fuori, allora non ti restano che quelli con la bandiera rossa, i russi, per sopravvivere? Canna da zucchero in cambio di petrolio. Diventerà una condanna la monocultura sarà sempre la tragedia di ogni tentativo di riscatto sudamericano, anche quando assumerà il colore nero del petrolio come in Venezuela. L'avvocato Castro e il dottore Guevara ne erano consapevoli e immaginavano tutta una fioritura di imprese e attività. Ma come fai se tutto intorno hai l'embargo e l'unica cosa che vogliono i russi i tuoi alleati, figli di puttana, ma sono gli unici alleati che hai è la canna da zucchero? Così, comunista, Fidel, c'è diventato per conseguenza. Per via della canna da zucchero, si potrebbe dire. Rossana Rossanda non l'aveva capito: quando andò a Cuba con il suo compagno Karol gli spiegava, a lui, a Fidel, tutto il quadro internazionale del comunismo, e gli ortodossi, e gli eretici, e gli stalinisti e i trotskisti, e lui, il Fidel, le chiese: «Chi è Trotsky?». Ah, la lunga coda degli intellettuali europei per incontrarlo, sembrava di stare non al Malecon ma sulla Rive Gauche. Altro che il Subcomandante Marcos: con tutto il rispetto per il Sup, se lo sognava quel fior fiore di intellettuali europei che volteggiavano intorno a Fidel. Avevano cominciato Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, febbraio 1960 - tristi, tristissimi orfani del comunismo russo virato nell'orrore dello stalinismo e che ora finalmente avevano trovato il rivoluzionario capace di tenere testa all'imperialismo americano. Sartre scrisse: «È la luna di miele della Rivoluzione». La storia lo assolverà? La luna di miele è finita da un pezzo. «Cuba me duele», ha scritto il grande Eduardo Galeano. Il regime per un lungo periodo è diventato paranoico, vedeva nemici ovunque e l'unica risposta che trovava era stringere ancora di più diritti e libertà e sbattere in prigione qualunque voce di dissenso e di opposizione, come fossero tutti mafiosi della Florida prezzolati per rovesciare Castro. Ma qualcuno può pensare che cinquantasei anni di embargo, invasioni mercenarie, attacchi terroristi e trame d'ogni tipo possono aver dato qualche ragione alla leadership cubana per diventare paranoica. Assediata per cinquantasei anni dall'ingombrante vicino del nord, Cuba ha comunque raggiunto nel campo della scuola e della sanità standard da primo mondo pur stando nel terzo mondo. La mortalità infantile e l'alfabetizzazione hanno tassi identici a quelli americani, e il numero di alunni per classe è un terzo di quelli della Gran Bretagna, mentre, per dire, a Haiti, supportata per anni dagli Stati uniti, l'analfabetismo e la mortalità infantile registrano tassi dieci volte più alti. Cuba ha sviluppato un sistema sanitario, una ricerca biotecnologica e farmaceutica, considerata dagli stessi americani ai primi livelli dell'America latina. Fino a non molto tempo fa, cinquantamila medici cubani lavoravano gratuitamente in novantatré paesi del mondo e ogni anno circa mille studenti del terzo mondo ricevevano una gratuita formazione universitaria. Qualcuno può credere che questi numeri migliorerebbero se l'isola tornasse nelle mani dell'opposizione sostenuta dai nostalgici di Miami, dagli eredi e parenti delle aziende agricole, delle fabbriche e dei bordelli che Castro e il Che e Camilo Cienfuegos (ah, che nomi, i rivoluzionari sudamericani, sembrano storie inventate da Hugo Pratt) e i loro compagni espropriarono, che dalla Florida hanno tramato per anni per potersi riprendere le loro cose? «A todos nos llega nuestro turno / Per tutti arriva il proprio turno» aveva detto così il Comandante il 13 aprile scorso, durante il VII Congresso del Partito comunista cubano. «Por inexorable ley de la vida - aveva aggiunto il fratello Raul - el último Congreso dirigido por la generación histórica». Il settanta percento dei cubani è nato sotto il segno di Fidel. Magari, California dreaming, chissà. E questa è l'inesorabile legge della vita. Non li fanno più di quello stampo. Comunque la si voglia considerare, questa è una cosa che mette tanta tristezza.

Fidel Castro di Maurizio Stefanini del 16 Settembre 2009. Dal Foglio del 11 febbraio 1997. Fidel Alejandro Castro Ruz nasce il 13 agosto 1926, nel piccolo villaggio di Biran. La regione è l’Oriente cubano, la zona arretrata e turbolenta da cui nel 1868 è partita la prima grande insurrezione contro la dominazione spagnola. E Angel Castro y Argiz, suo padre, è appunto un soldato spagnolo, che arriva nell’isola nel 1895 con l’esercito incaricato di domare l’ennesima rivolta. Ma nel 1898 intervengono nel gioco gli Stati Uniti, che cacciano le forze di Madrid, e regalano all’isola l’indipendenza. Sotto la loro pesante e poco gradita tutela. Angel, congedato senza il proverbiale becco di un quattrino, si ingegna a vendere limonate, fa fortuna, e al prezzo di un lavoro indefesso si trasforma in un agiato proprietario terriero. Il gran profeta della “seconda indipendenza” e della “rivoluzione agraria” in America Latina è dunque il rampollo di uno sbirro del colonialismo divenuto latifondista. Fidel se ne vergogna, e ai biografi che cercano di ricostruire i suoi anni giovanili parla piuttosto della madre: Lina Ruz Gonzalez, “una cubana da lunga data e di umilissima origine”. Tanto umile che cresce analfabeta, imparerà a leggere e scrivere solo da grande. Di venticinque anni più giovane di Don Angel, arriva nella fattoria di lui dalla natia regione occidentale come cameriera e cuoca. Ben presto i rapporti tra padrone e serva evolvono a un punto tale che Donna María Argota, la maestra che oltre a essere la legittima consorte di Don Angel è anche la madre dei suoi due figli, se ne va di casa. Angela, Ramón e Fidel nascono dunque fuori del matrimonio. E le nozze religiose che regolarizzano la posizione dei quattro figli successivi sono celebrate dopo la morte, più presunta che accertata, di Donna María. Qualche biografo ha cercato in questa irregolarità anagrafica la ragione per cui Fidel viene battezzato solo a sei anni. Ma i figli illegittimi, in una società permissiva come quella cubana, non hanno mai fatto scandalo. E sembra che la ragione vera del ritardo sia da ricercare nella difficoltà di mettere insieme nello stesso momento e nello stesso posto l’unico prete della regione con l’indaffaratissimo don Fidel Pino Santos, il facoltoso latifondista (e creditore) che suo padre ha scelto come padrino. Tanto è vero che, alla fine, al battesimo lo porterà un altro. Anche se il nome del padrino designato, Fidel, ormai già dato al bimbo, rimane. Fin da piccolo Fidel manifesta in tutti i modi la propria antipatia per il padre. A nove anni minaccia di dare fuoco alla casa. Da adolescente cerca di convincere i contadini a scioperare contro Don Angel per ottenere aumenti di salario. E quando inizia la rivoluzione, anche se suo padre è ormai morto, non manca di prendersi una vendetta simbolica mandando i suoi guajiros a incendiare la piantagione di zucchero della famiglia, “per dare un esempio ai latifondisti rapaci ed egoisti”. Eppure, Don Angel influenza il figlio molto più di quanto Fidel non abbia mai voluto ammettere. E’ dal vecchio combattente della guerra del 1898 che il futuro líder máximo impara l’odio per gli americanos, come il vecchio Don Angel chiama gli statunitensi, secondo l’uso spagnolo e a differenza dei veri cubani che, come tutti i latino- americani, preferiscono parlare invece di norteamericanos. Un’antica antipatia di gioventù che nel padre di Castro ormai anziano è riattizzata da alcuni litigi di confine con proprietà appartenenti a gringos. E’ sempre dal vecchio patriarca imperioso che Fidel eredita il proprio innato autoritarismo. Osserviamolo con attenzione, Don Angel, che si alza la mattina prima di tutti, si fa radere a zero il cranio con un rasoio, si mette in testa il cappello a larghe tese da cui si separa solo per andare a dormire, e inizia ad andare in giro per la tenuta impicciandosi di tutto, e impartendo in continuazione ordini che non si aspettano di essere contraddetti. Don Angel è a suo modo un brav’uomo, attento al benessere di familiari e dipendenti, che colma di regali e attenzioni. Ed è felice, la sera, se può trascorrerla a giocare con loro a domino. Ma se inizia a perdere, bara. E se qualcuno trova da ridire il vecchio guerriero, gridando come un ossesso, dà un pugno sul tavolo e manda le pedine all’aria. Sostituiamo al cappello la tenuta verdeoliva, e al cranio pelato la barba intonsa dai tempi ormai mitici della Sierra Maestra. Allarghiamo le dimensioni della tenuta all’intera Cuba. Pensiamo, al posto dei regalini che Don Angel distribuiva ogni fine anno, a quell’assistenza sanitaria e a quell’istruzione pubblica di cui il líder máximo va oggi tanto orgoglioso; immaginiamo, al posto del figlio che osa vincere al domino, un cittadino che si permette di chiedere libere elezioni, e mettiamo anche una condanna a trent’anni di carcere o a morte, invece dello schiaffo in faccia o del pugno sul tavolo. Vedremo che Fidel, se odiava il padre, era perché gli somigliava troppo. E che due despoti di tal fatta, nella stessa famiglia, erano troppi per poter convivere. “Sono stato in due diverse scuole religiose e sempre da interno, giacché i miei vivevano in campagna”, ha ricordato Fidel Castro nella famosa intervista a Gianni Minà. “Fino alla quinta elementare ero stato in un collegio dei fratelli dell’ordine di Giovanni Battista de la Salle e anche lì avevo avuto qualche problema a causa del mio carattere”. Più precisamente, come ricorda qualche biografo meno compiacente dell’italiano, aveva picchiato un compagno, aveva tirato un pezzo di pane in testa a un prete, era noto per il suo hobby di “operare d’appendicite” le lucertole con un temperino, e alla fine i padri avevano pregato Don Angel di levare dalla scuola i fratelli Ramón, Fidel e Raúl perché “non studiano, e sono gli alunni più prepotenti che abbiamo mai avuto”. “Così sono finito dai gesuiti del liceo Dolores di Santiago di Cuba”, continua Fidel. “Quando stavo per iniziare il primo anno di liceo io stesso, dopo aver letto gli opuscoli illustrativi, proposi in famiglia il mio trasferimento al liceo di Belén dell’Avana”. Minà, purtroppo, non ha approfittato della storica intervista per chiedere al líder máximo se davvero, come raccontano i biografi meno compiacenti già menzionati, argomento decisivo per convincere il riluttante Don Angel sia stata la minaccia di dare fuoco alla casa. E’ il severo metodo dei gesuiti, ad ogni modo, che riesce finalmente a trarre dal piccolo teppista, se non proprio un alunno modello, certo un allievo di quelli che lasciano una traccia nella storia di una scuola. Si distingue come atleta e organizzatore di eventi sportivi: una passione che non lo abbandonerà più, e da statista lo porterà a sacrificare risorse preziose pur di fare del proprio paese una delle prime potenze sportive del mondo. Anche se, nello stile che ha appreso dal padre, quando perde, ha l’abitudine di abbandonare la competizione a metà, o di cercare comunque di mandare tutto a carte quarantotto. A Belén, dove si organizzano gare di oratoria, Fidel inizia anche a coltivare l’altra sua grande passione, quella per i discorsi. “La sua devozione nei confronti della parola è quasi magica”, ha scritto di lui il suo amico Gabriel García Márquez. “All’inizio della Rivoluzione, solo una settimana dopo il suo ingresso trionfale all’Avana, parlò incessantemente alla televisione per sette ore”. Il suo stile è talmente ipnotico che, per dirla sempre con lo scrittore colombiano, “la gente lo ascolta con un orecchio alle proprie cose e l’altro al discorso”. Eppure, questa radio umana ha “una voce afona che a volte sembra sfiatata”. Come Mussolini, che a detta di Salvemini “inventò il fascismo ma non riuscì mai a pronunciarlo correttamente”, ha un pesante accento dialettale, e come tutti i ca- raibici nei momenti di eccitazione si mangia le consonanti intervocaliche. Altro problema che affligge Fidel Castro, anche se può sembrare incredibile, è la sua innaturale timidezza, che d’altronde lui stesso ha più volte candidamente confessato. José Ignácio Rasco, che dopo essere stato suo compagno di studi è ora un leader dell’opposizione in esilio, racconta di aver ospitato in casa sua Fidel per una settimana, quando il futuro líder máximo preparò il suo primo discorso pubblico. Secondo l’insegnamento di Demostene, il balbuziente gran capofila di tutta la scuola dei grandi oratori loro malgrado, anche Fidel aveva passato tutto questo tempo a scrivere e riscrivere il testo, prima di provarlo davanti a uno specchio. Ma, come ricorda il suo biografo Tad Szulc, “l’incertezza che sempre si avverte all’inizio dei suoi discorsi non dura che un momento. Quando viene catturato dal fascino dell’argomento, la timidezza svanisce per tutte le lunghe ore che rimane davanti a microfoni e telecamere”. “Fidel ha legno, non mancherà l’artista che lo scolpisca”, scrivono i gesuiti nel giudizio di fine corso. E Fidel ricorda la loro come “una buona educazione”: “Imponevano la disciplina e il loro insegnamento scientifico era di alta qualità”. Le uniche riserve, oggi, sono ideologiche. “Quei gesuiti erano spagnoli e le loro idee non erano molto progressiste, erano idee nazionaliste, di destra e anticomuniste. Le loro simpatie erano orientate verso il franchismo e non potevano in nessun modo essere considerati progressisti”. A uno dei massimi esponenti della teologia della liberazione, il brasiliano Frei Betto, Fidel ha spiegato che alla politica, in quell’epoca, “non badava molto”. Ma altri biografi ce lo descrivono invece come molto più influenzato dai suoi insegnanti gesuiti di quanto ora non voglia ammettere. “Tra gli alunni interni del collegio Belén il giovane Fidel era l’unico a parteggiare per l’Asse”, ha scritto, ad esempio, Carlos Alberto Montaner. Alberto de Castro, il giovane e brillante professore di storia e sociologia di Belén, sarebbe stato il primo a dare un contenuto ideologico al confuso antiamericanismo che il suo quasi omonimo aveva ereditato dal padre. Il primo anche a spiegargli il valore della hispanidad: la superiorità intellettuale e morale del pensiero iberico e cattolico, che gli anglosassoni starebbero cercando di distruggere imponendo il loro decadente materialismo ai popoli ispanici. Negli anni Quaranta, d’altronde, sono molti i nazionalisti latino- americani che teorizzano un’alleanza anti-Usa con il fascismo europeo. Primo fra tutti, l’argentino Juan Domingo Perón. E’ la sconfitta dell’Asse a spingere molti di loro a sinistra, e a far nascere l’idea di una nuova alleanza anti-Usa con l’Unione Sovietica. Ed è la fine dell’Urss, oggi, a suggerire a un vecchio maneggione come Fidel l’idea di manovrare per cercare di mettere l’Europa contro Washington. Le apparenti giravolte del dittatore cubano, così, rivelano una coerenza di fondo. In cui il falangismo della gioventù, l’antibatistismo pragmatico e moralista degli anni Cinquanta, la svolta comunista del 1960, l’apertura economica di oggi diventano per Fidel mere scelte tattiche e contingenti. Al servizio di una strategia e di un’ossessione, l’antiamericanismo, questa sì ben altrimenti coerente e radicata in lui sin dagli insegnamenti e dall’esempio dell’odiato padre, Don Angel, il soldato spagnolo che odiava i gringos e che batteva i pugni sul tavolo quando perdeva a domino.    Il giovane Fidel Castro si iscrive alla facoltà di legge nel 1945. L’Università dell’Avana è un Far West, dove la pistolettata è considerata un mezzo altrettanto legittimo del voto per farsi valere. Il futuro líder máximo si segnala su entrambi i fronti: è eletto delegato del primo anno del corso di legge, ed è accusato di duplice omicidio. “Ero il Don Chisciotte dell’università, principale bersaglio di randellate e sparatorie”, ricorda ora con la nostalgia dell’uomo anziano. Ma sin da allora la ribalta nazionale non gli basta. Nel 1947 si arruola in una spedizione per rovesciare il dittatore di Santo Domingo Rafael Leónidas Trujillo. Nel 1948, mentre è a Bogotá per un congresso studentesco, si unisce alla sommossa che i liberali colombiani scatenano quando il loro leader carismatico Jorge Eliecer Gaitán è assassinato da un conservatore. Quando sente i primi spari, si butta per strada, raccatta un fucile e una sciabola, si mette un cappello e una giacca da poliziotto e impazza per tre giorni assaltando caserme ed edifici pubblici. Entrambe le esperienze finiscono nel grottesco. Dalla retata con cui la polizia blocca l’impresa dominicana, si salva squagliandosela di soppiatto su una barchetta che ha tenuto pronta per ogni evenienza. Da Bogotá è rimpatriato d’urgenza su un aereo stalla carico di tori muggenti che “non gli fanno chiudere occhio”. Ma alla stampa racconta avventure che iniziano a costruire la sua leggenda. Dagli sbirri dominicani, dice, si è salvato buttandosi in mare e nuotando per un tratto infestato da pescecani. E nella rivolta di Bogotá confessa di aver “ammazzato tre preti”. Soprattutto la seconda è una balla grossa come una casa. Tra i morti, si saprà, non c’è stato neanche un religioso. Dopo il 1960, Fidel racconterà che in quei tempi era già diventato comunista. Ma alla campagna elettorale del 1948 partecipa come militante del Partito ortodosso, che si contrappone al corrotto governo del Partito autentico. I nomi delle due formazioni la dicono lunga sulla pochezza del dibattito ideologico. Entrambi i movimenti si considerano gli interpreti, “ortodossi” ed “autentici”, del pensiero di José Martí, il padre della patria morto durante la guerra d’indipendenza del 1895. “Vergüenza contra dinero!, “dignità contro denaro!”, grida nei suoi infuocati comizi radiofonici Eduardo Chibás, il passionale leader ortodosso. Ma alle urne arriva solo terzo. La batosta elettorale sembra far mettere a Fidel la testa a posto. Si sposa, fa un figlio, recupera in sei mesi gli esami che non ha fatto in due anni, si laurea e, nel 1950, apre un ufficio legale. Ma in tre anni di esercizio sono solo due i clienti in grado di pagargli una parcella. Non perché non sia bravo: è che preferisce difendere la gente che non ha il becco di un quattrino, arricchisce così la sua leggenda con il romantico blasone di “avvocato dei poveri”. Continuano in questi anni i rapporti, anche se burrascosi, con il padre, che non manca di far arrivare ogni mese il suo sostegno economico. Intanto, la situazione di Cuba precipita. Il 5 agosto 1951 Chibás si spara alla pancia in diretta radiofonica, per esortare i cubani a “svegliarsi”. “Muoio per Cuba”, farfuglia nell’agonia. La commozione è enorme. Fidel annuncia la sua candidatura alla Camera per la provincia dell’Avana alle elezioni del 1952, che promettono di portare gli ortodossi al potere a furor di popolo. Ma quel voto non si terrà mai. Il 10 marzo 1952 un golpe depone il presidente “autentico” Carlos Prío Socarrás, mettendo al suo posto il generale Fulgencio Batista. Sergente steno- grafo, quest’uomo di umili origini dalla faccia sempre sudata è arrivato ai vertici dell’esercito il 4 settembre 1933, dopo una rivolta di sottufficiali contro il governo conservatore di De Céspedes e gli alti gradi a lui allineati. Padrone indiretto dell’isola per sette anni con una serie di presidenti fantoccio, Batista si fa eleggere capo dello Stato nel 1940: il primo e, finora, l’unico della storia di Cuba ad avere sangue negro. Non dà inizialmente una cattiva prova. E’ lui a far abolire il famigerato “Emendamento Platt”: l’articolo della costituzione che autorizza formalmente gli Stati Uniti ad intervenire militarmente nell’isola. E’ sempre lui a dare a Cuba, nel 1940, una nuova costituzione, tra le più avanzate dell’America Latina. Nel 1944 l’ex-dittatore si prende addirittura il lusso di farsi battere alle urne, e di tornarsene a casa in buon ordine. In fondo, è grazie a lui se a Cuba c’è una democrazia, sia pure inquinata da corruzione e violenza politica. Ed è sempre grazie a lui se negli anni Cinquanta l’isola conosce una relativa prosperità economica. Una leggenda dura a morire continua a ripetere ancora oggi che il regime castrista, per quante critiche gli si possano fare, ha avuto se non altro il merito di strappare il paese dalle secche del sottosviluppo, e di fornirlo dei servizi sociali migliori di tutto il Terzo Mondo. Ma i dati ufficiali dell’Onu ci rivelano che alla vigilia della rivoluzione l’isola ha indici che la pongono all’avanguardia in America Latina, e allo stesso livello globale dell’Italia: il quarto posto nel continente per numero di telefoni pro-capite; il terzo per automobili e radio; il secondo per il reddito; il primo per i televisori; la mortalità più bassa; un numero di medici pro-capite più alto che in Italia; un tasso di alfabetizzazione del 75%. In Italia, all’epoca, siamo all’80%. Vi sono sperequazioni sociali, è vero. Ma inferiori al resto dell’America Latina. E quanto alla famosa “prostituzione di massa”, è un fenomeno legato alla presenza di turisti con un potere d’acquisto molto più alto della popolazione locale. Tanto è vero che è ricomparso in maniera drammatica non appena il regime ha riaperto le frontiere. Particolare poco noto, comunque, ancora nel 1959 ben quindicimila cittadini italiani presentano regolare domanda di emigrazione al consolato cubano di Roma. Ed è lo stesso Fidel, in quell’anno, a vantarsi di “aver sfatato il mito che non si può fare una rivoluzione senza crisi economica”. La Cuba degli anni ‘Cinquanta, insomma, non è l’Haiti o la Repubblica Dominicana di oggi, ma è piuttosto simile alla Taiwan degli anni Settanta, o all’Indonesia degli anni Novanta. Un paese che, proprio perché è cresciuto dal punto di vista economico, non accetta più quella corruzione, quelle diseguaglianze sociali e quell’autoritarismo che prima potevano sembrare inevitabili. L’inammissibile torto di Batista, nel 1952, è quello di mettersi contro l’evoluzione che lui stesso ha propiziato. E di farla così abortire. Fidel, dopo aver scritto all’ex-sergente una lettera di protesta, lo denuncia con acre sarcasmo al Tribunale di suprema garanzia per “violazione della Costituzione”. I giudici, dopo aver dato un’occhiata alle baionette che luccicano sui fucili dei soldati di guardia fuori della corte, rispondono imbarazzatissimi che l’impugnazione “è inammissibile” perché “è la rivoluzione la fonte di ogni legge”. Mai frase fu più incauta di questa rivolta all’ex-pistolero ammazzapreti, che prendendo i magistrati in parola inizia subito a organizzare un colpo di mano con un gruppo di militanti della Gioventù ortodossa. Il luogo prescelto è la caserma Moncada a Santiago, la città dove ha iniziato gli studi. La data è il 26 luglio 1953: 26 come il 1926, anno in cui è nato, come 26 sono i suoi anni nel momento della decisione. Una sciccheria cabalistica irresistibile, per un uomo che si vanta in continuazione di “essere nato sotto lo stesso segno di Simón Bolívar”. E che ha voluto andare in viaggio di nozze a New York, malgrado il proprio antiamericanismo ostinato, solo perché “lì è vissuto José Martí”.   L’assalto alla Moncada inizia alle 4,45 del 26 luglio 1953, quando 125 militanti della Gioventù Ortodossa si riuniscono nella fattoria di Siboney. Sono travestiti da soldati, con uniformi fatte in casa e armi prese al mercato nero. Sottovoce, cantano l’inno nazionale. Poi salgono su 16 macchine, e si dirigono verso la caserma del primo reggimento di fanteria. Il carnevale impazza e c’è la ragionevole speranza che gran parte dei 428 uomini della guarnigione sarà troppo ubriaca per reagire. Metà degli autisti sbaglia strada. Quelli che arrivano, poi, sono in ritardo rispetto all’orario preventivato delle 5,15. “Aprite, arriva il generale!”, grida un ribelle. Mentre le tre sentinelle scattano sull’attenti, sette uomini saltano loro addosso, le disarmano, aprono la porta, corrono per le scale a occupare il centro radio. Una pattuglia di ronda si avvicina sospettosa. Giocando il tutto per tutto, Fidel preme sull’acceleratore, e punta sui soldati per travolgerli. Per un interminabile istante, il destino della rivoluzione resta sospeso sull’orlo del marciapiede. Ma la ruota si imballa, e il motore si spegne. Mentre un fuoco d’inferno si scatena, le sirene iniziano a suonare. L’azione è fallita. Nella battaglia sono morti 19 soldati e 10 ribelli. La propaganda castrista continua ancora a raccontare della ferocia con cui nei tre giorni successivi 59 fidelisti sono massacrati dopo essere stati presi prigionieri. Gli anticastristi, a loro volta, ricordano i decenni di carcere inflitti da Fidel ai suoi oppositori - compresi reduci dell’assalto alla Moncada, come Mario Chanes de Armas e Gustavo Arcos - e paragonano queste condanne alla sollecitudine con cui i condannati del 1953 sono graziati dopo un anno e mezzo. La verità è che sui fidelisti prigionieri si sfogano soprattutto i soldati del primo reggimento, imbestialiti per il pericolo corso. Il resto dell’esercito ha poca voglia di infierire su chi ha preso le armi contro un regime chiaramente illegale. Lo stesso tenente Pedro Sarría, quando cattura Fidel dopo una settimana di latitanza, impedisce ai suoi soldati di torcergli un capello, ed esprime al prigioniero la sua solidarietà. Dai militari, il no alla repressione si estende a tutto il paese. La chiesa chiede clemenza. I giudici che condannano Fidel a 15 anni gli permettono tuttavia di trasformare il processo in uno show, ascoltando per due ore senza fiatare la sua requisitoria contro il regime. “La storia mi assolverà!”, grida il ribelle. Batista, che non è abituato all’impopolarità, alla fine concede l’amnistia. E’ un arrivederci minaccioso quello con cui il 7 luglio 1955 Fidel si imbarca. “Lascio Cuba perché mi sono state chiuse tutte le porte per una lotta pacifica”. In Messico, Fidel contatta il tenente Alberto Bayo, un cubano che è stato ufficiale dei repubblicani spagnoli. E’ lui ad addestrare alla guerriglia il nuovo piccolo esercito che si forma. Intanto, si consuma il definitivo distacco dal Partito Ortodosso, con la costituzione formale del Movimento 26 Luglio (M-26-7). Il divorzio politico segue al divorzio familiare tra Fidel e la moglie, di cui in carcere ha scoperto che è un agente del ministero dell’Interno. E’ una vicenda penosa, anche per il litigio che segue intorno all’assegnazione del figlio Fidelito. Ma l’ostinato ribelle non si fa distrarre. Il 25 novembre 1956 la piccola armata salpa dal porto messicano di Tuxpan. Sono 82 gli uomini che si affollano sul Granma, un battello a due motori di quindici metri che non dovrebbe portare più di 25 persone. Due volte la vecchia carretta corre il rischio di affondare. Quando il 2 dicembre il Granma arriva sulla spiaggia di Niquero, nel sud-est di Cuba, “sembra più un naufragio che un approdo”, come racconterà in seguito Ernesto Guevara. E’ un medico argentino giramondo e idealista che si è unito ai ribelli in Messico. I cubani lo hanno ribattezzato “el Che”, per il tipico intercalare caraibico che ripete in continuazione. Un po’ come, in Italia, l’“aò” dei romani, l’“uè” dei milanesi e il “neh” dei torinesi. Nei piani, lo sbarco dovrebbe essere sincronizzato con un’insurrezione a Santiago. Ma Fidel è arrivato con 2 giorni di ritardo e la ribellione è stata già domata. Per giunta nello sbarco è andata perduta la gran parte dei viveri, ed i ribelli sono presto costretti a sopravvivere masticando pezzi di canna da zucchero. E’ seguendo una traccia di arbusti masticati incautamente lasciati sul terreno che il 5 dicembre le guardie rurali finiscono addosso all’Esercito Ribelle, come si è pomposamente ribattezzato. E’ un disastro peggio della Moncada. Su 82 uomini, 3 cadono in battaglia, 22 vengono giustiziati dopo la cattura, 22 finiscono in carcere, altri 19 scompaiono senza lasciare traccia. Solo 16, dopo essersi nascosti nelle piantagioni di canna da zucchero, riescono infine a raggrupparsi il 21 dicembre sulla Sierra Maestra. “Un uomo con un fucile può qui far fronte a dieci, senza paura delle pallottole”, ha scritto su questa catena montuosa di 1.000 metri Pablo de la Torriente: un giornalista cubano morto in Spagna con le Brigate Internazionali. Cinquantamila persone vi strappano penosamente di che vivere dalla roccia. Per lo più, sono contadini cacciati dalla pianura per l’espandersi del latifondo, o operai licenziati. Disperati che occupano la terra senza alcun titolo di proprietà, e che Fidel ha già individuato come la miglior massa di manovra per la sua rivoluzione. La retorica di regime, negli anni a venire, celebrerà fino alla nausea l’epopea di questi montanari che hanno giurato di non tagliarsi più la barba fino a quando la dittatura non sarà stata abbattuta. Eppure, i dati ufficiali sulla consistenza dell’Esercito Ribelle ci narrano di una storia diversa: 50 uomini nei primi mesi del 1957; 80 a maggio; 200 a dicembre; 300 nell’aprile 1958; non più di 2.000 al momento della spallata finale sull’Avana. D’altra parte, è anche il fallimento dello “sciopero generale rivoluzionario” indetto per il 9 aprile 1958 a dimostrare come i cubani, nella loro stragrande maggioranza, guardino la lotta alla finestra, aspettando di vedere chi è il vincitore. Ma la ristretta minoranza che sta con Fidel è determinata. I soldati di Batista, invece, sono demotivati. I profittatori di regime pensano più a portare in salvo le ricchezze mal guadagnate che a farsi ammazzare. E lo stesso dittatore permette a quel pugno di ribelli di organizzarsi indisturbati, solo perché la “guerra” gli consente di approvare bilanci e spese straordinarie, aggirando i controlli della Corte dei Conti. Solo nel settembre 1957, quando la marina tenta di ammutinarsi, il dittatore comincia a preoccuparsi. E l’allarme cresce nel marzo successivo, alla notizia che Washington ha decretato l’embargo sulle forniture di armi. Atterrito dalla prospettiva di perdere l’appoggio di forze armate e americani, le due colonne del suo regime, il 24 maggio 1958 Batista lancia contro i ribelli un’offensiva che vorrebbe essere risolutiva. Due colonne avanzano sulla Sierra dalla pianura, mentre una terza sbarca dal mare. Sono 10 mila uomini contro 300. Ma i ribelli hanno avuto tutto il tempo di sistemarsi in posizioni munitissime, mentre il morale dei soldati è sempre più basso. Convinto dell’importanza della guerra psicologica, Fidel li bombarda da altoparlanti con esortazioni a disertare, mentre dà ordine ai suoi di sparare sempre “al primo della fila”. La battaglia dura 76 giorni. Quando l’esercito di Batista inizia a ripiegare, abbandonando armi e materiali, la guerra è in pratica decisa. Il 21 agosto Fidel ordina l’offensiva. Il 7 novembre investe Santiago. Il 20 dicembre cade Sancti Spiritus. Il 24 dicembre si arrende la guarnigione di Santa Clara. Il primo gennaio 1959, dopo aver salutato l’anno vecchio con evviva e champagne, Batista imbarca familiari e collaboratori su due aerei e dirige verso la Repubblica dominicana. La guerra rivoluzionaria è finita. Il più sorpreso di tutti, per questa conclusione improvvisa, è lo stesso Fidel, che arriverà all’Avana solo una settimana dopo. Lo precede di sei giorni Ernesto Che Guevara.    Come e perché Fidel Castro sia divenuto marxista-leninista è tra i temi più dibattuti nella storiografia Usa del XX secolo. Per i liberal, fu la Casa Bianca a non capire la rivoluzione cubana, per pregiudizio, e a spingerla così tra le braccia di Mosca. Per i conservatori, è stato invece Fidel a nascondere fino all’ultimo la propria fede comunista, per meglio ingannare il popolo sulle sue reali intenzioni. Paradossalmente, è lo stesso líder maximo ad accreditare quest’ultima analisi, quando afferma di essersi convertito al socialismo scientifico già dal 1948, e di averlo nascosto perché a Cuba “i tempi non erano ancora maturi”. Ma Fidel è un dialettico abilissimo a rigirare le frittate. Nessun documento dimostra una sua adesione al marxismo prima del 17 aprile 1961. Quella di comunista, d’altronde, negli anni 50, è a Cuba un’etichetta disprezzata. Al punto che il Partito comunista cubano nel 1944 si mimetizza da “Socialista popolare” (Psp). Sono gli stessi comunisti a rovinarsi la reputazione, con le proprie continue giravolte: alleati nel 1933 del dittatore Machado dopo averlo combattuto, nel 1940 entrano nel governo di Batista, e nel 1953 tacciano l’attacco alla Moncada di “avventurismo piccolo borghese”. Solo nel 1958 si uniscono alla lotta armata. Oltre al Psp, contro Batista ha combattuto anche il Direttorio studentesco rivoluzionario (Der): una formazione di tendenze vagamente cristiano-sociali, che crea un nucleo guerrigliero sulle montagne dell’Escambray, dopo che il meglio della sua leadership è rimasto annientato nel 1957 in un attacco suicida al palazzo presidenziale. Sempre sul “Secondo fronte” dell’Escambray hanno agito militanti del vecchio Partito Autentico ed ex-militari che si sono dati alla macchia dopo il fallito ammutinamento della marina militare. In tutto, Psp, Der, autentici e militari hanno schierato un migliaio di guerriglieri. Il Movimento 26 Luglio di Fidel ne ha invece portati alla lotta 2.000. Ma la sua ideologia, nel 1959, è indefinita. In seguito, si parlerà molto del contrasto tra i militanti moderati delle città e quelli radicali della montagna. Ma anche importanti dirigenti della sierra sono anticomunisti. Ad esempio Huber Matos, o Humberto Sori-Marín. La spaccatura attraversa la stessa famiglia Castro. Dei fratelli impegnati nella lotta, Raúl è considerato, assieme a Ernesto Che Guevara, il principale veicolo di influenza marxista nel Movimento. Ramón ostenta la propria fede cattolica. E Juana, dopo la comunistizzazione del regime andrà in esilio, e diventerà uno dei leader dell’opposizione di Miami. Per Fidel, in realtà, l’alleanza con l’Unione Sovietica non è un fine, ma il mezzo con cui portare avanti la sua ossessione ideologica, l’antiamericanismo. Anche perché, in un paese come Cuba, da sempre umiliato per le pesanti interferenze Usa, può essere proprio la lotta serrata agli yankee la scusa migliore per imporre un potere assoluto. “Quando questa guerra finirà”, scrive in una lettera del 5 giugno 1958, “ne comincerò un’altra, per me, molto più lunga e grande: sarà la guerra che farò contro gli americani”. A rinfocolare i suoi antichi risentimenti sono state le armi che Washington ha continuato a fornire al regime che lui combatte, anche dopo l’annuncio formale del “non intervento”. Ma la linea di Washington non è univoca. La Cia, ad esempio, invia anche a lui aiuti, per un ammontare di 50 mila dollari. E dopo la fuga di Batista sono gli Stati Uniti il primo paese a riconoscere il nuovo governo rivoluzionario. Capo dello Stato provvisorio è l’ex-magistrato Manuel Urrutía Lleó, premier è José Miró Cardona, un altro moderato. Su 15 membri del governo, solo 3 vengono dalla guerriglia. In capo a due anni, 6 di loro saranno in esilio e uno sarà stato fucilato. Fidel si “ac- contenta” di rimanere alla testa dell’Esercito Ribelle. Ma non ci mette molto a far capire chi comanda sul serio. Il 13 febbraio “convince” il presidente a destituire Miró Cardona, e ne prende il posto. Pur continuando a ripetere che “la nostra rivoluzione non è rossa, ma verde come le palme”, comincia a dire che “elezioni veramente democratiche” si potranno fare solo “quando tutti avranno un lavoro, la riforma agraria sarà una realtà, tutti i bambini andranno a scuola, tutte le famiglie avranno accesso agli ospedali, tutti i cubani conosceranno i loro diritti e doveri e sapranno leggere e scrivere”. Sotto banco, ha intanto iniziato a trattare con Carlos Rafael Rodríguez, il machiavellico leader comunista che è stato ministro di Batista. Con l’aiuto del Psp, organizza scuole ideologiche per gli uomini del Movimento 26 Luglio. Il 17 maggio, crea un Istituto nazionale di riforma agraria che si trasforma in un vero e proprio governo parallelo. A giugno caccia dal governo il ministro degli Esteri Roberto Agromonte, filo-americano. Perfino l’ingenuo Urrutía, a questo punto, capisce che le cose stanno prendendo una brutta piega, e cerca di resistere rifiutandosi di firmare le leggi. Mobilitando la piazza e l’Esercito Ribelle, Fidel costringe anche lui alle dimissioni, e lo sostituisce con un proprio uomo di fiducia, Osvaldo Dorticós. Il 21 ottobre Fidel fa arrestare per “tradimento” Huber Matos, che ha scritto una lettera di protesta contro l’“infiltrazione dei comunisti”. Il 26 novembre si dimette il ministro dei Lavori pubblici Manuel Ray: un leader urbano del Movimento, che va in esilio a Miami. Migliaia di cubani seguono la stessa strada. Dopo trentotto anni, sarà un decimo della popolazione che sceglierà di “votare con i piedi”. Cataneo, un famoso cantante di rumba, quando Fidel è entrato all’Avana ha detto: “Si salveranno solo quelli che sanno nuotare”. La gente inizia a chiamarlo “il profeta”. L’evoluzione è evidente quando Raúl diventa ministro della Difesa. Contemporaneamente il Che è nominato ministro dell’Industria e direttore della Banca centrale. Si narra che Fidel, al termine di un’estenuante riunione, abbia chiesto: “Chi di voi è economista?”. E che l’argentino, svegliandosi di soprassalto dal dormiveglia, abbia gridato: “Io! Io!”, avendo capito “chi di voi è comunista?”. Gli Stati Uniti non hanno ancora fatto ufficialmente alcun gesto ostile. Ma il 4 febbraio 1960 il vice-presidente sovietico Anastas Mikoyan va in visita a Cuba e stende le basi per l’alleanza tra i due paesi. Secondo Fidel, la Cia getta la maschera il 4 marzo 1960, quando nel porto dell’Avana salta in aria una nave francese carica di armi che Cuba ha acquistato in Belgio. E’ durante i funerali delle 81 vittime che al Che viene scattata la famosa foto. Prove del “sabotaggio” non ne sono però mai emerse, e il Dipartimento di Stato ha sempre accusato la “colpevole leggerezza” con cui nello scarico degli esplosivi i cubani hanno violato tutte le norme internazionali di sicurezza. Ad ogni modo, l’escalation è iniziata. Alla legge con cui il 6 agosto 1960 Fidel nazionalizza proprietà fondiarie statunitensi per 250 milioni di dollari, Washington risponde a settembre iniziando a paracadutare aiuti ai gruppi armati anticastristi che si sono sollevati sull’Escambray. Il 13 ottobre Fidel espropria altre 382 società industriali e commerciali. Il 19 ottobre gli americani dichiarano l’embargo commerciale. Il 31 gennaio 1961 rompono le relazioni diplomatiche. Il 17 aprile 1961, infine, 1.500 anticastrisi armati dalla Cia sbarcano a Playa Girón, tentando di sollevare l’isola contro Castro. L’impresa sarà un disastro. E del successivo disimpegno americano saranno vittime anche i ribelli dell’Escambray, sterminati dopo spietati rastrellamenti. Gli anticastristi hanno avuto il torto di credere nell’illusione che lo stesso Fidel ha creato: la possibilità di innescare una rivoluzione con il semplice esempio di un “focolare” guerrigliero. Quel 17 aprile Fidel chiama per la prima volta alla difesa della “repubblica socialista”. Cuba è ormai un paese comunista anche dal punto di vista formale. Il 3 luglio 1962, Partito socialista popolare, Movimento 26 Luglio e Direttorio studentesco rivoluzionario vengono fusi nelle Organizzazioni rivoluzionarie integrate (Ori). Inizia l’era del partito unico. Per Fidel Castro essere comunisti o anticomunisti, in fondo, è secondario, rispetto alla fedeltà al capo, lo dimostrano le epurazioni all’interno del Movimento 26 luglio che hanno colpito sia a destra che a sinistra. I “socialisti popolari”, poi, sono considerati particolarmente pericolosi perché per loro l’alleanza con l’Urss non è una scelta tattica, ma ci credono sul serio. Non a caso, le due “lezioni” nei loro confronti vengono in due momenti di difficoltà tra Fidel e Mosca. Il primo è poco prima della crisi dell’ottobre 1962, quando Kennedy decreta il blocco navale dopo aver scoperto che i sovietici hanno installato su Cuba missili atomici. Per una settimana, tra il 21 ed il 28, la pace è in bilico. La guerra nucleare è evitata dalla decisione di Kruscëv di fermare le navi da guerra sovietiche dirette all’isola. Le rampe verranno tolte, in cambio del ritiro di altre rampe Usa dalla Turchia. Il mondo tira un sospiro di sollievo. Ma Fidel è furibondo. “Nikita mariquita, lo que se dá no se quita”, cantano per le vie dell’Avana i militanti delle organizzazioni di massa del regime. “Nikita frocetto, quello che si dà non si toglie”. Un leader più impulsivo potrebbe andare alla rottura. Ma Cuba è appena stata espulsa dall’Organizzazione degli Stati americani, e l’ambizioso piano di industrializzazione lanciato dal Che è fallito. Fidel sa che la sopravvivenza del suo regime dipende dall’aiuto sovietico, e nella primavera del 1963 ricuce i rapporti con un viaggio in Unione Sovietica la cui durata entra nel Guinness dei primati delle visite ufficiali: 40 giorni. Castro, però, insiste nel voler esportare la rivoluzione nel Terzo Mondo, mentre l’Urss punta sulla coesistenza pacifica. Alla costituzione di quella specie di internazionale sovversiva terzomondista definita Conferenza tricontinentale, Mosca risponde tagliando le forniture di petrolio. E Fidel si vendica con la nuova purga sugli ex-Psp. La morte di Ernesto Che Guevara in Bolivia porta alla riconciliazione definitiva, sancita dall’approvazione dell’invasione in Cecoslovacchia. Di nuovo, con la fine dell’illusione guerrigliera, Fidel si rende conto che non ha alternative. E col Che, poi, viene meno il piantagrane che più ha messo zizzania tra Cuba e l’Unione Sovietica. Fino al punto di affermare, in un famoso seminario ad Algeri del febbraio 1965, che Mosca “si rendeva complice dello sfruttamento capitalistico”. Già nel 1967 qualche giornalista avanza il sospetto che Guevara sia stato mandato apposta al macello in un’impresa impossibile. L’ipotesi, liquidata da Fidel con sdegno, è stata ora rilanciata da Daniel Alarcón Ramírez, il “Comandante Benigno” che prese il comando dei guerriglieri in Bolivia dopo la cattura del Che. “E’ evidente che i sovietici chiesero a Fidel di chiudere tutta la faccenda, pena l’immediata sospensione dei loro aiuti”, ha affermato l’ex-guerrigliero, dopo aver rotto col regime ed essere andato in esilio a Parigi. Anche Camilo Cienfuegos, il leg- gendario comandante guerrigliero sparito in un misterioso incidente aereo nell’ottobre 1959, sarebbe stato per lui fatto togliere di mezzo da Fidel perché stava diventando troppo popolare. L’insofferenza di Fidel per ogni fronda anche potenziale sarebbe stata poi all’origine della fine di Arnaldo Ochoa, il generale condannato alla fucilazione nel 1989 per un’oscura vicenda di narcotraffico. E, secondo Benigno, l’ira di Fidel per essere stato contraddetto in una riunione avrebbe portato nel 1990 all’arresto perfino di Juan Almeida, il negro comandante di una colonna dell’Esercito Ribelle. La minaccia di un’insurrezione della popolazione di colore, e il fatto che la notizia era filtrata a Miami, avrebbe poi convinto Fidel a “far comparire Almeida in pubblico, indossando l’uniforme militare e le sue mostrine di Comandante della rivoluzione”. “Da allora”, afferma Benigno, “Juan Almeida continua regolarmente a rendere visita, in compagnia di Raúl Castro, a unità militari, centri industriali, sedi provinciali di partito. Ma non si sa se sia libero o prigioniero”. La colpa di Almeida? Aver detto a Fidel di spiegare alla gente che, con la dissoluzione dell’Urss, i tempi delle vacche grasse sono finiti. Fino al ’90, Mosca fornisce a Cuba in cambio del suo zucchero il 70% di tutto il suo fabbisogno in beni. Una cifra colossale, che l’economista Irina Zorina, dell’ex-Accademia delle Scienze dell’Urss, calcola in 100 mila milioni di dollari in 32 anni. Più di quanto non hanno ricevuto tutti i paesi dell’Europa occidentale con il piano Marshall e tutti i paesi latino-americani con l’Alleanza per il progresso messi insieme. Così Fidel ha creato il suo consenso di massa. I suoi estimatori parlano di “Stato sociale avanzatissimo”. In realtà, non è che una variante pseudo-comunista del clientelismo latino-americano. La stessa politica di redistribuzione selvaggia e sperpero della rendita da materie prime di Perón in Argentina dopo la seconda guerra mondiale, dei governi colorados in Uruguay nella prima metà del secolo, della “democrazia petrolifera” venezuelana tra il ’58 e l’89. Non è mai stata l’Urss però a teleguidare Fidel. All’inizio, piuttosto, è Fidel a ricattare i sovietici, minacciando di creare guai. Poi, dopo il disastro Usa in Vietnam nel 1975, li convince che l’Occidente sta ormai mollando la presa nel Terzo Mondo. Se non proprio in America Latina, la rivoluzione può ormai essere esportata tranquillamente in Africa e Asia. Iniziano le “missioni internazionaliste”, in cui l’Urss mette i soldi, e Fidel gli uomini. “Cuba paga il suo pane e cipolla con camion di soldati”, dice una canzone di protesta che si diffonde in questi anni. Il conto in vite, tutto sommato, è basso. Queste le stime di Benigno: 2.500 morti in Uganda e Angola, 20 in Venezuela, alcune decine in Nicaragua, 8 in Argentina, 14 col Che in Bolivia, 35 in Cile nel 1973, 6 a Santo Domingo nel 1959, 11 a Grenada nel 1985, 41 in Guinea-Bissau, 5 in Sierra Leone, 11 in Guinea, 3 in Somalia, 19 nel Sahara Occidentale, 3 in Libano, 150 in Etiopia, 5 nello Yemen, 7 in Algeria, 400 nello Zaire. Ma l’Unione Sovietica è letteralmente stroncata dalle spese di questa politica mondiale per cui non ha le risorse. Dimentico della promessa del Che degli anni 60 (Cuba avrebbe superato il reddito pro-capite degli Usa), Fidel riscopre l’ecologia. “Io direi che non sarebbe salubre che tutti avessero l’automobile. E poi non sarebbe fattibile. Pensiamo alla Cina, che ha più di un miliardo di abitanti. Immaginiamo, per un attimo, ogni famiglia cinese con una o due automobili. Quanto durerebbe la materia prima per un’industria automobilistica del genere? Quanto durerebbe il petrolio di tutto il mondo con un simile numero di macchine?”. Predicando l’austerity, dollarizza intanto gli scambi, aprendo anche ai cubani i negozi in valuta prima riservati ai turisti. E svende letteralmente le imprese di Stato al capitale straniero, per creare una lobby internazionale interessata alla sopravvivenza del suo regime. Ma con le sue ossessioni autocratiche blocca ogni libera iniziativa locale che non sia di dimensioni minuscole. Il cerchio si è chiuso. Di zucchero, esportazione di carne e turismo viveva la Cuba di Batista. Di zucchero e turismo vive la Cuba di oggi, visto che la fissazione di Fidel di essere un genio della ricerca biotecnologica ha affondato l’allevamento. Mc Castro sono chiamati dalla gente gli insipidi hamburger di soia e grasso di maiale che i cubani sono costretti a mangiare da quando gli esperimenti di Fidel per incrociare razze bovine tropicali da carne con razze nordiche da latte hanno prodotto mucche che continuano a dare il poco latte di prima, ma muoiono per il caldo e forniscono carne immangiabile. La prostituzione turistica è tornata ad imperversare. Le imprese in mano agli stranieri sono più che nel ’59, visto che ai cubani non è consentito di fare gli imprenditori. In compenso, non c’è più traccia degli odiati americani. Ma Fidel, dopo averli cacciati, è ora furibondo perché gli yankee si sono offesi e, decretando l’embargo, hanno detto fin dal ’60 che non vogliono investire in paesi dove i loro investimenti vengono poi nazionalizzati. Rispetto al ’59, Cuba vince più medaglie olimpiche. E la sua autorevolezza, in campo internazionale, è senza dubbio maggiore. A merito di Fidel, si può dire che la sua semplice presenza ha costretto gli Stati Uniti ha comportarsi in America Latina in maniera meno arrogante e più responsabile. Ed è stato anche questo fattore alla base dello sviluppo che i paesi del continente hanno conosciuto negli ultimi anni. Le polemiche sull’autoritarismo, in fondo, lasciano il tempo che trovano. Fidel è stato un dittatore, ma non il peggiore di quelli che l’America Latina ha conosciuto. Anche se, essendo rimasto l’ultimo, attira indubbiamente l’attenzione. Fidel, però, ha sottratto Cuba a questa rivoluzione. E ha distratto l’America Latina dal percorrerla fino in fondo, con la falsa profezia di un modello nuovo che era invece solo la riverniciatura del vecchio autoritarismo patriarcale. Se la storia lo condannerà, sarà questa la principale imputazione. P.S. “Che”, non è un intercalare caraibico, come scritto erroneamente l’altro ieri, ma platense, Ernesto Guevara, infatti, era argentino. 

Che Guevara: il mostro dietro il mito. Scritto da Julio Loredo nel marzo 2012. Personalmente coinvolto in non meno di 144 esecuzioni sommarie; favorevole a una guerra nucleare con gli Stati Uniti anche al prezzo di sterminare l’intera popolazione cubana; promotore dei campi di lavoro forzato per “rieducare” i giovani; acerrimo avversario della musica e delle mode moderne. Il vero Che Guevara è anni luce lontano dal mito propagandistico inventato dalla sinistra. La Rivoluzione, lo sappiamo, è largamente costruita sulla menzogna. Dalla presa della Bastiglia nel 1789 (in realtà consegnata dai difensori), al ladro di cavalli tramutato in “Eroe dei due mondi”, al sanguinario dittatore sovietico presentato come “good uncle Joe”. Mai, però, un’operazione di maquillage propagandistica è stata così inverosimile e incurante della realtà storica, come l’invenzione del mito di Ernesto “Che” Guevara, il medico argentino divenuto guerrigliero sotto l’egida di Fidel Castro. Dalla famosa foto dallo sguardo “idealista”, che lo ritrae invece in preda ad una crisi di asma, alla sua morte “eroica”, quando in realtà morì implorando clemenza, praticamente tutto del “Che” Guevara è propaganda. Recenti studi hanno cominciato a smontare, pezzo a pezzo, questo mito prediletto della sinistra. A battere l’ultimo chiodo sulla bara del Che due giovani giornalisti brasiliani, che hanno scritto una divertente quanto ben documentata «Guida politicamente scorretta dell’America Latina». Il primo capitolo, il più lungo, è dedicato proprio a Ernesto Rafael Guevara de la Serna, più noto come Che Guevara. Gli autori vi svelano “flagranti contraddizioni fra la sua vita e l’ammirazione che essa ispira”.

Una prima contraddizione è quella di usare l’immagine del Che come simbolo della libertà giovanile. Prima della rivoluzione, Cuba era una Mecca della cultura. Nel 1950 l’isola contava 1.700 scuole private e 22mila pubbliche, che le garantivano il più alto indice di scolarità nell’America Latina. Il 23% del bilancio era speso nell’educazione. Nel 95% delle abitazioni c’era una radio, attraverso cui ci si poteva sintonizzare su oltre 140 canali. Il Paese contava ben sette case discografiche, alcune multinazionali, 600 cinema e 15mila juke box. Gli artisti cubani erano star a Broadway, come le star americane erano di casa a La Havana. Le TV americane trasmettevano in diretta da Cuba, mentre grandi magazzini come Sears Roebuck si facevano pubblicità sui giornali dell’Isola. C’erano più turisti cubani negli USA che turisti americani a Cuba, serviti da ventotto voli giornalieri e quattro traghetti navetta. Tutto questo all’insegna d’una economia fiorente. Suona strano dirlo, ma gli investimenti cubani negli Stati Uniti, alla vigilia della rivoluzione, superavano il mezzo miliardo di dollari. Tutto finì nel 1959. La maggior parte degli artisti cubani fu costretta all’esilio, e impedito l’ingresso agli artisti stranieri. Le musiche e le mode americane ed europee furono proibite in quanto “imperialiste”. Si finiva in un campo di concentramento solo per il fatto di ascoltare rock ‘n roll a casa, oppure di indossare jeans o di utilizzare vocaboli anglosassoni. Iniziò la caccia nelle strade ai ragazzi “capelloni” e troppo “moderni”. Silvio Rodríguez, direttore dell’Instituto de Radio y Televisión de Cuba, fu indotto alle dimissioni per aver citato i Beatles. I cinema chiusero i battenti. A L’Havana ne restò solo uno. Il Che era il principale istigatore di questa repressione: “Ho giurato davanti al ritratto del vecchio compagno Stalin di non mollare fino a quando non avrò annientato questi polipi capitalisti”. Affermando che “per costruire il comunismo occorre creare l’uomo nuovo”, il Che ammetteva come unica musica permessa ai giovani “i cantici rivoluzionari”, ricordando loro che dovevano “concentrarsi sul lavoro, sullo studio e sul fucile (…) abituandosi a pensare e agire come una massa, seguendo le iniziative (…) dei nostri capi supremi”. Quanti giovani che pure indossano le magliette con il volto del Che sarebbero disposti a seguire un simile programma di vita?

Una seconda contraddizione è quella di presentare il Che come simbolo delle cause democratiche. Tutti sanno che, molto prima che i nazisti li trasformassero in lugubre marchio del loro regime, i campi di concentramento erano già molto diffusi nell’Unione Sovietica. Pochi, però, sanno che fu proprio Che Guevara a introdurli a Cuba. Il primo lager tropicale, personalmente creato dal Che, è il campo di lavori forzati di Guanahacabibes, destinato a “rieducare” le persone refrattarie alla rivoluzione. “A Guanahacabibes inviamo coloro che non devono stare in prigione, coloro che hanno commesso reati contro la morale rivoluzionaria, sia gravi che lievi” – affermava il Che in una riunione del Ministero dell’Industria nel 1962. Questo lager servì poi da modello per le Unidades Militares de Ayuda a la Producción (Umaps), che giunsero a contenere più di 30mila prigionieri. Leggiamo in un rapporto del 1967 della Commissione Interamericana dei Diritti Umani: “I giovani sono reclutati a forza dalla Polizia e rinchiusi in questi campi di lavoro, senza nessun tipo di processo giudiziario né diritto alla difesa. (...) Questo sistema svolge due funzioni: a) facilitare manodopera gratuita allo Stato; b) castigare i giovani che si rifiutano di partecipare alle organizzazioni comuniste”. Il Che fu, inoltre, il principale artefice della svolta comunista del regime di Fidel Castro. “Il Movimento 26 Luglio non era di per sé comunista — ricorda Huber Matos, rivoluzionario della prima ora e poi dissidente in esilio —Furono Fidel e il Che a condurre la rivoluzione per le vie del comunismo sovietico”.

Ed eccoci alla terza contraddizione: quella di presentare il Che come simbolo dell’idealismo e dell’amore, come talvolta succede anche in ambienti cattolici. La famosa immagine del Che che guarda “idealisticamente” verso l’infinito fu scattata da Alberto Korda, fotografo del regime, il 5 marzo 1960 nel corso di un memoriale per le vittime dell'esplosione della nave belga “La Coubre”, ma rimase sconosciuta fino al 1967. Fu l’editore Giangiacomo Feltrinelli a comprarne allora i diritti e a iniziarne la diffusione. L’effige fu utilizzata per la prima volta come simbolo rivoluzionario nel corso di una manifestazione di piazza a Milano nel novembre dello stesso anno. La foto del Che è stata trasformata in icona internazionale di pace, amore e idealismo, quasi alla stregua del Mahatma Gandhi e di Madre Teresa di Calcutta. Ma chi conosce il vero pensiero del guerrigliero castrista? Per rinfrescarci la memoria, i due autori brasiliani citano alcuni brani tratti dai suoi «Testi Politici»:

— “L’odio come fattore di lotta. L’odio intransigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare i suoi limiti naturali e lo trasforma in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così: un popolo senza odio non può distruggere un nemico brutale. Bisogna portare la guerra fin dove il nemico la porta: nelle sue case, nei suoi luoghi di divertimento. Renderla totale”.

— “Amo l’odio, bisogna creare l’odio e l’intolleranza tra gli uomini, perché questo rende gli uomini freddi e selettivi e li trasforma in perfette macchine per uccidere”.

— “La via pacifica è da scordare e la violenza è inevitabile. Per la realizzazione di regimi socialisti dovranno scorrere fiumi di sangue nel segno della liberazione, anche a costo di vittime atomiche”.

Tale esaltazione dell’odio e della violenza non restava confinata al campo delle dichiarazioni idealistiche, ma veniva attuata in modo molto concreto. Il Che era favorevole a scatenare una guerra nucleare contro gli Stati Uniti, qualunque fossero i costi. Nel 1961 egli si recò in Unione Sovietica per firmare un accordo militare che prevedeva, tra l’altro, l’installazione di ogive nucleari sul suolo cubano, giustificando tale mossa con il proposito di lanciare qualche missile sugli Stati Uniti per provocarne la reazione. “Vorrei utilizzare tutti questi missili, puntati contro il cuore degli Stati Uniti, compresa New York”, dichiarava al London Daily Worker, giornale del Partito comunista inglese. Secondo il Che, la causa della Rivoluzione ben valeva il sacrificio della popolazione cubana: “Cuba è l’esempio tremendo di un popolo disposto all’auto-sacrificio nucleare, perché le sue ceneri possano servire da fondamento per una nuova società”. Bisogna sottolineare che l’accordo era ultrasegreto. Appena sei membri del Governo cubano ne erano a conoscenza. Il popolo cubano era in questo modo collocato a sua insaputa sull’altare sacrificale. Il popolo, non certo i dirigenti. In previsione del conflitto nucleare, Fidel e Raul Castro, insieme al compagno Che Guevara, presero contatto con l’Ambasciatore sovietico per ottenere asilo nel bunker antiatomico sotto l’ambasciata...In quest’ottica, la presenza di immagini del Che durante talune Marce per la Pace appare una tragica quanto beffarda ironia...Nel 1980, la fondazione Cuba Archive lanciò il progetto “Verità e Memoria”, allo scopo di raccogliere la documentazione sulle persecuzioni a Cuba. Dagli archivi risulta che, negli anni dal 1957 al 1959, cioè dalla guerriglia nella Sierra Maestra fino al primo anno di governo rivoluzionario, Ernesto Che Guevara è stato personalmente coinvolto in non meno di 144 esecuzioni sommarie, alcune eseguite da lui stesso. Fra le vittime c’erano colleghi guerriglieri non sufficientemente motivati, soldati e poliziotti, giovani e, soprattutto, oppositori politici. È tristemente noto, per esempio, il massacro di decine di civili nella città di Santa Clara, espugnata nel 1958 dalle truppe rivoluzionarie al comando di Che Guevara. Poi, come Procuratore del Tribunal Revolucionario di stanza al Forte La Cabaña, nel solo anno 1959, egli ordinò l’esecuzione di 104 dissidenti. Questo stando ai documenti scritti. I testimoni poi parlano di almeno 800 morti in quel periodo. “Non possiamo ritardare la sentenza —incitava il Che ai suoi collaboratori — Siamo in rivoluzione. Le prove sono secondarie”. Non possiamo, però, negarle al Che una certa coerenza nel suo delirio sanguinario. Già nel 1952, nel famoso «Diario dalla Motocicletta» — raccolta di annotazioni fatte nel corso di un viaggio in moto per l’America del Sud — egli scrisse: “Bagnerò la mia arma nel sangue e, pazzo di furore, taglierò la gola a qualsiasi nemico che mi capiti fra le mani. Sento le mie narici dilatarsi con l’acre odore della polvere da sparo e del sangue dei nemici morti”. Non possiamo nemmeno negargli una rozza franchezza. Dopo il suo famoso discorso all’Assemblea Generale dell’ONU, il 12 dicembre 1964, egli dichiarò: “Fucilazioni? Certo! Noi abbiamo fucilato, fuciliamo, e continueremo a fucilare finché sarà necessario. La nostra lotta è fino alla morte!”. Via di questo passo, i due giovani giornalisti brasiliani vanno avanti per quasi cinquanta pagine, esibendo ben sessantanove fonti a corredo delle loro affermazioni. A questo punto, però, siamo autorizzati a domandarci: ma coloro che indossano le magliette del Che e, o appiccicano le sue immagini su muri, moto, macchine e qualsiasi superficie serva all’uopo sanno, o ignorano, tutte queste cose? Frivoli? Idioti utili? Giocattoli nelle mani della propaganda comunista? A voi la scelta…

Ernesto "Che" Guevara: la verità rossa e la verità vera, scrive Cumasch. La storia dovrebbe essere oggettiva, ma in realtà alcuni aspetti vengono da sempre distorti e adattati alle convinzioni ideologiche di chi li tratta. In un paese che si definisce antifascista (ma non evidentemente anticomunista...) certi aspetti "scomodi" del Comunismo sono da sempre ignorati. La Storia ne è piena: i massacri delle Foibe, i massacri dei 20.000 soldati italiani nei Gulag Sovietici su ordine di Togliatti, ecc...La storia di Ernesto Guevara rappresenta forse il più grande falso storico mai verificatosi. Tutti conoscono la storia "ufficiale" del Che. Chi non ha mai sentito parlare del "poeta rivoluzionario?" Del "medico idealista"? Ma chi conosce le reali gesta di questo "eroe"? Da tempo immemore il volto leonino di Ernesto “Che” Guevara compare su magliette e gadgets, in ossequio all’anticonsumismo rivoluzionario. La fortuna di quest’eroe della revoluçion comunista è dovuto a due coincidenze: 1) – “Gli eroi son sempre giovani e belli” (La locomotiva – F. Guccini); come ironizzò un dirigente del PCI nel ’69, se fosse morto a sessant’anni e fosse stato bruttarello di certo non avrebbe conquistato le benestanti masse occidentali di quei figli di papà “marxisti immaginari”. 2) – l’ignoranza degli estimatori di ieri e di oggi. Il “Che”, infatti, viene associato a tutto quanto fa spettacolo nel grande circo della sinistra: dal pacifismo antiamericano alle canzoni troglodite di Jovanotti «sogno un’unica chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa». Meglio allora fare un po’ di chiarezza sulla realtà del personaggio: Ernesto Guevara De la Serna detto il “Che” nasce nel 1928 da una buona famiglia di Buenos Aires. Agli inizi degli anni 50 si laurea in medicina e intanto con la sua motocicletta gira in lungo e in largo l’America Latina. In Guatemala viene in contatto con il dittatore Jacobo Arbenz, un approfittatore filosovietico che mantiene la popolazione in condizioni di fame e miseria, ma che gira in Cadillac e abita in palazzotti coloniali. A causa dei forti interessi economici degli Usa in Guatemala, viene inviato un contingente mercenario comandato da Castillo Armas a rovesciare il dittatore. Il “Che”, anziché sacrificarsi a difesa del “compagno”, scappa e si rifugia nell’ambasciata argentina; di qui ripara in Messico dove, in una notte del 1955, incontra un giovane avvocato cubano in esilio che si prepara a rientrare a Cuba: Fidel Castro. Subito entrano in sintonia condividendo gli ideali, il culto dei “guerriglieri” e la volontà di espropriare il dittatore Batista del territorio cubano. Sbarcato clandestinamente a Cuba con Fidel, nel 1956 si autonomina comandante di una colonna di “barbudos” e si fa subito notare per la sua crudeltà e determinazione. Un ragazzo non ancora ventenne della sua unità combattente ruba un pezzo di pane ad un compagno. Senza processo, Guevara lo fa legare ad un palo e fucilare. Castro sfrutta al massimo i nuovi mezzi di comunicazione e, pur a capo di pochi e male armati miliziani, viene innalzato agli onori dei Tg e costruisce la sua fama. Dopo due anni di scaramucce per le foreste cubane, nel ’58 l’unità del “Che” riporta la prima vittoria su Batista. A Santa Clara un treno carico d’armi viene intercettato e cinquanta soldati vengono fatti prigionieri. In seguito a ciò Battista fugge e lascia l’Avana sguarnita e senza ordini. Castro fa la sua entrata trionfale nella capitale accolto dalla popolazione festante. Una volta rovesciato il governo di Batista, il Che vorrebbe imporre da subito una rivoluzione comunista, ma finisce con lo scontrarsi con alcuni suoi compagni d'armi autenticamente democratici. Guevara viene nominato “procuratore” della prigione della Cabana ed è lui a decidere le domande di grazia. Sotto il suo controllo, l’ufficio in cui esercita diventa teatro di torture e omicidi tra i più efferati. Secondo alcune stime, sarebbero stati uccise oltre 20.000 persone, per lo più ex compagni d’armi che si rifiutavano di obbedire e di piegare il capo ad una dittatura peggiore della precedente. Nel 1960 il “pacifista” GUEVARA, istituisce un campo di concentramento ("campo di lavoro") sulla penisola di Guanaha, dove trovano la morte oltre 50.000 persone colpevoli di dissentire dal castrismo. Ma non sarà il solo lager, altri ne sorgono in rapida successione: a Santiago di Las Vegas viene istituito il campo Arca Iris, nel sud est dell’isola sorge il campo Nueva Vida, nella zona di Palos si istituisce il Campo Capitolo, un campo speciale per i bambini sotto i 10 anni. I dissidenti vengono arrestati insieme a tutta la famiglia. La maggior parte degli internati viene lasciata con indosso le sole mutande in celle luride, in attesa di tortura e probabile fucilazione. Guevara viene quindi nominato Ministro dell’Industria e presidente del Banco Nacional, la Banca centrale di Cuba. Mentre si riempie la bocca di belle parole, Guevara sceglie di abitare in una grande e lussuosa casa colonica in un quartiere residenziale dell’Avana. E' facile chiedere al popolo di fare sacrifici quando lui per primo non li fa: pratica sport borghesissimi, ma la vita comoda e l’ozio ammorbidiscono il guerrigliero, che mette su qualche chilo e passa il tempo tra parties e gare di tiro a volo, non disdegnando la caccia grossa e la pesca d’altura. Per capire quali "buoni" sentimenti animassero questo simbolo con cui fregiare magliette e bandiere basta citare il suo testamento, nel quale elogia «l’odio che rende l’uomo una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». Sono queste le parole di un idealista? Di un amico del popolo? Se si, quale popolo? Solo quello che era d'accordo con lui? Guevara si dimostra una sciagura come ministro e come economista e, sostituito da Castro, viene da questi “giubilato” come ambasciatore della rivoluzione. Nella nuova veste di vessillifero del comunismo terzomondista lancia il motto «Creare due, tre, mille Vietnam!». Nel 1963 è in Algeria dove aiuta un suo amico ed allievo, lo sterminatore Desirè Kabila (attuale dittatore del Congo) a compiere massacri di civili inermi! Il suo continuo desiderio di diffusione della lotta armata e un tranello di Castro lo portano nel 1967 in Bolivia, dove si allea col Partito comunista boliviano ma non riceve alcun appoggio da parte della popolazione locale. Isolato e braccato, Ernesto De La Serna viene catturato dai miliziani locali e giustiziato il 9 ottobre 1967. Il suo corpo esposto diviene un’icona qui da noi e le crude immagini dell’obitorio vengono paragonate alla “deposizione di Cristo”. Fra il sacro e il profano la celebre foto del “Che” ha accompagnato un paio di generazioni che hanno appeso il suo poster a fianco di quello di Marylin Monroe. Poiché la madre degli imbecilli è sempre incinta, ancora oggi sventola la bandiera con la sua effige e i ragazzini indossano la maglietta nel corso di manifestazioni “contro la guerra”. Come si fa a prendere come esempio una persona così? Possibile che ci siano migliaia di persone (probabilmente inconsapevoli della verità) che sfoggiano magliette con il suo volto? In quelle bandiere e magliette c'è una sola cosa corretta: il colore. Rosso, come il sangue che per colpa sua è stato sparso. In un film di qualche anno fa Sfida a White Buffalo, il bianco chiede al pellerossa: «Vuoi sapere la verità rossa oppure la verità vera?». Lasciamo a Gianni Minà la verità rossa, noi preferiamo conoscere la verità vera.

ORIGINI E CARATTERISTICHE COMUNI DI NAZISMO E COMUNISMO. Entrambe provenienti dal ceppo socialista, sono ideologie gemelle: un documentario ne svela la vera storia, scrive Roberto Marchesini su BastaBugie n.298 del 24 maggio 2013. In Italia - e non solo - si utilizza la scorciatoia mentale di identificare come "di destra" i totalitarismi fascista e nazionalsocialista e come "di sinistra" quello comunista; in questo modo i due tipi di regime (quelli sconfitti dalla Seconda Guerra Mondiale e quello vincitore) sembrano essere in contrapposizione, fino a indurre molti a pensare che il comunismo, alleato con Stati Uniti ed Inghilterra, abbia liberato l'Europa dal totalitarismo. Tutte le colpe sono addossate al totalitarismo "di destra" e a tutte le "destre" precedenti (anche se nulla avevano a che fare con la "destra" fascista e nazionalsocialista), mentre quello "di sinistra" assume (con tutte le "sinistre", anche quelle successive) una connotazione positiva, ed il merito particolare di aver affrontato e sconfitto il totalitarismo europeo. Si è scritto parecchie volte che "chi vince scrive la storia", e va bene; ma ribaltarla è una faccenda completamente diversa. Accettare che Mussolini ed Hitler siano "di destra" significa accettare l'autoattribuzione di un patentino di superiorità morale ed ontologica da parte delle sinistre. Ci si dimentica spesso, infatti, che Mussolini era stato socialista, direttore dell'Avanti, e che anche il fascismo si caratterizzò per una ipertrofia dello Stato in ogni campo della vita dei cittadini ("dalla culla alla bara"); che il termine "nazismo" è semplicemente la (fuorviante) centrazione del termine "nazional-socialismo", e che Hitler fu il fondatore del Partito Socialista Nazionale dei Lavoratori Tedeschi, ossia il partito socialista tedesco. Sia il fascismo italiano che il nazionalsocialismo tedesco avevano fatto propria la dottrina secondo la quale lo Stato ha il compito di guidare la nazione verso un futuro radioso, anche attraverso il controllo dell'economia. Uno storico come Renzo De Felice (1929-1996) ha magistralmente spiegato come il fascismo sia stato un fenomeno rivoluzionario di sinistra: la tesi gli è costata l'odio e la persecuzione anche violenta nell'ultimo quarto del secolo scorso, ma ha aperto una strada storiografica importante, seguita da numerosi altri studiosi, che ha finalmente collocato il fascismo fra le ideologie rivoluzionarie del "secolo breve" (1914-1989). La differenza tra il socialismo nazionalista e quello marxista sta nel fatto che l'ostacolo (da eliminare fisicamente) alla nascita dell'«uomo nuovo» era individuato dal primo nelle nazioni inferiori (polacchi, ebrei, zingari...), dal secondo nelle classi economiche inferiori (borghesi, intellettuali, contadini...). Ma le similitudini tra i due tipi di socialismo non riguardano solo l'ideologia propugnata. Nel 2008 lo studioso di storia politica lettone Edvins Snore ha scritto e diretto un documentario intitolato The Soviet Story e finanziato dal gruppo UEN (Unione per l'Europa delle Nazioni) del Parlamento Europeo. Nel filmato compaiono, oltre a numerosi testimoni, lo storico Norman Davies e il dissidente Vladimir Bukovski. Il documentario, trasmesso e proiettato in diversi paesi, è inedito in Italia, sebbene sia disponibile una versione nella nostra lingua. E, soprattutto, mette in evidenza una serie impressionante di collegamenti tra il nazionalsocialismo e il socialismo sovietico. Viene mostrato, ad esempio, un articolo di giornale del New York Times nel quale si dà il resoconto della fondazione del Partito Socialista Nazionale in Germania; in esso sono riportate le parole di Joseph Goebbels che afferma: «Lenin è stato l'uomo più grande, secondo solo ad Hitler; e le differenze tra il comunismo e le idee di Hitler sono molto sottili». Viene ricordato il patto Ribbentrop-Molotov, dal nome dei due ministri degli esteri della Germania nazionalsocialista e dell'Urss che nel 1939, a Mosca, firmarono un patto di non aggressione fra le due potenze; viene ricordato come la Luftwaffe sia stata guidata, nei bombardamenti sulle città polacche, dalla radiotrasmittente sovietica a Minsk; si documenta come - mentre il popolo russo moriva letteralmente di fame - Stalin inviasse grano, ferro e materiale da costruzione all'esercito tedesco, sostenendolo nelle sue campagne; e come lo stesso Stalin avesse dichiarato che combattere l'ideologia nazista fosse da considerare alla stregua di un crimine, e avesse invitato i partiti comunisti europei a boicottare la resistenza antinazista. Nel documentario si afferma che i nazionalsocialisti inviarono in Russia delle commissioni allo scopo di studiare il modello dei campi di sterminio sovietici per applicarlo ai lager; e che i lager nazisti liberati dai sovietici non vennero smantellati, ma divennero parte dell'«arcipelago Gulag» descritto da Solgenitsin. All'inizio della persecuzione hitleriana contro gli ebrei, molti di loro fuggirono in Russia; Stalin li riconsegnò al Fuhrer in segno di amicizia. Secondo gli autori intervistati da Snore, la strategia di Stalin era quella di aiutare Hitler a devastare la società europea e a eliminare tutti gli oppositori al totalitarismo; in un secondo tempo avrebbe attaccato il Reich indebolito dalla guerra e, sconfittolo, avrebbe diffuso il socialismo sovietico a tutto il continente ormai ripulito da Hitler da ogni possibile resistenza, presentandosi all'opinione pubblica mondiale come il liberatore del mondo dal nazionalsocialismo. Il documentario mostra anche una parata comune delle forze sovietiche e nazionalsocialiste nel paese di Brzesc, il luogo dove le due armate si incontrarono dopo aver occupato l'intero territorio polacco. Come afferma la storica Francoise Thom, docente di storia moderna alla Sorbona, intervistata nel documentario, «entrambe le ideologie hanno l'ambizione di creare l'uomo nuovo. I due sistemi non sono d'accordo con la natura umana per come essa è veramente. Sono in guerra con la natura e con la natura umana, e questo è la base del totalitarismo». Nazionalsocialismo e socialismo sovietico sono in tal modo le due facce della stessa medaglia fin dalla loro origine, ossia la ribellione dell'orgoglio umano contro la natura umana. Entrambe queste ideologie sono state sconfitte, ma la tracotanza umana tenta ancora di creare l'uomo nuovo. Fonte: Il Timone, Gennaio 2010 (n.89) Pubblicato su BastaBugie n. 298

Fascismo e comunismo: i figli (degeneri) della guerra. Il Primo conflitto mondiale con i suoi lutti diede vita a due movimenti opposti. Uno voleva il paradiso in terra e scimmiottava le religioni, l'altro militarizzò la società per volontà di potenza, scrive Marcello Veneziani, Domenica 07/12/2014 su "Il Giornale".  La prima guerra mondiale ebbe due figli, uno rosso come il sangue che versò la rivoluzione, l'altro nero come i lutti che causò la guerra: il comunismo e il fascismo. Il primo preesisteva come idea e come movimento. Il secondo aveva fra i precursori il nazionalismo e l'interventismo. Ambedue venivano dal socialismo ma divennero realtà, partito unico e regime sotto i colpi della guerra. Al di là di quel che oggi si dice, a Mussolini gli italiani credettero davvero e non smisero di credere nemmeno nel pieno della seconda guerra mondiale, come documentano Mario Avagliano e Marco Palmieri in Vincere e vinceremo! (Il Mulino, pagg. 376, euro 25). Come testimoniano le lettere dal fronte pubblicate dai due storici, il consenso popolare all'entrata in guerra e anche oltre, fu sincero, «vasto e diffuso» e la partecipazione al regime e all'impresa bellica fu «attiva ed entusiasta». E ben superiore rispetto alla prima guerra mondiale. Per la verità anche Stalin ebbe consenso popolare nel mondo, che in Russia si cementò in chiave patriottica nella seconda guerra mondiale; ma i russi, a differenza degli italiani sotto il fascismo, vivevano sotto il terrore e le sue vittime furono milioni. Ma proviamo a leggere sotto un'altra luce la parabola del comunismo e del fascismo. Una lettura transpolitica, oltre la storia e il Novecento. Il comunismo fu il tentativo fallito di estendere l'ordine religioso alla società e il fascismo fu il tentativo tragico di estendere l'ordine militare alla nazione. Il primo infatti s'imperniò sulla rinuncia all'individualità, sulla comunanza di ogni bene, sulla comune catechesi ideologica e sull'attesa del paradiso, nonché sulla legge egualitaria, degna di un convento, «ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». Ma passando da una comunità eletta di frati - che scelgono quel tipo di vita e rinunciano ai beni terreni - all'intera società costretta a osservare quelle norme, il paradiso trasloca in terra e diventa inferno. Gli angeli e i diavoli vengono storicizzati e identificati rispettivamente nella classe operaia e nei padroni, coi loro servi; l'eterno si risolve nel futuro, e dal processo spirituale al processo economico-materiale la scelta totale si fa servitù totalitaria, il convento si fa soviet e poi lager, la comunità si fa Partito e poi Stato, soffocando nel sangue chi si oppone o solo dissente. È nel passaggio dalla comunità al comunismo che la libera rinuncia ai beni terreni e individuali di un ordine conventuale si fa costrizione, tirannia ed espropriazione. La comunione dei beni su base volontaria è una grande conquista, il comunismo egualitario per obbligo di Stato è una terribile condanna. Nel fascismo avviene un processo analogo: i codici, i linguaggi, le divise, i valori eroici attinenti a un ordine militare vengono estesi all'intera nazione, la milizia si trasforma in mobilitazione di massa. La società viene organizzata come un immenso esercito, in ogni ordine e grado, e relativa gerarchia, e viene resa coesa dall'amor patrio e dalla percezione del nemico. I valori di un ordine militare, come credere obbedire e combattere, vengono estesi all'intera nazione. L'impianto del fascismo è tendenzialmente autoritario, perché attiene all'agire e alla milizia, quello del comunismo è tendenzialmente totalitario perché pervade ogni sfera, incluso il credere e il pensare. La guerra come proiezione verso l'esterno e la militarizzazione come orizzonte interno rende il fascismo un regime in assetto di guerra, animato da volontà di potenza e da una fede assoluta nei confini, trasferita anche nei rapporti umani. L'ordine militare come scelta volontaria attiene a un'aristocrazia, ma nel fascismo viene nazionalizzato, si fa Stato-Popolo, coscrizione obbligatoria di massa, inclusi donne e bambini. Il comunismo è la degradazione di un ordine religioso imposto a un'intera società e il fascismo è l'imposizione di un ordine militare a un'intera nazione. Entrambi sono risposte sacrali, idealiste e comunitarie alla società secolarizzata, utilitaristica e individualista: il carattere sacrale del comunismo è sostitutivo della religione, condannata dall'ateismo di Stato; il carattere sacrale del fascismo è integrativo della religione, come una religione epica e pagana della patria in cui sono ammessi più déi e ciascuno domina nel suo regno, storico o celeste. L'archetipo del comunismo è di tipo escatologico, l'archetipo del fascismo è di tipo eroico. La redenzione promessa dal comunismo avviene tramite la rivoluzione dei rapporti di classe. La vittoria promessa dal fascismo avviene tramite le armi. Infatti il fascismo, nato da una guerra, muore in guerra, sconfitto sul campo di battaglia. Invece il comunismo, nato da una rivoluzione, fallisce proprio sul terreno economico, sconfitto sul piano del progresso e dell'emancipazione. Mussolini sta al socialismo come Napoleone sta alla Rivoluzione francese: è il loro antefatto. Se il prototipo ideale del comunismo è la rivoluzione francese, il modello storico del fascismo è il bonapartismo, che su un'impresa militare fonda un nuovo ordine civile. Napoleone da giacobino diventa generale e poi imperatore; il Duce, ex-socialista, segue una parabola affine. Fascismo e comunismo sovietico nascono ambedue dal collasso dell'Ordine preesistente, imperniato sugli Imperi Centrali. La caduta dell'Impero zarista per la rivoluzione russa, la guerra irredentista contro l'impero austroungarico per la rivoluzione fascista. La Madre di ambedue è la Grande Guerra, col suo corredo di sangue e trincea, la leva obbligatoria e lo sgretolarsi del Mondo di ieri sorretto da quell'Ordine. A complicare le cose venne poi il terzo incomodo, nato anch'egli dalla Guerra ma a scoppio ritardato: il Nazionalsocialismo tedesco, da cui scaturì la Seconda Guerra Mondiale, fatale per l'Europa, letale per il fascismo. La storia avrebbe preso un'altra piega se il patto Molotov-Ribbentrop tra Hitler e Stalin avesse retto alla prova del conflitto e all'indole dei due dittatori. In quel caso, probabilmente, la Seconda Guerra Mondiale avrebbe vendicato la Prima e ne avrebbe rovesciato l'esito, seppure con soggetti mutati: l'Urss al posto della Russia, il Terzo Reich al posto della Prussia e dell'Austria asburgica. Salvo una finale resa dei conti tra il comunismo asiatico e il nazismo indoeuropeo. Resta il paradosso della Prima Guerra Mondiale: fu la Grande Guerra a far nascere il fascismo e il comunismo e a galvanizzarli, ma fu la stessa Guerra a decretare la vittoria sul campo delle democrazie liberali e poi l'americanizzazione del mondo. L'ambigua follia della guerra.

Il fascismo? Può sdoganarlo solo un politico di sinistra. A Predappio fa bene il sindaco del Pd a proporre un museo sul Ventennio. Servirebbe a capire le vere radici del Duce..., scrive Nicholas Farrell, Martedì 22/04/2014 su "Il Giornale". Il sindaco di Predappio, Giorgio Frassineti, è un personaggio per quanto mi risulta unico: un «comunista» simpatico. Lo conosco da anni, è furbo e politicamente scorrettissimo. In nome della verità e della libertà, va controcorrente, if necessary. Fuma e beve, addirittura, roba da galera, al giorno di oggi... Da quando Frassineti (Pd) è stato eletto sindaco, nel 2009, si è impegnato per realizzare una cosa che nessun politico di sinistra (e non solo) prima di lui, dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi, aveva né voluto né osato fare: sdoganare il Ventennio fascista. Molte le sue iniziative. Ma attenzione. Con ciò che ha cercato di fare il «compagno» Frassineti durante il suo mandato non c'entra l'apologia del fascismo. Come ha sottolineato a Luigi Mascheroni: «Basta con la Predappio del turismo in camicia nera. La città non deve celebrare, né sopportare il fascismo. Lo deve conoscere, in modo completo. E per farlo, deve sapere cosa è stato il fascismo, come è nato e come è caduto: occorre raccontarlo, senza paure. Occorre un museo». Frassineti vorrebbe mettere il suo museo del fascismo proprio dentro la Casa del Fascio, un edificio imponente di 2.400 mq, che domina il centro del Paese ma che dal '45 in poi, è stato chiuso e lasciato in stato d'abbandono, come quasi tutti gli altri edifici del regime nel paese del Duce. Chiaro, un «ex» comunista che fa così rischia grosso. Rischia di perdere dei voti, e lui si è ricandidato, e tra un mese si torna alle urne. Ma dov'è il problema? Io, da inglese, presente in Romagna dal 1998 a oggi, che ha vissuto cinque anni a Predappio, pongo una domanda ai predappiesi: ma voi volete lasciare la vostra città ai pullman di nostalgici e ai negozio souvenir e alla loro versione della storia, storta pure quella? Non sarebbe meglio, più degno, più «economico» fare di Predappio anche un centro di studi serio sul Ventennio? Sono venuto da Londra in macchina a Predappio (dopo una sosta a Parigi durata un anno) nell'estate del 1998 per scrivere una biografia di Mussolini. Volevo capire una volta per tutte: ma che cosa significa - veramente - questa parola «fascismo», parola così diffusa ma così opaca? Pure il grande George Orwell si era chiesto in un saggio degli anni '40: «Che cos'è il fascismo?». Orwell, uomo di sinistra che odiava il comunismo perché «nazionalista», aveva notato una cosa negata dalla sinistra comunista: il fascismo piaceva al popolo. Predappio, un paesino sperduto nella bellezza incantevole dell'appennino tosco-romagnolo, mi piacque subito. Ho notato che sulla stemma del Comune c'è un grappolo d'uva: il mitico Sangiovese. Sono stati i comunisti, a guerra finita - me l'hanno spiegato dopo - a mettere il grappolo al posto del fascio! Beh, diciamolo, i compagni non hanno sempre torto. Predappio per me è stato un paradiso: la Toscana ma senza inglesi. Chiunque vuole «conoscere in modo completo» il fascismo «senza paure» si trova subito nei guai. Personalmente non sono fascista, sono inglese. Un inglese anarchico thatcheriano. Ma quello che sono non cambia quello che dicono e scrivono di me. Per ciò che scrivo di Mussolini e del fascismo, mi danno del fascista... Più difficile dare del fascista al comunista Frassineti: così come solo un uomo di sinistra può fare certe cose (tagli al welfare eccetera), solo un uomo di sinistra può provare a «museificare» il fascismo. La storia è scritta dai vincitori e nel caso del Ventennio i vincitori furono un'alleanza tanto bizzarra quanto potente come quella tra il capitalismo democratico e il comunismo dittatoriale. Per gli angloamericani Mussolini fu un buffone grottesco; per i comunisti una marionetta della borghesia. Innanzitutto, c'è da dire che fascismo e comunismo avevano in comune molto di più l'uno con l'altro di quanto ciascuno di loro aveva in comune sia col capitalismo che con la democrazia. Ecco perché il Patto fra Hitler e Stalin del 1939 fu molto più normale che non l'alleanza successiva fra Stalin e Roosevelt/Churchill. E Mussolini non era affatto la marionetta della borghesia, perché per lui la lotta di classe era tra produttori e parassiti (di qualunque classe), e gran parte della borghesia secondo lui era parassitaria. Conoscere il fascismo senza paura vuol dire accettare tante cose scomodissime, e fra queste una fondamentale: il fascismo non fu imposto, ma voluto dal popolo italiano; e una vera resistenza al fascismo in Italia non ci fu fino al 1944; e nella liberazione d'Italia, la resistenza fu «minoritaria» dal punto di vista militare. Il mio nuovo libro (scritto con Giancarlo Mazzuca e edito da Rubbettino), s'intitola Il compagno Mussolini e racconta il percorso di Mussolini da socialista rivoluzionario internazionalista a socialista rivoluzionario nazionalista nella Prima guerra mondiale. Mussolini si era reso conto - a causa della guerra - che la gente è più fedele alla patria che alla propria classe sociale. Per conoscere in modo completo il fascismo bisogna dunque riconoscere una verità negata: il fascismo, sotto la camicia nera, era di sinistra. Mussolini appoggiò la guerra (in sintonia con i socialisti francesi e tedeschi ma non quelli italiani) non come vuole la vulgata per sete di potere, o perché corrotto dalla borghesia, ma da fedele socialista rivoluzionario. Spero che l'amico Giorgio Frassineti resti sindaco dopo le elezioni del 22 maggio. E spero possa fare il «suo» museo dentro la Casa del Fascio. Mandando a quel paese tutti quei volatili che l'hanno trasformata in una gigantesca piccionaia.

Mussolini era comunista, ma non Stalinista. Alla vigilia dell'inaugurazione della legislatura, Mussolini dichiarò alla stampa che i fascisti non avrebbero presenziato alla seduta inaugurale. Tratto dal sito “Mussolini Benito”. Ciò "perchè il fascismo, pur non avendo una pregiudiziale contro la monarchia, era tendenzialmente repubblicano". Questa sua dichiarazione suscitò vivo risentimento tra numerosi membri del suo movimento-partito. Molti dirigenti d'esso erano di sentimenti monarchici e quindi si opposero alla decisione di Mussolini. Questi allora presentò un ordine del giorno sulla partecipazione o meno dei fascisti alla seduta inaugurale; ma la sua proposta fu respinta, sicchè i fascisti, escluso Mussolini e qualche altro deputato fascista, parteciparono alla stessa. Il 13 giugno i fascisti compirono la loro prima azione violenta nella stessa sede della Camera. Essi misero alla berlina, e poi cacciarono a viva forza fuori dall'aula, il deputato comunista Francesco Misiano, disertore nel corso della Grande Guerra. Tutti i gruppi parlamentari protestarono per i metodi violenti dei fascisti e per l'offesa arrecata alla Camera, tuttavia quando il Misiano si presentò in aula, abbandonarono in blocco la stessa, in segno di protesta per "l'indegno" collega. Ma ciò che maggiormente preoccupava Mussolini era il fatto che ormai il movimento fascista stava per sfuggirgli di mano. Egli non ne aveva più il pieno controllo; ciascuna sezione agiva in modo del tutto autonomo, compiendo azioni spesso non condivise dalla direzione. Egli si rese conto allora dell'assoluta esigenza di riconquistare l'effettivo controllo del suo movimento. Ma perchè ciò potesse realizzarsi era necessario avviare il partito verso la strada della pacificazione, cioè occorreva che cessasse la sua azione violenta, accettando quindi il gioco parlamentare. Ma per comprendere appieno le idee di Mussolini in questo particolare momento, è molto utile analizzare il suo primo discorso alla Camera, discorso ch'egli pronunciò in risposta al discorso della Corona. Egli iniziò con il criticare la politica di Sforza in fatto di politica estera; non condivideva né la politica italiana in Alto Adige, né quella italiana con la Jugoslavia. Non a caso si erano verificate numerose spedizioni punitive delle squadre fasciste, proprio contro le comunità slovene a Trieste e contro quelle di lingua tedesca in Alto Adige. Ma ciò che maggiormente interessa è l'atteggiamento di Mussolini nei confronti della politica interna e particolarmente nei confronti degli altri partiti. Mussolini affermò la vocazione anticomunista dei fascisti. "Finchè i comunisti parleranno di dittatura proletaria, - affermò Mussolini di repubbliche, di più o meno oziose assurdità, fra noi e loro non ci potrà essere che il combattimento. La nostra posizione varia, quando ci troviamo di fronte al partito socialista. Anzitutto ci teniamo bene a distinguere quello che è movimento operaio da quello che è partito politico... Noi, e qui ci sono testimoni che possono dichiararlo, non abbiamo mai preso aprioristicamente un atteggiamento di opposizione contro la Confederazione generale del lavoro. Aggiungo che il nostro atteggiamento verso la Confederazione generale del lavoro potrebbe modificarsi in seguito, se la Confederazione stessa, ed i suoi dirigenti lo meditano da un pezzo, si distaccasse dal partito politico socialista... Ascoltate, del resto, quello che sto per dire. Quando voi presenterete il disegno di legge delle otto ore di lavoro, noi voteremo a favore. Non ci opporremo e voteremo a favore di tutte le misure e dei provvedimenti, che siano destinati a perfezionare la nostra legislazione. Non ci opporremo nemmeno ad esperimenti di cooperativismo: però vi dico subito che ci opporremo con tutte le nostre forze a tentativi di socializzazione, di statizzazione, di collettivizzazione! Ne abbiamo abbastanza del socialismo di stato! E non desisteremo nemmeno dalla lotta, che vorrei chiamare dottrinale, contro il complesso delle vostre dottrine, alle quali neghiamo il carattere di verità e soprattutto di fatalità. Neghiamo che esistano due classi, perchè ne esistono molte di più; neghiamo che si possa spiegare tutta la storia umana col determinismo economico. Neghiamo il vostro internazionalismo, perchè è una merce di lusso che solo nelle alte classi può essere praticato, mentre il popolo è disperatamente legato alla sua terra nativa..." Quindi il discorso di Mussolini si occupò del partito popolare: "Ricordo ai popolari che nella storia del fascismo non vi sono invasioni di chiese, e non c'è nemmeno l'assassinio di quel frate Angelico Grassi, finito a revolverate ai piedi di un altare. Vi confesso che c'è qualche legnata e che c'è un incendio sacrosanto di un giornale, che aveva definito il fascismo una associazione a delinquere. Il fascismo non predica e non pratica l'anticlericalismo... Qui è stato accennato al problema del divorzio. Io, in fondo in fondo, non sono divorzista, perchè ritengo che i problemi di ordine sentimentale non si possono risolvere con formule giuridiche; ma prego i popolari di riflettere se sia giusto che i ricchi possano divorziare andando in Ungheria, e che i poveri diavoli siano costretti qualche volta a portare una catena per tutta la vita. Siamo d'accordo con i popolari per quel che riguarda la libertà della scuola; siamo molto vicini per quel che riguarda il problema agrario... Affermo qui che la tradizione latina e imperiale di Roma oggi è rappresentata dal cattolicismo... l'unica idea universale che oggi esista a Roma, è quella che s'irradia dal Vaticano... Sono all'ultima parte del mio discorso, - disse ancora Mussolini - e voglio toccare un argomento molto difficile, e che, dati i tempi, è destinato a richiamare l'attenzione della Camera. Parlo della lotta, della guerra civile in Italia... E' inutile che Giolitti dica che vuole restaurare l'autorità dello Stato. Il compito è enormemente difficile, perchè ci sono già tre o quattro Stati in Italia, che si contendono il probabile, possibile esercizio del potere... La guerra civile si aggrava anche per questo fatto: che tutti i partiti tendono a formarsi, a inquadrarsi in eserciti; quindi l'urto, che se non era pericoloso quando si trattava di partiti allo stato di nebulosa, è molto più pericoloso oggi che gli uomini sono nettamente inquadrati, comandati e controllati. D'altra parte è pacifico, oramai, che sul terreno della violenza le masse operaie saranno battute. Lo riconosceva molto giustamente Baldesi, ma non ne diceva la ragione profonda; ed è questa: che le masse operaie sono naturalmente, oserei dire santamente, pacifondaie, perchè rappresentano sempre le riserve statiche della società umana, mentre il rischio, il pericolo, il gusto dell'avventura sono stati sempre il compito, il privilegio delle piccole aristocrazie. E allora, o socialisti, se voi convenite e ammettete e confessate che su questo terreno noi vi batteremo, allora dovete concludere che avete sbagliato strada. La violenza non è per noi un sistema, non è un estetismo, e meno ancora uno sport, è dura necessità alla quale ci siamo sottoposti. E aggiungo anche che siamo disposti a disarmare, se voi disarmate a vostra volta, soprattutto gli spiriti. Nell'Avanti! del 18 giugno, edizione milanese, è detto: "Noi non predichiamo la vendetta come fanno i nostri avversari. Pensiamo all'ascesa maestosa dei popoli e delle classi con opera pacifica e feconda pur nelle inevitabili, anzi necessarie, lotte civili. Se questo è il vostro punto di vista, o signori, sta a voi illuminare gl'incoscienti e disarmare i criminali. Noi abbiamo già detto la nostra parola, abbiamo già compiuto la nostra opera". Ora io ribatto che anche voi dovete illuminare gl'incoscienti, che ritengono che noi siamo degli scherani del capitalismo, degli agenti del Governo; dovete disarmare i criminali, perché abbiamo nel nostro martiro- logio 176 morti. Se voi farete questo, allora sarà possibile segnare la parola fine al triste capitolo della guerra civile in Italia... Ma il disarmo non può essere che reciproco. Se sarà reciproco, si avvererà quella condizione di cose che noi ardentemente auspichiamo, perché, andando avanti di questo passo, la Nazione corre serio pericolo di precipitare nell'abisso. Siamo in un periodo decisivo; lealtà per lealtà, prima di deporre le nostre armi, disarmate i vostri spiriti." Con questo discorso Mussolini avviò quel tentativo di conciliazione, che rispondeva a due ordini di necessità: da un canto l'esigenza di riprendere il controllo del partito, che ormai sfuggiva dalle sue mani e che organizzava spedizioni punitive a carattere locale, senza tener conto di una strategia politica complessiva; in secondo luogo la necessità di abituare il partito a entrare nel gioco parlamentare, ottenendo in cambio la collaborazione di forze politiche, presenti in modo massiccio alla Camera.

Il Fascismo è di Sinistra, scrive Nicholas Micheletti. Le conquiste sociali del Fascismo? Non si trattava solo dei treni in orario. Assegni familiari per i figli a carico, borse di studio per dare opportunità anche ai meno abbienti, bonifiche dei territori, edilizia sociale. Questo perché solo dieci anni prima Mussolini era in realtà un Socialista marxista e massimalista che si portò con sé il senso del sociale, del popolo. Le dirò in un certo senso il fascismo modernizzò il paese. Nei confronti del Nazismo fu dittatura all’acqua di rose: se Mussolini non avesse firmato le infamanti leggi razziali, sarebbe morto di morte naturale come Franco. Resta una dittatura, ma anche espressione d’italianità. Bisognerebbe fare un’analisi meno ideologica su questo. Quello che ha ottenuto il fascismo in campo sociale oggi ce lo sogniamo. – Margherita Hack. La celebre astrofisica Margherita Hack candidata nel movimento politico "Democrazia Atea" come capolista alla Circoscrizione Veneto 2, ha rilasciato il 23 marzo 2013 un'intervista alla rivista Barricate che sicuramente farà molto discutere. Margherita Hack nell'intervista però ammette anche di essere comunista nonostante "il Comunismo ha soppresso le libertà. Io sono per la tutela della proprietà privata, il rispetto dell'individuo che non è solo gruppo. Questo è socialismo puro. Poi guardi basterebbe rispettare la Costituzione per avere una società più giusta".

Molti professori non si soffermano sulle caratteristiche base dell’ideologia fascista. C’è molta carne al fuoco che, per motivi prettamente ideologici, vengono analizzati in modo pessimo. Punto primo: il fascismo è un’ideologia di sinistra, rivoluzionaria e antiborghese. Il movimento fascista è un movimento rivoluzionario, moderno, avanguardistico. Esso racchiude varie ideologie apparentemente in antitesi tra di loro: abbiamo dentro monarchici reazionari (De Bono), sindacalisti rivoluzionari (come il defunto Corridoni), futuristi (che non ho mai capito dove cazzo volevano andare a parare…), arditi, socialisti (Mussolini), repubblicani (Balbo). Il 4 fasci (che rappresentavano i 4 quadrumviri: Balbo, Mussolini, De Bono e De Vecchi) racchiusi in un unico fascio rappresentavano appunto l’unione di tante ideologie diverse tra di loro in un’unica sola: la patria. L’ideologia fascista fu dunque essenzialmente rivoluzionaria, di sinistra: bisognava formare una nuova Italia, un nuovo italiano che ragionasse secondo i dettami e le idee inculcategli dal partito. Giolitti, che vedeva in Mussolini un nuovo Crispi, aveva capito ben poco dell’essenza fascista. Il fascismo aveva anche un aspetto reazionario: ma si limitava solo al ritorno all’ordine dopo anni di lotte tra classe operaia e padronale (biennio rosso), la componente reazionaria è solo una goccia nell’oceano! Poi che l’ideologia fascista sia cambiata nel corso degli anni, che si sia venduta alla classe padronale (anche se in modo non evidente come l’esempio di Hitler in Germania), che sia degenerata è tutto vero! Ma l’applicazione è sempre differente all’ideologia. Ogni regime è di per se reazionario. Per “reazione politica” il vocabolario dice: << La reazione è un’opposizione a forme di innovazione politica, sociale, artistica o culturale, a sostegno del ritorno ad autorità, valori e istituzioni del passato, operata da partiti, gruppi di pressione o anche individui. >> Dunque ogni regime, anche comunista, si oppone al cambiamento, all’ instaurazione di un altro regime. «Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e REAZIONARIE dell’occidente… » (Dichiarazione di guerra, giugno 1940, Benito Mussolini) Il Fascismo lo si colloca a destra solo per convenzione, ma è movimento di stampo socialista, una terza via dopo il capitalismo e il comunismo. E’ un movimento sia rivoluzionario, sia reazionario: rivoluzionario, perché era una rivoluzione, voleva cambiare l’Italia in un sistema nuovo, superando la lotta di classe, per voler arrivare al concetto perno dell’ideologia fascista: la Patria (come sopra), una nuova Italia basata sulla meritocrazia, sul rispetto dei superiori, sui valori della famiglia, un’ Italia in cui tutti volevano collaborare per renderla grande, un’Italia nuova; allo stesso tempo è un movimento reazionario perché nacque come reazione al comunismo (probabilmente senza il Fascismo, in Italia sarebbe arrivato il bolscevismo). Il comunismo è un’ideologia politica basata sull’abolizione della proprietà privata e delle classi sociali. La proprietà privata (terreni, ristoranti, fabbriche) è fonte di guadagno e i soldi sono fonte di corruzione, di potere usato per le prepotenze sociali verso i più deboli, ecc… Non sono dunque i capitalisti ad essere “cattivi d’animo”, ma è il capitalismo e gli effetti sociali che produce che li porta a comportarsi in una certa maniera. Tali persone debbono essere private del loro capitale e debbono essere rieducate. Il capitale deve essere di proprietà dello stato (ovvero della collettività) e la ricchezza da esso prodotte deve essere distribuita dallo stato in proporzione ai meriti, al lavoro e alle necessità dei singoli. Questa idea non può che essere giusta, ma gli uomini non sono in grado di rinunciare alle loro proprietà, e quindi il comunismo non può fondarsi sulla democrazia, ovvero sull’esercizio del potere per mezzo del consenso, ma deve basarsi sulla dittatura del proletariato (è proletario chi non possiede nulla). Solo così si può costruire un futuro migliore.” Queste sono orientativamente le idee di base dei fautori del comunismo. Il comunismo fu teorizzato nella metà del 1800 da un tedesco di nome Marx ed applicato nella realtà per la prima volta nel 1917 in Russia. Esso fu applicato nei vari paesi in maniera più o meno rigorosa. Particolarmente rigorosa nel paese d’origine, la Russia, e nei paesi asiatici (Cina, Vietnam,…), meno rigorosa in alcuni paesi europei (Polonia ad esempio) e a Cuba (dove addirittura è stato sempre concesso di possedere piccole attività, come ristoranti, bar, ecc…). Attualmente è applicato in teoria in Cina (che nella realtà è diventato un paese capitalista) ed in pratica a Cuba (oggi in forma ancora più blanda). Essa è sempre fallita poichè si basava sull’assenza di democrazia (quindi sull’oppressione) e proponeva un sistema economico in contrasto con la natura umana, in quando il concetto di proprietà è insito in tutto il regno animale (alcuni animali, ad esempio, segnano il proprio territorio con l’urina) e quindi anche nell’uomo. In Asia il comunismo si è macchiato di razzismo. “Il fascismo si fonda sul corporativismo. La corruzione, le lotte sanguinose, le prepotenze sociali, ecc… sono frutto della lotta di classe, cioè delle lotte che si sviluppano tra le varie classi sociali, per invidia e/o voglia di prevaricazione. Il progresso ed il benessere non possono che essere raggiunte con la pace sociale, che può esistere solo se le classi sociali si alleano tra loro per il bene del paese. Debbono nascere dunque le corporazioni, cioè alleanze tra uomini che fanno lo stesso mestiere. Tuttavia non si può mai immaginare che la corporazione dei proprietari terrieri e quella dei contadini vadano “spontaneamente” d’accordo come anche quella degli industriali con quella degli operai, quindi anche il fascismo non può basarsi sull’esercizio del potere tramite il consenso, bensì sulla dittatura. Lo stato impone la concordia e per far sì che essa duri deve preoccuparsi del bene degli appartenenti alle corporazioni in ogni modo, garantendo loro un’adeguata assistenza sociale (istituzione di enti assistenziali per i lavoratori tutt’ora esistenti come l’INPS, l’INAIL, ecc…; istituzione di enti di sovvenzione all’industria tutt’oggi esistenti come l’IRI; ecc… )e perfino organizzandone gratuitamente gli svaghi (introduzione del “Sabato Fascista”, degli enti nazionali del Dopolavoro come l’Enal, di manifestazioni sportive, culturali, sociali, ecc…). Tutte queste iniziative erano a spese dello stato, che si finanziava tramite un’adeguata tassazione di tipo progressivo (maggiore percentuale di tasse ai più ricchi). E’ vietata la libera iniziativa economica (una persona non può aprire un’attività come un ristorante o una fabbrica senza una speciale autorizzazione dello stato che è difficile avere) poichè la libera iniziativa porta alla concorrenza e alle lotte tra le varie fazioni. Gli industriali pagano più tasse per finanziare le iniziative dello stato e non possono imporre orari di lavoro troppo pesanti, ma godono della pace sociale perchè agli operai è vietato scioperare e sono tutelati dalla nascita di concorrenza nel loro settore poichè è vietata la libera iniziativa economica.” Queste sono orientativamente le idee di base dei fautori del fascismo. Il fascismo nasce come reazione al comunismo in Italia, dove prende il potere nel 1922. Il capitalismo in quel periodo non si dimostra abbastanza maturo per offrire un sistema accettabile per la maggior parte della popolazione in alternative al comunismo, che riusciva ad allettare meglio le masse popolari. La rivoluzione russa aveva dimostrato che non era possibile reprimere con il solo uso della forza le ambizioni delle masse popolari ad avere condizioni di vita migliori, ma queste si dimostrarono incapaci di essere propositive e riformiste e si abbandonavano ad un estremismo che minacciava di provocare l’instaurazione di una dittatura comunista. Il fascismo si proponeva come sistema per garantire migliori condizioni di vita smorzando così la protesta sociale per poi reprimere con la forza le fazioni popolari più intransigenti (cioè quelle guidate dai comunisti) nonchè i sostenitori della democrazia. Dittature di tipo fasciste sono nate successivamente in tanti paesi (Spagna, Portogallo, Germania, ecc…). Tuttavia sono tantissimi i regimi che nel corso della Guerra Fredda si dichiaravano fasciste senza essere tali. Erano regimi dittatoriali appoggiati dagli Stati Uniti con l’unico scopo di contrastare il comunismo e di impedire le riforme sociali che avrebbero leso gli interessi delle multinazionali americane. Si trattavano di dittature rette da loschi individui che si proponevano solo l’arricchimento personale. Per capire se un regime dittatoriale è veramente di tipo fascista bisogna tener presente che il fascismo è caratterizzato dai seguenti fattori: profonda avversione per il sistema capitalista, per il comunismo, per i paesi anglosassoni (come Stati Uniti e Gran Bretagna), per Israele; grande simpatia per gli stati islamici (anche se estremisti), per la causa palestinese, esaltazione della propria identità nazionale e per l’assistenza sociale. Il fascismo è sempre fallito perchè si basava sulla dittatura (quindi sull’oppressione) e la pace sociale era imposta e quindi non sincera, ma in parte solo pace apparente in quanto vi erano molte tensioni sociali latenti. Inoltre la mancanza di libera iniziativa economica impediva il pieno sviluppo del principio della concorrenza e del continuo miglioramento del prodotto, facendo ristagnare l’economia e limitandone lo sviluppo. Di conseguenza tale sistema azzoppava sul nascere le idee innovative invece di favorirle. Il fascismo in Europa si è gravemente macchiato di razzismo. “Il capitalismo è un sistema economico che si basa sul capitale e sulla libera iniziativa economica. Non è una ideologia in quanto è esso stesso la negazione di ogni ideologia, intesa come idea preconcetta. La storia ha dimostrato che il capitalismo è il sistema più opportuno. Esso, infatti, anche se ha dimostrato di avere difetti (sfruttamento degli operai agli inizi del 1900, crisi economica mondiale del 1929, ecc…), ha dimostrato anche di essere molto flessibile e di conciliarsi bene con i molti correttivi di natura sociale ed economica che nel tempo ne hanno notevolmente attenuato i difetti. L’organizzazione sociale si basa sull’idea che tutti gli individui e tutte le classi sociali debbono avere interesse ad accordarsi. Ad esempio gli industriali devono avere interesse a pagare bene gli operai affinchè essi non esercitino il diritto di sciopero (per il quale non possono essere licenziati) bloccando la produzione e creando un danno economico all’imprenditore. Ma anche gli operai hanno interesse a non pretendere troppo poichè le giornate di sciopero sono detratte dallo stipendio (perchè in quei giorni non si lavora e quindi non si viene pagati). Di conseguenza, sia pure con fatica, si giunge sempre ad un accordo, poichè entrambi le fazioni hanno interesse ad accordarsi. E’ chiaro che un simile sistema può reggersi solo se la gestione del potere avviene tramite il consenso, e quindi in maniera democratica (altrimenti, per esempio, come fare le leggi che garantiscono il diritto di sciopero?).” Queste sono orientativamente le idee di base dei fautori del capitalismo. Il capitalismo è nato con l’abolizione del sistema feudale, che può datarsi nella rivoluzione francese del 1789 in Europa o nella dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti nel 1776 per quanto riguarda il continente americano. Oggi quasi tutti gli stati del mondo sono ufficialmente capitalisti, ma non vi è vero capitalismo se non vi è vera democrazia (cosa che invece spesso manca). I paesi che sono riusciti ad applicare il capitalismo in piena osmosi con la democrazia con pazienza e perseveranza per molti decenni (come il nostro), introducendo di volta in volta gli opportuni correttivi, sono i più ricchi e progrediti al mondo sotto il punto di vista economico, culturale e sociale. Sintetizzando, dal punto di vista economico si ha:

1) Comunismo: Proprietà privata NO, Libera iniziativa economica NO!

2) Fascismo: Proprietà privata SI, Libera iniziativa economica NO!

3) Capitalismo: Proprietà privata SI, Libera iniziativa economica SI!

Dal punto di vista politico, invece, si ha:

1) Comunismo: Democrazia NO! (Dittatura del Proletariato)

2) Fascismo: Democrazia NO! (Dittatura Corporativa)

3) Capitalismo: Democrazia SI!

Fascisti di sinistra da "Fascisti immaginari" - Luciano Lanna e Filippo Rossi. «La destra è censura, reazione, bigotteria. E se ho un'appartenenza culturale è più al fascismo che alla destra, che mi fa schifo [...] Il fascismo che ho conosciuto in famiglia è quello libertario, gaudente, generoso. Penso al fascismo rivoluzionario dell'inizio e della fine, quello che non conserva ma cambia, quello socialista e socialisteggiante...» Idee chiare e sentite quelle del ventottenne Nicolo Accame, giornalista del "Secolo d'Italia" intervistato, insieme a suo padre Giano, nel marzo 1996, da Stefano Di Michele: due fascisti, un padre e un figlio. Idee chiare e sentite che affondano in un diffuso e radicato retroterra esistenziale e culturale. Quello dei cosiddetti «fascisti di sinistra». Anche quando Alberto Giovannini, giornalista di lungo corso, classe 1912, è stato costretto a definirsi ha dovuto per forza di cose ricorrere a quell'apparente ossimoro: «Io sono stato fascista a modo mio. Era, il nostro, un fascismo di sinistra». E aggiungeva: «Non potevo non avere una certa fedeltà e riconoscenza verso quel regime attraverso il quale io, che ero nessuno, figlio di povera gente, di operai, cominciando col fare il fattorino, ero arrivato a dirigere un quotidiano. Il fascismo mi aveva dato la possibilità di avanzare socialmente. Non lo avevo dimenticato ...». E quando, a metà degli anni '80, durante la presentazione di una riedizione dello "Scrittore italiano" di Berto Ricci, i dirigenti missini Pinuccio Tatarella e Beppe Niccolai, furono anche loro costretti a definirsi, le due risposte risultarono antitetiche. Più che "di destra", di "centro-destra" si definì Tatarella, ricollegandosi alla tradizione politica che negli anni '50 avevo visto molte città del Mezzogiorno amministrate da coalizioni composte da MSI, destre liberali e monarchiche e DC. Sicuramente "non di destra", anzi "di sinistra", si dichiarò invece Niccolai, riagganciandosi a tutt'altra tradizione. Una tradizione che affondava le sue radici nel Mussolini giacobino, nel socialismo risorgimentale di Pisacane, nel sindacalismo rivoluzionario di Sorel e Corridoni, nelle avanguardie artistiche d'inizio Novecento, nel fascismo sansepolcrista del 1919, nell'interpretazione gentiliana del marxismo...Se infatti storicamente il fascismo nasce con Mussolini e "Il Popolo d'Italia" tra il 1914 e il 1919 da una scissione del partito socialista, il filosofo cattolico Augusto Del Noce ne ha retrodatato la genesi filosofica al 1899 con la pubblicazione del saggio di Giovanni Gentile su "La filosofia di Marx", che venne considerato da Lenin -nel "Dizionario Enciclopedico russo Granat" del 1915- uno degli studi più interessanti e profondi sull'essenza teoretica del pensatore di Treviri. Del marxismo, Gentile respingeva il materialismo ottocentesco ma ne abbracciava con entusiasmo l'ultramoderna dimensione di «filosofia della prassi», tesa non solo a interpretare il mondo ma a cambiarlo. Stando almeno all'interpretazione delnociana, quindi, il fascismo non sarebbe affatto una negazione del marxismo, ma piuttosto una sua "revisione" che reinterpreta la prassi come spiritualità. Il fascismo si prospetta, insomma, come una rivoluzione "ulteriore" rispetto a quella marx-leninista. D'altro canto, divenuto filosofo ufficiale del fascismo, Gentile ripubblicò il suo libro su Marx nel 1937, nel pieno degli "anni del consenso". E quando, il 24 giugno 1943, pronunciò in Campidoglio il Discorso agli italiani per esortarli a resistere agli anglo-americani, si rivolse espressamente agli ambienti di sinistra presentando il fascismo come «un ordine di giustizia fondato sul principio che l'unico valore è il lavoro». E precisò: «Chi parla oggi di comunismo in Italia è un corporativista impaziente». Lo stesso Lenin, del resto, rivolgendosi nel 1922 al comunista Nicola Bombacci aveva potuto dire: «In Italia c'era un solo socialista capace di fare la rivoluzione: Benito Mussolini». Nel fascismo di sinistra ci sono davvero tante cose: il percorso politico dello stesso Bombacci, il comunista finito a Salò e appeso con Mussolini a Piazzale Loreto; la covata ribelle dei giovani intellettuali aggregati attorno all'ex anarchico fiorentino Berto Ricci e alla sua rivista "L'Universale"; il "lungo viaggio" dal fascismo al comunismo di tanti intellettuali, da Davide Lajolo a Fidia Gambetti, da Felice Chilanti a Ruggero Zangrandi, da Elio Vittorini a Vasco Pratolini, da Ottone Rosai a Mino Maccari. Fermenti e contraddizioni che hanno indotto lo storico Giuseppe Parlato a dedicare un intero libro alla cosiddetta "sinistra fascista": «Quell'insieme, a volte discorde e contraddittorio, di sentimenti, di posizioni, di prospettive e di progetti che si fondavano sulla persuasione di vivere nel fascismo e attraverso il fascismo una sorta di palingenesi rivoluzionaria, la prima vera rivoluzione italiana dall'unità». E delle varie anime del fascismo, la "sinistra" fu sicuramente la più vivace. Ancorata al Risorgimento mazziniano e garibaldino, la sinistra fascista cercò di incarnare un progetto che era nato prima del fascismo e che mirava ad oltrepassare la stessa esperienza mussoliniana. E se nei primi tempi essa si tradusse essenzialmente nello squadrismo e nel sindacalismo, verso la metà degli anni '30 -aggregando soprattutto i giovani universitari, gli intellettuali e i sindacalisti - si fece portatrice di un "secondo fascismo" teso a superare la società borghese. Non è un caso che i vari Bilenchi, Pratolini e tutti i giovani intellettuali del cosiddetto "fascismo di sinistra", oltre che in Berto Ricci, trovassero un punto di riferimento nel fascista anarchico Marcello Gallian. «I libri di Gallian -scriveva Romano Bilenchi su "Il Popolo d'Italia" del 20 agosto 1935- sono documenti... E un documento su di un periodo rivoluzionario non creduto compiuto non avrà fine finché tutta la rivoluzione non sia realizzata». Quest'anima di sinistra conviverà nei vent'anni del regime con altre componenti. E nonostante il suo essere per molti versi un "progetto mancato", marcherà sempre il Ventennio, influendo decisamente sull'identità culturale sia del fascismo che del postfascismo. Confesserà Bilenchi, diventato comunista dopo la guerra: «Rimasi molto legato a queste idee diciamo così, socialiste... Del fascismo mi colpì il programma, più a sinistra, almeno a parole e almeno agli inizi, di quello degli altri... Poi ho conosciuto Berto Ricci, una persona seria, onesta e simpatica. Era un anarchico, filosovietico, ed era entrato nel partito fascista convinto di partecipare a una rivoluzione proletaria». Del resto, già nel 1920, Marinetti aveva scritto: «Sono lieto di apprendere che i futuristi russi sono tutti bolscevichi... Le città russe, per l'ultima festa di maggio, furono decorate da pittori futuristi. I treni di Lenin furono dipinti all'esterno con dinamiche forme colorate molto simili a quelle di Boccioni, di Balla e di Russolo. Questo onora Lenin e ci rallegra come una vittoria nostra». E resta agli atti che il 16 novembre 1922, proprio con un intervento alla Camera di Mussolini presidente del Consiglio, l'Italia fu il primo dei paesi occidentali a dichiararsi disponibile al riconoscimento internazionale dell'Unione Sovietica. Un'apertura che, almeno fino alla guerra di Spagna, non verrà mai meno. Nel giugno 1929, Italo Balbo, in una delle sue celebri trasvolate dall'Italia approdò a Odessa nell'URSS, e lì venne accolto con un picchetto d'onore. E il 4 dicembre 1933, Mussolini ricevette ufficialmente a Palazzo Venezia il ministro degli esteri russo Maxim Litvinov: da tre mesi i due paesi avevano sottoscritto un patto d'amicizia e l'occasione rafforzò ulteriormente le buone relazioni.  Erano gli anni in cui il filosofo Ugo Spirito arrivava a teorizzare -nel convegno di Studi corporativi di Ferrara del 1932- la «corporazione proprietaria» che prevedeva di fatto l'abolizione della proprietà privata, e in cui pullulavano le pubblicazioni addirittura filosovietiche, tra le quali un libro di Renzo Bertoni, che, reduce da una permanenza nell'Unione Sovietica, pubblicava nel 1934 un libro intitolato addirittura "Il trionfo del fascismo nell'URSS", sulla cui copertina si vedeva uno Stalin con la mano aperta e in una didascalia si leggeva: «Stalin saluta romanamente la folla». Poi, la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale e la repubblica di Salò. E proprio quest'ultima scatena vivaci discussioni tra Mussolini e Hitler. Per il dittatore tedesco quell'esperienza doveva chiamarsi «Repubblica fascista italiana». Mussolini, invece, senza più obblighi compromissori con la monarchia e gli ambienti conservatori, avrebbe preferito «Repubblica socialista italiana», tornando in qualche modo alle suggestioni sansepolcriste. Ma di quell'aggettivo che puzzava di sovversione e di marxismo Hitler non volle sentirne parlare. E alla fine si accordarono su Repubblica Sociale Italiana. E sia pure ridotto a "sociale", la parola socialista tornava nel lessico dei fascisti. Tanto da emozionare il socialista della prima ora ed ex comunista Nicola Bombacci -colui che aveva fatto adottare il simbolo della falce e martello ai comunisti italiani- e a farlo riappacificare con Mussolini: «Duce -gli scrive l'11 ottobre 1943- sono oggi più di ieri totalmente con Voi. Il lurido tradimento re-Badoglio che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l'Italia, Vi ha però liberato di tutti i componenti pluto-monarchici del '22. Oggi la strada è libera e a mio giudizio si può percorrere sino al traguardo socialista». In uno degli articoli scritti poco prima di essere ucciso dai partigiani, il giornalista Enzo Pezzato -redattore capo a Salò di "Repubblica fascista"- scrisse: «Il Duce ha chiamato la Repubblica "sociale" non per gioco: i nostri programmi sono decisamente rivoluzionari, le nostre idee appartengono a quelle che in regime democratico si chiamerebbero "di sinistra"». E nei giorni del crepuscolo di Salò, Mussolini confiderà al giornalista socialista Carlo Silvestri: «Il più grande dramma della mia vita si produsse quando non ebbi più la forza di fare appello alla collaborazione dei socialisti e di respingere l'assalto dei falsi corporativi. I quali agivano in verità come procuratori del capitalismo... Tutto quello che accadde poi fu la conseguenza del cadavere di Matteotti che il 10 giugno 1924 fu gettato fra me e i socialisti per impedire che avvenisse quell'incontro che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla politica nazionale». Sull'esperienza della RSI, Enrico Landolfi ha scritto che non fu un unicum: «Fu, viceversa, una sfaccettatissimo prisma, un fenomeno pluralistico. Tanto vero che fu in essa presente quasi tutto lo spettro dottrinario e politico». Landolfi sottolinea la presenza al suo interno di esponenti della stessa sinistra antifascista disposti a collaborare per l'attuazione del cosiddetto "Manifesto di Verona": oltre a Bombacci e a Carlo Silvestri, Edmondo Cione, Germinale Concordia, Pulvio Zocchi, Walter Mocchi e Sigfrido Barghini. Accanto a loro, c'era soprattutto a Salò una vasta «aggregazione più coerentemente e conseguentemente rivoluzionaria, socializzatrice, popolare-nazionale, libertaria. Disponibile, inoltre, quest'ultima, e anzi fautrice, del dialogo con l'antifascismo, proclive alla più ampia democratizzazione della Repubblica, decisa a resistere alle interferenze e alle rapine naziste, inequivocabilmente antiborghese e anticapitalista». E anche per questo, Landolfi ha titolato un suo libro sulla RSI: "Ciao, rossa Salò". Quella "rossa repubblica" che Bombacci salutò per l'ultima volta, prima che i partigiani lo fucilassero, con le parole: «Viva Mussolini! Viva il socialismo!». Nell'immediato dopoguerra il tema del recupero politico, o almeno elettorale, di chi era stato fascista nel Ventennio ma anche nella RSI, interesserà, più o meno scopertamente, anche il PSI e il PCI, i partiti dove troveranno accoglienza molti fascisti di sinistra. Così, nell'agosto 1947, Palmiro Togliatti, che l'anno prima in qualità di ministro di Grazia e Giustizia aveva concesso l'amnistia ai fascisti, sul quotidiano comunista "La Repubblica d'Italia" scriveva: «Non nascondiamo le nostre simpatie per quegli ex fascisti, giovani o adulti, che sotto il passato regime appartenevano a quella corrente in cui si sentiva l'ansia per la scoperta di nuovi orizzonti sociali... Noi riconosciamo agli ex fascisti di sinistra il diritto di riunirsi e di esprimersi liberamente conservando la propria autonomia». E anche il leader socialista Pietro Nenni, intervistato da "Paese Sera" il primo gennaio 1955, legittimava i fascisti di sinistra: «Da noi la destra esprime soltanto istinti antisociali, di conservazione e di reazione. Tipico il caso dei fascisti che, per inserirsi nella politica reazionaria americana, non hanno esitato a pugnalare ancora una volta il loro capo e a rinnegare l'unico elemento rispettabile della loro tradizione, vale a dire l'opposizione al dominio delle cosiddette plutocrazie». E lo stesso Nenni, se alla vigilia delle elezioni del 1953, aveva aperto le pagine de "l'Avanti!" all'ex direttore fascista de "La Stampa" di Torino, Concetto Pettinato, già nell'immediato dopoguerra aveva favorito la nascita di una rivista -"Rosso e Nero"- con la quale il fascista di sinistra Alberto Giovannini tentava di conciliare le attese fasciste della "rivoluzione incompiuta" con quelle socialiste della "rivoluzione mancata". In questo clima, un gruppo di fascisti di sinistra si raccoglierà attorno alla rivista quindicinale "Il Pensiero Nazionale" diretto dallo scrittore e giornalista già repubblichino Stanis Ruinas. Verranno definiti «fascisti-comunisti», «comun-fascisti», «camicie nere di Togliatti» e «fascisti rossi», definizione quest'ultima che dopo qualche esitazione finiranno anche per accettare. Ma il "rosso" di questi fascisti non fu necessariamente quello del PCI, ma un rosso più articolato, più complesso, più variegato. Tanto che, persino nella sua componente più incline alla linea di Botteghe Oscure, vi fu una divisione tra il gruppetto che volle entrare -ed entrò- nel PCI e gli altri che preferirono restare indipendenti. Dopo il '53, il gruppo de "Il Pensiero Nazionale" si avvicinerà ai socialisti, ai socialdemocratici e alla sinistra cattolica, finendo per gravitare nell'orbita del presidente dell'Eni Enrico Mattei e del suo nazionalismo democratico e mediterraneo. Ma non mancheranno rapporti e scambi con gli esponenti della sinistra fascista interni al MSI. Leader riconosciuto della sinistra missina delle origini fu indiscutibilmente Giorgio Pini: giornalista vicino a Mussolini prima e durante la RSI, sarà assiduo collaboratore de "Il Pensiero Nazionale" a partire dal 1954, dopo che, nell'aprile del '52, abbandona il MSI e, nel '53, si interrompe il legame da lui non gradito tra la rivista e il partito comunista. Ma in realtà tutti gli anni '50 hanno registrato contatti e confronti, anche pubblici, tra i giovani comunisti e i giovani dirigenti missini, soprattutto negli anni del dibattito sull'ingresso dell'Italia nella NATO. E nel 1958, lo stesso Palmiro Togliatti arrivò a difendere la cosiddetta «operazione Milazzo» che, in Sicilia, realizzò l'alleanza amministrativa tra il MSI e il PCI. In un intervento alla Camera, il 9 dicembre, il leader comunista disse: «Le convergenze che si sono determinate hanno dato luogo, anche qui, alle solite inette arguzie sul comunista e sul missino che si stringono la mano, si abbracciano e così via. Si tratta di un problema di fondo che deve essere riconosciuto e apprezzato in tutto il suo valore, daremo il contributo attivo a che passi in avanti vengano compiuti». D'altra parte, anche dopo la fuoriuscita di Giorgio Pini dal MSI -ancora lontano dal diventare il partito della "destra nazionale"- al suo interno rimase e fu sempre attiva una vasta e articolata presenza di "fascisti di sinistra": Ernesto Massi, Bruno Spampanato, Diano Brocchi, Giorgio Bacchi, Roberto Mieville, Domenico Leccisi, Giuseppe Landi, Ugo Clavenzani e Beppe Niccolai... E lo stesso Giorgio Almirante, prima di diventare segretario del partito e di lanciare la "grande destra", fu per molti anni un esponente di punta della sinistra interna. Ernesto Massi, grande studioso di geopolitica, professore all'Università Cattolica di Milano e vicesegretario nazionale del MSI dal 1948 al 1952, esce dal partito nel 1957 per tentare esperimenti politici autonomi. Fino al 1965 anima con Giorgio Pini un «Comitato di iniziativa per la sinistra nazionale». E solo dopo il fallimento del "Partito Nazionale del Lavoro" -che pure nel 1958 si presenta alle elezioni politiche in cinque circoscrizioni- e l'esaurirsi, nel 1963, della sua rivista "Nazione Sociale", tornerà nel 1972 a riavvicinarsi al MSI attraverso l'Istituto di studi corporativi. Nel 1963, comunque, mentre si chiudeva l'esperienza di "Nazione Sociale", nasceva a Roma "L'Orologio" diretto da Luciano Lucci Chiarissi, una rivista e un laboratorio che riproponeva la tradizione del "fascismo di sinistra" in termini nuovi e molto più attenti all'evoluzione degli scenari italiani ed internazionali. Lucci Chiarissi, nato ad Ancona nel 1924, era stato volontario a Salò, aveva militato nell'immediato dopoguerra nel movimento clandestino dei FAR (Fasci di azione rivoluzionaria), e si era sempre sentito appartenente a una "sinistra nazionale". "L'Orologio" tentava di uscire dalla strada del "rancore eterno" e del nostalgismo fine a se stesso, contestando non solo il MSI micheliniano, ma anche i gruppi extraparlamentari come "Ordine nuovo" e "Avanguardia nazionale". Spiegava Lucci Chiarissi: «Annibale non è alle porte e comunque non lo è a causa del centro-sinistra». E "L'Orologio", che aveva lanciato il tema della riappropriazione delle "chiavi di casa", sostenne De Gaulle contro il Patto Atlantico e nella guerra dei "sei giorni" si schierò dalla parte dei paesi arabi contro l'imperialismo israeliano. «"L'Orologio" -ha scritto Giuseppe Parlato- individuò nel capitalismo e nell'imperialismo americano un pericolo maggiore di quello sovietico per la cultura e la politica italiana... E a differenza di tutti gli altri fogli neofascisti, "L'Orologio" assunse immediatamente una posizione nettamente a favore dei vietnamiti e della loro lotta per l'indipendenza». Sono gli anni in cui accanto -e spesso a fianco- di tanti gruppi extraparlamentari di destra, sorgono anche gruppi extraparlamentari ispirati al "fascismo di sinistra". Così, la sezione italiana della Giovane Europa di Jean Thiriart titolava «Per un socialismo europeo» un documento fiorentino del 1968. E così, nel 1967, nasceva la "Costituente nazionale rivoluzionaria", fondata da Giacomo De Sario: classe 1927, ex segretario della federazione giovanile socialdemocratica ed ex dirigente della Giovane Italia. Con un simbolo rosso e nero, «rosso per la socialità, nero per la nazione», quel movimento -tra i cui esponenti di spicco c'erano i giovani Massimo Brutti e Massimo Magliaro, l'uno futuro dirigente del PCI e poi dei DS, l'altro diventerà capo ufficio stampa di Almirante e poi giornalista RAI- si faceva conoscere attraverso un periodico: "Forza Uomo", settimanale di lotta con redazioni a Roma, Milano, Varese e Brindisi. Il primo numero andò in edicola il 10 agosto 1969. Tra i riferimenti culturali c'erano Mazzini e Pisacane, Corridoni e Gentile, Mussolini e i futuristi. Nel solco della stessa tradizione si collocava la "Federazione Nazionale Combattenti della RSI", di cui nel '70 divenne presidente Giorgio Pini. Nel discorso di insediamento, Pini condannava l'atteggiamento dei fascisti che «sbandano verso la destra conservatrice e autoritaria, totalitaria, in ibrido connubio coi monarchici e coi più retrivi gruppi confessionali», invitando inoltre a respingere «il fanatico occidentalismo di destra pervenuto fino alla servile esaltazione di Nixon, il bombardatore del Vietnam», e condannando «ogni collusione coi regimi militari e liberticidi dei colonnelli greci, del generale Franco, sacrificatore della nobile Falange di José Antonio Primo de Rivera, del regime ottusamente conservatore, classista e colonialista di Lisbona, di quelli razzisti del Sud Africa e della Rhodesia». In quegli anni la Federazione faceva uscire a Roma una serie di pubblicazioni -il quindicinale "Fnc-RSI notizie", il mensile "Corrispondenza repubblicana", il trimestrale "Azimut" e il foglio giovanile "Controcorrente"- di cui erano animatori Romolo Giuliana e P. F. Altomonte (sigla quasi pseudonima con la quale si firmava l'artista futurista Principio Federico Altomonte). Scoppiato il '68, sia la "Fnc-RSI" sia "Forza Uomo" sia "L'Orologio" si schierano naturalmente con la contestazione. "L'Orologio", anzi, appoggiò la protesta giovanile anche sul piano organizzativo, dando vita ai "Gruppi dell'Orologio" e fornendo sostanza culturale alla trasformazione in senso "rivoluzionario" di alcuni ambienti di matrice neofascista. E dopo la fine e la diaspora di quell'esperienza, il loro animatore, Luciano Lucci Chiarissi, fonderà l'associazione politico-culturale "Italia e Civiltà" che, nei primi anni '80, si farà promotrice di una serie di incontri pubblici sul nuovo "socialismo tricolore" attivato dalla svolta craxiana. Dentro o fuori il MSI, quindi, una certa tradizione non è mai morta. E quella che potremmo chiamare l'ultima incarnazione di un "sinistra" scaturita dall'universo neofascista, si esprimerà a metà degli anni '70 con presupposti e riferimenti inediti. Questa volta si trattava di un fenomeno più generazionale ed esistenziale che ideologico in senso stretto. A prenderne atto, nel gennaio 1979, fu Giorgio Galli su "Repubblica" parlando di «fascisti in camicia rossa». Figli degli anni '70, questi nipotini inconsapevoli di Berto Ricci e Nicolino Bombacci, rivelavano un percorso parallelo a quello che, sull'altro versante, andavano conducendo i coetanei della "nuova sinistra". E Galli ne metteva in luce alcuni «elementi diversi da quelli consueti» e, in particolare, l'aspirazione a sintonizzare ed aggregare «la protesta antisistema dei giovani, dei disoccupati, del sottoproletariato». Si trattava di un vasto fermento giovanile emerso in quegli anni e che si poteva cogliere attraverso pubblicazioni come "La Voce della Fogna" e "Linea", in cui comparivano argomenti e toni inediti per la precedente pubblicistica neofascista. Si introducevano temi nuovi, come l'attenzione ai diritti civili e alle tematiche ambientaliste. "Nucleare? Dieci volte no", si leggeva sul secondo numero di "Linea". E sempre sulle pagine di quella rivista apparivano la prima vera inchiesta sui "Verdi" tedeschi, l'apertura di un dibattito sulla liberalizzazione della droga, e pagine e pagine sui nuovi bisogni e sulla condizione giovanile. Emergeva, soprattutto, il quadro di un ambiente caratterizzato da una linea libertaria, garantista, antistatalista, ambientalista, antioccidentalista e, addirittura, con venature regionaliste e antiproibizioniste. «Sfondare a sinistra», era il titolo di un articolo di Marco Tarchi che, sul terzo numero di "Linea", lanciava in grande stile un'espressione destinata ad avere successo. Già nel '76, del resto, lo stesso Tarchi era stato autore di un documento del "Fronte della gioventù" toscano in cui, esaminando le cause della sconfitta elettorale, si invitava a «sfondare a sinistra»: molti elettori -era la tesi di Tarchi- avevano votato per il PCI non perché comunisti, «ma perché spinti da un'ansia di cambiamento, e disgustati dal modo di gestire la cosa pubblica instaurato dalla DC e dai suoi alleati». Questa componente giovanile troverà la sua identità soprattutto nell'esperienza dei Campi Hobbit. E paradossalmente, tra il 1976 e il 1982, individuerà il proprio referente all'interno del MSI in quel Pino Rauti che pure, nei decenni precedenti, era stato il campione dell'ala tradizionalista e di matrice evoliana del neofascismo. Come ha scritto lo storico Pasquale Serra, «nella seconda metà degli anni '70 Rauti rovescia lo schema del suo precedente ragionamento: da un lato, infatti, egli individua come fonte privilegiata il fascismo italiano (il fascismo della sintesi) e non più il nazismo o i fascismi "minori", come era invece avvenuto nei decenni precedenti, e dall'altro riporta il fascismo alle sue origini di sinistra». E questi orientamenti, sino agli anni '80, si esprimeranno anche in alcune esperienze di amministrazione locale, dove il MSI governerà insieme al PCI e al PSI. Così nel 1987, durante una tribuna politica, Giorgio Almirante fu messo in imbarazzo da un giornalista che gli chiedeva lumi su quanto avveniva a Furci Siculo, un centro del messinese dove il missino Carmelo Briguglio era il vicesindaco di una giunta rosso-nera. La sintesi e la summa di tutta questa tradizione -da "L'Universale" al "socialismo tricolore", dall'adunata di piazza San Sepolcro ai Campi Hobbit- potrebbe essere rappresentata dalla figura politica e umana di Beppe Niccolai: fascista di sinistra da sempre, deputato missino per tre legislature, intellettuale, giornalista, uomo politico e, soprattutto, "uomo di carattere" per dirla col suo maestro Berto Ricci. Nato a Pisa il 26 novembre 1920, combattente sul fronte africano, prigioniero di guerra nel "Fascists' Criminal Camp" di Hereford nel Texas. Appena tornato in Italia, il 27 settembre 1948, scrive una lettera-documento sulla lacerazione della sua generazione al suo vecchio amico Romano Bilenchi che in quegli anni, seguendo la strategia dell'attenzione togliattiana, si occupava sul "Nuovo Corriere" del dialogo con i fascisti. E l'amicizia tra Niccolai e Bilenchi durerà per tutta la vita. Da deputato missino, Niccolai non ebbe poi remore a elogiare il Vietnam vittorioso sull'imperialismo americano. Per molti anni stretto collaboratore di Giorgio Almirante, ne divenne il principale antagonista nei primi anni '80 quando ebbe il coraggio di «farsi del male» e di avviare una coraggiosa autocritica, che pretendeva da tutto il partito una riflessione altrettanto sincera. Niccolai sollecitava una rilettura degli errori compiuti nei confronti della contestazione giovanile, verso i nuovi fermenti culturali e, soprattutto, in tema di politica estera. «Beppe -ha ricordato Altero Matteoli- "scavava" nei personaggi che incontrava nella sua quotidiana lettura. E per ognuno esaltava la parte che lo aveva particolarmente colpito. Carlo Pisacane: lo affascinava la sua vicenda, la sua morte, il suo sacrificio. Nicolino Bombacci: Beppe era convinto che il fascismo, per il rivoluzionario romagnolo, fosse una rivoluzione da compiere. Berto Ricci: il carattere, il coraggio civile. E infine Italo Balbo: la morte ha colpito Beppe mentre "scavava" nella vita, nell'azione e nel pensiero del grande ferrarese». All'inizio degli anni '80, Niccolai trasforma Berto Ricci in una vera e propria "bandiera": e lo fa nel momento stesso in cui il MSI comincia a stargli sempre più stretto e l'esigenza di un rinnovamento lo porta a cercare, nel passato, un riferimento dalla grande capacità fascinatrice. E in questo percorso non può che incontrarsi, naturalmente, con alcuni giovani della generazione dei "fascisti in camicia rossa". Nel 1984 -e quella fu l'unica opposizione alla leadership almirantiana al quattordicesimo Congresso missino svoltosi a Roma- presenterà il documento "Segnali di vita", che verrà sottoscritto entusiasticamente dalle componenti giovanili e creative del partito. Nel 1985, in occasione della crisi di Sigonella, Niccolai fece approvare dal Comitato centrale del MSI un ordine del giorno di sostegno a Craxi, in nome dello "scatto" di orgoglio nazionale. D'altra parte, come spiegò dopo la sua morte lo stesso Tatarella in una riunione del Comitato centrale missino, Niccolai voleva fare del MSI una sorta di «laburismo nazionale»: era, insomma, un autentico uomo di sinistra e, in prospettiva, sognava una convergenza strategica tra il MSI e la sinistra italiana. Una posizione minoritaria, quella di Niccolai: quasi eretica, fortemente combattuta, ma in grado di pensare una politica capace di cogliere le onde lunghe della storia italiana. Nel 1987, resta memorabile il suo discorso al Congresso di Sorrento. Con cui, in nome di Nicolino Bombacci, invitava alla ricomposizione delle "scissioni socialiste". In quegli anni con la sua rivista "L'Eco della Versilia", sarà il punto di riferimento più forte per il dissenso interno e i tentativi di dialogo con l'esterno. E quando morirà a Pisa, il 31 ottobre del 1989, lascerà il testimone al suo collaboratore viareggino Antonio Carli. "L'Eco" cambierà nome trasformandosi in "Tabula Rasa". E intorno alla rivista si raccolgono Gianni Benvenuti e Pietrangelo Buttafuoco, Umberto Croppi e Beniamino Donnici, Vito Errico e Fabio Granata, Luciano Lanna e Peppe Nanni... Sono l'ultima covata di una vecchia tradizione. Che a tratti si profila con la forza di mito. E a tratti, invece, con l'instabilità di un'illusione ottica. Ma che ha avuto il pregio di non rimanere mai ristretta all'interno di un partito, e men che meno di una corrente. Sprigionando energie e intuizioni che hanno comunque influito sui percorsi politici e culturali di tutto il postfascismo. Luciano Lanna e Filippo Rossi da "Fascisti immaginari".

Benito l’italiano. Il compagno ateo Mussolini raccontato in un’urticante biografia, scrive il 10 Novembre 2013 Nicholas Farrell - Giancarlo Mazzucca su “Il Tempo”. Ateo alla Eugenio Scalfari. Antipartito alla Beppe Grillo. E finanziato (come lo furono gli antifascisti) dai servizi di Sua Maestà. Ecco chi era “Il Compagno Mussolini”. Il 18 marzo 1904, a Ginevra, Benito Mussolini tenne una conferenza per commemorare la Comune di Parigi. Secondo Renzo De Felice, il più noto biografo di Mussolini, è stata, questa, l’unica occasione in cui il Duce vide Vladimir Ilic Uljanov Lenin, anche lui presente al convegno. Ma Mussolini potrebbe avere incontrato l’esiliato russo anche a Berna, l’anno prima: era solito, infatti, pranzare alla mensa Spysi, dove anche Lenin e Trotsky mangiavano con regolarità. Dopo la Marcia su Roma, il Capo del Cremlino aveva rimproverato una delegazione di comunisti italiani (c’era anche il romagnolo Nicola Bombacci): «Mussolini era l’unico tra voi con la mente e il temperamento adatti a fare una rivoluzione. Perché avete permesso che se ne andasse?». La sera del 26 marzo, alla Maison du Peuple di Losanna, Mussolini tenne un contradditorio con Alfredo Tagliatatela (un pastore evangelista di Roma) sull’esistenza di Dio davanti a 500 persone. Fu proprio in quel dibattito che egli prese un orologio, dando a Dio dieci minuti di tempo perché lo fulminasse. Di seguito venne stampato a ricordo della serata e in poche centinaia di copie un opuscolo dal titolo L’Uomo e la Divinità. Nel testo del discorso, documento ormai quasi introvabile, Mussolini aveva sottolineato: «Quando noi affermiamo che “Dio non esiste” intendiamo, con questa proposizione di negare l’esistenza del dio personale della teologia; del dio adorato – sotto vari aspetti e con modi diversi – dai devoti di tutto il mondo; del dio che dal nulla ha creato l’universo, dal caos, la materia, del dio degli assurdi e delle ripugnanze alla Ragione umana. […] Noi pensiamo che l’Universo, lungi dall’essere opera del dio teologico e clericale – non è che la manifestazione della materia, unica, eterna, indistruttibile, che non ha avuto mai principio, che non avrà mai fine». «La vita, dunque, la vita, nel suo significato universale, non è che una combustione perenne d’energie eternamente nuove […]. Ma ciò che più ripugna alla Ragione umana è il fatto inconcepibile della potenza creatrice del dio che dal “nulla” crea il tutto, dal caos l’Universo. […] L’ipotesi di una creazione dal nulla rappresenta l’infanzia del pensiero filosofico ed è in assoluta opposizione con tutte le leggi della chimica e della fisica […]. La Religione è una malattia? Molti eminenti scienziati hanno sostenuto e sostengono che la Religione è una illusione, un fenomeno morbido del genere delle nevrosi e dell’isterismo. Certo che la religione è una malattia psichica, del cervello: è una contrazione e una coartazione dell’individuo il quale, se profondamente religioso, si presenta a noi come un anormale […]. Se l’epidemia religiosa non si manifesta in tutti con forme patologiche la causa deve ricercarsi nel fatto che non tutti hanno allo stesso grado d’intensità il sentimento religioso e non tutti ne fanno la preoccupazione costante della loro vita. Ma la malattia è allo stato latente e può dare, sotto speciali circostanze, quelle crisi di cui è piena la storia. Riassumendo diremo che l’“uomo religioso” è un anormale e che la “Religione” è causa certa di alcune “malattie epidemiche dello spirito” per le quali è necessaria la cura degli alienisti». Fu dopo Caporetto che Mussolini ricevette anche il denaro inglese, proveniente da Sir Samuel Hoare, per sostenere il suo giornale. Il Tenente-Colonnello Hoare, più tardi Viscount Templewood, era arrivato in Italia nell’estate del 1917 come comandante della British Military Mission, ovvero l’agenzia dei servizi segreti inglesi. All’epoca, il titolo abbreviato dei servizi segreti britannici era “MI5”, cioè: non c’era la distinzione successiva fra MI5 (spionaggio domestico) e MI6 (spionaggio agli esteri). La sede della British Military Mission in Italia era a Roma in Via delle Quattro Fontane ma aveva uffici anche a Milano, Genova e Torino. In tutto, aveva un organico di 65 persone (compresi i segretari) e in Italia rimase dal gennaio 1917 all’agosto 1919, quando la Mission fu chiusa. L’archivio privato di Hoare (1880-1959) venne donato dalla sua famiglia al Manuscripts Department della biblioteca dell’università di Cambridge nel 1960 e contiene centinaia di documenti ufficiali “top secret” riguardo al suo soggiorno in Italia. Hoare non doveva tenere questi documenti nel suo archivio personale ma restituirli al War Office (Ministro di guerra). Nonostante ciò quei documenti erano coperti lo stesso, fino a tempi recenti, dal segreto di Stato e perciò non disponibili ai ricercatori. Gran parte degli archivi dei servizi segreti britannici prima degli anni Venti sono stati distrutti, o persi. Quindi, i documenti nell’archivio di Hoare, relativi agli anni in cui era una spia, sono molto preziosi e per quanto ci risulta, quelli sul periodo del suo servizio in Italia negli ultimi 18 mesi della Prima Guerra Mondiale sono rimasti finora inediti. Il ruolo della British Military Mission in Italia fu principalmente di minare i tentativi crescenti per l’abbandono della guerra da parte dell’alleato italiano in quel momento così critico del conflitto quando la sconfitta dei poteri democratici e la vittoria di quelli imperiali sembravano davvero essere alle porte – e anche allo stesso tempo chiaramente di sostenere qualunque forza politica in Italia voleva invece continuare a combattere i tedeschi e gli austriaci. Ormai aperti agli studiosi, i documenti relativi alle sue attività da capo-spia in Italia nell’archivio di Hoare a Cambridge ci forniscono con un ritratto affascinante l’Italia tra il 1917 e il 1918 e lo stato d’animo del popolo italiano. Già, nei mesi prima del disastro di Caporetto, c’erano stati dei tentativi «molti gravi» in Italia, scrive Hoare al suo capo a Londra Maggiore-Generale Sir George MacDonogh, il Director of Military Intelligence presso il War Office. Tentativi pilotati da tre forze formidabili– «finanziaria, socialista e clericale» – il cui scopo era di costringere l’Italia a fare la pace con il nemico. Secondo Hoare, in una nota a Londra in data 7 ottobre 1917, «senza dubbio» questo movimento era diretto da «personalità del Vaticano» e delle banche del Vaticano come la Banca Ambrosiana ma anche di quelle sotto controllo tedesco come la Banca Commerciale Italiana. In un’altra nota il capo-spia inglese liquidò con disprezzo Eugenio Pacelli, il nunzio papale a Monaco, come «un filo-tedesco convinto». Così, dal gennaio del 1918, i servizi segreti inglesi cominciarono a dare un sostegno finanziario regolare a Il Popolo d’Italia di Mussolini. Cinquanta sterline al mese possono sembrare a noi, al giorno d’oggi, pochissime ma c’è da ricordare il tasso di cambio fra la lira italiana e la sterlina britannica nel 1918: 30,30 lire alla sterlina (sarebbe salito a 90 lire nel 1922, e 144 lire nel 1926). Quindi, cinquanta sterline nel 1918 erano 1.515 lire – al mese. Lo stipendio mensile di Mussolini quando faceva il maestro era di 65 lire, mentre da direttore de La Lotta di Classe di 120 lire, dell’Avanti! di 500 lire. Nel 1900 si cantava “Mamma mia dammi cento lire” (i soldi necessari per andare a cercare la fortuna in America). Nel 1938 si canterà “Se potessi avere mille lire al mese”. Il motivo principale dei finanziamenti inglesi agli interventisti in generale nel 1918 e al giornale di Mussolini in particolare era semplice (come lo era anche per i finanziamenti francesi agli stessi gruppi): di tenere l’Italia al loro fianco, e a quello dei francesi, sul campo di battaglia contro il Male. Mussolini non aveva più fatto parte di alcun partito politico da quando era stato espulso dal Partito Socialista nel 1914. Il 9 marzo 1919, su Il Popolo d’Italia, annunciò la decisione di fondare, il successivo 23 marzo, un «antipartito», ovvero un movimento, i «Fasci italiani di Combattimento». Un movimento aveva una forza di attrazione più ampia di un partito. Era più spontaneo – più simile a una folla – più versatile e meno propenso a diventare corrotto e impotente come tutti i partiti esistenti in Italia. La riunione del 23 marzo, inizialmente destinata a svolgersi al Teatro Dal Verme, in Via San Giovanni sul Muro, si tenne invece, considerando la partecipazione al di sotto delle aspettative, nella sala riunioni del Circolo dell’Alleanza Industriale in Piazza San Sepolcro. All’epoca a malapena notata dalla stampa, la riunione di San Sepolcro assunse in seguito fama leggendaria. Lo scopo dell’incontro era quello di riunire tutti i gruppi rivoluzionari fautori della guerra in una sola organizzazione. Molti di questi gruppi già si autodefinivano «fasci». Tra le oltre 120 persone presenti c’erano futuristi (compreso Marinetti), sindacalisti rivoluzionari, ex soldati, un certo numero di nazionalisti e anche repubblicani – esponenti del partito guidato da Pietro Nenni, il vecchio amico e avversario faentino di Mussolini. C’era anche il veronese Aldo Finzi, uno dei sette piloti che avevano partecipato al mitico volo su Vienna di D’Annunzio nell’agosto 1918, che era ebreo non praticante. Inizialmente, Finzi fu un fascista incallito ed ebbe anche incarichi importanti nei primi governi fascisti negli anni Venti. Dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti nel 1924 la sua stella precipitò: non a causa del suo essere ebreo, ma a causa del suo squadrismo a oltranza. Rimase fascista fino alla sua espulsione dal partito nel 1942 e poi, dopo la caduta di Mussolini nel 1943, collaborò con i partigiani. Venne arrestato a Roma dove viveva e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il 24 marzo 1944 fu tra i 335 italiani (di cui 75 ebrei) fucilati dai nazisti a Roma nella strage delle Fosse Ardeatine. Il fascismo, c’è da dire, non fu per niente antisemita fino alla sua alleanza fatale con il nazismo nella seconda metà degli anni Trenta. Anzi. Tantissimi dei 50 mila italiani ebrei, come Finzi, come la Sarfatti, furono fascisti appassionati – fino alle leggi razziali del 1938. Quei fascisti della prima ora presenti all’adunata del 23 marzo provenivano da ogni classe, anche dalla nobiltà. Non è possibile dire per certo e con precisione quante persone vi fossero. Una volta che i fascisti ebbero preso il potere, il numero di coloro che affermavano di essere stati presenti quel giorno ammontava a varie centinaia. Nella sua autobiografia del 1928, Mussolini disse che c’erano 54 partecipanti; la Sarfatti, in Dux del 1926, sostiene, invece, 145. Era presente anche lei quel giorno e avrebbe affermato: «Centoquarantacinque persone riunite in una mediocre sala presa in affitto […] in un palazzo fuori mano della vecchia Milano, nella malinconica piazza del Santo Sepolcro: simbolico nome di catacomba. Tra quel centinaio di brava gente, i nomi più noti non arrivavano ai dieci».

QUELLA GUERRA CHE IL DUCE NON AVREBBE MAI VOLUTO COMBATTERE. Scrive il 22/08/2013 “Dietro le Quinte”. Un anno prima della presa del potere da parte di Hitler in Germania, Mussolini svela, nel discorso tenuto a Torino, le insidie che si celano dietro le clausole del trattato di pace che aveva chiuso la I Guerra Mondiale: dichiara la necessità che alla Germania venga permesso di riportarsi alla pari, sotto ogni punto di vista, con le altre nazioni d’Europa e sostiene l’obbligo da parte degli stati europei di favorire e sostenere tale processo, pena la fuoriuscita dello stato tedesco dalla Società delle Nazioni e lo sviluppo di nuove pericolose tensioni. Il Duce mette quindi in guardia da ciò che si sarebbe poi puntualmente e drammaticamente verificato. Si dice sempre che Mussolini fu co-responsabile dello scoppio della II Guerra Mondiale, ma se la Società delle Nazioni avesse fatta propria la politica dell’Italia fascista probabilmente si sarebbe potuto evitare sia l’ascesa del nazismo, sia il nuovo orribile bagno di sangue. Ma la domanda è: le demo-plutocrazie alleate volevano davvero evitare la guerra? Oppure le conseguenze del primo conflitto mondiale avevano portato a dei risvolti storici da esse non previsti, come la nascita di un sistema, quello fascista, che, essendo per loro potenzialmente letale, doveva essere distrutto ad ogni costo e quindi anche al prezzo di una nuova e tragica strage? Non sarebbe quindi un caso l’atteggiamento strumentalmente ostile tenuto da Inghilterra e Francia nei confronti dell’Italia in occasione dell’invasione dell’Etiopia. Operando in questo modo esse spinsero Mussolini tra le braccia di Hitler e il Duce, resosi conto dell’incompatibilità tra il sistema fascista e quello liberale tipico delle altre potenze occidentali, accettò un’alleanza forzata con chi, apparentemente, dichiarava la propria avversione nei confronti di un sistema che già evolveva verso forme capitalistiche moderne. L’epilogo è noto, ma il successo più clamoroso delle demo-plutocrazie occidentali sarà quello ottenuto grazie alla mistificazione storica, con l’attribuzione all’Italia fascista di una buona porzione di responsabilità nello lo scoppio del conflitto. Risultato? Il fascismo, dai più ora considerato come il “male assoluto” ma che in realtà rappresenta l’unico e vero sistema realmente alternativo al capitalismo, è stato messo in condizioni di non nuocere, almeno fino a quando la realtà storica rimarrà forzatamente nascosta…

10 GIUGNO 1940. PERCHÉ L’ITALIA ANDÒ IN GUERRA, scrive Michele Rallo. Le ragioni che spinsero Mussolini a dichiarare guerra a Francia e Gran Bretagna hanno poco a che vedere con una presunta ideologia bellicista, con l’ansia di fare bottino prima che fosse troppo tardi o con un patto di alleanza che di “acciaio” aveva solo il nome. Oltre la retorica di allora e di quella che ci accompagna da decenni in un infinito dopoguerra, mettendo semplicemente in fila i fatti si scopre che a spingere il dittatore italiano alle “decisioni irrevocabili” fu un sentimento poco considerato dagli storici: la paura. La paura del suo più importante – e ingombrante – alleato…10 giugno 1940: alle 6 del pomeriggio, dal balcone di Palazzo Venezia, Benito Mussolini annunziava a Roma e al mondo che l’Italia aveva già consegnato la dichiarazione di guerra agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Il conflitto che dal settembre 1939 vedeva opposti, dopo l’occupazione nazista della Polonia, i tedeschi a francesi e inglesi si allargava. Ma come si era giunti a questo passo? Davvero – come sostiene la storiografia di scuola anglosassone – il Duce dell’Italia fascista aveva voluto accomunare i destini del suo paese a quelli della Germania hitleriana per solidarietà ideologica e per spirito avventuristico? La risposta è no, e basta seguire gli avvenimenti dei tredici mesi precedenti per averne una conferma assolutamente incontestabile. Assumiamo, dunque, come punto di partenza il maggio 1939, quando Germania e Italia stipularono il Patto d’Acciaio. Cosa stabiliva quel patto? Due cose, in primo luogo: l’obbligo di consultazioni reciproche per ogni decisione riguardante le scelte di fondo delle rispettive politiche diplomatiche (articoli 1 e 2); e l’obbligo di schierarsi militarmente al fianco del socio che fosse coinvolto in “complicazioni belliche” (articolo 3). Orbene, queste condizioni – come vedremo – saranno disattese, nel giro di pochi mesi, da entrambi i contraenti; sicché, al momento della dichiarazione di guerra italiana, il Patto d’Acciaio era sostanzialmente decaduto, ed entrambi i soci – se lo avessero ritenuto opportuno – avrebbero potuto denunciarlo; e l’Italia con più buon diritto della Germania. Era stato il Terzo Reich, infatti, a violare per primo il Patto d’Acciaio, stipulando – il 23 agosto 1939 – un “trattato di non aggressione” con l’Unione Sovietica, trattato che in realtà era un’autentica seppur ufficiosa alleanza politica e militare. Ora, l’intesa con il governo russo era stata raggiunta da Hitler e dal suo ministro degli Esteri von Ribbentrop senza alcuna preventiva consultazione con il governo italiano; anzi, contro il parere del governo italiano. E l’intesa prevedeva – in un protocollo addizionale segreto – la spartizione fra i due soci non soltanto della Polonia, ma dell’intera Europa Orientale; con scarsa attenzione, tra l’altro, per le esigenze dell’Italia, che nell’Est europeo aveva notevoli e consolidati interessi. Peraltro, l’indicazione di una precisa linea di confine tra le “sfere d’influenza” tedesca e sovietica in Polonia (fissata in un primo tempo al corso della Vistola) comportava necessariamente una aggressione militare congiunta per raggiungere – da ovest e da est – la frontiera pattuita. L’attacco tedesco alla Polonia (come anche quello sovietico, di alcuni giorni successivo) era, dunque, la conseguenza logica e inevitabile del cosiddetto Patto Ribbentrop-Molotov; ed anche questa mossa era stata effettuata da Berlino contro il parere e gli interessi di Roma, nettamente avversa ad ogni ipotesi del genere. Mussolini aveva ben compreso, già prima della stipula del trattato russo-tedesco, che Hitler si preparava a muovere guerra alla Polonia, e non aveva nascosto la sua completa avversione. «Il duce – leggiamo sul Diario di Ciano alla data del 9 agosto ’39 –tiene molto a che io provi ai tedeschi, documenti alla mano, che lo scatenare una guerra adesso sarebbe una follia.»Pensiero ribadito il giorno seguente («bisogna evitare il conflitto con la Polonia, poiché è ormai impossibile localizzarlo e una guerra generale sarebbe per tutti disastrosa») e accompagnato dall’auspicio di una seconda Monaco («negoziati internazionali per risolvere le questioni che turbano tanto pericolosamente la vita europea»). Ma Hitler, oramai, aveva decisamente imboccato la strada dell’alleanza con l’URSS. La violazione del Patto d’Acciaio (e dell’Antikomintern) era palese, e l’Italia avrebbe potuto anche denunziare l’alleanza. Perché Mussolini non lo fece? Perché un passo del genere, proprio all’indomani dell’inizio della guerra, sarebbe stato interpretato come una sostanziale adesione alla linea inglese. E il Duce non voleva, per vari motivi, che si pensasse questo. Voleva – sì – stigmatizzare il comportamento tedesco e prenderne le distanze, ma senza che ciò comportasse il passaggio nel campo avverso. Peraltro, la diplomazia fascista non aveva puntato mai ad una politica di blocchi ideologici contrapposti, ma l’aveva piuttosto subita. Mussolini tendeva – ancora nel settembre del 1939 – ad un direttorio europeo delle quattro “grandi potenze” (Inghilterra, Francia, Germania e Italia, con esclusione della Russia) così come aveva sostenuto già nel 1933 col famoso Patto a Quattro (poi naufragato perché Londra e Parigi non avevano dato sèguito alla cosa) fino al Trattato di Monaco del 1938 (intervenuto appunto fra le quattro potenze). Era la sola linea che avrebbe potuto garantire all’Italia la definitiva equiparazione con le principali protagoniste della scena europea, ma né l’Inghilterra né la Francia erano disponibili per una tale politica: avversavano, infatti, oltre che le aspirazioni tedesche a “riparare i torti” sanciti a Versailles all’indomani della fine della Prima guerra mondiale, anche le tradizionali ambizioni italiane, che con le loro configgevano sia in Mitteleuropa che nel Mediterraneo. Unica concessione alle attese mussoliniane era stata, nel settembre 1938, la ricordata adesione alla mediazione di Monaco. Per il resto, Londra e Parigi avevano prodotto soltanto una lunga sequela di ostacoli all’azione diplomatica di Roma: dal ricordato sabotaggio del Patto a Quattro al rifiuto di sostenere la difesa (solo italiana) dell’indipendenza austriaca all’epoca dell’uccisione del cancelliere Dollfuss ad opera dei nazisti di Vienna (1934), all’ipocrita campagna sanzionistica contro la creazione dell’impero coloniale italiano in Africa (1935-1936), all’altrettanto ipocrita levata di scudi per l’annessione dell’Albania (1939). Il risultato inevitabile della politica anglo-francese era stato il progressivo avvicinamento dell’Italia alla Germania, che – fra l’altro – si era schierata decisamente contro le sanzioni antitaliane. Tuttavia, oltre alla coerenza, v’era anche un altro motivo che induceva Mussolini a non rompere definitivamente con Hitler; un motivo che – in una situazione del tutto diversa – ritroveremo pure, il 10 giugno 1940, alla base della decisione di entrare in guerra. Questo motivo era la prudenza; o, se si preferisce, il timore, la paura nei confronti del potente alleato. Il Duce non si fidava del Führer, cui rimproverava non soltanto l’alleanza con la Russia comunista contro la Polonia nazionalista, ma anche altre cose: l’aver vanificato l’accordo di Monaco con la proclamazione del Protettorato di Boemia e Moravia; e, prima ancora, i ripetuti attacchi all’indipendenza dell’Austria filoitaliana in nome del pangermanesimo, l’uccisione di Dollfuss e, da ultimo, quell’indesideratissimo Anschluss che, nel 1938, l’Italia era stata costretta ad accettare come una assai amara medicina. In effetti, in tutta la Mitteleuropa e nei Balcani – tradizionali obiettivi delle aspirazioni egemoniche della politica italiana – Berlino agiva sempre più come concorrente diretta di Roma, senza alcuno scrupolo “cameratesco” e senza tener conto di una “solidarietà ideologica” alquanto aleatoria. E chi garantiva – era il timore del Duce – che Hitler tenesse fede all’impegno (più volte ribadito) di rinunziare ad ogni rivendicazione territoriale nei confronti dell’Italia? Analogo impegno aveva assunto verso la Cecoslovacchia all’epoca della Conferenza di Monaco; e tutti avevano visto come era andata a finire. Fino a quel momento il dittatore tedesco non aveva dato alcun peso ai mugugni di alcuni circoli pangermanisti che rivendicavano il Sudtirolo/Altoadige e, addirittura, il Lombardo-Veneto ex asburgico; e certamente non avrebbe mutato parere nei confronti di una Italia amica [ancora il 17 febbraio 1945 Hitler manifestava nei suoi discorsi privati la sua amicizia per l’Italia e Mussolini NdR]. Ma, se Roma avesse dato l’impressione di volersi sganciare totalmente dall’asse con Berlino, Hitler sarebbe stato certo più permeabile alle pressioni dei pangermanisti radicali e di quanti altri accusavano l’Italia di prepararsi a ripetere il “tradimento” della Grande Guerra. Tutto considerato, quindi, l’interesse nazionale non consigliava né l’intervento in guerra, né lo sganciamento dalla Germania; richiedeva, invece, una scelta di neutralità, temperata quel tanto che bastasse ad indicare che l’Italia non era equidistante fra tedeschi ed anglo-francesi. Mussolini coniò, allora, la formula della “non belligeranza”, che stava ad indicare la non partecipazione al conflitto pur nel rispetto formale delle alleanze in vigore. Certo, era una soluzione “all’italiana”, un compromesso fra tendenze ed esigenze diverse, talora inconciliabili. Ma, a ben guardare, neanche gli altri mostravano di avere le idee molto chiare su quello strano conflitto “regionale” che assomigliava tanto all’anticamera di una nuova guerra mondiale. E che le idee non fossero chiare per nessuno, era dimostrato dai comportamenti assai strani dei contendenti, soprattutto per quanto atteneva al teatro occidentale. Il 3 settembre 1939 la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania, ma guardandosi bene dal mandare un solo uomo a difendere le linee polacche. Parigi seguiva Londra nel conflitto, ma assai malvolentieri e dopo avere sollecitato una mediazione italiana che però si era trovata di fronte all’intransigente veto dell’Inghilterra. Mentre l’opinione pubblica francese si mostrava del tutto ostile a «mourir pour Dantzig» (“Morire per Danzica”, cioè per la città libera del Baltico oggetto delle rivendicazioni tedesche) le truppe di Parigi accennavano appena a disturbare i tedeschi nella Saar, per ritirarsi subito dopo dietro la linea fortificata Maginot ad ascoltare musica ed a giocare a calcio. I tedeschi, dal canto loro, avanzavano come un rullo compressore in Polonia, ma – sul fronte occidentale – si limitavano ad osservare i francesi dalle torrette della Linea Sigfrido. I russi – infine – mentre si preparavano a loro volta ad aggredire la Polonia da est (cosa che avverrà il 17 settembre), spedivano circolari a tutti i partiti dell’Internazionale Comunista (compresi l’inglese ed il francese) per sollecitare il sostegno alla causa tedesca. Era l’inizio della «drôle de guerre», come la chiamavano i francesi: una guerra che veniva definita “strana”, “buffa”, la “guerra noiosa” degli inglesi, la “guerra seduta” dei tedeschi, o addirittura – come taluno diceva in Italia – la “guerra finta”. Ad est, però, la guerra era tutt’altro che finta: la Polonia (spinta dall’Inghilterra ad una intransigenza totale che era stata la causa prima dell’attacco tedesco) era adesso abbandonata al suo destino. Londra non muoveva un dito per difendere Varsavia dai tedeschi, né tampoco dai russi, che non avranno neanche il fastidio di una dichiarazione di guerra anglo-francese per un comportamento del tutto analogo a quello germanico. Stalin, peraltro, si accingeva a porre all’incasso le cambiali del Patto Ribbentrop-Molotov; cambiali già sottoscritte da Hitler (Lettonia, Estonia, Finlandia, Bessarabia rumena), ed altre che il dittatore georgiano avrebbe voluto estorcere e che riguardavano la Lituania [che poi otterrà NdR], la Bulgaria, una ulteriore fetta di Romania e, addirittura, uno spicchio di Balcani ed uno sbocco sull’Egeo. Naturalmente, tutto l’Est europeo era in fermento: che fra Russia e Germania fosse intervenuto un accordo per la spartizione dell’Europa Orientale, lo si sapeva. I dettagli dell’accordo, invece, non erano noti; la qualcosa faceva lievitare i timori di tutti per una possibile inclusione nella sfera sovietica. Gli Stati baltici erano in un certo qual modo rassegnati, ma gli altri – i danubiani, i balcanici e finanche la Turchia – cominciavano a guardare all’Italia come alla potenza che avrebbe potuto guidare una alleanza di tutti gli Stati europei neutrali che intendevano restar tali (Spagna compresa e i Balcani). Nasceva, così, il progetto di un Blocco dei Neutrali a guida italiana, progetto naturalmente graditissimo a Mussolini, che si vedeva consegnata su un piatto d’argento la rappresentanza politica di quell’area che – da sempre – era in cima alle attenzioni e alle ambizioni della diplomazia italiana. Anche Hitler, in un primo tempo, si mostrò d’accordo; salvo, poi, fare precipitosamente marcia indietro in novembre, quando si rese conto che la leadership del Blocco avrebbe significato, per l’Italia, l’egemonia su un territorio che la Germania voleva invece acquisire alla propria sfera d’influenza. Il progetto del Blocco dei Neutrali veniva così archiviato rapidamente e Mussolini costretto a fare buon viso a cattivo gioco. Ma, nei fatti, il Duce continuerà a disegnare strategie, alleanze, mediazioni e talora (come nel caso della Croazia jugoslava) anche congiure che coinvolgevano un po’ tutti gli Stati balcanici e danubiani. L’affare del Blocco dei Neutrali, comunque, portava allo scoperto il primo motivo di contrasto fra Italia e Germania: l’egemonia sulla regione centro-orientale e del sud-est europeo. Il secondo motivo di dissenso – anche questo esploso nel novembre 1939 – era relativo agli “optanti” altoatesini ed ai timori di un Anschluss sudtirolese. Ne abbiamo già parlato in una precedente occasione [vedi la “lettera al direttore” pubblicata in coda al presente articolo] e rimandiamo quindi i lettori a quelle pagine. Terzo oggetto di contesa era l’aggressione sovietica alla Finlandia, scattata il 30 novembre 1939. L’Italia prese risolutamente le parti di Helsinki, inviando ai finnici anche armi ed aerei, oltre ad una pattuglia di “volontari”. La Germania, invece, sia pure masticando amaro, si tenne dalla parte dei russi. I due contraenti del Patto d’Acciaio, così, lungi dall’armonizzare le loro politiche diplomatiche, venivano a trovarsi schierati su vari fronti opposti. Il trimestre novembre 1939 - gennaio 1940 doveva registrare l’apice del contrasto italo-tedesco, come apparve evidente anche da un torrenziale discorso di Ciano alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni (16 dicembre 1939); discorso che, oltre a stigmatizzare l’intransigenza inglese responsabile di infiniti guasti, elencava puntigliosamente (sia pure con prudentissimo linguaggio diplomatico) tutte le inadempienze tedesche alle clausole del Patto d’Acciaio, che – ricordava il ministro italiano – era stato concepito con una valenza difensiva e non offensiva. [Ed è in questo clima che matura il progetto e partono i lavori per il “Vallo Littorio” voluto da Mussolini lungo l’arco alpino, specie nel tratto di confine col Terzo Reich. Di questo curioso aspetto dei rapporti italo-tedeschi di quegli anni ci siamo occupati nel n. 54, NdR] La situazione muta ai primi del febbraio 1940, quando la diplomazia britannica tentò di forzare la situazione, pretendendo che Roma acconsentisse a vendere a Londra armi e munizioni, venendo così meno agli obblighi della neutralità. Alla risposta negativa da parte italiana, l’ambasciatore inglese preannunziava le rituali, signorili, rappresaglie economiche: la flotta britannica avrebbe bloccato e confiscato le navi che trasportavano in Italia il carbone (all’epoca vitale per l’economia di un Paese industrializzato). I primi arrembaggi sono del 5 marzo: una mossa arrogante e miope, buona solo a far risalire le azioni tedesche sulla piazza di Roma. Lo stesso Ciano – anglofilo di provata fede – commentò che quelle iniziative servivano a «spingere l’Italia nelle braccia della Germania». Il Duce era furioso, e reso un po’ meno ostile a Hitler rispetto a qualche settimana prima. Era l’inizio della “crisi del carbone”, che sarà determinante nell’indurre Mussolini a prendere in considerazione – dapprima solo teoricamente – una sorta di guerra di liberazione contro il dominio inglese nel Mediterraneo; non ancora l’adesione alla guerra tedesca, ma una “guerra parallela” a quella ingaggiata dalla Germania per “liberare” il Continente dall’egemonia britannica. I contorni di questo ipotetico conflitto andavano pian piano delineandosi: il Duce iniziava a concepire una guerra italiana, parallela ma ben distinta rispetto alla tedesca; una guerra che nulla avesse da spartire con l’attacco alla Polonia e con l’alleanza nazi-comunista; una guerra diretta soltanto o quasi esclusivamente contro l’Inghilterra, ignorando praticamente la Francia; una guerra breve, dai costi contenuti, soltanto navale, sfruttando la potenza della nostra flotta (che era stata notevolmente rafforzata e resa più forte della flotta inglese nel Mediterraneo) ed evitando accuratamente di lasciarsi impegnare sul fronte terrestre (dove invece le forze italiane erano notevolmente inferiori a quelle degli Alleati a causa di cinque anni di usura di materiali e magazzini in Abissinia e Spagna). Intanto, il 10 marzo 1940, Mussolini è invitato da Hitler ad un incontro diretto da tenersi al Brennero. Il dittatore italiano, perplesso, accettò: comprendeva che il tedesco avrebbe spinto per un rapido intervento in guerra dell’Italia, ma non sembrava preoccupato. Malgrado la rabbia per l’affronto britannico, infatti, Mussolini era deciso ad entrare in guerra solo quando – e se – i tedeschi fossero riusciti a mettere gli inglesi con le spalle al muro. Quanto allo scontro fra Germania e Francia, l’unica preoccupazione del Duce era di restarne fuori. Anzi – come vedremo – la sua speranza era che la “Sorella latina” riuscisse ad infliggere una salutare lezione all’arroganza germanica. E, anche per la guerra “parallela” contro Londra, Mussolini non intendeva sottostare ai desiderata hitleriani. Illuminante è questa annotazione di Ciano sul Diario del 16 marzo, alla vigilia della partenza per il Brennero: «Oggi il Duce è più calmo. Intende confermare alla Germania la sua solidarietà potenziale, ma non intende entrare, almeno per ora, in guerra. Ha detto: “Farò come Bertoldo. Accettò la condanna a morte a condizione di scegliere l’albero adatto per esservi impiccato. Inutile dire che quell’albero non lo trovò mai. Io accetterò di entrare in guerra, riservandomi la scelta del momento propizio. Io solo intendo esserne giudice, e molto dipenderà dall’andamento della guerra”.» Ovvio che – con queste premesse – il convegno del Brennero non possa avere il valore di grande “svolta” che, oggi, molti storici ancora gli attribuiscono. Non è stato l’incontro con Hitler a segnare un riavvicinamento dell’Italia alla Germania ma era stata la “crisi del carbone” a segnare un ulteriore allontanamento dell’Italia dall’Inghilterra. L’unica vera novità del vertice al Brennero fu una analisi più dettagliata del progetto di guerra parallela nel Mediterraneo, analisi prospettata da Mussolini a Hitler e, al ritorno a Roma, a Vittorio Emanuele III. Al Sovrano, infatti, il Duce indirizzò – a fine marzo – un memorandum segreto, che faceva il punto della situazione all’indomani del convegno del Brennero. Su questo documento vale la pena di soffermarsi brevemente, perché fotografa quello che era il pensiero del Capo del Governo italiano fino alla vigilia dell’invasione tedesca della Scandinavia e, con qualche aggiustamento, fino alla vigilia della blitzkrieg contro la Francia. Premessa dell’analisi mussoliniana era la constatazione che l’ipotesi di una pace di compromesso si allontanava, mentre sembrava crescere la prospettiva di un prolungamento della guerra (che all’epoca non aveva ancora investito il teatro occidentale). In questa seconda ipotesi, l’Italia avrebbe fatalmente finito per essere coinvolta; e, naturalmente, dalla parte della Germania. Non solo, infatti, non sarebbe stato onorevole tradire i patti d’alleanza, ma era proprio grazie a tali patti che l’Italia poteva – per un periodo che si sperava il più lungo possibile – mantenere la propria sostanziale neutralità. «Esclusa l’ipotesi del voltafaccia – scriveva Mussolini – rimane l’altra ipotesi, cioè la guerra parallela a quella della Germania, per raggiungere i nostri obiettivi che si compendiano in questa affermazione: libertà sui mari, finestra sull’oceano. L’Italia non sarà veramente una nazione indipendente sino a quando avrà a sbarre della sua prigione mediterranea la Corsica, Biserta, Malta e, a mura della stessa prigione, Gibilterra e Suez. Risolto il problema delle frontiere terrestri, se l’Italia vuole essere una Potenza veramente mondiale deve risolvere il problema delle sue frontiere marittime: la stessa sicurezza dell’Impero è legata alla soluzione di questo problema.» E concludeva: «Il problema non è quindi di sapere se l’Italia entrerà o non entrerà in guerra; perché l’Italia non potrà fare a meno di entrare in guerra; si tratta soltanto di sapere quando e come; si tratta di ritardare il più a lungo possibile, compatibilmente con l’onore e la dignità, la nostra entrata in guerra: a) per prepararci in modo tale che il nostro intervento determini la decisione; b) perché l’Italia non può fare una guerra lunga, non può cioè spendere centinaia di miliardi come sono costretti a fare i Paesi attualmente belligeranti. Ma circa il quando, cioè la data, nel convegno del Brennero si è nettamente stabilito che ciò riguarda l’Italia e soltanto l’Italia.»

Ma non bisogna credere che la teorizzazione della guerra parallela avesse già portato Mussolini verso una scelta bellicista. Il Duce non era ancora convinto di una vittoria finale e totale della Germania; in ogni caso, la sua opzione preferita restava sempre quella di una mediazione italiana e di una intesa europea quadripartita: e proprio in quei giorni – tra la seconda decade di marzo e la prima di aprile – si impegnò concretamente in tale direzione. Il 16 marzo, alla vigilia della partenza per il Brennero, ricevendo il Sottosegretario agli Esteri americano, Benjamin Sumner Welles, in Europa per una scialba missione conoscitiva, Mussolini esortò il politico statunitense a trasformare il suo viaggio in una concreta missione di pace, assicurandogli l’appoggio italiano. Sumner Welles si mostrò convinto ma, il giorno dopo, una telefonata del presidente USA Roosevelt (evidentemente non interessato a concrete iniziative di pace) gli proibì espressamente di procedere in tale direzione. Altra inascoltata (e poco nota) proposta di pace è datata 7 aprile 1940, quando il Duce fece una nuova offerta di mediazione al premier britannico Chamberlain. Ne era tramite l’avvocato maltese Adrian Dingli, legale dell’ambasciata britannica a Roma. Ciano annotò: «Parlo con Dingli e gli dico che, qualora Chamberlain sia pronto ad offrire veramente condizioni possibili, noi potremmo farci tramite delle sue proposte e facilitare un compromesso.» Intanto, la guerra si avvicinava a occidente: il 9 aprile i tedeschi invadevano Danimarca e Norvegia. Gli inglesi – in procinto di invadere anche loro la Scandinavia – erano stati battuti sul tempo; ma, soprattutto, davano l’impressione di non essere in grado di reagire e di essere quasi rassegnati alla sconfitta. Ciò, naturalmente, aveva un effetto psicologico fortissimo sull’opinione pubblica europea. A Roma, in particolare, le azioni germaniche salivano rapidamente e la prospettiva di un prossimo intervento dell’Italia sembrava prendere corpo. Ma Mussolini, pur impressionato, continuava ad essere molto prudente. Ostentava un cipiglio guerriero e rinforzava ogni giorno di più il tasso di interventismo nei suoi discorsi pubblici; ma, nella sostanza, continuava a cercare… l’albero di Bertoldo. A Ciano indicava la primavera dell’anno seguente come data di un possibile intervento italiano; ma – in realtà – il Duce era convinto che, per quella data, la guerra sarebbe stata finita e, probabilmente, con un risultato di sostanziale parità. Non che Mussolini desiderasse segretamente la sconfitta della Germania, né tantomeno la vittoria dell’Inghilterra. Alla Germania augurava di vincere ma non di stravincere, di sconfiggere l’Inghilterra ma non la Francia, di battere chi si opponeva alla “riparazione dei torti” che avevano sancito la sconfitta tedesca nella Grande Guerra ma non di trionfare in Europa. Per l’Italia, sperava nella prosecuzione della non-belligeranza o, tutt’al più, in una “guerra parallela” rapida, poco costosa e poco cruenta, da combattersi sui mari e non sulla terraferma, tale da procurare i massimi vantaggi con il minimo sforzo. «Qui ci sono due imperi in lotta, due leoni. – aveva confidato qualche tempo prima a Bottai – Non abbiamo interesse che stravinca nessuno dei due. Se vincesse l’Inghilterra, non ci lascerebbe che il mare per fare i bagni. Se vincesse la Germania, ne sentiremmo il peso. Si può desiderare che i due leoni si sbranino, fino a lasciare a terra le code. E, caso mai, andare a raccoglierle». Evidentemente, il Duce sperava in una vittoria stentata della Germania sull’Inghilterra, forse anche con l’aiuto italiano nel settore mediterraneo; ma sperava anche in una vittoria della Francia sulla Germania e, naturalmente, senza la partecipazione italiana allo scontro fra le due nazioni. In ultima analisi, il “tifo” segreto di Mussolini andava proprio alla “Sorella latina”, come emergeva da tutte le sue riflessioni, da tutte le sue confidenze a Ciano ma anche a Bottai e Grandi. Secondo quest’ultimo, ad esempio: «Mussolini non credeva che la Germania fosse tanto forte. Non lo desiderava e gli dava fastidio il solo pensiero che Hitler potesse essere tanto più forte di lui. (…) Credeva invece al mito dell’invincibilità dell’esercito francese e all’invulnerabilità della linea Maginot. La Francia non era la Polonia. Hitler si faceva delle illusioni. Avrebbe trovato in Francia un osso ben duro da rodere. In Francia Hitler si sarebbe rotto il collo. E’ quello che Mussolini desiderava, che ardentemente sperava.» A fine aprile, ricevendo Balbo che sollecitava armi e materiali per la difesa della Libia, il Duce non sembrava dubitare del proseguimento della non belligeranza italiana: «Non ci sarà la guerra. – lo tranquillizzava – Pensa ai tuoi coloni, ai tuoi pozzi d’acqua e ai tuoi ulivi.» Ciano sbagliava – dunque – quando imputava gli sbalzi d’umore del Capo del Governo al dilemma sull’entrare in guerra o meno. La preoccupazione principale del Duce era sempre la stessa: non rompere con i tedeschi, non indurli a credere che l’Italia volesse ripetere l’avvilente copione del 1914-15, non prestare il fianco alla terribile vendetta di una Germania ipoteticamente vittoriosa nei confronti di una Italia ipoteticamente fedifraga. Così confidava a Grandi: «Non entreremo in guerra. Ma occorre tenere a bada i tedeschi e non irritarli. Sono forti e pericolosi, ma non così forti come ritengono di essere.» Intanto, l’arroganza inglese verso l’Italia toccava vette di stupidità inimmaginabili. Dopo l’embargo di marzo, il 1° maggio scattava un blocco navale alle coste italiane: camuffato da prevenzione per del tutto improbabili attacchi italiani al naviglio britannico, si trattava in realtà di un blocco in piena regola, diretto non a tutelare la navigazione inglese ma a disarticolare l’intero traffico marittimo italiano e, come diretta conseguenza, a colpire i tre quarti dell’economia nazionale. Inutile dire che questa ulteriore squallida esibizione di muscoli aveva l’effetto di far lievitare i sentimenti antibritannici in Italia; in un momento – peraltro – che, a seguito delle vicende scandinave, vedeva in ascesa le simpatie per la causa tedesca. Ma Mussolini dava disposizioni di non reagire: l’Inghilterra non era ancora con le spalle al muro e, conseguentemente, i tempi per la guerra parallela non erano maturi. La stessa prudenza fu mostrata da Mussolini anche per quasi tutto il mese di maggio, anche dopo l’attacco tedesco contro Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Un attacco fulmineo, devastante, tale da far pensare a molti che le sorti del conflitto fossero ormai decise. Non solo, infatti, Belgio, Olanda e Lussemburgo andarono in breve a raggiungere Polonia, Danimarca e Norvegia nel carniere di Hitler; ma pure i tedeschi penetrarono anche in Francia: non dissanguandosi in un problematico assalto alla Maginot, ma semplicemente ignorando la linea fortificata francese e puntando verso ben altri obbiettivi. E non era tutto, perché i panzer tedeschi, raggiungendo la Manica (e l’Atlantico) già il 20 maggio, imbottigliarono l’intero Corpo di Spedizione Britannico e la 1a Armata francese, l’uno e l’altra pericolosamente sbilanciati in avanti nelle Fiandre, attratti – esattamente come nei piani tedeschi – dall’invasione di Olanda e Belgio. Questi avvenimenti ebbero un riscontro immediato sull’opinione pubblica italiana, che – fatte le debite eccezioni – sembrava adesso convinta che la Germania fosse sul punto di vincere la guerra e che l’Italia non dovesse lasciarsi sfuggire l’occasione – previa una partecipazione poco più che simbolica al conflitto – di prendere parte alla spartizione del bottino di guerra. «Come nel 1939 – recitava un rapporto riservato dell’OVRA per Mussolini – si rilevava il quasi unanime dissenso verso l’avventura bellica, così, nella primavera del 1940, si registra un rovesciamento della pubblica opinione, presa da un ossessionante timore di arrivare troppo tardi.» E più o meno gli stessi erano, in quei giorni, gli orientamenti della classe dirigente italiana, compreso Ciano, compreso Grandi, compresi i vari esponenti della tendenza anglofila. Perfino Vittorio Emanuele III – che non aveva mai nascosto la sua avversione per la Germania hitleriana – mostrava qualche segno di impazienza: «il più delle volte – confidava al fedelissimo aiutante di campo, il generale Puntoni – gli assenti hanno torto». Quanto a Mussolini, era certamente colpito dal travolgente successo tedesco, più rapido e più schiacciante di quanto egli avrebbe mai immaginato. Un successo che, per molti versi, non lo entusiasmava affatto, soprattutto nelle dimensioni che aveva assunto. In cuor suo, il Duce sperava che i francesi potessero ancora resistere, potessero inchiodare i tedeschi sulla Somme, potessero difendere Parigi con un secondo “miracolo della Marna”. «Tuttavia – scriveva Grandi – cominciava a temere, ed era la prima volta, che la Germania avrebbe veramente vinto. A temere, ma non ancora a credere.» E, fino a quando una reazione francese (ed inglese) appariva possibile, il Duce non si sbilanciava sull’intervento italiano nel conflitto; e, ciò, malgrado il crescendo di provocazioni da parte britannica e le aumentate pressioni interventiste del fronte interno. «Adesso – confidava al figlio Vittorio – tutti desiderano sparare il primo colpo di fucile: il Re, lo Stato Maggiore, i gerarchi. Per quanto paradossale sembri, l’unico pacifista sono rimasto io, io solo.» La svolta, tuttavia, si approssimava. Il 27 maggio il Corpo di Spedizione Britannico iniziò sulla spiaggia di Dunkerque (a poche braccia di mare dalle “bianche scogliere di Dover”) le operazioni di reimbarco per la Gran Bretagna: una fuga caotica, bruciante. Per Mussolini Dunkerque fu l’evento in grado di fugare gli ultimi dubbi. E non tanto e non soltanto per la disfatta storica, epocale dell’Inghilterra, umiliata ed espulsa dal continente europeo; ma, soprattutto, perché ciò segnava anche la fine delle ultime speranze di una resistenza francese che potesse interrompere la lunga teoria delle vittorie tedesche. La Francia, peraltro, era stata ormai abbandonata al proprio destino dall’Inghilterra, che aveva sistematicamente respinto gli ultimi, disperati appelli del governo parigino: sia quelli che peroravano una mediazione italiana (riproposti ancora il 28 maggio), sia quelli volti ad ottenere aiuti in uomini e mezzi per bloccare l’ulteriore avanzata tedesca verso ovest. La “Sorella latina”, ormai sola, rappresentava un brusco richiamo alla realtà per il Duce: la temuta vittoria finale e totale della Germania si avvicinava. Non c’era più spazio per la prudenza, per i tentennamenti. Con gli inglesi in fuga, la sanzione finale della guerra sarebbe stata la caduta di Parigi. Dopo tale evento (che si verificherà poi il 14 giugno) l’intervento nel conflitto avrebbe perso ogni valore, sarebbe stato addirittura controproducente. Bisognava, dunque, fare presto. Per partecipare alla spartizione del bottino di guerra? Certo, anche se il Duce non si faceva illusioni sull’entità della “fetta” di spettanza italiana. Ma, soprattutto, per scongiurare una possibile rappresaglia tedesca, per impedire mutilazioni territoriali, per evitare all’Italia un destino simile a quello del Protettorato di Boemia e Moravia. Il 30 maggio, così, Mussolini comunicava a Hitler la decisione di entrare in guerra. Ciano annotava: «il dado è tratto». Il 10 giugno, mentre i tedeschi – dopo aver travolto le ultime difese francesi sulla Somme – convergevano a tappe forzate verso Parigi, l’Italia dichiarava guerra a Gran Bretagna e Francia. Mussolini pensava così di essere, ancora una volta, riuscito ad evitare il peggio per l’ Italia. Michele Rallo

A PROPOSITO DEL “VALLO DEL LITTORIO” IN ALTO ADIGE. Caro Direttore, ho letto con grande interesse, sull’ultimo numero di “Storia in Rete”, il Tuo articolo sulla Linea Non-mi-fido e sul prezioso volume dedicato da Alessandro Bernasconi e Giovanni Muran alla costruzione del Vallo Alpino del Littorio. Al di là dell’interesse specifico dell’argomento (non a caso ignorato sistematicamente dalla storiografia ufficiale), ritengo che da questo si possa prendere le mosse per una rilettura un po’ meno superficiale delle vicende che – settant’anni or sono – portarono l’Italia ad intervenire nella Seconda guerra mondiale. Credo, infatti, che sia giunto il momento di affrontare la materia con un minimo di rigore e di serenità, fuori dagli schemi triti di ricostruzioni “storiche” che altro non sono se non la stanca riproposizione dei vecchi temi della propaganda di guerra inglese, quella propaganda che dipingeva il mondo diviso in due: da una parte i “buoni”, e cioè gli inglesi, gli americani e i loro alleati del momento; e dall’altra i “cattivi”, e cioè tutti i loro nemici. Erede diretta di questa propaganda bellica è la versione che ancor oggi (o, forse, oggi più di ieri) viene data degli inizi della Seconda guerra mondiale, che sarebbe stata scatenata dal “nazifascismo” contro “le democrazie”. Naturalmente, fatti come quello del Vallo Alpino del Littorio sono difficilmente incasellabili in questo tipo di rievocazioni di maniera, perché è sommamente difficile spiegare il perché della costruzione (varata meno di tre mesi dopo l’inizio del conflitto mondiale) di una formidabile linea di fortificazioni a ridosso del confine fra l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista. Come conciliare ciò con l’alleanza nazifascista responsabile della guerra? La verità, caro direttore, è che l’alleanza nazifascista non c’era. La verità è che la Seconda guerra mondiale non fu scatenata dal languente nazifascismo di un Patto d’Acciaio disatteso proprio dai tedeschi, ma da un attivo ed operante “nazicomunismo”. La verità è che la Seconda guerra mondiale fu la conseguenza diretta dell’alleanza militare fra Terzo Reich ed Unione Sovietica, che tale era in realtà il trattato di non-aggressione dell’agosto 1939; una alleanza volta ad aggredire congiuntamente la Polonia (che, tra parentesi, non era una democrazia ma una dittatura militarista-nazionalista con un tasso di antisemitismo di poco inferiore a quello nazista), ed a dividere fraternamente tra i due soci le spoglie della stessa Polonia e, in prospettiva, quelle dell’intera Europa Orientale. La verità è che l’Italia fascista avversò strenuamente sia l’alleanza russo-tedesca, sia l’aggressione alla Polonia, sia la spartizione dell’Europa Orientale fra URSS e Terzo Reich. La verità è che Mussolini si oppose ostinatamente alla guerra e che, sia prima che dopo lo scatenamento del conflitto, si propose come mediatore per il raggiungimento di una pace onorevole per tutti. La verità è – con buona pace dei tanti anglofili di casa nostra – che questo progetto mediatorio fallì in primo luogo per l’opposizione dell’Inghilterra, che temeva una seconda Monaco. Nel novembre del 1939 (quando venne emanato il primo ordine per la progettazione e la costruzione del Vallo Alpino del Littorio) tutti i ricordati motivi di contrasto fra Roma e Berlino erano in pieno sviluppo, con l’aggiunta di nuovi argomenti di contesa: il Blocco dei Neutrali, che l’Italia avrebbe voluto creare e capitanare per cercare di recuperare uno spazio di manovra nell’Europa Orientale; e, soprattutto, la questione dei cosiddetti “optanti” altoatesini. A parte la vicenda del Blocco dei Neutrali (su cui sarà utile tornare), ciò che in quel momento era al primo posto nei pensieri di Mussolini era la questione degli optanti. Hitler – com’è noto – aveva sempre dichiarato di non avere alcun tipo di rivendicazione territoriale nei confronti dell’Italia e di rinunziare espressamente ad ogni contenzioso sull’Altoadige/Sudtirolo. E, tuttavia, dopo il ricongiungimento al Reich dell’Austria, dei Sudeti e – in ultimo – della Prussia Occidentale, alcuni ambienti pangermanisti (discretamente sollecitati dai circoli antitaliani di Berlino che facevano capo al Ministro degli Esteri von Ribbentrop) erano tornati a chiedere – sia pur sommessamente – che anche i “fratelli sudtirolesi” potessero tornare nel seno della Grande Germania. Per tagliare la testa al toro e per risolvere alla radice il problema di una consistente minoranza volksdeutsche entro i confini italiani, Roma e Berlino si erano accordate per offrire alla popolazione di lingua tedesca (e ladina) del Bolzanino e delle province limitrofe la possibilità di optare fra la permanenza in Italia e l’emigrazione nel Reich. La relativa convenzione era stata ufficialmente stipulata il 21 ottobre e, nel mese di novembre, si era in attesa di dare materialmente corso alle opzioni. L’interesse italiano era chiaro: le scelte della popolazione altoatesina avrebbero dovuto essere le più rapide possibili e gli optanten für Deutschland avrebbero dovuto abbandonare il territorio bolzanino in tempi ragionevoli. Per il governo fascista si trattava quasi di una polizza d’assicurazione, una garanzia contro il rischio di una riproposizione di scenari di tipo sudetico. Stranamente, però, alcuni attivisti nazisti di Bolzano e dintorni avevano quasi subito iniziato una campagna propagandistica sotterranea, campagna volta a diffondere tra la popolazione voci di un imminente anschluss sudtirolese. Il conte Ciano se ne era lamentato – il 9 novembre – con l’ambasciatore tedesco, von Mackensen. Quanto a Mussolini, era furioso; il suo tasso di ostilità verso Hitler e la Germania aumentava costantemente, al punto che, dovendo lo stesso giorno felicitarsi con il Führer che era appena sfuggito ad un rudimentale attentato, «ha faticato non poco – annotava Ciano – a redigere il telegramma di compiacimento per lo scampato pericolo; voleva che fosse caloroso ma non troppo, perché, a suo giudizio, nessun italiano ha provato questa grande gioia per la salvezza di Hitler. E meno di tutti, il Duce». Per tutto il mese di novembre, il diario del “Conte-genero” era costellato da annotazioni che testimoniavano un antihitlerismo crescente da parte di Mussolini, spesso in parallelo con le vicende altoatesine. «Vanno male le cose in Alto Adige. – leggiamo sul Diario alla data del 21 novembre – I tedeschi, in seguito agli accordi, si preparano a compiervi un vero e proprio plebiscito. E fin qui niente di male, se i tedeschi, subito dopo optato, se ne andassero. Invece niente. Hanno la facoltà di rimanere fino a tre anni, e nulla fa sperare che da parte tedesca si intenda accelerare i tempi. Mussolini dice che non ci vede chiaro: stamani affermava che su questa questione si potrebbe arrivare al conflitto col Reich. Intanto rafforza la polizia ed i carabinieri ed aumenta anche gli effettivi della guardia alla frontiera.» In pratica, si temeva che i tedeschi volessero ufficializzare la volontà della popolazione sudtirolese di ricongiungersi alla madrepatria (ed infatti oltre l’80% della comunità germanofona opterà in questo senso), lasciando però gli optanten entro le frontiere italiane per tre lunghi anni, quasi che vi restassero a mo’ di “quinta colonna” in attesa dell’arrivo della Wehrmacht. Ecco perché, ad ogni buon conto, il Duce aveva dato il via alla fortificazione del confine con la Germania. Dunque, il timore (il timore, non l’avversione) era, nel novembre-dicembre del 1939, uno degli elementi basilari dell’atteggiamento dell’Italia fascista nei confronti della Germania di Hitler. Ed il timore – aggiungo – sarà ancora una delle molle principali che, nel giugno del 1940, indurrà Mussolini ad entrare in guerra; una guerra che si riteneva dovesse essere breve, brevissima: quel tanto da testimoniare a Berlino che Roma le era amica, e da porre l’Italia – si sperava – al riparo da una possibile rappresaglia tedesca. Ma questa è un’altra storia. Michele Rallo.

PER GENTILE CONCESSIONE DI STORIA IN RETE EDITORIALE SRL - articoli pubblicati sui nn. 55 e 56 del mensile “Storia in rete” - maggio e giugno 2010.

Quanto Mussolini c’era in Gramsci? Cinque anni che paiono secoli, scrive Marcello Veneziani il 24/10/2011. Quanto Mussolini c’era in Gramsci. E quanto Sorel, quanto Gentile, maestri del fascismo. Quanta ammirazione c’era in Gramsci per il d’Annunzio di Fiume e per il futurismo, che furono i precursori artistici del fascismo. E quanta considerazione per Oriani, Papini e Prezzolini. Di un Gramsci mussoliniano scrissi diversi anni fa, prima di me avevano scritto Augusto del Noce e pochi altri. Ma prima di tutti lo aveva detto lo stesso Mussolini che nel ’21 alla Camera aveva riconosciuto Gramsci e i comunisti italiani suoi «figli spirituali». E aggiunse: «io per primo ho infettato codesta gente». Ora a dirlo non siamo più solo io, Del Noce o il diretto interessato, ma anche una ricerca nata in seno alla Fondazione Istituto Gramsci di Leonardo Rapone (Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo, ed. Carocci, pagg. 421, euro 28). Rapone è uno studioso venuto da Renzo De Felice e approdato a Beppe Vacca, è nel comitato dei garanti della Fondazione Gramsci e nel direttivo che cura le opere gramsciane. Per condensare in una battuta il titolo e il testo, nel viaggio di Gramsci dal socialismo al comunismo c’è nel mezzo il mussolinismo. Il Terzo Incomodo. Le radici della scissione di Livorno dei comunisti sono nell’interventismo rivoluzionario e nel massimalismo, agitati entrambi da Mussolini. E Gramsci fu dalla parte di Mussolini a sostenere l’intervento e a riconoscerlo come capo del socialismo rivoluzionario (fra gli interventisti intervenuti ci furono pure i futuri azionisti e i futuri comunisti come il giovane Peppino Di Vittorio). Per un pelo Gramsci non collaborò al Popolo d’Italia. Non fu il solo, tra i fondatori del partito comunista, a subire l’influenza di Mussolini. Nicola Bombacci finì a Salò con Mussolini. E Angelo Tasca, fondatore del Pci e poi leader del Psi con Saragat alla fine degli anni Trenta, finì collaborazionista a Vichy, funzionario del regime di Pétain e sostenitore del patto tra l’Urss di Stalin e la Germania di Hitler. All’epoca dell’Ordine nuovo gramsciano, scrisse Tasca, eravamo tutti gentiliani, Togliatti incluso. Il punto di raccordo delle culture radicali del nostro Paese fu l’antigiolittismo, la critica al moderatismo corrotto e corruttore, secondo i rivoluzionari dell’epoca e lo stesso Salvemini. E la critica alla democrazia. Paolo Mieli, in un ampio saggio sul Corriere della sera, sostiene con Rapone che Gramsci in quel tempo criticava la democrazia ma difendeva il liberalismo. Vero, a patto di considerare che per lui come poi per Gobetti, esempio di Rivoluzione liberale era la rivoluzione bolscevica dei soviet. Lì è infatti il discrimine tra Mussolini e Gramsci, e tra il fascismo e l’italocomunismo: partiti dalla stessa radice, entrambi persuasi da Gentile e da Sorel del primato volontarista dell’azione - che in Gramsci si fa filosofia della prassi e in Mussolini attivismo - si divaricano invece sulla rivoluzione sovietica. Mussolini «scopre» la nazione, Gramsci e il Pc optano per l’Urss di Lenin. Per sminuire l’influenza gentiliana e avvalorare una linea di continuità liberale, si insiste sull’impronta crociana in Gramsci. Ma Gramsci di Croce, come del resto Mussolini, abbraccia lo storicismo, non il liberalismo; l’immanentismo laico, non certo la difesa della borghesia, dell’Italia di Giolitti, del neutralismo e dei diritti dell’individuo, come la libertà e la proprietà privata; e infine Croce è per loro importatore di Sorel in Italia. Peraltro, anche Gentile aderisce al fascismo nel nome del «liberalismo». Insomma, sfatiamo la leggenda del Gramsci liberale. Gramsci sceglie Lenin, Mussolini sceglie la nazione e il nazionalismo. Sul piano delle idee, Gramsci resta con Marx, Mussolini scopre Nietzsche, a cui dedica già da socialista nel 1908 un saggio entusiasta. Gramsci resta leninista anche quando l’Urss di Stalin comincia e non piacergli e sa bene che brutta fine farebbe se raggiungesse Togliatti a Mosca: la stessa fine che fecero centinaia di comunisti italiani fuggiti dal fascismo e uccisi dai compagni sovietici, col consenso di Togliatti stesso. Gramsci evoca anche in Italia l’avvento di «una terribile dittatura» e accoglie l’impianto totalitario della rivoluzione leninista. Col tragico paradosso che quando è in carcere, sotto il regime fascista, Gramsci accusa il fascismo non di aver instaurato una dittatura totalitaria ma di aver tradito la rivoluzione nel compromesso con la borghesia, la monarchia, il capitale e la Chiesa. Ovvero accusa il fascismo di essere un totalitarismo incompiuto, imborghesito. E non respinge del fascismo né il cesarismo né la violenza, ma distingue tra un cesarismo e una violenza progressivi, che poi sarebbero quelli leninisti e comunisti, e un cesarismo e una violenza regressivi. Lo scrive nelle Note sul Machiavelli, e lo dice nello scontro alla Camera con Mussolini nel ’25. Ma chi stabilisce la differenza fra una dittatura e una violenza buone o cattive? L’Intellettuale Collettivo, lo stesso Partito, nuovo Principe assoluto e il suo Ideologo...A Gramsci vanno riconosciuti due meriti. La scoperta della centralità della cultura nella coesione sociale di un popolo e nella conquista politica del consenso. Intuizione figlia dell’idealismo militante, comune a Gentile e Bottai. E la scoperta del nazionalpopolare nel tentativo di una via italiana al comunismo. Ma in entrambi si insinua il germe leninista: nel primato della cultura si insinua il primato dell’Intellettuale Collettivo, del Partito-Principe tramite l’egemonia....

"Mussolini non ha spento il cervello di Gramsci, anzi..." Il leader comunista, pur prigioniero, ebbe un trattamento speciale. Il Duce stesso autorizzò le sue letture "proibite". I controlli? Blandi, scrive Fabrizio Ottaviani, Sabato 4/06/2016 su "Il Giornale". Da anni Franco Lo Piparo, linguista e filosofo del linguaggio, si occupa di una pagina tanto nota quanto opaca della storia d'Italia, il processo e la detenzione di Antonio Gramsci ordinata dal Tribunale Speciale fascista. I precedenti saggi, ben documentati e appassionanti come una detective story, si spingevano fino a sospettare che Togliatti avesse ostacolato i tentativi di estrarre dal carcere il fondatore del Partito Comunista Italiano. Qualche giorno fa, in un articolo uscito sul Corriere della sera, è toccato a Mussolini perdere in parte il ruolo di feroce aguzzino. Nello stesso articolo, tenendo conto del fatto che Gramsci, prima di essere rilasciato, fu curato in clinica dal 1933 al 1937, e che dodici dei trentatré «quaderni» non presentano timbro carcerario, Lo Piparo avanza la proposta, che a molti sembrerà iconoclasta, di mutare il titolo del capolavoro gramsciano in Quaderni del carcere e delle cliniche. Professor Lo Piparo, lei sostiene che come detenuto Gramsci ricevette un trattamento di favore e che probabilmente ciò accadde per volontà di Mussolini. Da cosa traspare questo «trattamento di favore» e perché il Duce avrebbe deciso così? «I fatti sono tanti. Ne cito uno che non compare mai nelle trattazioni. Il direttore del carcere di Turi a volte proibisce a Gramsci di leggere alcuni libri. Gramsci scrive direttamente a Sua Eccellenza Benito Mussolini, Capo del Governo e l'autorizzazione alla lettura arriva. Tra i libri richiesti si trovano le opere complete di Marx ed Engels, opere varie di Trotsky, l'edizione francese delle lettere di Marx a Kugelmann con prefazione di Lenin. Non pare proprio che Mussolini abbia voluto impedire al cervello di Gramsci di funzionare. So che mi attirerò un po' di critiche con quello che sto dicendo: Mussolini con quel comportamento dà l'impressione di stare oleando e alimentando quel cervello». Il suo articolo sul Corriere non sembra legato ad anniversari o altre celebrazioni gramsciane, a meno che non si tratti della mostra Gramsci. I quaderni del carcere ed echi in Guttuso da poco aperta alle Gallerie d'Italia, a Milano. Milanese sui Quaderni). Cosa l'ha spinta a pubblicarlo proprio adesso? «Il problema del fascismo, della sua eredità, delle sue specificità tutte italiane rispetto agli altri due regimi totalitari (comunismo sovietico e nazismo) è sempre attuale indipendentemente dalle ricorrenze». Sono apparsi nuovi documenti che suffragano la tesi di una particolare «mitezza» del carcere di Gramsci o non si tratta piuttosto di attirare l'attenzione su una serie di fatti che sono da sempre sotto gli occhi di tutti, ma che si preferisce non vedere perché formano un quadro che spiace a qualcuno? «Gli elementi fondamentali si conoscono da tempo. Le lettere a Mussolini ad esempio sono state pubblicate due decenni fa e però è come se ci fossero resistenze a leggerle a voce alta e farne parte delle narrazioni su Gramsci. E comunque mettere insieme tutti i trattamenti di favore di cui il prigioniero politico ha goduto, ha fatto un certo effetto anche su di me. Capire il senso di tutto questo non è semplice e facile. Sospetto che in questa storia ci sia qualcosa che non conosciamo ancora bene». Nella prefazione a La barbarie dal volto umano di Bernard-Henri Lévy, Sciascia con molta ironia scriveva «La destra non sappia ciò che fa la sinistra, e soprattutto che non lo sappia dalla sinistra». Lei è stato molto vicino alla sinistra, non teme che le sue tesi si prestino a un uso strumentale? «Le strumentalizzazioni sono inevitabili e bisogna metterle nel conto. Sono interessato alla sostanza della questione. Gramsci è l'unico pensatore di area comunista della prima metà del Novecento che ancora ha qualcosa da dirci per capire la complessità del mondo contemporaneo. Purtroppo è diventato l'autore-grimaldello di riferimento degli orfani del comunismo. Col risultato che la sinistra riformista che invece potrebbe e dovrebbe trarre insegnamenti dai Quaderni ha imbarazzo pure a citarlo. È una situazione paradossale ma è così». «Per vent'anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». Questa frase, che secondo Togliatti fu pronunciata dal giudice che condannò Gramsci, non trova riscontro nelle carte processuali ed è probabilmente un'invenzione del Migliore. È stato tentato di dare una lettura psicoanalitica di questa «menzogna»? Era Togliatti, in realtà, che voleva impedire al cervello di Gramsci di funzionare? E se sì, quali erano le sue ragioni? «La lettura psicoanalitica che lei mi prospetta mi pare infondata. I rapporti tra Togliatti e Gramsci attraversano momenti diversi e non sono facilmente riconducibili a una lettura agiografica e unitaria. Sono stati entrambi interventisti nella Prima Guerra: erano più vicini alla posizione di Mussolini che a quella neutralista del partito socialista. Togliatti addirittura si arruolò come volontario. Collaborarono fino alla metà degli anni Venti. Nel '26 ruppero in maniera definitiva sulla valutazione dei metodi di governo di Stalin. In carcere Gramsci ritenne che Togliatti fosse il mandante di alcune iniziative che gli resero più difficile l'uscita dal carcere tanto da chiamarlo compagno ex amico. E però, tornato nel dopoguerra in Italia, Togliatti è molto abile a fare dei Quaderni il manuale di riferimento della via italiana al socialismo. Slogan che, tradotto in volgare, significava: fare una politica riformista e socialdemocratica dichiarandosi di fede comunista. E questo perché i Quaderni spiegano le ragioni storiche e teoriche del riformismo e non della rivoluzione». Lei ventila l'ipotesi che sia stato Mussolini a consentire ai Quaderni di uscire dalla clinica Quisisana di Roma, dove Gramsci morì, senza che cadessero nelle maglie della censura. Perché Mussolini lo avrebbe consentito? «I quaderni dalle cliniche escono comodamente poco per volta prima della morte di Gramsci. Le Note della Questura al Ministero insistono sul fatto che Tania va a fare visita al cognato portando con sé una grande borsa. Nessuno ordina alla polizia di controllare il contenuto della borsa. Mussolini aveva tutti gli strumenti per sequestrare i quaderni. Invece non l'ha fatto. Perché? Confesso che al momento non so dare una risposta convincente. Inoltre sappiamo che Mussolini era un ammiratore del cervello di Gramsci. Il primo dicembre 1921 alla Camera ne parla in questi termini: Un sardo gobbo e professore di economia e filosofia, di un cervello indubbiamente potente». Lei scrive: «Dalla morte di Gramsci sono passati 79 anni. Il muro di Berlino è stato abbattuto 27 anni fa. I tempi sono più che maturi per esplorare senza pregiudizi ideologici un capitolo fondamentale della storia d'Italia». C'è in vista un suo saggio sui rapporti fra Gramsci e Mussolini? «Gramsci serve a una sinistra riformista, che sappia muoversi nella complessità del mondo contemporaneo e che sappia coniugare impegno politico e cultura. Dei libri preferisco parlare solo quando sono già stati scritti».

Quelli che... «il Migliore» era un democratico (solo un po' stalinista). La storia non ha fatto sconti al leader comunista, gli storici invece sì: infatti cercano di rivalutarlo, scrive Giampietro Berti, Mercoledì 20/08/2014, su "Il Giornale". Il 21 agosto di cinquant'anni fa moriva a Yalta (Crimea) Palmiro Togliatti, figura primaria del comunismo italiano e internazionale. Se ci si domanda cosa rimane oggi della sua opera, non si può che rispondere in modo negativo. Naturalmente siamo ben lontani da sottovalutare la sua importanza storica, ma essa non presenta alcunché di benefico e di positivo. È stupefacente perciò osservare che, dopo il catastrofico fallimento del comunismo, fallimento a cui anche Togliatti ha dato il suo peculiare contributo, vi sia ancora da parte di alcuni studiosi l'ostinata volontà di rivalutarne il pensiero e l'azione, attivando verso di lui una sorta di storicismo giustificazionista. Non ci interessa demonizzare la figura di Togliatti, però non possiamo non contestare l'esito di questa operazione, che si risolve, per quanto riguarda la seconda parte della sua vita, nell'insostenibile tesi della democraticità del PCI e, appunto, del suo leader, Palmiro Togliatti. Ricordiamo qui la ristampa, con prefazione inedita di Togliatti e il partito di massa (Castelvecchi) di Donald Sassoon; l'epistolario di Togliatti degli anni 1944-1964, La guerra di posizione in Italia (Einaudi), a cura di Maria Luisa Righi e Gianluca Fiocco, con prefazione di Giuseppe Vacca; la nuova edizione della biografia Togliatti di Giorgio Bocca (Feltrinelli), con prefazione di Luciano Canfora; e anche qualche intervento giornalistico, tra cui ricordiamo, nei mesi passati quello di Francesco Piccolo, Rivalutare Togliatti apparso su La lettura , inserto del Corriere della Sera. Il nocciolo comune di questa tesi, sia pur articolata da ogni autore con interpretazioni e sfumature diverse, si riassume nel giudizio secondo cui il comunismo italiano, diversamente da qualsiasi altro comunismo europeo, avrebbe fornito un contributo decisivo alla nascita e al mantenimento della democrazia nel nostro Paese. Ora non c'è dubbio che con la partecipazione alla lotta contro il nazifascismo i comunisti, insieme con altre forze politiche, ebbero il merito di portare l'Italia sulla via della libertà dopo vent'anni di dittatura. Affermare però che essi, a cominciare dallo stesso Togliatti, fossero animati da uno spirito democratico è del tutto fuorviante. In realtà, grazie alla collocazione dell'Italia nell'ambito occidentale, i comunisti furono costretti a rinunciare alla lotta rivoluzionaria contro il capitalismo e contro la società borghese e ad accettare la liberal-democrazia. Rivendicarono perciò, in quanto comprimari artefici della Resistenza, dell'Assemblea Costituente e della successiva Costituzione, la legittimazione democratica del loro partito. Fecero, cioè, di necessità virtù, e dunque non furono dei veri democratici. Rimasero sempre prigionieri di una concezione strumentale del rapporto tra democrazia e socialismo. Vista l'impossibilità di conquistare il potere politico, Togliatti, infatti, avviò la strategia gramsciana diretta a controllare il più possibile una parte della società civile e istituzionale, con una pressante egemonia culturale (università, scuola, editoria, giornali), che si tradusse nella condanna della società liberale e borghese: una riserva di fondo che non venne mai meno. Ecco dunque la «doppiezza» togliattiana, che se da un lato portò il PCI a non sovvertire il regime esistente, dall'altro lo spinse continuamente a predicare la sua trasformazione in senso comunista, senza mai giungere ad una rottura definitiva con l'Unione Sovietica, da cui continuò a ricevere sino all'ultimo anche un ininterrotto aiuto finanziario. È necessario ricordare l'avallo di Togliatti, e di quasi tutti i comunisti italiani, al colpo di Stato in Cecoslovacchia (1948), alla repressione sanguinosa della sollevazione popolare di Berlino Est (1953) e di quella ungherese (1956)? Fino alla fine degli anni Sessanta, pur con alcuni distinguo, i comunisti italiani continuarono a identificare il marxismo con il comunismo e il comunismo con lo stalinismo. Così come Stalin rimandava a Lenin e Lenin rimandava a Marx, allo stesso modo, per converso, il marxismo giustificava il leninismo, tanto quanto il leninismo giustificava lo stalinismo: tranne rarissime eccezioni, tutti i comunisti erano stalinisti, a cominciare proprio da Togliatti. Centinaia di migliaia di libri, di opuscoli, di giornali, di comizi, di manifesti, di volantini, di ritratti, di documenti di partito hanno per trent'anni testimoniato la deferenza verso il dittatore. Questa incapacità di uscire dall'universo stalinista spiega perché non vi sia stata in Italia alcuna Bad Godesberg, vale a dire una socialdemocratizzazione capace di sradicare il PCI dal suo ceppo leninista. Ancora nel 1978, in un'intervista a la Repubblica, Enrico Berlinguer poteva parlare della «ricca e permanente lezione leninista». La «via italiana al socialismo» concepita da Togliatti, vale a dire la pretesa di superare la democrazia liberale con una democrazia superiore, era una strategia destinata al fallimento. Non a caso essa è poi sfociata nel compromesso storico, ovvero nella convergenza «totalitaria» del cattocomunismo, la cui natura era avversa ad ogni ratio e ad ogni ethos liberali. Disegni politici che hanno fatto perdere all'Italia qualche decennio di maturità democratica e che oggi, di fronte alle macerie del comunismo, appaiono per quello che erano: dinosauri convissuti per qualche tempo con la modernità. Pretendere, con le cosiddette «riforme di struttura», di fuoriuscire dal capitalismo mantenendo al contempo la democrazia; di avviare una politica anti-capitalista all'interno di un sistema capitalista, era una quadratura del cerchio che solo chi aveva fatto propria la concezione miracolistica della dialettica (marxista) poteva pensare di sciogliere. Come aveva già profetizzato quarant'anni fa Augusto Del Noce, il partito proletario di massa creato da Togliatti si è trasformato nel frattempo in un radicalismo culturale di massa, i cui quadri dirigenti sono stati salvati ora da un ex democristiano. Come tutti i marxisti, Togliatti nutriva la profonda convinzione di possedere la verità, per cui considerava con grande disprezzo e fastidiosa sufficienza tutti coloro che non erano comunisti. Abbiamo poi visto chi aveva ragione. La storia non ha fatto sconti neanche al «Il Migliore».

Lenin accese la scintilla Stalin bruciò ogni cosa Togliatti raccolse le ceneri. Nuove carte provano la continuità politica tra Mosca e il comunismo italiano. Stessa logica, stessi tragici effetti, scrive Giampietro Berti, Martedì 8/04/2014 su "Il Giornale". Sulla storia dei legami e dei contrasti fra il comunismo sovietico e il comunismo italiano esiste una vasta e varia bibliografia, ma quest'ultimo libro di Giancarlo Lehener (con Francesco Bigazzi), Lenin, Stalin, Togliatti. La dissoluzione del socialismo italiano (Mondadori, pagg. 360, euro 19), è particolarmente istruttivo perché mette in luce l'implacabile logica che sottende l'intera vicenda; logica che trascende la volontà dei singoli uomini. C'è infatti una linea di continuità politica che, senza alcuna degenerazione, inesorabilmente da Lenin, attraverso Stalin, giunge a Togliatti. Essa porterà nel secondo dopoguerra - data la preminenza dei comunisti sui socialisti - a recidere le possibilità riformatrici, e concrete, del socialismo italiano. Il libro prende le mosse dalle tappe fondamentali che portarono un piccolo gruppo di rivoluzionari di professione - Lenin, Trotskij, Stalin e pochi altri - alla fortunata conquista del potere con il golpe dell'ottobre 1917. Come è noto in Russia esistevano allora circa 140 milioni di persone, ma il putsch bolscevico che fece cadere Kerenskij - lo ha ripetutamente ammesso Trotskij - fu attuato da 25mila militanti. Ciò spiega perché fin da subito vennero poste in atto le direttive criminali per annientare ogni forma di opposizione, di destra e di sinistra: così nel 1918 con l'abolizione dell'Assemblea costituente; così nel 1921 a Krondstad, con i marinai insorti, decimati a centinaia su ordine di Trotsky; così, nello stesso periodo, in Ucraina con il movimento contadino machnovista. Scrive Lehener: «Dal 1918 al 1922 una statistica per difetto dà la cifra di 250mila persone assassinate dai cekisti (la polizia segreta)». La sistematica distruzione di ogni opposizione è la prova più evidente della scarsa adesione al regime da parte della popolazione: infatti perché usare tanto terrore, se vi fosse stato un vero consenso al comunismo? Non dimentichiamo che fra il 1935 e il 1941, si deve registrare l'arresto di milioni di persone, di cui almeno sette milioni uccise. Nella fase più acuta del Grande Terrore (1937-1938) furono assassinate 690mila persone, mentre un milione 800mila vennero deportate. Il mito della rivoluzione d'ottobre infiammò comunque fin dall'inizio il movimento operaio e socialista europeo. In Italia diede il via alla rottura fra la componente riformista e quella massimalista, culminata nella drammatica scissione di Livorno del 1921, che portò alla nascita del partito comunista. Come sottolinea Lehener, la conseguenza di questo «errore irrecuperabile» fu l'indebolimento generale delle forze democratiche, e ciò, ovviamente, favorì la vittoria del fascismo. Con l'adesione alla Terza Internazionale, il cui ruolo consisterà nell'essere un mero organo esecutivo delle decisioni prese dal Kremlino, i comunisti italiani, come del resto i comunisti di qualsiasi altro Paese, vennero sottoposti ai diktat di Mosca. L'ascesa di Stalin comportò l'abbandono definitivo di ogni progetto di rivoluzione mondiale, sostituito con l'idea del «socialismo in un solo Paese». Di qui l'ovvia sudditanza del partito all'Unione Sovietica, che generò un contrasto inevitabile al proprio interno circa la linea da tenere di fronte alla nuova situazione acuitasi con l'avvento al potere del dittatore georgiano; contrasto mosso dalla logica dell'epurazione, come è confermato dal conflitto fratricida scatenatosi fra i suoi maggiori esponenti, Gramsci, Togliatti, Bordiga, Tasca, Grieco, Silone, Tresso, Leonetti, Secchia, Ravazzoli, Terracini e altri (con reciproche accuse di tradimento e conseguenti isolamenti, criminalizzazioni ed espulsioni). Inoltre i comunisti italiani, pervasi sempre più dal loro settarismo, attivarono una cieca ostilità contro coloro che non si piegavano alle direttive del Komintern, in modo particolare contro le forze socialdemocratiche, i cui militanti, bollati come «socialfascisti» e «socialtraditori», erano considerati i veri ostacoli della rivoluzione proletaria e spesso ritenuti più pericolosi degli stessi nemici borghesi, compresi i fascisti. La profonda convinzione, del tutto fantastica, del crollo imminente del capitalismo, specialmente dopo il 1929, fu causa di ulteriori settarismi, uniti a un senso di superiorità verso l'intero fronte progressista, dovuta alla certezza di possedere - grazie all'infallibilità del marxismo-leninismo - la conoscenza del processo storico. Dalla preziosa e inedita documentazione raccolta da Francesco Bigazzi si evince l'impressionante clima di terrore instaurato dallo stalinismo. Tutti coloro che si erano rifugiati nell'Urss - gran parte furono uccisi o scomparvero nei Gulag - finirono per spiarsi l'uno con l'altro, e con ciò diventarono zelanti esecutori delle direttive staliniste, compresa la delazione di compagni, per non cadere nelle sgrinfie della polizia politica. Una tragedia immane che non ha prodotto nulla di buono.

La biografia "definitiva" del dittatore che fa a pezzi il mito del comunismo. Lo storico russo Oleg V. Chlevnjuk, basandosi su nuovi documenti, racconta l'ascesa del tiranno e la discesa nell'incubo dell'Unione Sovietica, sconvolta dalle "purghe" e dalla povertà, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 12/04/2016 su "Il Giornale". Il comunismo non è una nobile idea realizzata male. È sempre stata una tragica pazzia. L'economia pianificata non conduce a una società di eguali ma alla miseria generale, fatta eccezione per le élite di burocrati e funzionari di partito. La violenza non è una degenerazione del sistema ma il suo metodo essenziale. Dal Libro nero del comunismo agli studi di Robert Conquest, Victor Zaslavsky e molti altri, più o meno conosciuti, più o meno di successo, non mancano i saggi che smontano il mito del socialismo. A questi si aggiunge ora Stalin. Biografia di un dittatore (Mondadori, pagg. 480, euro 28) di Oleg V. Chlevnjuk, la biografia considerata «definitiva» del dittatore sovietico. In realtà lo storico russo mette in fila una sterminata mole di documenti, in gran parte inediti o poco conosciuti, che è la pietra tombale sulle riletture nostalgiche e sui derivati contemporanei del comunismo. La vita di Stalin diventa l'occasione per raccontare l'ascesa dell'intero movimento bolscevico. L'autore non perde mai di vista Ioseb Dzugasvili (questo il vero nome del dittatore) ma ne inserisce la vita all'interno di un quadro molto vasto. Stalin nasce a Gori, in Georgia, il 6 dicembre 1878, un anno prima rispetto a quanto indicato dalle biografie ufficiali. Secondo le leggende (autorizzate) era, di volta in volta, figlio di un ricco mercante, di un potente industriale, di un principe e perfino dell'imperatore Alessandro III. Più prosaicamente, Stalin era figlio di una donna giunta in città dopo l'abolizione della servitù della gleba e di un calzolaio incline ad alzare il gomito. Secondo le leggende (autorizzate) ebbe un'infanzia difficile, segnata dai maltrattamenti. Invece fu relativamente serena, nonostante l'abbandono del padre rovinato dall'alcolismo. Il seminarista Stalin, studente modello traviato dalle letture «proibite», si avvicina presto al socialismo rivoluzionario. Secondo le leggende (autorizzate) Stalin viene espulso da scuola. Più probabilmente, la abbandona in accordo con l'istituzione, in effetti scontenta dell'insubordinazione del ragazzo. Cresciuto all'ombra di Lenin, che non lo avrebbe voluto come erede, Stalin si dimostra un abile organizzatore del partito ma rimedia magre figure nel corso della guerra civile. La sua abilità è manipolare e chiudere all'angolo gli avversari politici, in particolare l'opposizione interna. Conservatore alla bisogna, estremista di natura, il compagno è dotato dell'innata capacità di tessere e disfare alleanze all'interno del gruppo dirigente. Presto assume una posizione di rilievo. Stalin bada al sodo: capisce che il potere di fare le nomine all'interno della burocrazia e il controllo della polizia segreta sono il suo lasciapassare per la dittatura. Presto aggiunge un terzo tassello: il terrore. La vittoria, per essere completa, implica la cancellazione del rivale sconfitto. Si spiegano così le terribili «purghe» alle quali, specie negli anni Trenta, sottopone anche i suoi collaboratori più stretti. I «prescelti» di Stalin convivevano con la paura di cadere in disgrazia senza preavviso, per motivi futili. Il dittatore poteva scegliere di umiliare chi aveva alzato la cresta senza neppure accorgersene. Tipico il caso di Molotov, al quale, nel corso di una riunione, fu imposto di divorziare dalla moglie perché ebrea e dunque «cosmopolita». Molotov fu costretto a votare contro se stesso. Tra il 1929 e il 1953, Stalin diventa progressivamente il padrone assoluto dell'Unione Sovietica. Chlevnjuk ricostruisce nel dettaglio le macchinazioni di Stalin nel Politburo, il suo opportunismo nell'allearsi con Hitler, i colossali errori come capo militare, la continua invenzione di nemici interni per giustificare la repressione di ogni potenziale oppositore, la creazione di un clima di guerra costante al fine di giustificare drastiche misure economiche, le pesanti responsabilità nelle carestie che hanno falcidiato a più riprese le infinite campagne sovietiche. Lo fa con numeri e carte alla mano (al piede di queste pagine pubblichiamo una parte minima ma significativa di questi dati). Una cosa è chiara: ogni crimine fu commesso in piena consapevolezza. Stalin non era affatto un folle, come talvolta è stato presentato, e neppure disinformato sulle conseguenze dei suoi ordini. Era un bolscevico di impeccabile coerenza. Era convinto che il socialismo fosse il futuro dell'umanità perché avrebbe portato la prosperità universale. Gli orpelli del capitalismo, come la moneta, presto si sarebbe rivelati inutili. Bisognava però marciare compatti, eliminando, in ogni senso, ogni residuo del passato. Per questo, Stalin fissò obiettivi economici assurdi e controproducenti. Nessuno guardava agli indicatori fondamentali. Anzi: furono soppressi. La collettivizzazione forzata dell'agricoltura portò al crollo della produzione (oltre a costare la vita a milioni di contadini). L'efficienza dell'industria di Stato fu inferiore alle pretese e alle invenzioni della propaganda. Le opere pubbliche si rivelarono un pozzo senza fondo tra debiti e ritardi. L'Urss resisteva grazie a quel poco che i braccianti producevano per se stessi, ottenendo comunque eccedenze da vendersi sul mercato, e al lavoro forzato dei prigionieri nei campi di concentramento (l'Arcipelago GULag di Solzenicyn). L'abbondanza di risorse naturali dava una grossa mano. Gli eredi del dittatore conoscevano la realtà ma non osarono mai opporsi. Di fatto, dopo la morte di Stalin, introdussero timide liberalizzazioni, che consentirono all'Urss di tirare avanti fino agli anni Ottanta. C'è spazio anche per qualche incursione nello Stalin privato. Collezionista di dischi, ne aveva 2700 nella sua dacia vicina a Mosca. La sua voracità come lettore («almeno 4-500 pagine al giorno», diceva) non sembra confermata dalle dimensioni della sua biblioteca modesta e centrata soprattutto su Lenin e sulla dottrina marxista. Ma c'è da aggiungere che Stalin annotava per ore le tonnellate di rapporti che accumulava sulla scrivania anche nei periodi di vacanza. La famiglia non era una priorità. Riuscì a «purgare» anche quella, facendo sparire i parenti più insistenti. Tra i figli, l'unico a godere di qualche protezione fu Vasilij ma il comportamento disonorevole nel corso della Seconda guerra mondiale convinse Stalin ad abbandonarlo a un destino di alcolista. Sempre soggetto ad attacchi d'ira imprevedibili, Stalin aveva servitori e vassalli ma non amici. Il 1° marzo 1953 ebbe un grave malore. Per ore nessuno osò intervenire nonostante il dittatore, contrariamente alle sue abitudini, non uscisse dalla stanza da letto. Quattro giorni dopo, Stalin morì. Ma la tragedia non era ancora finita. Anche l'uscita di scena, con i pubblici funerali, fu segnata dal sangue: nella ressa morirono 109 persone.

CHI HA UCCISO BENITO MUSSOLINI?

Mussolini, 70 anni fa la cattura: la verità è ancora lontana, scrive “Il Messaggero” il 25 aprile 2015. Sulla cattura di Mussolini, nel corso di 70 anni, sono stati versati fiumi di inchiostro, ma forse non li conosceremo mai nella loro verità fattuale. Sono decine e contrastanti, le versioni fin qui pubblicate sulle ultime ore del duce. Anche perché se Mussolini fosse riuscito a fuggire l'eventuale e successivo processo probabilmente non lo volevano nemmeno gli inglesi, il premier Winston Churchill in particolare (a prescindere dall'esistenza o meno di un carteggio compromettente con Mussolini che nessuno ha mai trovato). Al crollo della «linea gotica», Benito Mussolini si trasferì a Milano (17 aprile 1945) e tentò di contrattare la propria incolumità con il Comitato di Liberazione Nazionale. In fuga verso Como, in divisa da soldato tedesco, fu arrestato dai partigiani e passato per le armi per ordine del Cln il 28 aprile 1945. Il suo cadavere (insieme a quelli di Claretta Petacci, la donna cui era legato dal 1936, e di altri gerarchi fucilati) fu esposto dai partigiani a Milano in piazzale Loreto, a simbolo della fine del fascismo. Sulla morte di Benito Mussolini (28 aprile 1945) esiste una versione ufficiale, secondo cui il duce fu ucciso a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, non lontano dal luogo dove era stato catturato, da un plotone di partigiani comandato da un esponente comunista, il colonnello Valerio, al secolo Walter Audisio, per ordine dei capi del Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia. Questa versione è stata spesso contestata e presenta, in effetti, secondo più storici, non poche contraddizioni. Sono stati messi in dubbio l'identità degli esecutori e la legittimità dell'ordine impartito dal Cln. Ed è stato anche ipotizzato un intervento dei servizi segreti inglesi nella morte del dittatore fascista. Come ha ricordato lo storico Giovanni Sabbatucci, «la verità è che Mussolini fu ucciso dai partigiani perché era importante che fosse la Resistenza italiana ad assumersi l'onere dell'esecuzione; e perché, in caso di consegna agli Alleati ci sarebbe stato un processo che avrebbe chiamato in causa responsabilità e complicità diffuse, in un momento in cui i governanti italiani tendevano a separare le responsabilità del paese da quelle del fascismo». La responsabilità dell'esecuzione fu rivendicata dallo stesso Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia con un comunicato del 29 aprile 1945. Dopo il fallimento della mediazione nell'arcivescovado di Milano, nella serata del 25 aprile 1945, mentre i capi della resistenza danno l'ordine dell'insurrezione generale, Mussolini lasciò Milano e partì in direzione di Como. Sui motivi della fuga sono state fatte mille congetture: dall'ipotesi di passare la frontiera e rifugiarsi in Svizzera a quella di volare in Spagna, fino al progetto del «ridotto» della Valtellina per tentare di combattere fino alla fine. Nel pomeriggio del 27 aprile, durante l'ispezione della colonna tedesca in piazza a Dongo, Mussolini venne riconosciuto dai partigiano su uno dei camion; fu disarmato del mitra e di una pistola, arrestato e preso in consegna dal vicecommissario di brigata Urbano Lazzaro «Bill». Anche tutti gli altri componenti italiani al seguito vennero arrestati. Il fermo della colonna motorizzata tedesca e l'arresto di Mussolini e del suo seguito fu effettuato dai partigiani della 52a Brigata Garibaldi «Luigi Clerici», comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, nome di battaglia «Pedro». Il suo commissario politico era Michele Moretti, detto «Pietro Gatti», vice commissario politico Urbano Lazzaro «Bill» e il capo di stato maggiore Luigi Canali, detto «Capitano Neri».

La fuga di Mussolini, il mistero del lasciapassare per la Svizzera. Un documento inedito dimostrerebbe l'esistenza di un via libera delle autorità. Lo storico Cavalleri: "Incontrai chi partecipò allo spoglio dei documenti del Duce e non parlò mai di quel via libera. Mussolini lo chiese mesi prima per la moglie e i figli", scrive Federico Magni l'8 gennaio 2016 su “Il Giorno”. Non sarà mai fatta piena luce sulle ultime ore di vita di Benito Mussolini, almeno fino a quando i fascicoli che viaggiavano con lui in due borse, quando venne arrestato a Dongo il 27 aprile del 1945, non verranno tutti alla luce dopo che alcuni di questi furono trafugati.  Ed è così che in questi giorni si torna a parlare di ciò che accadde durante quella fuga alla fine della guerra attraverso le parole di Elena Curti, 93 anni, figlia naturale di Mussolini, in un’intervista rilasciata a Oggi e un documento inedito del 1947 pubblicato dal settimanale con le testimonianze giurate dei partigiani che avevano assistito allo spoglio dei fascicoli di Mussolini. Secondo quei documenti Benito Mussolini avrebbe avuto con sé un lasciapassare per poter entrare in Svizzera quando venne arrestato dai partigiani. Il salvacondotto gli era stato concesso da un politico elvetico. «La Svizzera era una possibile meta, ma alla frontiera di Porlezza non ci fecero passare. Mio padre aveva la mente assente, non sapeva bene cosa fare, cambiava spesso idea. La sua amante Clara Petacci mi scambiò per un’altra sua amante, e mi urlò contro. Poi le spiegarono tutto», ha raccontato la figlia del Duce nell’intervista. «È vero che ci fu una riunione nel 1947 in merito ai documenti ritrovati fra gli oggetti del Duce. Vi partecipò anche Oreste Gementi, all’epoca era comandante della piazza di Como. Ma quando parlai con lui non mi accennò mai del lasciapassare fra i documenti ritrovati nelle borse appartenute a Mussolini - spiega Giorgio Cavalleri, storico comasco e fra i massimi esperti di quelle fasi della storia italiana e di ciò che accadde sulle sponde del Lario durante le ultime ore di Mussolini -. È vero anche che alcuni documenti contenuti nelle borse erano stati trafugati». Secondo lo storico, il Duce chiese, mesi prima, a un rappresentante svizzero di ottenere un lasciapassare per la moglie e i figli. Il 26 aprile Rachele Mussolini e due figli tentarono di entrare in Svizzera ma li rimandarono indietro. «Solo la figlia minore, colpita da poliomielite avrebbe ottenuto il permesso», continua Cavalleri.  Benito Mussolini inoltre non arrivò mai fino a Porlezza. Il viaggiò si fermò a Grandola.  «Gli unici che provarono a entrare in Svizzera furono Guido Buffarini Guidi e Angelo Tarchi, ministro delle finanze, che furono subito fermati e arrestati verso il lago di Piano. Fu don Emesio Farina, nel suo libro di memorie, a raccontare che la volontà di Mussolini era quella di passare da Buggiolo (un sentiero che portava in territorio elvetico) e che la notizia gli sarebbe stata rivelata dal Cardinale Ildefonso Schuster, con il quale il Duce si era incontrato per stabilire se si poteva o meno arrivare un accordo per una resa ed era poi partito per Como. Ma sono cose difficili da confermare oggi».

APPUNTAMENTO SUL LAGO. L'ultimo piano di Benito Mussolini, 1990. Libro di Fabio Andriola. Ipotizzare un possibile rendez-vous sul lago di Como (incentrato sullo scambio di documenti contro garanzie di un trattamento equo al tavolo della pace) porta necessariamente con sé un corollario: passare dallo studio di Mussolini “oggetto” della storia allo studio di Mussolini “soggetto” di storia. Appurare i meccanismi che condussero Mussolini sulla strada di Dongo potrebbe rivelare interessantissimi retroscena su molti aspetti della storia italiana – e forse non solo – di quegli anni. Bisogna distinguere fra problemi di reale incidenza e aspetti che, pur storicamente irrilevanti, umanamente toccano come pochi. Sono loro, in fondo, che hanno dato la misura del dramma e che ne hanno decretato l’interesse eccezionale: raramente la storia ha offerto una vicenda così intricata, avvincente e misteriosa. Una vera e propria spy story dove si intrecciano politica, spionaggio, cronaca nera, storie d’amore e d’amicizia. Una storia dove umanità e disumanità, verità e menzogna, amore e odio si mescolano (in proporzioni abnormi) in un cocktail di rara efficacia, dove il mistero, quello vero e non quello creato a tavolino da un abile romanziere, dona il suo tocco inconfondibile. Ma più che di un solo mistero sarebbe meglio parlare di più misteri: quei misteri che stanno dietro ai mille protagonisti di questa storia, una storia dove pare di capire che i personaggi più importanti sono forse quelli di cui si parla di meno. Assassini senza volto, carte sparite, un vero e proprio tesoro scomparso, strani personaggi che appaiono per subito scomparire nell’ombra, strane morti collaterali, un fitto intrigo internazionale che vede capi di partito e ministri, uomini di Chiesa e capi di Stato, spie ed avventurieri, soldati e delinquenti muoversi in uno scenario tanto vero quanto irreale per quella atmosfera cupa che pervase quei giorni sanguinosi e tragici come pochi, fatta di una lotta ormai agli sgoccioli, di animi affranti, disposti a tutto pur di ben morire o di salvarsi comunque. E tutto gira attorno a un uomo, le sue nascoste intenzioni, i suoi fedeli e i suoi nemici, le sue carte e la sua fine. Una fine che, a detta di alcuni, mancò di grandezza: ma chi può veramente dire come morì Benito Mussolini? (Dalla Premessa di F. Andriola).

Fabio Andriola (Brescia, 1963), giornalista professionista, dirige il mensile “Storia in rete” e l’omonimo sito (storiainrete.com). È autore di numerosi reportage storici e ha all’attivo vari libri di storia tra i quali Appuntamento sul lago – l’ultimo piano di Benito Mussolini (Sugarco, 1990); La lunga notte dell’informazione – la prima guerra del Golfo tra bugie e spezzoni di verità (Settimo Sigillo, 1993); L’anno dei complotti (con Massimo Arcidiacono, Baldini & Castoldi, 1993), una storia controcorrente della fine della prima Repubblica italiana; Mussolini, segreto nemico di Hitler (Piemme, 1997); Luigi Rizzo, biografia dell’eroe della Regia Marina (Ufficio Storico Marina Militare, 2000).

E' sotterrato in Italia il Carteggio Mussolini-Churchill? Di Alberto Bertotto. Molti documenti importanti che Mussolini portava con se al momento dell’epilogo gli sono stati confiscati dai partigiani della 52° brigata Garibaldi, quelli che lo hanno arrestato sulla piazza di Dongo alle 15,30 del 27 aprile 1945. Gli incartamenti erano racchiusi in tre borse di cuoio marrone. Una era stata consegnata dal Duce al fratello di Claretta Petacci, Marcello, la seconda la custodiva l’ufficiale d’ordinanza del leader fascista, Vito Casalinuovo (colonnello della Guardia Nazionale Repubblicana), la terza Mussolini se la portava personalmente appresso. Tuttavia non erano questi le carte mussoliniane più scottanti (il carteggio Churchill-Mussolini?). In un bel libro di accalorate memorie, “Il chiodo a tre punte”, pubblicato nel 2003 da Gianni Iuculano Editore, la oggi ottantasettenne Elena Curti, una figlia naturale di Mussolini, ha scritto: <<Mussolini salì sull’autoblinda a Menaggio (ore sei del 27 aprile 1945) senza mai abbandonare una busta di pelle marrone di un 25-28 centimetri per 18 circa che teneva tra le mani. Una volta seduto, si mise la busta sulle ginocchia e vi appoggiò sopra le mani con fare possessivo. Mi guardava: ‘Qui ci sono dei documenti di estrema importanza. Qui c’è la verità di come sono andate le cose e chi sono i veri responsabili della guerra. Non solo gli italiani, ma soprattutto gli inglesi e gli americani devono saperlo e tutto il mondo si sorprenderà’. Mi affrontava come al solito, ponendo il tema direttamente, senza preamboli. Spesso mi sono domandata che cosa mi avrebbe risposto se gli avessi chiesto spiegazioni. Forse sapremmo qualcosa di più su quei fantomatici documenti di cui si è tanto parlato, forse sapremmo in che consisteva la verità. Quando il Duce scese dalla blindo, vestito da sottoufficiale della Luftwaffe (FLAK), portava la busta di pelle con sé. Le sue dimensioni gli permettevano di nasconderla sotto la giacca>>. Nel 1995 il noto giornalista-scrittore Raffaello Uboldi ha dato molta importanza a queste parole. Gli erano state riferite dalla signora Curti nel corso di una lunga intervista telefonica. Il che lo ha indotto a scrivere un articolo, “Quella busta che mio padre teneva stretta”, pubblicato il 17 settembre su un quotidiano milanese. Era la seconda volta che si parlava sulla carta stampata, con una dovizia di dettagli, del contenuto del piccolo involucro marrone conservato con religiosa cura da Mussolini in fuga verso il Ridotto Alpino Repubblicano: la Valtellina (già in precedenza Elena Curti, prima degli anni sessanta, aveva detto le stesse cose ad un’altra testata giornalistica) (E. Curti, comunicazione personale). Accompagnato dalla Curti e da altri fedelissimi in camicia nera, il Duce voleva consumare, tra i picchi innevati delle alpi, il virile ed agognato olocausto redentore, un sudario di ferro e fuoco che Alessandro Pavolini, il segretario del Partito Fascista Repubblicano, aveva da tempo simbolicamente iconizzato (V. Podda, “Morire con il sole in faccia”, Ritter, 2005). Ha annotato il gerarca fascista Asvero Gravelli (“Mussolini aneddotico”, Latinità, s. d.), riferendo un fatto accaduto nella Prefettura di Milano il 20 aprile del 1945: <<Mussolini sollevò lo sguardo su di me che gli stavo di fronte, lentamente portò la mano sinistra sulla parte destra interna della giubba, ne estrasse un pacchetto di carte, legato, e protendendolo verso di me, esclamò: “Gravelli! Bisogna resistere ancora un mese: ho tanto in mano da vincere la pace. Combatteremo e moriremo bene, se necessario, ma ricordatevi (e qui scandì le parole sillabando) ho tanto in mano da giocare la pace”>>. Scortata da un reparto tedesco di circa 200 uomini appartenenti alla Luftwaffe, la colonna Mussolini, in ripiegamento verso Sondrio, era stata bloccata a poche centinaia di metri da Dongo (Musso) a causa di uno sbarramento stradale messo in posa dai garibaldini che operavano sui contrafforti dell’alto Lario. Dopo un estenuante trattativa, i partigiani avevano consentito ai soli nazisti la facoltà di proseguire verso il nord. Prima però era necessario che i camion della Luftwaffe fossero ispezionati sulla piazza di Dongo per escludere l’eventuale presenza di infiltrati fascisti. Questi, infatti, si dovevano consegnare ai patrioti comunisti che erano scesi dal monte Berlinghera per partecipare all’ultima fase del moto insurrezionale. Il tenente delle SS Fritz Birzer (comandante della scorta tedesca che doveva proteggere il capo fascista), il capitano Otto Kisnat (Kriminal Inspektor alle dipendenze dei servizi segreti di sicurezza del Sichereits Dienst e addetto alla persona del Duce) ed il capitano Hans Fallmeyer (responsabile del reparto della Luftwaffe) hanno concordemente deciso di tentare di mettere in salvo Mussolini (mettere in salvo è forse un eufemismo): lo volevano nascondere, confuso tra gli avieri del Reich, su uno dei loro automezzi. Per la bisogna il Duce ha indossato un cappotto ed un elmetto delle truppe del Fuhrer ed in mano gli è stata messa una machinepistole calibro 38. Prima però c’è stato un importante colloquio. In realtà, tale dialogo interlocutorio non è stato dovutamente vagliato (o forse troppo) dagli storici che si sono interessati sull’argomento dei carteggi mussoliniani. Ha scritto il giornalista Giuseppe Grazzini (A Dongo Mussolini aveva un pacchetto in tasca. Epoca, 17 ottobre 1965, n° 786): <<Mussolini, per quanto riluttante, finisce per cedere ed indossa il famoso cappotto. Nella tasca interna della giacca egli ha ancora l’ultima delle ultime carte, il pacchetto dei documenti che probabilmente è quello che ha fatto vedere a Gravelli (ed alla Curti, ndr), pochi giorni prima. E’ un plico involtato in carta catramata, spesso due centimetri. ‘In vostre mani sarà più sicuro’, dice Mussolini consegnando il plico al capitano Kisnat. ‘Comunque, se come temo non dovessimo più rivederci, farete in modo che i documenti qui raccolti vengano un giorno pubblicati’. Kisnat è commosso. ‘Sono certo’, risponde, ‘che tutto andrà per il meglio’. Mussolini lo guarda, sorride tristemente e crolla il capo. ‘Siamo alla fine, capitano’, gli dice. Poi la colonna si rimette in marcia. Il giorno dopo, quando Mussolini è già caduto sotto i colpi del colonnello Valerio, Otto Kisnat si avvia con gli altri militari tedeschi verso il confine svizzero. I partigiani hanno assicurato via libera, a patto di consegnare le armi e gli automezzi e di subire una minuziosa perquisizione. E’ a questo punto che Kisnat, poco prima dell’ultimo posto di blocco (Ponte del Passo, ndr), decide di liberarsi del plico. Lo infila nella custodia di metallo del suo necéssaire ed interra la scatola in un punto vicino alla strada. Chi cerca di ricostruire gli ultimi giorni di Mussolini, nella confusione di mille testimonianze contrastanti, trova soltanto un elemento che ricorre con assoluta certezza: Mussolini è arrivato alla fine, tutto sta crollando attorno a lui, il tradimento e la sconfitta lo soffocano da ogni parte, ma la sua preoccupazione è una sola, insistita, assillante: salvare i documenti. Per il domani, ripete a tutti>>. Quasi sicuramente molte carte del Duce sono state recuperate dagli agenti dei servizi segreti alleati. Che in Inghilterra siano finiti papiri sequestrati a Mussolini in quel di Dongo lo ammettono gli stessi storici inglesi (R. Lamb. Mussolini e gli inglesi. TEA, 2002). Ma qualche cosa non è a Londra (Foreing Office) o a Washington (CIA). Chiosa, infatti, il Grazzini: <<I documenti più importanti, quelli che Mussolini tenne fino all’ultimo nella tasca della giacca, dove noi mettiamo il portafoglio, sono ancora sepolti a pochi passi dal confine svizzero, nella scatola arrugginita dove vent’anni fa il capitano del Sichereits Dienst Otto Kisnat aveva tenuto il rasoio e le lamette da barba. Fino a quella sera d’aprile, quando nel più anonimo dei necéssaire entrò un pacchetto di carta catramata, spesso due centimetri. In quel plico, quasi sicuramente, ci sono i messaggi segreti che Churchill mandò a Mussolini. Prima della guerra. E durante la guerra>>. Su questo punto E. Curti non è d’accordo. Secondo lei un Mussolini riluttante, perquisito all’interno del Municipio di Dongo dal comandante partigiano Pier Luigi Bellini delle Stelle (Pedro), avrebbe consegnato a Pedro le lettere che aveva riposto nella tasca interna della giacca della sua divisa da Caporale d’Onore della Milizia (E. Curti, comunicazione personale). Per amor del vero è necessario riportare quanto si legge sul libro “L’ora di Dongo” (Alessandro Zanella, Rusconi, 1993): <<Nel tardo pomeriggio del 26 aprile, alla curva di San Gregorio di Gravedona vengono fermati dai partigiani tre tedeschi che dicono di voler andare in Svizzera. Dai loro documenti risulta trattarsi di tre ufficiali della Kriminal Polizei bei Duce: colonnello Jandl, capitano Joost e tenente (capitano, ndr) Kisnat: gli ufficiali addetti al Duce. Il terzetto dei carcerieri-spie è riuscito a riunirsi a Como, quel giorno e, lasciando senza saperlo al centro-lago il Duce, perché non ha scoperto dove si trova, viaggia diretto al Nord>>. Anche i partigiani Pier Luigi Bellini delle Stelle (Pedro) ed Urbano Lazzaro (Bill) hanno segnalato il fatto descritto dallo Zanella (Dongo: la fine di Mussolini. Mondadori, 1962). Pietro Carradori, il fedele attendente del Duce catturato a Dongo, non ha mai menzionato il Kisnat nelle sue memorie (L. Garibaldi. Vita col Duce. Effedieffe, 2001). Nemmeno Ray Moseley ne parla nel volume che ha dato recentemente alle stampe (Mussolini. I giorni di Salò. Lindau, 2006). Lo stesso dicasi per Remigio Zizzo in “Mussolini. Duce si diventa” (Keybook, 2003). Idem come sopra se si legge il “Contromemoriale” di Bruno Spampanato (C. E. N., 1974) o “Ultimo atto” di Romano Mussolini (Rizzoli, 2005). Su “L’Arena” di Verona, Jean Pierre Jouve (Intervista a Fritz Birzer, il comandante della scorta tedesca di Mussolini. 1 e 3 marzo, 1981) ha scritto: <<Il capitano Kisnat era partito assieme al convoglio di Mussolini da Gargnano il 18 aprile ed era rimasto a Milano fino al 24 aprile, poi, improvvisamente, aveva fatto ritorno sul Garda, per motivi mai appurati, ed era riapparso sulla scena nel pomeriggio del 26 al ‘Miravalle’ di Grandola (la caserma della Milizia confinaria dove si era rifugiato il Duce dopo aver abbandonato Menaggio, ndr)>>. Sullo stesso giornale viene riportato quanto ha detto il tenente delle SS Fritz Birzer: <<Quando a Musso il 27 aprile ho proposto a Mussolini di indossare il cappotto tedesco, il capitano Kisnat, presente alla scena, non disse nulla, né per opporsi alla mia iniziativa, né per approvarla>>. Ricciotti Lazzero trascrive molti dialoghi intercorsi tra Mussolini e il Kisnat prima che la colonna del Duce fosse bloccata a Musso (Un passo verso la verità sulla morte di Mussolini. Dongo. Epoca 18 e 25 agosto, 1968, n° 934-935). Se diamo retta ad Antonio Spinosa (Mussolini il fascino di un dittatore. Mondadori, 1989) è stato proprio Otto Kisnat a dare a Mussolini un paio di occhiali scuri quando stava per salire, camuffato, sul camion dei tedeschi. Lo storico Gian Franco Bianchi è pure lui propenso a credere che il Kisnat faceva parte del contingente tedesco impegnato a scortare il capo fascista lungo la lariana occidentale (Mussolini. Aprile ’45: l’epilogo. Editoriale Nuova, 1985). Ciò vale anche per Antonio Marino (Dongo, capolinea delle illusioni. Enzo Pifferi Editore, 1990) e per Franco Bandini (Le ultime 95 ore di Mussolini. Mondadori, 1959). Pur criticando il memoriale Kisnat, Fabio Andriola (Appuntamento sul lago. Sugarco, 1990) ha affermato che il capitano tedesco era sul posto al momento del trasbordo mussoliniano sugli automezzi della Luftwaffe. Dello stesso avviso è Eric Kuby (Il tradimento tedesco. Rizzoli, 1983). Luigi Imperatore, invece, dà molta importanza al personaggio Kisnat e ne sottolinea tutte le iniziative pro-mussoliniane prese in quel di Musso (I giorni dell’odio. Ciarrapico Editore, 1975). La presenza del Kisnat a fianco del Duce durante le ore che hanno preceduto la sua cattura è ulteriormente garantita (?) da un fatto: l’attore Manfred Freyberger lo ha inpersonificato nel film di Carlo Lizzani intitolato “Mussolini: Ultimo atto” (1974). Di Alberto Bertotto.

Franco Bandini - Vita e morte segreta di Mussolini, 1978. «La sostanziale modestia storica del ruolo di Mussolini dipende dal fatto che egli percorse, rumorosamente e digrignando i denti un cammino che era già stato tracciato prima di lui, e che era in un certo modo fatale. Né Mussolini, né altri avrebbero potuto infatti sopperire alle deficienze intrinseche del nostro popolo e della nostra classe dirigente: che potevano essere mascherate e addirittura passare inavvertite nei decenni della politica “del piede in casa” e “delle mani nette”. Ma che sarebbero risultate evidenti non appena fossimo entrati nel “grande gioco”. Mussolini non inventò nulla, non impresse alcun colpo di timone veramente decisivo alla nostra rotta: si limitò a salire su un cavallo già bardato a battaglia, e si lasciò condurre – molto grottescamente e con la giunta di parecchi spropositi personali – dove il cavallo voleva andare.»

Dongo: mezzo secolo di menzogne, 1993. Libro di Urbano Lazzaro. Da chi e come è stato ucciso Mussolini? Che fine ha fatto l'"Oro di Dongo"? Chi ha avuto e aveva interesse a nascondere la verità? Urbano Lazzaro, ultimo sopravvissuto del commando che ebbe in consegna il dittatore nelle sue ultime ore, ha deciso finalmente di rivelare ciò che non aveva mai detto e di ricostruire in maniera definitiva tutta la vicenda.

Urbano Lazzaro: "Così arrestai Mussolini". Il mitico "Bill" che bloccò Mussolini in fuga: "Su quella vicenda, mezzo secolo di menzogne. Io volevo la rappacificazione già nel '45", scrive Mauro Suttora il 18 giugno 1997. Non capita spesso di arrestare e uccidere un dittatore. Anzi, non succede quasi mai: soltanto Benito Mussolini e Nicolae Ceausescu, fra tutti i (numerosi) tiranni del nostro secolo, sono stati giustiziati. Così, in questo paesino fra le risaie vicino a Vercelli, vive un pezzo di Storia. Quella con la S maiuscola, che rimarrà scritta nei libri anche fra duecento anni. Nel nostro caso la Storia si chiama Urbano Lazzaro, ha 72 anni, e una faccia simpatica a metà tra Frank Sinatra e papa Wojtyla. È lui il famoso «partigiano Bill", che alle tre e mezzo del pomeriggio del 27 aprile 1945 salì su un camion di soldati tedeschi in fuga a Dongo, sul lago di Como, riconobbe Mussolini che indossava una divisa dell'esercito di Hitler, lo disarmò, lo strappò ai nazisti incaricati di proteggerlo e lo arrestò "in nome del popolo italiano". Lazzaro è l'ultimo sopravvissuto di quegli eventi drammatici e ancora misteriosi. Perché in realtà nessuno sa bene cosa sia successo nelle ore successive, fino alla fucilazione del dittatore e della sua amante Claretta Petacci. Soltanto nel gennaio dell'anno scorso, infatti, il Pds ha messo a disposizione degli storici le carte del cosiddetto "memoriale Lampredi" conservate negli archivi del Pci. E sempre nel '96, poco prima di morire, lo storico del fascismo De Felice avanzò l'ipotesi che siano stati gli inglesi ad ammazzare Mussolini, perché temevano che rendesse pubbliche le lettere segrete di plauso che gli aveva mandato Winston Churchill. È materia che scotta, quindi, sulla quale sono stati scritti decine di libri. Quattro portano la firma di Lazzaro: il primo negli anni '60, l'ultimo (Dongo, mezzo secolo di menzogne) pubblicato appena due mesi fa negli Oscar Mondadori. Ma solo adesso, 52 anni dopo quei tragici giorni, gli animi si sono placati al punto che perfino i post-fascisti di Alleanza nazionale hanno chiamato il partigiano Bill a tenere una conferenza, venerdì 13 giugno, nella loro sede di Vercelli. «Ho invitato Lazzaro", ci spiega Lodovico Ellena, 40 anni, dirigente di An, professore di filosofia e vicepreside di un liceo scientifico a Torino, "perché erano anni che volevamo sentire la sua voce. Per la verità non pensavamo che accettasse. Invece, eccolo qui. Sono emozionato nel vederlo per la prima volta in faccia". Siamo stati noi di Oggi, infatti, a combinare il primo incontro fra Ellena e Lazzaro nella casa di quest'ultimo, prima dell'evento di Vercelli. L'imbarazzo è palpabile. Soprattutto da parte di Ellena, il quale non rinnega di avere militato nel Msi fin dai caldi anni '70, quando la politica fra estremisti di destra e sinistra si faceva a colpi di spranga e manganello. E quando per i giovani neofascisti come lui Mussolini era un mito. Ellena non nasconde che la decisione di invitare il partigiano che distrusse il Mito, impedendogli di scappare in Svizzera o in Germania, e comunque di salvare in qualche modo la pelle, è stata sofferta: "Non tutti i soci del nostro circolo erano d'accordo. Curiosamente, però, a opporsi non sono stati i più anziani, che ricordano direttamente quei giorni, ma alcuni dei più giovani. Però la maggioranza è d'accordo con quest'atto di riappacificazione..." Il vecchio partigiano Bill interrompe Ellena sul divano di casa sua, lo guarda fisso negli occhi e gli dice: "Il primo che ha voluto la pace sono stato io. E sa quando? Nel maggio 1945. Al funerale di un mio compagno partigiano ucciso dai fascisti, del quale avevamo riesumato la salma per dargli una normale sepoltura, io dissi queste solenni parole: 'Adesso che la guerra è finita, di fronte al mio compagno morto per la libertà chiedo a tutti di perdonare'. Ma molti non furono d'accordo con me". Non solo molti non furono d'accordo con Urbano Lazzaro, il quale a soli vent'anni era stato eletto vicecommissario della Cinquantaduesima brigata Garibaldi, ma per il partigiano Bill che non ha mai voluto conformarsi alle verità di partito i guai cominciarono allora. "Già quando mi portarono via Mussolini, che era sotto la mia custodia, sentii puzza di bruciato", dice Lazzaro. "L'avevamo arrestato noi, e assieme a lui avevamo preso anche un tale che diceva di essere console della Spagna, sua moglie, i due figlioletti e una donna che non conoscevo. Poi mi dissero che il console era Marcello Petacci, e che la donna era sua sorella Claretta. Ma mentre noi eravamo occupati a controllare che la colonna di nazisti non aprisse il fuoco, e che non piombassero su di noi reparti di camicie nere, Mussolini e la sua amante furono portati via dal municipio di Dongo, prima a Germasino e poi a Bonzanigo, dove passarono l'ultima notte". I partigiani avrebbero dovuto consegnare Mussolini agli alleati, per un pubblico processo. Ma i capi milanesi dei partiti di sinistra (Sandro Pertini per i socialisti, Luigi Longo per i comunisti e Leo Valiani per gli azionisti) temevano che così Mussolini l'avrebbe in qualche modo fatta franca, e decisero di portarlo a piazzale Loreto per fucilarlo. A Milano, però, arrivò solo il cadavere del duce. Non solo, ma secondo alcuni Mussolini e la Petacci furono ammazzati prima dell'esecuzione ufficiale a Giulino di Mezzegra. Ormai, mezzo secolo dopo, questi possono sembrare particolari irrilevanti. Ma può darsi che i partigiani siano stati preceduti dagli inglesi. Oppure che abbiano voluto giustificare l'uccisione di una donna, la Petacci, che aveva l'unica colpa di amare Mussolini. "In ogni caso", ribadisce Lazzaro, "l'alto dirigente del Pci giunto da Milano col nome di battaglia di 'colonnello Valerio' per eseguire la condanna a morte non era Walter Audisio, ma Luigi Longo. Io l'ho visto, e la sua faccia me la ricordo bene". Longo non avrebbe potuto ammettere la sua partecipazione, perché questo avrebbe pregiudicato la sua carriera politica: fu segretario nazionale del Pci dal '64, dopo la morte di Palmiro Togliatti, al '72, quando gli subentrò Enrico Berlinguer. L'altro grande mistero è quello dell'"oro di Dongo": l'equivalente di 60 miliardi di oggi che il duce e i gerarchi avevano con sé. Lazzaro ripete di avere depositato le borse sequestrate a Mussolini alla Cariplo di Domaso (Como), e d'altra parte sia lui sia altri accusati di avere trafugato il tesoro sono stati assolti in un processo a Padova nel '57. Buona parte di quella cifra finì probabilmente nelle tasche del Pci, che la investì fra l'altro per acquistare palazzi come quello dove oggi sta il cinema Arlecchino in via San Pietro all'Orto a Milano, o la tipografia romana dell'Unità. Adesso il partigiano Bill ha detto la sua verità anche agli ex nemici. Ma i libri di storia aspettano ancora la versione ufficiale. Mauro Suttora

Morto il partigiano «Bill», l'uomo che arrestò il Duce, scrive "Il Giornale" il 5/01/2006. È morto ieri a Vercelli all'età di 81 anni Urbano Lazzaro, il partigiano della 52ª «Brigata Garibaldi» che arrestò Benito Mussolini a Dongo mentre il Duce tentava la fuga in Svizzera. Lazzaro, meglio noto con il soprannome di «Bill», era stato ricoverato nei giorni scorsi all'ospedale di Vercelli (le esequie si svolgeranno oggi nella chiesa di San Germano, alle 15, poi la salma verrà trasferita nel cimitero di Crova). Fu proprio Lazzaro a identificare Mussolini durante la perquisizione al posto di blocco dei partigiani a Dongo, il 27 aprile del 1945. Il Duce fu riconosciuto vestito da soldato tedesco a bordo di un camion della Flack mentre teneva la testa rivolta in basso. Lazzaro si fece consegnare da Mussolini un mitra e una pistola che aveva con sé. Dopo la guerra, come funzionario della Sip, la società idroelettrica piemontese, Lazzaro aveva girato mezzo mondo. Si era sposato a San Germano Vercellese con Angela Robbiano, di qualche anno più giovane, poi si era stabilito a Rio de Janeiro dove tuttora abitano due figlie, una magistrato e l'altra direttrice dell'Osservatorio astronomico, mentre una terza figlia, Cinzia, abita a Vercelli. A San Germano tornava spesso, soprattutto destate, e abitava in una villetta nel centro del paese. «Bill», negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, era stato coinvolto come coimputato nel celebre processo per loro di Dongo, processo mai concluso. Il partigiano «Bill» raccontò i retroscena del 27 aprile del 1945 in un libro scritto a quattro mani insieme con Pier Bellini delle Stelle, detto «Pedro», il comandante della brigata garibaldina in cui militava. Il libro, dal titolo Dongo, mezzo secolo di menzogne, è il «diario» in cui Lazzaro fornisce la sua versione dell'arresto al posto di blocco partigiano e inquadra la cattura del Duce nel contesto storico di quei giorni. Dopo l'arresto, Mussolini fu portato nel municipio di Dongo scortato da alcuni partigiani, tra i quali proprio «Bill». E fu sempre Lazzaro a rivelare che l’uomo che fucilò Mussolini non era il colonnello «Valerio», bensì Luigi Longo, comandante generale delle «Brigate Garibaldi» e numero due del Partito comunista, smentendo così una fotografia pubblicata sul Corriere della sera dell’epoca che lo avrebbe immortalato, in quelle stesse ore, durante un comizio a Milano. Un capitolo, quello della morte del Duce, al quale la storia non ha ancora messo la parola fine.

Chi ha fucilato Benito Mussolini? Scrive Italoeuropeo il 29 gennaio 2009. Poche centinaia di metri di distanza e poche ore di differenza. Che importanza storico-politica può avere spostare il luogo e l’orario di morte di un prigioniero la cui sorte era, probabilmente, segnata? Apparentemente nessuna.  Perché allora il nome di colui che ha ammazzato Benito Mussolini il 28 aprile del 1945 cambia ogni volta che qualcuno affronta il problema della sua esecuzione? Perché, dopo sessantaquattro anni, non è possibile stabilire con esattezza chi ha realmente fatto fuoco? Perché c’è l’interesse a mantenere le cose come stanno, a lasciare che i dubbi sostituiscano le certezze, a rendere incomprensibile un evento che ha sancito il passaggio da un regime dittatoriale ad una forma di governo che si dice essere democratica? Gli interessati sono coloro che contestano la versione dei fatti cosiddetta “ufficiale”, cioè quella, imposta dal PCI, che si legge a tutt’oggi sui libri di storia? Certamente no. Se c’è gente che ha tutto da guadagnare a mescolare le carte in tavola questi sono i comunisti o post-comunisti italiani. Allora si capisce come mai viene tollerato il palleggiarsi di responsabilità nell’ambito dello stesso terzetto di giustizieri che hanno detto di aver ucciso il Duce davanti al cancello di villa Belmonte (Giulino di Mezzegra) alle 16,10 di un uggioso sabato di fine aprile. Il killer per antonomasia Walter Audisio, alias colonnello Valerio (W. Audisio. In nome del popolo italiano. Edizioni Teti, 1975), viene baipassato dall’alter ego di Luigi Longo, il partigiano Guido, Aldo Lampredi (M. Caprara. Quando le botteghe erano oscure. Il Saggiatore, 1997) a sua volta messo in secondo piano da Michele Moretti (Pietro), il commissario politico della 52° Brigata Garibaldi reclutato a Dongo perché sapeva dove il capo del fascismo e la sua compagna, Claretta Petacci, avevano trascorso la loro ultima notte in quel di Bonzanigo (F. Giannantoni. “Gianna” e “Neri”: vita e morte di due partigiani comunisti. Mursia, 1992; M. Nese. Ma quale pista inglese. Mussolini fu eliminato per ordine del Cln. Il Corriere della Sera, 30 Agosto, 2004; F. Magni. La verità è già scritta. Moretti uccise Benito. Il Giorno, 7 Settembre, 2006). Si tollera che l’Audisio faccia la figura del bugiardo purché venga salvaguardata la vulgata che prevede un comunista come “esecutore di alte opere di giustizia” e che indica nelle ore pomeridiane e nella via XXIV maggio, quella antistante al cancello di villa Belmonte, il luogo che ha visto il tragico epilogo del ventennio fascista. Si concede ad un integerrimo patriota azionista, l’ingegner Luigi Carissimi Priori, la facoltà di revisionare l’accaduto quando ha sostenuto che a sparare sono stati più di un killer e con armi diverse (R. Festorazzi. Churchill-Mussolini: le carte segrete. Datanews, 1998) e si tace quando il taciturno e ormai vecchio Michele Moretti rivela ad un giornalista russo (Mikail Ilinski) di aver personalmente esecutato Mussolini e Claretta (F. Bartolini. Lario nascosto. Editoriale, 2006). Tuttavia, se si spostano gli orari al mattino-primo pomeriggio e i luoghi dell’esecuzione la tolleranza si riduce a zero anche se gli aguzzini hanno pure loro il fazzoletto rosso al collo. Ecco che allora il sedicente carnefice di Mussolini Giuseppe Frangi (Lino) trova inaspettatamente la morte otto giorni dopo la fine del Duce (L. Garibaldi. Vita col Duce. Effedieffe, 2001; A. Bertotto. La morte di Mussolini. Una storia da riscrivere. PDC Editori, 2008)), così come la trova nell’immediato dopoguerra anche un altro presunto giustiziere, il partigiano Luigi Canali meglio noto come capitano Neri (A. Zanella. L’ora di Dongo. Rusconi, 1993; R. Festorazzi. La gladio rossa e l’oro di Dongo. Il Minotauro, 2005). Quando è Luigi Longo (il numero due del PCI dopo Palmiro Togliatti) ad essere incolpato di tirannicidio (F. Bandini. Vita e morte segreta di Mussolini. Mondadori, 1978; U. Lazzaro. Dongo. Mezzo secolo di vergogne. Mondadori, 1997; G. Pisanò. Gli ultimi cinque secondi di Mussolini. Il Saggiatore, 2004) improvvisamente compare un memoriale, scritto da Aldo Lampredi ed estratto dall’irenico cappello a cilindro della perestroika–glasnost veltroniana e cossuttiana, dove si ribadisce che ad uccidere il leader fascista è stato W. Audisio, colui al quale il CNLAI aveva ordinato di recarsi a Dongo con il compito esplicito di giustiziare, oltre al loro capo, anche i gerarchi fascisti catturati a Musso il 27 aprile del 1945 (A. Lampredi. La fine del Duce. L’Unità, 23 Gennaio, 1996). Le dichiarazioni di Orfeo Landini (il commissario Piero), un comunista ottuagenario che dice di aver partecipato alla mattanza due ore prima delle 16,10 e non al cancello di villa Belmonte, ma in un viottolo di Bonzanigo, passano inosservate senza suscitare scalpore anche perché la sua testimonianza è palesemente inverosimile (F. Bernini. Così uccidemmo il Duce. C. D. L. Edizioni, 1998). Alfredo Mordini (Riccardo), un altro presunto giustiziere rosso (U. Lazzaro. op. cit.; A. Viviani. Osservazioni sul mistero della morte di Mussolini e Claretta Petacci. larchivio.org. Reperibile per via telematica; P. Maccarini. Claretta e Ben. La fine. Edizioni Guardamagna, 2005), si è sempre chiuso in un ostinato silenzio, lasciando spazio ad illazioni che hanno moltiplicato i dubbi e le perplessità. Quando ha assunto le vesti dell’esecutore antimeridiano del Duce, il partigiano garibaldino Giacomo (Bruno Giovanni Lonati) si è smentito da solo. Ha scritto delle grossolane assurdità (G. B. Lonati. Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità. Mursia, 1994) a cui qualcuno ha dato credito (L. Garibaldi. La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci? Ares, 2002), facendo il gioco di coloro a cui stava bene la politica del più ce n’è meglio è. Fa solo sorridere e mette tenerezza, senza impensierire nessuno, la versione dei fatti che prevede Claretta nel ruolo dell’esecutrice di un Duce consenziente (A. Nava. Il terzo uomo di Mussolini. Zecchini Editore, 2002). Ad aumentare la ben gradita confusione ha provveduto di recente un nipote di Mussolini (Guido), affermando che suo nonno è stato ammazzato nel cuore della notte da agenti speciali inviati da Winston Churchill in persona (A. Bertotto. Il processo a Mussolini: risultati delle indagini preliminari. Storia del Novecento, Dicembre, 2007). Per non parlare poi di quello che ha detto Francesco Cossiga quando ha “rivelato” che il comunista assassino di Giulino di Mezzegra è stato fatto velocemente espatriare dal PCI in America latina (Vite straordinarie. Rete 4, Gennaio, 2007). La volontà dei comunisti di depistare e di mistificare gli avvenimenti realmente accaduti si è estrinsecata a 360 gradi. Basta ricordare un fatto. Il mitra MAS francese calibro 7,65 (modello 1938, matricola n° 20830) usato (si dice) dai partigiani per uccidere Mussolini e la sua cortigiana preferita è stato trafugato di nascosto in Albania alla fine di novembre del 1957 (AA. VV. L’ultimo schiaffo alla Patria. Il mitra che avrebbe ucciso il Duce esposto a Tirana. politicaonline.net. Reperibile per via telematica). Non una parola è stata detta dalla nomenklatura marxista di casa nostra quando è comparsa la notizia che la Questura di Modena ha donato alla Repubblica partigiana di Montefiorino il mitra ERMA calibro 9 “con il quale vennero fucilati Benito Mussolini e Claretta Petacci” (AA. VV. Al museo partigiano di Montefiorino il mitra che uccise Mussolini. sassuolo2000.it. Reperibile per via telematica). Il silenzio totale è seguito alla imprudente dichiarazione di Michele Moretti: “Il mitra che ha ucciso Mussolini è nel solaio di casa mia” (G. Cavalleri. Ombre sul lago. Piemme, 1995) come pure a quella avventata del generale Ambrogio Viviani: “Il mitra cal. 7,65 mod. 38 matricola 20830 è conservato al museo del KGB in Mosca dove i comunisti italiani ritennero doveroso inviarlo e dove il sottoscritto ha avuto la possibilità di vederlo e di sentirne la storia” (A. Viviani. op. cit.). Non fa quindi meraviglia se un Dongologo famoso, Franco Bandini, parla di un mitra cecoslovacco calibro 9 (F. Bandini. Vita e morte segreta di Mussolini. Mondadori, 1978) e se il comandate partigiano dell’Oltrepò pavese, professor Paolo Murialdi (già redattore de Il Giorno), asserisce che non è la pistola Beretta calibro 9 (modello 1934, matricola n° 778133), conservata nel Museo Storico di Voghera, quella con cui è stato dato il colpo di grazia a Mussolini (O. Ciai, P. Coppola. Il mitra che uccise Mussolini dal partigiano Valerio a Tirana.www.repubblica.it. Reperibile per via telematica). Silvio Bertoldi ha scritto: “Per usare una celebre frase del grande Tommaso Besozzi a proposito del bandito Giuliano e delle rivelazioni sulla sua fine, anche per Mussolini si può dire: Di sicuro c’è solo che è morto” (S. Bertoldi. Piazzale Loreto. BUR, 2001). Nel 2008 si può aggiungere senza tema di smentite: “Di sicuro si sa che non é morto come ce l’hanno raccontato i partigiani inviati dal CNLAI di Milano con il compito di fare giustizia in nome del popolo italiano” (F. Bandini. Fu fucilato due volte. Storia Illustrata, Febbraio, 1973; F. Andriola. La morte di Mussolini. Una macabra messa in scena. Storia in Rete, Maggio, 2006; F. Andriola. Il dilemma di Giulino di Mezzegra. Storia in Rete, Settembre, 2006). Per non dire “come” e “quando” è morto il Duce si sono mosse per anni forze politiche decise a non far trapelare fatti che evidentemente si volevano a tutti i costi occultare. Oggi possono sembrare insignificanti cavilli storici. Eppure per qualcuno non lo sono stati per lunghi decenni.

Morte Mussolini: una storiografia penosa e ridicola, scrive Maurizio Barozzi. La penosa situazione della letteratura storiografica in Italia, in merito al "mistero" della morte di Mussolini, è tale che non consente di fare chiarezza su questo argomento, nè di sgombrare almeno il campo dalle tante versioni assurde e non comprovate che, di volta in volta, vengono propinate o riciclate a lettori di bocca buona. Molti storici e giornalisti storici che in qualche modo si sono fatti un nome, se ne escono ogni tanto con panzane e osservazioni talmente assurde e demenziali che si stenta a credere che queste "firme" possano albergare in una letteratura che si rispetti. Nè le case editrici e gli Istituti storici sono da meno, tutti interessanti, per interessi di cassetta o para politici, a conservare questa confusione. Del resto le stesse case editrici più importanti hanno a libro paga un loro "consulente" storico, di solito ingaggiato dalle firme su menzionate, perpetuando così il circolo vizioso della disinformazione. In questa sede vogliamo illustrare il non edificante panorama delle più importanti "versioni" su la morte di Mussolini le quali, prese tutte assieme, essendo impossibile che siano tutte veritiere, anzi ognuna esclude categoricamente tutte le altre, danno un quadro veramente ridicolo della situazione. Non ci riferiamo a quei giornalisti storici o ex partigiani che hanno avanzato loro ipotesi sulla morte di Mussolini, come ad esempio, Franco Bandini ("Vita e morte segreta di Mussolini", Mondadori 1978), Urbano Lazzaro (Dongo mezzo secolo di menzogne, Mondadori 1993), Alessandro Zanella ("L'ora di Dongo", Rusconi 1993), regalandoci tutte ipotesi fantasiose e senza uno straccio di prova, ma consideriamo invece quelle "versioni" riportate da presunti partecipanti o presenti alla fucilazione di Mussolini, dunque presunti testimoni o autori diretti di quella morte. Orbene, c'è dallo sbellicarsi dal ridere nel costatare le incongruenze e contraddizioni che costoro raccontano, oltre al fatto, come accennato, che ognuno di loro esclude categoricamente tutte le verità degli altri e quindi, nella migliore delle ipotesi, saremmo in presenza di altrettanti spudorati bugiardi.

Le versioni "dirette", da parte di asseriti partecipanti all'evento, possono riassumersi in due categorie: una che naviga nelle acque fangose della "vulgata" ovvero quelle che comunque attestano una fucilazione pomeridiana al cancello di Villa Belmonte, in Giulino di Mezzegra, ed un’altra che invece indica una morte in altro luogo e altro orario e quindi una successiva messa in scena, con tanto di finta fucilazione, al cancello di Villa Belmonte. Vediamole separatamente iniziando dalle prime versioni quelle della "vulgata". Le versioni della "vulgata".

1. la "vulgata" classica. La "storica versione" è attestata, sia pure con molte diversità e contraddizioni, dal trio dei "giustizieri" ciellenisti: Walter Audisio alias colonnello Valerio, Aldo Lampredi alias Guido Conti e Michele Moretti alias Pietro Gatti. È la versione che, come noto, indica Walter Audisio che il 28 aprile 1945 alle ore 16,10 da tre passi spara e uccide, tutto da solo e con il mitra Mas prestatogli al momento da Moretti perchè il suo si era inceppato, Mussolini e la Petacci al cancello di Villa Belmonte. Audisio finirà poi Mussolini con un colpo di grazia al petto (?) con la pistola prestatagli ancora da Moretti. Questa versione venne riportata da "l'Unità" nel dopoguerra, ma la possiamo compendiare nel libro postumo di Audisio "In nome del popolo italiano", Teti 1975, nella "Relazione riservata al PCI", scritta da Aldo Lampredi nel 1972 e nelle testimonianze di Michele Moretti raccolte da Giusto Perretta in "Dongo 28 aprile. La verità", Actac 1990. In questa "vulgata" si può aggiungere la versione di Giovanbattista Geninazza, l'autista che portò a Bonzanigo il trio di "giustizieri" ciellenisti e asserì poi di aver assistito alla fucilazione da due passi, già riportata da Franco Bandini con le interviste a questo autista pubblicate nel 1956 su "l'Europeo", aumentando in tal modo le incongruenze e contraddizioni tra tutti costoro, visto che i loro racconti sono simili, ma non uguali.

2. la "vulgata del comasco". Questa difforme "vulgata", cosiddetta del comasco, perchè tramandata nelle località di quegli avvenimenti, venne rilasciata da Martin Bisa Caserotti il capo partigiano nella tremezzina, dicesi presente al fatto e che sparò il colpo di grazia a Mussolini. Il Caserotti la divulgò a maggio del 1945, attraverso una relazione per il CLN comasco fatta compilare a sua nipote Angela Bianchi e la ripetè poi in prima persona, nel 1962 al giornalista Franco Serra per un lungo servizio sulla Settimana Incom Illustrata. Questa versione, con poche varianti e con l'aggiunta di qualche altra testimonianza, è presente anche nei rapporti all'Oss statunitense dell'agente americano Valerian Lada Mocarsky e come tale è stata fatta propria dagli scrittori storici Giorgio Cavalleri e Franco Giannantoni che l'hanno presentata con il libro, firmato anche dal ricercatore storico J. Cereghino, "La Fine. Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani", Garzanti 2009. In questo libro gli autori, però, sostituiscono assurdamente al partigiano di una unità locale, che sarebbe il Caserotti, il Luigi Canali alias capitano Neri, ma in ogni caso la sostanza della versione non cambia.

Qui diversamente dalla "vulgata classica", si indica che Mussolini venne ucciso sempre al cancello di Villa Belmonte e alle 16,10, tramite un paio di colpi di revolver al fianco e quindi con una sventagliata di mitra. La Petacci a sua volta venne fulminata da un’altra sventagliata di mitra. In pratica sono attestati uccisori: il tiratore con la pistola (colonnello Valerio), quello con il mitra (forse il Michele Moretti Pietro) ed un altro ancora con il mitra (non individuato). A questi occorre poi aggiungere il Caserotti, che per il Cavalleri-Giannantoni sarebbe invece Luigi Canali, che spara il colpo di grazia a Mussolini.

La fine ingloriosa di tutte queste "vulgate". Si dà il caso però che tutte queste versioni della "vulgata", per una morte pomeridiana di Mussolini e la Petacci, sono oramai state definitivamente spazzate via dalle moderne tecniche d'indagine che hanno fatto emergere un paio di prove oggettive con le quali si è oggi in grado di attestarne, a prescindere, la falsità; in sintesi:

Prima prova oggettiva: perizie, altamente specializzate, hanno dimostrato che il cadavere di Mussolini indossava un giaccone privo di fori o strappi quali esiti di una fucilazione. I colpi, infatti, si trovano solo su la maglietta bianca intima a mezze maniche che venne attinta direttamente. Ergo Mussolini era stato ucciso in altro luogo e altro orario, avendo indosso solo quella maglietta e forse i pantaloni e quindi buttato ai piedi del cancello di Villa Belmonte per simulare una fucilazione. Qualcuno per sfuggire a questo rilievo impietoso, sussurra l'ipotesi che il pastrano con cui Mussolini fu fucilato forse venne sostituito durante il viaggio del camion con i cadaveri da Azzano a Milano. Una vera amenità secondo la quale, tra i cadaveri insanguinati ammucchiati su quel camion, qualcuno decise che a quello del Duce era meglio sostituirgli il cappotto, cosa oltretutto non facile per il rigor mortis del cadavere. Al di là del ridicolo, resta il fatto che non esistono indicazioni di un cambio di cappotto al cadavere durante il viaggio di ritorno verso Milano, da parte di nessuno di coloro che portarono a Piazzale Loreto i 18 fucilati. Ma oltretutto la perizia di Pavia ha evidenziato, su la maglietta bianca, aloni e microparticelle che ogni colpo d'arma da fuoco deposita sul corpo colpito se lo sparo vi arriva direttamente da una distanza non superiore ai 50 cm!

Seconda prova oggettiva: Il reperto degli stivali di Mussolini e le foto di Piazzale Loreto mostrano che lo stivale dx aveva la lampo, cioè la saracinesca di chiusura saltata all'altezza del tallone. In quelle condizioni Mussolini non poteva deambulare normalmente per arrivare alla macchina che lo aspettava in fondo alla piazzetta con il Lavatoio per essere condotto alla fucilazione e comunque, se così fosse stato, quei pochi testimoni del posto lo avrebbero notato e segnalato. Quindi questo stivale non solo smentisce la "fucilazione" pomeridiana, ma dimostra anche la messa in scena che venne mostrata a chi vide il "corteo" di un uomo e una donna, scortati da uomini armati. Ergo, quei due, non erano Mussolini e la Petacci!

Insomma, queste due prove smentiscono, senza appello, una fucilazione al cancello di Villa Belmonte: in un immaginario Tribunale non ci sarebbe stato bisogno di altro. Punto.

Le versioni alternative. Tra le cosiddette versioni alternative alla "vulgata", quali farina del sacco di presunti attori di quella vicende, ne indichiamo due che, come per le altre, non solo sono ovviamente in opposizione a tutte le precedenti, ma oltretutto si elidono tra loro. Parliamo delle versioni dei partigiani Bruno G. Lonati e quella di Orfeo G. Landini raccolta dallo scrittore Fabrizio Bernini. Entrambe prevedono poi una seconda finta fucilazione a Villa Belmonte.

1. la versione di Bruno G. Lonati. Questo Lonati asserì di aver lui ucciso Mussolini assieme ad un misterioso agente inglese, che a sua volta uccise la Petacci, tale John, a Bonzanigo in un viottolo a lato di via del Riale intorno alle 11 del mattino del 28 aprile. Un racconto fantasioso, privo di un minimo di prove concrete, un vero e proprio fumettone, riportato nel libro di Lonati, Quel 28 aprile Mussolini e Claretta La verità, Mursia 1994.

2. la versione di Giovanni Landini. Questa versione, raccolta dallo scrittore Fabrizio Bernini che, incredibilmente, vi ha dedicato ben due libri (F. Bernini: "Così uccidemmo il Duce", Ed. CDL 1998 e Sul selciato di Piazzale Loreto Ed. Ma.Ro. 2000) altrettanto fantasiosa e priva di riscontri concreti indica una uccisione di Mussolini, da parte di Alfredo Mordini Riccardo e Michele Moretti Pietro, circa una mezzora prima dell'orario asserito dalla "vulgata", quindi intorno alle 15,30, in un viottolo di lato a via del Riale. Tra l'altro una vera e propria idiozia, se poi questi mentecatti dovevano subito dopo recitare un’altra finta fucilazione a Giulino di Mezzegra. In ogni caso, oltre la loro inattendibilità, queste due versioni, come le si rigira e così come la "vulgata classica", non trovano alcuna conferma nella probabile ipotesi balistica di quelle uccisioni, ma oltretutto indicano la fucilazione eseguita in un viottolo con un muretto di lato a via del Riale che all'epoca, nel 1945, non esisteva ancora, il che è tutto dire! Un desolante panorama storiografico. Ecco, questo è il desolante panorama della storiografia in merito al mistero della morte di Mussolini, e c'è da dire che abbiamo omesso almeno un decina di altre "versioni alternative" tutte fantasiose e non comprovate, essendoci limitati a riportare solo quelle di asseriti attori presenti a quell'evento. Nessuno ha interesse a fare pulizia, a spazzare definitivamente via tutto questo ciarpame inattendibile, a indicare una volta per tutte quella che fu la più probabile fine di Mussolini. Eppure c'è una testimonianza di un teste all'epoca residente a Bonzanigo a circa 100 metri in linea d'aria dalla casa dei De Maria dove erano nascosti Mussolini e la Petacci e che a 19 anni assistette ad avvenimenti che collocavano la morte di Mussolini e della Petacci in orario antimeridiano nel cortile sotto casa dei De Maria e per la Petacci poco più sotto di fianco alla mulattiera. Uno squarcio di verità: la testimonianza di Dorina Mazzola. Ci riferiamo alla testimonianza di Dorina Mazzola, raccolta da Giorgio Pisanò e presentata con il libro Gli ultimi cinque secondi di Mussolini, Il Saggiatore 1996. Una versione questa, da molti ambiguamente e con malizia definita la versione di Pisanò, quando invece è il racconto di un testimone diretto, confermata da due elementi decisivi:

1. gli avvenimenti che racconta la signora collimano con i rilievi peritali che prima abbiamo esposto. In sintesi, la signora, dopo un trambusto e un paio di colpi di pistola provenienti da casa De Maria, vide un uomo calvo, claudicante che a piccoli passetti venne condotto nel cortile del palazzo, dove poco dopo ci fu una sparatoria. Quell'uomo aveva indosso solo una maglietta bianca a mezze maniche. Erano circa le 10. Due ore dopo, la Mazzola assistette alla uccisione di una donna (la Petacci) in un viottolo a prato di fianco a casa sua, fulminata alla schiena da una raffica di mitra, esplosa forse da un partigiano esagitato che aveva creduto che la donna volesse scappare.

2. È anche confermata da due testimonianze, quella di Savina Santi vedova di Guglielmo Cantoni Sandrino, uno dei due partigiani rimasti a guardia di Mussolini e la Petacci in casa De Maria a Bonzanigo e quella di un certo "Carlo" partigiano di Dongo.

La vedova di Sandrino rilasciò una importante testimonianza, circa una confidenza avuta dal marito, che indirettamente conferma i racconti di Dorina Mazzola: «Mio marito mi disse che quella mattina lui si trovava di guardia con il partigiano Lino, alla stanza dove c'erano i prigionieri, quando vide salire le scale Michele Moretti e altri due partigiani che non aveva mai visto nè conosciuto. I tre gli ordinarono di restare sul pianerottolo fuori della stanza ed entrarono nel locale. Mio marito, restando sul pianerottolo, udì uno dei tre che diceva: "adesso vi portiamo a Dongo per fucilarvi", e un altro gridare: "No, vi uccidiamo qui!". Poi mio marito udì altre voci concitate, le urla della donna e colpi d'arma da fuoco...». L'ex partigiano "Carlo" di Dongo, invece, prima di morire, ha rilasciato una testimonianza audio, registrata dal suo amico Giorgio Milani e mandata in onda da RaiTre, nel corso di "La Grande Storia" del 6 luglio 2012. Questo "Carlo" ricorda che la mattina del 28 aprile 1945 alcuni partigiani salirono nella stanza dove erano rinchiusi Mussolini e la Petacci e Mussolini venne ferito da un colpo di pistola al fianco. Le testimonianze indirette a conferma del racconto della Mazzola. A queste due testimonianze che confermano la testimonianza Mazzola, possiamo poi aggiungere altre testimonianze indirette, ma di un certo interesse:

- Massimo Caprara, l'ex segretario di Palmiro Togliatti, riferì una affermazione di Celeste Negarville (esponente comunista già direttore de "l'Unità" nel '44 e poi senatore): «Con la Petacci Lampredi non c'entra. La Petacci è stata uccisa altrove. Lampredi si trovò un cadavere in più, che non era nel conto».

Affermazioni queste non ben specificate, ma quell'«altrove» non ammette dubbi.

- Elena Curti, probabile figlia naturale di Mussolini, presente nella colonna Mussolini, fermata a Musso e al tempo imprigionata a Dongo, ha invece raccontato nel 2007 al professor Alberto Bertotto un suo importante ricordo:

«Dieci anni fa, un ragazzo che all'epoca aveva solo 15 anni (Osvaldo Gobetti un comunista di Dongo - n.d.r.), al quale i partigiani davano incarichi come ricaricare le armi, mi ha riferito, dopo averlo saputo da un compagno che aveva assistito ai fatti di Bonzanigo, che la Petacci era stata uccisa mentre tentava di allontanarsi»;

Stava correndo su un prato, ha raccontato la Curti, quando venne falciata proditoriamente da una raffica di mitra alle spalle. Lo stesso partigiano che lo raccontava al Gobetti era rimasto scioccato. Proprio quello che vide il teste di Bonzanigo, Dorina Mazzola.

- Ancora la Elena Curti ha più volte ricordato che il carabiniere Ettore Manzi che lei conobbe quando venne imprigionata a Dongo gli confidò in privato che quella mattina del 28 aprile '45 partigiani andarono su casa De Maria. Anzi il Manzi, che gli disse di essere stato sul posto, sembra che gli avrebbe confidato che Mussolini aveva anche tentato un suicidio, non ben specificato e non riuscito.

- Domenico Gini di Villaguardia, ex partigiano, ebbe a raccontare di aver incontrato il suo amico Giuseppe Frangi, Lino, il 2 o il 3 giugno 1945, che definisce comunista intransigente e non certo un chiacchierone, il quale gli raccontò «Li abbiamo portati in una stalla e li abbiamo uccisi». Un racconto un pò confuso, ma Mussolini venne ucciso proprio nel cortile di casa De Maria davanti al portone di una specie di stalla.

- Angelo Carbone, al tempo un 83 enne ex partigiano di Rivanazzano in Oltrepò, amico di Sandro Pertini, pur nel contesto di racconti alquanto raffazzonati e sinceramente poco credibili, fece importanti affermazioni ricordando di essere stato presente ai noti eventi (riferendosi però al Cancello di Villa Belmonte), ma aggiunse: «Non è vero che Claretta Petacci fu uccisa con Mussolini davanti al cancello di Villa Belmonte. È una storia inventata di sana pianta». Secondo lui la Petacci venne uccisa nella stanza, ma anche se queste sono affermazioni non ben specificate, scoordinate, confuse, ugualmente danno il senso di un qualcosa di molto diverso dalla storica versione.

- Un oramai ultra novantenne medico, il dottor Pierluigi Cova Villoresi, che sembra abbia presenziato alla autopsia di Mussolini stilando anche una sua personale e divenuta famosa relazione, a dicembre 2003, raccontò nel corso di una intervista quanto segue, evidentemente da lui appreso (il Cova sta parlando dei cadaveri):

«Li avevano rinchiusi nell'albergo vicino al posto dove poi sono stati fucilati».

«Ah quindi non nella camera da letto dei De Maria?» chiese l'intervistatore riferendosi alle note ipotesi di una uccisione dentro la stanza.

Cova: «No, no, no, fuori!...erano fuori... Lì c'è una specie di terrazzo dal lato stradale col limite in ferro tra la strada e il lago e c'è una piazzetta...».

E sulla Petacci, parlando del cancello di Villa Belmonte ebbe a precisare: «... quel cancello lì è sbagliato, perché dove l'hanno uccisa è sulla curva di una stradina che parte dal lago, parte dalla strada, c'è la strada che praticamente è parallela al margine del lago».

Queste del Cova saranno pure delle informazioni di "riporto", ma sono significative: i cadaveri rinchiusi nell'albergo (evidentemente il Milano sulla via Albana), Mussolini ucciso fuori di casa, ma nei pressi e la Petacci da un’altra parte sulla curva di una stradina: tutti particolari in sintonia con la testimonianza Mazzola. Maurizio Barozzi

Le carte più segrete di Mussolini. Scrive il Professor Alberto Bertotto il 6 gennaio 2014. Del fantomatico carteggio Churchill-Mussolini, l’insieme dei contatti diplomatici segreti intercorsi tra Italia e Inghilterra subito prima e durante la seconda guerra mondiale, ne ha parlato recentemente Fabio Andriola quando ha dato alle stampe il suo pregevole ultimo saggio intitolato «Carteggio segreto. Churchill Mussolini» (Sugarco Edizioni, 2007). L’Andriola non ha, tuttavia, enfatizzato un particolare importante che merita di essere ripreso, sottolineato e riletto alla luce di altre conoscenze già acquisite e di nuove intriganti testimonianze fresche di giornata. In un bel libro di accalorate memorie, «Il chiodo a tre punte», pubblicato nel 2003 da Gianni Iuculano Editore, la oggi ottantacinquenne Elena Curti, una figlia naturale di Mussolini, ha scritto: «Mussolini salì sull’autoblinda a Menaggio (ore sei del 27 aprile 1945) senza mai abbandonare una busta di pelle marrone di un 25-28 centimetri per 18 circa che teneva tra le mani. Una volta seduto, si mise la busta sulle ginocchia e vi appoggiò sopra le mani con fare possessivo. Mi guardava: ‘Qui ci sono dei documenti di estrema importanza. Qui c’è la verità di come sono andate le cose e chi sono i veri responsabili della guerra. Non solo gli italiani, ma soprattutto gli inglesi e gli americani devono saperlo e tutto il mondo si sorprenderà». «Mi affrontava come al solito, ponendo il tema direttamente, senza preamboli. Spesso mi sono domandata che cosa mi avrebbe risposto se gli avessi chiesto spiegazioni. Forse sapremmo qualcosa di più su quei fantomatici documenti di cui si è tanto parlato, forse sapremmo in che consisteva la ‘verità’. Quando il Duce scese dalla blindo, vestito da sottoufficiale della Luftwaffe (FLAK), portava la busta di pelle con sé. Le sue dimensioni gli permettevano di nasconderla sotto la giacca». Nel 1995 il noto giornalista-scrittore Raffaello Uboldi ha dato molta importanza a queste parole. Gli erano state riferite dalla signora Curti nel corso di una lunga intervista telefonica. Il che lo ha indotto a scrivere un articolo, «Quella busta che mio padre teneva stretta», pubblicato il 17 settembre su un quotidiano milanese. Era la seconda volta che si parlava sulla carta stampata, con una dovizia di dettagli, del contenuto del piccolo involucro marrone conservato con religiosa cura da Mussolini in fuga verso il Ridotto Alpino Repubblicano: la Valtellina (già in precedenza Elena Curti, prima degli anni sessanta, aveva detto le stesse cose ad un’altra testata giornalistica) (E. Curti, comunicazione personale). Accompagnato dalla Curti e da altri devoti in camicia nera, il Duce voleva consumare, tra i picchi innevati delle alpi, il virile ed agognato olocausto redentore, un sudario di ferro e fuoco che Alessandro Pavolini, il segretario del Partito Fascista Repubblicano, aveva da tempo simbolicamente iconizzato (V. Podda, «Morire con il sole in faccia», Ritter, 2005). Ha scritto Asvero Gravelli («Mussolini aneddotico», Latinità, s. d.), riferendo un fatto accaduto nella Prefettura di Milano alla fine di aprile del 1945: «Mussolini sollevò lo sguardo su di me che gli stavo di fronte, lentamente portò la mano sinistra sulla parte destra interna della giubba, ne estrasse un pacchetto di carte, legato, e protendendolo verso di me, esclamò: “Gravelli! Bisogna resistere ancora un mese: ho tanto in mano da vincere la pace. Combatteremo e moriremo bene, se necessario, ma ricordatevi (e qui scandì le parole sillabando) ho tanto in mano da giocare la pace”». Come è risaputo, Mussolini è stato arrestato alle tre del pomeriggio (27 aprile del 1945) sulla piazza di Dongo dai partigiani della 52° Brigata Garibaldi, una formazione di «ribelli» male in arnese che operava sui monti della Tremezzina (provincia di Como). L’esecutore materiale dell’arresto è stato Urbano Lazzaro, il patriota Bill, un ex finaniziere con simpatie monarchico- badogliane. Ha affermato il Lazzaro, allora vicecomissario politico della 52° Brigata garibaldina: «Al momento dell’arresto il Duce indossava un cappotto militare tedesco, la camicia nera, pantaloni alla cavallerizza e gli stivali. Non aveva la giacca» («Il compagno Bill», SEI, 1989). L’attendente di Mussolini, Pietro Carradori, ha asserito che: «Il capo del fascismo repubblicano, quando è salito sul camion militare dei tedeschi, vestiva il cappotto da sottoufficiale della FLAK sopra alla solita divisa di panno grigio-verde senza gradi e distintivi. Io stesso l’ho aiutato ad indossare il pastrano dei nazisti sopra la giacca» (Luciano Garibaldi, «Vita col Duce», EFFEDIEFFE, 2001). La Curti, avendo assistito alla scena, ha confermato le parole inequivocabili del fedele e fidato attendente del Duce (E. Curti, comunicazione personale). I finanzieri della casermetta di Germasino, in cui il dittatore era stato trasferito per maggior sicurezza, hanno ripetutamente dichiarato che in quei momenti Mussolini sentiva freddo. Una sensazione che sarebbe stata di certo acuita dal fatto di essere senza la giacca, un abbigliamento parziale che le Guardie di Finanza non avrebbero mancato di segnalare se il Duce non avesse realmente indossato quel capo di vestiario (A. Zanella. «L’ora di Dongo», Rusconi, 1993). Nella notte tra il 27 ed il 28 aprile Mussolini è stato coartatamente rinchiuso nella casa dei contadini De Maria, una disadorna magione rurale situata a Bonzanigo, un borgo appartenente al comune di Mezzegra. Lia De Maria ha detto che in quella circostanza il leader fascista calzava la divisa militare, il che sottointende una vestizione completa, giubba inclusa (A. Zanella, opera citata). Walter Audisio, il colonnello Valerio, se vogliamo dar credito alla sua controversa e raffazzonata ricostruzione dei fatti (Giorgio Pisanò, «Gli ultimi cinque secondi di Mussolini», Il Saggiatore, 2004), ha più volte dichiarato che davanti al cancello di villa Belmonte (Giulino di Mezzegra, un paese anni addietro rinomato per la bontà del suo pane), il dittatore indossava, prima di essere fucilato, l’uniforme da Caporale d’Onore della Milizia ed un pastrano militare di color ruggine («In nome del popolo italiano», Edizioni Teti, 1975). In un opuscolo divulgato nel 1951 dalla propaganda comunista viene ricostruito il calvario mussoliniano, cioè le tappe che lo hanno portato da Dongo al celeberrimo cancello di villa Belmonte. Più fotogrammi mostrano che il Duce indossa la giacca della divisa d’ordinanza. (AA. VV., «Dongo. Ultimo atto di un dramma», Nuova Edizioni, Distribuzione A. G. Marco Film, Milano, 1951). U. Lazzaro (Bill), rimarcando con oculata astuzia maliziosa la mancanza della giacca, ha voluto distogliere l’attenzione dalla busta di pelle marrone contenuta in una tasca interna di quell’indumento. Dice la Curti: «La busta è stata consegnata da un Duce riluttante a Pier Luigi Bellini delle Stelle (Pedro), il comandante della 52° Brigata Garibaldi, quando il capo garibaldino ha perquisito l’illustre prigioniero nel Municipio di Dongo» (E. Curti, Comunicazione personale). Le affermazioni della Curti sono state confermate dalle immagini di una trasmissione televisiva andata in onda su Rai-tre nell’inverno del 2006. Pedro ha sempre volutamente omesso di menzionare l’avvenuta consegna di documenti posseduti dal capo del fascismo e da lui riposti nelle tasche della montura che aveva addosso al momento dell’arresto (P.L. Bellini delle Stelle, U. Lazzaro, «Dongo: Ultimo atto», Mondadori, 1962). Il silenzio reticente di Pedro, i cui sentimenti erano filosabaudi, fa paio con i meschini sotterfugi depistanti del suo sottoposto Bill (U. Lazzaro). Costui, nel primo dopo guerra, ha per anni sbarcato il lunario, lucrando sui fatti di Dongo che l’avevano visto come uno dei principali attori protagonisti. U. Lazzaro nel suo libro intitolato «L’oro di Dongo», Mondadori, 1998, afferma: «Riecco la pubblicitaria Elena Curti (21 maggio, 1957): dichiara alla Corte che nelle carceri di Dongo fu violentata da ‘Bill’. C’è improvviso silenzio e stupore nell’aula: il presidente, il Pubblico ministero, i giurati, perfino l’avvocato Bovio (il difensore di ‘Bill’) mi guardano, studiano la mia reazione. Io sono lì a bocca aperta. Ma cosa dice quella strega? Seduto davanti a me, l’avvocato Polcaro, della difesa comunista, esclama vittorioso: ‘Finalmente il giglio è caduto nel fango’. Incapace, sul momento, di parola, faccio capire all’avvocato Bovio che io non ne so proprio niente. Intanto il presidente chiede alla Curti: “Riconoscerebbe il suo violentatore se lo rivedesse?” “Certamente” risponde la donna. Il presidente, volgendosi a me: “Signor Lazzaro, venga qua”. Salgo sul pretorio e vado a pormi davanti alla Curti. “Lo riconosce?” chiede il presidente. La Curti mi guarda attenta, poi esclama stupita: “Ma questo non è il partigiano Bill”. Intervengo io deciso: “Io sono il partigiano ‘Bill’, signorina. Sono stato io ad usarle violenza?”. Contrita, adesso risponde: “No, quello era più piccolo, più massiccio, aveva capelli neri e carnagione scura. No, non è questo signore”. Il presidente ci congeda entrambi. Scendendo dal pretorio, proprio all’avvocato Polcaro, d’impulso, gli mostro la lingua. Subito l’avvocato protesta con il presidente per la mia mancanza di rispetto». Queste frasi del Lazzaro stonano con quanto da lui in precedenza asserito per iscritto: «Fatta prigioniera, pur essendo stata maltrattata, (la Curti) non subì sevizie, fu condotta nella caserma dei carabinieri di Dongo e ivi restò dal 27 aprile al 10 maggio». Il che non lo fa desistere dal raccontare bugie perché in un’altra pagina del libro scrive con rinnovata solerzia e con blasfema sicumera: «Del tutto inaspettata si ripresenta alla Corte Elena Curti (7 giugno, 1957); comunica che è andata a Dongo ad indagare ed ha visto e riconosciuto colui che la violentò nelle carceri: Giuseppe Negri di Dongo. Aggiunge che, per unanime consenso, ‘Bill’ fu l’unico partigiano a comportarsi con rispetto ed umanità con i prigionieri fascisti di Dongo (da notare l’autocompiacimento)». La Curti, da me interpellata personalmente, ha smentito recisamente le affermazioni del Lazzaro. Bill ha dimostrato anche in questa istanza di quale pasta fosse fatto. Elena mi ha detto che la sua testimonianza al processo di Padova può essere reperita, basta consultare gli atti processuali depositati presso l’Archivio di Stato patavino. Il commissario politico comunista della 52° Brigata Garibaldi, Michele Moretti (nome di battaglia Pietro Gatti), ha tacciato pubblicamente Bill e Pedro di essere dei meschini bugiardi opportunisti. Due intrallazzatori che s’approfittavano, per puro tornaconto personale, della falsa ed effimera notorietà casualmente derivatagli dalla sfortunata conclusione della tragica vicenda mussoliniana. Finita l’insurrezione, la coppia di ex patrioti viveva in alberghi di lusso (l’Hotel Barchetta di Como), pagando conti salati con i soldi che aveva confiscato ai gerarchi fascisti catturati a Musso e poi brutalmente fucilati senza processo sul lungo lago di Dongo (G. Perretta, «Dongo 28 Aprile», La verità, Actac, 1990). Il Bellini delle Stelle ed il Lazzaro hanno ricevuto regali in oro (costosi orologi) da agenti dei servizi segreti degli alleati con cui da tempo collaboravano. Probabilmente certe loro delazioni hanno consentito ad imprecisati killer di uccidere Mussolini, impedendo che fosse consegnato vivo e processato dagli angloamericani (M. Di Belmonte, «L’assassinio di Benito Mussolini», Reperibile per via telematica, 2008, fncrsi.altervista.org ). Il conte Pier Luigi Bellini delle Stelle non ha mai voluto chiarire, nelle poche interviste da lui rilasciate nel periodo postbellico, i lati oscuri che da sempre circondano la fine cruenta di Mussolini. La scarsa disponibilità dimostrata nei confronti dell’opinione pubblica è, infatti, diventata, agli occhi della gente, una farsa grottescamente proverbiale. In modo indiretto non ha fatto altro che avallare le lacunose e fuorvianti affermazioni del colonnello Valerio del quale, a parole, diceva, dissenziente, di non volersi fidare. Secondo Pedro l’Audisio era animato da principi omicidi che il partigiano di nobile casato non condivideva affatto. Tuttavia non si è adoperato in alcuna maniera per contrastarli sul campo operativamente. Se il Duce è morto come è morto è anche per colpa dell’omertoso capo garibaldino il cui comportamento ha, in realtà, ben poco di quello che dovrebbero avere coloro che ostentano l’aristocratico blasone di cui si fregia con vanto la sua stirpe (F. Andriola, «Appuntamento sul lago», Sugarco Edizioni, 1990). Oltre a schermirsi, Pedro ha sempre scaricato su Luigi Canali (il capitano Neri) le non poche responsabilità che si era assunto quando i partigiani ai suoi comandi avevano fermato a Musso la «Colonna Mussolini» diretta in Valtellina. E’ stato un comodo ripiego perché il Neri, il deus ex machina di tutto l’affaire Mussolini, è morto, per mano comunista, nel maggio del 1945. Essendo un compagno non ortodosso, il Neri si era adoperato per impedire che «L’oro di Dongo» (U. Lazzaro. Opera citata) finisse indebitamente nelle casse del PCI. Un’operazione che Dante Gorreri, il capo della federazione bolscevica di Como, ha potuto portare a termine solo dopo l’eliminazione fisica del Canali restio ad accettare, senza discutere, i diktat imperativi imposti dal partito comunista (F. Giannantoni. «Gianna e Neri: Vita e morte di due partigiani comunisti», Mursia, 1992; F. Giannantoni, G. Cavalleri. «Gianna e Neri» fra speculazioni e silenzi», Arterigere, 2002). Era il legalitario capitano Neri, in collegamento con gli inglesi (L. Garibaldi, «La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci?» Ares, 2002), e non Pedro (contava poco), a voler consegnare il Duce agli angloamericani. Il che era stato stabilito dagli accordi firmati a Cassibile («Armistizio corto», 3 settembre del 1943) dal governo esarchico italiano, presieduto da Ivanoe Bonomi, e dai rappresentanti degli alleati invasori o liberatori, se si preferisce usare un termine «alternativo». Una velleità utopica che si scontrava frontalmente con la feroce volontà dei fazzoletti rossi i quali consideravano la Russia, avendo il mito dei Kolchoz e dei Gulag, come se fosse «La Patria delle Patrie» dove «Brilla il sol dell’avvenir» (F. Bandini. «Vita e morte segreta di Mussolini», Mondadori, 1978). Il leader filorusso Palmiro Togliatti scorazzava, infatti, per l’Italia liberata con la rubanska grigioazzurra dei contadini ucraini e sbandierava ai quattro venti la sua ambiziosa qualifica di pacioso filologo umanista.

Non si esentava, tuttavia, dallo sgolarsi, dai microfoni di Radio Bari, per reclamare con veemenza la convenuta scannatura di Mussolini. Nel fare ciò rispettava alla lettera gli ordini provenienti dall’imperialista Komintern moscovita diretto egemonicamente dal sanguinario despota georgiano Joseph Stalin (M. Caprara, «Quando le botteghe erano oscure», Il Saggiatore, 1997). La sentenza di morte pendente sulla testa del Duce era condivisa dagli azionisti di Leo Valiani e dai socialisti di Sandro Pertini, due esponenti politici di spicco che, unitamente al marxista Luigi Longo, impersonavano il nocciolo duro del fronte resistenziale milanese. Essi operavano in clandestinità nell’Italia del nord governata dalla Repubblica di Mussolini. E’ stato il CNLAI (Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia) ad impartire l’ordine mortifero di uccidere il Neri ((R. Festorazzi, «La gladio rossa e l’oro di Dongo», Il Minatauro, 2005). Un’ordinanza letale emanata da un ben protetto e colluso rifugio conventuale (U. Lazzaro, «Dongo mezzo secolo di vergogne», Mondadori, 1997). La Curti, imprigionata nella caserma dei Carabinieri di Dongo, aveva incaricato Bill di dire al Neri che voleva riavere la sua borsa contenente 70.000 lire (diversi stipendi accumulati) per poter far fronte ad alcune spese impellenti. Il cinico U. Lazzaro, ridendo sarcasticamente, ha risposto: «Ma quello (il Neri) non c’è più, è andato in Svizzera senza le scarpe» (E. Curti, comunicazione personale). La frase dimostra di che pasta fosse fatto il vicecommissario politico della 52° Brigata Garibaldi. Si tratta di un individuo sprezzante a cui non stava a cuore l’infausto destino a cui era andato incontro un compagno che aveva condiviso con lui, per lunghi mesi invernali, l’esperienza fuorilegge del partigianato. Una vita vissuta alla giornata salendo e scendendo, tutti sferraglianti d’armi, i freddi e brulli monti innevati dell’impervio circondario comasco. L’interesse degli studiosi, volendo ritornare a bomba per riportare l’attenzione del lettore sugli incartamenti mussoliniani, si è finora concentrato sul contenuto della borsa di cuoio marrone affidata da Mussolini, prima di salire sul camion della Luftwaffe, a Marcello Petacci (sotto le mentite spoglie di un diplomatico spagnolo, il fratello di Claretta faceva parte della «Colonna Mussolini» che stava per raggiungere la Valtellina) e sul tenore delle carte riposte in quella che il Duce ha personalmente consegnato ai partigiani quando è stato catturato sulla piazza del paese lacustre. Anche la cartella del capo fascista in mano al colonnello della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) Vito Casalinovo, l’ufficiale d’ordinanza del dittatore, è stata sequestrata dai militanti della resistenza e setacciata, come le altre, dai dirigenti del CNL (Comitato Nazionale di Liberazione) lariano. Costoro hanno fatto incetta, dopo un’opportuna spartizione, di carte segrete che avrebbero dovuto essere consegnate intonse al generale Raffaele Cadorna, il comandante del CVL (Corpo Volontari della Libertà) inviato a Milano dal Primo Ministro del Regno del Sud, generale Pietro Badoglio (F. Andriola, opera citata). La gentile Signora Curti indica in quale altra direzione si devono concentrare le ricerche per carpire i segreti dei dossier mussoliniani e per scoprire una verità storica ancora lungi dall’essere definitivamente accertata: cosa c’è di concreto e di oggettivo nell’epistolario internazionale scambiato tra il capo del fascismo repubblicano e l’albionico ed egocentrico «Winnie» (Churchill), il cui modus vivendi (anfetamine e alcool) era tutt’altro che sobrio e morigerato (F. Andriola, Mussolini-Churchill. Carteggio segreto», Piemme, 1996). Gli sforzi della Curti per coinvolgere, anni addietro, l’ingegner Luigi Carissimi Priori, il saggio «custode» del carteggio Churchill-Mussolini, sono risultati vani. Il Carissimi Priori, dopo averla personalmente recuperata (1945) da un armadio blindato della sede comasca del PCI dove l’aveva nascosta il dirigente locale D. Gorreri, ha poi consegnato (1946), tramite persona interposta, la documentazione di cui era entrato in possesso all’allora presidente del Consiglio, il democristiano Alcide De Gasperi. Si tratta di 62 lettere (copie fotolitate, non gli originali) che iniziano con le parole conviviali Dear Winston o Caro Benito (R. Festorazzi, «I veleni di Dongo» Il Minotauro, 2004). L’ingegnere, oggi scomparso, aveva promesso alla signora Curti di fare indagini accurate anche sulla fine della piccola custodia di pelle marrone gelosamente protetta da Mussolini al momento dell’epilogo. «Il Carissimi Priori ha fatto quello che ha potuto. Un suo articolo promozionale, comparso nel 2004 sul giornale di Como La Provincia, ha avuto una fievole risonanza nazionale perchè il quotidiano è diffuso solo nella zona del lago» (E. Curti, comunicazione personale). Nel 2005, l’ex patriota comasco Giuseppe Barberi, un amico fraterno di Pedro (P. L. Bellini delle Stelle), ha detto alla coeva Curti queste testuali parole: «Stai zitta tu che di questa cosa non ne sai niente. E’ un argomento che non ti riguarda e che non ti deve interessare. Non immischiarti in un affare che è più grande di te. Sono storie che devi dimenticare anche se le hai vissute in prima persona. Sei una donna e perciò devi stare al tuo posto. Della busta di Mussolini data a Pedro non bisogna parlarne. Ci sono troppi interessi affinchè rimanga nascosta. Se verrà alla luce non sarà di certo per merito tuo. I tempi odierni non sono ancora sufficientemente maturi per scoperchiare le pentole e non lo saranno per un altro bel pezzo». Le parole del Barberi, uno dei fondatori della «Repubblica dell’Ossola» (G. Bardoglio, «I personaggi del Corriere. Giuseppe Barberi», corrierecomo.it. reperibile per via telematica) arricchiscono in malo modo l’atlante dell’epopea nazionale con un esempio tetragono di capziosa mistagogia politica. Starebbe bene, anche se non è un comunista, tra gli inquisitori della Lubianka (la sede moscovita della Polizia politica sovietica). Ha detto, mentendo, di aver fatto liberare la Curti imprigionata a Como, nella primavera del 1945, perché accusata di collaborazionismo con il nemico (la figlia del Duce era stata catturata a Musso il 27 aprile del 1945 dai partigiani comandati da Pedro che avevano bloccato la «Colonna Mussolini» in ripiegamento verso il Ridotto valtellinese). Elena è stata liberata solo quando sua madre ha dichiarato ufficialmente all’autorità giudiziaria che la prigioniera era una figlia naturale del capo fascista. Veniva così automaticamente a cadere l’accusa di collusione con i fascisti repubblicani di Mussolini. Era un diritto inalienabile della prole quello di seguire il padre (Mussolini) nei suoi repentini spostamenti sulle verdi e ubertose rive del lago di Como pullulanti di «ribelli» scesi dai monti circostanti per partecipare alla fase finale dell’insurrezione contro la odiata «tirannide nazifascista» Le reticenze del partigiano Barberi, solidale con quanto non ha voluto mai dire il suo compagno di vita Pedro, fanno pari con quelle di Umberto II di Savoia (il re di maggio) e di A. De Gasperi che avevano rispettivamente ricevuto un’altra copia del carteggio Churchill-Mussolini dal capitano Aristide Tabasso (un capitano filomonarchico) e dal colonnello Tommaso David (uno dei capi dei tanti servizi segreti della RSI, quello delle «Volpi argentate»). Nonostante i suoi trascorsi fascisti, il David è stato insignito, dal Governo postbellico degasperiano, con la medaglia d’oro al valor militare, mentre il Tabasso ha ricevuto, per l’opera prestata, un’alta onorificenza sabauda (F. Andriola, opera citata). Poiché il carteggio Churchill-Mussolini faceva gola, per ovvii motivi, a J. Stalin (screditare W. Churchill), il David è stato a lungo braccato dai partigiani iugoslavi filosovietici di Tito (A. De Felice, comunicazione personale). Il Tabasso, invece, di sana e robusta costituzione, è morto a 41 anni in ospedale in seguito ad un banale intervento chirurgico di tonsillectomia. Una causa di morte che il figlio Franco non ha mai voluto riconoscere come tale (F. Tabasso, «Su onda 31 Roma non risponde», Sindico-Montanari Editori, 1957). L’ambasciatore giapponese barone Shinrokuro Hidaka, a cui Mussolini aveva consegnato brevi manu un duplicato dei suoi incartamenti, non si è comportato, accampando una serie di omissis, in maniera sostanzialmente diversa dagli altri due destinatari finali dei carteggi (U. di Savoia e A. De Gasperi).

L’Hidaka, guarda caso, è stato l’unico funzionario d’ambasciata giapponese a cui gli USA hanno consentito di svolgere attività diplomatiche anche dopo la fine della guerra. Non è stato cioè epurato dall’establishment americano che amministrava il Giappone sconfitto dalla bomba atomica (F. Andriola, opera citata). Il primo a fare un po’ di luce sulle carte del Duce è stato Arrigo Petacco. Lo scrittore ha divulgato i segreti di Enrico De Toma, un giovane ex tenente della GNR ammalato di protagonismo e, fatto ancor più grave, avido con ingordigia di soldi sonanti guadagnati senza dover faticare troppo. Dopo averli ottenuti dal Governo italiano, si è eclissato in Brasile da cui non è più ritornato. E’ morto recentemente nel suo albergo di Florianapolis, un altro omaggio fattogli dai politici di Roma (A. De Felice, comunicazione personale). Anzitempo si è però prodigato per rimpolpare i carteggi, consegnatigli personalmente dal dittatore con il compito di recapitarli in Svizzera, arricchendoli con documenti che sono risultati, all’esame degli esperti, dichiaratamente apocrifi. Un meschino tentativo per far lievitare il prezzo dei papiri di cui si era impossessato e su cui voleva, disonesto, lucrare. Chi ha fatto le spese dell’inciucio messo in atto dal De Toma è stato il giornalista Giovannino Guareschi finito in carcere per aver diffamato l’allora esponente di vertice della Democrazia Cristiana, A. De Gasperi. In una lettera con l’intestazione pontificia (falsa?), il De Gasperi, che trascorreva le sue giornate clandestine tra gli svolazzanti sacristi e i rubicondi prelati della basilica di San Pietro e che nel 1922 aveva votato la fiducia al Governo Mussolini, avrebbe richiesto agli americani, in modo subdolo, di bombardare l’acquedotto di Roma per fiaccare il morale della popolazione capitolina non ancora liberata dalle truppe del generale yankee Mark W. Clark che risalivano a fatica, sotto la minaccia costante delle armi naziste, la penisola italiana ridotta dai bombardamenti ad un cumulo di macerie e di rovine. Il Guareschi aveva abilmente sfruttato, per fini politico-elettorali, gli ingannevoli maneggi cartacei del truffaldino E. De Toma. La sua intenzione era quella di screditare la figura del prestigioso esponente democristiano alla vigilia di nuove elezioni parlamentari (1953). I missini volevano polarizzarre su di loro l’attenzione dell’elettorato cattolico e lo facevano indirizzando strali infuocati contro il partito di maggioranza che aveva come emblema lo scudo-crociato e come alleato in Vaticano il potentissimo Papa Pio XII (A. Petacco, «Dear Benito, Caro Winston». Mondadori, 1987). Le già menzionate 62 missive scambiate tra il capo del fascismo e Winston Churchill (finite anche loro, come sappiamo, nelle mani del De Gasperi) sarebbero attualmente conservate in un’istituzione svizzera. Si tratta di papiers prebellici compromettenti per il premier inglese: dalla londinese Downing Street, lo statista anglosassone prometteva, nel 1940, territori francesi (oltre alla Dalmazia ed alle isole del Dodecanneso) in cambio del prolungamento della neutralità italiana (la famosa non belligeranza) o di una pace separata (1941) prima che la Germania invadesse la Russia. Non si sa ancora quando questi manoscritti, recuperati nel 1945 dal Carissimi Priori che non li ha venduti nemmeno per 100.000 sterline («Churchill-Mussolini secret letters» fpp.co.uk. reperibile per via telematica), saranno desecretati e messi a disposizione degli storici che li potranno finalmente esaminare (R. Festorazzi, opera citata). Probabilmente si tratta degli stessi incartamenti duplicati capitati per le mani dell’A. Tabasso e del T. David. Il previdente Mussolini aveva, infatti, dato disposizioni a persone fidate (Nino D’Aroma dell’Istituto Luce) affinchè i suoi documenti venissero riprodotti in più esemplari (M. L. Forenza, P. Tompkins, «Carteggio Churchill-Mussolini. L’ultima verità», Rai-tre, 2004). Quelli, ad esempio, consegnati a sua moglie, Donna Rachele Guidi, e al ministro fascista Carlo Alberto Biggini sono sicuramente finiti nelle grinfie degli inglesi grazie anche all’intervento dell’industriale fascista Guido Donegani che per l’opera prestata è stato scarcerato da P. Togliatti, allora ministro di Grazia e Giustizia. Vendute a caro prezzo dal comunista D. Gorreri (due milioni e mezzo di allora), gli agenti dell’Intelligence d’oltremanica avrebbero recuperato anche le scritture originali, così almeno è quello che si dice. In Svizzera, dove si sono perse le tracce, sarebbero sbarcate anche le copie affidate dal Duce a Gianmaria Capponago, un militare che come altri (E. De Toma) ha fatto da corriere tra Gargnano, la sede del capo del Governo della Repubblica Sociale Italiana, e la neutrale Confederazione Elvetica (F. Andriola. opera citata). Per Massimo Caprara, invece, il dossier autografo confiscato al Duce sarebbe stato consegnato a W. Churchill da P. Togliatti in persona. Ricevutolo da Como, lo avrebbe dato allo statista britannico, in visita in Italia, per dimostrare il suo impegno filoccidentale, il nuovo abito che il Migliore (Ercole Ercoli, nome di battaglia) si voleva ritagliare dopo la «democratica» svolta di Salerno (aprile del 1944) (L. Garibaldi, Postfazione di M. Caprara, opera citata). Cecchè ne dica Walter Veltroni, è comunque impossibile che una copia degli incartamenti mussoliniani non sia tuttora gelosamente custodita negli archivi segreti dell’ex PCI. Probabilmente è quella fotolitata a Como nel maggio del 1945 dal giornalista dell’Unità, Ugo Arcuno. Il giornale comunista non l’ha pubblicata integralmente perché il Togliatti, dopo alcune edizioni, ne ha proibito la divulgazione sulla carta stampata. Non voleva che le discreditanti notizie riportate dal suo quotidiano danneggiassero W. Churchill, in quel momento impegnato in campagna elettorale per farsi rieleggere Primo Ministro dal popolo inglese (R. Festorazzi. opera citata). Alcuni affermano, per ritornare ai contenuti delle lettere del Duce, che il premier anglosassone avrebbe richiesto per iscritto a Mussolini di entrare in guerra a fianco della Germania per mitigare le pretese che Hitler avrebbe accampato, al tavolo della pace, a spese dell’ormai collassato impero coloniale di sua altezza reale, la futura regina Elisabetta II d’Inghilterra (A. Tarchi, «Teste dure», S. E. L. C., 1967). Paradossale è un’altra proposta formale che Churchill avrebbe fatto al capo del fascismo affinchè adoperasse tutta la sua influenza per convincere il capo nazista a rivolgere le armi esclusivamente verso la Russia, distogliendo le truppe tedesche dal fronte occidentale. Al contrario, Mussolini si è sempre prodigato per indurre l’alleato, colato nel bronzo prussiano, a riappacificarsi con i russi onde poter bloccare, congiunti ed in forze, l’avanzata degli angloamericani nel sud dell’Europa. Surreale sarebbe, infine, l’auspicato accordo che prevedeva un ribaltamento delle alleanze e la costituzione di un fronte comune (angloamericani, Italia e Germania) in chiave esclusivamente antibolscevica. Una coalizione militare che doveva ostacolare l’inarrestabile avanzata dell’Armata Rossa penetrata profondamente nel cuore ormai vulnerabile del continente europeo (A. Bertotto, Mussolini estremo», Gino Rossato Edizioni, 2007). L’ultima bolla scritta da Mussolini a W. Churchill, il 24 aprile del 1945, è stata affidata al tenente delle SS Franz Spoegler che la doveva inoltrare in Svizzera per farla pervenire nelle mani di fiduciari inglesi. Pubblicata da Lazzero Ricciotti, il Duce garantiva la restituzione dei papiri in suo possesso, più volte reclamati dal leader inglese, a patto che fossero garantiti i diritti dei fascisti sconfitti, conformemente a quanto stabilito dalle clausole della Convenzione di Ginevra (M. L. Forenza, P. Tompkins, opera citata). La lettera (è autentica?) non ha mai raggiunto il destinatario che nel dopoguerra l’ha esaminata senza fare commenti sulla materia in oggetto (A. Petacco, opera citata). Del pari infruttuoso è stato il tentativo mussoliniano effettuato per contattare, in quei giorni di fine aprile 1945, l’albionico Winnie tramite il console spagnolo di Milano F. Canthal y Giron (R. Canosa, «Mussolini e Franco», Mondadori, 2008). Per saperne di più sui documenti segreti veri o falsi, a cui Mussolini attribuiva un’importanza fondamentale per i destini futuri dell’Italia (U. Lazzaro, opera citata), aspetteremo pazientemente tempi migliori. Lo abbiamo sempre fatto, con musulmana indifferenza, dal 1945 in poi. Dopo F. Andriola (opera citata) anche Alessandro De Felice, ben ferrato sull’argomento, può renderci tutti più edotti. Spetta a lui dire, se non l’ultima, almeno una parola destinata a far chiarezza. Oggi più che mai ne sentiamo un giustificato bisogno. Professor Alberto Bertotto 6 gennaio 2014

La morte di Mussolini: chi vuole oscurarla? Scrive Italoeuropeo il 21 aprile 2009. Poche centinaia di metri di distanza e poche ore di differenza. Che importanza storico-politica può avere spostare il luogo e l’orario di morte di un prigioniero la cui sorte era, probabilmente, segnata? Apparentemente nessuna. Perché allora il nome di colui che ha ammazzato Benito Mussolini il 28 aprile del 1945 cambia ogni volta che qualcuno affronta il problema della sua esecuzione? Perché, dopo sessantaquattro anni, non è possibile stabilire con esattezza chi ha realmente fatto fuoco? Perché c’è l’interesse a mantenere le cose come stanno, a lasciare che i dubbi sostituiscano le certezze, a rendere incomprensibile un evento che ha sancito il passaggio da un regime dittatoriale ad una forma di governo che si dice essere democratica? Gli interessati sono coloro che contestano la versione dei fatti cosiddetta “ufficiale”, cioè quella, imposta dal PCI, che si legge a tutt’oggi sui libri di storia? Certamente no. Se c’è gente che ha tutto da guadagnare a mescolare le carte in tavola questi sono i comunisti o post-comunisti italiani. Allora si capisce come mai viene tollerato il palleggiarsi di responsabilità nell’ambito dello stesso terzetto di giustizieri che hanno detto di aver ucciso il Duce davanti al cancello di villa Belmonte (Giulino di Mezzegra) alle 16,10 di un uggioso sabato di fine aprile. Il killer per antonomasia Walter Audisio, alias colonnello Valerio (W. Audisio. In nome del popolo italiano. Edizioni Teti, 1975), viene baipassato dall’alter ego di Luigi Longo, il partigiano Guido, Aldo Lampredi (M. Caprara. Quando le botteghe erano oscure. Il Saggiatore, 1997) a sua volta messo in secondo piano da Michele Moretti (Pietro), il commissario politico della 52° Brigata Garibaldi reclutato a Dongo perché sapeva dove il capo del fascismo e la sua compagna, Claretta Petacci, avevano trascorso la loro ultima notte in quel di Bonzanigo (F. Giannantoni. “Gianna” e “Neri”: vita e morte di due partigiani comunisti. Mursia, 1992; M. Nese. Ma quale pista inglese. Mussolini fu eliminato per ordine del Cln. Il Corriere della Sera, 30 Agosto, 2004; F. Magni. La verità è già scritta. Moretti uccise Benito. Il Giorno, 7 Settembre, 2006). Si tollera che l’Audisio faccia la figura del bugiardo purché venga salvaguardata la vulgata che prevede un comunista come “esecutore di alte opere di giustizia” e che indica nelle ore pomeridiane e nella via XXIV maggio, quella antistante al cancello di villa Belmonte, il luogo che ha visto il tragico epilogo del ventennio fascista. Si concede ad un integerrimo patriota azionista, l’ingegner Luigi Carissimi Priori, la facoltà di revisionare l’accaduto quando ha sostenuto che a sparare sono stati più di un killer e con armi diverse (R. Festorazzi. Churchill-Mussolini: le carte segrete. Datanews, 1998) e si tace quando il taciturno e ormai vecchio Michele Moretti rivela ad un giornalista russo (Mikail Ilinski) di aver personalmente esecutato Mussolini e Claretta (F. Bartolini. Lario nascosto. Editoriale, 2006). Tuttavia, se si spostano gli orari al mattino-primo pomeriggio e i luoghi dell’esecuzione la tolleranza si riduce a zero anche se gli aguzzini hanno pure loro il fazzoletto rosso al collo. Ecco che allora il sedicente carnefice di Mussolini Giuseppe Frangi (Lino) trova inaspettatamente la morte otto giorni dopo la fine del Duce (L. Garibaldi. Vita col Duce. Effedieffe, 2001; A. Bertotto. La morte di Mussolini. Una storia da riscrivere. PDC Editori, 2008)), così come la trova nell’immediato dopoguerra anche un altro presunto giustiziere, il partigiano Luigi Canali meglio noto come capitano Neri (A. Zanella. L’ora di Dongo. Rusconi, 1993; R. Festorazzi. La gladio rossa e l’oro di Dongo. Il Minotauro, 2005). Quando è Luigi Longo (il numero due del PCI dopo Palmiro Togliatti) ad essere incolpato di tirannicidio (F. Bandini. Vita e morte segreta di Mussolini. Mondadori, 1978; U. Lazzaro. Dongo. Mezzo secolo di vergogne. Mondadori, 1997; G. Pisanò. Gli ultimi cinque secondi di Mussolini. Il Saggiatore, 2004) improvvisamente compare un memoriale, scritto da Aldo Lampredi ed estratto dall’irenico cappello a cilindro della perestroika–glasnost veltroniana e cossuttiana, dove si ribadisce che ad uccidere il leaderfascista è stato W. Audisio, colui al quale il CNLAI aveva ordinato di recarsi a Dongo con il compito esplicito di giustiziare, oltre al loro capo, anche i gerarchi fascisti catturati a Musso il 27 aprile del 1945 (A. Lampredi. La fine del Duce. L’Unità, 23 Gennaio, 1996). Le dichiarazioni di Orfeo Landini (il commissario Piero), un comunista ottuagenario che dice di aver partecipato alla mattanza due ore prima delle 16,10 e non al cancello di villa Belmonte, ma in un viottolo di Bonzanigo, passano inosservate senza suscitare scalpore anche perché la sua testimonianza è palesemente inverosimile (F. Bernini. Così uccidemmo il Duce. C. D. L. Edizioni, 1998). Alfredo Mordini (Riccardo), un altro presunto giustiziere rosso (U. Lazzaro. op. cit.; A. Viviani. Osservazioni sul mistero della morte di Mussolini e Claretta Petacci. larchivio.org. Reperibile per via telematica; P. Maccarini. Claretta e Ben. La fine. Edizioni Guardamagna, 2005), si è sempre chiuso in un ostinato silenzio, lasciando spazio ad illazioni che hanno moltiplicato i dubbi e le perplessità. Quando ha assunto le vesti dell’esecutore antimeridiano del Duce, il partigiano garibaldino Giacomo (Bruno Giovanni Lonati) si è smentito da solo. Ha scritto delle grossolane assurdità (G. B. Lonati. Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità. Mursia, 1994) a cui qualcuno ha dato credito (L. Garibaldi. La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci? Ares, 2002), facendo il gioco di coloro a cui stava bene la politica del più ce n’è meglio è.

Fa solo sorridere e mette tenerezza, senza impensierire nessuno, la versione dei fatti che prevede Claretta nel ruolo dell’esecutrice di un Duce consenziente (A. Nava. Il terzo uomo di Mussolini. Zecchini Editore, 2002). Ad aumentare la ben gradita confusione ha provveduto di recente un nipote di Mussolini (Guido), affermando che suo nonno è stato ammazzato nel cuore della notte da agenti speciali inviati da Winston Churchill in persona (A. Bertotto. Il processo a Mussolini: risultati delle indagini preliminari. Storia del Novecento, Dicembre, 2007). Per non parlare poi di quello che ha detto Francesco Cossiga quando ha “rivelato” che il comunista assassino di Giulino di Mezzegra è stato fatto velocemente espatriare dal PCI in America latina (Vite straordinarie. Rete 4, Gennaio, 2007). La volontà dei comunisti di depistare e di mistificare gli avvenimenti realmente accaduti si è estrinsecata a 360 gradi. Basta ricordare un fatto. Il mitra MAS francese calibro 7,65 (modello 1938, matricola n° 20830) usato (si dice) dai partigiani per uccidere Mussolini e la sua cortigiana preferita è stato trafugato di nascosto in Albania alla fine di novembre del 1957 (AA. VV. L’ultimo schiaffo alla Patria. Il mitra che avrebbe ucciso il Duce esposto a Tirana. politicaonline.net. Reperibile per via telematica). Non una parola è stata detta dalla nomenklatura marxista di casa nostra quando è comparsa la notizia che la Questura di Modena ha donato alla Repubblica partigiana di Montefiorino il mitra ERMA calibro 9 “con il quale vennero fucilati Benito Mussolini e Claretta Petacci” (AA. VV. Al museo partigiano di Montefiorino il mitra che uccise Mussolini. sassuolo2000.it. Reperibile per via telematica). Il silenzio totale è seguito alla imprudente dichiarazione di Michele Moretti: “Il mitra che ha ucciso Mussolini è nel solaio di casa mia” (G. Cavalleri. Ombre sul lago. Piemme, 1995) come pure a quella del generale Ambrogio Viviani: “Il mitra cal. 7,65 mod. 38 matricola 20830 è conservato al museo del KGB in Mosca dove i comunisti italiani ritennero doveroso inviarlo e dove il sottoscritto ha avuto la possibilità di vederlo e di sentirne la storia” (A. Viviani. op. cit.). Non fa quindi meraviglia se un Dongologo famoso, Franco Bandini, parla di un mitra cecoslovacco calibro 9 (F. Bandini. Vita e morte segreta di Mussolini. Mondadori, 1978) e se il comandate partigiano dell’Oltrepò pavese, professor Paolo Murialdi (già redattore de Il Giorno), asserisce che non è la pistola Beretta calibro 9 (modello 1934, matricola n° 778133), conservata nel Museo Storico di Voghera, quella con cui è stato dato il colpo di grazia a Mussolini (O. Ciai, P. Coppola. Il mitra che uccise Mussolini dal partigiano Valerio a Tirana.www.repubblica.it. Reperibile per via telematica). Silvio Bertoldi ha scritto: “Per usare una celebre frase del grande Tommaso Besozzi a proposito del bandito Giuliano e delle rivelazioni sulla sua fine, anche per Mussolini si può dire: Di sicuro c’è solo che è morto” (S. Bertoldi. Piazzale Loreto. BUR, 2001). Nel 2008 si può aggiungere senza tema di smentite: “Di sicuro si sa che non é morto come ce l’hanno raccontato i partigiani inviati dal CNLAI di Milano con il compito di fare giustizia in nome del popolo italiano” (F. Bandini. Fu fucilato due volte. Storia Illustrata, Febbraio, 1973; F. Andriola. La morte di Mussolini. Una macabra messa in scena. Storia in Rete, Maggio, 2006; F. Andriola. Il dilemma di Giulino di Mezzegra. Storia in Rete, Settembre, 2006). Per non dire “come” e “quando” è morto il Duce si sono mosse per anni forze politiche decise a non far trapelare fatti che evidentemente si volevano a tutti i costi occultare. Oggi possono sembrare insignificanti cavilli storici. Eppure per qualcuno non lo sono stati per lunghi decenni.

Il giorno in cui fu ucciso Mussolini. Accadde il 28 aprile 1945, e non a piazzale Loreto: la storia di quel giorno, scrive “Il Post” il 28 aprile 2015. Il 28 aprile 1945 fu ucciso Benito Mussolini: a ucciderlo fu probabilmente il partigiano Walter Audisio che, dopo aver fucilato Mussolini e la sua amante Claretta Petacci il 28 aprile 1945, ne trasportò a Milano i corpi, insieme a quelli di altri fascisti e repubblichini che, dopo aver preso atto della sconfitta del nazifascismo, cercavano probabilmente di scappare in Svizzera. Mussolini era stato catturato il 27 aprile dalla52sesima Brigata Garibaldi “Luigi Clerici – una brigata di partigiani le cui idee erano molto vicine a quelle comuniste – a Dongo, un piccolo comune sulla costa nord-occidentale del lago di Como. Benito Mussolini e Claretta Petacci si trovavano a Dongo perché – secondo la fonte più confermata – da lì speravano di fuggire, raggiungendo Como e poi la Svizzera. Fino al 18 aprile Mussolini era stato al Palazzo Feltrinelli di Gargnano, un comune vicino a Brescia, da dove aveva guidato la Repubblica Sociale Italiana, uno stato filo-nazista creato nel settembre del 1943 in seguito all’Operazione Quercia: la missione militare nazista che aveva liberato Mussolini, tenuto prigioniero sul Gran Sasso dopo che nel luglio 1943 una seduta segreta del Gran Consiglio del Fascismo ne aveva deciso l’arresto, reso effettivo da un ordine del re Vittorio Emanuele III e poi avvenuto il 25 luglio 1943. Mussolini restò a capo della Repubblica Sociale Italiana (RSI) – nota anche come “Repubblica di Salò”, perché da Salò, un paese sul lago di Garda, partivano i comunicati del MinCulPop, responsabile della propaganda filo-nazista – per quasi due anni: precisamente fino al 22 aprile del 1945, quando di fronte agli ultimi ufficiali della Guardia Repubblicana – una sorta di polizia interna della RSI – pronunciò il suo ultimo discorso pubblico (che secondo alcune fonti terminò con le parole “se la patria è perduta è inutile vivere”). Mussolini restò a Milano fino a quando, in seguito alle insurrezioni del 25 aprile – giorno in cui, da allora, si celebra la Festa della Liberazione – decise di scappare. Nei giorni che trascorse a Milano, Mussolini visse in una particolare condizione: non era tecnicamente prigioniero ma nemmeno al comando di un esercito. In quei giorni ci furono anche trattative che coinvolsero le forze naziste d’occupazione, Mussolini e alcuni rappresentanti del CLN, cioè il Comitato di Liberazione Nazionale, l’insieme delle forze che dal settembre 1943 lottavano contro il fascismo. Gli storici sembrano concordare sul fatto che in quei giorni a Mussolini fu offerta la possibilità di resa, che probabilmente non avrebbe portato a una sua condanna a morte. Mussolini rifiutò soprattutto per non voler passare da traditore, arrendendosi prima dei nazisti. Rifiutata la resa e scelta la fuga, Mussolini nella sera del 25 aprile – poco dopo l’ordine di insurrezione generale – partì per Como insieme alla sua amante Claretta Petacci, ad alcuni fascisti (accompagnati dalle loro famiglie) e al tenente tedesco Bizier, incaricato da Hitler di scortare Mussolini. Le teorie sul perché Mussolini scelse Como sono diverse: secondo alcuni il suo intento era nascondersi fino all’arrivo degli Alleati (che Mussolini reputava più affidabili dei partigiani), secondo altri l’idea di Mussolini era fin dall’inizio fuggire in Svizzera (che però nei mesi precedenti aveva già rifiutato l’ingresso di altri ex gerarchi fascisti). Un’altra ipotesi vuole che il piano di Mussolini prevedesse di raggiungere il Ridotto Alpino Repubblicano: il luogo, che coincideva più o meno con la Valtellina, da cui gli ultimi fedeli della RSI volevano organizzare la loro ultima difesa. Mussolini, Petacci e gli uomini e le donne che li accompagnavano passarono da Menaggio e Grandola – due paesi sul lago di Como – e decisero di aggregarsi a un convoglio tedesco formato da circa 200 soldati e alcune decine di autocarri. Nel pomeriggio del 27 aprile Mussolini arrivò a Dongo a bordo di un convoglio di camion. Il convoglio fu fermato durante un controllo da parte dei partigiani: Mussolini fu riconosciuto da alcuni partigiani, disarmato e arrestato dalla 52esima Brigata Garibaldi “Luigi Clerici”. Sulle modalità che portarono alla decisione di uccidere Mussolini, sull’identità di chi lo uccise, così come sull’effettivo luogo della sua fucilazione esistono numerose e tra loro molto diverse versioni. È quasi certo che Mussolini fu ucciso a Giulino di Mezzegra, una frazione dell’attuale comune di Tremezzina, in provincia di Como e a circa 20 chilometri di distanza da Dongo. È anche quasi sicuro che a fucilare Mussolini fu il partigiano Walter Audisio, che procedette alla fucilazione dopo diretti contatti tra la sua Brigata partigiana e più alti esponenti del CLN e del CLNAI, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. Questo perché la Resistenza antifascista voleva assumersi la responsabilità storica dell’uccisione di Mussolini, preferendo non lasciare la decisione e l’eventuale fucilazione agli Alleati. Ancora più incertezze, dovute alla concitazione di quel momento storico, esistono sul perché – ed eventualmente rispondendo all’ordine di chi – si decise di portare i corpi di Benito Mussolini, Claretta Petacci e di altri diciotto gerarchi della RSI a Milano, in piazzale Loreto, dove vennero appesi a testa in giù quasi nello stesso luogo in cui il 10 agosto 1944 vennero fucilati quindici partigiani antifascisti dalla Legione autonoma mobile Ettore Muti, un corpo militare della RSI.

Le ultime ore di Mussolini nel film mai visto in Italia. Partigiani attori in «Tragica alba a Dongo» censurato da Andreotti. La copia è stata ritrovata in una cantina, gli interpreti del Duce e di Claretta sono sempre di spalle, scrive Paolo Mereghetti il 24 novembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. Ci sono voluti sessantacinque anni, ma alla fine Tragica alba a Dongo ha trovato il suo primo pubblico, quello del Torino Film Festival dove ieri è stata proiettata la copia restaurata a cura del Museo Nazionale del Cinema. Perché questo strano «film-documentario» - come si autodefinisce nella lunga didascalia introduttiva - che dura solo 37 minuti si è conquistato un posto nella storia del cinema italiano per la sua invisibilità: non solo perché si considerava perduto (una copia è stata ritrovata fortunosamente in una cantina austriaca) ma perché Giulio Andreotti, ai tempi sottosegretario del governo De Gasperi con delega allo spettacolo, gli negò il visto di censura «in quanto si ritiene che possa ingenerare all’estero errati e dannosi apprezzamenti sul nostro Paese». Quella nota, che porta la data del 24 gennaio 1951, fu la pietra tombale sul film che due ex partigiani, Emilio Maschera e Ugo Zanolla, avevano deciso di produrre, per ricostruire - sempre come dice la didascalia all’inizio del film - «la più misteriosa tragedia politica del secolo». Sicuramente di misteri nel Novecento ce ne sono stati altri, ma nell’Italia dell’immediato dopoguerra (le riprese, durate quattro mesi e mezzo, iniziarono nel 1949) la Resistenza armata e le sue gesta era qualcosa su cui in molti volevano stendere un velo di silenzio, soprattutto dopo le elezioni del 1948. Nasce probabilmente da qui, dalla voglia di ricostruire l’episodio della cattura del Duce in fuga verso la Svizzera su cui già si accavallavano versioni contrastanti, l’idea del film, la cui realizzazione fu affidata ai giornalisti Vittorio Crucillà e, per la sceneggiatura, Ettore Camesasca. Cinematograficamente il risultato lascia molto a desiderare: gli interpreti erano tutti dilettanti, o peggio, e solo il direttore della fotografia, Duilio Chiaradia poteva vantare un vero curriculum. Ma non era certo la drammaturgia o la recitazione le qualità che stavano più a cuore ai promotori del film. A loro interessava la verità dei fatti: «La macchina da presa - si legge ancora all’inizio del film - ha ricostruito e ripete fedelmente fatti, cose, ambienti e uomini così come apparvero e agirono in quelle tragiche giornate d’aprile». Gli interpreti erano gli stessi partigiani che avevano catturato Benito Mussolini (impersonato da un attore che si vede poco e solo di spalle, così come Claretta Petacci); i due contadini che ospitano il Duce nella sua ultima notte sono gli autentici coniugi De Maria e la camera da letto è quella vera di casa loro; i discorsi che si sentono, le accuse che rivolgono al prigioniero sono certamente quelle che furono davvero pronunciate in quelle ore. Proprio quella «verità» che faceva paura a chi era al potere. Qualche cosa oggi può far sorridere: l’uccisione del partigiano Mirko nello scontro con l’autoblindo (che il montaggio mette dopo la prima trattativa con l’ufficiale tedesco a capo dell’autocolonna che risaliva il lago di Como mentre invece avvenne prima), qualche eccesso di retorica nel commento fuori campo, la voglia di leggere nelle condizioni meteorologiche un contrappunto alla drammaticità di quelle ore. Ma è il senso dell’operazione che non può sfuggire: quello di un cinema che cercava, con molta fatica, di aprire gli occhi agli italiani mentre altri volevano farli chiudere. 

Le ultime ore di vita di Benito Mussolini in anteprima al Torino Film Festival. La pellicola è una sorta di quello che oggi viene chiamato docufilm, ricostruzione di un fatto reale con attori, scrive Adriano Palazzolo, Lunedì 23/11/2015, su "Il Giornale". Gli ultimi minuti vissuti da Benito Mussolini e Claretta Petacci, prima di essere fucilati. È una storia inedita, raccontata per la prima volta da chi visse in prima persona quei momenti dell'aprile 1945, "Tragica alba a Dongo", il cortometraggio di Vittorio Crucillà presentato oggi in anteprima al Torino Film Festival. Girato nel 1950, il cortometraggio venne bloccato dalla censura e mai distribuito. Ritenuto perso per decenni, è stato ritrovato in una cantina austriaca dai proprietari, la famiglia Paternò di Pinerolo, e restaurato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino presso il laboratorio L'Immagine Ritrovata di Bologna. "Un documento storico, straordinario ed emozionante, che abbiamo restaurato per il suo grande valore di testimonianza", sottolinea il direttore del Museo del Cinema, Alberto Barbera. Una produzione semi-amatoriale, della durata di 38 minuti, girato dal giornalista Vittorio Crucillà, che di cinema ne sapeva poco. "Il suo intento - spiega lo storico Giovanni De Luna - era raccontare un fatto su cui il governo italiano non amava soffermarsi. Andreotti lo bloccò con la censura per ben tre volte. Senza contare che anche la famiglia di Mussolini si era opposta. E così aveva fatto pure il Comune di Dongo, nel comasco, per non venir tacciato di efferatezza". la pellicola è una sorta di quello che oggi viene chiamato docufilm, ricostruzione di un fatto reale con attori. Alcuni di questi ultimi sono gli stessi partigiani che bloccarono il convoglio tedesco che trasportava Mussolini, oltre ai coniugi Di Maria nel cui casolare Mussolini e la Petacci vennero rinchiusi a poche ore dalla morte. I loro primi piani arrivano al cuore dello spettatore di oggi: non dicono una parola, si muovono come degli automi, quasi incapaci di cogliere la grandezza di quelle ore.

Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità, il libro di Bruno Giovanni Lonati, 2009. Sulle ultime ore di Mussolini e di Claretta Petacci molto è stato detto e scritto nel corso degli anni. Uno degli eventi più drammatici legati alla Seconda guerra mondiale, oggetto di innumerevoli inchieste e testimonianze, ha finito per diventare un enigma sul quale molti, non sempre in buona fede, hanno espresso la loro opinione. L'autore, testimone e protagonista della vicenda, racconta, sul filo della memoria, quella fatidica "missione di guerra" dove un ruolo non secondario avrebbero avuto agenti segreti britannici che non volevano un processo pubblico a Mussolini.

Una testimonianza che ha aperto inquietanti interrogativi su ciò che accadde davvero quel 28 aprile. DAL TESTO - "Mi fermai stupito. Mussolini non era solo, c'era anche una donna. Era la Petacci, lo capii subito. "Del suo rapporto con Mussolini seppi solo come la maggioranza degli italiani dopo l'8 settembre 1943. "[...] Mussolini era in piedi, la Petacci seduta sul bordo del letto. "Mussolini l'avevo visto una volta da vicino, alcuni anni prima, quando ero un giovane avanguardista a Milano. "Ricordavo il suo aspetto marziale, posatore, quasi insolente, burbanzoso, il suo mento che quasi parlava, il suo visto abbronzato, i suoi occhi penetranti. "Forse, se l'avessi visto per strada in borghese non l'avrei riconosciuto, anche se in alcune fotografie apparsa sui giornali dell'epoca già lo si vedeva precocemente invecchiato, un cascame d'uomo, con la faccia molto scavata e con una sfumatura sgradevole. Era un uomo finito, almeno fisicamente. "Aveva il viso stanco e smagrito. Gli occhi cerchiati, lo sguardo spento. Le spalle infossate. Ci guardò come per chiedersi: «E adesso chi sono questi, cosa vogliono?»".

L'AUTORE - Bruno Giovanni Lonati è nato a Legnano nel 1921. Dal 1936 al 1956 ha lavorato alla Franco Tosi; in questo periodo sono compresi il servizio militare e la successiva attività partigiana, seguita sino al febbraio del 1946 da quella politica e sindacale. Trasferitosi a Torino nel 1958, ha poi ricoperto incarichi dirigenziali alla Fiat. Dopo il 1980 ha diretto a Bari un’importante società metalmeccanica; è stato poi consulente industriale e ha scritto diversi libri di carattere tecnico.

INDICE DELL'OPERA - Prefazione - Prima parte. I dubbi - I. Io, come e perché - II. La storia e gli storici - III. Alcuni protagonisti e testimoni secondo la storia ufficiale - IV. Gli altri che veramente potevano e volevano - V. Quelli che potevano capire una non verità e hanno taciuto - Seconda parte. Le certezze - I. Fine della mia guerra partigiana in Valle Olona - II. Gli ultimi mesi a Milano prima del 25 aprile - III. I primi giorni dell'insurrezione - IV. La missione imprevista - Mezz'ora con Mussolini e la Petacci - VI. La morte del Duce e della Petacci - VII. Il ritorno - VIII. Subito dopo - IX. Il silenzio: un codice d'onore da rispettare - X. Fine di una carriera politica - Postfazione.

Il ragazzo del lago se n’è andato, scrive Marcello Foà il 16 agosto 2016 su "Il Giornale". Aimone Canape se n’è andato nella sua Dongo. Aveva 94 anni ma per i lettori resterà per sempre “Il ragazzo del lago”, il protagonista del mio primo romanzo. Lo conobbi nel 2008 grazie a un comune amico, Emilio Zuccoli, superando le mie iniziali ritrosie. “Devo presentarti una persona con una storia straordinaria”, mi diceva. E aveva ragione. Quando lo incontrai pensai di trarne un articolo. E che articolo: l’incontro con l’ultimo testimone della cattura di Mussolini. Ma Aimone, che aveva 86 anni, si oppose. Non voleva che si parlasse di lui. Nonostante la sua storia fosse straordinaria. La cattura di Mussolini a Dongo era soltanto l’ultimo episodio di una vita che, sebbene nel 1945 avesse appena 23 anni, era stata incredibile e che aveva permesso a lui, giovanissimo apprendista, di vivere, ad appena 16 anni, i fasti della Berlino nazista non da spettatore ma come un piccolo principe, adottato di fatto da una delle famiglie più ricche di Germania grazie alla prima di una serie di straordinarie coincidenze. Aimone, che lasciò Berlino e una posizione in apparenza invidiabile per una delusione amorosa, non sapendo che quel gesto impulsivo da adolescente gli avrebbe salvato la vita. Aimone che tornato in Italia diventa soldato, poi dopo l’8 settembre partigiano e viene catturato, arrestato, torturato. Il partigiano che deve morire più volte ma che si salva sempre, guidato dall’istinto e dal destino. Aimone che interroga i gerarchi fascisti e poi si trova a tu per tu con Mussolini, nel giorno più drammatico della storia del Duce. Quando seppe che l’editore Piemme mi aveva invitato a raccontare la sua storia non come articolo, né come saggio storico ma come romanzo, Aimone si convinse. E’ così che nacque Il ragazzo del lago, diventato un best seller. E’ stata la grande gioia di Aimone, il suo conforto negli ultimi anni, segnati da un decadimento fisico – era diventato sordo e praticamente cieco – che lo ha isolato dal mondo. Ciao, amico Aimone.

Addio al «ragazzo del lago» che catturò Benito Mussolini. Aimone Canape, 94 anni, è morto il giorno di Ferragosto. Era l’ultimo dei componenti della squadra che il 27 aprile 1945, a Dongo, arrestò il duce, scrive Antonio Carioti il 17 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Conosceva bene il tedesco e per questo mandarono lui, giovane partigiano di 22 anni, a parlamentare con i militari del Terzo Reich provenienti da Menaggio, che i partigiani avevano bloccato tra Musso e Dongo, il 27 aprile 1945, sulla strada lungo la riva occidentale del lago di Como. In quel momento Aimone Canape, scomparso in questo ferragosto all’età di 94 anni, si trovò faccia a faccia con la storia d’Italia in uno dei suoi momenti più tragici. A quella colonna delle forze armate naziste si erano aggregati infatti Benito Mussolini e vari altri esponenti della Repubblica sociale italiana, che caddero così nelle mani dei partigiani al comando di Pier Luigi Bellini delle Stelle. Canape era l’ultimo sopravvissuto tra i testimoni diretti della cattura del Duce e aveva raccontato la sua versione dei fatti a Marcello Foa, firma del «Giornale», in un libro pubblicato nel 2010 dall’editore Piemme: Il ragazzo del lago. Secondo quanto era stato riferito a Canape da altri partigiani, Mussolini, quando fu riconosciuto e arrestato, non era travestito da soldato tedesco, come si dice comunemente, ma si era rannicchiato carponi sul fondo di un camion, con un militare del Reich seduto su di lui nel tentativo vano di nasconderlo alla vista: pare che a tradirlo sia stato l’elmetto che portava in testa, rotolato sul pavimento dell’automezzo perché non agganciato sotto il mento. Aimone ebbe dunque anche modo di vedere il dittatore dal vivo: l’ultima volta che lo scorse fu alle 18.30 di quel giorno d’aprile, mentre veniva condotto alla caserma della guardia di finanza di Germasino, sopra Dongo. Meno di ventiquattr’ore dopo, almeno secondo la versione ufficiale dei fatti, Mussolini sarebbe stato fucilato a Giulino di Mezzegra, insieme all’amante Claretta Petacci, dal capo partigiano comunista Walter Audisio. Ma su questo Canape non aveva particolari rivelazioni da fare: il suo racconto non aveva nulla a che fare con i tanti sensazionalismi fioriti intorno alle ultime ore del Duce. Nato a Dongo il 25 luglio 1922, Aimone era il terzo di cinque fratelli maschi. E già prima della guerra aveva vissuto, nonostante la giovane età, vicende non comuni. Sedicenne indirizzato verso la carriera alberghiera, nel 1938 aveva avuto l’opportunità di recarsi in Germania. Grazie a uno scambio con l’Hotel Metropole Suisse di Como, era finito a Oberhof presso il castello dei principi Watzesky, trasformato in un albergo di lusso. Qui l’incredibile colpo di fortuna: l’incontro con la duchessa Elli Steinlich, che rimase colpita, fino al punto di svenire, dalla somiglianza tra Aimone e suo figlio, morto adolescente. La signora, esponente di una delle famiglie più in vista dell’aristocrazia tedesca, prese il ragazzo italiano sotto la sua protezione, lo portò con sé a Berlino, gli diede l’occasione di conoscere la classe dirigente della Germania nazista, gli trovò un posto al prestigioso Kaiserhof Hotel, dove Canape raccontava di aver avuto l’occasione di incontrare personalmente prima il ministro e genero del duce Galeazzo Ciano e poi, sia pure per combinazione, lo stesso Adolf Hitler, che con lui, riferiva, si era comportato in modo affabile. Intanto però era scoppiata la Seconda guerra mondiale e Aimone era stato richiamato sotto le armi in Italia, dove era tornato nel gennaio 1941. La morte del fratello Vittorio, arruolato in Marina, gli permise di evitare il fronte. I momenti difficili per lui cominciarono dopo l’8 settembre 1943, quando si unì ai partigiani e venne arrestato e torturato. Raccontava di essere sfuggito due volte per un soffio alla deportazione in Germania. Non nutriva però un desiderio di vendetta. Anzi, nelle ore tragiche di Dongo, mentre i fascisti che accompagnavano Mussolini venivano fucilati, Canape si adoperò per proteggere la moglie di Fernando Mezzasoma, ministro del governo di Salò, e Zita Ritossa, convivente di Marcello Petacci, fratello di Claretta. Consentì che la passasse liscia anche la sarta che, durante l’occupazione nazista, lo aveva denunciato ai tedeschi.

Mussolini, l'ultima verità. Il partigiano che fucilò Mussolini e svelò le carte segrete di Churchill, scrive il 17 novembre 2015 Bergamo Post”. Bruno Giovanni Lonati era uno che aveva fatto la guerra, da partigiano. Era un comandante della 101esima Brigata Garibaldi e i suoi compagni, quelli che come lui combattevano tra Valle Olona e Milano, lo chiamavano con il nome di battaglia “comandante Giacomo”. Giacomo, o Bruno Giovanni, se si preferisce, era nato il 3 giugno 1921, a Legnano. Dopo la guerra ha lavorato per la Franco Tosi, si è trasferito a Torino, dove è entrato nella Fiat, e dal 1980 è stato consulente di un’importante industria metalmeccanica, a Bari. Una volta raggiunta la pensione, è andato a vivere a Brescia. È morto domenica, a 94 anni. I funerali si sono tenuti lunedì, nella chiesa di Sant’Angela Merici. «Mussolini, l’ho ucciso io». Lonati affermava di avere portato a termine la sentenza di condanna di Benito Mussolini e della sua amante, Claretta Petacci, il 28 aprile 1945. La sua versione era piuttosto diversa da quella ufficiale. Dopo cinquant’anni di silenzio, Lonati ha pubblicato un libro, Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità (Mursia, 1994), in cui ha raccontato di aver fucilato il Duce su ordine di un agente segreto inglese, John Maccaroni, detto il «capitano John», il quale lo avrebbe contattato il 27 aprile. Lonati avrebbe dunque agito nell’ambito di una missione segreta che aveva per obiettivo la distruzione del carteggio tra Winston Churchill e Benito Mussolini, costituito da lettere che i due capi di Stato si erano scambiati durante il conflitto. Nel 2002 il giornalista e storico Luciano Garibaldi confermò la versione di Lonati, aggiungendo nuovi particolari, e pubblicò i risultati delle sue ricerche in La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci, volume edito da Ares. La versione ufficiale. Secondo la versione storica, Mussolini sarebbe stato ucciso dal comandante partigiano Walter Audisio, noto con il nome di Colonnello Valerio. Quel 28 aprile 1945, a Bonzanigo di Mezzegra (Como), sarebbe stato Valerio a sparare al Duce e alla Petacci, poco dopo le 11 del mattino. Per avvalorare tale versione, nel marzo 1947 Audisio scrisse cinque articoli per l’Unità in cui raccontò di essere stato l’unico esecutore materiale della sentenza approvata a Milano dal Comitato di Liberazione il 25 aprile. Audisio disse anche di avere operato nell’ambito di una missione cui avevano partecipato i partigiani Aldo Lampredi e Michele Moretti. Non fece mai il nome di Lonati. La missione di Lonati. Il carteggio Churchill-Mussolini non fu recuperato e nulla si sa della sorte a cui andò incontro. Le missive furono spedite a partire dal 21 settembre 1944. In questa data, infatti, incominciarono a esserci contatti segreti tra il capo fascista e gli emissari britannici, presso il confine svizzero. Ci furono anche delle telefonate, intercettate dai servizi segreti tedeschi a Salò, che suggerirebbero la presenza di accordi segreti con Churchill. Il 27 aprile 1945, inoltre, Mussolini aveva con sé una borsa piena di documenti, quando fu catturato. Chi fu in grado di ispezionarla ha raccontato che conteneva documenti di varia natura e una parte della corrispondenza con il primo ministro inglese. È a questo punto che è entrato in scena Lonati. Il partigiano Giacomo sarebbe stato contattato dal capitano John, ufficiale dello Special Operations Executive, lo stesso 27 aprile a Milano, insieme ad altri tre partigiani. Il commando ricevette informazioni circa il luogo preciso di detenzione di Mussolini da un altro agente, posizionato a Tremezzo. I tre avrebbero così superato la guardia carceraria, perdendo un compagno nello scontro, e Lonati avrebbe poi fatto fuoco sul Duce e sulla sua amante. Cinquant’anni di silenzio. Il carteggio Churchill-Mussolini sparì dalla circolazione, segno che, forse, la missione di Lonati andò a buon fine. Dopo avere effettuato alcune foto ai cadaveri, l’agente inglese “John” avrebbe però concordato il silenzio di Lonati e dei due partigiani superstiti per cinquant’anni, motivo per cui il capitano Giacomo scrisse le sue memorie solo nel 1994. Nel 1982, però, Lonati si sarebbe recato dal console inglese a Milano, il quale gli avrebbe anche mostrato le foto scattate da “John” e avrebbe approvato una dichiarazione, da spedire a Lonati allo scadere dei cinquant’anni, per confermare la sua versione dei fatti. In realtà, né la foto, né la dichiarazione furono mai rese pubbliche.

Il partigiano e i misteri del Duce. Scrive Mario Avagliano il 10 Maggio 2016. Chi uccise Benito Mussolini e la sua amante Claretta Petacci il 28 aprile del 1945? E quali misteri nasconde la tragica fine del dittatore fascista, il cui corpo venne poi appeso a testa in giù a Piazzale Loreto a Milano, proprio nel luogo dove nell'agosto del '44 erano state esposte in pubblico per sfregio le salme di quindici partigiani? Gli storici non sanno ancora dare una risposta definitiva a questi quesiti. Il 16 novembre 2015 è morto a 94 anni, nella sua casa a Brescia, uno degli ultimi testimoni di quegli avvenimenti, l'ex partigiano Bruno Giovanni Lonati, nome di battaglia «Giacomo», commissario politico della 101a Brigata Garibaldi. Nel 1994 Lonati pubblicò il libro "Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta: la verità" (Mursia), in cui si assunse la responsabilità di essere stato l'autore materiale dell'uccisione del dittatore fascista, tre giorni dopo la liberazione di Milano. Un'esecuzione che sarebbe avvenuta poco dopo le ore 11, in una stradina a Bonzanigo di Mezzegra, sul lago di Como, nell'ambito di una missione segreta diretta da un agente segreto inglese, figlio di emigrati italiani in Gran Bretagna, detto «il capitano John», ufficiale dello Special Operations Executive (Soe). Una testimonianza clamorosa, che smentiva la versione ufficiale circolata per cinquant'anni, in base alla quale ad uccidere Mussolini con una scarica di mitra Sten era stato il partigiano comunista Walter Audisio, il famoso Colonnello Valerio, coadiuvato dai compagni Michele Moretti e Aldo Lampredi, davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra; azione poi rivendicata dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia con un comunicato emesso il giorno dopo. Secondo la versione di Lonati, poi definita dagli storici "la pista inglese", lo scopo della missione sarebbe stato il recupero del presunto carteggio tra Winston Churchill e Mussolini, al fine di cancellare le tracce di quel rapporto imbarazzante, attraverso la soppressione di due scomodi testimoni, lo stesso duce e la Petacci, prima che finissero nelle mani degli americani, che avrebbero voluto sottoporre il capo del fascismo ad un processo. Il memoriale di Lonati afferma che il "carteggio Churchill-Mussolini" non fu trovato e che tuttavia i servizi segreti inglesi avrebbero concordato il silenzio di Lonati e dei due partigiani superstiti per altri cinquant'anni. Per tale motivo il suo libro sarebbe uscito solo allora. Una ricostruzione dei fatti confermata nel 2002, con nuovi dettagli, dal giornalista Luciano Garibaldi nel saggio "La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci" (Ares), oltre che dall'ex agente segreto americano Peter Tompkins, secondo cui addirittura il futuro segretario del Pci Luigi Longo avrebbe organizzato la finta fucilazione del duce per nascondere la verità. Lo stesso Renzo De Felice, nel libro "Rosso e Nero" (Baldini e Castoldi, 1995), ritenne credibile un intervento inglese per eliminare Mussolini ed evitare una sorta di processo di Norimberga nei confronti del duce. Il racconto di Lonati, però, era privo di riscontri documentali e presentava diversi punti oscuri, contrastanti con i risultati di altre ricerche storiche. L'orario dell'esecuzione fu davvero le 11 di mattina o le quattro e dieci di pomeriggio come riferisce la versione ufficiale? Come mai il carteggio tra Churchill e Mussolini non è mai venuto fuori? Perché l'altro componente del commando di Lonati, all'epoca ancora vivente, si rifiutò di confermare la sua versione? Va detto che fra l'altro il numero di colpi sparati dichiarato dall'ex partigiano "Giacomo" non corrisponde con i rilievi compiuti sul corpo di Mussolini e che Lonati si sottopose anche all'esame della macchina della verità, con esito negativo. Di recente lo storico Mimmo Franzinelli ha smontato pezzo per pezzo, con uno studio documentato, la tesi dell'esistenza di un carteggio segreto tra il duce e lo statista britannico ("L'arma segreta del Duce. La vera storia del carteggio Churchill-Mussolini", Rizzoli, 2015). La "pista inglese" si è quindi di fatto indebolita. Resta da capire il motivo che avrebbe spinto un personaggio di rilievo come Lonati a sostenere tale tesi e ad alimentare quella che sembra una grande "bufala" storica. E infatti l'ex partigiano "Giacomo", nato a Legnano il 3 giugno 1921, non fu un esponente di secondo piano della Resistenza. Fu commissario politico della 101a Brigata Garibaldi e comandante di una divisione partigiana formata da tre brigate operanti nel capoluogo lombardo. Nel dopoguerra Lonati riprese il lavoro alla Franco Tosi e trasferitosi poi a Torino nel 1958, ricopri incarichi di dirigente alla Fiat e negli anni ottanta guidò a Bari un'importante società metalmeccanica. Dopo la pensione si stabilì a Brescia, dove ha trascorso gli ultimi anni della sua vita, prima di portare i suoi segreti nella tomba. Mario Avagliano

Le ultime ore di Mussolini, 2006, Baima Bollone Pierluigi. Chi ha ucciso Benito Mussolini? Con quale arma e con quanti colpi? Il suo corpo e quello di Claretta Petacci sono stati sottoposti, prima o dopo la morte, a violenza? Dopo uno studio durato anni, già presentato in convegni e trasmissioni televisive, il criminologo Baima Bollone ricompone tutti i documenti e le testimonianze sull'argomento utilizzando nuovi reperti e tecniche moderne di ricostruzione fotografica. Emergeranno così particolari finora non considerati, grazie anche alla competenza di medico legale che l'autore ha dimostrato nei suoi studi sulla Sacra Sindone e sulla vita e la morte di Gesù Cristo.

La morte di Benito Mussolini e Claretta Petacci: Una verità a portata di mano, scrive Alberto Bertotto. "Uccidere un uomo è una tragedia e la motivazione che si dà a questo gesto non ne cambia la dimensione" (Landolfi E., Un certo Mussolini Benito "borgomastro a Gargnano", Edizioni dell'Oleandro, 1999). Il recente e pregievole libro (Le ultime ore di Mussolini, Mondadori, 2005) di Pierluigi Baima Bollone, Professore ordinario di Medicina legale all'Università di Torino, riporta in auge, con buona pace di numerosi "Dongologi", la versione secondo cui Benito Mussolini e Claretta Petacci furono uccisi a Giulino di Mezzegra poco dopo le 16 del 28 Aprile 1945 davanti al cancello di villa Belmonte sulla strada carrozzabile (via XXIV Maggio) che congiunge la frazione di Giulino con quella più a valle di Azzano. Sulla scena dell'esecuzione erano presenti tre partigiani comunisti: Walter Audisio (Valerio), Aldo Lampredi (Guido) e Michele Moretti (Pietro). Le armi usate sarebbero state (il condizionale è d'obbligo) una pistola Beretta calibro 9 mm corto (matricola n° 778133) e un mitra francese MAS calibro 7,65 mm lungo (matricola n° F. 20830). Baima Bollone (op. cit.) asserisce che sia Mussolini che la Petacci sono stati raggiunti da colpi sparati da entrambe le armi confermando così la tesi di un altro medico legale, Aldo Alessiani, secondo cui la morte del Duce e della sua amante fu provocata da due armi di cui una a colpo singolo ed una a raffica. Ciò si è desunto dalle diverse direzioni ed angolazioni dei colpi inferti (Alessiani A. Il teorema del verbale n. 7241, s. e. , Roma 1990, in L'Archivio "storia-history", reperibile per via telematica). Degno di nota a tal proposito è stato il riscontro di due proiettili calibro 9 mm corto trovati tra i resti mortali di Claretta Petacci in occasione di una esumazione della salma avvenuta nel 1947 (Baima Bollone P., op. cit.). Dopo l'esecuzione, la pistola Beretta calibro 9 venne donata da Aldo Lampredi ad Alfredo Mordini (Riccardo), capo del plotone dei partigiani dell'Oltrepò pavese che uccisero a Dongo i gerarchi della Repubblica Sociale Italiana nel tardo pomeriggio del 28 Aprile 1945, perché la custodisse in ricordo suo e dello storico compito a cui era servita. La pistola, dono della vedova Mordini, è attualmente custodita nel Museo storico di Voghera (Bernini F., Così uccidemmo il Duce, C.D.L. Edizioni, 1998). Il mitra francese MAS calibro 7, 65 apparteneva invece a Michele Moretti commissario politico della 52° Brigata Garibaldi che catturò i componenti della colonna Mussolini, Petacci inclusa, il giorno prima (27 Aprile) nei pressi del paese di Musso poco distante da Dongo. L'arma requisita dal colonnello Valerio dopo il fatto di sangue è stata data dallo stesso in omaggio al Museo storico nazionale di Tirana (Albania) che dal 1980 la espone al pubblico (Vacca G., Sinani S., Vi regalo il mitra che ha sparato al Duce, in "Corriere della Sera", 31 luglio 2004). Come si può leggere nella postfazione del libro di Luciano Garibaldi dal titolo: La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci? (Ares, 2002), il coinvolgimento di Aldo Lampredi nell'uccisione del Duce e della Petacci è autorevolmente sostenuto da Massimo Caprara segretario, ai tempi di Dongo, del leader del Partito Comunista Italiano (PCI) Palmiro Togliatti da cui Caprara apprese la notizia. Da allora l'identità di Lampredi, miliziano della Ceka, fu accuratamente celata come il Komintern era uso fare per coprire gli uomini dei "servizi bagnati" cioè di sangue. Anche Marcello Staglieno nel suo Arnaldo e Benito. Due fratelli (Oscar Storia Mondadori, 2004) ritiene Aldo Lampredi un probabile esecutore. Dello stesso parere è pure Ambrogio Viviani, un generale dei servizi segreti di casa nostra (Viviani A., La fucilazione del Duce, www. Il Duce. Net, reperibile per via telematica). Insieme ad altri (Saini E., La notte di Dongo, Casa Editrice Libraria Corso, 1950; Monelli P., Mussolini piccolo borghese, Garzanti, 1972; Bianchi G,., Mezzetti F., Mussolini Aprile '45: L'epilogo, Editoriale Nuova, 1979), il giornalista e storico Franco Giannantoni afferma invece che il tirannicida fu Michele Moretti e ciò si evince leggendo il libro intitolato : "Gianna" e "Neri": vita e morte di due partigiani comunisti (Mursia, 1992). Walter Audisio, infine, si è più volte proposto sulla carta stampata come giustiziere di Mussolini. Basta a tal riguardo citare il libro comparso dopo la sua morte dal titolo: In nome del popolo italiano edito da Edizioni Teti nel 1975. La raffica mortale che attinse il Duce e la Petacci sarebbe stata sparata dal mitra MAS calibro 7,65 datogli dal Moretti perché il suo Thompson americano si era inceppato. Un ragionamento induttivo ha permesso a Luciano Garibaldi di giungere alla conclusione che ad uccidere Mussolini siano stati partigiani comunisti dietro l'imput dei servizi segreti inglesi (Garibaldi L., op. cit.), opinione per altro condivisa da un eminente studioso del Fascismo (Panza P., De Felice "I servizi inglesi dietro la morte del Duce", in "Corriere della sera", 18 novembre 1995). Poco credibili sono, infine, quelle versioni sulla morte del Duce che prevedono l'intervento di partigiani non compresi nel terzetto formato da Audisio, Moretti e Lampredi (Borzicchi F., Dongo. L'ultima autoblinda, Ciarrapico Editore, 1984; Vannozzi E., La fucilazione di Mussolini. Una storia riscritta, La Cartotecnica, Grosseto, 1989). Dall'esame del verbale autoptico di Mussolini e di fotografie, ottimizzate con l'ausilio di programmi elettronici e di metodi automatici, scattate a piazzale Loreto e all'obitorio milanese di via Ponzio, Baima Bollone (op. cit.) è portato ad avallare la versione di un sedicente testimone oculare: il partigiano comunista Guglielmo Cantoni (Sandrino), uno dei due carcerieri del Duce prigioniero a casa De Maria. A sparare a Mussolini sarebbero stati Audisio con la pistola e Moretti con il mitra secondo le modalità operative usate dai commando gappisti che prevedevano prima il ferimento dell'addome e poi quello fatale del tronco, come accaduto il 18 Dicembre 1944 per l'omicidio del Federale di Milano Aldo Resega. Si deve però notare che il Cantoni non è un personaggio affidabile avendo più volte smentito anche per iscritto (sull'Unità) quanto in precedenza rivelato non per amor del vero ma bensì per lucro (Pisanò G., Gli ultimi cinque secondi di Mussolini, Il Saggiatore Net, 2004). Per caratterizzare meglio il personaggio, è sufficiente ricordare che lo stesso ha anche affermato che nella notte tra il 27 ed il 28 Aprile era dovuto intervenire per impedire effusioni amorose preagoniche (sic!) tra il sessantaduenne Duce e l'amante Claretta (Baima Bolone P., op. cit.). In tale contesto ritengo opportuno riportare quanto asserito dall'ingegner Luigi Carissimi Priori uno dei custodi del fantomatico carteggio Churchill-Mussolini (Andriola F. Mussolini-Churchill. Carteggio segreto, PIEMME 1996). Carissimi Priori, un ex partigiano azionista dai trascorsi avventurosi, degno di fede e di onestà adamantina, è stato dopo la liberazione commissario capo dell'ufficio politico della Questura di Como. Indagando sugli avvenimenti che condussero alla morte di Mussolini giunse a conclusioni riportate in sordina in un libro (Mussolini Churchill. Le carte segrete, Datanews, 1998) scritto dallo storico e giornalista comasco Roberto Festorazzi autore, tra l'altro, del ben più noto saggio I veleni di Dongo (Il Minotauro, 2004) dove è descritto il destino finale dell'epistolario più scottante del XX secolo. Ingiustamente trascurato dalla folta schiera degli addetti ai lavori, il racconto di Carissimi Priori merita la dovuta considerazione perché lo stesso, dopo la liberazione, aveva ricevuto da Parri, Cadorna e Mattei, ossia dai vertici non comunisti del Corpo Volontari della Libertà, l'incarico ufficiale di far piena luce sui fatti accaduti il 28 Aprile a Giulino di Mezzegra. Dice testualmente Carissimi Priori "A cinquant'anni dalla fucilazione del Duce ho sottoscritto con altri, a nome dell'Istituto comasco per la storia del movimento di liberazione, una dichiarazione che riporta la versione autentica dei fatti ponendo definitamente fine a ipotesi fantasiose circa la morte di Mussolini, alcune delle quali addirittura sciocche, come quella della doppia esecuzione. Su questo episodio hanno scritto in molti. Ma nessuno è venuto a vedere come fossero andate le cose. Io ho ascoltato i protagonisti e molti testimoni e tutte le versioni da me raccolte concordavano. L'unico dubbio che mi è rimasto è da chi sia partito il primo colpo. Le cose sono andate in questi termini. A Giulino di Mezzegra, davanti al cancello di villa Belmonte era presente soltanto un terzetto di partigiani composto da Walter Audisio, Michele Moretti ed Aldo Lampredi. Tutti e tre hanno usato le armi. Ma, fra questi, probabilmente chi ha sparato di meno è stato Audisio, che era il tirapiedi di Longo, e non aveva mai preso in mano un'arma in vita sua. Debbo dire che, quando interpellai i tre protagonisti, ricavai l'impressione che nemmeno loro sapessero bene chi avesse ucciso il Duce. Era evidente che avevano agito in concorso tra di loro. Forse ci fu un diverbio, nell'attimo in cui avvenne il passaggio delle armi da Moretti ad Audisio, qualcosa di simile ad una collutazione. Quel momento concitato venne "rimosso" nella versione ufficiale che, pur essendo in linea di massima attendibile, risulta come dire "ripulita". E' stato anche detto che nello scenario della fucilazione di Mussolini ci fossero stati gli inglesi. Ma figuriamoci se potevano esserci gli inglesi intorno. Io lavoravo a stretto contatto con loro e certamente lo avrei saputo". Carissimi Priori aggiunge anche "L'ipotesi più probabile è che il primo colpo sia partito accidentalmente dal mitra di Moretti, esploso da quest'ultimo mentre l'arma gli veniva strappata di mano con violenza da Audisio". Festorazzi chiosa a conclusione "In definitiva, alla luce della testimonianza di Carissimi, senza riaprire di nuovo un caso che si può a ben vedere ritenere concluso, Moretti, Audisio e Lampredi furono tutti e tre ugualmente coinvolti nell'episodio della fucilazione e, in mancanza di elementi certi che ci possano consentire di dirimere la questione dell'effettiva paritarietà del loro intervento a Mezzegra, possiamo affermare che i colpi da loro esplosi furono tutti determinanti". Se Mussolini morì "male", come afferma alla fine del libro Baima Bollone (op. cit.), ciò non fu certo per demerito suo. Indubbiamente qualche fatto da tenere nascosto accadde in quel pomeriggio del 28 Aprile davanti al cancello di villa Belmonte. Per tacere che era purtroppo avvenuto qualcosa di inatteso perché non voluto e che non conveniva raccontare, si fece di tutto al fine di rendere verosimile una fucilazione che rispettasse i canoni convenzionali di una esecuzione capitale, incluso un colpo di grazia alla nuca che è risultato post-mortale all'esame necroscopico (Alessiani A., op. cit.; Baima Bollone P., op. cit.). Il racconto di Carissimi Priori, compatibile con i riscontri autoptici diretti ed indiretti sulla salma del Duce (Baima Bolone P., op. cit.), può, pertanto, aiutare a capire i motivi che hanno contribuito al persistere di silenzi e reticenze per ben sessant'anni. Il tutto in un'ottica disinformatrice minuziosamente concordata tra i vertici del PCI e quelli sovietici. Da qui il falso deliberato e la nascita di una vulgata che vede il solo Walter Audisio nel ruolo di giustiziere di Mussolini in nome del popolo italiano. A questa si oppone un'altra vulgata altrettanto refrattaria alla verità storica e probabilmente altrettanto perniciosa (Chessa P., De Felice R., Rosso e Nero, Boldini & Castoldi, 1995) che prevede la fucilazione di due cadaveri "morti da un pezzo" e la passeggiata di due sosia tra le case di Giulino nella scena finale di una commedia che ha per trama la vita di un uomo che ha proiettato la sua ombra inquietante su tutto il XX secolo (Bandini F., Vita e morte segreta di Mussolini, Le Scie Mondadori, 1978; Andriola F., Appuntamento sul lago, Sugarco 1990; Lazzaro U., Dongo. Mezzo secolo di menzogne, Oscar Storia Mondadori, 1993; Zanella A., L'ora di Dongo, Rusconi 1993; Bernini F., op. cit.; Garibaldi L., op. cit.; Pisanò G. op. cit. ; Tompkins P., Dalle carte segrete del Duce, Il Saggiatore Net, 2004). Nel 1978 Franco Bandini (op. cit.) ha affermato che "la fine di Mussolini e di Claretta nasconde sempre, è ovvio, un mistero. Ma questo è sepolto in una coscienza che non è la nostra. Noi non possiamo né penetrarvi, né risponderne". Se è questione di coscienza credo che quella di Carissimi Priori sia stata più che pulita quando ha voluto dare la sua versione sui fatti di sangue avvenuti in quel lontano pomeriggio del 28 Aprile 1945 lungo la sponda sinistra del lago di Como. La stessa coscienza gli ha impedito di barattare le carte top secret del Duce con emissari dei servizi segreti inglesi in cambio di una favolosa somma di sonanti sterline. Non trovando lavoro in Italia, fu, infatti, costretto ad emigrare in Spagna, dove fece fortuna, con sole poche lire in tasca ( Festorazzi R,. I veleni di Dongo, op. cit.). Sebbene "la storia non può incidere ancora con certezza assoluta sulle pagine marmoree né il nome di chi ha sparato a Mussolini né il luogo della morte" (Zatterin U., Prefazione a Fastorazzi R., I veleni di Dongo, op. cit.), la voce di Carissimi Priori esce decisamente fuori dal coro "in un epoca in cui gli uccisori di Mussolini affollano giornali, rotocalchi ed editori e offrono "a tre palle un soldo" testimonianze e rivelazioni a prima vista assurde" (De Felice R., op. cit.). E' sufficiente menzionare a tal proposito la rocambolesca versione dei fatti data dall'ex partigiano Bruno Giovanni Lonati (Giacomo) (Quel 28 Aprile. Mussolini e Claretta: la verità, Mursia 1994). Essa è stata recentemente riproposta da canali televisivi nazionali ("Enigma", Rai Tre, 31 gennaio 2003; Forenza M.L., e Tompkins P., Mussolini-L'ultima verità, nella serie "La Grande Storia", Rai Tre, 30 agosto e 6 settembre 2004) e sostenuta dal suo epigone Peter Tompkins (Tompkins P., op. cit.; Fiori S., In Italia troppi silenzi, In "La Repubblica" 29 agosto 2004). Ad uccidere il Duce e la Petacci sarebbe stato un commando italo-inglese agli ordini del temerario ed impavido capitano John dei servizi segreti d'oltre manica. Il racconto segue la falsa riga di un fumetto e non ha nulla a che vedere con la cronistoria di un atto di guerra dall'alto valore simbolico. Solo una mente fantasiosa poteva, ad esempio, escogitare la fatidica parola d'ordine pronunciata da Giacomo "Andiamo a fare una bella gita" e la relativa risposta "So io un bel posto" data da un fantomatico fiancheggiatore dei killers al momento del loro primo incontro. Ed è altrettanto assurdo immaginare che il discorso tra la coppia di reclusi ed il giustiziere senza macchia possa esordire con il tradizionale "Buon giorno" come di norma avviene tra persone bene educate. Un fraseggio che niente ha da invidiare a quello del pari inverosimile riportato dal colonnello Valerio nelle sue poliedriche versioni di quei concitati momenti: "Ti offro un impero" avrebbe risposto un tremolante Duce a chi gli prometteva una illusoria ed imminente liberazione per sottrarlo alle grinfie di un infausto destino (Audisio W., op. cit.). Anche se uno studioso del Fascismo, noto per il prestigio della sua monumentale biografia del Duce, Renzo De Felice, ha affermato che "la morte non è stata la cosa più importante della vita di Mussolini" (De Felice R., op. cit.), il conoscere "la verità sulla morte del Duce è stata, è e sarà uno dei nodi cruciali della storia del nostro Paese" (Garibaldi L., op. cit.). Ritengo, pertanto, che queste mie brevi considerazioni sull'evento in questione aiutino chi è interessato all'argomento a orientarsi tra punti fermi e una ridda di azzardate e fantasiose ipotesi. "La morte di Mussolini. Una storia da riscrivere" il libro di Alberto Bertotto. Benito Mussolini si è suicidato? Il prof. Alberto Bertotto ricostruisce con rigore scientifico, attraverso un'attenta analisi di tutte le fonti a nostra disposizione, gli ultimi giorni della vita del duce dandoci una nuova e sconvolgente versione sulla sua morte. Ancora tarda a dileguarsi il buio della notte tra il 27 e il 28 aprile del 1945, notte della fine di Benito Mussolini e del suo sogno ventennale. La sponda occidentale del lago di Como, tra stretti vicoli di paesi e valli pietrose, da sessant'anni custodisce il segreto della sua morte. Giustiziato da un partigiano comunista davanti al cancello di villa Belmonte (Giulino di Mezzegra), così morì il duce secondo la "vulgata" ufficiale, ad arte messa in piedi dal PCI d'allora. Una pagina dell'epopea nazionale ma non della Storia. Troppe contraddizioni, troppi dubbi che non hanno mai ricevuto risposta gettano ombre persistenti su questa versione dei fatti. Ma un'ipotesi, sostenuta da uno studio minuzioso ed accurato, sembra finalmente diradare le spesse nebbie del Lario. “Mussolini. Una morte da riscrivere” il Dvd di “Storia in Rete”. Le più recenti tecniche medico legali e digitali portano a conclusioni molto diverse dalla versione ufficiale a proposito della morte di Mussolini. Conclusioni che poggiano non su nuovi documenti e testimonianze ma su rigorose analisi scientifiche in puro stile CSI condotte da una squadra di medici legali ed esperti informatici costituitasi all’Università di Pavia sotto la guida del professor Francesco Pierucci. Oggi la Scienza aiuta la Storia a guardare con occhi diversi foto e filmati dell’aprile 1945 e a sostenere che il dittatore fu ucciso e poi rivestito, secondo modalità e probabilmente tempi diversi da quelli di Claretta Petacci. Un colpo definitivo alla versione classica che dal 1945 colloca la morte dei due davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra, alle 16.10 del 28 Aprile ’45. Ma perché si è voluto nascondere la verità per oltre sessant’anni? Alberto Bertotto

Mussolini è stato fucilato agonizzante perchè tentò di suicidarsi, scrive il 21/01/2009 Alberto Bertotto (Pubblicato su “Giornalettismo” il 21/01/2009). “La verità autentica è sempre inverosimile…” (Fedor Michajlovic Dostoevskij). “Come aviene a un disperato spesso, che da lontan brama e disia la morte, e l’odia poi che se la vede appresso, tanto gli pare il passo acerbo e forte” (Ludovico Ariosto). Questa è una storia che nessuno vuole raccontare, ma che riguarda ciascuno di noi. E’ una storia che tocca tre generazioni: quella dei ventenni che fa finta di saperla, quella dei quarantenni che fa finta di ricordarla e quella dei sessantenni che fa finta di averla dimenticata. Ciò che ho voluto raccontare è una ragionevole provocazione della storia. A chi ama il mistero della verità, a chi ha il coraggio di aprire gli armadi in cui sono nascosti gli scheletri del passato e a chi accetta il giallo delle congetture, è dedicato questo articolo che ha il sapore di un impegno, quello di indagare Mussolini. Bonzanigo, Comune di Mezzegra, circondario del lago di Como. 28 aprile del 1945, ore tra le 4 e le 6 del mattino. Piove e fa freddo. Tutto è silenzioso all’intorno di un grande fabbricato intonacato di bianco. In lontananza il canto di un assiuolo e qualche latrato di cane alla catena. Claretta Petacci, reclusa con Benito Mussolini nel cascinale dei coniugi Giacomo e Lia De Maria, si assenta per fare delle abluzioni nel “bagno” rustico che sta nell’ampio cortile dell’abitazione rurale. Ha un problema periodico tutto femminile che la costringe più volte ad assentarsi sotto sorveglianza (testimonianza di Lia De Maria). Dopo aver lavato e strizzato le mutandine, perché sporche di sangue mestruale, le ripone in una tasca della pelliccia e rientra in camera. La sorpresa è sconvolgente: trova il Duce agonizzante, ha la bava alla bocca, rantola ed è in preda a crisi convulsive subentranti. La donna, terrorizzata, si mette ad urlare. A tutto pensa meno che a mettere ad asciugare l’indumento intimo. Lo lascia dove si trova, nella tasca della pelliccia che ha indosso. I due partigiani di guardia (Giuseppe Frangi, Lino, e Guglielmo Cantoni, Sandrino) entrano di corsa nella stanza. Non possono sussistere dubbi: Mussolini ha cercato di suicidarsi avvelenandosi. Pensare al cianuro è scontato, quasi un obbligo. Bisogna ovviare, non può finire così, sarebbe uno smacco per tutto il movimento partigiano e per i comunisti in particolar modo. Il Duce è una preda ventennale troppo ambita. Non può sfuggire dalle loro mani omicide per un “fortuito” imprevisto. “Bisogna ucciderlo come un cane tignoso”, aveva detto il socialista Sandro Pertini pochi giorni prima. Gli fa da eco il leader comunista Palmiro Togliatti parlando da Radio Bari: “Lo si deve sopprimere subito dopo l’accertamento d’identità”. Luigi Longo (numero due del PCI) era in perfetta sintonia: “Va fatto fuori immediatamente senza frasi storiche, senza teatralità”. Queste raccomandazioni il Frangi non se l’è fatte ripetere due volte. Lino, un bruto che fin da giovane era conosciuto per il suo carattere riottoso (lo chiamavano Dillinger, il famoso gangster americano), non esita un istante. Facendosi aiutare da Sandrino, trascina fuori della stanza Mussolini prendendolo per l’allacciatura dei mutandoni e, dall’alto in basso e da sinistra a destra, fa partire una scarica di mitra (un parabellum calibro 9). Nessuno potrà dire che il Duce non è morto ammazzato. Tutti diranno che ad ucciderlo sono stati i partigiani con il fazzoletto rosso al collo senza il concorso di altri o di altro. Il telefono dell’albergo Milano di Azzano (situato a circa duecento-trecento metri da casa De Maria) viene utilizzato dai guardiani comunisti del Duce (Lino e Sandrino) per avvisare i loro capi a Dongo. Da Dongo la notizia rimbalza prima a Milano (CNLAI) e poi a Como (federazione del PCI). L’ordine è quello di sopprimere subito la Petacci, la testimone di un evento che deve essere occultato a tutti costi. Da Como Luigi Canali (il capitano Neri che in nottata, insieme ad altri, aveva portato i due celebri amanti a Bonzanigo e che era presente nella sede comasca del PCI) ripercorre a ritroso la strada fatta in antecedenza e raggiunge casa De Maria. Ci sono testimonianze che lo affermano. Il Neri ordina a Lino, un suo fidato sottoposto, di uccidere Claretta. Scelga lui il momento migliore anche se è meglio non far passare troppo tempo. Lino obbedisce ed uccide Claretta sparandogli alla schiena (così è sicuramente morta la Petacci. Uno squarcio sulla superficie posteriore della sua pelliccia lo dimostra). Il dramma si compie. Testimoni nessuno (chi c’era non ha, comunque, mai parlato). Ai giornalisti che lo intervistano Sandrino fornirà, nel tempo, diverse versioni contrastanti. Al missino Giorgio Pisanò, per esempio, ha detto che lui, davanti al cancello di villa Belmonte a Giulino di Mezzegra (luogo della fucilazione “ufficiale”), ha visto il colonnello Valerio sparare su due cadaveri morti da un pezzo. Nell’immediato dopoguerra il Neri, implicato anche nell’affaire del famoso oro di Dongo, scomparirà per sempre. E’ meglio mettere a tacere chiunque sia stato coinvolto nella morte del Duce. Ci sono una serie di elementi che corroborano questa ricostruzione dei fatti. Li vado ad elencare seguendo un ordine logico:

1) Lino, dopo il 28 aprile, ha compiuto una serie di delitti che hanno dell’incredibile. Ha detto Michele Moretti (commissario politico della 52° Brigata Garibaldi, quella che ha fermato la colonna Mussolini diretta in Valtellina e che, il 27 aprile alle tre del pomeriggio, ha operato l’arresto del Duce a Dongo): “Lino non era più in se. Perché un conto è giustiziare dei criminali di guerra, un conto è seviziarli come si era messo a fare lui (si riferisce ai fascisti reclusi, dopo il 28 aprile, nella caserma dei Carabinieri di Dongo). Per Raffaello Uboldi (un giornalista-scrittore): “Lino era un duro che non fa prigionieri, li sgozza e li butta nel lago”. Ha scritto Mario Baudino: “Un partigiano di nome Lino presenziava agli interrogatori cui venivano sottoposte le detenute, senza dire una parola, ma ogni notte prelevava qualcuno, lo portava fuori e lo ammazzava”. Così si è espresso Florido Borzicchi: “Lino, ricorda uno dei fascisti della colonna Mussolini, il lucchese Mario degli Innocenti, mi apparve all’improvviso nella caserma dei Carabinieri dove mi avevano rinchiuso con la figlia naturale del Duce, Elena Curti. Era notte fonda, alla luce di una candela lesse alcuni nomi, gli appellati lo seguirono piangendo e gridando. Tra di essi c’era anche il federale di Dongo, Buttera. Tutti furono trascinati via ed ammazzati. Anche il Buttera fu trovato in fondo al lago. I venti e più fascisti furono assassinati con un colpo alla nuca e squartati perché il loro corpi non salissero a galla. Lino morì il 5 maggio (1945) a guerra ormai finita. Fu rinvenuto cadavere sul greto del fiume Albano che sfocia nel centro di Dongo. Le circostanze della morte non furono mai chiarite ed il suo caso fu archiviato in fretta. Si disse fosse stato dilaniato dal fortuito scoppio del fucile che portava a tracolla, ma c’è chi mormora che fu ucciso dai suoi compagni per averla fatta grossa. Di certo, a Dongo, e dintorni, quando si pronunci a il nome dell’ex guardiano del Duce a Bonzanigo, nessuno parla volentieri. Basta però accennare al Diavolo rosso, così lo avevano soprannominato, perché tutti facciano un gesto di raccapriccio”.

2) A Pietro Carradori, l’attendente di Mussolini prigioniero anche lui a Dongo, Lino si è rivolto affermando: “Con questo mitra ho ucciso il boia e la sua amante. Cinque colpi a lui e tre a lei”. Continua il Carradori commentando: “Il Diavolo rosso aveva il mitra stretto in mano e brandito verso l’alto, sul volto più che un sorriso un ghigno. Lo osservai con curiosità mista a sgomento e fin da quel primo momento non ebbi dubbi: da come aveva pronunciato quelle parole, dal lampo sinistro che aveva nello sguardo, mi resi conto che non mentiva. Forse con lui anche altri avevano sparato, forse non si era nemmeno reso conto da chi e per quali ragioni gli era stato ordinato, o consentito, di sparare. Sta di fatto che l’esecutore materiale del duplice delitto era sicuramente lui, il Diavolo rosso”. Da notare un fatto: il Carradori non sapeva che il Duce, prima di essere fucilato, aveva tentato di suicidarsi.

3) Sentiamo ancora cosa ci dice il Borzicchi: “C’è quasi da pensare che a stringere quel mitra che sigillò il ventennio fascista furono altri che Valerio (W. Audisio, ndr) e Moretti (il partigiano Pietro, ndr), forse uno dei due guardiani del Duce a Bonzanigo, Giuseppe Frangi, detto Lino di Villa Guardia di Como. Se andò effettivamente così, l’alterazione dei fatti compiuta sarebbe comprensibile. Lino come vendicatore di soprusi recenti, angelo sterminatore della ventennale tragedia non reggeva la parte. Di lì a poco, infatti, si macchierà di tali delitti che avrebbero gettato una luce sinistra sulla nuova alba che si levava. Se fu Lino a sparare su Benito e Claretta, si spiega dunque il mistero che ancora circonda quell’episodio di vita italiana. L’esecutore del Duce, negli anni della guerra civile, non doveva essere un impresentabile”. Nonostante fosse un malvagio, Lino, morto a 34 anni, è stato seppellito davanti a tutta la nomenklatura del PCI. A Giuseppe Frangi, patriota, è stata intestata una strada a Villa Guardia, il suo paese natio. Luigi Conti, il sindaco comunista di Dongo eletto dopo la liberazione, ricorda che “la bara del Frangi fu portata in Municipio ed esposta alla folla nella Sala d’Oro. Nessun altro ebbe un trattamento così”. Durante l’orazione funebre tenuta davanti alla salma del Frangi, il gross bonnet comunista Oreste Gementi (Riccardo) ha detto: “…sei stato ucciso da mani fratricide” (comunicazione personale del professor Turconi di Como). Un documento ufficiale attesta: “Il sottoscritto ARRIGONI MARTINO, già Intendente della formazione Gramsci della 52° Brigata Garibaldi dichiara che: <…mentre eravamo in appostamento nei pressi della località Vigna di Dongo, al Frangi (che aveva il mitra fra le braccia) gli partì inavvertitamente un colpo che lo ferì mortalmente in faccia. Erano le una e trenta del 5 maggio 1945>”. Un fatto è sintomatico: proprio a Lino verrà data in dono la pelliccia della Petacci subito dopo la sua esecuzione. Dopo aver trovato, in una delle tasche, le mutandine di Claretta, Lino le ha fatte ovviamente sparire. Ecco perché la giovane donna è giunta a piazzale Loreto con il ventre nudo. Un altro “mistero” storico troverebbe così la sua logica spiegazione. Nelle tasche del Frangi morto sono stati trovati fogli che il Duce teneva in quelle della sua divisa. Dopo aver ucciso Mussolini, Lino ha fatto incetta dei suoi documenti per dimostrare che il tirannicida era stato lui.

4) Elena Curti, una figlia naturale di Mussolini anche lei catturata ed imprigionata a Dongo, mi ha detto: “Mentre ero ancora prigioniera a Dongo (28 aprile-10-12 maggio del 1945) un partigiano mi si è rivolto dicendo che Mussolini, la mattina del 28 aprile, si era suicidato e che è stato trovato disteso sul letto mentre rantolava agonizzante. Lo hanno trascinato di peso fuori dalla stanza per ammazzarlo. Io ero fortemente dubbiosa sul fatto che il Duce avesse tentato il suicidio perché ero sicura che non aveva armi con se. D’altra parte in quei giorni tutti dicevano che era stato fucilato il 28 aprile alle quattro del pomeriggio davanti al cancello di villa Belmonte a Giulino di Mezzegra. Per questo motivo non ho mai rivelato a nessuno ciò che allora avevo appreso. Ero convinta che mi avessero raccontato solo delle fandonie. Alla luce di quanto ho saputo da Lei quello che ho riferito testé assume un nuovo significato. Dieci anni fa, in occasione di un documentario girato dagli inglesi tra Gargnano e Dongo, un ex partigiano (Osvaldo Gobbetti) mi ha riferito, dopo averlo saputo da un compagno che aveva assistito di persona ai fatti di Bonzanigo, che la Petacci era stata uccisa mentre tentava di allontanarsi. Lo stesso patriota comunista che aveva parlato con il Gobbetti ha specificato che era rimasto scioccato per la crudeltà della scena. La Petacci è stata, infatti, proditoriamente colpita alla schiena. Continuo a ricercare in me stessa la verità perché non voglio, parlando a sproposito, raccontare storie come fanno molti”.

5) Guglielmo Cantoni (Sandrino, il secondo guardiano di Bonzanigo) ha scritto un memoriale che non è mai stato ritrovato. In esso veniva fatto il nome dell’uccisore del Duce. Sicuramente non era uno dei Killer per antonomasia di volta in volta chiamati in causa, ossia Walter Audisio (colonnello Valerio), Aldo Lampredi (Guido) o Michele Moretti (Pietro).

6) A piazzale Loreto i mutandoni del Duce erano scompaginati nella loro allacciatura anteriore. Ciò non era dovuto ad atti vandalici di folla perché l’anomalia è comparsa e si è resa evidente solo dopo che a Mussolini era stata sfilata la camicia per trazione dal basso (il capo fascista era stato impiccato per i piedi al traliccio di un distributore di benzina). Il dottor Aldo Alessiani (medico legale presso Tribunale Penale di Roma), già nel 1995, ha asserito che lo scompaginamento dei mutandoni era un segno che poteva essere riferito o ad una antecedente colluttazione o ad un trascinamento avvenuto in casa De Maria in quel di Bonzanigo.

7) Il giaccone (di foggia borghese e con le maniche raglan, facile da far indossare ad un cadavere in rigidità catalettica), i pantaloni e la camicia nera di Mussolini esposto al ludibrio di piazzale Loreto erano imperforati. Il Duce, guarda caso, non aveva la giacca le cui maniche a tubo hanno, probabilmente, reso difficoltosa la vestizione di un cadavere in preda al rigor mortis. Per contro, i suoi mutandoni di flanella al polpaccio e la sua maglietta della salute (bianca) era perforati ed insanguinati. Quando è stato ucciso il Duce era quindi in déshabilleé. Il che significa che si trovava ancora in casa De Maria. Studi su fotografie della maglietta analizzate al computer, tramite tecniche di arricchimento delle immagini, hanno dimostrato sul tessuto residui di polvere da sparo incombusta (professor Giovanni Pierucci, Medicina Legale, Università di Pavia). Ciò dimostra che i colpi sparati sul Duce (agonizzante per aver ingerito il cianuro?) sono stati esplosi da una distanza non superiore a 50 centimetri. Nove sono state le ferite vitali riscontrate sul corpo di Mussolini. Molti fori sulla cute avevano una forma ovalare. Il che significa che i proiettili hanno raggiunto la vittima obliquamente (esecutore in piedi, esecutato disteso a terra).

8)  Sul selciato del piazzale milanese, lo stivale destro del Duce era vistosamente danneggiato. La cerniera lampo posteriore era rotta da cima fondo. Con uno stivale in quelle condizioni, Mussolini non poteva di certo camminare. Davanti al cancello di villa Belmonte (Giulino di Mezzegra) lo hanno portato di peso (falsa o doppia fucilazione). Chi, nella mattinata del 28 aprile, ha cercato di far calzare lo stivale ad un piede retratto per la rigidità cadaverica ha sforzato la chiusura a saracinesca rompendola e rendendo la calzatura inservibile.

9) Un signore di Como, Luca Martinelli, non so se sia uno pseudonimo o meno (non sono, infatti, riuscito a rintracciarlo), ha scritto ad Effedieffe (un sito telematico) perché voleva commentare un articolo di Maurizio Barozzi. Il comasco ha asserito di aver saputo da una pronipote dei De Maria che i loro figli, quando sono ritornati a casa dopo aver trascorso la notte del 28 aprile in montagna per far posto a Mussolini ed alla Petacci, hanno trovato Lia De Maria ed altre donne che pulivano il pavimento dell’ingresso di casa perché era sporco di sangue. Una notizia analoga è riportata sul libro di F. Bartolini intitolato: Lario nascosto (Editoriale, 2006). Il parroco di Bonzanigo ha affermato che la camera in cui Mussolini e Claretta hanno trascorso la loro ultima notte è stata mostrata alla curiosità dei fotografi solo 4 o 5 giorni dopo i luttuosi fatti di Bonzanigo. Si dovevano cancellare tracce non conformi alla vulgata ufficiale? (Quella di Walter Audisio alias colonnello Valerio e compagni). Una testimone oculare, Dorina Mazzola, ha detto a G. Pisanò di aver assistito personalmente all’assassinio della Petacci. Claretta è stata uccisa verso le 12 del 28 aprile sullo spiazzo erboso antistante casa sua. I comunisti, nei giorni a seguire, hanno fatto recapitare in casa della Mazzola una bomba a mano disinnescata. Un chiaro monito minaccioso: taci o se no ti facciamo fuori.

10) Un sensitivo di Genova, il signor Athos Agostini, stimato commerciante ormai in pensione (77 anni), mi ha riferito che nel 1975 a Varenna (ramo di Lecco del lago di Como) gli è apparso, in una visione extrasensoriale, il Duce etereo che gli ha raccontato i fatti come li ho esposti più sopra. Mussolini si era fatto impiantare a Rastemburg (20 luglio del 1944) una capsula di cianuro nel cavo di un dente protesico. Era stato lo stesso Adolf Hitler che, scampato da poche ore ad un attentato (quello portato a termine dal colonnello Klaus von Stauffemberg), lo aveva convinto a ricorre a quell’espediente da utilizzarsi nel disgraziato momento in cui fosse caduto vivo nelle mani di un nemico (al Duce, inoltre, i partigiani avevano sottratto i carteggi (tra cui quello cosiddetto Churchill-Mussolini) con cui pensava di difendersi in un futuro processo istruitogli dagli alleati. Il che lo aveva ulteriormente depresso). Il signor Agostini, dimostrando di essere una persona seria, ha depositato quanto sapeva presso un notaio di fiducia. Io stesso ho appurato che l’impianto di un contenitore di vetro, rivestito di gomma ed avente le dimensioni di un piccolo pisello, può essere comodamente indovato nel cavo di un dente finto. La sua mobilizzazione, al momento opportuno, può avvenire facendo ricorso ad un semplice movimento della lingua (consultare il libro Spy book di N. Polmar e T. B. Allen, Random House Reference, 2004). Non appena catturato Saddam Hussein, i medici americani gli hanno accuratamente ispezionato il cavo orale per escludere che conservasse una capsula di cianuro in una protesi dentale cava. Durante l’autopsia del Duce il dottor Pier Luigi Cova Villoresi ha annotato: “in bocca a Mussolini mancano parecchi denti e tutti quelli superiori di destra”. Il che potrebbe (anche) significare che Mussolini in vita era portatore di una o più protesi dentarie.

11) Una famosa medium torinese, soprannominata la Contessa, già nel 1958 (molto prima che comparisse per la prima volta sulla stampa la versione della doppia fucilazione, la farsa inscenata dai partigiani comunisti davanti al cancello di villa Belmonte a Giulino di Mezzegra) ha detto che lo spirito di Mussolini aveva descritto la sua morte in termini molto simili a quelli riferiti dal signor Athos Agostini di Genova. Della Contessa hanno parlato in molti. Persino il famoso giornale parigino France Soir ha riportato, enfatizzandole, le sue “scoperte” (vedi R. Baschera. I grandi di ieri ci parlano del domani. MEB, 1995).

12) Nel 1999 o nel 2000 o nel 2001 il signor Agostini mi ha detto di aver visto un documento RAI (rete tre, mese autunnale, seconda serata) in cui un imprecisato medico americano ha dichiarato di aver trovato tracce di cianuro nel frammento biotico del cervello del Duce da lui analizzato. Il signor Agostini ha incaricato il suo legale, avvocato Riccardo Dellepiane, di richiedere alla RAI una duplicazione su cassetta di quella trasmissione televisiva. La RAI ha risposto che non poteva duplicarla perché l’Ente di Stato non era autorizzato a soddisfare le richieste che provenivano da un utente privato. La lettera di risposta (in cui erano precisati gli estremi del programma televisivo) il signor Agostini l’ha persa ed a distanza di anni non ne ricordava più il contenuto nei suoi dettagli. La lettera scritta dall’avvocato R. Dellepiane, altrettanto dettagliata, non è stata protocollata da RAI-Teche di Roma ed attualmente si trova, tra altri migliaia di documenti, nel deposito cartaceo RAI di Pomezia (600 metri quadri pieni di scartoffie!). Due persone, una di Viareggio ed una di Treviso, mi hanno confermato di aver visto anche loro quel documento RAI. Nessuno dei due, però, si ricordava il titolo. Un anno fa il dottor Enzo Cicchino, un regista della RAI che ha mandato in onda numerosi programmi storici sul fascismo, mi ha confidato: “Anni fa in RAI un mio collaboratore mi ha interpellato dicendomi: <Enzo, è vero che Mussolini ha tentato di suicidarsi con il cianuro? L’hanno detto l’altra sera in televisione>. <Non dire fesserie> gli ho risposto. Sopra pensiero non ho dato peso a quelle parole. Se l’avessi fatto forse adesso potrei aiutarti”.

13) Un frammento prelevato dal cervello del Duce durante l’autopsia (30 aprile del 1945) è stato inviato in America conservato il formalina. Negli USA il reperto biotico è stato esaminato dal professor Winfred Overholser (Ospedale Sant’Elisabetta di Washington DC). Un secondo campione autoptico è stato analizzato al Walter Reed Institute of Pathology, sempre di Washington DC, dal dottor Webb Haymaker. Entrambi gli Istituti, da me contatti, hanno negato che la ricerca di ioni cianogeni sia stata effettuata nei loro laboratori. Molti professori universitari di Medicina Legale mi hanno avvertito che le mie ricerche americane erano inutili in quanto la biopsia cerebrale del Duce era stata inviata negli USA all’interno di un contenitore contente formolo. Questo liquido conservante avrebbe impedito la messa in evidenza del cianuro in quanto si sarebbe formato un composto (la cianidrina) che impediva di dimostrare la presenza del tossico letifero.

14) Il professor Roberto Gagliano Candela, ordinario di Tossicologia Forense all’Università di Bari, ha premiato le mie ostinate ricerche, confutando le tesi di altri suoi colleghi. Mi ha infatti testualmente scritto: “Tutti questi test (venivano elencati i test ed i relativi riferimenti bibliografici) prevedono di fa reagire con acidi, a caldo, gli organi o il contenuto gastrico sospettati di contenere cianuro. Si ottiene uno sviluppo di acido cianidrico volatile che va a reagire con una striscia di carta imbevuta di solfato ferroso. L’aggiunta di acido cloridrico produce un intenso colore blu (blu di Prussia o ferrocianuro di potassio). Il test è molto sensibile (rivela anche quantità 100 volte più piccole del milligrammo) e si può adoperare anche su tessuti fissati in formalina. Ovviamente il campione in analisi deve essere sufficiente. Non basta un vetrino, ma si deve avere a disposizione almeno mezzo grammo di tessuto”. Il campione prelevato dal cervello del Duce pesava 10 grammi. Alcuni dicono che, in realtà, ne pesava addirittura 50. A buon intenditor poche parole. Non si capisce, inoltre, il motivo per il quale gli americani abbiano voluto un pezzettino di cervello del Duce. Il professor Pier Gildo Bianchi, un famosissimo neuropatologo di Milano, aveva già studiato i vetrini allestiti da tessuto cerebrale di Mussolini ed aveva subito notificato la sua diagnosi in USA: tessuto perfettamente normale. Inoltre aveva consegnato in America tutto un set di vetrini non colorati che potevano essere utilizzati per confermare la relazione da lui sottoscritta. Cosa volevano scoprire di nuovo i medici statunitensi, utilizzando non un vetrino, ma bensì un frammento cerebrale a tutto spessore di Mussolini? (il cianuro si accumula di preferenza nella sostanza grigia, quella più profonda che il professor Bianchi non ha esaminato. Lui ha solo studiato la parte esterna, ossia la corteccia encefalica (sostanza bianca) che notoriamente è la porzione cerebrale più evoluta). L’alibi americano era quello d’indagare se il leader fascista era affetto o meno da neurosifilide. Una scemenza. Tutti sapevano che Mussolini in precedenza aveva fatto numerosi accertamenti sierologici, uno perfino in Inghilterra. Esito: reazione di Wasserman negativa (assenza di Lue). Il Duce a Gargnano giocava a tennis. Una tabe dorsale (sifilide cronica terziaria) non gliel’avrebbe di certo consentito. Durante l’autopsia del capo fascista, inoltre, nessuna lesione vascolare (aortica) ha dimostrato un pregresso interessamento patogeno (cronico) di tipo luetico.

15) Studi recenti eseguiti da patologhi statunitensi e pubblicati su riviste scientifiche internazionali hanno inequivocabilmente dimostrato che “la diagnosi autoptica dell’avvelenamento acuto da acido cianidrico è difficile se non impossibile” a meno che non siano accessoriamente presenti alcuni sintomi: flogosi acutissima delle mucose del tratto gastroenterico, sangue color rosa-rosso e non color vino, chiazze cutanee rossastre ed odore di mandorle amare all’apertura della cavità gastrica o della teca cranica. Se il cianuro si sprigiona da una capsula infranta tra i denti, il tossico viene assorbito per via perlinguale. Non fa a tempo a raggiungere l’esofago e lo stomaco e a determinarne le lesioni flogistiche. Colui che ha eseguito l’autopsia del Duce (il dottor Caio Mario Cattabeni, Medicina Legale, Università di Milano) non ha potuto fare una diagnosi circostanziata perché non esistevano i presupposti medico-legali, e cioè i sintomi autoptici, per pensar e ad un tentato suicidio mussoliniano mediato dai cianuri. Causa ufficiale del decesso: ferite multiple da arma da fuoco (inferte in limine mortis in un individuo agonizzante per aver tentato di suicidarsi con il cianuro?).

16) All’autopsia di Mussolini un dato autoptico è stato, forse, frainteso: le leptomeningi mussoliniane erano ectasiche e congestionate. Il reperto è stato interpretato essere la conseguenza dell’impiccagione per i piedi. Una congestione dei vasi della pia madre encefalica può far parte integrante del quadro che in alcuni casi si osserva durante l’autopsia in soggetti deceduti per intossicazione acuta da acido cianidrico.

17) Una velina di un referto istobioptico del 1945 trovata al Walter Reed Institute, contrassegnata da una sigla (le iniziali del nome e del cognome?, ricordo impreciso) e contenuta in una busta contrassegnata dal termine Oltremare, si riferiva ad un esame di un civile (non era né un militare USA in carriera, né un veterano) morto per fucilazione. La diagnosi era avvelenamento acuto da tossici ed il frammento autoptico esaminato era il cervello. Perché si sono cercati tossici cerebrali in un soggetto morto per ferita da arma da fuoco? (Comunicazione personale del dottor R. Ambrosio, Washington DC). Perché quella velina portava la dicitura: Non archiviare? Va comunque precisato che in quegli anni il Walter Reed Institute eseguiva esami autoptici ed istologici anche per la Polizia distrettuale della Colombia (provenienza del materiale biologico da un civile).

18) a morte indotta dall’intossicazione acuta da acido cianidrico avviene, in genere, entro 3-5 minuti. Non sono rari, tuttavia, i casi di una sopravvivenza di ore. Michele Sindona, ad esempio, è rimasto in vita, in uno stato comatoso, per ben 92 ore dopo aver ingerito una tazzina di caffè avvelenata con il cianuro. Non meraviglia quindi il fatto che Mussolini non sia morto istantaneamente in casa De Maria (Bonzanigo) dopo aver frantumato tra i denti una capsula contenente il tossico letale.

19) La poliangolazione e la polidirezionalità balistica riscontrata all’autopsia sul corpo del Duce trova una sua logica spiegazione nel fatto che l’esecutando, quando è stato attinto dai proiettili sparati dal mitra partigiano dall’alto in basso e da sinistra a destra, era in preda a movimenti afinalistici ed a violente scosse convulsive indotte dall’ingestione dei sali di cianuro.

20) Le fotografie scattate all’obitorio milanese di via Ponzio, il 29 aprile di pomeriggio-sera, dimostrano che nei cadaveri là depositati (Mussolini e la Petacci) era presente un rilasciamento muscolare (fase successiva a quella del rigor) che aveva interessato il collo, il tronco e gli arti superiori. Le immagini sono compatibili, cronotanatologicamente, con un decesso avvenuto il 28 aprile di mattina presto, molto prima delle 16,20, ora della cosiddetta fucilazione “ufficiale” (cancello di villa Belmonte a Giulino di Mezzegra).

Se riuscirò a dare un nome e cognome al medico americano che in televisione (RAI-tre) ha detto che Mussolini ha tentato di avvelenarsi con il cianuro in quanto il suo cervello ne conteneva tracce evidenziabili, l’ipotesi da me formulata assumerà tutto un altro spessore. Facendo i debiti scongiuri credo che mi sto avvicinando sempre più ad afferrare la notizia catodica, grazie alla collaborazione di qualche lettore del mio libro (La morte di Mussolini. Una storia da riscrivere. PDC Editori, 2008) ed alla sua prodigiosa “network memory”. Un’ultima considerazione: nell’aprile del 1994, alla vigilia della morte, il Duce aveva consegnato a Goffredo Coppola (Rettore dell’Università di Bologna, sarà fucilato anche lui a Dongo) un suo articolo affinché fosse pubblicato su Civiltà Fascista. In quell’articolo Mussolini faceva un elogio sperticato del suicidio (vedi M. Trinali. Un colpo di pistola in casa De Maria. Semerano,1966). Di una sola cosa sono certo: “La onesta sottomissione alla verità”, di cui parla lo storico francese Marc Bloch, ha sempre fatto difetto ai comunisti italiani. Alberto Bertotto

Morte Mussolini: ecco come è andata, scrive Maurizio Barozzi. In questo sito, sul quotidiano "Rinascita", sulla rivista "Storia del Novecento" ed in altri ambiti, abbiamo pubblicato molti articoli di una lunga controinchiesta su la morte di Mussolini, con la quale crediamo di aver dimostrato con fondate deduzioni, testimonianze attendibili e alcuni elementi oggettivi, che la "storica versione" ovvero la "vulgata" tramandata da Walter Audisio e dal Pci (fucilazione di Mussolini e la Petacci alle 16,10 del 28 aprile 1945 davanti al cancello di Villa Belmonte in Giulino di Mezzegra) è inattendibile, quindi un falso storico. Il nostro, tutto sommato, non è stato un compito difficile, viste le contraddizioni e le assurdità che quella versione presentava e che già erano state denunciate da valenti giornalisti e storici, molto prima di noi. Quello che invece, non abbiamo fatto è il fornire una nostra personale ricostruzione, una nostra ipotesi su come possa essersi svolta quella misteriosa uccisione, anche se abbiamo sempre intercalato nei nostri articoli di controinformazione alcune ipotesi alternative ai fatti esaminati. Non lo abbiamo fatto in quanto, non essendo disponibili e verificabili evidenti prove, la nostra "ipotesi alternativa" sarebbe rimasta come tale. In ogni caso, visto che qualche elemento concreto per sostenere una ricostruzione attendibile di quei fatti pur esiste, senza viaggiare di fantasia, vogliamo ora descrivere, con un certo disincanto e per linee generali, come potrebbe essere andata quella storia: un duplice e misterioso omicidio in piena regola, il primo all'alba dell'era "democratica e antifascista", al quale negli anni successivi molti altri ne sono seguiti, da Enrico Mattei ad Aldo Moro a Roberto Calvi e così via. Lo faremo sintetizzando al massimo tutta la vicenda, attenendoci il più possibile ai fatti e astenendoci in questa sede dal presentare e commentare approfonditamente le opportune dimostrazioni di quanto andiamo sostenendo, ma chi ha seguito i nostri articoli precedenti saprà trovare i vari riferimenti. Come noto il pomeriggio del 27 aprile 1945 a Milano giunse la notizia che Mussolini era stato catturato (circa verso le 15,30) e si trovava a Dongo nelle mani del comando della 52a Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", uno sparuto gruppetto di partigiani che agiva nell'alto Lago, vale a dire: Pier Bellini delle Stelle Pedro, comandante ad interim della 52a Brigata Garibaldi, ex ufficiale dell'esercito badogliano, senese di nobili origini e di tendenze e riferimenti non comunisti; quindi Michele Moretti Pietro Gatti, un fedele comunista di vecchia data, commissario politico di quella Brigata; ed infine Luigi Canali Neri, un comunista idealista, atipico per quel partito e ultimamente caduto in disgrazia con il partito e con il comando Lombardo delle Brigate, tanto da essere stato condannato a morte per tradimento, anche se poi la condanna era rimasta sospesa. Il Canali, ex comandante di quella 52a Brigata ed ora con l'anomalo grado di capo di Stato Maggiore della stessa (conferitogli in quelle ore per non dover ricambiare tutti i gradi già in essere) era riapparso a Dongo proprio nel tardo pomeriggio del 27 aprile a cattura del Duce avvenuta. Ai suddetti "capi" della 52a Brigata, occorre poi aggiungere Urbano Lazzaro Bill vice commissario politico, un ex finanziere che in qualche modo ebbe un suo ruolo negli avvenimenti di Dongo, così come lo ebbero i brigadieri della Guardia di Finanza Giorgio Buffelli e Antonio Scappin Carlo. In quelle zone del comasco, a parte alcune basi segrete dei servizi anglo americani, le uniche strutture con un minimo di efficienza erano gli spezzoni della Guardia di Finanza, una istituzione passata negli ultimi giorni definitivamente dalla parte della Resistenza e le cellule del partito comunista. È infatti dal brigadiere della G. d. F. Antonio Scappin Carlo, che da Gera Lario arrivò a Milano, tra le 17,30 e poco dopo le 18 circa, la notizia della cattura del Duce al colonnello Alfredo Malgeri comandante della Legione milanese della GdF, e sicuramente anche in qualche altro modo arrivò alla direzione del PCI.

Verso sera giunse poi a Milano la notizia del trasferimento, per motivi di sicurezza, di Mussolini in una adibita casermetta della GdF di Germasino, pochi chilometri sopra Dongo. Quel che traspare con tutta evidenza dalla cronaca di quegli avvenimenti riportati con versioni eterogenee, contraddittorie ed edulcorate, che per la loro inaffidabilità noi aggireremo basandoci esclusivamente su fatti e conseguenze accertate, è che questa vicenda venne subito presa in mano da Luigi Longo, vice comandante del CVL, comandante delle Brigate Garibaldi, membro del CLNAI e massimo dirigente del Pci nel nord Italia (in pratica il n. 2 dopo Togliatti) il quale a sera, ad un preoccupato Sandro Pertini, preoccupato perché il Duce potesse salvarsi venendo catturato dagli Alleati, ebbe a dire, con evidente sottointeso: «non ti preoccupare, vatti a fare un giretto». Al Comando del CVL (la struttura militare della Resistenza), installatosi in Palazzo Cusani, angolo via Brera dove comandante, ma più che altro nominale, era il generale Raffaele Cadorna, in quelle ore fu tutto un andirivieni e un fibrillare di eterogenee iniziative. Sembra che, in qualche modo, venne proposto (impegnato in questa bisogna fu proprio Walter Audisio che in quel momento al Comando aveva compiti di Polizia Militare) ad alcuni comandanti di Divisioni garibaldine ed allo stesso colonnello della G. d. F. Alfredo Malgeri, l'incarico di andare a prendere Mussolini, di cui ancora non si avevano notizie precise, facendo capire, sotto metafora, di sopprimerlo con la scusa di un tentativo di fuga. Ma furono proposte aleatorie, vaghe e non se ne fece nulla, anche perché, a quanto sembra, un po' tutti reclinarono l'incarico. Non ci si deve però fare illusioni perché era comunque auspicato e dato per scontato da molti che Mussolini venisse eliminato alla svelta e Luigi Longo non soltanto era favorevole a una sua sbrigativa uccisione per convinzione di partito e personale, ma egli interpretava in Italia anche la volontà di Stalin (tramite Togliatti), senza la quale il PCI non muoveva foglia. Il PCI è oramai appurato che aveva con le "intelligence" inglesi un rapporto di stretta collaborazione (continuato da Togliatti e Churchill anche nel dopoguerra e risoltosi con gentili consegne di preziose documentazioni requisite a Mussolini allo statista britannico) come si evince anche dal libro del comunista Maurizio Valenzi, ebreo italo tunisino, futuro senatore del Pci e sindaco di Napoli: "Confesso che mi sono divertito", Pironti editore 2007, laddove ricorda quando venne spedito a Napoli, prima ancora dell'arrivo di Togliatti a Salerno, a organizzare le strutture comuniste e tutta la situazione logistica e finanziaria venne organizzata dal servizio segreto inglese. Al nord poi, i rapporti tra gli ufficiali delle basi segrete inglese e i dirigenti comunisti erano di vecchia data. Come sappiamo, sovietici e inglesi (questi ultimi per le scottanti vicende del Carteggio Mussolini/Churchill) erano i più interessati alla eliminazione immediata del Duce, ma anche gli americani, che apparentemente dicevano di volerlo catturare vivo, sottobanco invece e all'ultimo momento, diedero opportune e segrete disposizioni alle loro missioni, per lasciarlo eliminare. Il ruolo ambiguo, ma oramai evidente, degli americani, compresa la missione di lento pede cioè il capitano Emilio Daddario (quello che firmò il famoso lasciapassare per Walter Audisio e consentirgli di recarsi nelle zone dove era stato catturato Mussolini) dovrà essere una buona volta adeguatamente chiarito e decifrato dagli storici perché è il solo modo per uscire da tanti equivoci che rendono complicata la lettura di quegli avvenimenti. È una vicenda questa alquanto contraddittoria perché formalmente e comunemente gli Alleati e in particolare gli americani tendevano a catturare Mussolini vivo (dicesi per processarlo e umiliarlo) e a pretendere che gli venisse consegnato dai partigiani in base agli impegni in questo senso sottoscritti, in sede armistiziale e confermati successivamente, con il governo del Sud. È ovvio che quelle forze della Resistenza, intenzionate invece a sopprimere immediatamente il Duce, dovevano tener presente questo "pericolo" di vedersi sottrarre il prezioso prigioniero. Il fatto quindi che all'ultimo momento sia sicuramente arrivato ad alcuni comandi americani l'ordine segretissimo di lasciar fare ai partigiani, non cambia la situazione generale, ma la ingarbuglia in sede storica per la sua esatta ricostruzione, laddove la comune credenza che gli inglesi lo volevano morto e gli americani lo volevano invece vivo, risponde al vero, ma ha questa "riserva" o "eccezione" poco conosciuta. In quelle ore poi, giocò un ruolo collaterale nel programmare la morte di Mussolini, anche il famigerato Comitato Insurrezionale antifascista, composto da Longo che lo presiedeva, dal suo sostituto Emilio Sereni per il PCI, da Leo Valiani per il partito d'azione e da Sandro Pertini per il partito socialista. È oggi risaputo che Leo Valiani era anche al servizio del SOE, l'intelligence inglese e la cosa non è di certo indifferente. Lo storico Renzo De Felice, in Rosso & Nero, Baldini & Castoldi editori 1995, afferma: «Fu molto facile per gli inglesi evitare (...) che gli americani mettessero le mani sul Duce. Fecero tutto i partigiani. Ma fu un agente dei servizi inglesi, italiano di origine, che li esortò a far presto a chiudere in fretta la partita» (si riferiva a Max Salvadori-Paleotti, ufficiale italo inglese di collegamento con il CLNAI e gli Alleati). Anche un altro storico, Alessandro De Felice, ha rivelato una fugace confidenza da lui ricevuta dall'allora senatore Leo Valiani che gli raccontò, pregandolo poi di non farne menzione: «La morte di Mussolini deve rimanere un mistero. Ed è meglio che sia così… Londra ha suonato la musica, ed il PCI è andato a tempo!». In tutta la zona del comasco, comunque, agivano gruppi che, dato il momento, risultavano poco controllabili, mentre Mussolini era nelle mani del comando della 52a Brigata Garibaldi dell'alto Lario, precedentemente indicato e, come abbiamo visto, composto da elementi eterogenei e non tutti comunisti; stessa cosa per il CLN di Como installatosi in prefettura il 27 aprile '45 (dopo la vergognosa "tregua", in realtà una resa, trattata dai comandanti fascisti giunti in armi nella cittadina lariana il mattino del giorno precedente). Inoltre sulle tracce di Mussolini sono lanciati gli Alleati, in particolare gli americani i quali, come abbiamo già specificato, ma giova ripeterlo, dicono di voler catturare il Duce vivo anche se, segretamente, fanno in modo che ciò non avvenga, ma questo non è noto e poi, nonostante ciò, è probabile che se per qualche motivo una loro missione dovesse capitare sul Duce, questi verrebbe requisito e non passato per le armi. Del resto il governo del Sud e di conseguenza le strutture del CLNAI e del CVL, in ottemperanza agli accordi armistiziali sottoscritti, dovrebbe consegnare Mussolini vivo agli Alleati e il disattendere queste disposizioni, qualunque siano altri desideri e vicende che si svolgevano dietro le quinte, potrebbe comportare pesanti ripercussioni nella definizione dell'occupazione Alleata. Insomma una situazione alquanto ambigua che genererà tutta una serie di ordini e atteggiamenti contraddittori che a Milano, a cose fatte, ci narrano di pareri discordi, di fantasiosi piani di salvataggio del Duce per consegnarlo agli Alleati, ecc. A nostro avviso fu tutto un gioco delle parti, perché alla fin fine anche Cadorna e quasi tutti gli altri al Comando del CVL (o per scelta o per autorevoli e segreti inviti in proposito ricevuti) furono concordi nel lasciar fare a Longo. In considerazione di quanto appena accennato, per Longo c'è il problema di presentare tutte le programmate e forzate fucilazioni che dovrebbero chiudere la guerra civile in un certo modo, storicamente accettabile per la futura agiografia resistenziale, coinvolgendo nelle fucilazioni, quale "giustizia in nome del popolo italiano", tutte le componenti della Resistenza, in modo da farle digerire agli Alleati e poi far pesare, questa epica e unanime pagina resistenziale, nelle alchimie politiche e governative post liberazione a tutto vantaggio del Pci (come in effetti accadde). Da Milano, per prima cosa, a sera viene disposto di trasferire Mussolini in un posto segreto e più sicuro. La disposizione sarà realizzata sul posto, grazie al Canali Neri (che ne consiglierà il luogo), al Bellini Pedro e il Moretti Pietro, che finiranno per portare il Duce in casa dei contadini De Maria a Bonzanigo, ma questa decisione così importante e delicata visto il caos di quelle ore, e con la quale si decise anche di aggiungere a Mussolini una donna, Claretta Petacci, non poteva che arrivare da Milano e se ne era al corrente Cadorna, ancor più lo era Longo. Come detto, pare però che ci furono anche una serie di ordini contrastanti, di piani di prelevamento del Duce per consegnarlo agli Alleati, ecc., tutti ovviamente abortiti, ma anche ammesso che queste storie siano veritiere, contano poco, perché quel che conta fu la decisione di portare Mussolini in un luogo segreto. E la decisione di trasferire Mussolini e la Petacci fuori Dongo non poteva di certo essere presa solo dai comandi locali della 52a Brigata Garibaldi, ma venne giocoforza da alte autorità presenti a Milano. Non a caso il Pier Bellini delle Stelle ebbe a giustificarsi (di fronte alle rimostranze del neo sindaco Giuseppe Rubini di Dongo, che lamentava il modo come era stato sottratto il Duce dal municipio di Dongo) che lui aveva appunto «ricevuto ordini da Milano». E, sempre attenendoci ai fatti, è anche importante considerare che a quella decisione, si attennero scrupolosamente tutti e tre i "comandanti" di Dongo (Pier Bellini, Canali e Moretti) nonostante le diversità politiche e di riferimento nella Resistenza, che singolarmente potevano avere e di tutte le storielle fantasiose che furono poi raccontate, a posteriori e mai chiarite, circa il viaggio notturno da Dongo a Bonzanigo, dicesi passando per Moltrasio e ritorno indietro, ecc. Per esigenze operative, ma anche politiche, venne inoltre da Longo allestita a Milano, a sera tarda del 27 aprile, una missione ufficiale del CLNAI-CVL, al fine di giustificare l'eliminazione del Duce e degli altri elementi della RSI rispetto alla Storia, a tutte le componenti della Resistenza ed agli Alleati: egli, infatti, incarica per questa missione Walter Audisio alias Valerio che prende lo strano grado di colonnello, un ragioniere in forza come Ispettore nella segreteria del Comando del CVL e in quelle ore addetto alla Polizia Militare, comunista, ma rappresentativo di tutto il Comando, anche se di scarse attitudini militari. Ad Audisio viene affiancato Aldo Lampredi Guido Conti, alto dirigente del Pci, uomo di ben altro spessore politico e già agente del Komintern. A costoro è anche assegnato un plotone di circa 12 partigiani, prelevati da quelli delle Divisioni dell'Oltrepo di Italo Pietra e Luchino dal Verme, da poco accasermati nelle scuole di viale Romagna. Il plotone, tutti con divise americane nuove fiammanti, è posto al comando di Alfredo Mordini Riccardo, un ex miliziano di Spagna e Francia, elemento di pochi scrupoli e scarsa cultura, ma benvoluto dai suoi uomini e ben conosciuto da Lampredi e di Giovanni Landini Piero, un comunista ex ufficiale di altrettanti pochi scrupoli. Audisio, a nome del CLNAI (anche se questo organismo si esprimerà in questo senso solo a cose fatte), ha ufficialmente un ordine del CVL, avallato da Raffaele Cadorna: quello di recarsi a Dongo e requisire Mussolini e gli altri prigionieri e quindi tradurli a Milano. In realtà Audisio ha invece la (ovvia) disposizione segreta di fucilarli tutti sul posto e portarne i cadaveri a Milano per esporli in Piazzale Loreto dove, come risulterà evidente in seguito, li attenderanno circa 12 postazioni dei cineoperatori americani, che saranno predisposte in posizione sopraelevata già dalla sera del 28 aprile (essendo evidentemente ben informati), pronte ad immortalare il barbaro scempio che sicuramente si determinerà nella piazza, per le loro esigenze di propaganda cinematografica. Ancora oggi gli storici non si sono messi d'accordo sul fatto che Audisio ebbe subito l'ordine segreto di fucilare Mussolini oppure lo venne a sapere nel corso della sua missione che riteneva consistesse nella traduzione dei prigionieri a Milano (alcuni ipotizzano che Audisio ne venne informato nel corso della sua telefonata a Longo delle 11 dalla Prefettura di Como, altri che lo seppe invece da Lampredi, da lui svicolato e poi ritrovato sulla piazza di Dongo poco dopo le 14). Ma anche questo particolare, attenendoci ai fatti, è un problema di secondaria importanza e comunque noi riteniamo di condividere l'attenta ricostruzione storica fatta dal ricercatore storico Marino Viganò che, considerando molti fatti e aspetti di quella vicenda, ha dimostrato che Audisio partì da Milano con l'ordine omicida seppure segreto (vedere: M. Viganò, "Un Istintivo gesto di riparo. Nuovi documenti sull'esecuzione di Mussolini 28 aprile 1945" Palomar N. 2 - 2001). È più che sicuro che lo scopo omicida della missione di Audisio, almeno nelle sue linee generali, sia stato a conoscenza o intuito dai più importanti comandanti e dirigenti del Comando CVL (Raffaele Cadorna, Giovanni Stucchi, Vittorio Palombo, ecc.), dei comandanti e commissari delle Divisioni dell'Oltrepo (Italo Pietra, Luchino dal Verme, Paolo Murialdi capo di Stato maggiore, Alberto Cavallotti Commissario, ecc.) che metteranno a disposizione gli uomini per il plotone di Audisio e dai membri del Comitato Insurrezionale antifascista vero ispiratore di tutta la vicenda (Sandro Pertini, Leo Valiani e Emilio Sereni). Dicesi anche che Enrico Mattei, alto rappresentante della DC nel CVL, non solo fu d'accordo sulla eliminazione sbrigativa del Duce, ma si diede anche da fare per organizzarla. Come noto poi, per opportunità politica o altro, alcuni di coloro che pur erano informati, faranno il pesce in barile affermando di non sapere bene come stavano le cose. Resta il fatto che la missione di Audisio, per ottemperare a tutti i suoi compiti, storici e politici, oltre che militari assegnatigli, deve giocoforza passare per Como, in Prefettura, dove dovrà imporsi alle autorità locali (CLN) che certamente non gradiranno di vedersi sottrarre i preziosi prigionieri (stavano già accarezzando l'idea di grandi cerimonie di consegna di tutti i prigionieri, compreso Mussolini, alle autorità del CLNAI e agli Alleati), quindi ai comandi della 52a Brigata Garibaldi di Dongo che, come detto, hanno in mano i prigionieri stessi. Una evidente lungaggine di tempi, ma nonostante questo Audisio e il suo plotone finisce per partire prima delle 7 di mattina del 28 aprile (alquanto tardi), con meta Dongo, via Como, ma guarda caso, nessuno gli dice che Mussolini a Dongo oramai non c'è più essendo stato trasferito, notte tempo, da qualche altra parte: una evidente dimostrazione che l'"urgenza" per questa missione non era poi così prioritaria anche se, si racconta che, proprio in quei momenti, Longo ebbe a dire ad Alberto Cavallotti Albero che dovevano sbrigarsi perché su Mussolini stava per piombare la missione del capitano americano Daddario. Tutto questo fa ragionevolmente presupporre che, nel frattempo, si stava provvedendo per Mussolini anche in un diverso modo e si voleva lasciare libero e tranquillo Audisio di ottemperare a tutte le sue necessarie incombenze. È infatti ovvio che Longo, dati i necessari tempi e incombenze richiesti dalla missione di Audisio e non potendosi fidare del momentaneo nascondiglio notturno del Duce e di chi lo custodisce provvisoriamente, incarica anche qualcun altro ovvero spedisce a Como in federazione comunista a raccogliere i dirigenti comunisti e i partigiani ben informati sul nascondiglio di Mussolini e conosciuti in zona e poi a Bonzanigo in casa dei contadini De Maria, dove sono nascosti Mussolini e la Petacci, qualche altro elemento, militarmente efficiente, affinché prenda subito in mano la situazione e la tenga sotto controllo. Se il caso lo impone, fucili immediatamente Mussolini, ma se possibile ne coordini gli eventi con la missione di Audisio in modo che questi possa poi fucilare regolarmente, in tranquillità e sicurezza tutti i prigionieri, Mussolini compreso. Non è particolarmente importante stabilire se Longo, lasciato partire Audisio verso le 7 del mattino, già aveva anche in mente di far verificare la situazione di Mussolini, nascosto da qualche parte in piena notte da elementi della 52° Brigata Garibaldi, non tutti sotto il controllo comunista, oppure vi provvide poco dopo quando arrivarono dalla federazione comunista di Como notizie aggiornate su Mussolini (poco prima in quella sede comasca del PCI erano giunti Michele Moretti Pietro e Luigi Canali Neri reduci dall'aver nascosto il Duce), rendendosi conto che la sola missione di Audisio non era sufficiente per avere la massima sicurezza che tutto filasse liscio. Questo diversivo ovvero il fatto che Longo, a prescindere della missione di Audisio, si premunì, come era logico che fosse, che Mussolini stesse al sicuro e in buone mani, è rimasto misterioso, ma non ci sono dubbi che sia andata in questo modo e, come vedremo, lo dimostrerà anche il suo successivo atteggiamento. È difficile stabilire se gli elementi per questo secondo e segreto incarico partano anche loro da Milano, magari contestualmente ad Audisio e il suo plotone o siano stati reperiti via telefono sul posto (Como), oppure ancora è questo un incarico che venne affidato segretamente allo stesso Aldo Lampredi a latere della sua missione con l'ignaro Audisio. Come sappiamo, infatti, Lampredi arrivato a Como in Prefettura con Audisio verso le 8,30 (dicono loro) mentre questi è alle prese con interminabili discussioni con le autorità locali che lo boicottano e non vorrebbero riconoscere la sua autorità, sgattaiola (chi dice verso le 10, il Lampredi stesso, conscio della delicatezza di questo orario, disse alle 11) portandosi via l'automobile, l'autista e il comandante della scorta Mordini (Riccardo), va in federazione Comunista da poco trasferitasi in Palazzo Terragni, ex sede del Fascio, e riapparirà solo molte ore dopo a Dongo (circa alle 14,10) quasi in contemporanea con Audisio e il resto del plotone giunti per conto loro. Un bel diversivo, rimasto alquanto misterioso nei suoi esatti itinerari e cronologie. Fatto sta che, come accennato, tra poco prima delle 6 o delle 7 della mattina del 28 aprile, erano giunti a Como, in federazione comunista dove trovasi i massimi dirigenti locali del partito (Dante Gorreri Guglielmo e Giovanni Aglietto Remo), il Luigi Canali Neri e Michele Moretti Pietro i quali informarono di aver nascosto e lasciato con due partigiani armati di guardia Mussolini, poche ore prima e a poco più di 21 chilometri da Dongo e circa 28 da Como. Sappiamo che a costoro venne detto che occorreva informare il partito a Milano per avere ordini, poi però, guarda caso, non sappiamo più nulla mentre, secondo la "storica versione", i due componenti della 52a Brigata furono tranquillamente lasciati andar via senza disposizioni (l'altro comandante non comunista, il Pier Bellini delle Stelle Pedro, lasciati Mussolini e la Petacci nella casa di Bonzanigo, se ne era invece tornato per conto suo, tranquillo e spensierato a Dongo). Cosicché dovremmo credere che gli importantissimi Luigi Canali, che dicesi girerebbe in mattinata per Como (e incredibilmente non saprebbe nulla dell'arrivo di Audisio e del suo vistoso plotone) e Michele Moretti che dicesi passerebbe a Tavernola a trovare moglie e figlio, beati e spensierati arriveranno a Como più o meno verso la fine della mattinata. Da tanti particolari e dalla logica stessa di quegli avvenimenti, non è credibile che il Canali e il Moretti, a conoscenza del luogo dove trovasi Mussolini e in grado di accedervi perché conosciuti dai due guardiani armati rimasti in quella casa, siano stati lasciati andar via. È invece logico che si fermarono in federazione comunista ad attendere qualche "arrivo" da fuori ed è anche evidente che la direzione comunista a Milano venne in poco tempo informata del loro rapporto. Anzi, diciamo che, per non addentrarci in controverse ricostruzioni, prendiamo per buono, un arrivo di Moretti e Canali in federazione comunista a Como verso le 7 del mattino e un arrivo di Audisio e Lampredi in Prefettura verso le 8,30, ma non è escluso che invece Moretti e Canali arrivarono in federazione comunista verso le 6 del mattino (come sfuggì a Giovanni Aglietto) e Audisio arrivò in Prefettura molto prima della 8,30 (come asserì in una intervista Cosimo Maria De Angelis, responsabile militare per la piazza di Como del CLN locale). Orari questi che cambierebbero sia i tempi prevedibili in cui fu poi informata la direzione del PCI a Milano in merito al nascondiglio di Bonzanigo ed anche sulla uscita alla chetichella di Lampredi dalla Prefettura che potrebbe essere avvenuta molto prima delle 10. Comunque sia, tutte le nostre precedenti e logiche deduzioni, sono suffragate da molti particolari importanti.

1. Longo a Milano, la sera precedente preoccupatissimo che gli Alleati si possano prendere il Duce, pare adesso nella giornata del 28 aprile come se quasi non gli interessi più il problema Mussolini. Incredibilmente, neppure informa Audisio (quando questi alle 11 telefona dalla Prefettura di Como per lamentarsi delle resistenze e boicottaggi che ivi sta trovando) che Mussolini non si trova più a Dongo, ma lo hanno portato in un rifugio segreto, e successivamente (dopo le 14) pur ignaro di che fine abbia fatto Audisio, se ne va tranquillamente ad incontrare Moscatelli arrivato a Milano con le sue divisioni della Valsesia e nel pomeriggio terrà anche un comizio in piazza Duomo.

2. Stessa cosa sembra fare il comandante Pier Bellini delle Stelle arrivato verso circa le 8 a Dongo: non avvisa i suoi referenti superiori (in pratica, almeno il tenente colonnello Giovanni Sardagna, uomo di Cadorna a Como che dicesi aveva predisposto un piano notturno per portare Mussolini a villa Cademartori) del cambiamento di programma notturno per il quale Mussolini è finito a Bonzanigo (e se invece lo avesse fatto non si capisce come nessuno del CVL a Como e Milano dica o faccia niente); si disinteressa di Mussolini, del suo precario nascondiglio in quella casa a lui fino ad allora sconosciuta, dei due stanchissimi guardiani armati lasciati da ore lì dentro, di ogni imprevisto o sortita che potrebbe accadere e anche del fatto che qualcuno degli altri (i comunisti Moretti o Canali) gli possa soffiare il prezioso prigioniero. Ed analogamente e incredibilmente si comportano Moretti e Canali visto che si vorrebbe far credere che andati via dalla federazione comunista per conto loro, arrivano spensierati a Dongo senza preoccuparsi minimamente che, magari il Pier Bellini delle Stelle faccia prelevare il Duce e lo consegni al CNLAI, di fatto agli Alleati. Insomma se non arrivava Audisio, alle 14,10 a Dongo, tra l'altro inaspettato e non gradito, a reclamare i prigionieri, fino a quando tutti costoro avrebbero ignorato il "problema Mussolini" che la notte precedente e al primo mattino pareva essere così urgente e critico? È evidente che a Mussolini si era già provveduto anche a prescindere dalla missione di Audisio! Quindi Longo era tranquillo e al Pier Bellini delle Stelle, probabilmente, lo si era invitato a tirarsi da parte (cosa che fece puntualmente). Come vedesi queste sono prove indiziarie deduttive, ma suffragate da tutta una serie di fatti e comportamenti che non possono essere sottovalutati. Abbiamo ora due importanti e decisive testimonianze, entrambe rilasciate nel 1996, si badi bene mai smentite o provato che siano inattendibili: quella della signora Dorina Mazzola, all'epoca diciannovenne abitante a Bonzanigo a poco più di 100 metri da casa De Maria, e quella di Savina Santi la vedova di Guglielmo Cantoni Sandrino, il più giovane dei due guardiani lasciati in casa dei De Maria. Inoltre, abbiamo la ricostruzione, sia pure retrospettiva e teorica, di una possibile dinamica balistica di quella fucilazione, la quale a causa di eterogenee inclinazioni delle traiettorie dei colpi e della distanzialità delle ferite sul corpo di Mussolini (elementi deducibili dai sia pur scarsi rilievi del verbale autoptico del prof. Mario Caio Cattabeni del 30 aprile 1945 e dalla osservazione fotografica delle ferite sul cadavere) ci mostra chiaramente che il Duce venne attinto in vita da 9 colpi sparati da almeno due tiratori. In aggiunta si possono avanzare fondati sospetti anche sul decorso del rigor mortis delle salme di Mussolini e della Petacci, come attestato da alcune testimonianze di chi ha maneggiato i cadaveri e come apparivano, in foto e filmati, il giorno successivo alla loro morte (il 29 aprile), dove sembra alquanto avanzata la risoluzione della rigidità cadaverica e quindi si potrebbe almeno sospettare che si era in presenza di due cadaveri uccisi circa 6 o 7 ore prima delle asserite 16,10 del 28 aprile. Ed infine abbiamo alcuni rilievi che è stato possibile fare sulle foto del vestiario trovato sul cadavere del Duce e sul suo stivale destro che risultava con la chiusura lampo saltata all'altezza del tallone. Questi rilievi ci dicono che il giaccone indosso al cadavere era privo di buchi o strappi quali invece avrebbero dovuto esserci dopo gli esiti di una fucilazione e quindi è stato messo addosso ad un morto, gettato in terra davanti al cancello di Villa Belmonte, inscenando una "finta fucilazione"; mentre lo stivale dx, in quelle condizioni non avrebbe potuto essere calzato per camminarci ed essere condotti sul luogo dell'esecuzione come si disse invece che era stato fatto con Mussolini. Tutti elementi questi che indicano chiaramente che Mussolini e la Petacci vennero uccisi al mattino e quindi il pomeriggio al cancello di Villa Belmonte venne fatta soltanto una macabra messa in scena. La signora Dorina Mazzola, infatti, raccontò di aver udito, intorno alle 9 del 28 aprile, un paio di colpi di pistola provenienti da casa De Maria. Quindi, dalla finestra di casa sua, vide scendere, un uomo calvo, con la sola maglietta di salute a mezze maniche, che si trascinava a piccoli e difficoltosi passetti verso il cortile dello stabile, fuori della sua portata visiva che oltretutto gli consentiva di vedere soltanto le persone dalla cintola in su, essendo casa sua ad un livello inferiore rispetto al palazzo dei De Maria. Nel frattempo udì una donna, affacciatasi ad un finestrone della casa, strillare e chiedere aiuto, ma venne subito ricacciata dentro a viva forza, oltre a strilli e lamenti dei coniugi De Maria. Poi udì una sparatoria nel cortile dove era stato condotto l'uomo calvo. Era chiaro che quell'uomo era Mussolini e in quel momento venne ammazzato, ma la Mazzola al tempo non poteva saperlo. La Mazzola infine assistette anche, proprio dietro casa sua (inizi di via del Riale) e intorno alle 12, all'uccisione proditoria di una giovane donna che camminava davanti ad un gruppo di partigiani e che seppe poi trattarsi di Claretta Petacci. Dalle frasi e bestemmie udite dalla Mazzola, si poteva forse ritenere che fu una uccisione proditoria e istintiva, fatta da un partigiano esagitato, che gli sparò alla schiena (come attesteranno i buchi nello schienale della pelliccia della Petacci) che aveva magari ritenuto che la donna volesse correre avanti per fuggire. Elena Curti, figlia naturale di Mussolini, al tempo catturata nella colonna Mussolini a Musso, ha raccontato nel 2007 un suo importante ricordo. «Dieci anni fa, un ragazzo che all'epoca aveva solo 15 anni (Osvaldo Gobetti un comunista di Dongo, n.d.r.), al quale i partigiani davano incarichi come ricaricare le armi, mi ha riferito, dopo averlo saputo da un compagno che aveva assistito ai fatti di Bonzanigo, che la Petacci era stata uccisa mentre tentava di allontanarsi»; Stava correndo su un prato, venne raccontato alla Curti, quando venne falciata proditoriamente da una raffica di mitra alle spalle. Lo stesso partigiano che lo raccontava al Gobetti era rimasto scioccato (Vedere: A. Bertotto "La morte di Mussolini una storia da riscrivere PDC editori 2008).

La signora Santi, vedova Cantoni, invece, nel corso di una inchiesta condotta da Giorgio Pisanò, presente anche il suo collaboratore Giannetto Bordin, riguardante la scomparsa di un prezioso memoriale lasciato scritto dal marito Guglielmo Cantoni Sandrino, (scomparsa che da sola, già dimostra l'esistenza di una altra e diversa verità su quei fatti) diede altri particolari alquanto precisi: «Mussolini e la Petacci non sono stati uccisi nel pomeriggio e davanti al cancello di Villa Belmonte. Mio marito mi disse che quella mattina lui si trovava di guardia alla stanza dove c'erano i prigionieri, quando vide salire le scale Michele Moretti e altri due partigiani che non aveva mai visto nè conosciuto. I tre gli ordinarono di restare sul pianerottolo fuori della stanza ed entrarono nel locale. Mio marito, restando sul pianerottolo, udì uno dei tre che diceva: "adesso vi portiamo a Dongo per fucilarvi", e un altro gridare: "No, vi uccidiamo qui!". Poi mio marito udì altre voci concitate, le urla della donna e colpi d'arma da fuoco..., ma non so dove li hanno uccisi con certezza, credo però che lo sappia un’altra persona che ebbe la confidenza da mio marito» (per queste testimonianze vedere G. Pisanò: "Gli ultimi 5 secondi di Mussolini", il Saggiatore 1996). Dunque, ricapitolando: intorno alle 9 del mattino, mentre Audisio ignaro si trovava a litigare con quelli del CLN a Como, almeno un paio di individui venuti da fuori, accompagnati da Michele Moretti, salirono nella stanza dove erano il Duce e la Petacci. Erano gli elementi spediti o reperiti in zona da Longo affinché prendessero sotto controllo Mussolini, se necessario lo fucilassero subito, ma preferibilmente lo gestissero in attesa che Audisio, compiute le sue incombenze, potesse fucilarlo regolarmente e pubblicamente. È chiaro che invece la rabbiosa irruzione in camera determinò la reazione di Mussolini e della donna e il Duce, a seguito di una colluttazione, rimase ferito al fianco e forse al braccio. Fu il medico legale Aldo Alessiani, a far notare che la distanzialità, la ravvicinatezza e l'inclinazione di alcuni colpi che avevano attinto Mussolini, erano chiaramente il frutto di spari a bruciapelo durante una colluttazione. Il cadavere della Petacci stessa presentava sotto la palpebra dell'occhio destro una ecchimosi quale esito di un colpo preso in vita sul viso. È prevedibile che a quella irruzione in stanza, dalle chiare finalità offensive, Mussolini reagì in qualche modo, specialmente se si era messa di mezzo la Petacci o questa venne maltrattata. Alcuni hanno anche supposto, con qualche ragione, che forse la Petacci venne violentata, o in quel momento (e allora si poteva ritenere che Mussolini era intervenuto per difenderla) o molto più probabilmente poco dopo, quando, morto Mussolini e lasciato il suo cadavere nel cortile, lei rimase in balia dei partigiani per quasi un paio d'ore. Altri hanno invece ritenuto che dalle foto all'obitorio si poteva dedurre che la Petacci aveva il reggicalze in ordine e non si "intravedevano" particolari alterazioni nella zona genitale. Il quesito rimane irrisolvibile, perché se la violenza carnale è intuibile, ma non provabile, si può però anche dire che la Petacci, che poi venne fatta uscire di casa, potrebbe anche essersi riassettata e del resto rimane sempre inspiegabile perché arrivò cadavere a Piazzale Loreto senza le mutandine. Comunque sia, in conseguenza di questo "imprevisto" occorso in quella stanza, Mussolini ferito diventava chiaramente intrasportabile e impresentabile per una pubblica fucilazione in piazza. Venne quindi immediatamente ammazzato e a quanto sembra gridò e con gran foga, in faccia ai suoi assassini "viva l'Italia!, come raccontò, con sofferta confidenza, Michele Moretti 45 anni dopo, uno dei partigiani che sicuramente sappiamo presente quel mattino in casa De Maria. Aggiungendo anche che la cosa non lo aveva infastidito più di tanto trattandosi, per lui, dell'Italia fascista non della sua (vedere: G. Cavalleri "Ombre sul lago", Piemme 1995). Mussolini dovette poi anche essere rivestito alla bene e meglio visto che indossava la sola maglietta a mezze maniche e forse i pantaloni. Gli misero quindi indosso quello strano giaccone con maniche raglan che risulta, ad ogni indagine fotografica, imperforato. Ma la Dorina Mazzola raccontò anche che alcune ore dopo, verso le 11,30 da casa sua assistette alla difficile impresa di rimettere uno stivale al piede del Duce che la Petacci, aggrappandosi alle gambe del morto, trascinato da un paio di partigiani per via del Riale, aveva sfilato. È prevedibile che il piede di Mussolini, tra l'altro alterato da vecchie cicatrici di guerra, dopo alcune ore e a causa delle modalità repentine e violente di morte, era andato in rigidità catalittica, rendendo quasi impossibile rimettergli lo stivale. Probabilmente nel forzare l'introduzione dello stivale nel piede era saltata la chiusura lampo all'altezza del tallone. Tutti questi avvenimenti chiariscono poi anche perché ne risultò la inspiegabile anomalia che mentre a Dongo, Audisio pretese rabbiosamente di fucilare i prigionieri alla schiena e davanti a donne e bambini, Mussolini sembrava avere avuto la "concessione" di una fucilazione al petto e per giunta di nascosto da tutti. La successiva morte della Petacci, forse in parte accidentale, complicò ancor più le cose e costrinse Audisio, a Dongo, alle prese con il comando della 52a Brigata Garibaldi, sapendola già morta perchè probabilmente informato da Lampredi, ad aggiungerla alla lista di coloro che dovevano essere fucilati, destando meraviglia e perplessità. Fu quindi necessario nascondere i cadaveri nel garage dell'albergo Milano, lì vicino sulla via Albana. Varie ricerche e ricostruzioni (per esempio quelle di Franco Bandini, di Urbano Lazzaro, di Alessandro Zanella, ecc.,) seppure vaghe e imprecise, avevano pur indicato che i due cadaveri erano stati nascosti in qualche casa o ripostiglio nei pressi di casa dei De Maria. Dorina Mazzola, il teste di Bonzanigo però, grazie ad una zia che al tempo lavorava all'albergo Milano, il cui proprietario era in contatto con i partigiani, rivelò che le salme vennero nascoste per alcune ore proprio in quel posto. Non è da poco che il dottor Cova Villoresi, di sicura fede antifascista, che sembra abbia presenziato alla famosa autopsia di Mussolini stilando anche un suo personale referto reso noto nel 1994, nel 2003 raccontò nel corso di una intervista al direttore di «Italia Tricolore», Augusto Fontana, quanto segue, evidentemente appreso in ambienti qualificati (il Cova sta parlando dei cadaveri): «Li avevano rinchiusi nell'albergo vicino al posto dove poi sono stati fucilati». E sulla Petacci, parlando del cancello di Villa Belmonte ebbe a precisare: «... quel cancello lì è sbagliato, perché dove l'hanno uccisa è sulla curva di una stradina che parte dal lago, parte dalla strada, c'è la strada che praticamente è parallela al margine del lago». Una volta nascosti i cadaveri si pensò poi di allestire una messa in scena per aggiustare, in qualche modo, tutta la vicenda. Intanto venne lasciato nella stanza dei prigionieri, al meglio riassettata (in fin dei conti erano stati esplosi in camera solo due colpi) un presunto pasto di dopo le 12 con tanto di stoviglie che, guarda caso, così rimase fino a sera in modo da farlo notare ai visitatori (per esempio i coniugi Carpani, di cui lui, anni dopo, divenne  anche sindaco di Mezzegra) e si pensasse che Mussolini e la Petacci, a quell'ora, erano ancora vivi, mentre invece al fotografo Vincifori, che dal giorno successivo prese a fotografare in zona tutti i luoghi di quella vicenda, venne impedito per tre o quattro giorni di fotografare la stanza. Questa sceneggiata del pasto delle 12 risulterà, col tempo, persino ridicola, non solo perchè appariva singolare che ancora a sera nessuno aveva sparecchiato quella stanza, ma oltretutto l'autopsia sul Duce non aveva rivelato nello stomaco dello stesso residui di cibo e anche se si voleva presumere che i due prigionieri non avevano mangiato nulla (come qualcuno disse perchè indicato dagli avanzi del cibo rimasti intatti), non si spiegava perchè costoro, svegliatisi alle 12, digiuno dalla sera precedente, avrebbero richiesto, o gli sarebbe stato offerto un pasto che avevano accettato, e poi non lo avevano consumato. Insomma, in entrambi i casi, la faccenda non era credibile. Si predisposero, quindi, le cose per la sceneggiata finale, invitando, con voce sparsa in giro, i pochi abitanti del circondario nella sottostante provinciale (il bivio con la via Regina), con la falsa voce che nel primo pomeriggio vi sarebbe passato Mussolini prigioniero. Anche uno dei coniugi De Maria, Giacomo, venne detto che era andato a vedere il Duce (prima si disse che non lo aveva riconosciuto in casa, anni dopo invece il figlio disse che il padre vi andò per deviare i sospetti). In realtà si fece questo per evitare che costui potesse raccontare cose non gradite. Era infatti assurdo pensare che Giacomo De Maria, dicesi dalle 14 e fin verso sera, era uscito di casa lasciando la moglie sola con due prigionieri e due guardiani armati! Verso le 16 infine venne allestito qualche piccolo posto di blocco nelle stradine attorno a via XXIV Maggio dove avrebbe dovuto essere "fucilato" il Duce. Per quell'ora, infatti, venne fatto sbirciare, da lontano, a qualche sparuto astante, un breve corteo di due prigionieri scortati da alcuni partigiani armati, che a tutti venne fatto poi credere trattarsi di Mussolini e la Petacci, ma nessuno lo potè asserire con certezza, perché la Petacci non la conosceva nessuno e il presunto Mussolini, guarda caso, camminava rimpannucciato in un pastrano con i baveri rialzati e un berretto o cappello, si disse, calato sugli occhi. Entrambi poi vennero descritti con stivali da cavallerizzi, certamente più attinenti ad una partigiana che impersonava la Petacci che a quest'ultima. Alle 16,10 infine si inscenò una finta fucilazione davanti al cancello di Villa Belmonte in via XXIV Maggio, dove infatti i cadaveri, come attestarono alcune testimonianze, apparvero già in stato di rigidità cadaverica indice di una morte precedente di alcune ore, mentre Mussolini prima di essere buttato lì a terra era stata chiaramente rivestito. Sono tutti fatti questi, oggi ben accertati. Tutti questi avvenimenti sono rimasti in buona parte e per anni nascosti, non solo perché il "segreto" venne difeso sul posto con l'imposizione minacciosa di un silenzio richiesto a tutti i residenti di quelle parti (nelle località del comasco in quei tempi si ebbero circa 400 omicidi e sparizioni di persone), ma anche perché questo "diversivo" mattutino, in buona parte, venne coperto e confuso dalla pantomima del "corteo" pomeridiano di un uomo e una donna condotti all'esecuzione e da una finta "fucilazione" davanti al cancello di Villa Belmonte alle 16,10, udita da molti. Quindi nella esaltazione di quelle ore eccezionali, nella ridda di voci incontrollate che presero a girare, si creò una suggestione collettiva che, unita alla paura crearono una duratura e pervicace "omertà ambientale". A fine 2008 il vice sindaco di Mezzegra, Vittorio Bianchi, in una intervista alla Tv Espansione di Como, ha confermato che all'epoca la gente di quelle parti venne "zittita": un prova inequivocabile questa, che se ci fu bisogno di minacciare la gente per ridurla al silenzio, evidentemente esisteva un "altra" verità! In pratica tutta la "storica versione", dalla partenza di Audisio da Milano, al suo arrivo in Prefettura a Como, poi del suo arrivo a Dongo, della sua sortita delle 15,15 per recarsi a Giulino di Mezzegra, assieme a Lampredi e Moretti, dicesi a fucilare Mussolini e del loro ritorno a Dongo per eseguire le più ampie fucilazioni pubbliche sul parapetto del lungo lago, pur con molte discrasie, imprecisioni e contraddizioni, trova varie conferme in rapporti, relazioni, testimonianze e altri riscontri. Ed in effetti tutti questi fatti, dalla "storica versione" narrati, sono effettivamente avvenuti. Ma resta il fatto, rimasto misterioso (ma non troppo e comunque fino alla testimonianza Mazzola) di un diversivo al mattino in quel di Bonzanigo, mai da nessuno raccontato e quindi di una mistificazione pomeridiana al cancello di Villa Belmonte. La "forza" di questa "storica versione", che gli ha permesso di sopravvivere per molti decenni, creando un muro di gomma, oltre alle minacce di ogni tipo e gli interessi politici che la difesero, sta proprio in questo particolare: un quadro generale più o meno veritiero, sia pure alterato da molte mistificazioni e ingarbugliato da una miriade di testimonianze contraddittorie, al cui interno vi è uno spicchio di avvenimenti (il diversivo mattutino a Bonzanigo), strettamente mantenuto segreto. Resta purtroppo ancora misterioso il nome di coloro (almeno due) che uccisero vigliaccamente Mussolini in quel cortile della casa ed anche del partigiano che sparò alle spalle della Petacci (è comunque poco, ma sicuro, che la Petacci, non sarebbe stata in ogni caso lasciata in vita). Al mattino a Bonzanigo di sicuro c'era Michele Moretti, ma non sappiamo se ha sparato e se potesse esserci anche Aldo Lampredi, che come abbiamo visto era svicolato da Audisio a Como, ma non è accertato il momento esatto in cui uscì dalla Prefettura e quindi non è detto che potè arrivare in tempo (in pratica Mussolini venne ucciso in un orario che oscilla tra poco dopo le 9 e poco prima della 10 e da Como a Bonzanigo, in quei frangenti si potevano impiegare circa 45 minuti, avendo in auto, come Lampredi aveva, partigiani conosciuti in zona). Come abbiamo accennato, si faccia però attenzione che gli orari narrati dalla "storica versione" vanno presi con molta cautela. Per esempio Audisio e Lampredi hanno raccontato di essere arrivati quel mattino a Como in Prefettura verso le 8,30. Ma invece una testimonianza del maggiore Cosimo Maria De Angelis, responsabile militare per il CLNAI dell'area di Como, asserì che costoro arrivarono intorno alle 6, ora in cui lui stava ancora dormendo su un divano. Forse si sarà sbagliato, magari saranno state le 7, ma anche in questo caso cambierebbero tutti i riferimenti temporali con i quali si possono assegnare determinate presenze o assenze di certi personaggi (ovvero Lampredi che allora probabilmente sarebbe sgattaiolato alla chetichella dalla Prefettura molto prima di quanto asserito) in certi avvenimenti. Non essendo possibile dare retta ad una testimonianza, invece che un’altra, è meglio soprassedere a raccapezzarsi in merito. Certo è che Lampredi arrivò comunque in mattinata a Bonzanigo con gli altri componenti della Federazione comunista di Como, trovando per di più il cadavere inaspettato della Petacci e dovette probabilmente caricarsi l'onere di pianificare una "riparatrice" sceneggiata pomeridiana di una finta fucilazione (in collaborazione con Audisio). Disse significativamente l'ex direttore dell'Unità! nel '44 ed esponente comunista Celeste Negarville: «Con la Petacci Lampredi non c'entra. La Petacci è stata uccisa altrove. Lampredi si trovò un cadavere in più, che non era nel conto» (M. Caprara: "Quando le botteghe erano oscure", Il Saggiatore 1997). Oppure è anche possibile che fecero tutto elementi reperiti, nelle prime ore del mattino nel comasco, se non nella stessa federazione del Pci di Como, ovvero, come ipotizzò lo storico Renzo De Felice, che difficilmente si pronunciava con superficialità, in una  intervista al Corriere della Sera del 12.11.'95 in cui disse: «La documentazione in mio possesso porta tutta ad una conclusione: Benito Mussolini fu ucciso da un gruppo di partigiani milanesi su sollecitazione dei servizi segreti inglesi. C'era un interesse a far sì che il capo del fascismo non arrivasse mai ad un processo. Ci fu un suggerimento inglese: 'Fatelo fuori', mentre le clausole dell'armistizio ne stabilivano la consegna.  Per gli inglesi era molto meglio se Mussolini fosse morto». Una considerazione questa del De Felice che si accorda con quanto ebbe a dire in una intervista televisiva (Rete 4) pochi anni addietro Francesco Cossiga, che evidentemente aveva raccolto confidenze di un certo livello: "Ad uccidere Mussolini fu un dirigente comunista di Milano fatto poi espatriare dal Pci in sud America". Certamente questa di Cossiga fu una dichiarazione "indiretta", ma considerando la statura del personaggio che ha ricoperto tutte le più alte cariche dello Stato che, oltretutto, era imparentato con la famiglia comunista dei Berlinguer, possiamo dargli anche un certo credito. In ogni caso a Bonzanigo quel mattino non c'era, non poteva esserci, Walter Audisio. Scrisse Sandro Pertini nel 1975 al regista Carlo Lizzani autore del film "Mussolini ultimo atto" che tanto aveva contribuito al diffondersi della "vulgata": «...e poi non fu Audisio a eseguire la "sentenza", ma questo non si deve dire oggi» (C. Lizzani: "Il mio lungo viaggio nel secolo breve", Einaudi 2007). Più di questo, al momento, non è possibile attestare con un minimo di concretezza. Maurizio Barozzi

Mussolini: le ultime ore di vita. Gli americani lo volevano vivo. Una questione aperta, scrive il 30 luglio 2008 Giuseppe Casarrubea (Ricerche presso gli archivi del Nara: Mario J. Cereghino). Da numerosi rapporti e cablogrammi (redatti da agenti dell’Oss) sulle ultime ore di Mussolini emerge che gli americani pianificano di sottrarre l’ex duce ai partigiani per metterlo in salvo a bordo di due aerei militari, assieme ad altri gerarchi di Salò. Dal memorandum scritto dall’agente 441 e inviato da Lugano il 30 maggio 1945 ad Allen Dulles a Berna, tale tentativo risulta abbastanza delineato e induce a rinfocolare le ipotesi sulle controverse versioni riguardanti la morte del duce. Tra queste quella che colloca le ragioni dell’eliminazione del capo del fascismo da parte di un commando partigiano nelle trattative segrete che avrebbero interessato Mussolini e Churchill, già a partire dall’entrata in guerra dell’Italia (1940). Un delitto su commissione insomma, nel quale l’iniziativa poteva essere partita anche da luoghi a quel momento non sospetti. Un’anticipazione del memorandum possiamo riscontrarla nel rapporto del capitano di fregata Giovanni Dessy scritto il 1° maggio 1945 su incarico del Cln di Como. Il documento, rintracciato al Nara, descrive i fatti accaduti dopo la cattura di Mussolini e l’interesse che avevano gli americani a un passaggio dei poteri senza vittime, come si può leggere in una nota scritta da Jones a Lugano il 26 aprile ’45. Utili appaiono i quattro allegati al rapporto. Ci forniscono, come il lettore potrà vedere, il quadro delle diverse posizioni assunte, nei giorni della cattura e della condanna a morte del duce, da personaggi come Alessandro Pavolini e Pino Romualdi. Il primo preparava l’estrema difesa in Valtellina, il secondo trattava la resa con il Cln. La vicenda dell’uccisione di Mussolini e di Claretta Petacci, è abbastanza spinosa e controversa. La versione qui riportata, indirizzata agli uffici dello spionaggio americano a Berna, si basa sulle fonti testimoniali di alcuni dei protagonisti oculari della vicenda. Ad esempio la proprietaria della casa che ospita i due prigionieri prima dell’esecuzione e un partigiano che spara gli ultimi colpi contro l’ex dittatore. Appare chiaro anche che gli americani, il Clnai (Comitato di liberazione nazionale dell’Alta Italia), come lo stesso Raffaele Cadorna (comandante in capo del ‘Corpo volontari della libertà’) volevano il prigioniero vivo per processarlo. Ancora al 9 maggio ’45, però, il braccio militare della Resistenza non ha chiari o addirittura sconosce molti dettagli dell’esecuzione capitale, a tal punto che, secondo Gustavo Ribet, comandante del Cvl, il Clnai si sarebbe assunta la responsabilità dell’operazione ben ventiquattro ore dopo la fucilazione. Segno evidente che essendo stato messo di fronte al fatto compiuto fu costretto a esprimere una posizione. Sappiamo che le istruzioni date dal Clnai ai partigiani dell’area di Dongo, dopo la cattura di Mussolini il 27 aprile 1945, riguardano la severità nella sua custodia e l’attenzione che non gli fosse fatto del male. Per ragioni di sicurezza, dunque, il prigioniero e la sua compagna vengono trasferiti il pomeriggio del 27 da Dongo a Germasino prima, e a Bonzanico di Mezzegra, dopo (2-3 del mattino del 28 aprile). I due sono accompagnati dai partigiani Neri, Pedro, Pietro, Gianna, Menefrego e Lino. L’alloggio si trova in cima a una collina. E’ Neri che lo propone perché vi si è rifugiato in passato, durante la lotta partigiana. Di questo gruppo Lino e Menefrego sono addetti alla vigilanza sulla casa; gli altri vanno via. Ma possiamo dire che dal momento della cattura, ad opera di Pedro, all’epilogo il Cln dell’area si trova in uno stato di grave incertezza, in assenza di un serio coordinamento tra i gruppi, e in un vuoto di governo della situazione da parte del Clnai milanese. Tale condizione si concretizza nelle azioni di commando di Walter Audisio, alias colonnello Valerio, e nella doppia anima che traspare dai documenti: quella legalitaria del Cln e quella giustizialista di una parte del gruppo dirigente che lo rappresenta con Longo, Valiani, Parri e Pertini. Da loro sembra derivare il mandato del colonnello. Ma la questione non è solo questa. Nel conflitto tecnico-politico che si registra è legittimo supporre che vi sia anche una terza componente, molto meno visibile, interessata, come abbiamo già ipotizzato, a operazioni occulte, per scopi legati a ragion di Stato, quali potevano essere quelle che nutrivano gli inglesi nel contenere il regime mussoliano in crisi orientandolo verso posizioni di distacco dalla Germania di Hitler. La morte di Mussolini è segnata da zone d’ombra e contraddizioni. Cruciali sono i dieci minuti impiegati dalla coppia Mussolini/Petacci nel percorso dalla casa dei De Maria al luogo della fucilazione in località Giulino di Mezzegra. Il quadro si modifica con l’irrompere sulla scena in modo repentino di Walter Audisio, per conto del Clnai, e anzi, per la componente socialcomunista e azionista del comitato di liberazione nazionale. Valerio giunge a Bonzanico nella casa che ospita Mussolini e Petacci alle ore 16 del 28 aprile. E’ in compagnia di un partigiano, e dovrebbe avere trovato sul luogo a guardia della casa Lino e Menefrego, oltre ai coniugi De Maria, proprietari dell’abitazione. Il colonnello è deciso a tutto, ma gli ordini di cui è portatore non sono quelli di consegnare il prigioniero, ma di eliminarlo. Certamente è informato anche della presenza della Petacci, ma non può prevedere il comportamento di quest’ultima. La prima cosa che fa Valerio è di invitare i due a lasciare immediatamente l’abitazione e a trasferirsi in altro luogo. Fatto singolare, questo, e senza apparente spiegazione se si tiene conto del fatto che quella casa offriva ogni forma di riservatezza che il caso richiedeva. Ma seguiamo più da vicino le azioni a cominciare dal giorno precedente. Il colonnello raggiunge la prefettura di Como la sera del 27 e fornisce le sue credenziali. Cadorna deve già avergli affidato la missione segreta: consegnare Mussolini al Cln. Il 27 tra i capi partigiani dell’area si tiene una riunione a Dongo e si decide di trasferire Mussolini da Como a Milano. A tale scopo una colonna motorizzata è inviata a Dongo. Scrive l’agente 441: “Non è chiaro perché Valerio modificò i suoi piani. L’unica cosa certa è che, pochi minuti prima, aveva ricevuto una chiamata da Milano. Dopo aver scambiato alcune parole al telefono, diventò molto teso e senza troppi complimenti ordinò a tutti di lasciare l’ufficio. Mentre parlava, brandiva nervosamente un mitra e urlava ordini. Tutto indica che fu la telefonata a modificare la sua missione originale”. Il suo mandato prevede oltre all’eliminazione di Mussolini, anche quella dei capi fascisti. Così di tutti i prigionieri di quell’area, una cinquantina, fu compilata una lista di sedici persone da fucilare. Le due operazioni si verificano in parallelo, con precisione quasi cronometrica. Ma quanto accade a Bonzanigo di Mezzegra precede di un’ora circa l’esecuzione di Pavolini e degli altri. Non tutto è perfettamente chiaro. Né alla chiarezza contribuisce la versione data da Audisio sull’Unità, qualche giorno dopo i fatti. Occorre rilevare, prima di tutto, che la pretesa, ricercata segretezza dell’uccisione di Mussolini, stride con le azioni messe in campo da Valerio secondo il rapporto dell’agente 441. Nel tragitto da Bonzanico e Giulino troppe persone sarebbero state testimoni di qualcosa che rischiava di diventare oggetto di pubblica constatazione: i numerosi uomini della scorta dopo l’uscita dei due condannati a morte dalla casa di De Maria; i passanti che osservano il corteo; la troppo evidente presenza di una Fiat 1100 stranamente utilizzata per qualche centinaio di metri per portare i due condannati in via 24 maggio, all’altezza del numero civico 14 (luogo della fucilazione), ecc. Da aggiungere un altro testimone: un partigiano che arriva sul luogo dopo la raffica di mitra, e che spara su Mussolini, ancora in vita, due colpi di rivoltella. Un racconto con molti lati oscuri. Se non altro perché questa folla di testimoni avrebbe messo a repentaglio la sicurezza personale di ciascun operatore diretto o indiretto di quella missione, a cominciare dai coniugi De Maria e dallo stesso Valerio. Appare perciò più plausibile il recente racconto di Edoardo Conti (Cattolica, prov. Di Rimini,cl. 1929) su quanto avrebbe raccontato lo stesso colonnello Valerio una sera di agosto 1950. Sono presenti cinque persone, delle quali Conti è l’unico superstite. Gli altri testimoni sono l’on. Giuseppe Ricci che fa gli onori di casa, l’on. Gombi di Bologna, l’on. Walter Audisio e Luigi Bordoni, guardaspalle di Audisio. Conti è presentato come segretario personale di Ricci (1948-1955), già responsabile della Resistenza in territorio di Valconca. Queste persone giurarono solennemente di non svelare i fatti narrati da Audisio, se non dopo la loro morte. Punti salienti della conversazione di Audisio quella sera, secondo Conti, sono i seguenti:

-in Italia gli angloamericani non hanno intenzione di creare una Norimberga che processi il fascismo. Churchill teme che il Cln “tramuti la vittoria sul campo della guerra patriottica in un ampio consenso elettorale che imponga con il voto un governo democratico post-fascista”. I Servizi segreti sono in allarme e infiltrano i reparti partigiani. Ma anche il Cln ha i suoi informatori e così viene a sapere che gli angloamericani vogliono salvare quella parte del fascismo che non si era compromessa con fatti di sangue; “preparare il dopoguerra senza il ciarpame fascista del manganello e dell’olio di ricino”. Per Churchill l’esercito di liberazione italiano è troppo spostato a sinistra e pertanto costituisce motivo di seria preoccupazione per un liberal-monarchico come lui.

-I primi segnali per uscire dal vecchio fascismo e fondarne uno nuovo sono contenuti nell’ordine del giorno Grandi. Fin qui la coerenza del racconto si incontra con la documentazione storica in quanto Grandi oltre ad essere un capocordata del colpo di Stato del 25 luglio è il precursore che apre la strada a Raffaele Guariglia il ministro degli Esteri di cui abbiamo parlato a proposito dell’armistizio.

Nel dettaglio il racconto della cattura è così descritto: Il Cln viene a conoscenza che Mussolini frequenta Claretta Petacci a Fiordaliso di Gardone, dove la visita spesso e cena e fa colazione con lei. Walter Audisio riceve l’incarico di catturare Mussolini da Luigi Longo. Il mandato prevede di giustiziarlo assieme ad altri membri della Repubblica di Salò. Longo consegna ad Audisio un documento che gli dà per quella missione pieni poteri e che dovrà essere distrutto al compimento della stessa. La decisione non è presa da tutto il Cln, ma da quattro suoi autorevoli esponenti: a parte Longo, Sandro Pertini, Leo Valiani, e Ferruccio Parri. Cadorna è tenuto all’oscuro dell’intera missione in quanto la sua autorità è imposta dagli Alleati e rappresenta il governo monarchico, cioè un’istituzione compromessa. Italo Pietra mette a disposizione del colonnello Valerio 12 partigiani scelti del suo battaglione. La fase conclusiva e finale coinvolge soltanto quattro persone: il col. Valerio, i coniugi De Maria, e un partigiano fidatissimo. Non avrebbero mai rivelato i fatti e avrebbero dovuto portare a termine la loro esistenza “in assoluta tranquillità”, nel segreto assoluto di quanto avvenuto. E’ probabile che l’idea di eliminare Mussolini e i capi della Repubblica di Salò sia scaturita dall’atteggiamento degli Alleati che in quei giorni avevano salvato dal plotone di esecuzione il generale Graziani e Junio Valerio Borghese, per consegnarli alla giustizia italiana. Che la stessa cosa potesse ripetersi con Mussolini era scontato. Il colonnello Valerio lascia Milano il 27 aprile ’45. Ha con sè in macchina quattro compagni di viaggio: Ferro, Lampredi, Aglietto e Gorreri. Mussolini è catturato il 28 aprile e condotto presso il municipio di Dongo. Qui è raggiunto dalla Petacci. I due vengono fatti uscire con uno stratagemma. Scrive Conti: Benito Mussolini e Claretta Petacci furono portati via dal municipio di Dongo con un’astuta messa in scena. Cioè uno stratagemma per trarre in inganno i Servizi segreti che sicuramente sorvegliavano il municipio di Dongo. Feci indossare a un partigiano il cappotto di Benito Mussolini e a una donna partigiana la pelliccia di Claretta Petacci. Il loro compito era quello di camminare e fingere di parlare gesticolando in modo concitato come due persone che non si trovano d’accordo. I loro gesti dovevano essere visti da fuori, però senza avvicinarsi molto alle finestre e soprattutto senza guardare. Lo scopo molto importante era di far capire che Mussolini e la Petacci erano ancora nel municipio di Dongo e nello stesso tempo Mussolini cercava di convincere la giovane amante ad andarsene lasciandolo al suo destino. A Giulino di Mezzegra, un partigiano che portavo sempre con me [è Conti che scrive attribuendo il racconto al colonnello Valerio] conosceva una famiglia di contadini antifascisti che non si erano mai esposti, ma erano amici dei partigiani. Sono i coniugi De Maria. Abitano in un casolare isolato e occorre salirvi a piedi poiché è un sentiero abbastanza ripido. Si arriva di notte. Mussolini zoppicava e saliva con fatica (forse una vecchia ferita e gli anni). L’aiutai ad arrivare nel casolare il più presto possibile. Era buio ma meno occhi indiscreti c’erano meglio era per la missione da compiere. […]. Ma seguiamo la narrazione dei fatti accaduti nel casolare dei De Maria, tenendo presente che il Conti riferisce il racconto di Valerio/Audisio: Siamo sei persone: io, Walter Audisio, i coniugi De Maria padroni di casa, il partigiano, Mussolini e la Petacci. Dispongo di alcune stanze. Claretta Petacci nella stanza in fondo è guardata a vista, senza essere lasciata sola per un minuto, dalla moglie del De Maria. Invece il padrone di casa lavora come sempre intorno al casolare – così fanno i contadini- e sorveglia attentamente che nessuno si avvicini al casolare. […] Il casolare dei De Maria consentiva di avere un dialogo lontano dagli altri […] Informo il duce che il Cln dopo un breve processo ha decretato la sua condanna; la morte per i suoi crimini nei confronti dei suoi avversari politici. Pronunciai la sentenza con voce autorevole e sicura. Il duce del fascismo ammutolì, il viso sbiancò e il terrore apparve in tutta la sua persona. Per qualche minuto ho temuto il collasso. Cominciò un tremolio nervoso […] Era di fronte a me, guardava con terrore il mitra a tracolla, sempre più pallido e incapace di reagire con una sola parola. Era improvvisamente diventato muto, un uomo privo di senno. La mente smarrita, mi fissava con occhi sbarrati e allucinanti. […] L’ordine ricevuto era di fare presto. Presi subito una decisione immediata. Preparai un piano. Dovevo portare il duce del fascismo in cantina e lontano da occhi ed orecchie indiscrete ed eseguire la sentenza... La cantina dei De Maria era fuori da ogni possibilità di intervento esterno. Avevo dirottato il gruppo dei partigiani con Lampredi alla colonna dei prigionieri e degli altri gerarchi del regime di Salò. Ero solo e dovevo compiere la mia missione nel più breve tempo possibile in assoluta segretezza. Pensai che la cantina dei De Maria era il posto migliore […] Avevo separato Benito Mussolini e Claretta Petacci. Di proposito poiché dopo la sentenza eseguita, a giustizia eseguita, avrei accompagnato Petacci a Milano. Il piano ideato era di arrivare in cantina soli io e Mussolini. Lontano da occhi e orecchie indiscrete. All’improvviso accadde un fatto imprevisto e mi mise in serio imbarazzo. Come una furia arrivò Claretta Petacci. Apparve in cantina seguita dalla sua sorvegliante, la moglie del De Maria. Tentava di giustificarsi. Ho dovuto rivelare il luogo poiché si mise a urlare che voleva il suo Ben. Quella di Claretta Petacci si rivelò una crescente pressione ossessiva. Temevo che qualcuno di fuori fosse in ascolto. Tentai di calmarla. Non era mia intenzione uccidere Claretta Petacci. Ma lei disse che la sorte del duce doveva essere anche la sua. […] Mussolini rimase folgorato e prese notevole forza da quella decisione, La guardò e la strinse con vanto di uomo orgoglioso. Quella giovane donna che voleva morire con lui era più giovane di sua figlia. […] L’ultimo atto della tragedia si compì nella cantina dei De Maria. Davanti al mitra caddero insieme il duce del fascismo e la sua giovane amante, la passionaria del duce […] estranea all’immensa tragedia della guerra e degli orrori delle camicie nere e degli squadroni della morte […]. Il racconto prosegue su come i corpi dei due giustiziati sono portati fuori dal casolare dei De Maria e poi inviati a Milano assieme ai corpi dei gerarchi di Salò fucilati dal gruppo di Lampredi (Barracu, Bombacci, Mezzasoma, Pavolini, Marcello Petacci, fratello di Claretta e altri). Trovai in cantina il carretto che usava De Maria per portare gli attrezzi nei campi. La decisione fu immediata. Verso sera col primo buio avvolsi i due corpi con due coperte, uno di fianco all’altro nel carretto. Con l’aiuto del partigiano e De Maria (doveva riportare il carretto nel casolare) a notte fonda portai Benito Mussolini e Claretta Petacci davanti al cancello in zona Bonzanigo – Giulino di Mezzegra. Qui una scarica per simulare l’avvenuta esecuzione. In questo modo volevo evitare complicazioni alla famiglia De Maria […] La versione Conti resta forse la più plausibile. Ma anche qui, le ragioni reali dell’esecuzione appaiono ancora, nonostante tutto, assai nebulose. Il documento autografo di Benito Mussolini “La situazione italiana dopo lo sbarco angloamericano” conferma che le certezze che il duce manifesta nel suo famoso discorso sul “bagnasciuga” si scontrano tutte con una realtà che già gli sfugge totalmente di mano. Una molteplicità di aspetti convergenti si coniugano verso una coerente lettura di questo frangente. La fronda interna contro il regime mussoliniano è forse ormai decisamente diretta a determinare una nuova situazione. L’uscita dalla guerra è la soluzione prevalente sotterraneamente prevista dagli stessi gerarchi in crisi. Si notino lo stupore per l’eccessiva mancanza di “resistenza” contro l’occupazione e gli interrogativi che lo stesso Mussolini si pone rispetto alla situazione generale e ad alcuni casi in particolare (quelli di Siracusa e di Augusta). Ma possiamo dire che è con il discorso sul 25 luglio che egli prende consapevolezza del complotto nel quale è caduto. Che le cose non andassero bene era stato preannunciato dallo stesso Scorza quando aveva sollevato l’interrogativo se Mussolini potesse ritenersi sicuro di tutti quelli che lo circondavano. Aveva insinuato in lui il tarlo del dubbio, ma senza riuscire nell’intento. Solo a distanza di tempo e dopo il suo arresto l’ex capo del governo si dice sicuro che Scorza fosse a conoscenza sia dell’ordine del giorno Grandi, sia anche di quanto si stava preparando a sua insaputa. Una conferma dei sospetti può essere data dall’irreperibilità di Grandi il giorno del Gran Consiglio, nelle ore che precedono il suo inizio e dai comportamenti ambigui di vari ufficiali delle forze armate che, è evidente, sono parte integrante della rete golpista il cui capo è proprio il re, Vittorio Emanuele III. Non si assuma, però, questo dato come un atto di antifascismo. Al contrario, è l’espressione una manovra cinica e di parte con cui, gli Alleati offrono a Badoglio e ai Savoia, una via di uscita dal tunnel della guerra, senza di fatto nulla alterare del fascismo, ma cambiandone il capo e alcuni ambienti che con lui si erano compromessi. I “Pensieri Pontini e Sardi” (che pubblicheremo nella stesura manoscritta di Mussolini e in edizione assolutamente integrale, formato PDF) rappresentano la stesura fedele del dattiloscritto rintracciato presso il National Archives di Kew Gardens. Fa parte delle carte provenienti dal GFM (German Foreign Ministry) inserite nell’ “Italian Collection”. Il documento, recuperato dagli Inglesi dopo il crollo della Germania di Hitler, è scritto in italiano, consta di 28 pagine numerate dal n. 263706 al n. 263733 e proviene dal dossier “Duce- Dokumente”. La stesura originale è a matita, quasi a denotare il senso di assoluta precarietà e di solitudine in cui l’ex dittatore era precipitato, dopo il suo arresto e il suo trasferimento prima a Ponza, poi alla Maddalena, e in ultimo a Campo Imperatore sul Gran Sasso, dove è liberato da un commando tedesco agli ordini del capitano Skorzeny. L’atto temporale di stesura del documento copre il periodo forse più triste di Mussolini: dal suo arresto avvenuto nelle ore successive alla seduta del Gran Consiglio del fascismo che lo aveva praticamente defenestrato (25 luglio ’43) al 20 agosto, quando i nazisti si sono già resi conto della piega presa dalla situazione italiana dopo lo sbarco angloamericano del 10 luglio e della fronda antiregime che si stava sviluppando vertiginosamente. Hanno già pronta in mano la soluzione della e organizzano la sua liberazione. I “Pensieri pontini e sardi”, scritti quando ormai Mussolini è tra due fuochi, gli Alleati da un lato e i Tedeschi che lo controllano completamente dall’altro sono rintracciati perciò dai tedeschi, dopo il 12 settembre. Ne digitano una copia a macchina per un uso che non era certo di natura letteraria. L’incontro di Feltre tra Mussolini e Hitler al quale fa riferimento l’ex dittatore nel “pensiero” 73, coincide con l’inizio di un periodo tra i più neri nella storia del regime e dei rapporti con la Germania nazista da parte dell’Italia fascista. Già da allora (sbarco in Sicilia) l’Italia appare totalmente succube del suo alleato. Mussolini è in balia di forze che non riesce più a controllare, preda dei suoi stessi fedelissimi. Non se ne fa una ragione ma avverte la fine imminente. E’ preso dal fatalismo e persino il pessimismo cosmico di Leopardi e il suo meccanicismo lo attraggono. Lo sconcerta il contrasto improvviso e violento tra passato e presente, tra il clamore delle folle acclamanti e la solitudine totale della prigionia. Ha il “crescente presentimento della crisi” dall’ottobre 1942, quando cominciano a diventare più scoperti i segnali del tradimento e della congiura. Ma questo è il paradosso che lo travolge: si deve fidare sapendo che non può più contare su nessuno. Anche a Feltre è circondato da personaggi che già gli hanno voltato le spalle: ad esempio il generale Vittorio Ambrosio, la cui nomina a capo di stato maggiore della Difesa è voluta da Galeazzo Ciano e dalle trame che Castellano intesse con tutti gli ambienti ostili a Mussolini. Giuseppe Casarrubea

"La morte di Mussolini. Una storia da riscrivere" di Alberto Bertotto. Benito Mussolini si è suicidato? Il prof. Alberto Bertotto ricostruisce con rigore scientifico, attraverso un'attenta analisi di tutte le fonti a nostra disposizione, gli ultimi giorni della vita del duce dandoci una nuova e sconvolgente versione sulla sua morte. Ancora tarda a dileguarsi il buio della notte tra il 27 e il 28 aprile del 1945, notte della fine di Benito Mussolini e del suo sogno ventennale. La sponda occidentale del lago di Como, tra stretti vicoli di paesi e valli pietrose, da sessant'anni custodisce il segreto della sua morte. Giustiziato da un partigiano comunista davanti al cancello di villa Belmonte (Giulino di Mezzegra), così morì il duce secondo la "vulgata" ufficiale, ad arte messa in piedi dal PCI d'allora. Una pagina dell'epopea nazionale ma non della Storia. Troppe contraddizioni, troppi dubbi che non hanno mai ricevuto risposta gettano ombre persistenti su questa versione dei fatti. Ma un'ipotesi, sostenuta da uno studio minuzioso ed accurato, sembra finalmente diradare le spesse nebbie del Lario.

Le più recenti tecniche medico legali e digitali portano a conclusioni molto diverse dalla versione ufficiale a proposito della morte di Mussolini. Conclusioni che poggiano non su nuovi documenti e testimonianze ma su rigorose analisi scientifiche in puro stile CSI condotte da una squadra di medici legali ed esperti informatici costituitasi all’Università di Pavia sotto la guida del professor Francesco Pierucci. Oggi la Scienza aiuta la Storia a guardare con occhi diversi foto e filmati dell’aprile 1945 e a sostenere che il dittatore fu ucciso e poi rivestito, secondo modalità e probabilmente tempi diversi da quelli di Claretta Petacci. Un colpo definitivo alla versione classica che dal 1945 colloca la morte dei due davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra, alle 16.10 del 28 Aprile ’45. Ma perché si è voluto nascondere la verità per oltre sessant’anni?

Mussolini, l'uomo che fu ucciso due volte. Un dvd realizzato da Fabio Andriola, direttore di “Storia in Rete”, e da Alessandra Gigante, “Mussolini, una morte da riscrivere” (Storia in Rete) riapre il caso sui tempi e modi dell’esecuzione del Duce del fascismo. A riprendere diffusamente l’argomento è oggi sulle pagine di “Avvenire” lo storico Paolo Simoncelli, allievo di Renzo De Felice e autore di una biografia intellettuale dedicata al maestro, oltre che docente di storia moderna alla Sapienza di Roma e curioso di fatti e misfatti del nostro Novecento, comprese l’esecuzione del Duce e la scomparsa del carteggio con Churchill. Alla cui esistenza Simoncelli ha sempre creduto, pubblicato il 13 settembre 2011 su "La Storia in Rete" da Dino Messina da La Nostra Storia. Il punto di partenza dell’inchiesta di Andrioala e Gigante è la contestazione della perizia autoptica realizzata dal professo Cattabeni all’università di Milano il 30 aprile 1945. Una perizia incompleta non tanto per incapacità del luminare quanto per le condizioni in cui venne realizzata tra il via vai dei partigiani. La perizia di Cattabeni trascurerebbe due elementi evidenziati successivamente da due anatomopatologi, Aldo Alessiani, nel 1989, e Giovanni Pierucci, del Policlinico San Matteo di Pavia, che con tecniche sofisticatissime in anni recenti è riuscito a individuare tutti i colpi che vennero sparati sul Duce (undici e non nove come si pensava), la distanza del tiro (variabile tra 20 e quaranta centimetri che fa pensare a un’esecuzione affrettata e non a una fucilazione, che viene effettuata solitamente da qualche metro). Infine, altri elementi proverebbero che Mussolini quando fu ucciso indossava soltanto una maglietta e non altri abiti che al momento dell’autopsia non coprivano il corpo anche per il trattamento riservato al cadavere di Mussolini a piazzale Loreto). Il Duce, infine, non aveva ancora mangiato, l’ultimo pasto servitogli dalla signora De Maria intorno alle 12 del 28 aprile 1945. Insomma, ci sarebbero sufficienti elementi per affermare che l’esecuzione della coppia Mussolini-Petacci non avvenne alle 16,10 davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra ma prima delle 12 in casa De Maria, qualche chilometro più a Nord, dove i due avevano trascorso la notte. Un altro elemento a riprova di questa tesi secondo Simoncelli è il tragico appello fatto nel pomeriggio a Dongo dal “colonnello Valerio”, alias Walter Audisio, dei gerarchi presi e della relativa sentenza. Che bisogno c’era di proclamare: “Claretta Petacci, a morte!” se non esistenza una sentenza nemmeno del Comitato insurrezionale composto da Longo, Pertini, Valiani e Sereni? La morale di questo capitolo del “romanzo sulla fine del Duce”, com’ebbe a dire De Felice, è che Mussolini e la Petacci furono uccisi a bruciapelo in casa De Maria e poi sottoposti a una finta fucilazione davanti al muro di villa Belmonte perché i partigiani non volevano consegnarli agli Alleati: nè agli inglesi (che però avevano interesse a vedere Mussolini morto una volta recuperato il suo carteggio con Churchill) nè a maggior ragione agli americani, che avrebbero messo in piedi un processo. Una clausola dell’armistizio di Cassibile prevedeva la consegna di Mussolini vivo…

Mussolini è morto a Bonzanigo in casa De Maria, scrive Italoeuropeo il 17 gennaio 2009. Ormai non crede più nessuno alla vulgata che Benito Mussolini sia stato ucciso alle 16,20 del 28 Aprile del 1945 davanti al cancello di villa Belmonte a Giulino di Mezzegra. (W. Audisio. In nome del popolo italiano. Edizioni Teti, 1975). Che sia stato fucilato dal comunista Walter Audisio, il colonnello Valerio, coadiuvato o meno dai suoi sodali Michele Moretti (Pietro) e Aldo Lampredi (Guido), è una bufala destinata ad essere confinata nell’avello dell’oblio, nonostante ci sia ancora qualcuno che cerca disperatamente di propinarcela per far piacere agli Istituti Storici della Resistenza: M. Viganò (“Un istintivo gesto di riparo”: nuovi documenti sull’esecuzione di Mussolini. (28 aprile 1945). Palomar, n° 2, 2001) e l’ermellinato allegorista, nonché insigne cattedratico torinese P. L. Baima Bollone (Le ultime ore di Mussolini. Mondadori, 2005). Il Viganò si avvale di una testimonianza oculare che basta leggerla per constatare quanto sia assurda (M. Barozzi. La morte di Mussolini: i vani tentativi di provare la “storica versione”. Storia del Novecento. Settembre, 2008), mentre il Baima Bollone dice, con contorti ragionamenti, che i proiettili che hanno colpito Mussolini, completamente vestito, non hanno perforato i suoi abiti. Si tratterebbe di micidiali pallottole imperforanti, un ritrovato della balistica moderna. Oggi, quasi tutti gli Storici accettano un fatto: il Duce è morto in casa De Maria (Bonzanigo, una frazione del comune di Mezzegra) ed il suo cadavere è stato rivestito quando era in preda ad una rigidità catalettica (lignea statuarietà). Fatto che si verifica precocemente se la morte si è accompagnata, come nel caso in questione, ad abbondante perdita di sangue (G. Pisanò. Gli ultimi cinque secondi di Mussolini. Il Saggiatore, 2004; F. Andriola. La morte di Mussolini. Una macabra messa in scena. Storia in Rete, n° 10, Maggio, 2006; B. Brinkmann, B. Madea. Handbuck Glerichtliche Medizin, Springer Verlag, 2003). Commentando un articolo di Maurizio Barozzi intitolato: “Omicidio di Mussolini: troppe versioni diverse” (Effedieffe.com. Reperibile per via telematica), Luca Martinelli di Como ha reso note quali erano le informazioni in suo possesso riguardo alla morte del Duce: “Premetto che ho lavorato a Giulino di Mezzegra nei primi anni ’80 ed ho conosciuto praticamente tutti gli abitanti del luogo. Parlando con la cugina dei figli dei contadini De Maria ho saputo che i ragazzi, tornando a casa poco dopo l’alba dalla baita dove erano stati mandati per far posto al Duce ed alla Petacci, hanno trovato la madre ed altre donne intente a lavare il sangue dal pavimento del piano terra e dell’ingresso”. A Gianni Minoli (Mixer “Indagare Mussolini”, Rai-tre, 1993) un figlio dei De Maria (Riccardo) ha detto: “Alle 4 del mattino (28 Aprile del 1945, ndr) mia madre ha fatto alzare me e mio fratello e ci ha mandati a dormire in montagna (baita del Cadenazzi, ndr) perchè lei doveva ospitare due persone che lì per lì non aveva riconosciuto. Non immaginava lontanamente che fossero il Duce e la Petacci”. Nel 2006 Franco Bartolini ha pubblicato un libro (Lario nascosto, edito dalla Casa Editrice Editoriale) in cui riportava la deposizione un parente stretto di Lia De Maria. La donna gli aveva confidato che dopo la dipartita del Duce e della Petacci “dovette pulire la stanza dal molto sangue”. Il parroco di Bonzanigo ha recentemente affermato che solo dopo quattro giorni i fotografi hanno potuto immortalare la camera dei contadini De Maria in cui avevano pernottato il Duce e la Petacci (A. Bambace. Troppi protagonismi, nessuno riuscirà a far chiarezza. Corriere di Como, 26 Novembre, 2008). Si volevano cancellare imbrattamenti ematici compromettenti? Recentemente ho ipotizzato che Mussolini, agonizzante perchè aveva tentato di suicidarsi frammentando tra i denti una capsula di cianuro, è stato finito a colpi di mitra sparati dal partigiano Lino (Giuseppe Frangi), uno dei suoi due carcerieri che lo sorvegliavano nella casa dei contadini De Maria sita in quel di Bonzanigo (A. Bertotto. La morte di Mussolini. Una storia da riscrivere. PDC Editori, 2008). La testimonianza rilasciata dal signor Martinelli di Como e quella dello scrittore Bartolini sono ulteriori prove che il Duce è morto al mattino del 28 Aprile del 1945, non nel pomeriggio dello stesso giorno come ancora sta scritto sui libri di scuola, e che al momento del decesso era vestito con i soli indumenti intimi: mutandoni di lana al polpaccio e maglietta bianca della salute. Entrambi sono risultati perforati ed insanguinati quando sono stati esaminati al momento dell’autopsia effettuata a Milano il 30 aprile del 1945 dal dottor Caio Mario Cattabeni dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Milano (P. L. Baima Bollone, op. cit.). Per contro i pantaloni, la camicia nera ed il giaccone di foggia borghese con le maniche raglan (facile da far indossare ad un cadavere in preda al rigor mortis), indossati da Mussolini disteso sul selciato di piazzale Loreto (Milano, 29 aprile del 1945), non presentavano segni dovuti a perforazione da pallottole (F. Andriola, op. cit. A. Alessiani. Il teorema del verbale 7241. larchivio-history.com. Reperibile per via telematica). Davanti al cancello di villa Belmonte (Giulino di Mezzegra) i comunisti Walter Audisio (colonnello Calerio), Aldo Lampredi (Guido) e Michele Moretti (Pietro) hanno sparato su due cadaveri morti da un pezzo. Gli abitanti del luogo hanno estratto dal muretto fiancheggiante il cancello numerosi proiettili (G. Perretta. La verità. Dongo, 28 aprile 1945. Actac, 1997; F. Bandini. Le ultime 95 ore di Mussolini. Sugar Editore, 1959). Il muretto in quel punto era alto cm. 126 (F. Bandini. op. cit.). Se Mussolini e la Petacci fossero stati fucilati da vivi (in piedi) i proiettili sarebbero andati dispersi oltre il muro o sarebbero stati trattenuti nelle loro carni. Quando, il 30 aprile del 1945, hanno estratto dalla cassa il corpo della Petacci (Obitorio milanese di Via Ponzio) la sua testa si è ripiegata sulla ginocchia (L’autopsia effettuata sul corpo di Mussolini. controstoria.it. Reperibile per via telematica). Ciò dimostra che alla rigidità cadaverica era subentrato un diffuso rilasciamento muscolare. Il che dimostra che la morte era avvenuta ben prima delle 16,20 del 28 aprile (cancello di villa Belmonte). Di una sola cosa sono certo: “L’onesta sottomissione alla verità”, di cui parla lo storico francese Marc Bloch, ha sempre fatto difetto ai comunisti italiani.

Tasselli di verità: piccoli spiragli di luce sugli ultimi giorni di Mussolini, scrive il 16 ottobre 2014 Emma Moriconi su” Il Giornale d’Italia”. Da Pisanò a Pansa, i tentativi di raccontare la storia senza pregiudizi: ma la nebbia è ancora fitta. Le drammatiche ore di quella primavera del 1945. Ci sono vicende della storia che restano, seppure dopo molto tempo, avvolte dal mistero. Una nebbia fitta che sembra non si possa riuscire a dipanare in nessun modo. Poi, qualche volta, affiora qua e là qualche momento di luce: ma si tratta di piccoli varchi nell’oscurità. La verità, la luce piena, forse non arriverà mai. Nel corso di questi lunghi mesi abbiamo tentato di eviscerare molti aspetti delle vicende patrie che non hanno, nel tempo, trovato la giusta collocazione o che, quando sono stati chiariti ed è riuscita ad emergere la verità, si è cercato di inscatolare a dovere affinché non avessero la giusta risonanza. L’editoria, sia scolastica che non, viaggia a compartimenti stagni: è quasi impossibile reperire certi testi, per esempio. Ce ne accorgiamo quando andiamo alla loro ricerca e ci rendiamo conto che spesso si deve sapere con una certa sicurezza cosa si sta cercando, e nemmeno così è facile trovarli. In compenso, gli scaffali sono pieni di altra roba, quella si che è facile da reperire …Per sollevare un po’ di polverone sui temi scottanti della nostra storia è dovuto arrivare Giampaolo Pansa: il suo egregio lavoro di ricomposizione delle sorti di questo popolo è diventato in breve un varco nel muro del silenzio e della menzogna. Lo ha potuto fare, lui, che nasce di sinistra. Si, perché prima di lui c’è stato un altro giornalista-scrittore che ne ha dette e ne ha scritte di ogni sorta, ma i suoi volumi sono un po’ più difficili da trovare e da diffondere: si chiamava Giorgio Pisanò, ma era un fascista. E, siccome quando a scrivere è un fascista, si può serenamente far finta di nulla, quasi come se non esistesse, se a scrivere è invece uno che nasce e cresce a sinistra e ad un certo punto della sua vita decide di aprire la sua mente e di guardare oltre gli steccati imposti da decenni di demagogia, quello diventa il “nemico” da colpire, il bersaglio perfetto. Pansa non se ne cura, naturalmente, e continua nel suo lavoro di analisi di un’epoca la cui immagine storica esce distorta rispetto alla realtà: il suo recente “Eja Eja Alalà” sarà presto oggetto di un approfondimento su queste pagine. Raccontare la storia, insomma, “da fascista” è difficile, perché c’è questa tendenza diffusa ad ignorare questo tipo di voce, anche quando vengono raccontate verità eclatanti. Quando invece a parlare di “verità nascoste” sono personaggi appartenenti alla “sinistra”, essi vengono attaccati, additati, apostrofati in ogni modo, ma di certo sulle loro parole non cala il silenzio: di questi si deve per forza parlare, e meno male. La scorsa estate il quotidiano Il Giornale ha pubblicato una serie di articoli a firma di Roberto Festorazzi che fanno il punto su alcune novità emerse da documenti e testimonianze recenti: il tema è, ancora una volta, gli ultimi giorni di Mussolini e la sorte delle carte che il Duce portava con sé. Anche su questo spicchio di storia aleggia un alone di mistero, e la ragione è del tutto evidente: tutto ciò che poteva chiarire certi aspetti, e che poteva in qualche modo “riabilitare” la figura di Mussolini e del Fascismo andava fatto sparire. Abbiamo parlato a lungo (e ancora non abbastanza, però) della morte del Duce, delle ore che precedettero quell’evento, di chi orbitava intorno a lui in quei giorni e dei tanti stravolgimenti operati contro la verità di quelle ore. Un argomento sul quale torneremo a tempo debito, facendo un passo alla volta nel tentativo di ricostruire quegli strani meccanismi che andarono ad incastrarsi in quei giorni di primavera del 1945. Eppure le due vicende – la morte di Mussolini e le borse scomparse – sono indissolubilmente legate. Questa premessa è necessaria per il lavoro che ci attende nei prossimi giorni, durante i quali riepilogheremo ai nostri lettori le informazioni di cui Festorazzi è venuto in possesso. Incontreremo, nel piccolo speciale che seguirà, una serie di personaggi che, a vario titolo, sono stati attori di quel dramma: parleremo del famoso carteggio Mussolini – Churchill, dei documenti relativi alla famiglia Savoia, di misteriosi “viaggi” e di carte scomparse. Si tratta di un piccolo tassello che va a comporre l’intricato puzzle di quei giorni, un mosaico che, però, probabilmente resterà incompiuto. Emma Moriconi

Zehnder, chi era costui? Continua il nostro piccolo viaggio nella storia, alla ricerca della verità: il mistero delle carte segrete di Mussolini, scrive il 17 ottobre 2014 Emma Moriconi su” Il Giornale d’Italia”. Ogni volta che si affronta un argomento e si cerca di andare nello specifico e di trovare tutti i collegamenti possibili e tutte le trame che ad esso sono sottese, si apre un universo di fatti intricati spesso difficili da enunciare in maniera chiara ed esaustiva. Accade, a maggior ragione, in casi come questo: tutto ciò che avvolge le ultime ore di vita di Benito Mussolini – come pure il periodo successivo alla sua morte – è un dedalo di fatti che necessitano di un’attenzione particolare per essere compresi ed incastrati nel modo giusto. Ciò che contribuisce in maniera determinante a rendere tutto estremamente difficile sono i “buchi neri”, le nebbie fitte, l’oscurità che avvolge troppe vicende. Personaggi oscuri si aggirano intorno a lui, prima e dopo la sua morte. Fatti su cui sembra impossibile, a distanza di settant’anni, fare luce. Neppure il miglior giallo di tutti i tempi potrebbe lontanamente competere con quello di Benito Mussolini. Cominciamo con una cosa alla volta, nel tentativo di riannodare i fili, per quanto possibile, di quegli eventi. Tra i personaggi in questione c’è un certo Angelo Zanessi, qualche volta citato come Zanesi, ma anche come ZZ, il Capitano Zehnder. Di lui parla qualche fonte, come “L’ora di Dongo” di Alessandro Zanella. A lui dedica un certo spazio lo speciale di Storia in Rete di aprile-giugno 2014, dedicato agli ultimi giorni di Mussolini, già citato dal Giornale d’Italia in occasione dell’anniversario della morte del Duce dello scorso aprile. Ed ecco cosa scrive di lui Luca Di Bella: “Di Zanessi non si sa moltissimo: poco più che trentenne, nato in Calabria e da padre belga –un ingegnere – infanzia e adolescenza tra Belgio e Francia, pilota di auto da corsa negli anni Trenta, fisicamente prestante, colto. E, ovviamente, spregiudicato”. Un ritratto che in poche parole fornisce tutti gli elementi per inquadrare il misterioso personaggio. Ancora Di Bella dice che Zanessi “tresca con i nazisti anche se viene dalle fila del Servizio Informazioni Militari e durante la Rsi compie – dice – alcune azioni in collegamento con i tedeschi e partigiani per la consegna di armi paracadutate dagli americani poco prima del 25 aprile”. Zanella, nel suo “L’ora di Dongo”, parla di connessioni tra lo spionaggio e il controspionaggio tedesco e quello alleato e individua Zanessi come collaboratore degli inglesi. Di Bella non è d’accordo: “In realtà – dice – Zanessi lavora anche – e soprattutto – per gli americani”, citando a sostegno della sua idea proprio il memoriale di Zanessi, scritto alla fine del 1956, quando si ricominciò a parlare dei fatti di Dongo in vista del processo di Padova dell’aprile successivo. Il tema del processo era l’oro di Dongo e le uccisioni del periodo: non se ne cavò un ragno dal buco, “ma – dice ancora Di Bella – restano le carte e gli articoli usciti in quei mesi. Tra cui, appunto, il ‘Memoriale Zanessi’ che fu pubblicato – a cura di Giuseppe Dell’Ongaro – in 32 puntate sul quotidiano missino “Il Secolo d’Italia” tra il 2 febbraio e il 17 marzo 1957”. Ma cosa doveva fare Zanessi? Recuperare i documenti di Mussolini, quelli che il Duce aveva con sé nell’ultimo viaggio e sui quali tanto è stato scritto e detto ma tantissimo resta ancora nell’ombra: molti di essi infatti sparirono, come è noto. E quando qualcosa sparisce, è segno evidente che si tratta di roba scomoda per qualcuno. Molto scomoda. Scrive Zanessi nel suo Memoriale: “… il carteggio Mussolini è una definizione troppo generica in quanto tutti pensano, erroneamente, che Mussolini abbia raccolto tutti i documenti importanti in un blocco solo e che se li sia portati con sé fino a Dongo, e che la nebulosa sulla fine di tali documenti sorga solo in quel momento e solo a Dongo. Nulla di più errato”.  Insomma, Zanessi procede ad una sorta di inventario dei documenti: il lettore che volesse prenderne visione può consultare lo speciale della rivista Storia in Rete, disponibile anche on line. Dicevamo, Di Bella esce con questo lungo speciale nel numero di aprile-giugno 2014. Lo scorso luglio, su Il Giornale, sull’argomento torna Roberto Festorazzi, che scrive: “Di enorme interesse, a tale proposito, risulta essere il memoriale redatto da Angelo Zanessi, un agente segreto alleato, ma in divisa germanica, che con abile mimetismo riuscì a infiltrarsi nella colonna italo-tedesca, giungendo fino a Dongo, La sua testimonianza non è raccolta né citata in alcuni dei molti studi esistenti sulle ultime ore del dittatore”. In realtà, lo abbiamo appena visto, non è così: la testimonianza di Zanessi è ben trattata proprio da Luca Di Bella nel numero di Storia in Rete sopra citato. Ma ciò che conta è la verità dei fatti, che, lentamente e con difficoltà, emergono dal buio a cui gli anni sembra li abbiano condannati. Moltissimi, purtroppo, resteranno sepolti sotto le macerie di un Paese che non accetta e non riconosce la propria storia. Il nostro piccolo viaggio è appena iniziato.

Dongo: oro e sangue. Servello e Garibaldi scavano tra le carte e trovano le prove di un patto tra la DC e i comunisti per coprire i responsabili del furto e degli omicidi, scrive il 23 ottobre 2014 Emma Moriconi su” Il Giornale d’Italia”. Con quei valori il Pci comprò anche Botteghe Oscure e la tipografia per stampare l’Unità, e ci pagò le campagne elettorali. Nella scorsa puntata di questo piccolo speciale dedicato ai misteri delle ultime ore di Mussolini abbiamo parlato di Angelo Zanessi, che riferì in un memoriale di essere entrato in possesso di materiale contenuto nelle borse che il Duce portava con sé nel suo ultimo viaggio. A questo proposito è di assoluta rilevanza un documentario: “Mussolini: Marcia, Morte, Misteri”, La Grande Storia, di Enzo Antonio Cicchino. In questa fase ci occuperemo della seconda e della terza parte, lasciando la prima al nostro speciale del prossimo martedì, dedicato alla Marcia su Roma. Il documentario presenta immagini in parte inedite del periodo ed ha il pregio di riuscire a trascinare indietro nel tempo lo spettatore. Molti aspetti andrebbero eviscerati, alcuni anche contestati, ma di certo ci sono verità che fanno accapponare la pelle. Ciò che interessa in questa sede è ciò che emerge circa l’ “oro di Dongo”, riservandoci di tornare su altri passaggi chiave della vicenda in altra sede. Gioielli, soldi contanti, oro. Valori per i quali tante persone sono morte, come i partigiani Neri e Gianna, di cui abbiamo parlato di recente, come molti testimoni “scomodi” di quelle ore. Una lunga, lunghissima scia di sangue. Aprile 1957: dopo un’istruttoria di 12 anni sono imputati 37 partigiani, quasi tutti comunisti, che devono spiegare dove sono finiti tutti quei beni, “per un valore che oggi ammonterebbe a circa 600 milioni di euro” dice il documentario. Che specifica che parte di questo tesoro sarebbe andato a coprire le spese del PCI, per l’acquisto dell’immobile in via delle Botteghe Oscure, della tipografia per stampare l’Unità e per finanziare le campagne elettorali nel dopoguerra”. Il processo va avanti 4 mesi, poi la macchina si ferma a causa della morte di un giudice, bisogna quindi rinviarlo a nuovo ruolo. Non se ne farà più nulla: nel frattempo sono arrivate prescrizioni e amnistie, così abdica la giustizia italiana. Occorre, a questo punto, prendere in considerazione un altro speciale: ancora quello di Storia in Rete dello scorso aprile. “Una catena di morti che attende giustizia”: così titola Averaldo Costa dalle pagine della rivista. Costa racconta i contenuti del volume-inchiesta di Servello e Garibaldi dal titolo “Perché uccisero Mussolini e Claretta. La verità negli archivi del PCI”. Il libro, uscito in prima edizione due anni fa (più o meno la stessa epoca del documentario di Cicchino) presenta nella sua seconda edizione una serie di nuovi colpi di scena, che gli autori raccontano dopo aver analizzato documenti inediti rintracciati presso l’Archivio Storico del Tribunale Supremo Militare e presso l’Archivio di Stato. Gli storici avrebbero rinvenuto le prove “delle manovre poste in atto per neutralizzare l’azione del generale Leone Zingales, che stava per giungere alla verità, e le prove degli accordi sotterranei tra DC e PCI per mettere una pietra tombale sui risultati dell’indagine di Ciro Verdiani, l’ispettore di Pubblica Sicurezza che aveva ricostruito il furto, ad opera di funzionari del PCI, di ingenti valori tutti di spettanza dello Stato”. Verdiani aveva tirato fuori le prove per affermare, insomma, che il “tesoro di Dongo” era finito nelle mani del PCI, il quale si era occupato di proteggere i colpevoli sia del furto che degli omicidi legati proprio al tesoro. Dicevamo dei partigiani Gianna e Neri: non furono le sole vittime. Verdiani scrisse infatti di “una minaccia di morte incombente su chiunque troppo sappia o voglia sapere, o dica, sulla destinazione e il possesso del cosiddetto ‘oro del Duce’”.  Secondo le prove accumulate da Verdiani, autori materiali delle uccisioni furono Leopoldo Cassinelli (Lince) e Maurizio Bernasconi (Maurizio). Il mandante: Luigi Longo. Gli autori pubblicano il “rapporto riservato” di Verdiani: crolla finalmente – e definitivamente - quel castello di carte costruito sul sangue e sulla menzogna. DC e PCI fecero un patto: la prima avrebbe insabbiato tutto e il secondo avrebbe frenato le frange estremiste pronte alla rivoluzione. E se qualcuno avesse insistito, il PCI avrebbe provveduto a sistemare le cose come aveva sempre fatto: soffocandole nel sangue. È ciò che accadde a Franco De Agazio, fondatore e direttore del settimanale Il Meridiano d’Italia: assassinato il 14 marzo ‘47 dalla Volante Rossa. Il nipote, Franco Servello, coautore del libro-inchiesta in argomento – che ne prese il posto - subì numerosi attentati. Ecco dunque un altro personaggio che si affaccia sulla scena: Leone Zingales, un magistrato militare che voleva far luce sul mistero del “tesoro di Dongo” e assicurare alla giustizia i responsabili del furto e degli omicidi. Come rilevano Servello e Garibaldi, “se al generale Zingales fosse stato consentito di proseguire il suo lavoro di operatore di giustizia, egli avrebbe finito con l’aprire un’indagine anche sulle fucilazioni di Dongo, dato che erano state eseguite dai partigiani senza che fosse stata pronunciata alcuna sentenza di morte da nessun tribunale autorizzato. Infatti anche la postuma, e ridicola, rivendicazione stilata il 29 aprile 1945 dal CLNAI di Milano, non poteva avere, né avrà mai, il valore di una sentenza legittima”. L’argomento non è certo esaurito qui, ne parleremo ancora nella prossima puntata. Ma occorre fermarsi un momento per fare un riflessione: queste carte vengono fuori oggi, 70 anni dopo, perché coperte dal segreto di Stato. Quello stesso Stato che, rimuovendo un generale dal suo incarico, ha permesso – dolosamente - di lasciare impunito più di un delitto.

Le inconfessabili verità e la storia da riscrivere, scrive il 25 ottobre 2014 Emma Moriconi su” Il Giornale d’Italia”. Il "tesoro di Dongo" serviva a "far fronte alle necessità della lotta partigiana": una lotta che, però, era ormai terminata. La necessità di una battaglia culturale: i libri di scuola raccontano menzogne, intere generazioni ancora oggi crescono con le falsità scritte dai "vincitori". Il discorso lasciato in sospeso ieri va ripreso. Siamo rimasti alla rimozione di Leone Zingales dall'incarico di ricercare la verità sulle vicende relative al famoso "oro di Dongo". Rimozione dovuta al fatto che Zingales, la verità, l'aveva trovata. Lo dimostrano i documenti rinvenuti - lo dicevamo ieri - da Servello e Garibaldi e riportati nel volume "Perché uccisero Mussolini e Claretta. La verità negli archivi del Pci". Lo ribadiamo, perché la verità - ormai lo sappiamo bene tutti - i nostri figli non la leggeranno mai sui libri di scuola. Non ancora, almeno. La morte di Mussolini e Claretta è un tema scottante: ne abbiamo già parlato a lungo negli scorsi mesi e naturalmente ne parleremo ancora, perché ogni tassello di verità che arriva, rende le vicende meglio comprensibili. Ma prima occorre completare il discorso sull'indagine di Zingales e su ciò che accadde dopo. Il generale che gli subentrò quale giudice istruttore militare mise subito mano alla vicenda, facendo scarcerare tutti coloro che Zingales aveva fatto arrestare. Non decise da solo: il "suggerimento" - dice ancora Costa nello speciale di Storia in Rete - gli giunse dai vertici del governo. La motivazione ufficiale della scarcerazione? Quel "tesoro" serviva a "far fronte alle necessità della lotta partigiana". Il commento di Costa a questo abominio arriva dritto al punto: "Quali 'necessità' - scrive - dato che la lotta partigiana era ormai terminata?". Ma anche - dice sempre Costa - perché consegnare tutti quei valori al Pci invece che al generale Cadorna, visto che le formazioni partigiane dipendevano da lui in quanto comandante del Corpo Volontari della Libertà? E poi: indagare sul "tesoro" non si può, ma gli omicidi? Anche quelli "servivano a far fronte alle necessità della lotta partigiana"? Scrive Arrigo Petacco nell'introduzione di "La storia ci ha mentito": "' È tutta colpa della guerra!' sarebbe il caso di esclamare, per dirla alla Petrolini. Perché sono state proprio le guerre a diversificare la storia. Infatti, ogni qualvolta ne è scoppiata una, la prima vittima è stata sempre la verità (le bugie sono necessarie per demonizzare il nemico), ma poi, quando la guerra è finita, le bugie dei vincitori sono diventate delle 'verità', mentre quelle dei vinti sono sopravvissute sottotraccia, magari per riemergere nel conflitto successivo. La verità, comunque, non è più tornata a galla. Insomma, è tutta colpa delle guerre se i libri di storia sono pieni di menzogne trasformate in verità e di verità trasformate in menzogne". Ebbene, sappiamo tutti come vanno queste cose: il tempo passa, la verità viene allo scoperto, ma l'immaginario collettivo resta per sempre ancorato a quell'immagine dell' "immediatamente dopo". La storia ha studiato, eviscerato, analizzato a fondo la figura di Nerone, per esempio, ma per tutti "Nerone è quello che ha incendiato Roma", niente di più e niente di meno. Mutatis mutandis, di questo passo, aspettando ancora, per sempre e per tutto il mondo i partigiani saranno quelli i cui nomi sulla lavagna vanno scritti sotto la dicitura "buoni", mentre i nomi dei fascisti saranno inevitabilmente e per sempre collocati sotto la dicitura "cattivi". La prima rivoluzione di un popolo è quella culturale: lo aveva compreso il Fascismo, e governò vent' anni. E se le sorti della guerra fossero state altre, oggi non saremmo qui a tentare di fare "controstoria" augurandoci, domani, di trovarla sui libri di scuola come "storia". Perché il problema sta lì, nei libri scolastici. La prima battaglia culturale è l'affermazione della verità, che deve passare per una presa di responsabilità di tutte le parti in causa. E se, dunque, da una parte occorre affermare, per esempio, l'ingiustizia di certe violenze fasciste - dalle quali, e anche questo va detto, spesso lo stesso Mussolini prendeva le distanze - dall'altra è indispensabile smettere di proclamare come "eroi" quelli che furono solo dei ladri e degli assassini. L'argomento del tesoro di Dongo è ampio, come pure quello delle carte scomparse dalle borse del Duce. Immenso è anche l'universo che compone quelle ore che precedettero e che seguirono il suo assassinio. Un assassinio, questo fu: occorre ribadire che le cose vanno chiamate con il loro nome.

Lo scoop di Storia in Rete: ecco un Diario di Mussolini. Amarezza nei confronti di Ciano, Eden, Roosvelt e Churchill, Goring, Rommel e specialmente Hitler, scrive l’1 luglio 2015 Emma Moriconi su” Il Giornale d’Italia”. In edicola e sul web, la rivista di Fabio Andriola ci racconta un Duce solo, sfiduciato e a tratti disperato. Quello che Storia in Rete ci propone in questo numero di giugno è un tema scottante e a lungo dibattuto: Mussolini tenne un Diario? Andriola prende le mosse proprio da questo quesito e dettaglia, innanzitutto, le ragioni per cui non solo è possibile ma è anzi estremamente probabile. Del resto, dice lo storico e direttore di Storia in Rete, molti sono gli elementi che lasciano intendere che i Diari esistono: intanto il fatto che Benito scrisse sempre, appuntò i propri ricordi, le proprie esperienze: un esempio risale agli anni della sua gioventù ed è il suo Diario di guerra, quello di quando era soldato al fronte nel primo conflitto mondiale. Inoltre, sottolinea Andriola, dell'esistenza di questo diario mussoliniano c'è traccia già nel volume "Parlo con Bruno", il libro dedicato al giovane figlio scomparso: è lo stesso Mussolini a citare più volte in quello scritto il suo Diario. Molti altri sono poi gli indizi in merito, Andriola li mette tutti in fila e ce li riepiloga. Poi avverte, mutuando le parole di De Felice: «L'immaginario collettivo si è talmente assuefatto all’idea che i diari di Mussolini possano essere solo falsi che, se verranno fuori quelli veri, bisognerà fare una gran faticaccia per dimostrarne l’autenticità». Il riferimento è, tra l'altro, al caso Dell'Utri: la vicenda dei discussi Diari editi da Bompiani, infatti, ha creato attorno a queste testimonianze storiche notevoli perplessità. Nonostante questo, Andriola parte e va in Svizzera: quale storico non sarebbe corso incontro a questa possibilità? Avverte, il Direttore, che non ci sono soldoni dietro questa iniziativa: "Nessuno ha chiesto o offerto denaro: non l’ha fatto «Storia in Rete» e non l’ha fatto chi ci ha messo a disposizione tutto quello che aveva in originale e non in copia". E già questo è un dato di straordinarietà che ci lascia ben sperare. Così, in questo numero e nel prossimo (quello disponibile da luglio), i lettori della nota rivista potranno visionare in esclusiva alcuni passi dell'Agenda, risalente al 1942, che è stata concessa a Storia in Rete "senza alcuna contropartita - dice Andriola - che non sia, ovviamente, una corretta e completa esposizione dei fatti". A detenere i Diari - occorre dirlo per amore di verità - non è un affarista, ma un collezionista innamorato della storia. L'analisi di Andriola è avvincente, cruciale nel suo ragionamento è la vicenda di Amalia Panvini Rosati, figlia di un commissario di Pubblica Sicurezza, che si trovò, nel 1957, a dover spiegare ai carabinieri la ragione per cui avesse in casa molte carte recanti la grafia di Mussolini. Carte che la donna cercava di vendere. Secondo Andriola questa vicenda, sfociata nel 1960 in un processo (i cui atti sono stati versati dal Tribunale di Vercelli all'Archivio di Stato solo sei anni fa), è stata sempre poco considerata. Erroneamente. Tutto ha origine all'inizio del 1945, quando Mussolini cercò di mettere in salvo determinati documenti, per alcuni di essi chiedendo di farne copia: non per i Diari, troppo personali evidentemente. E infatti, tra le pagine visionate in esclusiva da Storia in Rete, c'è un passo relativo al 27 gennaio 1942 in cui il Duce scrive: "È tardi. Scrivo queste poche note semplici e insignificanti che qualcuno un giorno leggerà con stupore e forse con noia!". Andriola riferisce il ruolo del barone Shinrokuro Hidaka, ambasciatore nipponico in Italia dal maggio '43, al quale potrebbero essere state affidate le agende affinché venissero portate in Svizzera, dopodiché qualcuno asserì che vennero distrutte mentre secondo De Felice il barone le diede forse agli americani in cambio della sua salvezza. Ma un altro personaggio riveste importanza cruciale in questo periodo: si tratta di Paolo Zerbino. Il lettore ricorderà che ne abbiamo a lungo parlato: sarà con Mussolini fino alla fine e finirà fucilato a Dongo e appeso a Piazzale Loreto insieme al Duce. Lui, dice Andriola, ha certamente avuto un ruolo chiave nella vicenda, essendo un fidatissimo di Mussolini. Così il Direttore di Storia in Rete fa un riepilogo di quelli che potrebbero essere stati i fatti: è estremamente avvincente, il lettore appassionato non può non avere sul suo tavolo questo numero della rivista. Ed è anche la più probabile delle ricostruzioni, che porta alla verosimile conclusione che "a casa Panvini si pensò più a copiare che ad inventare": differenza di non poco rilievo, perché in questo caso quegli scritti, seppure "falsi", sarebbero invece verissimi nei contenuti. La portata storica di questa plausibilissima deduzione (ma per comprenderne il valore occorre leggere la ricostruzione di Andriola) è del tutto evidente. Passiamo dunque, dopo questa sin troppo stringata premessa, a parlare di queste agende del 1942: intanto occorre dire che ne esistono due versioni, probabilmente perché "ci sono stati dei diari originali finiti a casa Panvini e qui 'copiati' più o meno fedelmente con l'obbiettivo di vendere le sole copie apocrife". Di questa che potrebbe sembrare solo un'ipotesi, però, Andriola cita elementi di prova che ne assicurerebbero la veridicità. Fatto sta che non si può dire quanto materiale non venne sequestrato ai Panvini, né dove esso sia dunque finito. Per molti documenti - ritenuti apocrifi - fu dato ordine di distruzione: forse - o forse no - tra questi c'era anche l'agenda del 1942, che risultava integra, mentre quella visionata da Storia in Rete è mancante delle prime otto pagine corrispondenti ai primi sedici giorni del mese di gennaio. Il percorso che Andriola fa relativamente alle alterne vicende di supposti diari del Duce percorre tutta la seconda metà del Novecento: tra queste rileva - in merito all'argomento odierno - il fatto che nel 1967 "si cerca di vendere, tra gli altri, un diario del 1942 di Mussolini ad un giornale inglese". Di esso vengono mostrate solo alcune fotocopie. L'affare però salterà. Con molta probabilità questo è autentico. Molti elementi inducono a ritenere che questo scritto sia l'originale, resta l'attesa per le rivelazioni che saranno contenute nel numero di luglio. Moltissime sono le avventure relative ai Diari, e il lavoro di Andriola è dettagliato e chiaro: sul numero in edicola in questo mese il lettore potrà vedere come lo storico opera un raffronto tra le due versioni dell'agenda: a pagina 19 infatti mostra le due versioni della pagina del 17 luglio 1942 data in cui il Duce scrisse il 29 giugno alcune riflessioni sulla Campagna d'Africa e sul suo viaggio al fronte nord africano. Mussolini, per scrivere questi appunti, utilizzò anche la pagina del 18 luglio. Nella versione apocrifa (proposta al Sunday Times nel '67) Amalia Panvini scrive il tutto nella sola pagina del 17 luglio: un "errore clamoroso", come lo definisce Andriola, che però consente un raffronto che fa capire che il "falsario" si preoccupò di imitare la calligrafia del Duce ma non badò a particolari importantissimi come la distribuzione delle parole, la larghezza di ciascuna di esse, gli spazi tra una parola e l'altra e tra una riga e l'altra. Elemento essenziale per lo storico per poter dedurre innanzitutto che una è un falso, e poi che è probabilissimo che la Panvini "copiò" e non inventò. Questo che Storia in Rete riporta a pag. 19 della rivista in un confronto tra le due versioni è solo un esempio, Andriola trova molti casi simili a questo nel suo lavoro di confronto. Come pure un dato importante è rinvenuto nella non facile interpretazione della grafia di Mussolini: "quando la falsaria non capisce, 'aggiusta' il testo come può, aggiunge, omette, cambia parole" dice lo storico. La conclusione è potente: "Forse, dopo anni – anzi decenni – di esercizi di stile, di caccia all’errore interno (date sbagliate, errori di ortografia, giudizi storici giudicati improbabili) e perizie grafiche (troppo spesso condotte su fotocopie e quindi destinate a lasciare il tempo che trovavano) - dice Andriola -  la strada è quella che si apre ora con l’emersione dell’agenda del 1942". Nel merito, Andriola chiarisce intanto che spesso (troppo spesso) l'approccio ideologico al personaggio ha impedito di fare analisi obbiettive circa le sue "tenerezze, insicurezze, languori, nostalgie, angosce". E ancora: "Oppure, ancora peggio, sembra improbabile che prenda le distanze da uomini e situazioni che la 'vulgata' vuole invece che lui abbia voluto e deciso". E, ad esempio, cita opere come "Parlo con Bruno" o come "Vita di Arnaldo", in cui emerge un lato umano di Benito che però, forse, non fa "comodo" a chi si affanna a creare un'immagine "conveniente" del Duce. Nel merito, anche chi scrive avrebbe molto da dire, e verrà il tempo. Per ora restiamo al Diario: le anticipazioni che Andriola ci fa relativamente al prossimo numero parlano di un Duce un po' nostalgico, volubile tra fasi di fiducia nelle sorti della guerra e di sconforto, mostra un atteggiamento critico nei confronti di Ciano, di Rommel, di Goring, per Hitler. E poi per Churchill ed Eden, per Roosevelt. Dei temi relativi ai tedeschi abbiamo già parlato, anche in quella circostanza prendendo spunto dalle riflessioni di Storia in Rete. Andriola in questo numero ci lascia in sospeso, con le parole scritte da Mussolini dopo la mezzanotte del 31 dicembre: "Ora sotto di me si è aperto il precipizio". L'attesa per il numero di luglio è tanta. I nostri lettori, ne siamo certi, attendono insieme a noi. Nel frattempo, mentre la curiosità cresce, spulciamo queste prime pagine che Storia in Rete ci regala: una è del 29 aprile, la didascalia dice: "Una delle pagine del Diario in esclusiva per Storia in Rete: quella relativa al primo giorno del vertice italo-tedesco di Klessheim (29 aprile-1 maggio 1942)". Ecco cosa scrive Mussolini in questo documento (Andriola parla di "Diario possibile", a noi la grafia convince in pieno): "Mattina: incontro il Führer alla stazione di Frech Oberhahm. Lo trovo emaciato e stanco. All'arrivo egli e [così nell'originale, senza accento] nel gruppo coi suoi: Ribbentrop Dietrich Borman il “Gauleiter” dott. Scheck tutti visi duri arcigni bocche acide, aspetto ferrigno, odiosi! In auto verso il castello di Kleuheim, ove ci ospita, sorprendo più volte il solito suo sguardo tagliente, magnetico, allucinato. Anche lui come quei pochi esemplari predestinati nella loro vita a sostenere situazioni eccezionali: sarà completamente solo. Solo al cospetto di responsabilità [...]". Da ultimo, per ora, bisogna dire che Mimmo Franzinelli operò un confronto tra due copie di una pagina di diario del 1939: una era quella copiata dalla Panvini, l'altra fa parte del Diario pubblicato nel 2011 da Bompiani. I due documenti sono difformi sia nel testo che nella grafia. Quello pubblicato da Storia in Rete, invece, è molto simile alle copie della Panvini, dunque con estrema probabilità è il suo originale.

Un super agente degli Usa coinvolto nella morte del Duce. Una ricerca resa nota da "Storia in rete" rivela la presenza di un alto ufficiale tra Azzano e Giulino il 28 aprile 1945, scrive Matteo Sacchi, Giovedì 11/08/2016, su "Il Giornale".  Pochi fatti storici sono stati studiati in maniera così compulsiva come gli ultimi giorni di Mussolini e la sua fuga verso il lago di Como. Eppure il mistero su quello che è accaduto tra il 25 aprile 1945 e la fucilazione del Duce e di Claretta Petacci, il 28 aprile 1945, resta. A partire dal ruolo giocato dai servizi segreti alleati. Sulla presenza di agenti inglesi nella zona di Dongo molto si è scritto e non è qui il caso di riepilogare la pubblicistica in merito. Ora però due studiosi svizzeri, Ettore Lucini e Dedo Tanzi, hanno portato a termine una ricerca che sembrerebbe confermare la presenza in zona anche di agenti americani (nota) e aumentarne notevolmente il peso. Il loro studio, condotto per anni e con acribia anche se non sono storici professionisti, viene raccontato sul nuovo numero di Storia in rete da Fabio Andriola. Ecco i punti salienti che dimostrerebbero che il 28 aprile 1945 tra Dongo e Menaggio si aggirava Valerian Lada-Mocarski (1898-1971) all'epoca il numero due in Europa dell'Oss, il servizio segreto americano precursore della Cia. Il primo indizio ai due svizzeri patiti di storia comasca l'ha fornito una fotografia (nella nostra pagina in alto a sinistra) pubblicata da Il Corriere d'Informazione nel 1965 a corredo di uno dei tanti articoli sull'«oro di Dongo» che dalla fine della guerra ad oggi non hanno smesso di andare per la maggiore. L'articolo non forniva particolari informazioni ma tre dei quattro uomini ritratti nella foto erano chiaramente riconoscibili. Il comandante della 52esima brigata Garibaldi, Pier Luigi Bellini delle Stelle, il vicecommissario politico della stessa formazione, Urbano Lazzaro, (l'uomo che riconobbe Mussolini sul camion tedesco) e il partigiano Lorenzo Bianchi. Meno facile identificare l'uomo al centro vestito con un elegante abito bianco. Lucini e Tanzi notarono che il volto sembra alterato nello scatto. In aggiunta, le scritte sui cartelli alle spalle del quartetto sembrano stranamente illeggibili. Un errore nella riproduzione o un fatto voluto? E come mai l'automobile a cui i 4 erano appoggiati sembra tutto tranne che un modello italiano. Incuriositi, i due ricercatori si sono messi a indagare. In poco tempo hanno riconosciuto l'auto, una Ford Fordor Deluxe: «Un macchinone in dotazione solo a esponenti di alto grado della diplomazia e dei servizi Usa». La ricerca si fermerebbe lì se i due svizzeri non avessero incrociato una nuova versione della stessa foto, questa volta pubblicata da Oggi negli anni '90 a corredo di un'intervista a Urbano Lazzaro (foto visibile in alto a destra). I cartelli risultano leggibili, indicano Bonzanigo, Giulino e Mezzegra. Questo rende riconoscibile il punto dello scatto: il bivio di Azzano dove si fermò il camion con a bordo i gerarchi fucilati a Dongo per raccogliere anche i cadaveri della Petacci e di Mussolini. Esiste una foto d'epoca in cui il 28 aprile del 1945 gli abitanti del borgo si fecero ritrarre tutti in posa vicino alla macchia di sangue che colò dal camion pieno di fascisti crivellati di colpi (immagine piccola in questa pagina). Nella foto in possesso di Lazzaro risulta riconoscibile anche l'uomo vestito di bianco: è il colonnello Valerian Lada Mocarski (1898-1971). A quel punto i due svizzeri hanno richiesto ai servizi segreti americani il suo fascicolo e si sono messi a indagare nel fondo (carte e fotografie) che la vedova Lada Mocarski ha donato all'Università di Yale. È spuntata di nuovo la famosa foto. Ma è più grande e sembra si possa scorgere nella parte bassa la macchia di sangue lasciata dal camion dei gerarchi. Quella macchia il giorno 29 non c'era più, venne cancellata da un temporale notturno. A questo punto risulterebbe chiaro che Mocarski era sul lago di Como proprio nel giorno in cui Mussolini veniva ucciso, per i dati ufficiali invece è entrato in Italia solo dopo. Esistono poi due discussi «rapporti Mocarski», in teoria redatti intervistando a posteriori i partigiani, sulla morte del Duce (di cui il professor Francesco Perfetti ha parlato diffusamente nelle nostre pagine nel 2011): ora, fosse giusta la teoria dei due storici svizzeri, andranno guardati con altri occhi (quanto nascondono, quanto svelano?). Cosa stava cercando di fare Mocarski? Prelevare Mussolini? Ci fu una corsa tra americani e inglesi per impossessarsi del Duce? Difficile dirlo ma, una volta controllata in maniera più approfondita la foto originale nelle carte di Lada-Mocarski, la presenza dei servizi segreti alleati nella vicenda di Dongo potrebbe diventare sempre più provata. E questo getterebbe altre ombre sulla versione ufficiale della morte del Duce.

La prima tragica notte di Benito e Claretta. Il Duce e l'amante dormirono insieme una sola volta, in attesa di essere uccisi, scrive Antonio Pennacchi, Venerdì 27/11/2015, su "Il Giornale". Alle 15.35 Mussolini viene riconosciuto «Il Duce! È il Duce, ch'agh vegna un càncher!» ed arrestato. «Il suo sguardo è assente. Il suo volto è cereo», scriverà nel suo diario il partigiano «Bill» Urbano Lazzaro, fino all'armistizio nella guardia di finanza, poi vicecommissario politico della 52a Brigata Garibaldi «Luigi Clerici»: «La cornea è giallastra. Gli leggo negli occhi un'estrema stanchezza, ma non paura. Spiritualmente morto. Non ha più nulla da fare tra gli uomini».I tedeschi riaccendono i motori e ripartono: «Agh dispiase massa, Duce, ma al rivédarne e grassie». Alle 17 sono tutti prigionieri sorvegliati a vista lui, i gerarchi, Claretta e Marcello Petacci nel salone del municipio di Dongo, sulla sponda occidentale del lago di Como.Alle 19, dopo avere informato della cattura per telefono a Milano il comando generale del Cln, il tenente «Pedro» Pier Luigi Bellini delle Stelle comandante del distaccamento Puecher della 52a Garibaldi trasferisce per sicurezza Mussolini nella caserma della guardia di finanza di Germàsino. Al momento di riandarsene, Mussolini lo prega di salutare «la signora Petacci». Alle 19.45, rientrato a Dongo da Germàsino, Pedro mantiene la promessa e porta i saluti a Claretta. «La prego, riunitemi a lui» comincia a implorare lei: «Lo amo e l'ho amato, sono sua da tanto tempo, se Mussolini deve morire voglio morire con lui». «Chiacchiere di donne...» pensa dentro di sé Pedro. Ma quella insiste insiste, non la finisce più: «Riunitemi a lui, riunitemi a lui». «E va in malora, va'» e alle 23.50 del 27 aprile Pedro ribussa alla porta della casermetta di finanza a Germàsino: «Debbo ripigliare il prigioniero». «Eccotelo qua», lo vanno a svegliare s'era appena addormentato da un'oretta e glielo ridanno con una coperta di lana sulle spalle perché fa freddo. Mussolini si rinvoltola bene bene dentro la coperta e all'1.25 del 28 aprile Pedro ritorna con le sue due macchine a Dongo e con i motori accesi si ferma di nuovo davanti al municipio. Lì c'è che aspetta freddolosa trepidante nella notte sotto un grande ombrello da uomo, tra due partigiani armati fino ai denti la povera Claretta. «Anche voi, signora?» scende dalla macchina Mussolini baciandole la mano. «Par sempre, mi» e sale su ordine di Pedro nell'altra macchina. E di nuovo via verso Como, di nuovo coi motori nella notte di pioggia ancora battente. Ma fatti poco più di trenta chilometri e arrivati a Moltrasio, sentono echi di sparatorie mentre il cielo è solcato da razzi luminosi «Stanno arrivando gli americani? Non è che questi adesso ci fregano Mussolini?» e allora gira le macchine e torna indietro, verso Azzano e poi Mezzegra, da certi contadini, i De Maria, che uno dei partigiani di Pedro conosce bene e da cui s'è rifugiato tante volte: «Bravi compagni» dice.Alle 3.15 arrivano ad Azzano. Lasciano le macchine e si inerpicano sul sentiero che porta a Bonzanigo di Giulino nel comune di Mezzegra. Bussano dai De Maria, che li fanno entrare e gli preparano il caffè. Poi accompagnano Mussolini e Claretta Petacci al piano di sopra, nella camera dei figli col letto grande come si usava allora, perché sul letto grande ne entrano di più. Se li sono presi in braccio e portati tutti giù: «Buona notte» hanno detto a Mussolini e Claretta senza, pare, averli riconosciuti. «Massimo segreto, massimo silenzio» disse loro Pedro, e venne via lasciando due partigiani di guardia davanti alla porta della camera. Erano le quattro di mattina del 28 aprile 1945.Mussolini e Claretta si sono sciacquati il viso e le mani al lume di candela, versandosi l'acqua nel catino dalla brocca. Di qua e di là dal letto c'era per ognuno un vaso metallico smaltato, pluriammaccato sbreccato. Non si sono detti niente. Non c'era proprio più niente da dire. Era la prima notte in vita loro che passavano assieme. Lei aveva trentatré anni, lui sessantadue. S'amavano tra liti, strilla, abbandoni e appassionati riabbracci dal 1932, da quando lei ne aveva venti. Non hanno dormito neanche un'ora. Alle cinque i partigiani di guardia alla porta due ragazzi di vent'anni insospettiti da un improvviso scricchiolio hanno spalancato la porta: «Blam!» e sono piombati nella stanza con il lume a petrolio e le armi in mano. Svegliata di soprabbalzo, Claretta s'è tirata su le coperte a nascondere il viso. Mussolini s'è seduto sul letto: «Dai, ragazzi, non fate così. Non siate cattivi...» e quelli sono usciti. Claretta ha detto: «Stavo sognando che ti aspettavo al bivio dell'Appia a Littoria, e c'era la luna piena». «Qua piove, invece» ha risposto il Duce. E dopo una piccola pausa: «Non ho mai amato nessun'altra, come ho amato ed amo te», e questa volta diceva davvero.

Il partigiano comunista Walter Audisio raccontò per l’Unità il 28 marzo 1947 una pagina della nostra storia che ha cambiato l’Italia, scrive "Centonove" il 12 maggio 2016. Ecco gli ultimi minuti di vita di un uomo, Benito Mussolini, “che si raccomandava nel modo più vile”. Settantuno anni fa, il 28 aprile 1945, Benito Mussolini e la sua amante Claretta Petacci furono giustiziati dal partigiano comunista Walter Audisio (nome di battaglia “colonnello Valerio”) a Giulino di Mezzegra, località in provincia di Como. Il giorno prima Mussolini era stato arrestato a Dongo e la direzione del CLNAI aveva deciso senza indugio per la sua esecuzione immediata. Prelevato dai suoi giustizieri a Bonzanigo, l’ex duce, insieme alla Petacci, fu portato nel pomeriggio in auto in un un piccolo vialetto davanti a Villa Belmonte, un’elegante residenza di Giulino, dove fu fucilato. Questi gli ultimi minuti di vita di Mussolini secondo la testimonianza di Audisio, pubblicata su “l’Unità” (l’organo del Partito comunista) il 28 marzo 1947: “Sull’auto lo feci sedere a destra, la Petacci si mise a sinistra. Io presi posto sul parafango in faccia a lui. Non volevo perderlo di vista un solo istante. La macchina iniziò la discesa lentamente. Io solo conoscevo il luogo prescelto e non appena arrivammo presso il cancello ordinai l’alt. Dissi di aver udito dei rumori sospetti e mi mossi a guardare lungo la strada per accertarmi che nessuno venisse verso di noi”. “Quando mi volsi la faccia di Mussolini era cambiata: portava i segni della paura. (…) Feci scendere Mussolini dalla macchina e gli dissi di portarsi tra il muro ed il pilastro del cancello. Obbedì docile come un canetto. Non credeva ancora di morire: non si rendeva conto della realtà. Gli uomini come lui temono sempre la realtà, preferiscono ignorarla (…). Improvvisamente cominciai a leggere il testo della sentenza di condanna a morte del criminale di guerra Mussolini Benito. Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontario della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano”. “Credo che Mussolini non abbia nemmeno capito quelle parole: guardava con gli occhi sbarrati il mitra che puntavo su di lui. La Petacci gridò enfatica: ‘Mussolini non deve morire’. Dico alla Petacci che s’era appoggiata a Mussolini: ‘Togliti di lì se non vuoi morire anche tu’. La donna capisce subito il significato di quell’anche e si stacca dal condannato. Quanto a lui, non disse una sola parola: non il nome di un figlio, non quello della madre, della moglie, non un grido, nulla. Tremava livido di terrore e balbettava con quelle grosse labbra in convulsione: ‘Ma…ma…ma…ma signor colonnello. Ma…ma…ma signor colonnello’. Nemmeno a quella donna che gli saltellava vicino, che si muoveva di qua e di là, disse una sola parola. No: si raccomandava nel modo più vile, per quel suo grosso corpo tremante: solo a quello pensava: a quel grosso corpo appoggiato al muretto”. “(…) Faccio scattare il grilletto ma i colpi non partono. Il mitra si era inceppato. Manovro l’otturatore, ritento il tiro ma l’arma non spara. Passo il mitra a Guido (Aldo Lampredi, ndr.), impugno la pistola: anche la pistola si inceppa. Passo a Guido la rivoltella, afferro il mitra per la canna, aspettandomi, malgrado tutto, una qualunque reazione. Ogni uomo normale avrebbe pensato di difendersi ma Mussolini era al di sotto di ogni uomo normale e continuava a balbettare, a tremare, immobile con la bocca semiaperta e le braccia penzoloni. Chiamo a voce alta il Commissario della 52a che viene di corsa a portarmi il suo Mas. Adesso gli sono di fronte, come prima: egli non si è mosso, continua il suo balbettio di invocazione. Vuol salvare solo quel grosso corpo tremante. E su quel corpo scarico cinque colpi”. “Il criminale si afflosciò sulle ginocchia, appoggiato al muro, con la testa reclinata sul petto. Non era ancora morto, gli tirai una seconda raffica di quattro colpi. La Petacci, fuori di sé, stordita, si mosse confusamente, fu colpita e cadde di quarto a terra. Mussolini respirava ancora e gli diressi, sempre col Mas, un ultimo colpo al cuore. L’autopsia constatò più tardi che l’ultima pallottola gli aveva troncato netto l’aorta. Erano le 16.10 del 28 aprile 1945”.

Chi ha davvero ucciso Mussolini. A sessant'anni dall'evento, mitomani e improbabili «testimoni» continuano ad alimentare leggende sulla fine del Duce. Uno storico, Arrigo Petacco, che conosce bene i fatti racconta a «Panorama» cosa accadde quel 28 aprile 1945. A sessant'anni dalla morte di Benito Mussolini le leggende sulla sua fine invece di dissolversi si sono moltiplicate. Dopo le false versioni messe in giro dai comunisti all'epoca dei fatti (L'Unità ne pubblicò sei o sette), a infittirle contribuirono, oltre ai soliti mitomani, anche e soprattutto certi sedicenti protagonisti ingolositi dai ricchi compensi che i rotocalchi dell'epoca distribuivano con larghezza. Di conseguenza, sono state diffuse le storie più strampalate: si è parlato di «doppia fucilazione», di «duplice avvelenamento», nonché di altre diaboliche macchinazioni. È stato anche chiamato in causa Luigi Longo e indicato come il vero fucilatore di Mussolini, mentre è provato che l'allora vicecomandante del Corpo volontari della libertà, anche se fu certamente lui a impartire l'ordine, quel giorno era a Milano e da lì non si mosse. In seguito sono comparsi sulla scena anche molti improbabili «testimoni dell'ultima ora» i quali, a decenni di distanza dai fatti, riacquistavano miracolosamente la memoria per scodellare nuove e sconcertanti versioni. L'ultima delle quali, sostenuta dall'ex partigiano Bruno Lonati (un signore ottantenne che afferma di essere stato lui e non il «colonnello Valerio» a uccidere Mussolini), lunedì 30 agosto ha ricevuto addirittura l'avallo in un avvincente programma televisivo (La grande storia di Raitre). In questo programma, grazie anche all'accorta esclusione dei testimoni e degli storici che avrebbero potuto contestarla, si è infatti valorizzata una tesi che sembra tolta da un thriller di fantapolitica. Ossia che fu un misterioso commando britannico, composto appunto da Lonati e da un fantomatico «capitano John», a uccidere, per ordine di Winston Churchill, sia Mussolini sia Claretta Petacci. I telespettatori hanno anche avuto modo di ascoltare dalla viva voce dello stesso Lonati (presentato confusamente come il capo non di una, ma di «alcune» brigate garibaldine) i più minuti dettagli dell'esecuzione. Sarebbe stato Lonati a sparare a Mussolini, mentre John avrebbe provveduto a liquidare la povera Claretta (Valerio, giunto sul posto a cose fatte, avrebbe poi inscenato una seconda fucilazione per attribuirsene il merito). Ma perché Churchill avrebbe ordinato la frettolosa fucilazione del Duce (e tanto più dell'innocente Claretta) non è stato spiegato. I confusi riferimenti al famoso carteggio Churchill-Mussolini non costituirebbero comunque una giustificazione in quanto il carteggio, se veramente è esistito, avrebbe dovuto trovarsi nelle due famose borse che, il giorno prima, i partigiani avevano sequestrato a Mussolini. Non è tutto. Gli autori del programma non hanno neppure ricordato che non era la prima volta che Lonati raccontava questa sua «verità». Lo aveva già fatto anni prima, nel 1993, al Maurizio Costanzo show, nel corso del quale, alle contestazioni dei presenti (fra i quali chi scrive), egli aveva affermato platealmente che la sua versione sarebbe stata confermata dai fatti quando, scaduti i cinquant'anni stabiliti dalla legge, avrebbe potuto esibire i documenti conservati negli archivi dei servizi segreti britannici. I cinquant'anni sono scaduti il 28 aprile 1995, ma dopo di allora non è accaduto nulla di nuovo, tranne che Lonati, forse fidando nella smemoratezza dei telespettatori, è tornato di nuovo alla carica, ma senza i documenti promessi. Nell'attesa che sia spiegata (se mai lo sarà) la dinamica della duplice fucilazione di Giulino di Mezzegra, limitiamoci dunque a estrarre dal fitto polverone che ancora si addensa sulla vicenda soltanto i fatti certi e ampiamente documentati. Per cominciare, rileggiamo insieme la versione ufficiale rilasciata a caldo il 3 maggio del 1945 dal generale Raffaele Cadorna, comandante del Corpo volontari della libertà. «La sentenza era stata pronunciata ed erano stati designati gli esecutori.  Furono cioè scelte due persone che guidassero e che, comunque, tornassero indietro avendo compiuto l'operazione. Le persone erano Walter Audisio, nome di battaglia "colonnello Valerio", e Aldo Lampredi, nome di battaglia "Guido", braccio destro di Luigi Longo. Io personalmente vidi Audisio e Lampredi partire per la missione. Io personalmente ho ascoltato il rapporto di Audisio. Sulla mia scrivania, in quel momento, Audisio mi aveva fatto trovare dei cimeli ricuperati durante l'operazione: esattamente le corone del Negus che, per la verità, di valore materiale avevano ben poco. Audisio mi riferì sull'operazione e in particolare mi disse che la sua arma si era inceppata». Veniamo ora alla ricostruzione controllata degli avvenimenti. Mussolini, Claretta e 15 gerarchi furono catturati a Musso, nei pressi di Dongo, la sera del 27 aprile 1945 dai partigiani della 52ª brigata garibaldina. Il comandante, nome di battaglia «Pedro», era Pier Bellini delle Stelle, un nobile fiorentino ex ufficiale dell'Esercito; il suo vice era Urbano Lazzaro («Bill»), sottufficiale della Guardia di finanza, mentre il commissario politico era Michele Moretti («Pietro»). Dei tre, l'unico militante comunista era Moretti (nelle brigate garibaldine figurava sempre un commissario politico, ovviamente comunista, che spesso comandava più del comandante). Condotti i prigionieri a Dongo nella sede del palazzo comunale, Mussolini fu poi separato dagli altri. Egli aveva con sé due voluminose borse di cui Pedro volle subito inventariare il contenuto. Eccolo: 160 sterline d'oro, 3 assegni circolari da 500 mila lire ciascuno, 6 di 25 mila e 1 di 50 mila. Oltre ai valori c'erano anche quattro voluminosi fascicoli con le seguenti intestazioni: «Corrispondenza Hitler-Mussolini», «Processo di Verona», «Umberto di Savoia» e «Varie». Nella nota di Pedro non c'è alcun accenno al famoso carteggio del quale, fra l'altro, si parlerà molto più tardi e salterà fuori non da Dongo ma dalla Svizzera. Verso sera, preoccupato per la presenza ormai a tutti nota dell'ingombrante prigioniero, Pedro, d'accordo con Bill e con Pietro, trasferì segretamente Mussolini e Claretta nella caserma della Guardia di finanza di Germasino. La giovane donna lo aveva supplicato di ricongiungerla al Duce e lui, cavallerescamente, l'aveva accontentata. Prima di essere chiuso nella camera di sicurezza, Mussolini conversò a lungo coi finanzieri parlando a ruota libera della guerra, di Churchill, dell'America e di Stalin (che definì il più grande uomo politico vivente e il vero vincitore). Alle 3 di notte del 28 aprile, per motivi di sicurezza, i due prigionieri furono ancora una volta trasferiti presso gente fidata nella cascina della famiglia De Maria, situata fra Bonzanigo e Giulino di Mezzegra, e affidati alla custodia di due partigiani: «Lino» (Giseppe Frangi) e «Sandrino» (Guglielmo Cantoni). Pedro aveva fretta di liberarsi dell'importante prigioniero, ma né lui né i suoi partigiani furono mai sfiorati dall'idea di passarlo per le armi. Frattanto, all'alba del 28, Valerio e i suoi uomini erano partiti da Milano a bordo di un camion per eseguire la sentenza pronunciata (pare all'unanimità) dai componenti del Cln Alta Italia. Episodio curioso: quella stessa mattina, quando Valerio era ancora in viaggio, la radio del Cln annunciò che Mussolini era stato condannato a morte dal «Tribunale del popolo» e fucilato «nello stesso luogo in cui, nell'agosto scorso sono stati fucilati 15 partigiani». Ossia in piazzale Loreto a Milano. Questo falso annuncio aveva probabilmente lo scopo di tacitare il comando alleato che si ostinava a reclamare la consegna di Mussolini vivo. Valerio, sempre affiancato dal silenzioso Guido, giunse a Dongo nel primo pomeriggio e non trovò una buona accoglienza. Le sue credenziali erano approssimative e non avevano convinto Pedro che era molto sospettoso. Ne seguì uno scontro vivacissimo che Valerio sostenne con minacciosa arroganza («Urlava e bestemmiava come un turco» racconteranno i presenti). Ma poi le acque si placarono grazie all'intervento del commissario Pietro il quale, avendo riconosciuto Guido, suo antico compagno nell'attività clandestina, garantì per tutti. Tornata la calma, Valerio annunciò bruscamente le sue intenzioni: «Sono venuto a fucilare Mussolini e i suoi gerarchi». Pedro, non ancora del tutto convinto, fece presente che la cosa gli sembrava irregolare perché, proprio quella mattina, il Cln locale gli aveva ordinato di trasferire i prigionieri a Como. Ma, turbato dal comportamento minaccioso di Valerio, preferì fare buon viso a cattivo gioco pur di guadagnare tempo. E infatti, ritenendo che i sopraggiunti ignorassero il luogo segreto in cui si trovava Mussolini, propose di andare lui stesso a rilevarlo a Germasino. Fu subito accontentato, anzi, Valerio, diventato nel frattempo gentilissimo, gli concesse addirittura la sua auto. In realtà, Valerio era già stato informato dal compagno Pietro che Mussolini era a casa De Maria, ma aveva finto di credergli semplicemente per liberarsi di lui. Alle 15.15 Valerio partì dunque alla volta di Giulino di Mezzegra con due auto sequestrate sul posto. Erano con lui, oltre Guido e Pietro, anche il «capitano Neri» (Luigi Canali) e la sua compagna «Gianna» (Giuseppina Tuissi), due partigiani comunisti che saranno uccisi misteriosamente pochi giorni dopo, ma per un'altra vicenda relativa all'«oro di Dongo». Giunti a casa De Maria e prelevati senza difficoltà i due prigionieri (Valerio si era presentato al Duce come il suo liberatore), il gruppetto si trasferì, prima in macchina e poi a piedi, verso il luogo scelto per l'esecuzione: un posto isolato davanti al cancello di Villa Belmonte in località Giulino di Mezzegra. Il solo mistero che ancora grava sulla vicenda riguarda semmai l'identità dell'esecutore materiale della fucilazione. Fu veramente il colonnello Valerio? Purtroppo, Neri e Gianna furono uccisi pochi giorni dopo e dobbiamo perciò affidarci alle versioni dei tre sopravvissuti: Valerio, Guido e Pietro, ossia Audisio, Lampredi e Moretti. Le quali, tuttavia, concordate o meno, non si contraddicono più di tanto. Moretti ha raccontato: «Valerio puntò contro Mussolini e premette il grilletto, ma l'arma, che pure aveva provato pochi minuti prima, si inceppò. Guido estrasse la rivoltella, ma anche questa fece cilecca. Allora Valerio volle il mio mitra e fece fuoco contro Mussolini e poi contro Claretta che non smetteva di gridare...». Lampredi è stato più avaro di parole, come si conviene a un dirigente comunista d'antan (diventerà segretario della Commissione centrale di controllo del Pci), ma la sua versione è più o meno identica a quella di Pietro. Valerio invece parlò anche troppo, spesso contraddicendosi. Nell'ultima delle sue numerose versioni pubblicate dall'Unità, ha comunque raccontato: «Quando fui di nuovo piantato di fronte a lui con il mitra di Moretti in mano, scaricai cinque colpi su quel corpo tremante. Il criminale di guerra si afflosciò sulle ginocchia. La Petacci, fuori di sé, stordita, si era mossa confusamente: fu colpita anche lei e cadde di quarto a terra. Erano le 16.10 del 28 aprile 1945. L'arma portava i seguenti contrassegni: cal. 7,65. L.Mas mod.1938 – F.20830 e aveva un nastrino rosso legato all'estremità della canna». Era il mitra, recentemente ritrovato a Tirana, che nel 1957 l'allora onorevole Walter Audisio aveva donato al dittatore comunista albanese Enver Hoxha. Quell'episodio va inserito in una cornice di lotta tra forze politiche italiane e servizi stranieri «La morte non è stata la cosa più importante nella vita di Mussolini!»: così scrive Renzo De Felice, nel suo ultimo libro, l'intervista Rosso e Nero del 1995, ragionando da un punto di vista strettamente storiografico. Eppure intorno a quegli istanti ha preso corpo una fitta trama, «una vera e propria trama che non ha niente a vedere con la storia» che ha trasformato la fine del Duce in una sorta di romanzo popolare dove non conta la musica ma solo l'arrangiamento, non importa la definizione del disegno ma solo il tono del colore. È stata questa la via scelta dalla vulgata storiografica filosaloina, che per decenni ha alimentato i rotocalchi ad alta tiratura, per penetrare nell'immaginario collettivo. Dall'altra parte, «questa aura di mistero e di intrigo è nata per quel vizio connaturato al movimento partigiano di voler rappresentare se stesso nella sua totale purezza e trasparenza». Una mancata presa di coscienza della dimensione tragica della storia che ha consegnato la verità storica alla «mercé delle più terribili dietrologie». L'unica novità del documentario di Peter Tompkins, trasmesso su Raitre il 30 agosto, non sta nel contenuto e tantomeno nel merito, ché tutto era già noto, ma nel punto di vista di Peter Tompkins, fin dal 1941 giornalista spia per l'Oss, il servizio segreto americano ante Cia, ora scrittore di storia (dall'Altra Resistenza, Rizzoli, a Le carte segrete del Duce, Tropea), punto di vista affatto nostalgico, inscritto piuttosto nella vulgata filoresistenziale. È ancora tutta da scrivere la storia dei traffici editoriali e giornalistici che si sono giocati intorno alla memorialistica sugli ultimi giorni di Salò. Fu senza quartiere, per esempio lo scontro fra i due maggiori editori, Rizzoli e Mondadori, per accaparrarsi documenti e rivelazioni. Per colpa di uno di quei carteggi, per esempio, esattamente 50 anni fa Giovannino Guareschi finì addirittura in galera. Non è dato sapere come De Felice avrebbe affrontato il capitolo finale della biografia del Duce. Ma nel suo archivio, quando sarà consultabile, si dovrebbero ritrovare, già messi in ordine, i documenti su cui intendeva ricostruire i fatti storici per separarli dalle leggende: «La morte di Mussolini va vista in una cornice di lotta e di concorrenza fra forze politiche italiane e servizi segreti stranieri che fecero di quell'evento il punto di convergenza di una serie di manovre i cui effetti si sentono ancora oggi». Pasquale Chessa su “Panorama” 

MUSSOLINI. MORO, CRAXI. COME MUORE UNO STATISTA ITALIANO NON COMUNISTA.

Mussolini. Renzo Martinelli: “In un film racconterò tutta la verità sulla morte del Duce”. In un film “Da documenti incontrovertibili - spiega il regista all'AdnKronos il 20 giugno 2005 - abbiamo appurato che il colonnello in questione era Luigi Longo, numero due del partito comunista, ma abbiamo anche verificato che non fu lui a uccidere il Duce. Arrivato a Como, infatti, il colonnello Valeri trovò Mussolini e la Petacci già morti, uccisi quasi sicuramente dai servizi segreti inglesi per evitare che Mussolini rivelasse le trattative in corso con Churchill contro Stalin”. Le ricerche di Martinelli chiariscono anche il mistero mai sciolto dell’oro di Dongo, l’ingente somma di denaro che Mussolini avrebbe portato con sè al momento, ma di cui non venne mai trovate tracce: “Il tesoro era sull’auto del prefetto Gatti sulla quale viaggiava Mussolini e finì - dice il regista - nelle mani dei partigiani comunisti che, invece di consegnarlo all’Italia, lo convertirono in titoli di stato per finanziare la loro attività politica”. Il regista auspica “di poter iniziare a lavorare alla sceneggiatura del progetto, scritto assieme a Valerio Massimo Manfredi, entro l’anno. Presenterò la mia idea ai responsabili dell’entertainment Rai e spero che il film possa poi approdare anche sul grande schermo”.

Martinelli: dopo Ustica, voglio fare un film sulle ultime ore di Mussolini, scrive venerdì 25 marzo 2016 “Il Secolo D’Italia”. «Sono vent’anni che cerco di fare un film sulla morte di Mussolini e nessuno me lo vuol far fare». Renzo Martinelli è un regista controcorrente che indaga sui misteri della storia italiana. Il prossimo 7 aprile arriverà nelle sale Ustica, un’opera che ha visto la luce grazie a una coproduzione di Italia e Belgio e che dà una nuova lettura sulla strage. In passato ha realizzato i film scomodi come Porzûs e Piazza delle Cinque Lune. Ma ora Martinelli vorrebbe puntare la sua attenzione sulle ultime ore del Duce e lo svela in un’intervista a Libero. «I nostri ragazzi studiano – dice al quotidiano – a scuola, una storia che borgesianamente non è accaduta. È la più gigantesca bufala del Partito Comunista di questi ultimi settant’anni. Eppure resiste ancora. L’idea di fare un film così fa cascare dalle sedie i funzionari Rai. Prima o poi lo farò. Anche di Porzûs mi dicevano: “Non lo farai mai” e poi l’abbiamo fatto. Perché si toccava un tabù che è la Resistenza, che in questo Paese è intoccabile». Per Martinelli in Italia c’è stato sul fascismo «un processo di rimozione collettiva. Che ci impedisce di affrontare con serenità quel momento, quegli episodi. Sulla morte di Mussolini non esiste nulla. Abbiamo documenti filmati della fucilazione di gerarchi di secondo piano, ma nulla sua morte, se non quello che ci hanno raccontato i comunisti sull’Unità.  Mussolini prima o poi lo faremo. È doveroso raccontare ai ragazzi che non è andata così. Questa vulgata comunista che resiste da settant’anni sottoposta ad analisi non sta in piedi». Martinelli tra le tante versioni sulle ultime ore di Mussolini sposa quella secondo cui il Duce «viene fatto fuori dai Servizi Segreti inglesi. Churchill lo voleva morto, non voleva che arrivasse vivo al processo. Secondo i comunisti, invece, viene ammazzato intorno alle 16.30 del 28 luglio davanti al muretto di Villa Belmonte. Abbiamo ingrandito le foto di Mussolini appeso a Piazzale Loreto, non ci sono fori nei pantaloni o nella maglia. C’è un foro passante nel sottogola che esce dalla nuca: colpisci uno, appoggiato a un muro, nel sottogola. Non lo prenderai mai… C’è una rimozione totale su quest’uomo. Paradossalmente, non interessa né a destra né a sinistra».

Dongo. Quell’oro svanito nel nulla. Cosa cercava l’avvocato che faceva la spola fra le Botteghe Oscure e la Svizzera? Il mistero della scomparsa del tesoro della Repubblica sociale italiana non è mai stato svelato. E chi sapeva è stato ucciso, scrive Renzo Martinelli, Giovedì 29/03/2007, su "Il Giornale". Immaginate sei valigie di cuoio di grosse dimensioni. Immaginatele piene di anelli, collane, bracciali d’oro. Immaginatele stipate di denaro: sterline, franchi svizzeri, franchi francesi, pesetas spagnole.

È venerdì 27 aprile 1945 e queste sei valigie viaggiano su un’Alfa Romeo rossa lungo la strada occidentale del lago di Como. Alla guida c’è il segretario di Mussolini, Luigi Gatti. Al suo fianco siede il suo assistente, Mario Nudi. Luigi Gatti è l’uomo che sta trasportando quello che passerà alla storia come «Il tesoro di Dongo». Da quel lontano 1945, il «tesoro di Dongo» ha rappresentato per il Partito comunista italiano una specie di inviolabile tabù. Ancora oggi, solo a sentir pronunciare il nome del piccolo paese sul lago di Como, brividi di inquietudine corrono lungo la schiena dei dirigenti comunisti di una certa età. Sanno che la storia si può manipolare ma anche che qualche volta la storia presenta il conto. E tra tutti i conti che il Partito comunista italiano dovrà prima o poi essere chiamato a pagare, quello di Dongo sicuramente preferirebbe evitarlo.

Torniamo allora a quel venerdì 27 aprile 1945, quando la colonna Mussolini viene fermata da un pugno di partigiani sulla strada tra Musso e Dongo. La colonna tedesca di Fallmeyer che scorta i fascisti è composta da 200 uomini, 10 camion, cannoncini antiaerei, mitra, mitragliatrici, bombe a mano, munizioni in abbondanza. Eppure si blocca davanti a un semplice tronco d’albero posto di traverso e si arrende. Mussolini viene scoperto. I fascisti vengono fatti prigionieri, mentre i tedeschi proseguono verso la Svizzera. I più furbi tra i partigiani, intanto, cominciano a razziare le auto della colonna rimaste incustodite. Ad un certo punto, davanti ai loro occhi allibiti, saltano fuori le sei famose valigie. Per evitare un saccheggio di più ampie proporzioni, il capo di stato maggiore della 52ª Brigata Garibaldi, capitano «Neri» ordina di portarle nel municipio di Dongo, dove la partigiana Giuseppina Tuissi, nome di battaglia «Gianna», fa l’inventario di tutto quel ben di Dio. La «Gianna» è anche la donna del capitano «Neri».

Sulla destinazione da dare al tesoro scoppia ben presto una lite furibonda. Il segretario del Partito comunista clandestino di Como, Dante Gorreri, sostiene che quei beni appartengono al Partito comunista. Il capitano «Neri» sostiene invece che quei beni appartengono allo Stato italiano e che pertanto vanno riconsegnati alla Banca d’Italia. Nel tardo pomeriggio del 28 aprile il tesoro viene trasportato nella villa delle sorelle Teresa e Luisa Venini, a Dòmaso. All’alba del 29, poco dopo le quattro, un gruppo di partigiani bussa alla porta della villa. Hanno in mano un foglio con il timbro del Partito comunista di Como. Caricano tutto su un’auto e spariscono. Dove è finito il «tesoro di Dongo»? Il 17 gennaio 1949, la rivista americana Life pubblica un’inchiesta del giornalista John Kobler dal titolo: «The great Dongo’s robbery». Kobler è uno che di tesori e manipolazioni se ne intende: ha fatto parte infatti del’Oss, il servizio segreto statunitense durante la campagna d’Italia. La sua tesi è che il tesoro sia finito nelle casse del Pci e utilizzato per sostenere le due campagne elettorali del 1946 e del 1948, per acquistare il palazzo di via delle Botteghe Oscure e per finanziare le forze militari clandestine e l’apparato di sezioni e cellule in tutta Italia.

Anni dopo Massimo Caprara, segretario di Palmiro Togliatti, testimonierà che quei beni razziati sulla strada tra Musso e Dongo sono finiti nelle casse del Partito comunista. Da dove poi un esperto avvocato provvide a riciclare tutto in Svizzera. Lo stesso avvocato che, ogni quindici giorni, si recava a Roma, a Botteghe Oscure. «Si fermava a chiacchierare con me in attesa che Togliatti fosse libero», ricorda Caprara. «A ogni visita compiva una singolare triangolazione che non poteva non incuriosirmi: dopo essere stato da noi al secondo piano, saliva al terzo dall’amministrazione e poi al quarto da Pietro Secchia. Fu quello stesso avvocato un giorno, a pranzo, a spiegarmi l’arcano: lui si stava occupando di riciclare il bottino di Dongo, trasformandolo in depositi e titoli presso alcune banche svizzere, poi riutilizzabili in Italia».

Il «tesoro di Dongo» presenta somiglianze agghiaccianti col «Memoriale Moro». Chiunque ci si avvicini, paga con la vita. Luigi Canali, il capitano «Neri», scompare l’8 maggio 1945. Il suo cadavere non verrà mai più ritrovato. Il 23 giugno 1945, mentre cerca disperatamente notizie del suo uomo, scompare Giuseppina Tuissi. Alle dieci di sera, due fidanzati vedono una moto rossa con due uomini e una donna fermarsi al Pizzo di Cernobbio e scendere verso il lago. Poi sentono un urlo e uno sparo. La moto riparte. Sul posto verrà trovato un giornale sporco di sangue e budella umane. «Gianna» è stata sventrata e gettata nel lago. Il 4 luglio, tra Acquasena e Santa Maria Rezzonico, riaffiora il cadavere di Anna Bianchi, amica della «Gianna» e sua confidente, colpita con due pallottole alla nuca e gettata ancora viva nel lago. Il 6 luglio scompare Michele Bianchi, il padre di Anna. Il cadavere riaffiora il 12 luglio con due pallottole alla nuca. Il 26 ottobre 1945 viene pugnalato a morte in una strada alla periferia di Como Gaetano Melker, cittadino svizzero. È lui che ha trasportato il tesoro di Dongo dalla federazione del Partito comunista di Como alla federazione del Pci di Milano. Inutile sottolineare che Luigi Gatti, l’uomo che guidava l’Alfa Romeo rossa e Mario Nudi, l’uomo che sedeva al suo fianco furono tra i quindici fucilati a Dongo.

Persino "l'Unità" inseguiva le lettere tra Churchill e il Duce. In un articolo del 1949 a firma di Gianni Rodari si trovano nuove tracce delle trame degli 007 inglesi, scrive Roberto Festorazzi, Mercoledì 29/03/2017, su "Il Giornale". Il 7 luglio 1949, l'Unità, organo del Partito comunista italiano, pubblicò, in prima pagina, in posizione di testata e su quattro colonne, un ampio articolo intitolato: «Due inglesi si sono impadroniti di una parte del tesoro di Dongo?». Si trattava di un servizio, denso di dettagli di prima mano, nel quale veniva rilanciata e accreditata la notizia del disseppellimento di carteggi mussoliniani in Friuli. L'autore dell'articolo era una penna che, di lì a poco, avrebbe acquisito celebrità: il giornalista e scrittore, nonché ex partigiano, Gianni Rodari. Il giornale del Pci, per il rilievo conferito all'articolo, e per il tono generale del servizio, mostrava, non soltanto di essere al riguardo molto bene informato, ma soprattutto di poter contare su fonti di sicuro affidamento. Riferiva infatti l'Unità che, nella località friulana di Marzovalis di Verzegnis, «due persone sono scese giorni or sono da una lussuosa automobile britannica e dopo aver consultato una carta si ponevano a scavare il terreno nelle vicinanze della casa di un tale Filetti. L'operazione era di breve durata: poco dopo i due risalivano in macchina con una cassetta, frutto delle loro ricerche e si allontanavano rapidamente. Che cosa conteneva la cassetta? Testimoni oculari riferiscono di avervi intravisto dei documenti e dei preziosi». Il rinvenimento della preda cartacea, da parte di agenti segreti stranieri, era avvenuto tra le frazioni di Chiaicis e di Intissans, del comune di Verzegnis, in Carnia, non lontano da Tolmezzo. Il Messaggero Veneto era stato il primo quotidiano a pubblicare una notizia di cronaca al riguardo, ripresa, e alquanto sviluppata, come abbiamo visto, dal giornale del Pci. Rodari, per non lasciare nulla all'immaginazione del lettore, aveva poi aggiunto: «Riteniamo di poter affermare che un filo rosso unisce Dongo al villaggio friulano, ed è la targa inglese della macchina a fornirci la traccia». L'Unità aveva anche identificato uno dei due misteriosi personaggi che erano discesi dall'automobile straniera: si trattava dell'enigmatico uomo di intelligence Angelo Zanessi, alias capitano Zehnder, che gli Alleati, nell'ultima fase del conflitto, erano riusciti a infiltrare nell'entourage di Mussolini, sul lago di Garda, per carpire al dittatore segreti e carteggi esplosivi. Zanessi-Zehnder si era mimetizzato abilmente nella colonna italo-tedesca, fermata a Dongo dai partigiani, ed era stato autore di una delle più vaste operazioni di recupero dei fascicoli duceschi spariti sul lago di Como, nelle giornate di fine aprile del 1945. Parte dei materiali, era stata da lui occultata in Friuli, già alcuni mesi dopo la caccia grossa di Dongo. Ora, poniamoci la domanda più interessante: perché l'Unità scelse di sparare una notizia che aveva le sembianze di una indiscrezione? Perché, evidentemente, al Pci constava, con assoluta certezza, che, tra le carte trafugate a Dongo, vi fosse anche il famoso epistolario intercorso tra il Duce e Winston Churchill. Scrive infatti il cronista d'eccezione Gianni Rodari: «Tornano in scena gli inglesi e con essi torna in scena Churchill. Il vecchio leone conservatore ha soggiornato a lungo, come si sa, dopo la Liberazione, sul lago di Como. Anch'egli inseguiva qualcosa che Mussolini portava con sé al momento della fuga. Nei giorni scorsi si è appreso che Churchill ha prenotato una villa di dodici locali sul lago di Garda per trascorrervi un periodo di riposo. Alla luce degli ultimi avvenimenti il nuovo viaggio di Churchill acquista lo stesso sapore del primo».

Bum. Con quasi venti di giorni di anticipo, sul suo arrivo in Italia, l'Unità era riuscita a pubblicare la notizia della nuova, strana vacanza dello statista britannico, nel cosiddetto Lake District della Lombardia ove si erano svolti gli eventi dell'epilogo del capo del fascismo. Villeggiature alquanto sospette, che consentivano al leader politico d'Oltremanica di coordinare, sul campo, la ricerca di spezzoni della sua corrispondenza con il Duce, i quali, per un dispetto della storia, parevano essersi talmente dispersi, segmentati, da rendere problematico, se non impossibile, il loro integrale recupero. Ecco perché, all'affacciarsi di ogni nuova minaccia, riguardante l'esistenza di sue lettere segrete a Mussolini intercettate in Italia, Churchill, puntualmente, si precipitò nella Penisola, in zona di operazioni.

Nel pomeriggio di lunedì 25 luglio di quel 1949, l'ex premier inglese, sbarcato da un bimotore da trasporto C-47 Dakota atterrato all'aeroporto di Orio al Serio, si installò così in un'intera ala del Grand Hôtel di Gardone Riviera, insieme alla sua corte di fedelissimi, tra i quali due detectives di Scotland Yard. Che fosse venuto esclusivamente a dilettarsi di pittura, come sostengono, da sempre, non soltanto gli storici inglesi, negazionisti in materia, ma anche taluni loro colleghi italiani, come i malinformati Mimmo Franzinelli e Gianni Oliva? Difficile crederlo.

Frederick William Deakin, stretto collaboratore di Churchill, il quale viaggiò al seguito dello statista conservatore in questa seconda vacanza nella Penisola, nel 1986 ebbe a confessare il genere di pressione, al limite del ricatto, che venne esercitato sull'illustre ospite britannico. Questo il suo racconto: «Una sera, il portiere del Grand Hôtel dove alloggiavamo, mi portò una busta indirizzata a Churchill e che era appena stata consegnata al suo banco. Il plico conteneva copie microfilmate di certi documenti, apparentemente autografi, di Mussolini. Tra essi ve ne era uno del 2 ottobre 1935 relativo alla dichiarazione di guerra all'Etiopia, e un altro del 10 giugno 1940 relativo alla dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla Francia. Il latore del plico aveva chiesto di potersi incontrare con Churchill, ma quando mi recai nella hall non c'era più nessuno. L'episodio, perciò, non ebbe seguito. Io mi limitai ad annotare: Sembra che in questa regione fotocopie di documenti provenienti dagli archivi di Mussolini siano capitate, alquanto misteriosamente, in mano di privati». Occorre aggiungere altro?

Kill Benito, la morte del Duce. Amore, intrighi e misteri nella ricostruzione di Martinelli, scrive Marzia Apice il 13 gennaio 2017 su "L'Ansa". "Soltanto la verità dei vincitori sarebbe sopravvissuta ai morti e si sarebbe alzata nei secoli come un gigantesco monumento funerario, che nessuno scalpello avrebbe mai osato demolire". Entra a gamba tesa in una delle pagine più celebri e oscure della Storia italiana il regista Renzo Martinelli nel suo romanzo d'esordio Kill Benito, edito da Gremese, in cui attraverso una appassionante storia d'amore ripercorre le ultime fasi della lotta partigiana e le vicende della morte di Mussolini. Senza nessun accenno al ventennio fascista ma accendendo i riflettori solo sulle ultime ore di vita del Duce, Martinelli compie una vera e propria indagine per dimostrare che forse ciò che a scuola ci hanno insegnato non è del tutto vero o addirittura completamente falso. Sfidando la versione ufficiale, secondo cui Benito Mussolini e Claretta Petacci vennero fucilati dai partigiani comunisti davanti al muretto di villa Belmonte, a Giulino di Mezzegra, alle 16.10 del 28 aprile del 1945, l'autore offre un nuovo punto di vista e una diversa verità. Al centro della nuova ipotesi alcune incongruenze. Perché la camicia e i pantaloni del Duce non presentano fori di proiettili né macchie di sangue? Come fa la traiettoria dei colpi di pistola (dall'alto verso il basso, secondo le ferite) a coincidere con la morte per fucilazione? E poi ancora, i fori dei proiettili sui corpi di Mussolini e della Petacci hanno l'alone dello sparo a bruciapelo. Secondo quanto scritto nel romanzo, il vero teatro dell'uccisione, avvenuta non il pomeriggio ma alle prime luci del mattino del 28 aprile, sarebbe la casa dei coniugi De Maria, dove il Duce e la sua amante vennero portati dal Capitano Neri dopo la cattura. Questo si legherebbe anche all'interesse degli Inglesi a vedere Mussolini morto per evitare imbarazzi a Churchill (per via del carteggio con il Duce). Oltre alla vicenda della morte del dittatore, Martinelli indaga anche sul famoso oro di Dongo, ossia sulle sei valigie contenenti le ricchezze sottratte agli ebrei del Centro Italia e sequestrate a Mussolini quando venne catturato. Un oro scomparso, e di cui secondo l'autore si appropriò indebitamente il Partito Comunista Italiano. Tra intrighi e misteri, e mentre si snoda la storia d'amore tra il Capitano Neri e la partigiana Gianna, emerge un libro intenso, ben costruito, che non perde mai il suo ritmo coinvolgendo il lettore dalla prima all'ultima pagina grazie a una prosa chiara e scorrevole. Ma il pregio più grande, nello stile a cui Martinelli ci ha abituato nei suoi film, è quello di far nascere delle domande e insinuare il dubbio in chi legge, senza paura di urtare dogmi ideologici o verità acquisite. Facendo sua la convinzione di Jorge Luis Borges che "la Storia è un atto di fede", l'autore apre la porta nuove possibilità, senza fornire risposte certe, ma solo dettagli, ragionamenti, informazioni. Lasciando come sempre al pubblico il compito di prendere posizione.

Mussolini, il regista Renzo Martinelli: "Nel mio film mostro come è morto davvero". Intervista di Annamaria Piacentini del 26 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. L' appuntamento con il Maestro Renzo Martinelli per questa intervista esclusiva è fissato a metà mattinata in un elegante studio romano. Incontrare un regista come lui, capace di girare film di denuncia in un Paese dove la verità è un optional, è un'esperienza davvero interessante. Ne diventa un narratore attento, senza perdere il suo encomiabile self control. Di lui ti colpisce l'onestà intellettuale e lo sguardo morale che regala alla sua Italia, quando racconta quelle pagine mai dimenticate di cui nessuno ha avuto il coraggio di parlare. Il suo cinema diventa cronaca vera, dal Vajont, la diga del disonore, a Piazza delle cinque lune, sul caso Moro, un mix tra politica e cronaca fino a Ustica, quando il DC9 della compagnia Itavia il 27 giugno del 1980 scompare dagli schermi dei radar e si inabissa nel Mediterraneo tra Ponza e Ustica. Sono film a rischio di cui era consapevole sin dall' inizio.

Quanto le è costato in termini morali fare un film su l'affaire Ustica?

«Me l'hanno fatta pagare! Il film è andato nei cinema per pochi giorni e poi è sparito. Con il film su Moro è accaduta la stessa cosa. Ma ora lo studiano alle Università e tanta gente lo ha rivalutato».

Ha 3 lauree ed è un ottimo regista. Chi glielo fa fare di parlare di verità taciute in questo Paese?

«Dovrebbe essere necessario perché la nostra società non ha più memoria. Ritengo che il dovere di un intellettuale sia quello di evocare la verità e di comunicarla. Mi piace questo tipo di cinema che recupera le vicende accadute per riproporle sotto un'altra luce. Ma non sempre c' è chi le accetta».

Per esempio? 

«Due mesi prima dell'uscita del film volevo anticipare la notizia. Ho contattato il direttore de L' Espresso che è stato entusiasta dell'interesse verso il suo giornale, ma il giorno dopo mi ha richiamato dicendomi che la storia non andava bene per la sua linea editoriale. Stessa cosa con Panorama». Come l'ha presa? «Ho capito. Viviamo in tempi in cui se non vai nei talk show, non esisti. L' ufficio stampa ha provato anche questo canale, ma nessuno ne ha voluto sapere. Eppure il film l'ho girato dopo aver approfondito l'argomento con il giudice Priore».

Cosa le ha detto Priore?

«Che se un magistrato dovesse provare la collisione con un caccia americano sarebbe complicato anche per un problema di giurisdizione».

Omertà?

«In tutto il mondo è così. Ci sono delle ragioni di Stato che lo impediscono. Dopo 30 anni l'idea di un missile che ha provocato l'incidente di Ustica, viene ancora rifiutata. Siamo dipendenti dal governo americano. Abbiamo bevuto per anni che Saddam Hussein aveva le armi di distruzione totale. Invece non hanno trovato nulla».

E delle stragi in Italia?

«In 70 anni di storia repubblicana non c' è un episodio su cui possiamo dire con certezza di sapere la verità: l'Italicus, il caso Moro, Mussolini, questo fa capire che c' è una ragion di Stato che ha occultato e costruito».

Deluso?

«No, continuo per la mia strada. È un dovere anche verso i giovani. Solo studiando il passato possiamo guardare al presente. L' incomprensione nasce dall' ignoranza del passato».

Un passato che porterà sul grande schermo con due nuovi film.

«Il primo è una storia d' amore ambientata nel '66 durante l'alluvione di Firenze, con Riccardo Scamarcio nel ruolo di un bandito che decide di evadere dal carcere nel giorno sbagliato. L' antagonista è una bella ragazza francese che fa la restauratrice a Firenze».

Nel secondo si ispira a una storia vera.

«Sono laureato anche in Scienze politiche, la ricerca storica e politica mi interessa. Il film è concentrato sulla morte di Mussolini avvenuta vicino al lago di Como. La porterò sul grande schermo come è realmente accaduta, cambiando la versione dei partigiani comunisti. Solo così il cinema diventa cronaca vera». Di Annamaria Piacentini

Renzo Martinelli svela il suo progetto: un film sulla morte di Mussolini, intervista di Gemma Gaetani su “Libero Quotidiano.

Perché crede che nessun altro media come il cinema sia in grado di stimolare con potenza riflessioni sulla realtà?

«Il cinema ha un potere maieutico che nessun altro mezzo ha. Non ce l’ha la musica, non ce l’ha la scrittura, non ce l’ha la pittura. Ed ha una capacità così forte di imposizione della verità che a volte supera le verità processuali. Pensa a JFK di Oliver Stone. È stato così potente che ha superato una verità giudiziaria che va da tutt’altra parte. Il cinema è un mezzo straordinario. Ovviamente non lo dico io. Mussolini nel 1936 col figlio Bruno fondò Cinecittà, c’è una foto, famosissima, di una scritta gigantesca vicino al Duce: “La cinematografia è l’arma più forte”. L’aveva capito Lenin, lo avevano capito Stalin, Mussolini. Il cinema è un’arma potentissima perché ha un potere di fascinazione enorme e quello che tu vedi sullo schermo si sedimenta come verità. Questa è la sua forza».

Soprattutto se quello che si vede sullo schermo è la vera verità.

«A me piace molto questo tipo di cinema, dove c’è una verità manipolata o rimossa ed io, attraverso l’indagine e la trasposizione drammaturgica dell’indagine, la ripropongo allo spettatore. È il compito di un intellettuale. Un intellettuale dovrebbe evocare la verità e comunicarla, se no che intellettuale è?».

Infatti molti suoi film sono dedicati alla ricerca della verità su enormi tragedie che ci riguardano tutti.

«Il filo conduttore è che c’è sempre una verità che è stata rimossa da una ragion di Stato. Quando vado all’università a fare delle lezioni, cerco di spiegare ai ragazzi che la Storia non la scrivono gli storici. La scrive la ragion di Stato. Ciò che essa lascia affiorare si sedimenta come verità, ma che è la verità della ragion di Stato. Se tu analizzi i settant’anni di storia repubblicana, la morte di Mussolini, Porta delle Ginestre, Piazza Fontana, l’Italicus, il caso Moro, Ustica, Bologna, non c’è un solo episodio delittuoso-stragistico su cui possiamo dire con certezza che sappiamo cos’è accaduto. Questo ti fa capire con quale forza la ragion di Stato entra in gioco e manipola la verità».

Lei non possiede l’egotismo tipico dei registi italiani superstar che si fregiano di essere impegnati.

«No, perché il chirurgo opera e guarisce persone, il dentista ripara le carie, io faccio film. È il mestiere».

Fa i film ma li sceglie assai spesso d’indagine.

«Una delle mie lauree è in Scienze Politiche con indirizzo storico. La mia passione per la Storia nasce lì, ecco perché mi piace questo tipo di cinema. Poi a volte non riesco a farlo, mi tocca fare altre cose, come Barbarossa o Carnera. Non sempre fai i film che vuoi fare, che hai in testa, a volte devi fare i film che ti si presentano. Per esempio, sono vent’anni che cerco di fare un film sulla morte di Mussolini e nessuno me lo vuol far fare. E ti assicuro che i nostri ragazzi studiano, a scuola, una storia che borgesianamente non è accaduta. È la più gigantesca bufala del Partito Comunista di questi ultimi settant’anni. Eppure, resiste ancora. L’idea di fare un film così fa cascare dalle sedie i funzionari della Rai. Prima o poi lo farò. Anche di Porzûs mi dicevano: “Non lo farai mai”, e poi l’abbiam fatto. Perché si toccava un tabù che è la Resistenza, che in questo Paese è intoccabile».

Il rapporto italiano col fascismo è come quello col nazismo in Germania?

«C’è stato un processo di rimozione collettiva. Che ci impedisce di affrontare con serenità quel momento, quegli episodi. Sulla morte di Mussolini non esiste nulla. Abbiamo documenti filmati della fucilazione di gerarchi di secondo piano, ma nulla sulla sua morte, se non quello che ci hanno raccontato i comunisti sull’Unità. Mussolini prima o poi lo faremo. È doveroso raccontare ai ragazzi che non è andata così. Questa vulgata comunista che resiste da settant’anni sottoposta ad analisi non sta in piedi».

E com’è andata, invece?

«Viene fatto fuori alle prime ore del mattino dai Servizi Segreti inglesi. Churchill lo voleva morto, non voleva che arrivasse vivo al processo. Secondo i comunisti, invece, viene ammazzato intorno alle 16:30 del 28 luglio davanti al muretto di Villa Belmonte. Abbiamo ingrandito le foto di Mussolini appeso a Piazzale Loreto, non ci sono fori nei pantaloni o nella maglia. Quindi lo hanno rivestito dopo morto. C’è un foro passante nel sottogola che esce dalla nuca: colpisci uno, appoggiato a un muro, nel sottogola! Non lo prenderai mai... C’è una rimozione totale su quest’uomo. Paradossalmente, non interessa né a destra né a sinistra».

Beh, al pubblico di destra questo film interesserebbe.

«Tesoro, il cinema si fa col denaro. Chi mette il denaro? Ho proposto il film in Medusa, alla Rai, nessuno ne vuol sentir parlare. Il fatto che non entri la Rai fa partire svantaggiati. Ustica lo abbiamo fatto senza la Rai, che non ha voluto mettere una lira. Ho dovuto accattonare denaro in mezza Europa per Ustica. È stata un’impresa epica».

Forse credono che anziché indagare sulla verità storica lei voglia girare un film su Mussolini per dire che «si stava meglio quando c’era lui»...

«No no no. È solo per dire che non è andata così. Il più grande storico europeo è stato Marc Bloch. Diceva: “Il giudice e lo storico hanno un dovere in comune: l’onesta sottomissione alla verità”. Se le tue ricerche ti portano a contrastare una tua ideologia, tu le devi seguire. Questo è il dovere: l’onesta sottomissione alla verità. Io vado dove mi portano i documenti. È il dovere di uno storico». Di Gemma Gaetani

Quando si è fuori dal coro, si han contro tutti…

Da destra. Film su Moro con polemica, scrive il 9 maggio 2013 “La Repubblica”. Esce oggi in 200 sale Piazza delle Cinque Lune, il film di Renzo Martinelli sul caso Moro, a 25 anni esatti di distanza dal ritrovamento del cadavere dello statista ucciso dalle Br, dentro un'automobile parcheggiata a due passi dalle sedi del Pci e della Dc. Interpretato da Donald Sutherland, Giancarlo Giannini e Stefania Rocca, il film ha ricevuto la "benedizione" della famiglia Moro ed è stato realizzato con la consulenza dell'ex senatore Sergio Flamigni, che all' argomento ha dedicato per anni approfondite inchieste. «Questa non è la verità ma si avvicina molto alla verità» dice il regista, riferendosi ai molti lati ancora oscuri del caso Moro. E, insieme ai coautori del film, si aspetta polemiche. Che non tardano ad arrivare: un deputato di An, Enzo Fragalà, chiede al ministro Urbani di «verificare la congruità e i requisiti del progetto finanziato con i soldi pubblici dell'Istituto Luce», sostenendo che «da sinistra si è fatta una nuova indecente azione di disinformazione con i soldi pubblici». Allarga le braccia Flamigni: «Quando si dice la verità la querela bisogna aspettarsela. Polemico, d' altronde, lo stesso Martinelli, che se la prende con Bruno Vespa: «Mi chiedo come mai non ospiti a Porta a porta questo Piazza delle cinque lune. Vespa ha detto che è un argomento che non fa audience, ma mi chiedo: di cosa ha paura?». Pronta la replica di Vespa, che afferma di non aver mai detto niente del genere, e che Porta a porta ha dedicato una puntata al caso Moro l'11 marzo, vigilia del 25esimo anniversario della strage di via Fani.

Da sinistra. "Piazza delle Cinque Lune", scrive Renzo Martinelli il 12 maggio 2003 Fulvio Baglivi su "Sentieri selvaggi". Si può vivere senza Rossellini. Il cinema italiano lo ripete da anni e Piazza delle Cinque Lune lo afferma senza esitazioni; forte dei 9 milioni incassati dal precedente film di Renzo Martinelli, Vajont, della presenza di un cast con Donald Sutherland e Giancarlo Giannini affiancati da Stefania Rocca, del suo "linguaggio moderno, accattivante, pieno di suspense e di ritmo" (Martinelli). Il titolo è il nome di una piazza romana, dove sembra che Mino Pecorelli fosse venuto a conoscenza del "Memoriale Moro", e nel film diventa la chiave d'accesso di un dischetto (contenente appunto il mai interamente ritrovato memoriale che Aldo Moro avrebbe scritto durante la sua prigionia) che un brigatista, prossimo alla morte, consegna al procuratore Saracini (Sutherland) appena andato in pensione. La verità? (permetteteci di interrogarci ancora…) proviene dai libri di Sergio Flamigni, in particolare La tela del ragno, che legge il "casomoro" in chiave antiPCI, con gli statisti democristiani (in particolare Andreotti, capo del governo e il ministro degli interni Cossiga) a coprire una manovra di CIA, P2 e SISDE con le BR di Mario Moretti semplice braccio armato al servizio dello spionaggio internazionale (questa parte nel film è spiegata con il cameo di F. Murray Abraham, chiamato Entità, con cui Saracini si incontra a Parigi). Il fine del film è dire tutto questo e per due volte i protagonisti si ritrovano intorno ad un tavolo a snocciolare dati e date. Intorno al "messaggio" Martinelli e il cosceneggiatore Campus costruiscono un giallo-spy-thriller d'ambientazione senese, con il procuratore Saracini affiancato dalla giovane collaboratrice Doni (Rocca) e dal capo della scorta Branco (Giannini), che indaga a partire da un Super8 con le immagini del rapimento di Moro in via Fani consegnatogli da un ex-brigatista ammalato di tumore. Intorno ai tre protagonisti, che incarnano l'uomo che non si arrende all'età (trascurando i consigli della figlia) pur di fare luce sui fatti, la donna in carriera che sacrifica la sua famiglia (nonostante i litigi col marito) sull'altare del vero e della patria a cui Branco è asservito, vi sono le figure del brigatista e del "potere" che agiscono in direzioni opposte e di cui vediamo i volti soltanto alla fine. Schema applicato alla lettera, Hollywood è il riferimento di Martinelli che "omaggia" il "giallo" JFK di Oliver Stone, la saga 007 e l'ultimo thriller di Fincher Panic Room con la mdp che attraversa i corpi (tutto con il digitale) dimostrando quanto sia irrisorio il Caso Moro nella colonizzazione statunitense. Piazza delle Cinque Lune è il rovesciamento di pensiero e opere di Rossellini, qui la verità non è qualcosa da ricercare attraverso la forma, è già data all'inizio (la frase di Solone La giustizia è come una tela di ragno: trattiene gli insetti piccoli mentre i grandi trafiggono la tela e restano liberi) e il film ne è una spiegazione (che finisce appunto con l'immagine della ragnatela). Martinelli continua a credere che falso su vero è uguale a vero (come già in Porzus e Vajont), con tecnica pubblicitaria (e la macchina che corre nella campagna senese svela le sue origini) sa qual è il prodotto a cui vuole arrivare e ci costruisce intorno improbabili fiction, svilendo il cinema a mero linguaggio/mezzo con cui giocare a piacimento. Finché resterà questo lo Stato del cinema italiano noi continueremo a stare con le Brigate Rosse(llini).

Il precedente-fotocopia nel film «Piazza delle Cinque Lune». Quanto raccontato dall’agente era già stato documentato nella pellicola di Martinelli sul rapimento dello statista Dc, scrive il 26 Marzo 2014 “Il Tempo”. Un misterioso uomo sta per morire a causa di un tumore. Non vuole portarsi nella tomba alcuni segreti, di cui è al corrente, sul rapimento di Aldo Modo e decide, prima di passare a miglior vita, di rivelare che il 16 marzo 1978, in via Fani, a bordo di una Honda, c’erano due agenti dei servizi segreti: uno era lui, seduto sul sellino posteriore della moto. Può sembrare la storia svelata, nei giorni scorsi, dall’ex ispettore di polizia Enrico Rossi, sulla base di una lettere anonima di cui è entrato in possesso nel 2011. E invece no. È la trama di Piazza delle Cinque Lune, un film del 2003 diretto da Renzo Martinelli, ispirato proprio alla vicenda del rapimento e l’omicidio dello statista democristiano da parte delle Br. Una ricostruzione fantasiosa, quella di Martinelli, priva di qualsiasi ancoraggio alla realtà, ma identica, in quel passaggio, alla versione rivelata dall’ex poliziotto. Nella lettera anonima inviata nel 2009 a La Stampa, su cui Rossi ha indagato, si legge: «Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte (…). Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando (…). La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo (…); il nostro compito era quello di proteggere le Br». Ed ecco, invece, il dialogo, tratto dal film di Martinelli, fra un componente del commando di via Fani, misterioso pure lui, e il giudice Rosario Saracini, interpretato da Donald Sutherland: «Ricorda la moto Honda? Quello dietro che spara con il mitra? Quei due non li avete mai trovati. Io ero seduto dietro». E quando il giudice chiede il perché di quella «confessione», dopo tanti anni, l’uomo risponde: «Ho un tumore, mi hanno dato due mesi, forse meno. Non voglio portarmi la verità nella tomba. Sono state dette così tante bugie». Sia nel film che nella lettera, lo 007 è seduto sul sellino posteriore; la malattia terminale è alla base della «lettera confessione» che ha scatenato nuove teorie sul rapimento Moro, e della «confessione verbale» rilasciata, nel film, al giudice Saracini. C’è dell’altro. In Piazza delle Cinque Lune al giudice viene consegnata una pellicola inedita con impressi i momenti drammatici del rapimento del presidente della Dc. Nel filmato compare un uomo con un impermeabile: è Camillo Guglielmi, il colonnello del Sismi che nella realtà, la mattina del 16 marzo 1978, si trovava in via Stresa, nei pressi di via Fani. Ed è lo stesso Guglielmi citato nella lettera che ha dato il via all’ennesimo mistero sul caso Moro. Un’incredibile similitudine tra fiction e «presunta» realtà.

"La nuova verità del caso Moro? Era già raccontata nel mio film". Parla il regista Renzo Martinelli che girò "Piazza delle Cinque Lune", scrive il 27 Marzo 2014 “Il Tempo”. La trama del film Piazza delle Cinque Lune «ispiratrice» delle nuove rivelazioni sul rapimento di Aldo Moro? La lettera anonima su cui ha indagato l’ex agente Enrico Rossi, che parla della presenza di due agenti dei servizi segreti in via Fani, a bordo di una Honda, è solo una «patacca» camuffata da nuova verità? Le similitudini fra il film, del 2003, e il contenuto della lettera che risale al 2009 e che è stata scritta da un misterioso 007, sono impressionanti. E se è vero che Piazza delle Cinque Lune va oltre nella fantasia, mettendo in scena delle Br infiltrate anzi comandate dalla Cia, è altrettanto vero che molti particolari presenti nel film e nella lettera, sono praticamente indistinguibili. Una coincidenza? Oppure una storia quantomeno «orientata» dal film? Ne parliamo con il regista di quel film, Renzo Martinelli.

Allora, le analogie tra il film e la lettera anonima sono impressionanti. Cos’ha pensato quando l’ha letta?

«Sono rimasto sconcertato perché confermano quanto abbiamo sostenuto dieci anni fa nel film. Solo che all’epoca tutti ci hanno ignorato. Ciò che avevano messo in scena con Piazza delle Cinque Lune trova oggi un’incredibile conferma».

L’autore della lettera dice di essere un agente segreto in fin di vita che vuole «confessare» prima di morire. Anche l’uomo che nel film consegna al giudice il filmato inedito su via Fani ha una malattia terminale. Una coincidenza?

«La nostra era un’invenzione drammaturgica. L’uomo che avvicina il magistrato era un brigatista che faceva parte del commando e che prima di morire vuole rivelare la verità sulla dinamica dell’agguato. Ora la realtà supera la fantasia. Quanto alla malattia, beh, la gente muore di tumore tutti i giorni. Probabilmente si tratta di una coincidenza».

Nel film l’uomo che confessa dice che la mattina della strage era seduto sul sellino posteriore della Honda. La stessa versione di colui che ha vergato la lettera.

«Credo sia un’altra coincidenza. D’altronde la moto aveva una funzione indispensabile per la perfetta riuscita dell’operazione».

Ancora un’altra similitudine. Lei nel film parla del ruolo del colonnello del Sismi Camillo Guglielmi; l’autore della misteriosa missiva afferma di essere stato al suo servizio in via Fani. Un’altra coincidenza? Che Guglielmi fosse presente all’angolo tra via Fani e via Stresa, da dove assiste all’agguato, è un dato di fatto. Guglielmi, poi, non è un colonnello qualunque, è uno che insegna agli uomini di Gladio le tecniche d’imboscata. Dunque per lei è verosimile anche, come scritto nella lettera, che sulla moto fossero presenti due agenti dei servizi segreti italiani?

«Non è solo verosimile, è la realtà. È questa la verità. Sono assolutamente convinto che quanto scritto nella lettera sia vero».

Ritiene, quindi, che dopo tutti questi anni si stia andando verso la verità su quella tragica pagina della storia italiana?

«Nessuno conosce la verità sul caso Moro, ma sono sicuro che quell’operazione avesse delle coperture ad alto livello. Come sempre, però, col tempo si creano delle smagliature. Questa lettera può rappresentare la prima. Magari fra 30 anni scopriremo che probabilmente la nostra ricostruzione era tutta corretta».

Nel suo film, però, lei va oltre, teorizzando che dietro le Br ci fosse la Cia.

«Quando parlo della Cia come "regista" dell’agguato di via Fani è perché l’intuito mi porta là. In via Fani c’è stata una manovra d’attacco militare perfetta. Oltre ai brigatisti c’erano degli specialisti. Sì, le Br erano eterodirette».

Non pensa che l’autore della lettera possa essersi lasciato suggestionare, o addirittura guidare, dal suo film?

«Lo escludo. Credo che chi ha messo nero su bianco quelle parole è solo un uomo che ha raccontato un pezzo di verità coincidente con un altro pezzo di verità che noi avevamo già svelato».

Martinelli: "Contro tutti, al servizio della verità: vi racconto il mio cinema". Dai comunisti alla Lega "alle cantanti che fanno film": intervista di Dario Crippa senza peli sulla lingua al regista Renzo Martinelli il 26 giugno 2016 su “Il Giorno”. Era ancora un ragazzo quando uscì nelle sale Effetto notte di Truffaut. "E innamorandomi di quel film, come tanti della mia generazione, decisi che un giorno avrei voluto fare il regista". Ci è voluta però molta gavetta, anni a girare documentari, spot pubblicitari, video musicali. Ma alla fine, Renzo Martinelli da Cesano Maderno – già 10 film all’attivo - è diventato pure lui un cineasta. Massacrato spesso dalla critica, discusso, rompiscatole, ma un cineasta.

Partiamo dall’inizio.

"Nasco a Seveso il 4 ottobre 1948, ma cresco a Cesano Maderno".

Cosa faceva la sua famiglia?

"Papà era falegname, mamma faceva le pulizie, ho un fratello più piccolo".

Origini umili.

"Mi hanno insegnato a essere consapevole delle mie radici e mi hanno costretto a lavorare. Sempre. D’estate facevo il cameriere in un ristorante di Varedo, e dopo la maggiore età sono diventato istruttore di guida per pagarmi gli studi...".

Gli studi li fa a Milano.

"Tre lauree: Lingue e letterature straniere, Comunicazione sociale e Scienze politiche".

E poi?

"Ho fatto il documentarista col grande direttore della fotografia Lamberto Caimi: con lui ho imparato sul campo a fare il regista...".

Cosa significa?

"Oggi tutti fanno i registi, anche comici, cantanti, mignotte... ma in pochi conoscono la tecnica, occuparsene – curiosa eredità del Neorealismo - è considerato plebeo, quando invece pittori come Vermeeer o il Perugino impastavamo personalmente i colori: questo era essere un Maestro e questo ho sempre tentato di essere io. La mia fortuna è stata quella di andare a bottega come nel Rinascimento. Un aneddoto?".

Prego.

"Una volta sul set feci una scommessa con l’attore Harvey Keitel: avrei girato dieci primi piani diversi di lui senza muovere la macchina. Con suo grande stupore (ride) dovette darmi i 100 euro in palio!".

Vantaggi di questo modo di girare?

"Risparmi decine di migliaia di euro... i miei colleghi danno il primo ciak di pomeriggio, prima devono attendere che il set sia preparato. Io invece faccio tutto da solo e inizio alle 8 di mattina. E anche con gli attori...".

Cosa?

"Il tipico regista italiano sta sotto un tendone davanti a uno schermo a 50 metri di distanza dal set, e per ogni scena l’aiuto regista deve andare a dare istruzioni all’attore... Risultato? Perdi ogni volta in adrenalina. Se invece conosci bene la tecnica, hai un rapporto più carnale con l’attore, non ti sente distante, con spreco di energie ed emozioni continuo... insomma, quando si gira io sono in macchina, vicino al set".

Si dovrebbe fare sempre così?

"I più grandi registi, da Kubrick a Spielberg, stanno in macchina”.

Quali sono i suoi modelli?

"Oliver Stone, autore di film di grosso impegno civile e coraggio".

In Italia?

"Il cinema civile di Rosi, Petri, Damiani. In tanti dopo il ‘68 pensavamo si potesse finalmente indagare anche con i film, c’era un grosso interesse sociale...".

E invece?

"Poi però la paghi in sala. Un proverbio arabo dice che gli uomini somigliano al loro tempo più che ai loro padri. E oggi interessa solo l’immediato: io invece tento di affrontare momenti della storia di questo Paese".

Perché?

"In settant’anni di Repubblica non c’è un solo episodio che non sia rimasto un mistero, in cui la verità non sia stata manipolata, da Portella della Ginestra alla strage di Piazza Fontana o Ustica. La ragion di Stato interviene sempre pesantemente. Borges, il grande scrittore argentino, diceva: “La storia è un atto di fede”. Ecco, credo che la forza maieutica del cinema invece possa avvicinare alla verità...".

Il 27 giugno ci sarà l’anniversario di un’altra strage, quella di Ustica (1980, un aereo si squarciò in volo, 81 morti). Lei gli ha dedicato il suo ultimo film, Ustica appunto.

"Quando decido di lavorare a una storia faccio un lavoro di documentazione enorme, ho avuto la fortuna di conoscere il giudice Priore, che mi ha consegnato un dischetto con le 5mila pagine della sua sentenza. E mi resi conto che già a pagina 118 si parlava di pezzi di un caccia americano rinvenuti in mare che facevano pensare a una collisione in volo...".

Su quel disastro vennero fatte tre ipotesi: il cedimento strutturale dell’aereo, una bomba nella toilet, un missile francese che l’avrebbe colpito per errore. Lei ne avanza una quarta: un caccia americano che inseguiva un Mig libico...

"Solo dopo 8 anni si andò a cercare nel fondale, la Dc aveva fatto in modo che non lo si facesse prima, ma si scoprì che qualcuno era già andato di nascosto a recuperare i rottami".

Lei ha toccato temi scottanti: le violenze partigiane, il Vajont, il delitto Moro, il terrorismo islamico... La critica spesso però l’ha demolita.

"In Italia se non appartieni a una parrocchia, te la fanno pagare... ho subito critiche impietose e a tratti offensive".

Lei a quale parrocchia appartiene?

"A nessuna... e non voto da anni. Cerco solo di fare film che mi interessano: con Porzûs sono andato contro i comunisti, con Vajont-La diga del disonore contro la Dc... Lo storico francese Marc Bloch diceva che il giudice e lo storico hanno un dovere in comune, “l’onesta sottomissione alla verità”. Il mio dovere di cineasta, come in Ustica, era di comunicare la verità che ho scoperto".

“Regista uscito dalla pubblicità” è uno dei marchi malevoli che le hanno affibbiato.

"Anche perché col mio cinema cerco di far convivere impegno civile e spettacolarità e i critici non me lo perdonano".

Prima di approdare al cinema, è vero però che ha fatto tanta pubblicità...

"E non me ne pento: l’ho fatto per 10 anni e ho imparato il lavoro di sintesi, un’esperienza che mi ha aiutato molto a curare l’immagine e il ritmo".

E...

"Ho girato anche sigle televisive come La Notte Vola con Lorella Cuccarini e tanti video musicali, da Battiato ad Alice".

Divertente?

"(ride) I Van Halen (gruppo hard rock, ndr) prima del ciak pretesero due casse di whisky!".

Dice che non apparteneva a nessuna parrocchia, però girò Barbarossa, film fortissimamente voluto dalla Lega Nord.

"Me lo propose la Rai: mi incuriosiva fare un film d’azione con grandi scene di battaglia e accettai... tutto qui".

Non andò tanto bene.

"In Italia fui massacrato, ma è stato il film che è stato venduto di più all’estero, 60 Paesi! Lì delle nostre polemiche non interessava niente".

Fece fare una comparsa anche a Umberto Bossi.

"Compare in una scena da fermo, ma non ho mai avuto nessuna richiesta o intromissione, non mi è stato chiesto nemmeno di far recitare qualche raccomandato come accade quando c’è di messo un partito. Però...".

Però?

"La Lega fagocitò quel film e fu un danno, perché scatenò critiche feroci".

Lei insegna anche cinema. Per fare un buon film, cosa conta di più: soggetto, sceneggiatura, attori?

"Da una buona sceneggiatura può uscire un buon film, senza no... è la base di una macchina molto complessa in cui ti trovi a muovere molto denaro".

Quanto costano i suoi film?

"In media, dai 3 ai 6 milioni di euro. Ma il confronto con altri Paesi è impietoso... Solo la scena della lotta con l’orso nel recente Revenant è costata 3 milioni di dollari, la stessa cifra che mi ci è voluta per girare tutto Ustica!".

Il suo attore feticcio?

"Murray Abraham: a lui mi lega un’amicizia vera, affetto, mi invita spesso a New York a trovarlo... lavorare con lui è come guidare un purosangue, è talmente bravo che fa subito scene perfette. Con lui spesso basta un solo ciak... trovo stupido chi ne fa 200 per una scena, non puoi spremere un limone per ore".

Il film a cui è più legato?

"Vajont, esperienza umana irripetibile. Quando andai la prima volta a Longarone, la gente aveva ostilità e rancore nei miei confronti. Quando però videro l’impegno che ci mettevo, le ore passate sul set, alla mattina cominciai a trovare cesti di frutta e salami davanti a casa".

E dopo il film?

"Ebbi la folle idea di organizzare l’anteprima davanti alla diga del disastro, c’era una tensione da tagliare col coltello e migliaia di persone sedute lì davanti a vederlo. Andò bene. Oggi mi adorano e mi hanno anche dato la cittadinanza onoraria".

Progetti?

"Mi piacerebbe fare un film sulla morte di Mussolini, altro evento su cui non è mai stata fatta luce. Ho già fatto uno studio approfondito scoprendo verità molto scomode, ma l’Italia è un Paese di pavidi... e per ora non trovo nessuno che mi appoggi. Intanto conto di farne comunque un libro".

La felicità per il regista Renzo Martinelli?

"È il momento in cui vedi proiettato per la prima volta la tua pellicola, punto di arrivo di un percorso costato magari anni di lavoro, con la consapevolezza che il tuo film rimarrà nella storia. Con Piazza delle Cinque Lune, dedicato al caso Moro, andò così: contestato all’uscita, oggi è oggetto di studio nelle università".

Piazza delle 5 lune: la sfuggente verità sul caso Moro, scrive Nicola Cappelli il 19 agosto 2010 su "Orizzonte Universitario". Piazza delle Cinque Lune: qui fu ammazzato da ignoti il giornalista Mino Pecorella, direttore della rivista Osservatorio Politico, famosa per i suoi scoop e la pubblicazione di notizie riservate. Pecorella aveva promesso ai suoi lettori per il giorno successivo lo svelamento di un fascicolo in suo possesso, che avrebbe illuminato il caso Moro, dissolvendo la sua nebbia grazie al memoriale dello statista democristiano. Non potè mai il povero giornalista rivelare ciò che sapeva, dei suoi documenti non si trovò mai più traccia. Il film Piazza delle Cinque Lune, unico film “approvato” dalla famiglia Moro (le altre riduzioni sono state tutte senza scampo stroncate dai familiari del presidente DC, contestando inoltre il fatto che i registi si siano sempre serviti di ex brigatisti come consulenti), narra la storia di Rosario Sarracini, piccolo procuratore di provincia: la vita sua e dei suoi collaboratori sarà sconvolta quando – mentre è ormai prossimo al pensionamento – un brigatista ignoto lo avvicina e gli consegna un microfilm con le riprese della strage di via Fani, rivelandogli di possedere il memoriale di Aldo Moro. Scatenerà così la curiosità dell’ex procuratore, la quale finirà per diventare morbosa, ossessiva, irrefrenabile e quasi irrazionale pulsione verso la Verità. E’ proprio sul motivo della ricerca della Verità che si incunea tutto il film, simboleggiata dal memoriale introvabile. La Verità è il filo conduttore, la vera protagonista del film; ma il rapporto con lei è conflittuale: da una parte la si desidera ardentemente, con tutte le proprie forze, ci si tende verso di lei in uno spasmo, tentando disperatamente di raggiungerla, ma d’altra parte lei si cela a noi e si sottrae ai nostri sguardi; è il senso stesso che muove la vita umana. La Verità è ciò che cerca il giudice Saracini. Ma la meta sembra lontanissima, anzitutto perché si presenta come una catena di dubbi e di interrogativi, nella quale non appena verrà sciolto un anello subito altri cento se ne troveranno collegati; in secondo luogo per il travaglio che il percorso comporta, per la sofferenza e il dolore che continuamente rallentano il passo del giudice e dei suoi collaboratori; in terzo luogo per la complessità inconcepibile del disegno che sta sotto il mistero da svelare, per lo shock inevitabile che ogni nuova scoperta porta. Alla fine, non si potrà tuttavia che rimanere delusi: proprio mentre Sarracini sta per aprire la porta della Verità, dopo essere riuscito con molte peripezie a procurarsi la chiave, quella porta gli si richiuderà addosso. Perché questo è l’insegnamento del film: non è vero che il tempo è sufficiente a dissolvere la nebbia del mistero, a squarciare il velo del segreto. In mezzo a tutto questo, il regista ripercorre tutte le ipotesi, tutte le sconvolgenti scoperte, le incredibili coincidenze e le tremende scoperte, facendo incarnare in Sarracini tutti i magistrati che si sono spesi per gettare luce sul caso. Ecco dispiegarsi allora davanti a noi la nebulosa del caso Moro. Il risultato di tutto ciò? Poveri illusi: la Verità rimarrà chiusa dietro una porta che non potremo aprire, eterno supplizio di Tantalo. D’altra parte, non è forse vero che la giustizia è come una ragnatela, che cattura gli insetti piccoli, ma finisce rotta dagli individui più grossi? Un film tremendo nelle sue conclusioni e nei suoi insegnamenti, condito da un’atmosfera di ansia e tensione, quella stessa provata da Sarracini. Colpi di scena a ripetizione, rivelazioni di realtà (o meglio, di ipotesi coerenti e verosimilissime) che vanno di pari passo con lo svolgersi cronologico della vicenda: un brivido lungo la schiena e un rivolo di sudore sulla fronte non vi abbandoneranno mai mentre guarderete questo film. Il quale sarebbe troppo semplice definire poliziesco, troppo riduttivo definire inchiesta. La conclusione, pessimista, ci lascia intendere che troppi hanno interesse che la vicenda rimanga insabbiata, troppi lavorano per gettare altre ombre. Non ci resterà, quindi, che unirci al grido di Luca Moro, e rivolgendoci contro gli sconosciuti burattinai, urlare: «Maledetti voi, signori del Potere!». Giovanni Pigozzo

PIAZZA DELLE CINQUE LUNE: FILM STORICO O RACCONTO DI FINZIONE? ANALISI DEL FILM DI RENZO MARTINELLI ALLA LUCE DI NUOVI ELEMENTI STORICI. Relazione di Andrea Lomartire del 2005 pubblicata su "L'Archivio".

INTRODUZIONE. Un film è sempre un fatto narrativo, un racconto formato da un intreccio destinato alla soluzione finale, composto di eventi e di esistenti. Lo statuto è in primo luogo estetico e non politico o storiografico. Tuttavia esiste una narrazione cosiddetta “impegnata” che ambirebbe a divenire cinema politico e che si riferisce ad una serie di opere profonde e minuziose, le quali rifletterebbero, ineccepibilmente, il contesto storico sociale da cui provengono. Si tratta di racconti legati agli uomini della contemporaneità. In questo ambito si può affermare che il primo film politico della cinematografia italiana è quello di Francesco Rosi, Salvatore Giuliano che partendo da un piccolo fatto di cronaca, la morte di Turiddu, il re di Montelepre, inizia un’indagine del contesto politico del periodo, attraversando circostanze e nomi che hanno preso realmente parte in quella intricata vicenda. Da Salvatore Giuliano a all’ultimo Piazza delle Cinque Lune, il cinema italiano ha proposto una serie di opere “politiche” che hanno contribuito fortemente alla formazione di una coscienza storica, morale e nazionale del pubblico italiano. Il fruitore dell’opera cinematografica, lo spettatore, è colui che assume un ruolo importante ancora prima di entrare nella sala e vedere un film. Tale definizione riguarderebbe proprio il film politico, in quanto, l’atto stesso di raccontare una storia si completa nella mente dello “spettatore civile”. Non è soltanto un atto percettivo, un puro meccanismo formale, di relazione tra significato e significante. È molto di più: è in questo modo che lo spettatore dilata la sua consapevolezza sociale, e acquisisce una coscienza critica della modernità in cui egli si trova. Appartenere ad una comunità democratica e civile significa, prima di tutto, vivere coscientemente il ruolo di cittadino. Esisterebbe, quindi, un cinema politico, un cinema che guarderebbe senza troppe velature, alla società in cui viviamo. Lo scopo di questo cinema è quello di ampliare e approfondire la visione storica di quegli eventi che hanno caratterizzato la vita pubblica e civile del paese tentando, al tempo stesso, una interpretazione-sensibilizzazione su alcuni temi scottanti ancora oggi irrisolti: il caso Mattei, l’omicidio di Pasolini, il sequestro Moro, la scomparsa di Matteotti, lo stragismo, il terrorismo, la bancarotta di Michele Sindona, la vicenda di Ambrosoli, la strage di Ustica. Il cinema di questo genere avrebbe, per tanto, una funzione sociale e politica nel senso più filosofico del termine: diverrebbe specchio e memoria di un percorso storico fondamentale per il cittadino e che altrimenti rischierebbe di essere travolto dal magma indistinto e, molto spesso, confuso dell’informazione. Senza la possibilità di studiare il passato, non esisterebbe quella di realizzare un futuro psicologico, sociale e politico. Dunque il cinema è la memoria, il supporto storico e sociale, è la possibilità di sviluppare una coscienza storica e culturale, necessaria per il progresso di una Nazione o Paese, che dir si voglia. Tuttavia, come affermavo all’inizio, non bisogna dimenticare che il cinema è prima di tutto un fatto narrativo, una finzione scenografica, formata da attori e stampata su di una pellicola e riprodotta a 24 fotogrammi al secondo. Nondimeno non si può negare una sorta di autentico impulso di ricerca storica che costituisce uno dei suoi aspetti peculiari: se il cinema è svago, spettacolo, emozione, è anche ricerca storica, indagine, proprio come i film summenzionati, proprio come Piazza delle Cinque Lune, film quasi passato in sordina all’interno del panorama cinematografico italiano. A tale proposito, il regista afferma: «Quando sento parlare di "rinascita del cinema italiano" mi viene da ridere. Su 50 film italiani prodotti, 45 sono commedie. Noi viviamo in un paese che ha avuto 18 anni di terrorismo con 540 morti. Ci sono stati 3 film. Tangentopoli ha prodotto un film. La società e il cinema seguono binari differenti, mentre il tanto criticato cinema americano affronta ogni segmento del sociale: la Cia, Kennedy, la Corea, le multinazionali del tabacco... Io sono cresciuto stimando il cinema di Petri, Rosi, Vancini, Pontecorvo, Damiani, decine di registi che attraversavano il sociale come delle locomotive. Perché è difficile fare un buon cinema civile in Italia? Io spero che questo film serva ai giovani per riflettere». Dunque un cinema la cui funzione è ricordare, sviscerare il passato rimosso, tentando di creare un dibattito acceso e produttivo. Da questo punto di vista il cinema di Martinelli, si veda l’esempio di Porzus o di Vajont, è certamente un alto contributo alla ricerca della verità storica, giudiziaria e al tempo stesso, opera di alto impegno civile e “politico”. Nel caso specifico, come metterò in evidenza attraverso l’ausilio di documenti giudiziari e il confronto semantico narrativo del film, l’impegno civile viene fortemente evidenziato dall’indagine proposta: i misteri di via Fani, le dichiarazioni ambigue di alcuni brigatisti, la dinamica balistica del sequestro. Si tratta di elementi specificatamente giudiziari che finiscono per avvalorare l’ipotesi investigativa del film. Il valore civile emerge nel tentativo di spazzare via la menzogna, l’occulto, e mostrare il possibile complotto. Al centro del film c’è la vicenda di Aldo Moro, la cui storia ha continuato a ispirare alcune opere cinematografiche: Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, quello grottesco e profetico di Elio Petri, Todo Modo, e in fine, anche se con un tono assai diverso, quello di Marco Belloccio, Buongiorno Notte. Tuttavia, soltanto nell’ultimo film di Martinelli si può iniziare a parlare di indagine giudiziaria in cui vengono rappresentati, con tanto di nome e cognome, i principali protagonisti di questa tragica vicenda. La verosimiglianza della narrazione costituisce un alto contributo del cinema di indagine, da divenire, un importante esempio di ricerca storica. Da qui, come analizzerò, prenderanno forma due racconti: quello dei personaggi che compiono l’indagine sul sequestro Moro e quello specifico del caso Moro. Si tratta di due racconti sovrapposti, da cui emerge la particolare struttura del film. Anche da questo, mi preme ricordare, che l’efficacia di un film, e di questo film, è data dalla costruzione narrativa ed estetica del racconto. Tale costruzione è il vero obiettivo del film, il compito di suggerire elementi inquietanti attraverso uno stile specifico e particolare. Solo se si comprende il valore estetico e semantico del film, possono emergere gli indizi inquietanti che lo stesso regista Martinelli ha messo in scena. Il trattamento di eventi storici, riferiti a circostanze esatte e documentate, offrono, indubbiamente, l’idea di un cinema impegnato e “politico”; ma è soprattutto la forma estetica del racconto, il montaggio, l’intreccio, la costruzione narrativa, la sua realizzazione che costituisce la fonte inesauribile del cosiddetto cinema politico e poetico.

1. PIAZZA DELLE CINQUE LUNE, UN FILM POLITICO. «Quando si dice la verità, non bisogna dolersi di averla detta. La verità è sempre illuminante. Ci aiuta ad essere coraggiosi». Si tratta della didascalia iniziale del film, una citazione dello stesso Aldo Moro. E Martinelli, sembra averla presa alla lettera: con questo film ha voluto «tentare un avvicinamento onesto alla verità […] il caso Moro rappresenta un mistero in assoluto […] gli anni di piombo hanno prodotto in questo paese, in 18 anni, più di 500 morti. Questa galassia del terrorismo ha prodotto 3 o 4 film. Quindi vuol dire che la cinematografia italiana è malata. Quando un cinema non interpreta il sociale, non lo vive attraverso i suoi cineasti è un brutto segno». La didascalia, in primo luogo, assume un ruolo fortemente “ideologico”: non soltanto attraverso il racconto che sta per svelarsi al pubblico, ma anche attraverso la scelta di un tema particolare e spinoso come il caso Moro. Il regista è inevitabilmente presente sin da questo livello verbale: la «verità» non è soltanto un punto di vista storico e giudiziario, ma è anche un punto di vista estetico e ideologico, che preme contro l’altro cinema italiano, quello che inconsapevolmente rimuove il dovere di descrivere la storia del paese, quello che dimentica il compito civile e sociale di un arte indirizzata verso l’impegno costruttivo della società. In questo preambolo, il regista introduce lo spettatore all’interno della storia e, al tempo stesso, gli indica una direzione precisa: la ricerca della verità. In oltre, la didascalia si riferisce, inevitabilmente, ad un contesto storico e ad un contesto narrativo. La funzione storica è indicata dalla ricerca di un difficile equilibrio politico sostenuto da Aldo Moro, spinto da un’opera di mediazione e di equilibrio tra le diverse forze del paese. Durante la sua prigionia, lo statista avrebbe analizzato, attraverso le sue lettere, l’assurdo comportamento di uno Stato che si era trovato lui stesso a servire e ad incarnare. Moro tenterà di trattare i suoi “segreti”, elaborando, in più di un’occasione uno scambio con altri prigionieri brigatisti. Sarà un tentativo inutile, scartato in principio dal suo stesso partito. L’unico esito della trattativa sarà quello del 9 maggio: Moro, il suo corpo, verrà ritrovato dentro il cofano di una Renault 5 senza che egli abbia potuto comprendere, probabilmente, la forza oscura di un certo livello della “politica” che lui stesso si era trovato a praticare e poi a interrogare. Dunque la «verità» della didascalia scelta dal regista Martinelli tende a ribadire il significato di ricerca, di mediazione e di accordo che ha caratterizzato l’attività politica di Aldo Moro, fuori e dentro la sua prigionia. Insieme alla funzione storico-biografica, si può rintracciare la funzione narrativa che il film si propone di portare a compimento secondo la migliore tradizione cinematografica italiana. Il film può tranquillamente essere inserito in ambito del cosiddetto cinema politico. Si tratta di osservare come il film tenti di raccontare il “caso” Moro anche attraverso gli “indizi” giudiziari, evitando di limitare la narrazione soltanto al puro intreccio. Il film, mentre racconta la storia del Giudice Saracini, un personaggio inventato, tratta la verità giudiziaria del misterioso sequestro dello statista, avvalendosi di una precisa e dettagliata documentazione e della consulenza del senatore Sergio Flamigni. Dunque, il film argomenta la sua storia intorno alla ricerca di una verità possibile, di una verità giudiziaria tentando di mettere insieme i vari tasselli del caso e trarne un’immagine d’insieme quanto più vicina alla drammatica vicenda dello statista. La ricerca della verità è presente anche attraverso il linguaggio verbale che culmina in molti dialoghi: l’esclamazione di Branco (Giancarlo Giannini), guardia del corpo del giudice, il quale considera il Memoriale un’ossessiva ricerca della verità; attraverso il misterioso agente segreto a Parigi (F. Murray Abraham) che imposta un discorso piuttosto sibillino sulla verità e il corso della storia; o ancora, caso più drammatico, attraverso il marito di Fernanda Doni (Stefania Rocca) che ironizza piuttosto pesantemente sulla ricerca di una verità impossibile che rischia di sfaldare tutta la famiglia. Dunque, da questo punto di vista, il film presume di raccontare la verità sul caso Moro. Le inquadrature, i tasselli del puzzle Moro, sono gli indizi che tentano di ridare il senso di quella verità perduta e attraverso l’ausilio delle immagini girate: il caso estremo, ma verosimile si ha con il sequestro di Via Fani, o ancora attraverso i frammenti di flashback che si palesano improvvisamente sullo schermo durante l’indagine dei tre protagonisti (si pensi all’arresto di Curcio e di Cagol, alle scene di Via Gradoli, l’uccisione di Pecorelli, l’esecuzione del colonnello Varisco). In questa prospettiva, la verità, quella costruita dalla finzione scenica, finisce per divenire l’unico elemento storico giudiziario che mostra il crimine come oggettivamente avvenuto. In tal senso si può scorgere l’ambizione implicita del film, e cioè quella di divenire una sorta di resoconto giudiziario, la versione più verosimile degli eventi che dettero vita al caso Moro. Da un punto di vista narrativo, quello che Seymour Chatman ha definito come la forma del discorso, si può osservare come sia fondamentale il rapporto che si stabilisce tra l’evento raccontato e il punto di vista della macchina da presa. Il film ricorre molto spesso all’inquadratura dall’alto (la panoramica) quasi ad indicare l’importanza di una visione globale che possa mostrare i tasselli del racconto, altrimenti non visibili. Non è certo un caso che il film si chiude con l’ennesima inquadratura dall’alto, la quale, oltre a schiacciare il personaggio del giudice colto di sorpresa dall’incontro con Branco, ribadisce il fatto che “sopra” alla visione provinciale del giudice, o “oltre” il punto di vista ideologico e terroristico delle famigerate Brigate Rosse, vi sarebbe stata una strategia più ampia, di livello internazionale che spiegherebbe la possibilità di un complotto ordito contro il fautore della politica di Solidarietà Nazionale. Il giornalista Willan descrive, nel suo bel volume, I burattinai, tutte le incongruenze dell’affaire: «e, infine, va sottolineata la profonda differenza che esiste – anche a livello psicologico – tra i due modi di muovere l’ “attore di legno”: il burattinaio costituisce un prolungamento della mano del burattinaio, una amplificazione dei suoi movimenti compiuta in positivo; esso prende corpo e vita dal braccio e dalle dita di chi lo manovra: la marionetta invece viene mossa come in negativo, in un modo indiretto, che da qualche marionettista ho sentito paragonare all’atto di suonare uno strumento musicale a corde: richiede dunque un attenzione di tipo razionale». L’interpretazione è presto data: i brigatisti sono stati delle marionette, mosse a loro insaputa da una serie di interessi nazionali e internazionali. Il punto di vista, la veduta su Siena, la visione di Roma, spiega questa fondamentale impostazione narrativa del film. La teoria del complotto prende forma attraverso un’attenta analisi storica e giudiziaria, con precisi riferimenti collusivi tra Stato, servizi segreti e apparati militari. Per Willan il complotto esiste, non è soltanto una teoria, ed è quel movimento “negativo” che appartiene alle diverse marionette che hanno occupato la scena. Lo stesso Sciascia, nel suo acuto scritto L’affaire Moro, aveva osservato che la “verità” e il “punto di vista” sono, in qualche modo, coincidenti: il lettore comprende che tutti i suoi sospetti sono erronei e per questo, sul finire del racconto (il punto di vista) è costretto a ri-iniziarlo, «il lettore, inquieto, rivede i capitoli sospetti e scopre un'altra soluzione, la vera». Dunque, il film nasce come ricerca della verità non più metaforica o simbolica, ma immagine diretta e immediata, come l’organigramma dei Comitati di sicurezza istituiti subito dopo il sequestro Moro, esibito all’interno di un’inquadratura, con i nomi degli affiliati alla Loggia Propaganda Massonica P2. La verità non è più allegorica o sottesa come avveniva in certe opere italiane. Si pensi a Salvatore Giuliano in cui Francesco Rosi evita di citare il nome del ministro degli Interni Mario Scelba che lo stesso Gaspare Pisciotta aveva chiamato in causa durante il processo di Viterbo. Nel 1986 Il caso Moro di Giuseppe Ferrara fa un accenno, se pur minimo, alla loggia P2, ma evita di citare nomi importanti. Il racconto di Piazza delle cinque lune mostra con estrema chiarezza la trama che ha generato l’affaire Moro, evitando di costruire il suo racconto attraverso complicate allusioni storiche o con l’ausilio di complesse forme simboliche. Il film parla chiaro e non risparmia accuse e sospetti. Dove esiste un margine per l’indagine, il racconto penetra la materia storica e tenta di approfondire gli eventi e i comportamenti degli uomini politici che, volenti o nolenti, hanno preso parte alla tragica vicenda.

2. I PRIMI INDIZI. Il film costruisce il suo inizio con due elementi fondamentali: il sequestro di Via Fani e il Memoriale Moro. Si tratta di due aspetti estremamente importanti che, a livello narrativo, servono a ricostruire le circostanze storiche della vicenda Moro e di cui, ancora oggi, persiste un’imbarazzante ambiguità sulla loro dinamica. Sono i primi due “indizi” dell’indagine che il film si propone. Il giornalista fiorentino Marcello Coppetti ricorda come lo stesso Licio Gelli, il capo venerabile della Loggia P2, facesse riferimento ad un filmino relativo al sequestro Moro: «loro erano abituati a filmare tutto, l’avranno anche filmato quando l’hanno ucciso, io credo. Non credo che lui si aspettasse di morire, almeno così mi hanno detto». Lo stesso Willan cita Flaminio Piccoli il quale aveva osservato la scomparsa della “pizza” delle riprese televisive a circuito chiuso che avrebbero registrato ogni attimo delle giornate del sequestro, «tale patrimonio è in possesso di non più di due o tre persone che lo renderanno pubblico, si presume, quando lo riterranno, per loro, più politicamente opportuno». Tale materiale, secondo quanto scrive Il Borghese (17 febbraio 1985) sarebbe stato recuperato in un baule durante l’arresto del terrorista Giovanni Senzani. Forse i servizi segreti ne ebbero una prima visione onde farne un numero di copie. Il giornale ipotizza tre soluzioni:

1. i servizi decidono di tenere il film nei loro archivi senza informare il governo dandone una copia ai servizi di un paese alleato (CIA?);

2. i servizi mostrano il film ad un “personaggio” importante che lo mostra alla corrente politica e ai suoi dirigenti i quali decidono di nasconderlo;

3. i servizi informano l’ufficio della Presidenza del Consiglio della scoperta, e il video è tenuto nascosto come segreto di stato. A presumere tale circostanza è anche lo stesso ex-brigatista Bonisoli durante l’intervista con Sergio Zavoli.

Bonisoli ricorda che tutti gli attimi della prigionia di Moro venivano filmati da una «telecamera a circuito chiuso», ma non da un «videoregistratore». Si è parlato anche del nastro magnetico con la voce di Moro, anche questo mai trovato. Adriano Sofri cita la possibile esistenza del film che ritrarrebbe Moro durante la prigionia e dichiara «che i documenti dell’impresa contro Moro siano stati distrutti “per ragioni di sicurezza” è difficile da credere, per il feticismo brigatista di allora…». Tuttavia, ancora oggi non è dato sapere a chi siano state consegnate le presunte bobine audio e video. Il silenzio di Moretti, come ricorda Flamigni, non fa che ostacolare la ricerca di una verità giudiziaria e storica fondamentale. Tuttavia nessuna di queste testimonianze comproverebbe l’esistenza reale del filmato relativo al sequestro del 16 marzo. Per la realizzazione del film, il regista Martinelli è stato colto da una circostanza simile e in particolare dalla frase sibillina di Gelli relativa al «rapimento del secolo» il quale molto probabilmente era stato filmato dalle stesse Br[20]. Questa ipotesi non fa che avvalorare la soluzione narrativa adottata dal regista, ovvero la messa in scena del rapimento di Moro come documento oggettivo e reale, realmente esistito. Le immagini sono lì presenti e colpiscono tanto il giudice quanto lo stesso pubblico che si sente violentemente catapultato nella tenebrosa atmosfera di via Fani e nella feroce esecuzione: gli eventi visivi, in questo senso, vengono percepiti come veri, come il reale resoconto di quel giorno. Tale funzione narrativa viene descritta eccellentemente da Lotman, attraverso la sovrapposizione di due codici: il livello cinematografico (quello della sala in cui si trova il pubblico o quello della finzione) e il livello filmico (quello della proiezione del super8 di via Fani). Questo fatto fa percepire come “vita reale” o “non-finzione” le immagini della strage proprio perché lo stesso personaggio della storia, il giudice Rosario, guarda quelle immagini proiettate sul muro della sua abitazione. Si tratta della rappresentazione all’interno della stessa rappresentazione, il cinema nel cinema, “lo scherno nello schermo”, per cui lo spettatore è indotto a percepire tutto il filmato del sequestro Moro come realmente accaduto. Tutto il film si baserà sul “ritrovamento” di questo filmato e sull’indagine che i tre protagonisti, il giudice Rosario, la sua assistente Fernanda Doni e il caposcorta Branco, effettuano nelle diverse circostanze del racconto. Questo materiale visivo, inteso come documento storico all’interno della narrazione si basa soprattutto sullo studio di questo filmato, tanto da poter dire che il film Piazza delle cinque lune nasce e si costruisce su questa idea “estetica” particolarmente forte. Il secondo elemento riguarda il misterioso Memoriale Moro di cui si hanno ufficialmente due versioni. Si tratta di analizzare le misteriose rivelazioni che Moro fece ai suoi carcerieri durante l’interrogatorio del “popolo”. Il primo Memoriale venne ritrovato in via Montenevoso a Milano nel 1 ottobre del 1978; il secondo verrà ritrovato nello stesso luogo il 9 ottobre del 1990. Colpisce la strana coincidenza, due memoriali ritrovati nello stesso luogo a distanza di 12 anni: responsabilità dei carabinieri o manovra politica (?), «un muro alzato a regola d’arte», ricorda Sofri proprio mentre ne cadeva un altro, quello di Berlino. Si parlò, ma senza prove, di una consegna da parte del generale Alberto dalla Chiesa al ministro Andreotti. L’elemento più importante riguarderebbe la differenza esistente tra i due memoriali. Nel secondo Memoriale risaltano le parti mancanti: sono evidenziati chiaramente i paragrafi relativi a Gladio (la segretissima struttura militare pronta per un intervento armato contro una probabile invasione dell’Unione Sovietica), i rapporti Andreotti-Sindona (i cosiddetti «pranzi americani» a cui seguiva l’esplicito disappunto di Moro) e i finanziamenti degli Stati Uniti diretti alla corrente democristiana attraverso la Cia. Ovviamente i due “indizi” summenzionati non entrano in scena in modo autonomo, ma sono incastrati nella struttura narrativa attraverso la vicenda del giudice Saracini. Il film è dunque iniziato quando il giudice viene assalito fuori la sua abitazione: «non si tratta di una rapina […] voglio solo che dia un’occhiata a questo», dice l’aggressore che gli consegna un misterioso microfilm. Rosario tenta una prima visione manuale, ma senza riuscire a distinguere gli elementi all’interno del fotogramma. La scena passa immediatamente alla proiezione del Super8, dove prendono forma le immagini della strage del 16 marzo 1978 (ancora una volta l’inquadratura dall’alto). Lo straordinario documento cinematografico ricostruito da Martinelli (in realtà girato in 16mm e in seguito rielaborato in postproduzione digitale) ripropone con particolare minuzia i particolari di quel tragico giorno: la macchina bianca dietro a quella della scorta, l’assalto da sinistra, un altro terrorista che attacca la scorta da destra, la presenza di un misterioso uomo con l’impermeabile e tutta la dinamica del prelevamento di Moro. L’argomento centrale del film è dunque Aldo Moro e la sua apertura al partito comunista di Enrico Berlinguer, iniziata sin dal 1964 attraverso la conciliazione con il partito socialista. Dietro la genesi di un nuovo corso politico che va sotto il nome di Solidarietà Nazionale, i gruppi eversivi di sinistra vedono la minaccia del Potere “imperialista”. Per l’estrema sinistra rivoluzionaria, Moro è il nemico del “popolo” e del progresso sociale di tutto il proletariato. Moro è bersaglio della rivoluzione comunista: «dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino ad oggi il gerarca più autorevole, il "teorico" e lo "stratega" indiscusso di quel regime democristiano che da trent'anni opprime il popolo italiano», per i brigatisti Moro è il fautore della «controrivoluzione», artefice delle politiche «sanguinarie» degli anni ’50, «il padrino politico e l'esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste». E nel secondo comunicato si legge «chi meglio di Aldo Moro potrebbe rappresentare come capo del SIM (Stati Imperialisti delle Multinazionali, ndr) gli interessi della borghesia imperialista? Chi meglio di lui potrebbe realizzare le modifiche istituzionali necessarie alla completa ristrutturazione dello SIM? La sua carriera però non comincia oggi: la sua presenza, a volte palese a volte strisciante». Al momento del sequestro Moro non era certo un politico particolarmente popolare, osserva Willan, poiché rappresentava trent’anni di governi corrotti e incapaci, guidati da un partito criticato. Moro era in oltre definito mister omissis per i suoi numerosi segreti di Stato imposti ai rapporti sugli abusi dei servizi segreti e per le dubbie attività dei compagni di partito per lo scandalo Lockheed. Le attività finanziarie del partito non l’avevano arricchito, poiché egli era effettivamente interessato più al bene pubblico che all’ottenimento del potere fine a se stesso. La sua politica di mediazione lo fece salire al centro della politica italiana da divenire il principale obiettivo dell’eversione rossa e, contemporaneamente, politico poco gradito dalle correnti atlantiche. Se l’argomento centrale del racconto è Aldo Moro, il film pone al centro della scena la storia di un giudice che in un altro tempo e in un altro spazio viene a contatto con il caso Moro. Il racconto è filtrato da un contesto narrativo “estraneo” alla peculiarità del caso Moro e per questo tutti gli elementi che entrano in contatto sono “indiretti” a differenza, per esempio, del film di Ferrara che tratta specificatamente il rapimento Moro dall’inizio alla fine, con tanto di nomi e cognomi seguendo una precisa ricostruzione temporale. Tuttavia il racconto di Martinelli finisce per avere una forte valenza “storica” proprio perché i protagonisti storici della vicenda sono ancora oggi presenti sulla scena giudiziaria e istituzionale del paese. Di fronte ad un evidenza così prorompente, come la strage di via Fani, si presenta il problema principale, lo scopo narrativo, del giudice Saracini. Attraverso il suo “problema”, si gettano le basi per l’intreccio della narrazione: se lo scopo del personaggio sarà quello di indagare sul misterioso filmato, lo scopo della narrazione sarà quello di analizzare tutti i misteri esistenti nell’affaire. La formalità e il rigore che seguono nella scena del discorso commemorativo, fanno da contrasto allo stato d’animo del giudice. In tal senso le sue parole sembrano essere ancora più “vuote” e distanti da quel potere che fino all’ultimo giorno aveva servito, un potere che probabilmente nasconde ancora molti misteri. Sono parole che rivelano un presagio sinistro e oscuro: «oggi entro, ufficialmente nella categoria dei pensionati», un mondo, sembra dire il giudice, insidioso e pericoloso in cui si è soli. La citazione del poeta russo Joseph Brodsky, non è soltanto una semplice affermazione di copione; e non è soltanto funzionale alla struttura del racconto: la ricerca della verità e la necessità della passione sono l’espressione più vitale e civile della partecipazione al mondo e rappresentano un dichiarato “testamento spirituale” del regista: «solo il cercando la verità, solo comunicando la verità si dà senso alla propria esistenza». Tale discorso, inizia il percorso investigativo del giudice, e avvia definitivamente l’indagine del film. L’ulteriore incontro con il misterioso aggressore, ha la funzione di chiarire gli obiettivi di questo secondo personaggio. Egli si identifica come ex-brigatista che prese parte alla strage di via Fani (dietro alla moto Honda) che a causa di un tumore giunto allo stadio terminale ha deciso di consegnare il filmino al giudice. L’ex terrorista si fa portavoce di un importantissimo indizio relativo al Memoriale di cui sono state dette molte «bugie» e in cui «i punti cruciali non si conoscono ancora». In sostanza, attraverso il personaggio brigatista, di cui il pubblico non vedrà mai il volto, il racconto rivela che esisterebbe una versione integrale e originale del Memoriale Moro. Qui nasce una sorta di rapporto dialettico tra realtà e finzione. Il filmato e il Memoriale sono chiaramente due elementi narrativi, di fiction, ma finiscono per essere percepiti come elementi storici e reali. La loro presenza determina la narrazione, genera il racconto del film (finzione) e produce l’indagine sul caso Moro (analisi storiografica). È la caratteristica tematica del film, il quale nasce e si sviluppa su elementi immaginari, trattando al tempo stesso la storia reale di Moro. Su tale costruzione fa leva la verosimiglianza dell’opera. Da questo punto prende avvio la parte del film in cui si analizzerà la dinamica del sequestro di via Fani, in cui emergeranno alcuni elementi giudiziari delicatissimi che non si limiterebbero soltanto alla finzione del racconto.

3. LA VISIONE DEL SUPER8. Una delle caratteristiche narrative del film è quella di trattare gli elementi giudiziari del caso Moro attraverso l’ausilio di un filmato completamente inventato per il racconto. Da questo confronto, tra la realtà oggettiva del caso e la fiction narrativa, emerge il valore tematico del film. La forza del racconto è offerta da un filmato di finzione che riesce a descrivere con esattezza storica gli eventi del sequestro Moro, senza modificare o alterare la presunta veridicità dei fatti. La realizzazione del filmato, costituisce un fondamentale esempio di costruzione “filologica” della strage di via Fani, da divenire la fonte principale non soltanto del racconto, ma anche della detection proposta dal film. Gli elementi evidenziati in questa prima parte sono tre: il mancato tamponamento, l’uccisione di Leonardi attraverso un misterioso quinto uomo e la misteriosa presenza di un superkiller. La visione del filmato debutta con la descrizione di quella mattina del 16 marzo 1978. I vari indizi, oltre ad essere chiaramente visibili sullo schermo, sono evidenziati dal commento del giudice Saracini, Fernanda Doni e il caposcorta Branco. La scelta formale del regista è quella di supportare il linguaggio visivo del filmato con quello verbale, permettendo di far emergere più chiaramente gli elementi indiziari. Rosario fa notare una Fiat 128 familiare, con targa diplomatica posteggiata all’angolo di via Stresa, guidata dal capo brigatista Mario Moretti. Quando la Fiat 130 di Moro arriva da via Trionfale verso Via Fani insieme alla Alfa della scorta, una moto Honda li supera, dando così il segnale a Moretti. Quest’ultimo fa marcia indietro parcheggiando la sua auto a circa 30 metri dello stop di Via Fani. Vedendo poi arrivare la Fiat 130 di Moro, riesce dal parcheggio ostacolando il suo arrivo. La prima novità emerge proprio in questa circostanza. La versione ufficiale dei fatti, riferita da Morucci, riferisce che la macchina di Moro fu costretta a tamponare quella di Moretti. Ma il filmato mostra una circostanza assai diversa: la macchina di Moro non tampona affatto quella di Moretti, ma si ferma poco prima, costretta dagli spari provenienti dal lato destro della strada. Durante la loro deposizione (osserva il personaggio di Fernanda) Moretti e Morucci avevano dichiarato una dinamica completamente differente: il primo aveva affermato che lo scontro con la macchina di Moro era stato violento e che egli aveva dovuto tirare il «freno a mano» per fermare l’avanzata della macchina; il secondo aveva affermato che il tamponamento era ripetuto. Il filmato mostra inequivocabilmente che le due macchine si erano appena sfiorate (circa 20 cm), senza «nessun graffio […] nessun segno di frenata sull’asfalto», come osserva Rosario. Se ne deduce che rallentarono e poi si fermarono senza toccarsi. La forza semantica della scena, la descrizione minuziosa dei diversi momenti, rappresenta il punto più alto del film e forse il più riuscito. Le immagini sembrano uscite dalla cronaca di quei giorni per divenire storia. I gesti e le azioni raccontano con estrema precisione quelle drammatiche circostanze. Il filmato sembra essere, al di là della finzione scenica, un documento di altissimo valore storico. Ma questo avviene anche per la rigorosa costruzione dell’agguato, basato su un precisa documentazione e sulla logica consequenzialità degli eventi. La forza estetica del filmato è quindi supportata da una ragione filologica fondamentale. Morucci dichiarerà di essere stato il quinto uomo sul lato destro della strada, quello che doveva colpire mortalmente il maresciallo Leonardi. In quello stesso frangente, un gruppo di quattro brigatisti, posti sul lato sinistro della strada, avrebbero avuto il compito di eliminare la scorta. Fu questo fatto a causare il tamponamento. Ma il film mostra un'altra dinamica, e non lo fa attraverso un atto deliberato e parziale, ma attraverso la stessa fenomenologia dell’evento. Il regista conosce bene questa circostanza. L’uccisione di Leonardi sarebbe avvenuta in un tempo incomprensibilmente lungo, in cui il maresciallo sarebbe stato seduto ad osservare l’impatto: da questo si deluciderebbe già una strana dinamica balistica che forse si riferisce agli stessi attentatori. La 128 di Moretti, frena bruscamente allo stop: seguirebbe l’ipotetico tamponamento della 130 di Moro e dell’Alfetta della scorta. Dalla 128 sarebbero scesi due brigatisti, mentre quasi contemporaneamente, dal lato sinistro della colonna sarebbero giunti altri quattro terroristi preposti all’eliminazione di tutta la scorta. L’unico a reagire sarà Iozzino che, infatti, verrà trovato ucciso con 17 colpi sull’asfalto. E in tutto questo tempo, cosa fa il maresciallo Leonardi? Ricorda Martinelli: «lo stunt che è seduto nella posizione del maresciallo Leonardi, mi blocca l’azione… Renzo, ma io che ci faccio qui? Me ne sto seduto ad aspettare che quelli mi arrivino addosso?». Si tratta di una perplessità scenica che riflette quella della dinamica e lascia pensare sulle veridicità delle versioni. Probabilmente l’evento traumatico che avrebbe bloccato Leonardi in quella posizione non è l’impatto tra le macchine (falso) ma qualcos’altro. Leonardi venne ucciso da destra e quindi c’era un quinto sparatore oltre ai quattro di sinistra, un killer solitario. Leonardi viene trovato in una posizione rilassata e serena, come mostra la foto scattata dopo l’attentato, come se stesse parlando con Ricci. Il capo scorta sarebbe stato ucciso senza accorgersi di cosa stesse succedendo. Sei pallottole lo colpiscono dietro la schiena, provenienti dalla destra da uno sparatore che ha saputo muoversi in perfetto sincrono con l’incidente. Subito dopo, due pallottole avrebbero colpito il petto di Leonardi. Soltanto attraverso questa dinamica è stato possibile giare la scena: volendo anche seguire la versione di Moretti o di Morucci, sarebbe stato impossibile. Da questo punto di vista, la costruzione della scena, assumerebbe il valore di una perizia giudiziaria senza precedenti. Si tratta di un caso formidabile in cui l’impegno civile dell’arte cinematografica si concilia con quello della verità storica: è l’esempio in cui il cinema, come immagine movimento può intervenire nella realtà sociale per rappresentare il suo più alto contributo etico ed estetico. La costruzione della scena costringe il film, per forza di cose, ad ipotizzare un'altra dinamica dell’evento e per questo scorge senza imbarazzo brigatisti e istituzioni dietro una versione troppo spesso superficiale. Dopo l’eliminazione di Leonardi, il quinto uomo si toglie dall’azione per dare la possibilità agli altri quattro terroristi di continuare l’assalto. Ed è in questo punto del film che emerge il secondo indizio: il misterioso superkiller. Il personaggio di Fernanda ricorda che secondo le deposizioni, il misterioso killer sarebbe giunto in via Fani insieme a Moretti. Qui si sarebbe appartato con gli altri tre brigatisti, sul lato sinistro della strada. Dopo l’esecuzione di Leonardi da parte di Morucci, sarebbe entrato in azione. Il commento del giudice descrive la perizia balistica. I bossoli ritrovati dimostrano che il lavoro militare fu di «alta specializzazione»: i brigatisti spararono da punti contrapposti e soltanto un brigatista, sembrerebbe, ne uscì ferito. Il gruppo riesce ad uccidere la scorta, senza colpire Moro pur essendo da mezzo metro dal maresciallo Leonardi. Saracini osserva che in via Fani furono sparati 93 colpi in soli 90 secondi provenienti da sette armi diverse. I colpi furono soprattutto dei brigatisti. Soltanto 20 furono quelli della scorta mentre 49 colpi, andati tutti a segno, furono sparati da un arma unica, una pistola mitra calibro 9 Parabellum Stern o forse FNA 1943, appartenente al misterioso superkiller. Il teste Pietro Lalli, benzinaio di via Fani, esperto di armi, descrive l’agguato e la tecnica di questo superkiller con “autentica ammirazione”. Il terrorista spara con un’arma a recupero di gas, ha la mano guantata sulla canna per evitare i sobbalzi e colpisce con precisione: la prima raffica contro Leonardi e Ricci, poi un salto indietro per allargare il raggio di tiro e sparare contro l’Alfetta di scorta: «la professionalità criminale dell’attentatore è talmente elevata, a giudizio degli stessi periti, da non potersi ragionevolmente inquadrare in nessuna delle figure dei brigatisti noti». Rispetto a questo superkiller gli altri brigatisti fanno ben poco: sparano 4 colpi con un arma, 5 con un'altra, 3 con quella di Raffaele Fiore, 8 con la Smith & Wesson poi sequestrata a Prospero Gallinari. In tutto sei armi. Il racconto introduce le testimonianze oculari del tragico giorno e, naturalmente, lo fa secondo un criterio oggettivo e storico senza alterare la veridicità dei fatti. Pietro Lalli, racconta delle «raffiche complete contro la Fiat 132». Alessandro Marini, l’ingegnere civile in motorino viene addirittura bloccato da una mitragliata dall’uomo dietro la moto Honda. Egli vede Moro salire in macchina con un andamento passivo, dimesso e soprattutto illeso. Luca Moschini studente di medicina a bordo di una Fiat 500 vede la moto Honda e due uomini in divisa. Quella mattina era presente anche l’agente di polizia del settimo reparto celere di Roma, Giovanni Intrevato che vede distintamente il prelevamento di Moro. Per raccontare la scena, il film adotta un montaggio alternato tra la ricostruzione delle testimonianze e la fiction degli eventi descritti. Tale commistione di tempi e spazi diversi, che il cinema conosce come flashback, sono potenziati dallo stile “sporco” e mosso della macchina da presa. Le inquadrature sembrano rubate da un archivio storico. Tuttavia il film evita di trattare l’identità del superkiller in maniera dettagliata e precisa. Uno stranissimo elemento, non inserito nel film, costituisce un importane indizio. Questo si riferisce ai proiettili dell’agguato coperti da una speciale vernice impermeabile, adatta alla conservazione di munizioni in nascondigli sotterranei e normalmente in dotazione alle forze speciali. Questo elemento, se provato, dimostrerebbe la possibilità di un’oscura strategia tra Moro e i suoi sequestratori e la possibilità di un intervento straniero o comunque estraneo al contesto rivoluzionario del partito armato. In sede processuale emerge, poi, un'altra ipotesi inquietante: l’eliminazione di Leonardi sarebbe avvenuta non soltanto per l’attacco improvviso sul quel lato, ma anche perché nel commando terrorista vi sarebbe stato qualcuno che egli conosceva. Questo fatto, evidenziato dall’avvocato di parte civile della famiglia Moro, non è però trattato dal film, per ragioni prettamente narrative. Tuttavia il resoconto di Rosario ricorda l’azione di questo brigatista il cui obiettivo è stato principalmente quello di eliminare l’autista e il maresciallo Leonardi: «lo fredda e si defila». A partire da questo elemento, il film inizia un’operazione investigativa che non collima con la versione ufficiale. Lo spettatore è colto dal dubbio: alcuni indizi discreditano le versioni dei brigatisti a tal punto che «le diverse verità potrebbero voler nascondere la partecipazione al blitz di uomini diversi dai brigatisti comunemente intesi».

4. VIA FANI: INDIZI E MISTERI. Dopo aver trattato la dinamica del tamponamento, il film continua la sua indagine giudiziaria. Attraverso il dialogo incalzante del giudice Saracini e di Fernanda, il racconto fa emergere i nodi cruciali dell’eccidio di via Fani. Questi si possono riassumere in quattro punti fondamentali, non ancora chiarite dalle stesse indagini: le borse di Moro; la strage violenta e deliberatamente “spettacolare”; l’organizzazione del sequestro; il colpo di grazia alla scorta. Il giudice Saracini ricorda che Moro possedeva cinque borse: una conteneva documenti riservati; una seconda, medicinali ed effetti personali; le altre tre contenevano articoli di giornali e tesi di laurea (Moro era professore di Diritto Penale). Come facevano i brigatisti a sapere quali erano le borse giuste, ammesso che siano stati loro ad effettuare il prelevamento? Durante la deposizione in Commissione, Eleonora Moro aveva dichiarato; «loro (i brigatisti [N.d.R.]) dovevano sapere quali e dove stavano nella macchina perché c’era una bella costellazione di borse, messe così, così e così, prendere a colpo sicuro quella…». Tuttavia Eleonora ricorda che quella mattina quando arrivò in via Fani si accorse che la borsa da cui Moro non si staccava mai era stata prelevata (se ne accorge attraverso il rivestimento pulito della automobile quando tutt’intorno era macchiato dal sangue delle vittime). Due borse, la ventiquattrore e una borsa diplomatica, saranno poi consegnate nelle mani dell’agente di pubblica sicurezza Otello Riccioni (uno degli autisti della scorta che quel giorno era in ferie). Riccioni a sua volta le consegnò alla signora Moro. Una terza borsa piena di libri viene ritrovata cinque giorni dopo nel baule della Fiat di Moro all’interno della questura. Un fatto piuttosto inquietante che rivela in ultima analisi le modalità di indagine in via Fani. Borsa “insignificante”, ma estremamente importante per comprendere quale giro strano avesse fatto, se di questo si è mai trattato. In Commissione Parlamentare il mistero delle borse occuperà gran parte dei dibattimenti. Secondo le testimonianze, emerse che i brigatisti ne presero soltanto due: quella personale e quella con i documenti riservati. Dentro quest’ultima si sa di certo che contenesse una nota dello stesso Moro sulla crisi di governo, una nota sull’ordine pubblico, una nota sul terrorismo e una delicata relazione sul coordinamento tra polizia e carabinieri. Forse vi era quel documento sui collegamenti dei servizi dell’interno della NATO. Dichiarerà il generale Dalla Chiesa: «io penso che ci sia qualcuno che possa avere recepito tutto questo… dobbiamo pensare anche ai viaggi all’estero che faceva questa gente, Moretti andava e veniva…». Il film di Giuseppe Ferrara, Il caso Moro, racconta tale episodio attraverso l’appropriamento della borsa da parte di un misterioso funzionario dei servizi segreti, che si scoprirà in seguito un esponente della Loggia Massonica P2. E’ in questa circostanza che la signora Moro inizia un colloquio piuttosto teso con il militare. Si tratta della trascrizione del vero dialogo, relativo alla mattina del 18 marzo 1978, che Eleonora Moro depone in Commissione. Il generale Dalla Chiesa avrebbe affermato che la strage e il sequestro sarebbero state opera delle Brigate Rosse. Qui emergerebbe un altro elemento: Moro non era a conoscenza del “destino” di quelle borse: «bisognerebbe cercare di raccogliere le 5 borse che erano in macchina», scrive nella quarta lettera a sua moglie; ovviamente ignorava che le valigette erano nelle mani dei suoi sequestratori; nella lettera a Rana (suo segretario) scrive: «sono state recuperate delle borse in macchina? O sono sequestrate come corpo di reato?». Una curiosità viene dall’intervista a Bonisoli nel documentario televisivo di Zavoli: egli non sa chi ha preso le borse, «forse la colonna romana», afferma. La storia delle borse di Moro e del loro contenuto rimane quindi avvolta nel mistero, tanto nel film, quanto nella storia ufficiale del caso Moro. L’altro mistero riguarda la modalità della “strage” che lascia pensare, senza ombra di dubbio, ad un episodio che vuole far parlare di se. Il personaggio di Fernanda si domanda perché è stato realizzato un colpo così spettacolare, quando vi sarebbe stata la possibilità di fare tutto più tranquillamente allo Stadio dei Marmi, dove Moro era solito fermarsi per fare una passeggiata insieme al maresciallo Leonardi. Il personaggio di Fernanda, con questa sua osservazione finisce per divenire una sorta di alter ego della vedova Moro che riguardo alla strage di via Fani affermò: «mi sono chiesta infinite volte perché li abbiano uccisi tutti, quando mio marito potevano prenderlo tranquillamente in altri posti… questa è una delle cose che la Commissione la scopre, secondo me scoprirà una grossa parte della verità». Le Br erano sicure del percorso che avrebbe fatto la scorta (si tratta di un ulteriore indizio di Fernanda) che il giorno prima erano andati in via Brunetti a tagliare le gomme di un furgoncino, di proprietà di un fioraio, che ogni mattina parcheggiava tra via Fani e via Stresa e che di fatto avrebbe costituito un ostacolo per le manovre di attacco delle Br. Anche questo episodio è raccontato nel film di Ferrara. Secondo le testimonianze dei brigatisti il giorno prescelto per il sequestro non fu affatto previsto con precisione: un «giorno probabile» affermò Morucci, una «coincidenza» dichiarò Moretti, «casuale» disse Bonisoli. L’ultima osservazione di Fernanda riguarda il colpo di grazia inferto agli uomini della scorta che ripropone in maniera drammatica la necessità di eliminare ogni prova e ogni testimonianza di quel tragico giorno e, al tempo stesso, dimostrare la violenza e la determinazione di quell’atto “politico”. Nessuno doveva rimanere in vita perché nessuno doveva raccontare cosa fosse accaduto quella mattina. Si tratta di un’ipotesi portata avanti dal racconto. Nel numero del 2 maggio, Mino Pecorelli dava una chiara allusione al sequestro Moro. L’articolo era intitolato «Yalta in via Mario Fani» e analizzava il sequestro: «[…] l’agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche […] L’obiettivo primario è senz’altro quello di allontanare il Partito Comunista dall’area del potere nel momento in cui si accinge all’ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del Paese. È un fatto che si vuole che ciò non accada. Perché è comune interesse delle due superpotenze mondiali modificare l’ascesa del Pci, cioè del leader dell’eurocomunismo, del comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente guidare un Paese industriale». Il giornalista continuava affermando che la partecipazione governativa del Pci sarebbe stata «ancor meno gradita ai sovietici […] la dimostrazione storica che un comunismo democratico può arrivare al potere grazie al consenso popolare, rappresenterebbe non soltanto il crollo del primato ideologico del Pcus sulla Terza Internazionale, ma la fine dello stesso sistema imperialista moscovita». Si tratta in sostanza della logica di Yalta, la logica di guerra e di potere che decise il destino della politica italiana e le sorti di Aldo Moro. Nello stesso numero di OP, ma in un diverso articolo dal titolo «E anche Renato Curcio fa il suo dovere», Pecorelli affermava: «i rapitori di Aldo Moro non hanno nulla a che spartire con Brigate rosse comunemente note. Curcio e compagni non hanno nulla a che fare con il grande fatto politico-tecnicistico del sequestro Moro». In tal senso Pecorelli prospettava un allargamento dell’affaire Moro. Nell’articolo del 12 settembre 1978, dopo aver ricordato l’interesse di Washington e Mosca nel porre fine all’eurocomunismo, scrive: «per essere sicuri che le Br hanno agito per conto di terzi, italiani o stranieri, italiani e stranieri». L’abilità comunicativa di Pecorelli, i codici linguistici e giochi verbali, attribuiscono al giornalista una profonda forza storica. Egli era in grado di predire fatti e avvenimenti grazie al suo inserimento nei centri nevralgici del potere e dello spionaggio. Si tratta del punto di vista del film, che insiste sull’aspetto segreto e internazionale della guerra di cui sarebbe stato vittima Moro.

Alle quattro evidenze, si aggiungerebbe quella della divisa di avieri che si ricollega alla presenza del superkiller: si sarebbe trattato di un modalità di riconoscimento utile agli stessi brigatisti. Ma forse, tra loro, vi era qualcuno che non li conosceva personalmente e questo espediente avrebbe rappresentato un ottimo sistema di identificazione. Attraverso questa ipotesi, il film riprende il tema del superkiller. Egli sarebbe giunto a via Fani con la macchina di Mario Moretti, avrebbe attraversato la strada, e sarebbe andato verso il bar Olivetti, per incontrare il resto del comando, riconoscibili poiché tutti vestiti da avieri. Questo comportamento presume che il misterioso personaggio, che spara da solo 49 colpi, non conoscesse affatto il comando terrorista. E’ in tale circostanza, implicherebbe, secondo il personaggio di Branco, la possibilità che si trattasse di un «professionista» assoldato dalle Br. Con la divisa di avieri sarebbe stato più facile essere avvistati e riconosciuti. La testimonianza del giornalista Ernesto Viglione, depositata agli atti della Commissione Parlamentare, evidenzia la possibilità di gruppi militari presenti quella mattina in via Fani. Egli aveva contattato le Br per intervistare Aldo Moro durante la sua prigionia. Un anonimo brigatista gli avrebbe confidato che tutta la vicenda Moro sarebbe stata guidata «da due parlamentari e da una persona legata al Vaticano» e che in via Fani vi avrebbero partecipato uomini dei carabinieri e della polizia. Tale indizio, tuttavia, è apparso debole e ricco di lacune. Un elemento importantissimo, non raccontato nel film, è rappresentato da una testimonianza diretta. La giornalista Cristina Rossi occupata presso l’Asca (agenzia stampa Dc) aveva scattato delle foto dalla finestra del suo appartamento sito in via Fani 109: «il 18 marzo consegnai al giudice Infelisi, nel suo ufficio a piazzale Clodio, il rollino dei negativi che il 16 marzo mio marito [Gherardo Nucci N.d.T.] aveva scattato pochi minuti dopo il tragico fatto… la cosa gli era stata possibile abitando proprio nel palazzo di fronte al quale viene consumato l’eccidio… ritenni che i sette-otto fotogrammi riguardanti la vicenda, uno in particolare avrebbe potuto essere di qualche utilità per le indagini: infatti, sebbene nel fotogramma si vedesse che già sul posto si trovava un’autovettura di PS… vi era un capannello di una decina di persone tra le quali gli inquirenti avrebbero potuto individuare la presenza di qualche terrorista nella eventualità che questi, invece di allontanarti, si fosse mischiato tra i primi curiosi». La giornalista affermò che il giudice Infelisi tagliò con una lametta i fotogrammi interessati, ma in futuro quei stessi fotogrammi sparirono. Il giudice fece sapere che i negativi erano stati «riconsegnati alla proprietaria», quando lei stessa non avrebbe saputo più niente. Quelle foto scompariranno misteriosamente e il tutto fu reso più complicato da strane incomprensioni tra la Rossi, il dottor Infelisi e il capo delle Digos Spinella che aveva convocato la testimone il 26 maggio 1978. Willan ricorda che quelle foto vennero ingrandite per identificare i primi passanti e di come, probabilmente, si finì per identificare qualche personaggio scomodo. Un’intercettazione telefonica, trascritta da Willan, datata il 1 maggio del 1978, tra Benito Cazora e Sereno Freato evidenzierebbe la presenza di un presunto uomo “scomodo”. Dalla telefonata traspare la preoccupazione di certi ambienti malavitosi calabresi per quelle foto. Forse avrebbero potuto portare gli inquirenti su di un sentiero piuttosto pericoloso sia per gli stessi ambienti calabresi, sia per la precisa ricomposizione dello scenario di quella tragica mattina. Tuttavia, per quanto riguarda questo episodio, il film non ne fa accenno. Come si vedrà il coinvolgimento della malavita nel sequestro Moro avverrà, con il personaggio piuttosto ambiguo di Antonio Chichiarelli.

5. PEDINAMENTI E MINACCE FUORI DAL FILM. L’inseguimento costituisce un elemento narrativo e cinematografico di altissima tensione. Attraverso la costruzione tecnica dell’inseguimento, il cinema classico ha prodotto un vero e proprio tema narrativo che va sotto il nome di thriller. Si tratta di uno schema narrativo che ha delle regole precise. In primo luogo, l’inseguimento o pedinamento, inteso come azione fisica e narrativa, deve essere realizzato da almeno due personaggi in chiaro antagonismo. In secondo luogo, questi stessi personaggi, o esistenti, debbono essere plasmati dalla forma del discorso o se si preferisce dall’estetica stessa: un montaggio serrato e veloce, inquadrature strette e rapide. In terzo luogo, deve emergere il senso di paura e di tensione psicologica degli stessi personaggi. Questa costruzione è finalizzata alla suspense. Si tratta di un momento peculiare del racconto filmico, in cui si concentra l’intreccio narrativo e costringe lo stesso spettatore ad una maggiore attenzione. Da questo momento emotivo dipende il destino stesso dei personaggi e di tutto il racconto. Tale costruzione è presente anche nel film di Martinelli, a livello di racconto filmico, ovvero attraverso il rapporto che si stabilisce tra il punto di vista dei personaggi (soggettivo) e quello della macchina da presa (oggettivo del narratore). Ma gran parte degli eventi raccontati dal film, l’inseguimento in metropolitana, l’inquadratura all’interno del garage, la scena dell’attacco aereo, costituiscono un fatto narrativo ed esclusivamente di finzione: sono gli eventi che costringono il racconto verso una determinata direzione e portano i personaggi verso un determinato destino. Questa impostazione è data anche dal trattamento particolare che la vicenda storica di Moro subisce in ambito narrativo, per il solo fatto di dover essere raccontata. Ed è proprio per questo motivo che molti eventi storici non possono essere inseriti nel film. La vicenda di Moro è costellata da eventi particolarmente inquietanti, che tuttavia non sono inseriti nel film, ma che potrebbero evidenziare maggiormente alcune circostanze storiche molto gravi. Si tratta di certi episodi, precedenti al sequestro di via Fani, che descrivono il clima teso di quei giorni e offrono una chiara descrizione del contesto politico in cui si sarebbe trovato Moro. Una serie di strani episodi costringono Moro a ipotizzare di essere pedinato. Lo statista era stato particolarmente impressionato per il sequestro del figlio dell’ex segretario del Partito socialista, Francesco De Martino nell’aprile 1977, da temere il peggio per i suoi stessi figli. Secondo la vedova Leonardi, il marito era stato particolarmente in ansia durante il periodo precedente il 16 marzo a causa di un’informativa che segnalava la presenza di elementi brigatisti a Roma provenienti da paesi stranieri. La cosa sconcertante, affermò Leonardi ad Eleonora Moro, è che gli stessi organi di polizia avevano avuto l’ordine di non occuparsi di questa cosa e di lasciare stare. Questo fatto costituisce un primo indizio storico. Particolarmente grave è il caso della richiesta della macchina blindata. L’istanza risulta agli atti ufficiali e indicherebbe che lo stesso Sismi avrebbe consegnato la domanda al ministro dell’interno Cossiga. Scarano – De Luca scrivono che questi avrebbe negato di aver mai ricevuto una tale richiesta direttamente da Moro come invece sembra sostenere Eleonora. Tuttavia la scorta e lo stesso Moro non ebbero mai una risposta e, cosa molto più importante, non ebbero mai una macchina blindata. Particolarmente significativi furono gli eventi accaduti in Via Savoia 86, la strada in cui c’era lo studio di Moro dove lo stesso Moretti avrebbe acquistato delle armi. La porta dello studio di Moro venne forzata mentre la sua macchina venne manomessa almeno una decina di volte. Ma anche in questo caso, le indagini non aprirono nessuna pista rilevante. Due vicende, non ancora chiarite, descriverebbero la situazione di tensione che avrebbe caratterizzato l’atmosfera in quella via. Si tratta del caso Franco Di Bella e del caso Francesco Moreno. Nel novembre del 1977, Francesco Di Bella, direttore del Corriere della Sera, si era recato in via Savoia per un appuntamento con Moro. Alla sua macchina (una Fiat 125) improvvisamente si affiancarono due motociclisti armati. Leonardi denunciò il fatto. Il 15 marzo 1978, Spinella, capo della polizia, fece sapere che i motociclisti erano soltanto dei «volgari scippatori». Ma forse, la formulazione è troppo sicura: due scippatori in via Savoia che attirano l’attenzione della scorta di Moro e del giornalista Francesco Di Bella, indicherebbe, in qualche modo, una circostanza che andava quanto meno approfondita. L’evento è fatto passare senza particolari provvedimenti. Secondo il lavoro di Scarano - De Luca, il caso Moreno è un elemento assai inquietante a causa di strani collegamenti legati al soggetto. Gli inquilini dello stabile avevano notano per più giorni una Bmw sostare troppo a lungo davanti allo studio di Moro. Dopo la segnalazione, si apre un’indagine e si scopre che il giovanotto a bordo è Francesco Moreno. Si tratta di un individuo misterioso, in contatto con i servizi segreti libanesi, imputato nel 1973 per spionaggio politico, vicino agli ambienti dell’estremismo di destra (in particolare con la Società Radiofonica dove sembra si producessero informazioni a scopo spionistico, frequentata da un certo Schuller «ex nazista in rapporti stretti con servizi tedeschi e svizzeri, ma soprattutto arabi»). Il suo contatto con il caso Moro avviene anche per una strana coincidenza. Scarano – De Luca affermano che la sirena, destinata all'auto di Moreno, era del tipo di quella usata da un'auto che partecipò al rapimento Moro. Tuttavia una delle due è risultata acquistata soltanto nella mattina del 16 marzo 1978. Osserva De Luca: «in via Savoia non sembra che Francesco Moreno stesse per controllare Moro, ma proprio i brigatisti che controllavano Moro. Per contro di chi?». Si tratta di un ipotesi particolarmente grave, che è, tuttavia, in sintonia con il racconto filmico. Alcuni elementi indiziari avevano in qualche modo anticipato l’eccidio che si sarebbe compiuto in via Fani. Il primo riguarda un rapporto (6 marzo 1978) che giunge al Sismi da parte della Securpena, la struttura che gestisce la supervisione delle carceri: «comunicare subito che ci sarà un altro attentato, a grossa personalità di Roma». Ma obiettivamente rappresenta soltanto un indizio e per di più molto vago. Santovito, allora capo del Sismi si pronunciò argomentando le vie burocratiche: «la legge 108 stabilisce che noi Servizi informazioni arriviamo fino a un certo punto… una volta prodotta l’informazione e data all’organo operativo non possiamo nemmeno domandare che cosa ne fanno di questa informazioni». Un'altra informazione venne dal carcere di Matera da un certo Salvatore Senatore (16 febbraio 1978): «è possibile il rapimento di Moro». La velina viene passata al Sisde e li si ferma. Un’altra informativa giunse da Silvano Maestrello, un informatore già conosciuto dai servizi, che venne ucciso il 12 maggio del 1978 durante una rapina a Venezia. Anche in questo caso il Sismi accolse l’informativa senza dare origine ad azioni preventive ed investigative. Questi eventi sono di fatto indicativi per l’atmosfera che circolava intorno alla sorte di Aldo Moro. Ma gli elementi non si esauriscono qui. Particolarmente sinistre erano state le dichiarazioni raccolte da un’assistente, Giuseppe Eusebi presso la facoltà di filosofia a Roma, testimone di un dialogo tra due studenti: «hai messo tu la bomba all’Università?». La risposta: «queste cose io non le faccio, tanto rapiremo Moro». Giuseppe Marchi, altro testimone, sente in una piazza di Siena, un dialogo, con forte accento straniero tra due individui che dichiarano di aver rapito Moro e la sua scorta (siamo nel 18 marzo). Gian Gustavo D’Emilia, studente di 17 anni, dice ai compagni della scuola romana Merry Del Val: “oggi sequestriamo Moro e ammazziamo la scorta”, una confidenza che viene fatta prima dell’attacco terrorista. Dunque, tante informative, molti nomi e testimonianze dirette che citano il nome di Moro. Ma nessuno che voglia ascoltare: «davvero troppi sapevano per non pensare a una lunga, inerte attesa, rispetto a un fatto che “doveva” accadere», scrivono gli autori Scarano e De Luca. Il caso più eclatante si ha con la trasmissione radiofonica in diretta su Radio Città futura la mattina del 18 marzo. Renzo Rossellini parlerà in trasmissione della preparazione di un attentato e di una delle sue possibili vittime tra cui Aldo Moro. Quarantacinque minuti dopo, Moro veniva rapito. Si parlò di «supposizione metafisica», ma in seguito lo stesso Rossellini affermò che si era trattato di un ipotesi più che probabile: «noi sapevamo che il 16 marzo doveva presentarsi alle Camere il primo governo sostenuto dal Pci… Era evidente per noi che questa era l'occasione sognata dai brigatisti». L’ipotesi circolava già da tempo nei circoli dell’estrema sinistra, dichiarò in seguito Rossellini. Egli ricorre ad un elemento prettamente induttivo. Il Sismi, che solitamente registrava tutte le trasmissioni, dichiarò attraverso il suo generale Santovito che dall’archivio mancava proprio quella mezz’ora in cui Rossellini avrebbe fatto quella dichiarazione. Il nastro poi risulterà tagliato. La presenza di strane convergenze è dato direttamente da un evento che il film mette nelle parole di Branco. Si tratta di un elemento storico evidenziato da un personaggio di finzione. Durante la visione del Super8, il capo scorta osserva: «c’è qualcosa che non avete notato […] il tipo con l’impermeabile non si muove e si limita ad osservare». È un elemento fondamentale del caso Moro che si ricollega con la presenza dei servizi segreti durante la mattina del 16 marzo. Il nome dell’uomo, come rivelerà la scena seguente, è Camillo Guglielmi, colonnello dei servizi segreti, appartenente alle rete clandestina della Nato, responsabile dell’addestramento e della preparazione dei “gladiatori”. Anche in questo caso il film si riferisce alla ricostruzione giudiziaria di quel giorno. Nella Relazione della Commissione Parlamentare si legge che la presenza in via Fani di un colonnello del Sismi, Camillo Guglielmi, «non ha mai ricevuto una accettabile spiegazione […] il Guglielmi riferì di aver ricevuto un invito a pranzo presso un collega; quest'ultimo confermò di averne ricevuto la visita, ma non la circostanza dell'invito a pranzo, che comunque non avrebbe potuto giustificare la presenza del Guglielmi in via Fani alle nove del mattino». Tutti questi elementi costituiscono nell’insieme una sorta di disegno eversivo che probabilmente poteva essere debellato sul nascere. Tuttavia, soltanto a posteriori di questi eventi si riesce a comprendere il filo rosso che avrebbe descritto il progetto di destabilizzazione: l’eliminazione della politica di Moro che inevitabilmente sarebbe coincisa con l’eliminazione fisica dello stesso statista. La presenza di un colonnello del Sismi, dopo i pedinamenti avvenuti in via Savoia, i strani passaggi del Moreno, i misteriosi “scippatori”, costituiscono una complessa struttura di rapporti strani e non ancora chiariti. Spie, poliziotti, servizi segreti e militari costituiscono la colonna portante dell’enigma Moro e contribuiscono ad ispessire il segreto. Ad aumentare il senso di mistero, contribuisce la figura di Antonio Chichiarelli, un personaggio appartenente alla malavita romana, che Martinelli decide di inserire nella scena seguente. Si tratta di un affiancamento non soltanto narrativo, ma molto probabilmente anche allusivo, riferito alle strane alleanze che avrebbero favorito il tragico destino di Moro.

6. ANTONIO CHICHIARELLI. All’interno del sequestro Moro esiste un giorno, forse il più problematico di tutti, che costrinse le parti in causa, investigatori e brigatisti a confrontarsi con alcuni eventi particolari e piuttosto ambigui. Si tratta del 18 aprile, anniversario trentennale della Democrazia Cristiana, giorno in cui venne scoperto il covo di via Gradoli e consegnato il settimo comunicato dei brigatisti, poi risultato falso. Il compito narrativo del film è quello di analizzare la strana traccia che si era delineata in quel giorno e lo fa attraverso la figura misteriosa di Antonio Chichiarelli, oscuro manipolatore, falsario della banda della Magliana. Si tratta di un punto nevralgico della narrazione, in cui il regista tenta di analizzare le collusioni che avrebbero caratterizzato la perpetuazione del sequestro Moro, attraverso linguaggi criptati, molto spesso in codice e oscuri personaggi non meglio definiti. La scoperta del covo di via Gradoli avviene in maniera piuttosto strana da mettere in dubbio la stessa verosimiglianza dell’evento. Uno sciacquone difettoso avrebbe causato l’intervento dei pompieri e quindi delle forze dell’ordine. Quando la polizia entrò nell’appartamento, trovò in bella mostra una serie di documenti scottanti. Perché i brigatisti avrebbero commesso una tale ingenuità? È possibile che Moretti e Balzerani abbiano trascurato così superficialmente un guasto nel loro appartamento, rischiando di far saltare il sequestro di Moro? Si tratta di domande legittime che secondo alcuni giornalisti, i cosiddetti dietrologi, e secondo lo stesso Martinelli, troverebbero una risposta soltanto in un contesto più complesso. L’ipotesi accreditata è quella del messaggio in codice. È possibile che i servizi segreti abbiano “bruciato” il covo per permettere di recuperare alcune carte di Moro legate ai segreti Nato (P2, Gladio) e forse sulla stessa rete italiana del Kgb. L’operazione sarebbe stata fatta in modo particolarmente evidente da permettere a Moretti e alla Balzerani di essere informati da radio e televisione e continuare così il loro sequestro, ma in modo sempre vigilato. In questo modo i brigatisti sarebbero stati avvertiti: possiamo prendervi quando vogliamo. In questa prospettiva il falso comunicato, quello del lago della Duchessa, è servito a creare un potente diversivo per catalizzare l’attenzione sulla prigionia di Moro, piuttosto che sulla scoperta del covo di via Gradoli. L’autore del comunicato è Antonio Chichiarelli, personaggio ambiguo, falsario, pittore, il quale sembra occupare un ruolo di mediazione tra servizi segreti e malavita romana. Secondo Willan, Chichiarelli conosce e frequenta Luciano Del Bello (informatore del Sisde) ed è in possesso di numerose informazioni relative al sequestro Moro, all’omicidio Pecorelli e del sottufficiale dei carabinieri Antonio Varisco. Come racconta il film, fu Chichiarelli a scrivere il settimo falso comunicato. Chi aveva commissionato il falso comunicato a Chichiarelli? Gladio? I servizi segreti? E perché? Sono le domande che offrono la pista investigativa del film. Attraverso le parole di Fernanda, il racconto inizia la sua indagine. Fernanda ricorda che ad un giorno di distanza dall’omicidio Pecorelli, Chichiarelli “dimentica” su di un taxi un misterioso borsello. Questo conteneva una Beretta 9 mm, una serie di documenti, alcuni oggetti collegati alla vicenda di Aldo Moro da suggerire strane complicità tra servizi militari e civili. Probabilmente si trattava di un messaggio criptato, rivolto a chi poteva comprendere: undici proiettili calibro 7.65 e uno di calibro maggiore, una testina ruotante Ibm simile a quella usata dalle Br per scrivere i loro comunicati (light Italia numero 12), un portachiavi con nove chiavi (possibile riferimento ai possibili terroristi che avevano collaborato all’agguato), due flash Silvania (due come le Polaroid scattate durante la prigionia), un pacchetto di tovagliolini di carta Palma (tipo per tamponare le ferite del prigioniero), e tre piccole pillole bianche, forse un’allusione alle medicine di Moro. Il film descrive direttamente questi elementi e relaziona tutti gli oggetti con il caso Moro. I documenti della borsa includevano dieci pagine dell’elenco telefonico di Roma riguardanti alcuni ministeri governativi, in cui comparivano messaggi in codice, simili a quelli usati dalle Br per il comunicato consegnato a Roma il 20 marzo 1978. In oltre, vi erano quattro documenti che trattavano un piano d’attacco a personaggi di rilievo (Pietro Ingrao, il figlio del magistrato romano Achille Gallucci, l’avvocato milanese Giuseppe Prisco). Sorprende l’appunto sulla morte di Pecorelli in cui si leggeva, “da eliminare”, con data martedì 6 marzo 1979, con alcune indicazioni di depistaggio. Probabilmente lo scopo del messaggio era quello di collegare l’omicidio di Pecorelli con quello di Moro suggerendo che lo stesso Pecorelli era in possesso di documenti riservatissimi. In questa circostanza compare un ulteriore indizio che fornisce il titolo alla storia. Si tratta del messaggio che descriveva il rinvio dell’omicidio di Pecorelli, causa «intrattenimento prolungato», presso Piazza delle Cinque Lune. Qui, il 6 marzo del 1979, come racconta il film, Pecorelli avrebbe partecipato ad un incontro segreto con alcuni esponenti del servizio segreto militare, il colonnello Antonio Varisco ed un altro altissimo carabiniere, probabilmente il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, mentre fuori dall’edificio, alcuni killer avrebbero atteso la sua uscita. Ma il delitto venne rinviato per fine marzo, anche perché, come si legge nei documenti lasciati da Chichiarelli, «sarebbe problematico concedergli tempo». Dunque, la piazza rappresenta un passaggio obbligato nella vicenda di Pecorelli, di Varisco e inevitabilmente di Moro. Pecorelli doveva incontrare i servizi segreti. Ma chi aveva commissionato l’attentato? I stessi servizi segreti che Pecorelli stava incontrando? Probabilmente no. Il film precisa che Pecorelli voleva incontrare il conoscente Antonio Varisco, colonnello dei carabinieri, l’uomo che il 16 marzo 1978 aveva avvisato i servizi di sicurezza di cercare una Renault 4 rossa. Egli venne ucciso il 13 luglio 1979 per mano delle Br, ma la scelta dell’arma, un fucile a canne mozze, lascia pensare ad un esecuzione di tipo mafiosa. Uno dei colleghi di Varisco, il capitano Antonio Straullu, fece una fine analoga per mano dei Nar e anche lui aveva affermato, di saperne abbastanza per far saltare il “palazzo”. Molto probabilmente gli attentatori non erano soltanto legati ad un “semplice” gruppo malavitoso. Il film ricorda che fu lo stesso Pecorelli ad aver collegato il falso comunicato del Lago della Duchessa con la scoperta del covo di via Gradoli. E per queste sue “rivelazioni” aveva probabilmente infastidito più di qualche “potere forte”, appunto la loggia di Gelli. E in questi termini si spiegherebbe l’eliminazione del colonnello Varisco. Tutti questi cadaveri eccellenti, sono legati da un unico destino: il legame con il Memoriale di Moro. Inizialmente, attraverso alcuni articoli sibillini, Pecorelli aveva il compito di scoraggiare la politica di Moro. Per questo motivo, quasi sempre, il nome del segretario della Dc veniva associato a quella di “morte”. Osserva Willan: «è possibile che la cosa facesse parte di un piano orchestrato dalla P2 per mettere Moro sotto pressione e forzarlo ad abbandonare il suo programma politico». In seguito Pecorelli assume un comportamento contraddittorio, di allontanamento dagli ambienti dei servizi segreti e dalla stessa P2. La posizione di Pecorelli si fa ambigua: da uomo facente parte del presunto complotto (iscritto alla P2, amico di militari, politici e alta finanza), sembra improvvisamente chiamarsi fuori da questo coinvolgimento. È questo comportamento, il tentativo di trattare le sue informazioni con i servizi segreti e altri gruppi occulti, che sancisce la sua condanna. Nel numero del 18 marzo 1977 di OP, scrive una lettera indirizzata a Gelli per informarlo della sua intenzione di dimettersi dalla P2. Una decisione che sembra derivare dalle difficoltà economiche del giornalista. Da questo momento in poi la figura di Pecorelli sembra divenire particolarmente fastidiosa per la stessa Loggia. Negli articoli di OP, la struttura di Gelli è descritta come macchinosa, misteriosa, pericolosa e potente. In un articolo datato una settimana prima della sua morte, Pecorelli scriveva: «attentati, stragi, tentativi di golpe, l’ombra della massoneria ha aleggiato dappertutto: da piazza Fontana al delitto Occorsio, dal golpe Borghese all’Anonima sequestri, alla fuga di Sindona dall’Italia». Si tratta dell’ultimo articolo di Pecorelli, in cui aveva promesso importanti notizie sul caso Moro. Tre giorni dopo, proprio quando doveva incontrare Gelli, come era appuntato nella sua agenda, Pecorelli veniva eliminato (20 marzo 1979). Sotto il suo ufficio in via Tacito, nel quartiere Prati, Pecorelli è colpito in bocca: «la punizione mafiosa per chi aveva parlato troppo». Tra gli appunti trovati sul taxi c’erano dei paragrafi relativi ai segreti Nato (il film cita i paragrafi 162, 168, 174 e 177) che corrispondevano alle pagine mancanti del Memoriale Moro in possesso di Pecorelli il giorno della sua morte. Con questa spiegazione il film collega inequivocabilmente l’uccisione di Pecorelli al sequestro Moro, e lo fa attraverso quegli indizi che Chichiarelli avrebbe intenzionalmente lasciato sul taxi. Questa informazione finisce per essere un indizio piuttosto compromettente per i presunti personaggi che avrebbero preso parte all’affaire Moro. Gli eventi descritti dal film, che corrispondono perfettamente al livello delle indagini fatte fino ad oggi, finiscono per descrivere il gruppo brigatista in maniera misteriosa e complessa. Ed è la strada scelta dal racconto, la domanda assillante che percorre tutto il film. Osservano Scarano e De Luca: «la strage di Via Fani, il sequestro di Aldo Moro e infine l’assassinio sono stati “gestiti” a più mani. Sotto il drappo con la stella a cinque punte, accanto alla folta e più forte componente terroristica, si sono nascosti i maneggi e gli interventi di altre due componenti ugualmente aggressive: quella di una delinquenza organizzata tipo camorra e mafia, e quella più occulta di spezzoni di vecchi servizi segreti». Da questo punto di vista, la figura di Chichiarelli fungerebbe da collante tra la legalità e l’illegalità, in una situazione in cui non si è mai chiarita del tutto la relazione esistente tra i diversi elementi dei servizi segreti e alcuni esponenti della malavita organizzata. Il film prosegue con un ulteriore evento che riguarda la biografia di Chichiarelli e che sembra apparentemente sganciato dall’affaire Moro. Si tratta della rapina Brinks Securmark, il 23 marzo 1984, dove sono lasciati, ancora una volta, alcuni oggetti che alludono ad un messaggio in codice. La sua funzione, come si potrà osservare, è quella di chiudere il cerchio e dare un senso preciso alla presenza di Chichiarelli all’interno del caso Moro. I rapitori, identificati come brigatisti, prelevano dall’edificio 35 miliardi di lire. Prima di legare le guardie, i terroristi enfatizzarono l’aspetto politico e rivoluzionario del loro gesto, fotografando una delle guardie davanti una bandiera rossa con la famosa stella a cinque punte. I rapitori abbandonarono un certo numero di oggetti di chiaro significato simbolico: una granata fumogena Energa (riferimento all’omicidio Varisco), sette proiettili Nato calibro 7.62, sette piccole catene e sette chiavi. Le chiavi e le catene vennero poi interpretate come riferimento al rapimento di Moro. Il giudice Saracini afferma che il ricorrente numero sette rimanda al falso comunicato del lago della Duchessa. Le granate erano di provenienza americana ed erano state originariamente conservate, secondo quanto scrive Willan, da Egidio Giuliano nel deposito del ministero della Sanità. Afferma Willan che le armi erano servite per l’operazione “Terrore sui treni” come depistaggio per la strage di Bologna. L’abbandono delle granate Energa avrebbe rappresentato una sorta di linguaggio cifrato: sappiamo chi ha ucciso Varisco e perché. Un ulteriore elemento, un documento politico redatto dal vertice delle Br, chiarisce la relazione con i terroristi. Come afferma il personaggio di Fernanda, la mente della rapina è Antonio Chichiarelli, che dopo aver scritto il falso comunicato, e aver lasciato del materiale scottante in un taxi, riappare attraverso una rapina, lasciando strani indizi, quasi un’intimidazione a chi gli aveva garantito la libertà. Il film sostiene la tesi dello scambio: la rapina, consistente e molto facile, sarebbe stata una ricompensa per il lavoro svolto fino a quel giorno. Ma pochi mesi dopo la rapina, come ricorda il giudice Saracini, un killer munito di pistola con silenziatore uccide Chichiarelli. È il 28 settembre 1984. E’ l’ennesimo cadavere eccellente che articola l’affaire Moro e lo ammanta di un ulteriore mistero. A collegare il caso Moro a quello di Chichiarelli esistono altri elementi che per motivi di narrazione il film non può raccontare. Willan ricorda che il 25 marzo Pecorelli avrebbe telefonato a Il Messaggero comunicando che in un cestino di piazza Gioacchino Belli, lo stesso luogo del falso comunicato numero 7, si troverebbero alcuni proiettili dello stesso calibro usato per la rapina della Brinks. Vi era, in oltre, un documento definito “allarmante”: c’era il riferimento alla presenza finanziaria di Sindona nella banca Brinks, cosa che non era affatto di pubblico dominio. Chiunque si addossasse la responsabilità della rapina del 1984 era indubbiamente l’autore del comunicato in codice del 1978 o gli era molto vicino. Tra i documenti ritrovati in piazza Belli c’erano anche gli originali dei rapporti su Pecorelli, Gallucci e Ingrao, lasciati da Chichiarelli nel taxi. Il film non si sofferma, però, su un ipotesi inquietante: Chichiarelli aveva spedito sempre a Il Messaggero due frammenti originali di Polaroid fatte risalire alle due foto fatte a Moro durante la sua prigionia. Ne consegue che Chichiarelli, o qualcuno molto vicino, era venuto in contatto con la prigionia di Moro. Si tratta di un fatto gravissimo: un membro della malavita romana in contatto con i servizi segreti si sarebbe introdotto nella prigione di Moro mentre questi era ancora vivo; dal che si deduce che i servizi segreti conoscevano l’ubicazione della prigione di Moro (e Pecorelli l’aveva detto) ma anche, nonostante questo, non avevano fatto nulla per assicurarne il rilascio. È un’ipotesi inquietante che si collega nuovamente agli oggetti lasciati sul taxi. Il primo elemento riguarda la patente intestata a Luciano Grossetti priva di foto che probabilmente, secondo Willan, si riferiva all’informatore Luciano Del Bello. Il secondo riguarda un biglietto per Messina (Villa San Giovanni), che indicherebbe una possibile relazione con il mondo mafioso siciliano e che si riferirebbe alla presenza dei carabinieri nell’affaire Moro. Con questa manovra, Chichiarelli sembra voler evidenziare tutta il lavoro svolto da Pecorelli. Anche Chichiarelli sembra spinto da una volontà “strana”: quella di svelare i collegamenti già descritti dal giornalista. Ma il suo vero obiettivo non sembra essere molto chiaro e forse, anche per questo, sarà eliminato in circostanze misteriose. La morte di Chichiarelli, il falso comunicato e l’episodio della borsa finiscono per assumere, come sottolinea lo stesso giudice, un chiaro significato collusivo: la rapina di Chichiarelli era la ricompensa che i servizi segreti, legati agli interessi della P2, avevano offerto allo stesso falsario per la collaborazione al settimo comunicato. L’evento collusivo spiega, per tanto, la complicata alleanza che si era creata dietro l’affaire, dove servizi segreti e criminalità sembrano convergere sull’obiettivo di eliminare in ogni modo la presenza “politica” di Moro. Dunque il film, trattando il personaggio di Chichiarelli, costruisce un'altra pista indiziaria che si affianca al caso Moro e allude alle possibili collusioni: sono coinvolti Pecorelli, Varisco, Chichiarelli stesso, servizi segreti deviati e gruppi potenti e oscuri che fanno gli interessi di qualcosa che nel film ancora non si capisce chiaramente[99]. Fino a questo punto lo scopo del racconto filmico è quello di sollevare quanti più dubbi sulle versione ufficiale del sequestro Moro. E’ soltanto in questo momento che il film inizia ad affrontare il motivo del suo racconto, ovvero fornisce una prima spiegazione del suo titolo Piazza delle Cinque Lune. La Piazza è il luogo che spiegherebbe le strane alleanze che avrebbero dato origine all’eliminazione di Moro, che spiegherebbe la collusione tra terroristi, servizi segreti deviati e gruppi internazionali: le “cinque lune” possono assurgere al valore simbolico della vicenda di Moro, incastonata in una sorta di zona grigia che ancora oggi, malgrado i cinque processi, rimarrebbe misteriosa e irrisolta. Attraverso l’inserimento di immagini brevi e verosimili (il bianco e nero dei Super8) e la descrizione di elementi indiziari riservati e compromettenti per la politica nazionale e internazionale, il film minaccia la fruizione passiva dello spettatore, portandolo ad un coinvolgimento emotivo e razionale. Rispetto alla struttura narrativa di Rosi, o ancora di Oliver Stone (si pensi a JKF) il film mantiene le unità di luogo e di tempo, concedendosi brevi flashback di forte impatto percettivo e storico, senza lasciare il “presente storico” dove si svolgono le indagini. I due livelli del film, l’indagine degli esistenti e l’affaire Moro, finiscono per sovrapporsi da dare l’illusione di un unico tempo storico. In realtà di tratta di due momenti ben distinti, sia per quanto concerne la collocazione temporale degli eventi, e sia per quello che concerne la costruzione estetica dei vari momenti. Tuttavia questa sovrapposizione di tempi diversi, può giustamente considerarsi un unico tempo narrativo, in quanto sono tematicamente legati al tema dell’indagine. Probabilmente è quello che intende Deleuze, quando tratta l’argomento “tempo”: si scopre un tempo interno all’avvenimento, fatto di simultaneità di tre tempi, passato, presente e futuro, contemporanei, e dunque «arrotolati», «simultanei», «inesplicabili». La narrazione consisterebbe, da questo punto di vista, nel distribuire i differenti presenti a seconda delle circostanze. Tuttavia, il film di Martinelli non costituisce una narrazione particolarmente destrutturata per quanto concerne l’ordine del tempo, come invece avviene nel film Salvatore Giuliano di Francesco Rosi o in JFK di Oliver Stone.

7. INDAGINI E MASSONERIA. Dopo la prima indagine sul caso Moro scaturita dalla visione del Super8, il racconto punta l’attenzione sui protagonisti, Rosario, Branco e Fernanda. Qualcuno li sta spiando. La scena della metropolitana di Milano informa chiaramente che i personaggi sono al centro di un misterioso pedinamento. La conferma viene dallo stesso Branco che attraverso il vecchio trucco del cerino, incastrato nella portiera della macchina, scopre che qualcuno è stato li. Qualcuno ha aperto la macchina. Le immagini in bianco e nero fanno da contrappunto alla scena nel garage: l’inquadratura riprende gli stessi personaggi, ma cambia la qualità e il punto di vista di chi osserva. Se prima era il racconto del film a mostrarci il loro movimento, adesso è un punto di vista diverso, estraneo all’oggettività narrativa della macchina da presa. Quel punto di vista sembra indicare la presenza di un altro esistente, di un altro personaggio, che il racconto non ha ancora presentato. Il movimento “sporco” dell’inquadratura contiene una sorta di terzo senso, è offre un ulteriore significato semantico: è il punto di vista di qualcuno che sta spiando i tre personaggi, che li controlla in ogni piccola mossa. Questo evento ha due significati narrativi: il primo, evidentemente, è di ordine informativo, cioè dice che qualcuno o qualcosa sta controllando le azioni del procuratore (brigatisti? servizi segreti? malavita?). Il secondo è di ordine prettamente narrativo in quanto tende a rafforzare l’intreccio del racconto: attraverso queste misteriose minacce, il film “ri-attualizza” il clima che aveva caratterizzato il caso Moro. Il “potere” è dunque sempre in agguato, intollerante e spietato. Chiunque ha che fare con il caso Moro, come ricordano le parole di Fernanda, è inevitabilmente coinvolto in un gioco molto più grande che sembra non avere scrupoli sull’incolumità delle persone e delle rispettive famiglie. È proprio questo tipo di intreccio che rafforza l’ipotesi del “complotto” contro Moro e quindi contro chi tenta di indagare sullo stesso affaire. Da questo punto di vista il tempo storico sembra non essere trascorso: il potere è costantemente presente, onnisciente, determinato, spietato, come racconta lo stesso film. La morte del marito di Fernanda, che il film racconta attraverso un “incidente” creato a regola d’arte, mostra l’estrema conseguenza di questo potere: uccide le persone, distrugge le famiglie, sopprime la società civile. La scena della recita risorgimentale, impersonata dai figli di Fernanda, assume un valore simbolico. La bandiera dell’Italia che copre il corpo caduto del soldato oltre ad essere un evento narrativo, la recita scolastica appunto, è anche una rappresentazione simbolica di tutto quello che coinvolge il caso Moro. Durante la recita, Rosario viene raggiunto da un nuovo messaggio dall’anonimo terrorista (si tratta del quarto contatto all’interno del film): «controllate i rogiti di via Gradoli 96». L’espressione indica chiaramente la mancanza di chiarezza sul covo brigatista sito in via Gradoli. Il biglietto provoca una furibonda reazione di Fernanda, la quale inizialmente si scaglia contro Rosario nel tentativo di dissuaderlo da questa folle indagine, ma subito dopo è lei stessa che si immerge nei fascicoli del caso Moro. Tale costruzione del personaggio è senza dubbio contraddittoria. Se la sua funzione narrativa è quella di alimentare la “paura” che aleggia intorno alle indagini, che di fatto si tradurranno con la perdita del marito, e pur vero che l’integrità del personaggio, la sua costruzione, è poco chiara e sostanzialmente ambigua. Fernanda preme affinché la famiglia debba restare fuori, ma poi si lascia trasportare dal vortice delle indagini ed è lei stessa a conoscere l’esito delle indagini e dei vari processi. Da un punto di vista diegetico, il suo scopo narrativo è particolarmente debole o, comunque, subisce un’evoluzione che resta un tantino forzata. La scoperta del presunto covo di via Gradoli 96 (scala A interno 11), nella zona nord di Roma, costituisce uno degli elementi più misteriosi del caso Moro in cui si può intravedere una sorta di “collusione” tra malavita, brigatisti e servizi segreti. Il covo, come ho accennato nel paragrafo precedente, viene scoperto durante la prigionia di Aldo Moro, esattamente il 18 aprile: la data coincide con il trentesimo anniversario della democrazia cristiana e con la diffusione del settimo “falso” comunicato. Il film evidenzia che nella stessa via, al numero 89, sarebbe vissuto il sottufficiale dei carabinieri Arcangelo Montani, agente del Sismi e originario di Porto San Giorgio, luogo di nascita del capo brigatista Mario Moretti. Si tratta di una coincidenza significativa. Durante il sequestro Moro, l’agente Arcangelo Montani ufficialmente “non faceva parte del Sismi”, ma il 31 marzo 1978 lo stesso contrammiraglio Fulvio Martini (allora vice direttore del servizio segreto militare) era intervenuto a favore del Montani in seguito a un esposto presentato al comando dei carabinieri da alcuni inquilini del condominio di via Gradoli 89, i quali avrebbero lamentato di aver subito vessazioni da parte del sottufficiale. Si tratta di un primo elemento misterioso a cui seguiranno una serie di “indizi”. Attraverso uno scorcio veloce sul personaggio di Rosario, il film mostra una serie di nomi di società immobiliari di coperture del Sisde, presenti in via Gradoli ad incominciare dagli appartamenti della palazzina dove si trovava il covo. Le società sono l’immobiliare Gradoli, l’immobiliare Case Roma srl e l’immobiliare Monte Valle Verde srl. Flamigni si chiede, come sia possibile che il Sisde, che aveva in locazione gli appartamenti accanto e di fronte al covo brigatista, non si sia accorto di niente. Come è possibile che il Sisde non abbia saputo della presenza dei brigatisti in una delle sue proprietà immobiliari? Questa parte del film è chiaramente ispirata al lavoro d’indagine del senatore Flamigni, il quale si è basato su due ricerche principali:

«…1) ho voluto concentrare l’attenzione su uno degli aspetti principali del caso Moro, le vicende del covo di via Gradoli, da cui emerge che i nostri servizi segreti hanno controllato i brigatisti, ma li hanno lasciati agire indisturbati fino al 18 aprile 1978, quando hanno fatto scoprire il covo in concomitanza con il comunicato falso del lago della Duchessa.

2) Dato che alcune notizie pubblicate nel mio libro “Convergenze parallele” erano state contestate in particolare da Francesco Cossiga che aveva presentato una interrogazione parlamentare al ministro dell’Interno, ho voluto rendere noto che lo stesso Capo della Polizia, dott. Masone, ha ammesso la veridicità di quanto avevo scritto nel precedente libro Convergenze parallele a proposito dei legami con fiduciari del Servizio segreto civile di società immobiliari proprietarie di appartamenti in via Gradoli 96 (nello stesso palazzo dove vi era il covo delle Br), e a proposito del fatto che Vincenzo Parisi, già direttore del Sisde e capo della polizia, era proprietario di diversi appartamenti in via Gradoli».

La tesi portata avanti dal film è quella della collusione tra servizi segreti, apparati della polizia e brigatisti: insieme, controllati da un’organizzazione per ora non meglio definita, avrebbero contribuito a determinare lo svolgimento degli eventi. Rosario ricorda come il ministro degli interni Cossiga aveva istituito tre Comitati con una rapidità senza precedenti i quali, però, non produssero risultati determinanti. Questi furono il Comitato tecnico-operativo (presso il gabinetto del Ministero dell’Interno), il Comitato informativo (Sismi, Sisde, Cesis e Sios) e il Comitato “esperti”, di tipo informale composto da intellettuali, aggregato intorno al professor Vincenzo Cappelletti. Il film non può “raccontare” ogni indizio giudiziario (non è il suo compito precipuo), ma tra le righe tenta di dare valore ad alcuni eventi. In effetti la questione relativa alla formazione e alla funzione dei Comitati è piuttosto recente: del Comitato di “esperti” si è avuta ufficialmente notizia solo il 15 maggio 1991, quando Francesco Cossiga, che lo istituì, ha deciso di renderlo noto, senza peraltro chiarirne fino in fondo, l’attività e le decisioni. Di questo gruppo parallelo facevano parte: Stephen Pieczenik del Dipartimento di Stato Usa e uomo di fiducia di Kissinger, e i professori Franco Ferracuti, Stefano Silvestri, Cappelletti, Conte Micheli, Dalbello, Mario D’Addio, Ermentini. Su questa struttura di consulenza, ha reso testimonianza uno degli appartenenti, Stefano Silvestri, ascoltato in Commissione Stragi nel giugno 1998. Secondo Silvestri non fu mai tenuta una riunione di questo organismo, ma ai singoli componenti venivano chiesti pareri su alcune questioni senza alcun coordinamento con strutture operative. Il dato più importante riguarda il lavoro relativo al Comitato di esperti che risulterebbe, tutt’oggi, inesistente: mancherebbero i verbali e una precisa documentazione. La stessa Commissione ha concluso: «la mancanza dagli archivi del Viminale di tutta la documentazione concernente il periodo di prigionia dell’On. Moro e dei tentativi di liberarlo da parte delle forze dell’ordine non trova alcuna plausibile spiegazione». Le ipotesi in merito possono essere tre: «La soppressione dei documenti stessi, la loro sottrazione da parte di ignoti, ovvero il loro trasferimento dalla sede propria. Si conferma così una costante dell’affaire Moro: prove importanti sulla gestione della crisi sono state sottratte agli organi istituzionali, ma non è escluso che altri ne dispongano e le utilizzino, o minacci di farlo, nel momento più conveniente». L’elemento di spicco del Comitato “esperti” è senza dubbio Steve Pieczenik, fautore di una precisa linea strategica: occorreva dimostrare che Moro non era indispensabile alla vita del Governo e della nazione. Per il comitato, Aldo Moro è affetto dalla sindrome di Stoccolma e quindi è inaffidabile. Tutto il contributo del consulente americano è quella di rafforzare la decisione del governo italiano a non negoziare la liberazione di Moro. Si tratta di una strategia che entra fortemente in relazione con la tesi portata avanti dal film di Martinelli. Ad occuparsi del consulente americano è Pecorelli, nel suo ultimo articolo (16 gennaio 1979) intitolato Vergogna buffoni. Il giornalista minacciava di tornare in futuro su alcuni aspetti dell’oscura vicenda: «Parleremo di Steve R. Pieczenick vicesegretario di Stato al governo Usa, il quale, dopo aver partecipato per tre settimane alle riunioni di esperti al Viminale, ritornato in America prima che Moro venisse ucciso, ha riferito al Congresso che le disposizioni date da Cossiga in merito alla vicenda Moro erano quanto di meglio si potesse fare». Willan ricorda che la stessa presenza del consulente americano era stata tenuta nascosta alla stampa e perfino, come afferma Rosario, alla stessa ambasciata Americana. La sua presenza a Roma è dunque segretissima. Se fosse vero, questo fatto proverebbe la particolare ambiguità del Comitato in cui faceva parte lo stesso Steve Pieczenik. Ma non basta. Un altro comitato, quello tecnico operativo, dimostra strane incongruenze. Questo è composto dal Sismi, dal Sisde, dall’Ucigos, più i vertici dell’esercito e della marina. La struttura si rivelerà quasi subito impotente, perfino depistante: i verbali del 3 aprile, data che coincide con la presenza dell’amico americano di Cossiga e della nuova strategia relativa al sequestro Moro, spariranno misteriosamente. Tutto il lavoro delle indagini è caratterizzato da un imponente sforzo investigativo basato sul movimento di mezzi logistici e posti di blocco. Come aveva osservato Sciascia, si aveva l’impressione di assistere ad una parata che voleva impressionare l’opinione pubblica. E si tratta di una tesi che il film sviluppa ulteriormente: tutte le indagini, secondo il giudice Saracini, sarebbero state manovrate da un misterioso gruppo di potere, la Loggia «ultrasegreta e clandestina» P2. La Loggia Massonica, come evidenzia il giudice, ebbe una funzione di collegamento tra l’esito delle indagini e il lavoro dei Comitati con lo scopo di impedire la realizzazione della politica di Moro e «l’ingresso del partito comunista nel governo italiano». È la prima volta che un film italiano tratta in maniera approfondita la funzione specifica e strategica di questo gruppo massonico deviato. Da questo momento in poi il film costruisce il caso Moro in relazione a questo gruppo di potere; per la prima volta nella storia del cinema fa il nome del suo capo e dei suoi appartenenti in relazione al caso Moro. L’inserimento della P2 all’interno del film è quindi un evento importante anche da punto di vista strettamente narrativo. Giuseppe Ferrara aveva tentato l’inserimento della Loggia nel suo film con tanto di luogo fisico, un elegante salone dove gli affiliati si sarebbero riuniti (compreso l’uomo che avrebbe preso alcune valigie di Moro). Tuttavia il racconto di Ferrara rimane circoscritto in questo evento e non allarga l’indagine come invece fa il film di Martinelli. Lungi dal fare un confronto diegetico tra i due film, i quali se pur trattando lo stesso argomento sono film diversissimi, è doveroso osservare che Piazza delle cinque Lune è un racconto basato sull’ipotesi del complotto a partire dal compito che la stessa Loggia avrebbe perpetuato all’interno del caso Moro. Martinelli non esita a fare il nome del capo venerabile Licio Gelli compiendo un ulteriore passo verso il cinema cosiddetto impegnato, rompendo il muro di omertà e di autocensura che ha caratterizzato la cinematografia politica.

8. VIA GRADOLI. Tutte le indagini portate avanti sembrano essere determinate da un potere che le gestisce, e al tempo stesso, ne impedisce lo sviluppo in senso definitivo. L’evento più indicativo, in questo senso, è il caso di via Gradoli, che costituisce uno dei punti fermi del racconto di Martinelli. La via nasconde molte contraddizioni. Una piccola via di città, sconosciuta, persa nella periferia nord di Roma, trova una collocazione “giudiziaria” che la pone al centro di un contesto internazionale complesso e delicato. Le strane modalità di indagine avvenute in via Gradoli sono argomentate da Fernanda. Il 18 marzo del 1978, gli agenti di pubblica sicurezza erano già stati nella via senza conseguire risultati. Gli agenti del commissariato Flaminio capeggiati dal brigadiere Domenico Merola non apriranno la porta dove, in seguito, verrà scoperto uno dei covi delle Br. Fernanda evidenzia un fatto estremamente strano, un indizio inequivocabile. Si tratta della relazione firmata da Merola riguardo a quella perquisizione intestata su carta con il bollo Polizia di Stato. La nuova sigla, pero, è adottata con la riforma della pubblica sicurezza nel 1981. E’ una relazione “falsa” che mette in dubbio l’operato della polizia e delle perquisizioni. Il dirigente del commissariato, il dottor Costa, fornirà una versione dell’evento: la relazione era stata riscritta e fatta firmare al brigadiere Merola poiché l’originale era stato consegnato alla Corte. Per gli appartamenti non perquisiti lo stesso Costa affermerà che erano state prese «opportune informazioni» sugli inquilini occupanti. Un ulteriore indizio viene dalla dichiarazione-denuncia di Lucia Mokbel datata 18 marzo, la quale sente provenire dall’appartamento in cui si sarebbe trovato il prigioniero Moro alcuni segnali morse, denuncia che consegnerà al suo amico vicequestore e funzionario del Sisde Elio Cioppa (P2) uno degli uomini del generale Giulio Grassini. In Corte d’Assise gli agenti sarebbero caduti dalle nuvole, e non avrebbero ricordato nessuna denuncia della Mokbel. Altri fatti strani offrono uno spunto investigativo. Delle segnalazioni riguarderebbero alcune automobili viste passare nella via. Vengono annotate targhe automobilistiche e si pedinano persone come riporta un rapporto della Digos riscritto il 18 agosto 1978. In particolare viene osservato un furgone Volkswagen targato Roma 589133 appartenente ad un certo Giulio del Petra, il quale si recherà in Calabria con il furgone stesso. In Calabria c’è nello stesso periodo (1975) anche Mario Moretti in circostanze mai chiarite. In una testimonianza di Enrico Triaca, si afferma che un furgone simile è utilizzato dalle Br per portare la stampatrice presso la tipografia in via Foa. Il numero di De Petra verrà trovato nell’agenda di Morucci. Ma tutto questo si scoprirà più tardi. Un'altra informazione sul covo di via Gradoli era giunta anche dal parlamentare democristiano Benito Cazora in data 25 marzo 1978 da un misterioso emissario appartenente alla malavita calabrese di nome “Rocco”. Lo stesso Cazora afferma di essere stato portato sulla Cassia all’altezza dell’incrocio di via Gradoli dove gli sarebbe stato detto che questa era la “zona calda”. Cazora riportò immediatamente l’informazione al questore di Roma, dove si fermò. Ma l’elenco delle segnalazioni non finisce qui. Altre informazioni sarebbero giunte all’ex ufficiale del Sid Antonio La Bruna attraverso un suo informatore, un certo Benito Puccinelli in una notte di fine marzo 1978: in via Gradoli c’era un appartamento interessante che si nota anche per un “antenna” radio sul tetto. Francesco Solimeno pentito ed esponente di Guerriglia comunista afferma di essere stato informato su via Gradoli da un certo Fritz (4 aprile 1978) durante un giro dalle parti di via Cassia. Secondo un appunto trovato nel covo, un certo “Fritz” aveva consegnato alle Br la mitraglietta Skorpion usata per il rapimento Moro. E naturalmente come ogni indagine che si rispetti non poteva mancare l’elemento metafisico. Il nome di via Gradoli uscì durante una seduta spiritica a cui aveva partecipato il futuro presidente dell’Iri Romano Prodi. Tuttavia Andreotti e Cossiga hanno sempre affermato che l’informativa a Prodi gli sarebbe giunta, probabilmente, attraverso l’area dell’Autonomia Operaia di Bologna. Lo stesso Cossiga, in chiara polemica con le modalità delle indagini, ha poi dichiarato in un’intervista a Radio Radicale del 18 aprile 2001: «nessuno di coloro che hanno partecipato alla seduta spiritica e che lo hanno ammesso, e che mi hanno passato l’informazione, sono stati minimamente incriminati, io sono stato sentito 68 volte, il presidente Prodi che mi passò l’informazione, non è stato mai chiamato di fronte alla Commissione Stragi, questo perché non è vero che tutti siamo uguali davanti alla legge». Malgrado le moltissime segnalazioni, l’appartamento verrà scoperto soltanto il 18 aprile del 1978 in seguito ad un evento definito accidentale: una perdita d’acqua provocata dal rubinetto della doccia appoggiato contro le screpolature del muro. Ciò nonostante Moretti dirà: «la scoperta di via Gradoli fu normale: io sapevo che c’era un sifone che perdeva in un alloggio vicino al nostro e l’amministratore ne era informato, dunque niente P2 ma la disonestà dei palazzinari romani». il contratto sottoscritto da Mario Borghi alias Mario Moretti, è datato il 31 dicembre 1975. I primi inquilini brigatisti sono Lauro Azzolini e Carla Brioschi. Dal gennaio all’estate del ’77 ci abitano Valerio Morucci e Adriana Faranda. Le indagini di Sergio Flamigni, descritte nei diversi volumi (La tela del ragno, Il covo di Stato e la Sfinge delle Brigate Rosse), puntano l’attenzione su un elemento extrafilmico: la figura dell’ingegner G. F, locatore dell’appartamento. L’ingegnere, che secondo Flamigni sarebbe stato il proprietario dell’immobile affittato a Mario Moretti, avrebbe visto avanzare la sua carriera negli anni consecutivi al caso Moro. Flamigni ricostruisce le vicende a partire dallo stranissimo contratto d’affitto, a suo dire, stipulato in fretta e furia, senza date di stipula e decorrenza. Flamigni evidenzia come non sia stato possibile dimostrare quanto l’inquilino Borghi-Moretti pagasse di canone d’affitto, e neppure se lo pagasse regolarmente. Per Flamigni, la strana dinamica che si sarebbe generata dietro la figura dell’ingegnere, rappresenta un valido elemento di indagine da gettare un ombra di sospetto sugli eventi di via Gradoli. Ma si tratta di supposizioni e di indagini che non hanno trovato, per ora, una conferma giudiziaria e storica. È ancora Pecorelli (aprile 1978) a puntare l’attenzione sulle strane circostanze relative alla scoperta del covo di via Gradoli: «l’allagamento è soltanto un pretesto di comodo inventato dalla polizia, allo scopo di depistare l’interesse della stampa da chi per ben due volte, da Roma e da Torino, fornì l’informazione sul covo. Informazione che usata meglio avrebbe potuto essere risolutiva». Nello stesso articolo Pecorelli non esita a inserire alcuni strani “errori”. Primo fra tutti il numero civico che è indicato erroneamente con il numero 92. Nello stesso articolo, Pecorelli chiama Mario Borghi con il nome di Vincenzo Borghi. Sarà proprio il film a risolvere questi misteri. Questo nome era stato preso dal rapporto ufficiale redatto dal colonnello dei carabinieri, nonché amico dello stesso Pecorelli, Antonio Cornacchia. Riguardo il numero “92” il film chiarisce immediatamente il significato di quel messaggio: presso quel civico c’era un appartamento del Sisde. Fernanda afferma che Pecorelli stava collegando il sequestro Moro e le attività delle Br con i servizi segreti. Un altro articolo di Pecorelli affermava «la scoperta del covo si doveva ad una soffiata della malavita romana, malgrado Infelisi e la polizia abbiano sostenuto che l’allagamento fosse stato accidentale». Si scoprirà in seguito, come scrive Flamigni, che all’interno del covo Br era stato trovato il numero di telefono dell’immobiliare Savellia, società di copertura del Sisde e che in via Gradoli (civico 96 e 75) c’erano intestati alcuni appartamenti all’ex capo della polizia Vincenzo Parisi (Flamigni osserva che l’immobiliare Savellia risulta di proprietà del Sovrano militare Ordine di Malta). In tale contesto, è lo stesso personaggio di Fernanda che cita il nome di Vincenzo Parisi come destinatario del rogito del box al numero civico 75 di via Gradoli, «esattamente dove un anno prima il capo della Brigate Rosse parcheggiava le auto dei terroristi» e dei due «appartamenti al numero 96, esattamente dove si trovava il covo brigatista». Non solo: l’amministratore dello stabile (a cui evidentemente si rivolgevano le Brigate Rosse per la normale gestione delle spese), è un certo Domenico Catracchia «professionista di fiducia del Servizio segreto civile» come ricorda il personaggio di Fernanda. Il documento storico o l’indagine filmica, che dir si voglia, è quindi prevista in sceneggiatura con un’impostazione del racconto che non ha certamente precedenti nel cinema di inchiesta italiano. Anche da questo di evince il coraggio civile del film di Martinelli che si espone, probabilmente, a non pochi problemi giudiziari. In questo ambito è doveroso ricordare che il senatore Flamigni riporta due documenti “riservati” che comprovano inequivocabilmente la presenza del Sisde in via Gradoli: una relazione e un appunto, datati entrambi il 7 maggio 1998, firmati rispettivamente dal capo della polizia Fernando Masone e dal capo del Sisde Vittorio Stelo, e inviati al ministro dell’Interno e al Cesis in seguito alla pubblicazione del libro Convergenze parallele. La relazione firmata dal dottor Masone, conferma che la Fidrev srl, società di consulenza del Sisde era a sua volta controllata dall’immobiliare Gradoli. Ma non basta. Flamigni continua le sue indagini e scopre che il prefetto Parisi avrebbe acquistato, con atto notarile del 10 settembre 1979, un appartamento al civico 75 di via Gradoli e, successivamente, sempre al civico 75, altri due appartamenti e un box. Secondo lo studio di Flamigni, Parisi acquistò, altri due appartamenti nel 1987. L’appunto del prefetto Stelo precisa inoltre che «la società Fidrev, azionista di maggioranza dell’immobiliare Gradoli, risulta aver svolto assistenza tecnico-amministrativa per la Gus e la Gattel [società di copertura del Sisde, ndr], dalla loro costituzione fino al 14 ottobre 1988. Strane convergenze, dunque, per parafrasare l’inchiesta di Sergio Flamigni, strani accostamenti che lasciano il sospetto che qualcosa di strano sia avvenuto in quella zona di Roma. Le ambiguità che gravano in un luogo frequentato dalla polizia, dai brigatisti e dai servizi segreti, portano nel cuore del Ghetto romano. Willan ricorda che Elfino Mortati, arrestato per l’omicidio del notaio Gianfranco Spighi (Prato, 10 febbraio 1978), chiede di essere ascoltato per alcune informazioni relative a questo covo. Ricorda il giudice istruttore Ferdinando Imposimato: «Io e il collega Priore caricammo Mortati su un pulmino dei carabinieri e girammo in lungo e in largo, anche a piedi, per il Ghetto, ma senza alcun risultato. Pochi giorni dopo il mistero s’infittì quando mi vidi recapitare in ufficio una foto scattata quella sera, e nella foto c’eravamo io, Priore e Mortati»; la foto, che ritraeva i tre mentre erano in via dei Funari angolo via Caetani, venne scattata da un osservatorio dei servizi segreti italiani. Di quell’intimidazione non venne informata la Commissione d’inchiesta sul caso Moro, né le foto risultano agli atti del processo Moro trasmessi alla Commissione. Dalle dichiarazioni di Mortati, dagli accertamenti svolti dai vigili urbani, dalle notizie delle fonti confidenziali trasmesse, gli inquirenti arrivarono a individuare un covo brigatista situato nel Ghetto ebraico di Roma durante il sequestro Moro in via Sant’Elena n° 8, interno 9. Ma a quel punto tutto si fermò: una speciale immunità protesse le Brigate rosse anche nel Ghetto ebraico. Il film non trova spazio per inserire tale elemento ma il collegamento con il Ghetto, come ricorda Flamigni, continua. Nel covo Br di via Gradoli il 18 aprile 1978 venne trovata la chiave di un’auto con un talloncino di cartone sul quale c’era scritto su un lato «Jaguar 2,8 beige H 52559 via Aurelia 711», e sull’altro «FS 915 FS 927 porte Sermoneta Bruno». Era una traccia che portava nuovamente nel Ghetto ebraico, dove c’erano alcune basi e punti d’appoggio delle Br che tenevano prigioniero Moro, ma le indagini vennero avviate solo a partire dal 12 ottobre 1978 (cioè 5 mesi dopo l’uccisione del presidente Dc). A tale proposito la signora Moro ricorda una circostanza piuttosto inquietante. Quando Eleonora Moro suggerì che la parola “Gradoli” poteva riferirsi ad una strada romana, si sentì rispondere dal ministro degli Interni Cossiga che lo stradario di Roma non registrava quel nome. In realtà la strada esiste ed esisteva anche all’epoca. La signora Moro e altri membri della sua famiglia riferirono questo episodio nel corso del processo, ma Cossiga smentì recisamente la circostanza durante la sua testimonianza. Nel covo vengono trovati volantini delle BR, numerose armi, esplosivo ed altri documenti. Vengono rinvenute patenti automobilistiche, carte di identità e tessere per concessioni ferroviarie per impiegati dello Stato in bianco, centinaia di volantini delle Brigate Rosse, rivendicanti attentati, tra cui quello al Procuratore Generale di Genova, dott. Francesco Coco (Genova, 8 giugno 1976), e quello al Maresciallo Rosario Berardi (Torino, 10 marzo 1978). Inoltre vengono sequestrati, una divisa da Guardia di PS; una divisa da aviatore di linee aeree, una tuta da operaio della SIP, un camice da impiegato delle PP.TT., nonché numerosi manoscritti, una piantina di un carcere imprecisato, matrici di ciclostile ed altro. Ma la cosa più allarmante come ricorda Fernanda e che non venne fatto nessun rilevamento delle impronte, cosa che si fa nelle procedure più semplici relative ai furti d’appartamento. Insomma, la scoperta di via Gradoli come afferma Rosario è stata una «scoperta pilotata». Sul collegamento del Sisde con Borghi-Moretti, emergono le conclusioni portate avanti dall’indagine di Flamigni. Fra il materiale trovato nel covo c’era un appunto manoscritto di Moretti: «Marchesi Liva – 659127 – mercoledì 22 ore 21 e un quarto» (la data corrispondeva a mercoledì 22 marzo 1978, sei giorni dopo la strage di via Fani e il sequestro), e un altro «foglietto manoscritto con recapito telefonico n° 659127 dell’immobiliare Savellia». Ancora la Savellia! La sede della Savellia si trovava in palazzo Orsini nella zona del ghetto romano a pochi passi da via Caetani. Il segretario della Savellia secondo Flamigni, risulta essere il ragioniere commercialista G. C. Ma perché il manoscritto appuntava Marchesi Liva, marchesa Valeria Rossi in Litta Modigliani, nobildonna romana che si firmava anche Liva residente in palazzo Orsini? Flamigni evidenzia che il commercialista risulta essere responsabile di altre società immobiliari (Proim srl, immobiliare Palestrina III e l’immobiliare Kepos) tutte collegate al Sisde. Altri nomi, altri individui e altre società immobiliari quasi sempre di copertura collegate al servizio segreto civile finiscono per rendere ancora più complesso l’affaire Moro. Si tratta di eventi che gettano un’oscura ombra su tutta la vicenda di Via Gradoli e pongono conseguentemente domande urgenti: quale alleanze trasversali si sarebbero formate dietro l’affaire Moro? A favore di chi? Perché Moretti avrebbe dovuto incontrare Liva? Che legame sarebbe esistito tra Moro, i brigatisti e il ghetto ebraico? Quale funzione avrebbe dovuto avere lo schizzo planimetrico di palazzo Orsini attribuito a Valerio Morucci, trovato nel materiale di via Gradoli? Sono domande, ancora oggi, in attesa di una chiara risposta. De Luca – Scarano ricordano che il 20 aprile, due giorni dopo la scoperta del covo, il perito balistico Ugolini avrebbe scritto al magistrato una lettera “riservata”, relativa alle possibili connessioni tra il materiale trovato nel covo di via Gradoli e la strage di via Fani. Il perito avrebbe puntato l’attenzione sul calibro delle pallottole: un bossolo 7.65 parabellum marca Sako con capsula percossa e un bossolo, anch’esso esploso, di calibro 30 M Winchester (carabina in dotazione ai carabinieri). Il bossolo Sako risulta essere uguale a quelli trovati a via Fani, probabilmente sparati dalla MAB P 15 e quindi testimonierebbe il legame tra via Gradoli e via Fani. Ma, inspiegabilmente, non vengono approfondite le indagini. E siamo all’evento più complesso di tutto il sequestro: il settimo comunicato delle Br. In esso reso, noto lo stesso giorno del ritrovamento di via Gradoli, viene annunciato il «suicidio» di Aldo Moro e il recupero della salma nei fondali limacciosi («ecco perché si dichiarava impantanato» si legge) del lago della Duchessa. In seguito si scoprirà essere un comunicato falso, elaborato dal già citato Antonio Chichiarelli. Il 20 aprile giungerà alla stampa il vero comunicato numero sette che smentirà categoricamente quello precedente, definito come «una lugubre mossa degli specialisti della guerra psicologica». Nella sua Relazione, l’intellettuale Leonardo Sciascia aveva visto giusto: il falso comunicato poteva essere indistintamente assegnato sia alle Br e sia al Governo. Il falso comunicato «serviva ed è servito ad entrambi: come ballon d’essai, come prova generale, come ovvio sistema per far scaricare su una notizia falsa – che sarebbe poi stata dichiarata falsa – quelle tensioni, emozioni e giudizi che si sarebbero scaricati sulla vera; e di rendere quindi la vera, che a distanza più o meno calcolata sarebbe esplosa, come ridotta, come devitalizzata». La notizia dell’esecuzione doveva avere una funzione strategica: annunciando la morte di Moro, avrebbe dovuto abituare l’opinione pubblica e le stesse istituzioni a tale evento. In relazione al falso comunicato, emergono altri elementi indiziari non meno importanti. Enrico Paghera (già incontrato per il caso Ronald Stark) spiegherà alla Commissione Moro che si è trattato di uno stratagemma per distogliere l’attenzione delle forze dell’ordine dalla città di Roma, in modo da consentire la fuga indisturbata dei suoi compagni. Tale ipotesi è avvalorata anche da Mario Moretti il quale è sempre pronto ad allontanare dal caso Moro ogni possibilità di complotto e negando ogni “altra” interpretazione.  Willan ricorda che lo stesso avvocato di Curcio, Giannino Guiso, ipotizzò persino che Licio Gelli fosse implicato nel depistaggio del lago della Duchessa: «quella fu la prova generale della morte di Moro… il fatto che un falso fosse stato considerato autentico, quando in realtà era palese la sua in autenticità, deve pur significare qualcosa. Di certo Chichiarelli non lo preparò di sua spontanea volontà». Una testimonianza del terrorista di destra Massimo Sparti, secondo Willan, dichiarò ai magistrati che Chichiarelli gli aveva raccontato di aver preparato per scherzo e divertimento il comunicato, versione poi confermata anche dalla moglie di Chichiarelli, Chiara Zossolo. Come si è visto, la funzione di Chichiarelli all’interno del caso Moro era stata quella di distrarre l’opinione pubblica sulla scoperta del covo di via Gradoli. Ma il film non si limita a questa spiegazione: la figura di Chichiarelli serve ad ipotizzare legami più profondi tra la malavita organizzata e i servizi segreti, da alludere ad uno scenario più inquietante e più complesso. Tutto quello che accade in via Gradoli, inevitabilmente, grava ulteriormente l’affaire Moro, da divenire essa stessa luogo di strani incontri e oscure collusioni. Da questo punto di vista, si rinforza la traccia proposta dal film, ovvero la possibilità che la teoria del complotto non sia soltanto una teoria.

9. MORETTI E HYPERION. L’incontro del giudice con il misterioso aggressore costituisce la continuazione del racconto. La scena si svolge nel duomo di Siena, all’interno di un confessionale. Da un punto di vista narrativo, molto probabilmente, la scelta della scena coincide con una sorta di sottotesto, di codice tematico che accosta il caso Moro con un ambiente principalmente ecclesiastico. Se questo elemento sia voluto o accessorio poco importa. Di fatto il regista sembra aver scelto questa traccia narrativa. A rendere più misteriosa la scena è indubbiamente il cammeo del bravo scrittore e archeologo Valerio Manfredi, nella parte del vescovo nel confessionale. Ma ovviamente si tratta di una presenza scenica limitata soltanto a questa parte del film. È in questa circostanza che prende forma l’identità piuttosto ambigua del temibile capo delle Br, Mario Moretti. L’anonimo terrorista definisce Moretti un «capo anomalo» giocando con un sillogismo evidente, quello con il covo di via Gradoli. Se Gradoli è stato un covo singolare, contiguo alle attività del Sisde, anche il ruolo di Moretti potrebbe indicare uno strano contatto “esterno” con altri gruppi di potere. Rosario è invitato ad andare dietro all’altare. Il terrorista prima di sparire allude alle simbologie misteriose del caso Moro. A questo punto Rosario si accorge di essere rimasto solo e trova un floppy per computer. La consultazione del file si rivela carica di tensione. Il giudice clicca sul file Memoriale, ma non possiede la password per entrare. In un secondo momento clicca sul nome di Moretti. Come un videogioco, prende forma una catena di associazioni: la torre “Eiffel”, che allude chiaramente alla città parigina, e in fine una strada, Quai de la Tornelle 24, numero 7. E’ il luogo dove risiede la scuola di lingue Hyperion. Dopo qualche secondo compare il nome Entità. Da questo evento Rosario decide di partire per Parigi per incontrare tale “entità” e comprendere quale relazione vi sia tra Moretti e Parigi. Cosa sia questa Hyperion è subito spiegato dal misterioso intermediario contattato da Rosario: Hyperion è una compagnia, una scuola di lingue, di centro di assistenza dove sono presenti un grandissimo numero di marxisti, quasi tutti collegati con gruppi eversivi e terroristici come l’OLP, l’ETA, l’IRA e le stesse Br. La vera essenza della società è quella della «lotta tra bande». Ma in realtà, continua l’entità, questa organizzazione faceva parte della Cia, infiltrata all’interno dei stessi gruppi eversivi per poterli strumentalizzare e manipolare a seconda delle necessità politiche. Obiettivo: cooptare i gruppi violenti e fornirgli aiuti e organizzazione. Attraverso una battuta esemplificativa di Rosario, il film prende dunque una chiave narrativa inedita attraverso un percorso storico giudiziario diverso da quello ufficialmente conosciuto: «trovo stupefacente il grado di infiltrazione, l’insidiosità della presenza americana nelle nostre azioni, incredibile». È il momento in cui il film incomincia ad allargare il caso Moro, elevandolo ad un contesto internazionale che ha come riferimento il trattato di Yalta. Il trattato, che sanciva la divisione politica del mondo in due grandi blocchi, ha avuto l’effetto di determinare la politica nazionale e le scelte economiche di ogni governo del pianeta. In Italia, come osserva l’ex terrorista, esisteva il partito comunista più forte di tutta l’Europa occidentale e questo poteva rappresentare una seria minaccia per l’equilibrio mondiale. La nozione inserita nel film è offre una visione inedita e fino ad ora ignorata della vicenda di Moro e confermerebbe, in questo senso, una prima prova del complotto dietro la sua eliminazione. Ma l’ipotesi portata avanti dal film, non sembra essere soltanto un’evidenza. La Commissione d’inchiesta parlamentare sulla strage di via Fani aveva evidenziato che la scuola di lingue disponeva «di locali di un certo tono, per la cui locazione viene corrisposto un canone di notevole importo che, aggiunto alle spese di gestione, comporta un impegno costante di spesa». Le entrate dichiarate dalla scuola, come rivela Flamigni, non potevano certo compensare gli impegni finanziari assunti. In relazione a questa scuola, secondo un rapporto della polizia evidenziato da Flamigni, si legge il nome di Duccio Berio (addetto alle pubbliche relazioni), Francoise Tuscher (presidente dell’Hyperion) e Corrado Simioni (consigliere culturale). Tutti avrebbero un reddito superiore alle loro entrate. Nelle fila della scuola si registrano nomi importanti e molti viaggi in Europa che evidenzierebbero una fitta rete di rapporti a livello internazionale. Il coinvolgimento di questa struttura, che aveva sede in un prestigioso ufficio di Qua de la Tornelle, a pochi passi da Notre Dame, era stata analizzata dal giudice Pietro Calogero come organizzazione che avrebbe dettato le direttive strategiche a diversi gruppi terroristici. Hyperion sarebbe stata creata per dare rifugio e protezione ai latitanti di tutta Europa, secondo la deposizione del brigatista veneto Michele Galati. Per quest’ultimo le Br si sarebbero fornite dalla scuola Hyperion attraverso la figura di Moretti. Si tratta di un ulteriore elemento indiziario che mette in discussione la figura del capo delle Br, Mario Moretti. Il film, per motivi specificatamente narrativi non può inserire troppe nozioni e per questo si limita ad evidenziare la funzione proteiforme e sostanzialmente ambigua di questa organizzazione. Tuttavia esisterebbero delle prove sconcertati riguardo alla strana identità del gruppo brigatista. L’Hyperion aveva altri protettori, ancora più potenti e sinistri come suggerisce il giudice Calogero attraverso le indagini su Toni Negri e l’autonomia operaia francese. L’indagine del magistrato Carlo Mastelloni, incentrata sul traffico d’armi tra l’Olp e le Brigate rosse aveva analizzato l’insolita posizione della scuola Hyperion. La vicenda salì agli onori della cronaca nel 1984 con la clamorosa emissione di un mandato di cattura per Yasser Arafat, con l’accusa di aver autorizzato la vendita alle Br di numerosi carichi d’armi, un procedimento che non ebbe, però, conseguenze giudiziarie. Tuttavia il giudice affermò, anche se con una certa cautela, che tale traffico era, molto probabilmente, avvallato e protetto dai servizi segreti italiani e dalla stessa Cia. Il volume di Willan evidenzia come all’interno di questa vicenda si possano individuare eventi particolarmente gravi. In particolare emerge il ruolo del colonnello Stefano Giovannone, ufficiale del Sismi, la cui attività si sarebbe inserita tra alcune organizzazioni terroristiche come l’Olp, o le stesse Br e la Cia, sempre pronto a mantenere un costante equilibrio tra le parti. Secondo Willan, l’ufficiale sarebbe stato coinvolto nel traffico di armi con lo stesso Moretti sul noto incontro sulla nave Papago. Sempre Willan ricorda un'altra strana circostanza: la funzione di un non meglio specificato “gruppo speciale” creato dal direttore del Sismi Giuseppe Santovito, sin dal’79 quando Moretti organizzava la consegna delle armi dal Libano che avrebbe sorvegliato tale operazione. Ambigua è anche la presenza del colonnello Silvio Di Napoli le cui missioni sarebbero rimaste coperte dal Segreto di Stato. Willan ricorda il caso sconcertante dell’archivio del generale Maletti in cui si leggerebbe con data 25 marzo 1975, di uno strano contatto tra brigatisti e Olp: «coordinamento Br – Olp, nostra brillante azione, relazionare». Nel dicembre del 1990 la corte d’Assise di Venezia assolse tutti i quattordici imputati accusati di complicità nel traffico d’armi. Il pubblico ministero minimizzò la tesi del giudice Mastelloni, chiedendo la condanna solo per quattro degli accusati. Tuttavia, come osserva Willan, «per la prima volta ufficiali dei servizi segreti e terroristi di sinistra si trovavano assieme in un processo, imputati per gli stessi fatti». Se tutte queste ipotesi giudiziarie fossero in qualche modo storicamente rilevabili, per quale motivo la Cia o i servizi segreti italiani, avrebbero lasciato campo libero alle azioni terroristiche dei brigatisti? Hyperion dunque corrisponderebbe ad un disegno strategico assai complesso, con un preciso obiettivo politico. Duccio Berio, incaricato delle pubbliche relazioni della scuola, aveva affermato che dietro gli attentati della sinistra in realtà si sarebbe nascosto un disegno di destra. Per una strana coincidenza, come ricorda l’Entità, la scuola aprì una sede anche a Roma, in via Nicotera 26 poco prima del rapimento di Aldo Moro (nello stesso edificio dove sono domiciliate alcune società di coperture del Sismi) e una a Milano. Entrambe le scuole saranno poi chiuse l’autunno seguente. Dopo l’arresto di Moretti, avvenuto nel 1981, i contatti con Parigi furono affidati a Giovanni Senzani, un altro brigatista sospettato di essere in contatto coi servizi segreti, proprio come lo stesso Moretti. Il compito narrativo del film è quello di scavare sotto il velo ufficiale e definitivo della storiografia, innescando un’indagine complessa e difficilissima. Tuttavia, se quanto detto corrispondesse ad una verità storica, sarebbe inevitabile pensare alle estreme conseguenze storiche e politiche di una simile organizzazione. Da questo presupposto, verrebbe spontaneo dubitare sui reali obiettivi di Moretti, che con i suoi comportamenti strani, quasi mai giustificati chiaramente, finisce per spiazzare i suoi stessi compagni di lotta. «Dove c’è Moretti, ci sono i servizi segreti», afferma il personaggio dell’ex terrorista, spingendo il ragionamento oltre a qualsiasi interpretazione scontata. E così facendo provoca una strana possibilità di costruzione del racconto, non solo nel giudice, ma soprattutto nel pubblico, che sin dall’inizio è costretto a mettere in dubbio tutte le versioni “ufficiali” delle indagini giudiziarie. Lo sconcerto di Rosario è placato dalla consegna di uno strano opuscolo: «se vuole sapere la verità, legga questo». Quando il giudice Saracini arriva a Parigi, scoprirà il filo rosso che lega Moretti alla scuola Hyperion. Da questo punto di vista il film rivela la portata internazionale delle Br italiane. Il compito narrativo spetta all’Entità (F. Murray Abraham), di cui non viene fatto il nome e ne si mostrano indizi anagrafici da far pensare a qualcuno realmente esistito. Da qui, la peculiarità della scena. Si tratta di una scelta narrativa precisa che attraverso un personaggio di finzione racconta chiaramente il “quarto livello” di questa vicenda. In questo modo la fiction viene a contatto con i documenti storici in modo da non tradire la veridicità dei fatti. Se il personaggio è inventato, è un esistente, lo stesso non si può dire dei contenuti che riferisce e del suo ruolo all’interno della vicenda. L’Entità, questo è il suo nome, è dunque un personaggio inventato, ma con una funzione narrativa e storica che poco si allontanerebbe dalla verità dei fatti proposta da Martinelli. La sua funzione è quella di spiegare, appunto, la vera ragione “politica” delle Br, sconosciuta ai stessi aderenti della lotta armata. Nel 1980 il giornalista Guido Passalacqua sollevò la questione della vera identità dei capi delle Br in un articolo su La Repubblica (12 aprile 1980): «c’è qualcuno più in altro, una, due, tre persone, che decide le “campagne del terrorismo”… Una direzione decisamente impenetrabile se si pensa che, stando alle indiscrezioni, l’unico collegamento con gli operativi era costituito da Moretti». Il 7 maggio, Passalacqua venne gambizzato perché nemico di classe. Fortemente sospettosi sulla funzione di Moretti sono gli stessi compagni di partito: secondo Curcio, Moretti è sicuramente una spia; anche per Giorgio Semeria, appartenente alla colonna milanese, Moretti è una spia. E probabilmente Moretti non era l’unico elemento “anomalo”. Secondo una dichiarazione allusiva di Bettino Craxi, dietro la Brigate rosse e dietro la stessa Hyperion si sarebbe nascosto un “grande vecchio” ovvero, il già citato Corrado Simioni. Flamigni ricorda che Corrado Simioni aveva catturato l’attenzione degli investigatori italiani per i suoi esili guadagni e le moltissime spese della scuola Hyperion. Il mistero di questa scuola si infittisce per una strana vicenda relativa ad un sequestro di persona. Un uomo di affari italiano (non viene specificato il nome) aveva donato circa 20 milioni di lire alla scuola poco dopo che il fratello era stato rapito dalla ‘ndrangheta calabrese. Avvicinarsi alla villa di campagna di Simioni, forse di proprietà della stessa scuola, era impossibile a causa del grande numero di guardie armate da cui era presidiata. Flamigni ricorda che il protettore ufficiale di questa scuola era un certo Henri Groues, conosciuto come Padre Pierre, un prete cattolico che aiutava in senzatetto, eroe della Resistenza, deputato e candidato nel ’89 al Nobel per la pace. Secondo la polizia italiana nel ’72, Padre Pierre si teneva in contatto con Renato Curcio e altri brigatisti che sosteneva come vittime della “persecuzione politica” (anche sua nipote, Francoise Tuscher, era un attivista politica che aveva militato nella Sinistra proletaria). Quando nel ’65 Simioni è espulso dal Psi, entra a far parte del Usis (servizi di informazione Usa), con un ruolo di provocatore e di indebolimento del Partito comunista e di rafforzo del sentimento filoatlantico. Una delle strategie proposte dall’Usis prevedeva la formazione di una nuova corrente socialista che avrebbe dovuto rompere con la linea marxista filosovietica e occidentalizzarsi. Funzione, secondo Flamigni, che ebbe il suo amico e compagno di partito Bettino Craxi. Nel 1969, Simioni aveva fondato e diretto il Cip, Centro informazione politica, composto su un doppio livello, uno ufficiale e uno riservato. Secondo la Commissione controinformazione di Avanguardia operaia, Simioni avrebbe avuto collegamenti con l’intelligence statunitense e sarebbe stato addestrato dalla stessa Cia in Francia. Sono circostanze importanti che tuttavia non possono essere trattate nel film, per ovvi motivi di narrazione. Il racconto sceglie di puntare su Moretti, sui suoi comportamenti strani e molto spesso superficiali. Molto spesso Moretti commette errori madornali, ma subito dopo non perde occasione per scusarsi, senza essere chiaro nelle spiegazioni date. Le circostanze sono diverse. Nel 2 maggio 1972 la polizia scopre l’appartamento di via Boiardo e arresta Giorgio Semeria e Marco Pisetta. Gli altri terroristi riescono a fuggire grazie anche al sorprendente numero di giornalisti che si era appostato sul luogo con netto anticipo rispetto alla polizia. Moretti, secondo il suo resoconto, riesce a fuggire perché una “vecchietta” lo avrebbe informato sulla scoperta del covo pieno d’armi. Il noto giornalista Enzo Tortora, collaboratore del mensile Resistenza Democratica, si era appoggiato proprio alla macchina della moglie di Moretti, una 500 blu. La macchina, che verrà sequestrata dalle forze dell’ordine quello stesso giorno, è uno dei primi indizi dello strano comportamento di Moretti. La polizia risalirà alla moglie di Moretti. Tuttavia anziché arrestare la banda al completo, Curcio, Cagol e lo stesso Moretti, l’operazione di via Boiardo può considerarsi un reale insuccesso. Ma un fatto è certo: siamo nel maggio del 1972 e «il futuro capo delle Br al momento è dunque conosciuto, latitante e ricercato e tutti – polizia, carabinieri, apparati di sicurezza, ministero dell’Interno, magistratura – ne sono informati, a Milano così come a Roma». Nel covo vennero trovati i negativi scattati all’ingegner Macchiarini, fotogrammi che avrebbero permesso di riconoscere uno dei terroristi, Giacomo Cattaneo detto il Lupo. Afferma Franceschini che quei negativi non dovevano stare lì, «Moretti ci aveva garantito di averli distrutti […] si giustificò di essersi sbagliato in quanto i negativi si erano incollati tra di loro […] Giacomo Cattaneo, arrestato si era convinto che Moretti era una spia». Ma non basta. La polizia troverà una foto di Renato Curcio. Moretti si era dimenticato di distruggere la foto dopo aver preparato il falso passaporto al brigatista. Si tratta di un'altra dimenticanza del capo brigatista. Ogni volta, Moretti è pronto a chiedere scusa per le sue “sbadataggini” e a tergiversare immediatamente su altre questioni. Durante il sequestro Mincuzzi (28 giugno 1973), dirigente tecnico dell’Alfa Romeo, Moretti lascia un comunicato con una stella a sei punte, la stella di David. Moretti disse di essersi sbagliato. Per pura combinazione il Mossad prenderà contatto con lo stesso Moretti e lo aiuterà a trovare l’informatore Pisetta nascosto a Friburgo. Ricorda Franceschini che il Mossad offrì, senza volere niente in cambio, armi e munizioni a patto che gli stessi brigatisti continuassero a destabilizzare il paese in modo che gli «Usa fossero costretti a far riferimento a Israele per il mantenimento delle posizioni nell’area del Mediterraneo […] avevano assicurato che avrebbero comunque sostenuto la lotta armata in Italia». Si tratta di un'altra ipotesi inquietante, molto spesso sorvolata dalle diverse versioni storiche del caso Moro, ma che costituisce un importantissimo riferimento dell’affaire, come ricorda lo stesso senatore Pellegrino. Scarnado - De Luca ricordano il comportamento anomalo di Moretti. Primo fra tutti la misteriosa partenza per la Calabria, in una strana missione di cui non avrebbe offerto giustificazioni plausibili ai compagni di lotta. Il 12 e il 15 dicembre Moretti e la Balzerani sono a Catania. Il 6 febbraio 1975 è al Jolly Hotel Excelsior di Reggio Calabria. In questa città, come in buona parte del sud italiano, non ci sono colonne brigatiste da fondare come non ci sono progetti “rivoluzionari”. Semmai è l’epoca della nuova mafia. Eppure Moretti e la Balzerani se ne stanno in alberghi di lusso, senza informare il resto dell’organizzazione. Tra i due viaggi, Moretti stipula il contratto di affitto per il covo di via Gradoli, in una via ricca di strane convergenze. Tutto questo confermerebbe un comportamento ambiguo e poco chiaro da far insospettire gli stessi compagni di lotta. «È il tempo a determinare la verità della storia», afferma l’Entità. Di fronte allo sbigottimento del giudice Saracini, l’uomo incalza la dose, e attraverso questa frase sibillina, rende concreta la possibilità del complotto. Una frase che ha una forte valenza storiografica e al tempo stesso investigativa. Soltanto da una precisa prospettiva storica si possono comprendere certi eventi e giungere alla verità. Un’affermazione che sembra ribadire il punto di vista di chi conosce il retroscena dell’affaire. Il tempo e lo spazio, dunque, sono le coordinate del caso Moro raccontato da Martinelli. Il tempo che aggiunge nuove nozioni, piccoli indizi che gettano inquietanti dubbi sull’ultimissima costruzione dell’affaire; e contemporaneamente lo spazio, quello storico e quello scenico, rappresentato dalla scena finale della torre di Siena come metafora del punto di vista narrativo. Più si sale in alto e più il “complotto” e il suo obiettivo, prendono forma. All’interno di un contesto tutto interno e nazionale, il caso Moro appare come un episodio di importanza internazionale. Allargando la prospettiva, le cose prendono un significato diverso: la torre, la salita dei personaggi, le scale, sono la metafora di un allargamento dell’affaire ad un livello internazionale che avrebbe riguardato gli interessi e l’equilibrio dei governi mondiali. Da questo punto di vista, il film non solo sostiene la possibilità del complotto, ma diventa un primo abbozzo di tutte quelle dinamiche politiche e finanziarie che saranno decise a livello mondiale dai governi più potenti, attraverso una politica molto spesso oscura e belligerante, che sembra determinare gli interessi del cosiddetto Nuovo Ordine Mondiale. Se il film di Martinelli può infastidire, e perché mira senza troppe scuse al cuore del problema storico e politico del mondo, inquadrando gli interessi delle potenze economiche e internazionali in un contesto dettato della legge del dominio e del controllo finanziario, e definendo, così, la necessità di mettere in pratica le perfide strategie militari e geopolitiche. Eventi molto spesso sottaciuti o nascosti alla maggioranza del mondo civile che, per forza di cose, non riesce e ne può comprendere la spietata strategia degli Imperi.

10. LA FAMIGLIA DENTRO E FUORI IL FILM. Un aspetto in cui il film costruisce la sua narrazione è quello del contesto familiare. La famiglia è il gruppo elementare dove l’individuo nasce, si forma e cresce. Si tratta di un punto di riferimento particolarmente importante per le persone che la compongono, dove si formano le basi psicologiche e affettive del gruppo. In oltre, la famiglia è la struttura basilare su cui si costruisce la società, cellula fondamentale per lo stesso Stato. Ne consegue che sia da un punto di vista sociologico e sia da un punto di vista psicologico è un fondamentale snodo dell’individuo. In tal senso la famiglia riveste un ruolo centrale nel racconto, sia attraverso il caso Moro e sia attraverso i protagonisti che portano avanti l’indagine. Il film costruisce una parte dell’intreccio sulla famiglia di Fernanda e, considerando lo stesso caso Moro, tale scelta narrativa non è data unicamente da questa necessità. Aldo Moro, come viene evidenziato nelle sue lettere, scriveva costantemente alla sua famiglia, con un calore e un affetto esemplare. I suoi interventi sono sempre mirati a tranquillizzare i suoi cari e la “dolcissima Noretta”, richiamandosi alle prove dure della sua vicenda. Per lo statista la famiglia assume un ruolo fondamentale come interlocutore intimo e a volte perfino poetico. Una famiglia che non ha smesso di soffrire la perdita del caro congiunto, ancora oggi incredule del tradimento di amici e del suo partito. Il film, a suo modo, tenta la descrizione di questa sofferenza attraverso lo stato d’animo la famiglia di Fernanda. Quando suo marito viene a conoscenza degli eventi in cui sta indagando la moglie, minaccia di portare via i figli. È la parte narrativa del film che insiste sull’importanza degli affetti familiari e sulla loro incolumità e che bilancia il racconto dell’indagine. La libertà individuale rischia di essere messa in discussione a causa degli impegni improrogabili del lavoro, le indagini portate avanti dalla moglie. Il privato viene usurpato dalle necessità “pubbliche” (Fernanda è un magistrato) mettendo a rischio la cosa più importante: la famiglia e gli stessi figli. Tuttavia qui devo riscontrare una contraddizione sulla costruzione del personaggio di Fernanda, già summenzionata, la quale inizialmente fa di tutto per bloccare l’entusiasmo e le indagini private dello stesso Rosario e poi, in seguito, è mostrata nell’atto di studiare le carte processuali e i documenti delle varie Commissioni Parlamentari. Dunque, il personaggio di Fernanda si divide, con non poche contraddizioni diegetiche tra la famiglia e la carriera, tra la sfera privata (i figli e il marito) e la pista investigativa. Un dualismo sembra forzare un pochino le varie sfaccettature del personaggio e non sembrano offrire una sua perfetta costruzione narrativa e psicologica. Tuttavia si può tentare un confronto tra la scelta narrativa del film e del personaggio di Fernanda con l’uomo Moro, che agisce tra l’importanza della sua famiglia politica e l’affetto della famiglia naturale. L’ultima lettera di Moro a Noretta, recapitata il 5 maggio, rivela tutta la sua intensità umana e intellettiva, una sorta di componimento poetico, un testamento che tocca il cuore e che confermerebbe l’importanza del fattore umano dietro l’affaire. Verso l’epilogo, verso la consapevole fine fisica del prigioniero, cruda e razionale, c’è spazio per una lucida analisi di quello che sta per avvenire, annuncio del «momento conclusivo»: Mia dolcissima Noretta, dopo un momento di esilissimo ottimismo, dovuto forse ad un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Non mi pare il caso di discutere della cosa in sé e dell'incredibilità di una sanzione che cade sulla mia mitezza e la mia moderazione. Certo ho sbagliato, a fin di bene, nel definire l'indirizzo della mia vita. Ma ormai non si può cambiare. Resta solo di riconoscere che tu avevi ragione. Si può solo dire che forse saremmo stati in altro modo puniti, noi e i nostri piccoli. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della D.C. con il suo assurdo ed incredibile comportamento. Essa va detto con fermezza così come si deve rifiutare eventuale medaglia che si suole dare in questo caso. E' poi vero che moltissimi amici (ma non ne so i nomi) o ingannati dall'idea che il parlare mi danneggiasse o preoccupati delle loro personali posizioni, non si sono mossi come avrebbero dovuto. Cento sole firme raccolte avrebbero costretto a trattare. E questo è tutto per il passato. Per il futuro c'è in questo momento una tenerezza infinita per voi, il ricordo di tutti e di ciascuno, un amore grande grande carico di ricordi apparentemente insignificanti e in realtà preziosi. Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in una unica casa, anche Emma se è possibile e fate ricorso ai buoni e cari amici, che ringrazierai tanto, per le vostre esigenze. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. Ricordami a tutti i parenti ed amici con immenso affetto ed a te e tutti un caldissimo abbraccio pegno di un amore eterno. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienmi stretto. Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto tanto Luca) Anna Mario il piccolo non nato Agnese Giovanni. Sono tanto grato per quello che hanno fatto. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo. L’affetto e l’emozione con cui Moro scrive le ultime parole alla moglie, lasciano comprendere quanto egli fosse premuroso e protettivo nei confronti della sua famiglia. In oltre emerge, senza troppe velature, l’intensa umanità dell’uomo Moro, che smentirebbe chiaramente la definizione di un uomo duro e freddo, come qualcuno lo avrebbe descritto. La lettera si comunica attraverso due livelli, quello famigliare e quello politico, dimostrando una sorta di inseparabilità, di coerente continuità tra la vita privata e la vita politica, un’integrità etica e morale, di “fare” politica e di “essere” politico. Tuttavia, quello che mi preme evidenziare è la presenza di un elemento, in un certo senso, estraneo al contesto familiare, che si riferirebbe ad una serie di indizi cifrati, che lo stesso Sciascia non aveva esitato a prendere in considerazione. Questo aspetto avrebbe dovuto attirare l’attenzione, se non della narrazione, che non può raccontare tutto, almeno degli investigatori. Adriano Sofri aveva posto l’attenzione su quella strana espressione di Moro, «vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo». La frase indicherebbe, probabilmente, una sorta di luogo chiuso in cui lo statista sarebbe stato rinchiuso, luogo in cui era privato della luce del sole. Da questo prenderebbe corpo l’ipotesi che lo statista avrebbe inserito dei messaggi in codice nelle sue lettere. La trasmissione televisiva di Enigma (Rai Tre, martedì 22 marzo 2004) ha messo in evidenza la particolare propensione di Moro per l’enigmistica e la possibilità che lo stesso abbia inserito alcuni anagrammi in alcuni passi “strani” nelle sue lettere. Il giornalista Gianni Gennari, ospite delle trasmissione, riferisce della passione di Aldo Moro per l’enigmistica attraverso la testimonianza degli amici del politico, il professor Filippo Sacconi, Giorgio Bachelet (fratello di Vittorio), Alberto Malavolti. Fu proprio questo gruppo di amici che si sarebbe accorto della possibile esistenza di messaggi cifrati all’interno delle lettere di Moro attraverso frasi non molto chiare, le stesse frasi che aveva preso in esame Leonardo Sciascia. La prima lettera è quella rivolta a Zaccagnini, del 4 aprile. Si legge «se non avessi una famiglia bisognosa di me sarebbe un po’ diverso». Giocando sull’anagramma, di cui Moro è sarebbe stato un esperto conoscitore, gli amici di Moro avrebbero individuato «son fuori Roma, dove la Cassia in basso forma un asse, vedo pini e bimbi» (rimane fuori la lettera “g”). L’altra lettera è quella del 29 aprile che risalterebbe agli occhi per una strana caratteristica visiva. Improvvisamente dopo aver scritto a Misasi, Moro salta un quarto di pagina iniziando una frase strana. Si tratta forse di un'altra indicazione: «è noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono le ragioni fondamentali della mia lotta contro la morte». Anagrammando uscirebbe: «le Br mi tengono prigioniero nel Cottage a mattoni a somma della valle di Formello tra Flaminia e Cassia» (rimangono fuori “h”, “i” e “u”). Secondo la testimonianza di Gennari si tratta di una tesi che aveva una sua forza comprovata anche da un importante enigmista, Ennio Peres, il quale aveva notato la forte presenza della lettera “s” e la costante indicazione della parola “famiglia”. L’uscita di questo articolo presso il giornale Paese Sera (1983) non ebbe ripercussioni. Un evento stranissimo però accadde: un signore anziano, ex pilota della Raf, grafico e pittore si presentò alla redazione del giornale, raccontando allo stesso Gennari e all’allora direttore Claudio Fragassi, di aver conosciuto e visitato la prigione di Moro, in una cantina di un noto magistrato, escluso dal suo ruolo proprio da Moro poiché coinvolto nella vicenda Sindona. L’anziano pittore evidenziò le strane parole del magistrato in relazione a questo scantinato: «da qui salveremo l’Italia». L’anziano signore, racconta Gennari, venne trovato morto (morte naturale) 20 giorni dopo nella sua abitazione di Vertica di Amalfi. Il mistero si infittisce quando nel 1987 esce la nuova rivista Giochi in cui viene pubblicato l’articolo sull’enigmistica di Moro e le lettere anagrammate: la rivista viene fatta chiudere il giorno dopo. Si tratta di una storia che andrebbe presa con tutte le riserve del caso e su cui si dovrebbe fare più chiarezza. Satta, da parte sua, ricorda che lo stesso fratello dello statista, Alfredo Carlo Moro, aveva fatto presente che lo statista non sarebbe stato un enigmistam. L’autore ritiene improbabile che Moro abbia inserito dei messaggi segreti nelle sue lettere. Attraverso la famiglia, Moro tenta di stabilire un canale di comunicazione privilegiato e probabilmente sotto forma di codice. Per Sciascia, Moro darebbe due significati diversi al termine “famiglia”. Il bisogno di protezione e di affetto che porta alla sua famiglia non coincide con lo stato sociale della stessa: «peraltro, da meridionale, non credo potesse vedere come bisognosa – di denaro e di protezione – una famiglia come la sua. Un meridionale ai cui figli non manca il lavoro e le cui figlie hanno, oltre al lavoro, un marito; che lascia alla moglie una casa e una pensione e all’intera famiglia un buon nome, si considera come sciolto dal problema della famiglia e in regola con la vita e con la morte. È da pensare, dunque, che appunto perché trovavano immediata e oggettiva smentita, Moro continuasse, insomma, che voleva dire altro». Per cui Moro non avrebbe trattato la famiglia nel «sentimento, nella sentimentalità, nel pietismo in cui gli italiani lo usano», poiché questo fare «torto alla sua intelligenza, alla sua misura, alla sua lucidità». Dunque nel messaggio preso in esame da Sciascia, la lettera datata 29 aprile, Moro allude ad un’altra famiglia: «è noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte». Con il termine “noto” Moro intende sottolineare «quel che noto non è: e che dunque un'altra ragione bisogna riconoscere nella sua lotta contro la morte». Sciascia allude ad un'altra famiglia, probabilmente quella politica, quella all’interno del partito stesso, che si sarebbe trasformata durante il suo sequestro, e che forse è condizionata da altri eventi esterni. Probabilmente l’allusione dello statista è rivolta a chi dentro il partito conosce le priorità dell’altra politica. Nel caso Moro, la famiglia assume in todo un aspetto importantissimo. E probabilmente grande importanza hanno i sentimenti, al di là dei possibili codici inseriti nelle comunicazioni. Tuttavia, questo aspetto non ha ancora smesso di incoraggiare un’indagine seria e rigorosa che possa far emergere qualche elemento importante. Insomma, anche nella chiara possibilità di vedere un uomo segnato dal suo destino, pronto a comunicare il suo dolore ai suoi cari, esisterebbe spazio per un Moro “diverso”, preciso, puntuale, che avrebbe cercato di comunicare in codice alcuni elementi utili alla sua liberazione. Si tratta naturalmente di un’ipotesi, ma ciò costituisce inevitabilmente un fatto storico importante che lo stesso Sciascia aveva indicato all’indomani della scomparsa di Moro e che non può essere dimenticato. Di fronte al Moro emotivo, debole, forse colpito dalla sindrome di Stoccolma, esisterebbe un Moro lucido, razionale pronto ad utilizzare con abilità e precisione qualsiasi spiraglio di comunicazione per tentare la sua liberazione. Sono due immagini quasi opposte, diverse che non coincidono affatto e che dovrebbero suggerire in qualche modo una possibile soluzione. Da una parte c’è la perfezione del sequestro, dell’azione militare di via Fani; dall’altra esiste una strana imperfezione dei terroristi, dei comportamenti di Moretti, degli arresti improvvisi, dove addirittura emerge il fattore umano e debole dei stessi brigatisti, come ricorda Sciascia. Nella perfezione del caso Moro, nell’ipotetico scenario del complotto, esiste la faccia imperfetta e debole del sentimento degli stessi personaggi che vi prendono parte, proprio come nella palese imperfezione dei protagonisti reali della drammatica vicenda. Il film Buongiorno Notte di Marco Belloccio, tratto dallo scritto della Braghetti, Il prigioniero, insiste molto su questa lettura del caso Moro, anche se si tratta di un’interpretazione legittima, storica e soggettiva. Probabilmente il caso Moro con le sue implicazioni politiche e strategiche è più complesso di quello che la Braghetti, dal suo punto di vista, ha descritto nel suo bel libro. E affermando questo, vorrei evitare di cadere nella facile dietrologia storica. E’ opportuno ricordare, che Anna Maria Braghetti ha continuato a rifiutare la tesi del complotto e senza troppi misteri, ha sostenuto che dietro le stesse Brigate Rosse «non c’erano potenze nazionali o internazionali che potessero influire sulla situazione, o aprire canali coperti di comunicazione e di trattativa». Si tratta di una visione semplice e lineare della vicenda Moro, che entra chiaramente in contrasto con le conclusioni sostenute dal film. Una recente trasmissione televisiva, L’infedele di Gad Lerner (20.9.2003), trattando l’argomento Moro, ha glissato su tutti i misteri che avrebbero generato l’affaire. Il programma ha invece scelto di argomentare altre questioni, come il rapporto tra gli intellettuali e il terrorismo, la militanza del marxismo – leninismo, la rivoluzione fallace e illusoria di molti giovani, brigatisti compresi. Nemmeno una parola sulla possibilità che gli stessi brigatisti potessero essere stati strumentalizzati, nemmeno una parola su Hyperion, o su Moretti. Nessuna parola è stata proferita per i misteri del caso Moro. In parte, questo dimostrerebbe che il tabù Moro sia piuttosto diffuso all’interno del panorama culturale e politico italiano. Dalla trasmissione è emersa un’immagine delle Brigate Rosse ingenua, lacerata, inconsapevole, edulcorata proprio come la racconta la Braghetti e come lo ha raccontato, seppur in modo diverso, il film di Marco Bellocchio. Tuttavia, esiste un’imperfezione costante in tanti aspetti dell’affaire, una sorta di sviluppo illogico di alcuni eventi che, proprio per questo, finiscono per incrementare l’incerto sviluppo del caso. Un’imperfezione che inevitabilmente suggerisce un'altra pista investigativa, una serie di fatti che affiancati l’uno all’altro, suggeriscono un'altra immagine del sequestro. Da questo punto di vista, la strage di via Fani finisce per essere la fine di un lungo percorso che sembra partire molto prima. Il sequestro Moro rappresenterebbe, alla luce di questi eventi, una sorta di cappello conclusivo. Sciascia osserva che non è soltanto l’incongruenza di alcuni indizi ad essere messa in discussione, ma esiste un’umanità che traspare negli eventi del sequestro che finiscono per ribadire la fragilità degli stessi terroristi di fronte ad un piano preciso e portato a termine. Un’imperfezione che Moro ribadisce alla «unanimità fittizia» della linea della fermezza, in riferimento ad un possibile scambio con i brigatisti: «…applicare le norme del diritto comune non ha senso. E poi questo rigore in un paese scombinato come l’Italia». La telefonata a Franco Tritto del brigatista Nicolai è uno degli esempi di questa umanità involontaria presente nel caso Moro. La telefonata, secondo Sciascia, è costretta alla terribile necessità del caso e, al tempo stesso, è intrisa di un’emotività incontrollata: la freddezza e la passione del terrorista indicano, nel suo divenire evento storico, un terzo senso, un significato nascosto, che richiederebbe una nuova valutazione dell’affaire. Attraverso la telefonata si comunicano dei piccoli particolari, forse insignificanti per un magistrato, ma fondamentali per uno scrittore: la titubanza del figlio del professore che inizia a piangere per telefono, l’esitazione del freddo Nicolai che in più di un’occasione si ripete perdendo l’obiettivo di quella comunicazione, una modalità anomala per una telefonata lunga più di tre minuti che si scoprirà fatta dalla Stazione Termini: «che cosa dunque trattiene il brigatista a quella telefonata, se non l’adempimento di un dovere che nasce dalla militanza ma sconfina ormai nella umana pietà? La voce è fredda; ma le parole, le pause, le esitazioni tradiscono la pietà […] forse ancora oggi il giovane brigatista crede di credere si possa vincere di odio e contro la pietà: ma quel giorno, in quell’adempimento, la pietà è penetrata in lui come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti». La telefonata ricalca un’anomalia italiana, l’imperfezione di una organizzazione, quelle delle Brigate rosse che lasciano continuamente tracce e commettono errori madornali. Al di la della straordinaria lucidità di Sciascia, viene da chiedersi ancora oggi, come è possibile che le Brigate rosse, ragazzi con qualche idea rivoluzionaria e un armamento piuttosto ridotto, abbiano potuto realizzare un attacco così preciso e determinante nel cuore dell’Europa. Osserva Sofri: con Moro, qualcuno ha ancora sorriso della piccineria italiana e democristiana, del “tengo famiglia”. Tuttavia, attraverso le lettere di Moro, è la famiglia – e proprio la famiglia del più esemplare leader cattolico e democristiano – a contrapporsi fino alla rottura alla ragione di stato e di partito». Da questa spaccatura sono poi seguite le famiglie delle vittime delle altre stragi Ustica, Bologna, famiglie che ancora aspettano, nella loro dura lotta quotidiana, la verità sulla morte dei loro congiunti, figli e mariti, mogli e madri. Il coinvolgimento della famiglia è dunque una scelta narrativa ma è anche un dato storico, un fatto reale. Sarà proprio la famiglia di Moro ad entrare in scena dimostrano la commistione tra vita privata e vita pubblica del presidente, attraverso un duro comunicato stampa del 27 aprile diretto al mondo politico italiano e alla stessa Democrazia Cristiana. Si tratta di un atto di accusa rivolto alla Dc per la liberazione di Moro, in riferimento al «comportamento di immobilità e di rifiuto di ogni iniziativa proveniente da diverse parti» che ratificherebbero la condanna a morte di Aldo Moro. Il contatto tra il pubblico e il privato è quindi tanto inevitabile quanto evidente. La famiglia è tutto. Sarà proprio da questa comunicazione che prenderà origine la risposta di “pugno” di Andreotti, autore dell’incomprensibile fermezza. Così traduce Sciascia il comunicato di Andreotti: «il governo ha deciso di non trattare in nessun modo con le brigate rosse, per il rispetto che si deve alle famiglie i cui congiunti sono stati uccisi dai brigatisti». Inizia un lungo processo di deresponsabilizzazione che finirà con l’esplodere con la definitiva condanna a morte fine del prigioniero. Ma la condanna a morte siglata da chi? La stessa domanda percorre il film in relazione alle indagini di Rosario, Fernanda e Branco: qualcuno li segue segretamente, li spia, li minaccia. Ma chi è? Quale scopo avrebbe? Perché? Da un punto di vista prettamente narrativo, il pedinamento dei personaggi indicherebbe che il caso Moro nasconderebbe dei dettagli importanti, alcuni campi inesplorati che riaprirebbero il caso e metterebbero in discussione l’attuale verità giudiziaria. Questa struttura narrativa è basata, per tanto, sull’analisi critica delle versioni ufficiali, e sulla possibilità di delineare una vicenda assai diversa. Si tratta del compito narrativo delle prossime scene del film.

11. LA MORTE DI ALDO MORO. Il racconto è giunto al punto finale, la morte di Moro. Il regista sceglie la nota telefonata del brigatista Nicolai al professor Franco Tritto, per narrare le circostanze relative all’eliminazione e all’ubicazione del cadavere di Moro. Anche in questa situazione il film utilizza uno stile particolare: attraverso il supporto sonoro originale, il film inserisce dei spezzoni di fiction che descrivono gli eventi drammatici di quella telefonata: c’è spazio per un inquadratura mossa in cui si intravede il presunto brigatista al telefono con il professor Tritto. Più avanti il film ricorre alle immagini del 9 maggio di Via Caetani, immagini indubbiamente vere, girate dai cineoperatori, cui vengono affiancante quelle di fiction dell’esecuzione di Moro dentro la Renault rossa. Questo tipo di linguaggio utilizza la commistione tra il materiale di repertorio, storico e autentico, e il repertorio di finzione, girato dallo stesso regista per supportare visivamente la descrizione che i protagonisti fanno degli eventi. L’effetto di una simile impostazione è di certo molto forte, ma forse potrebbe creare una qualche confusione nel pubblico. Dov’è la verità storica e oggettiva rispetto a quella proposta dal regista? Credo che si tratti di una questione di non poco conto su cui si giocherebbe il valore narrativo del film, il suo valore “investigativo”. Tale costruzione richiama inevitabilmente l’attenzione intellettiva e culturale dello spettatore, il quale deve saper scindere e analizzare il testo filmico, riconoscere il repertorio storico da quello “inventato” dal regista e, al tempo stesso, deve riuscire a comprendere quali sono le novità investigative proposte dal film, rispetto a quelle ufficiali e giudiziarie. Si tratta di un lavoro impegnativo che, in un certo senso, può essere facilitato dal presente studio, in cui si tenta di porre una linea di demarcazione tra la versione ufficiale e quella “nuova” proposta dal regista Martinelli. Tuttavia un fatto è certo. L’eliminazione di Moro nasconde molte incongruenze e il film lo mostra con straordinaria lucidità, argomentando chiaramente il momento che avrebbe preceduto l’uccisione di Moro. Tutte le contraddizioni esistenti sono enumerate e analizzate dalle indagini portate avanti da Fernanda e il giudice Rosario. Esiste una versione dei brigatisti che non sembra essere molto esaustiva. Per i brigatisti Moro venne ucciso nel covo di via Montalcini con una raffica di mitra Skorpio (l’immagine di fiction ribadisce piuttosto violentemente l’evento) e in un secondo momento da una pistola Walther Ppk modificata a calibro 9. I brigatisti dichiararono che la morte dello statista sarebbe avvenuta tra le 6 e le 6.30 del mattino. Ma per Rosario si tratta di una menzogna palese. In questo punto interviene l’energica relazione di Fernanda che evidenzia le incongruenze della deposizione dei brigatisti. Che Moro sia stato ucciso in via Montalcini è assai improbabile considerando che il tratto di strada da fare fino a via Caetani, luogo del ritrovamento del cadavere, sarebbe stato piuttosto lungo (7-8 km), rischioso e pieno di posti di blocco. Un rischio che le Br probabilmente non erano abituate a correre. Dal rapporto della scientifica, in oltre, emergerebbe che la vittima sarebbe deceduta dopo l’ultimo colpo della pistola calibro 9. Considerando il tratto di strada tra via Montalcini e via Caetani e il traffico esistente, è quasi impossibile sostenere che il corpo della vittima, sia rimasto immobile fino alla fine del percorso. In relazione alla balistica, Fernanda ricorda che le pallottole entrate sul fianco sinistro del prigioniero sono state sparate da dentro la macchina e non dall’esterno come invece sostengono Moretti e Maccari. È per questo motivo che si sono trovati tre bossoli all’interno della macchina sotto il sedile ribaltabile. Fatto che non viene affatto citato nelle versioni di Moretti e di Maccari. Emerge il quarto elemento: che via Montalcini fosse stata l’unica e duratura base in cui Moro era stato recluso per tutti i 55 giorni è un'altra menzogna. L’elemento indiziario di questa incongruenza è evidenziato dalla presenza di sabbia e bitume nei risvolti dei pantaloni di Moro, il quale probabilmente avrebbe camminato in una zona costiera, in «bagnasciuga». I brigatisti hanno sempre sostenuto che il bitume, cosparso da loro, abbia avuto lo scopo di depistare le indagini. Insomma, e si tratta del quinto elemento, l’esecuzione di Moro sarebbe stata compiuta nel pieno centro di Roma, dove erano presenti i servizi segreti. Come afferma il procuratore Saracini dal rapimento fino all’uccisione compaiono i servizi segreti, «in via Fani, dove avviene il sequestro del Presidente… in via Gradoli, dove hanno il covo …in via Caetani, dove viene fatto ritrovare il cadavere». Dopo il delitto, il corpo di Moro non sarebbe stato spostato, ma sarebbe rimasto esattamente in quel luogo. Si tratta di un’ipotesi inquietante che confermerebbe una diversa ricostruzione delle ultime ore di Moro. Tuttavia il film non tratta l’argomento di chi avrebbe ucciso Aldo Moro. Molti elementi indiziari, oltre alle contraddizioni degli stessi brigatisti descriverebbero un contesto estremamente diverso e porterebbero nel cuore del ghetto ebraico, dove fu rinvenuto il corpo di Moro. Nel covo di via Gradoli la polizia aveva trovato alcuni elementi che avrebbero portato nella zona del ghetto ebraico: un mazzo di chiavi di una Jaguar con un talloncino con su scritto Sermoneta Bruno, un telefono (grafia di Moretti) che portava il nome di Marchesi Liva con tanto di appuntamento, un altro recapito telefonico dell’immobiliare Savellia, altra sede di copertura del Sisde, uno schizzo planimetrico, attribuito a Morucci, di palazzo Orsini. Quale interesse avrebbero avuto i brigatisti per questo palazzo? Perché Moretti avrebbe dovuto incontrare Marchesi Liva, ovvero la marchesa Valeria Rossi in Litta Modigliani, nobildonna romana? Che legame sarebbe esistito tra il sequestro Moro, i brigatisti e il ghetto ebraico? Si tratta di alcune questioni fondamentali che il film non può trattare per una ragione essenzialmente narrativa. Tuttavia, emergono alcuni elementi essenziali che indicherebbero la strana tendenza di quelle indagini. Le ricerche partirono in ritardo: soltanto il 15 maggio, il consigliere istruttore Achille Gallucci ordinò l’identificazione dell’immobiliare Savellia e i necessari accertamenti. Il tutto porterà al già citato commercialista G. C., che come scrive Flamigni, è il presidente e amministratore della società, in contatto con altre immobiliari tutte collegate al Sisde (l’immobiliare Palestrina III, la Kepos, e la Proim srl). Ma la relazione a quanto pare non produsse conseguenze giudiziarie. Il già citato Sermoneta Bruno, (talloncino di via Gradoli) porta nel cuore del ghetto ebraico: è un commerciante di tessuti e possiede diversi automezzi tra cui alcuni autofurgoni. Quale collegamento esiste con Moretti e le Brigate Rosse? Le indagini vengono, inspiegabilmente avviate in ritardo (12 ottobre 1978) e senza soluzione di continuità. Flamigni osserva che un gruppo di fiancheggiatori delle Br venne individuato in via Sant’Elena, proprio nel Ghetto Ebraico, abitato dai coniugi Raffaele De Cosa e Laura Di Nola, militanti della sinistra extraparlamentare. Emergerà poi che la stessa Di Nola, deceduta nel luglio 1979, figlia di un commerciante di tessuti, sarebbe stata legata all’intelligence israeliana. Si tratta di una figura oggettivamente strana, che pur non costituendo un elemento giudiziario, va situata in una strana zona di confine la zona il Mossad e l’estrema sinistra armata. Il ghetto ebraico ritorna attraverso la figura di Igor Markevich, il “misterioso intermediario”, esponente della nobile famiglia Caetani, indicato da alcune informative come possibile capo delle Br, nonchè il possibile inquisitore che avrebbe interrogato Moro. Le indagini sul direttore d’orchestra non offriranno nessun riscontro significativo. Tuttavia Flamigni osserva che il nome di Igor Markevich finisce per essere legato a Palazzo Caetani, sede di altre organizzazioni come l’ambasciata del Sovrano ordine dei Cavalieri di Malta, un ordine religioso- militare che ospitava diversi iscritti al P2 nonché il direttore del Sismi il generale Santovito. Altro elemento riguarda palazzo Mattei, confinante con palazzo Caetani, ideale luogo per ricetto di autovetture: «la Renault delle Br avrebbe potuto entrare e uscire dallo spazioso passo carraio collocato in via dei Funari», forse quel misterioso passo carraio di cui parla lo stesso Pecorelli. O forse questo passo carraio è quello di un edificio di via Paganica, adiacente con tre entrate. Una di queste porterebbe ai magazzini di Guglielmo Di Nola, padre della citata Laura. I tessuti rappresentato un elemento importante nell’indagine poiché vengono trovati sotto la suola delle scarpe di Moro, sui parafanghi e nel pianale delle Renault 4 e definiti come «strutture filamentose». Questo fatto potrebbe provare gli spostamenti che venivano imposti al prigioniero, indicando un’altra verità. Tuttavia il film preferisce evidenziare la sola presenza di “bitume” e del «materiale sabbioso misto a una formazione vegetale tipo cardo, con aculei non essiccati» piuttosto che allargare l’indagine su ulteriori elementi indiziari. In oltre, palazzo Mattei è ricco di sotterranei con vari magazzini di tessuti, è sede di entri culturali e accoglie una sede del Sisde (quarto piano). Insomma la conclusione del sequestro Moro ha come scenario il ghetto ebraico circondato da strane coincidenze, personaggi misteriosi, di cui non si è fatta piena chiarezza: ma secondo il film e il senatore Sergio Flamigni, è anche molto probabilmente il luogo dell’uccisione di Moro. Le perizie effettuate sul corpo di Moro, smentiscono la versione di Morucci, confermata da Moretti, dalla Braghetti e da Maccari. I brigatisti hanno sostenuto che il prigioniero sarebbe stato rinchiuso in una stanza di 90 centimetri per 3 metri in via Montalcini per tutti i 55 giorni del sequestro. Ma le risultanze peritali affermano che il corpo di Moro era in buone condizioni igieniche, senza nessun segno di anchilosi muscolare e che probabilmente il corpo di quell’uomo avrebbe vissuto in un luogo spazioso. Il materiale sabbioso presente nei risvolti dei pantaloni, giustificato dai brigatisti come depistaggio, potrebbe indicare il possibile luogo dove il prigioniero avrebbe trascorso una parte della prigionia. In effetti, ricorda Flamigni, che un covo brigatista era stato individuato nella zona Fregene – Focene. Secondo Flamigni, alcuni volantini trovati il 26 marzo confermerebbero tale ipotesi. Particolarmente rilevante è la testimonianza relativa all’episodio avvenuto il 6-7 maggio, in cui un certo Sergio Cardinaletti avrebbe visto lo stesso Mario Moretti, in zona Focene, riconosciuto subito dopo in una foto segnaletica. Tutto questo getterebbe una luce sinistra sulle dinamiche del delitto e insisterebbe sulla necessità di riaprire il caso Moro. Lo scambio di battute tra Branco e Fernanda sintetizza la tesi portata avanti dal film: «dunque, stando a quanto dite, il Presidente sarebbe stato ucciso non nel covo di via Montalcini, ma nel centro di Roma, a poche centinaia di metri dal luogo del ritrovamento del cadavere». Si tratta di un’ipotesi inquietante e rivoluzionaria, presa in considerazione da un articolo di Massimo Caprara, pubblicato presso la rivista Pagina (25 febbraio 1982), in cui si faceva riferimento al dubbio assassinio di Moro. Caprara aveva osservato come i pochi soldi trovati in tasca allo statista, avessero avuto una precisa utilità: «una somma pari a quanto occorre… per pagare un taxi dalla periferia urbana, dall’Ostiense, la Magliana, la Cassia o poco più là». Ma forse i soldi erano un trucco per illudere lo stesso Moro di un suo imminente rilascio. Tuttavia, osserva ancora Caparra, che «la famiglia Moro non ha mai rinunziato a sottolineare questo dettaglio inquietante che porta ad una conclusione altrettanto torbida: Moro fu liberato dagli uni e trucidato da altri?». E come ricorda il senatore Dc, Giovanniello, probabilmente «Moro stava per essere affidato a criminali comuni per il terribile atto conclusivo». Si tratta di un’ipotesi che ravviserebbe la presenza di altri esecutori materiali, di altri gruppi misteriosi di cui ancora oggi non si conosce la vera identità. Per la notissima immagine in cui Moro veniva fotografato con la stella a cinque punte, il film elabora una nuova location, modificando ancora una volta la versione ufficiale. Il racconto mostra la circostanza in cui sarebbe stata scattata quella foto, “ricreando” gli ultimi istanti prima di quell’evento: si vede il prigioniero (ricreato in post produzione), si sentono le voci fuori campo dei terroristi. Ma quello che colpisce è la costruzione di una location molto più ampia che sembra ribadire, attraverso un codice iconico, che il prigioniero non fu rinchiuso sempre e soltanto in un unico luogo stretto e inospitale come viene dichiarato dai brigatisti. Lo spazio di questo luogo, che appare attraverso un flashback per pochissimi secondi, evidenzia un’ipotesi diversa. L’autopsia fatta sul corpo di Moro, aveva evidenziato, come ho già summenzionato, la mancanza di anchilosi e contratture che avrebbero potuto testimoniare la costrizione in cui si sarebbe trovato il prigioniero: «il cadavere risulta curato, con indumenti in buono stato, le unghie non debordano dai polpastrelli e ne si rileva materiale ematico. È evidente, osserva il regista, che il prigioniero fu tenuto in un locale ampio, dotato di servizi igienici, che gli consentì di lavarsi, di scrivere e di radersi. Si tratta di una ipotesi avvallata anche dalla perizia calligrafica che riferisce una situazione comoda e rilassata e non stando sdraiato a letto con i gomiti sulle gambe come, invece, dichiarano le deposizioni dei brigatisti e di cui si può vedere una chiara rappresentazione nel film di Giuseppe Ferrara. Anche in questo caso ci si troverebbe di fronte ad un resoconto che non coincide con la versione ufficiale degli eventi. Si tratta di una sorta di ricostruzione spaziale che assurge ad una nuova dinamica del dopo sequestro e diverge dalla versione ufficiale. Il valore figurativo dell’inquadratura ha il potere di mettere in discussione la versione ufficiale della prigionia di Moro. Le evidenze enumerate da Fernanda, continuano a smontare la versione ufficiale. Il luogo del ritrovamento del cadavere di Moro è contiguo a via Foa dove lo stesso Moretti aveva preso un immobile presso Via Foa per redigere i comunicati brigatisti. Si tratta del sesto indizio inserito nella scena. La vicinanza tra il luogo del delitto e via Foa indicherebbero una importante relazione tra le attività dei brigatisti e il ghetto ebraico di Roma. Ma il film punta l’attenzione sulla macchina topografica utilizzata dalle Br, la quale proveniva da un reparto definito Rus (raggruppamento unita speciale) dell’ufficio Sismi, in via di Forte Bravetta, sotto il comando del Generale Giuseppe Santovito. Si trattava di un reparto d’addestramento responsabile dell’allora organizzazione paramilitare Gladio. Questo è un fatto certo, come afferma Fernanda: «una stampatrice appartenente ad un ufficio del controspionaggio militare viene usata per redigere tutti i comunicati relativi al rapimento del presidente all’interno di una topografia gestita clandestinamente dalle Br». È il momento in cui il film ammette la strana collusione che sarebbe esistita tra i brigatisti di Moretti e i servizi segreti militari. È quindi la conclusione di un percorso investigativo estremamente grave che espone i protagonisti a non pochi rischi. La sentenza di Corte d’assise racconta che la Rotoprint A.B. Dych matricola 938508 era stata fornita il 31 gennaio 1972 dalla stessa ditta RUS del ministero della Difesa. Dichiarata “fuori uso” era stata venduta come rottame ad un commerciante di vecchi strumenti grafici, un certo Noto Stefano, il quale aveva trovato un acquirente nel brigatista Sebregondi Stefano per tre milioni di lire. Quel giorno risulta essere presente anche Triaca Enrico. È l’inizio di una vicenda contorta. Per il Sid esiste un'altra storia, declassata nel 1975, per la quale la stampante sarebbe stata venduta a Bentivoglio, il quale, però in Corte d’assise avrebbe negato. Affermerà Eleonora Moro: «quando hanno scoperto la tipografia, mio marito era ancora vivo. E si doveva fare questa cosa prima della data che era stata fissata. La data stabilita per andare e prendere le persone della tipografia era molto interiore alla data in cui mio marito morì. Perché fu poi rimandata al 9 e poi rimandata ancora? Perché?». Risponde Sciascia: «tanta lentezza crediamo dovuta principalmente a quello che il dottor Fariello (dell’Ucigos) chiama “pedinamento a intervalli”: che sarebbe il pedinare le persone sospette, a che non si accorgano di essere pedinate, quando sì e quando no. Il che, afferma Sciascia, sarebbe come non pedinarle affatto, poiché soltanto il caso e la fortuna possono dare senso ad una simile pratica investigativa, «come se il recarsi in luoghi segreti, gli incontri clandestini e tutto ciò che s’appartiene all’occulto cospirare e delinquere, fosse regolato da abitudini ed orari». È sempre Fernanda a ricordare che in data 28 marzo, dodici giorni dopo la strage di via Fani, al Viminale era giunta un importante informativa riguardo Teodoro Spadaccini. L’informazione è precisa ma viene tenuta in “sonno” per oltre un mese. Verrà trasmessa alla questura soltanto 32 giorni dopo, il 29 aprile: «da questa data inizia il pedinamento del brigatista Teodoro Spadaccini, che faceva parte della brigatista universitaria che gestiva la custodia della Renault rossa utilizzata per l’uccisione di Aldo Moro. Ebbene nove giorni dopo la morte del Presidente, il pedinamento di Spadaccini porterà alla localizzazione della tipografia di via Pio Foà». Ma si tratta del giorno in cui Moro viene trovato morto. La detection viene interrotta dalle necessità narrative, che pure fanno parte del racconto complessivo. L’indagine avanza vorticosamente e pericolosamente e gli effetti sui propri cari, sulla famiglia sono quasi immediati. Fernanda è avvisata da suo marito che i loro figli non sono ancora tornati a casa e questo è naturalmente fonte di preoccupazione per tutti, Rosario compreso, il quale sa benissimo che la sua indagine non è ancora autorizzata dal Consiglio Superiore della Magistratura. L’intreccio del racconto porta a confronto il valore investigativo del film e quello umano dei personaggi, realizzando un pericoloso corto circuito. Come avevo osservato nei paragrafi precedenti si tratta di una scelta narrativa ma anche molto precisa che ha a che vedere, probabilmente, con l’inevitabile pericolosità dell’affaire che come una piovra stringe nei suoi tentacoli chiunque si lascia coinvolgere dal caso, colpendo gli stessi familiari. L’uccisione di Moro trova un drammatico riscontro con un fatto: probabilmente nessuno era interessato a liberare un uomo che presumibilmente aveva parlato dei numerosi segreti di Stato, di un uomo che rappresentava la diretta testimonianza sul suo stesso sequestro e degli strani avvenimenti relativi al covo. La sua liberazione avrebbe avuto un effetto destabilizzante. Ricorda Pecorelli che lo stesso Cossiga era stato avvisato della presenza dei brigatisti in via Montalcini, alludendo, attraverso espressioni simboliche, alla presenza della P2 in tutta la vicenda. Con i suoi scritti e il possibile Memoriale che gli sarebbe stato estorto, Moro annunciava cose gravi da non poter essere tollerate da un sistema politico fragile come quello italiano. Il messaggio di Pecorelli indicava chiaramente che il sequestro Moro rappresentava l’ulteriore continuazione di una strategia della tensione, attraverso mezzi nuovi. Per questo motivo la liberazione e il reinserimento di Aldo Moro all’interno della politica italiana era pressoché impossibile. Moro conosceva il comportamento finanziario e politico del suo partito, il potere di Governo che dal dopoguerra fino agli anni ’70 aveva dominato la scena sociale e civile. La sua politica filoaraba era in chiaro contrasto con la politica americana. Durante la guerra dei Sei Giorni, Moro si sarebbe opposto alla concessione delle basi militari, provocando le animose lamentele di Kissinger. Moro sapeva e parlava del coinvolgimento americano nella strategia della tensione che aveva lo scopo di ricondurre alla “normalità” l’Italia, dopo la destabilizzazione del ’68. Moro, nel suo Memoriale, aveva rivelato dei finanziamenti Cia alla Dc e faceva riferimento a Gladio. Aveva descritto negativamente i suoi colleghi di partito, Andreotti, Taviani, Zaccagnini, e molti altri. Era divenuto da vittima a pubblico ministero della politica italiana e della stessa Dc dei quali conosceva tutti i segreti. Come aveva osservato Pecorelli (24 ottobre 1978), Moro rappresentava una «bomba ad orologeria che avrebbe ancor più minato le già cotte strutture della repubblica». E per questo motivo non si sarebbe potuto tornare indietro, il prigioniero doveva essere eliminato. Esisteva un gruppo di potere contro Aldo Moro e la sua politica di solidarietà nazionale. Qualcun altro avrebbe poi pensato, inevitabilmente, alla sua “eliminazione”. La genesi della linea della fermezza potrebbe trovare una valida interpretazione alla luce di quanto detto: la liberazione di Moro avrebbe potuto significare la fine di altri personaggi politici a livello di partito e forse anche a livello internazionale. Tuttavia all’opinione pubblica, veniva descritto un Moro influenzato, alterato, drogato. Il culmine della linea di fermezza si sarebbe raggiunto con la notizia che lo statista starebbe scrivendo sotto l’influsso di un potente psicofarmaco, l’aloperidolo, «una medicina insapore e inodore che rende la persona facilmente dominabile e che modifica la scrittura rendendola incerta». I politici confermarono incredibilmente la tesi di scienziati e neurologi: Cossiga, «… missiva completamente estorta», Rognoni, «Moro è ormai uno strumento delle Brigate Rosse», Colombo, «non c’è niente del pensiero di Aldo, cose infantili, assurde». La linea della fermezza si sarebbe espressa anche attraverso questi particolari e non soltanto attraverso una logica politica e giustizialista. Così la spiegherà Andreotti «i rapitori hanno posto il preciso tema del cosiddetto “scambio di prigionieri”. L’inaccettabilità di un tale disegno è palese… Ancora: se gli agenti dell’ordine e ancor più le guardie carcerarie, che quotidiane soffrono disagi e dileggi e purtroppo in parecchi casi hanno pagato con la vita il difficile servizio di vigilanza e di prevenzione; se questi umili servitori dello Stato vedessero che per liberare un uomo politico si calpestano le leggi e si aprono le prigioni, la reazione sarebbe immediata, con conseguenze gravissime. E che dire delle vedove e degli orfani degli uccisi?» Sofri ricorda che Andreotti aveva più volte ribadito questa intenzione della linea della fermezza. Nella relazione finale della Commissione Moro si legge che «la liberazione, anche di uno solo dei tredici, avrebbe imposto un gravissimo strappo alla legalità, incrinando profondamente le ragioni stesse della resistenza del Paese contro il terrorismo e offeso i valori di fondo di giustizia e di uguaglianza del nostro ordinamento». Ironicamente aggiunge Sofri: «tutto questo disastro sarebbe stato provocato dalla liberazione, per esempio di Paola Besucchio?». Il ritrovamento del cadavere di Moro è commentato dallo stesso Pecorelli attraverso uno dei suoi scritti più criptici. Il 23 maggio 1978 pubblicò qualcosa di molto simile a una telecronaca: oltre il muro dove sarebbe stato trovato il cadavere, «ci sono i ruderi del teatro di Balbo, il terzo anfiteatro di Roma». E continua «ho letto in un libro che a quei tempi gli schiavi fuggiaschi e i prigionieri vi venivano condotti perché si massacrassero tra loro. Chissà cosa c’era nel destino di Moro perché la sua morte fosse scoperta proprio contro quel muro? Il sangue di allora e il sangue di oggi». Pecorelli parlava dei gladiatori riferendosi alla morte di Moro, ma fino a poco tempo fa pochissimi avrebbero capito il senso del messaggio. Sembrerebbe, però, che Pecorelli si riferisse anche a delle precise responsabilità dei gladiatori nella morte di Moro. Per Pecorelli, Gladio è certamente presente dietro all’affaire Moro come una delle organizzazioni che avrebbe determinato l’esito del sequestro. L’esecuzione di Moro, l’abbandono tra la sede nazionale della Dc (piazza del Gesù) e quella del Pci (via delle Botteghe Oscure) confermerebbe la strana guerra in cui si trovò lo statista e il motivo per il quale fu eliminato. Da questo punto di vista la sua eliminazione avrebbe significato la sconfitta violenta e traumatica della stessa democrazia, e affermato il valore subliminale di una guerra che si combatteva soprattutto sul piano psicologico e non più propriamente militare. Scriveva nel 1944 il giovane Moro: «ciascuno accetti in pace, quando è la sua ora, di uscire dalla scena del mondo, con la gioia di avere costruito qualcosa per gli uomini e con la certezza di finire». Contro la sua stessa volontà, prematuramente, lo statista uscì drammaticamente di scena, senza aver potuto realizzare il suo progetto solidarietà nazionale, senza poter completare la sua missione. Come una marionetta «dai fili spezzati, come un fagotto», il cadavere di Moro è stato collocato all’interno di un’anonima automobile, ucciso insieme alla sua stessa idea di ricostruzione di una società probabilmente diversa.

12. LA SCENA DELLA TORRE. In una lettera datata tra il 27 e il 30 aprile e indirizzata a sua moglie Eleonora, Moro scriveva: «si trattava in fondo di uno scambio di prigionieri come si pratica in tutte le guerre (e questa in fondo lo è) […]». L’interpretazione non lascia scampo e sottolinea fortemente lo stato di «guerra» in cui il mondo politico italiano si sarebbe trovato. Moro parla di scambio di prigionieri, come possibile “oggetto” della trattativa. Analizzando tutto il contesto del sequestro, colpisce ineccepibilmente l’espressione «guerra» usata dallo statista. Nella ricerca effettuata sulle lettere di Moro, il termine “guerra” e “guerriglia” compare in tutto nove volte e quasi sempre ad indicare la possibilità di scambio tra prigionieri. Moro cita esempi internazionali, il caso Lorenz, gli eventi Palestinesi, la Croce Rossa. Particolarmente sibillina è l’ultima lettera in cui compare il termine “guerriglia”: si tratta di quella indirizzata a Riccardo Misasi in cui le parole di Moro descrivono la triste constatazione di questa guerra. Appellandosi al diritto umanitario, alla stessa Croce Rossa, alle procedure adottate in caso di scambio di prigionieri, Moro scrive che «c’è un rifiuto […] un allineamento su posizioni esterne», quasi a rilevare la presenza di una forza esterna che controllerebbe gli eventi e che impedirebbe la sua liberazione. Dunque, anche questo elemento insiste sul contesto bellico in cui il paese è coinvolto. In altre lettere Moro richiama l’attenzione sulle potenze straniere, evidenziando una possibile patologia della sovranità nazionale dello Stato Italiano: «vi è forse, nel tener duro contro di me, un’indicazione americana o tedesca?». Scrive Sofri: «la sensazione che fra i terroristi agisse una mano straniera, quella ossessione di una perfezione e di una ferocia “tedesca”, si ritrova nel sospetto che assilla Moro, che i democristiani siano a loro volta ispirati nella “fermezza” da una volontà esterna». Moro sapeva perfettamente che la sua vicenda non poteva limitarsi ad un ambito personale e privato. Sapeva che le sue scelte politiche avrebbero avuto un importante effetto sull’equilibrio nazionale e da poter alterare l’equilibrio politico di tutto il mondo e per questo, sarebbe stato inviso a molti capi di Stato. Sapeva, quindi della “guerra” che gli si sarebbe rivolta contro e intuiva, forse, che sarebbe stato colpito da una manovra politica di altissimo livello. Ma come sarebbe stato attuato il “colpo”? Chi sarebbe stato l’esecutore materiale di tale manovra? Quali interessi sarebbero entrati in gioco? Gli interrogativi sono sviluppati in questa parte del film. La guerra può essere definita come il conflitto violento scaturito tra società e gruppi armati organizzati. Essa presuppone lo scontro tra due o più blocchi militari e politici fino alla sua estrema conclusione, dove una delle due parti, o schieramenti, sancisca la propria impossibilità di continuare il conflitto, e iniziando, così, il primo passo verso il trattato di pace. Questa definizione indicherebbe in primis la chiarezza degli obiettivi che scatenerebbero la guerra, e la presenza chiara e distinta di un nemico da combattere. Nell’affaire Moro, non si possono riconoscere questi elementi bellici. Per tanto, la guerra che avrebbe combattuto Moro non conserverebbe nessuno di questi tratti essenziali. Ma allora, di quale guerra sta parlando lo statista? Moro è oggetto di una guerra strana, di un conflitto simbolico e criptato, una guerra invisibile, una guerra fatta tra idee e strutture politiche non proprio evidenti di fronte alla storia e alla stessa opinione pubblica. Si tratta di una guerra che, in primo luogo, si compie sul piano psicologico, quello personale, di una guerra che può essere compresa soltanto da chi aveva scritto quelle lettere. Si tratta della tesi sostenuta nel film. La scena della torre di Siena argomenta il livello “occulto” della presunta guerra in cui sarebbe coinvolto lo statista, il cosiddetto quarto livello internazionale. Le scelte narrative e stilistiche del film convergono sulla descrizione di un livello politico avanzato, in cui prenderebbero vita segreti rapporti politici e finanziari tra governi e lobby internazionali. Si tratta della teoria del doppio Stato, assai avversata dagli storici accademici secondo la quale, oltre allo Stato trasparente, fatto di istituzioni, di un governo e di un parlamento eletto dal popolo, esisterebbe in ogni Nazione, uno stato occulto, segreto composto di famiglie finanziarie, di massonerie e di potenti gruppi economici che possono determinare il ciclo storico. Al di la di ogni possibile veridicità sull’esistenza di questo livello, che per altro precluderebbe da questo lavoro, bisognerà ammettere che il racconto di Martinelli avanza una serie di elementi giudiziari e probanti, assai imbarazzanti per le stesse istituzioni. Il film adotta uno stile storico e scenografico: molti elementi architettonici, edifici, chiese, palazzi e torri, divengono il luogo candidato per affrontare l’argomento Moro. Questa scelta, probabilmente, risponde a due ragioni narrative. Da una parte, la scenografia rifletterebbe una certa tradizione storica italiana, caratterizzata da un’imponente architettura bellica e politica, composta da torri, chiese, castelli in cui le potenti Signorie hanno esercitato il loro specifico potere temporale e militare. Da questo punto di vista, l’ambientazione risponde ad un’esigenza analitica che tenta di comprendere il corso storico degli eventi. Dall’altra, evidenzierebbe la stessa vicenda di Moro, la quale coinciderebbe con il tentativo di stabilire un equilibrio tra le diverse spinte politiche italiane e internazionali, di porre una sorta di pace, di compromesso. La frammentazione della politica italiana, l’eccessivo partitismo e una vivacissima attività governativa, evidenziano la particolare instabilità della storia politica e civile dell’Italia. La scena iniziale del famoso palio di Siena, potrebbero assumerebbe questo significato. Le immagini sono veloci, strette su dettagli e montate con un ritmo serrato e brevissimo. Suggeriscono una forte conflittualità tra gli elementi. La funzione semantica del particolare chiuso all’interno dell’immagine, l’inquadratura specifica che sottrae lo spazio intorno all’oggetto, destruttura e mette in conflitto tutta l’integrità dell’oggetto e della stessa scena. Attraverso un montaggio rapido, concentrato sulla brevità dell’inquadratura e sulla specificità dei dettagli, emerge un significato conflittuale tra gli elementi mostrati. Tale struttura suggerirebbe la forza rituale del palio di Siena, ma anche la tradizione storica della cavalleria, dei soldati, e in una parola della guerra: il film si apre attraverso la messa in scena di una guerra. Attraverso il rituale storico del palio, come paradigma degli eserciti e della conquista, emerge l’idea di un conflitto permanente che attraversa tutto il racconto filmico e che ha determinato la vicenda storica dell’Italia e dello stesso Aldo Moro. Ma esiste anche un altro aspetto importante che emerge dalla scena della Torre e che posso definire di valore squisitamente cinematografico. Si tratta del valore simbolico che assume lo spazio scenico in cui avviene il racconto. Questo valore spaziale è propriamente la dimensione dell’altezza della Torre. L’altezza della Torre corrisponde al punto di vista di chi nell’insieme analizza l’affaire Moro; più si va in alto e più sono chiare le strategie del Potere. Questa scena ha lo scopo di svelare lo scenario internazionale dietro l’episodio prettamente nazionale, contro chi, fino ad oggi, ha insistito per far prevalere l’interpretazione del sequestro Moro solo e soltanto attraverso le Brigate rosse. Lo scopo precipuo della scena è quindi di dare una risposta al significato particolare che Moro dava alla parola guerra. La metafora adottata per questa scena è quindi il punto di vista dei protagonisti, una metafora che viene realizzata dal basso verso l’alto. Il punto di vista spaziale corrisponde al punto di vista narrativo e conseguentemente al punto di vista storico. La finzione cinematografica e narrativa è il presupposto per una possibile verità storica che avrebbe generato la drammatica vicenda di Aldo Moro: questa, a mio avviso, sarebbe la forza semantica di questa scena. Martinelli afferma che si è trattato di una metafora per dare corpo all’idea del complotto: «dalla cima della Torre, molti fatti apparentemente slegati tra loto tradiscono così il filo sotterraneo che li lega». Ogni piano della torre corrisponde ad un nuovo e inquietante livello del caso Moro, dove si svelerebbero i tasselli dell’indagine. Rosario accosta tutte le conclusioni raggiunte fino ad ora: quello di via Fani è un sequestro anomalo, come anche quello di via Gradoli è un covo anomalo. Ancora una volta emerge l’idea di una situazione strana, non chiara, esattamente come la «guerra» di cui scriveva Moro. Il film raggiunge il suo scopo puntando l’attenzione sulla figura anomala e ambigua del presunto capo delle Brigate rosse, Mario Moretti, un «capo anomalo». Il giudice rivela le ultime informazioni avute a Parigi dalla cosiddetta entità. Tutta la strana vicenda del sequestro Moro è fatta risalire alla scuola di lingue Hyperion, il cui scopo nascosto era quella d’impedire l’ascesa del partito comunista italiano. Un obiettivo che coincideva con quello della Loggia Massonica P2. Rosario conclude affermando che dentro le Brigate rosse vi erano gli infiltrati di presunti e misteriosi servizi segreti che dovevano convogliare gli interessi dei terroristi con gli interessi delle potenze internazionali: in una parola l’impraticabilità del compromesso storico. Questo aspetto emerge in maniera piuttosto diretta attraverso le parole di Saracini: «il programma della P2 era diametralmente opposto alla politica di Moro, la loggia di Gelli avversava il partito comunista come un esiziale nemico… proprio in quegli anni nel nostro Paese era nato un fenomeno nuovo, le Brigate Rosse, appunto». In questo punto del film si tratta l’ennesima anomalia dell’affaire Moro. L’esempio è fornito da Frate Mitra, meglio conosciuto come Silvano Girotto. La sua biografia può essere equiparata a quella dell’agente provocatore: studente, ladro, rapinatore, legionario in Algeria, disertore, frate francescano, guerrigliero in Bolivia, resistente in Cile. Sempre salvo mentre chi gli sta intorno viene arrestato. Si ha l’impressione di vedere un infiltrato di altissimo livello, agli ordini di un servizio segreto che determina gli eventi storici, «usato dagli strateghi della tensione che procedono alternando attentati di destra e attentati rossi». Il primo incontro tra Curcio e Girotto avviene il 28 luglio 1974. L’incontro è fotografato dai carabinieri del generale Dalla Chiesa. Il secondo incontro è del 31 agosto. Curcio e Moretti sono insieme. Girotto aveva offerto la sua conoscenza di guerrigliero andino. Moretti trasse l’impressione che Girotto fosse sincero. Ma Curcio e Cagol non ne erano affatto convinti, ricorda Franceschini. Il terzo incontro è fissato per l’8 settembre. Il 6 settembre una telefonata anonima giunge ad Enrico Levati, medico già presente nell’incontro di Pecorile, arrestato e poi rilasciato in merito alle indagini sui Gap di Feltrinelli. Flamigni ricorda che Levati avrebbe ricevuto l’informazione di avvisare Curcio che l’incontro di settembre sarebbe stato una trappola. Ma la notizia non arriverà mai a Curcio, ma soltanto a Moretti. Gli incontri tra il gruppo armato e Girotto sono di fatto una trappola gestita dal Nucleo speciale dei carabinieri del generale Dalla Chiesa. Ma questa operazione si rivela, comunque, gravida di enigmi e di ambiguità a partire dallo strano comportamento di Moretti e dalla misteriosa fuga di notizie che avrebbe avvisato Enrico Levati. L’otto settembre del 1974 Girotto partecipa all’operazione organizzata dai carabinieri del Generale Dalla Chiesa, che si concluderà con l’arresto di Franceschini e Curcio, in località Pinerolo. Si tratta di un evento che muta radicalmente l’attività delle Brigate rosse e tutti gli obiettivi politici della lotta armata contro il “regime”. Il film evidenzia i lati oscuri dell’arresto di Pinerolo a partire da un fatto strano: perché Curcio e Franceschini sono stati arrestati così in anticipo da bruciare la stessa copertura di Girotto? Se Girotto avesse potuto continuare le sue indagini, avrebbe sgominato l’intera organizzazione e impedito, probabilmente, lo stesso sequestro Moro. Il generale Dalla Chiesa, in Commissione Parlamentare, diede una risposta poco esaustiva, affermando che una volta identificati i criminali dovevano, nell’obbligo della legge, intervenire nell’arresto. Ma non basta. Tra il materiale che i carabinieri raccolsero non risulta, stranamente, nessuna immagine di Moretti. Fino a quel 8 settembre, Moretti era già stato pedinato, fotografato e quindi era un elemento classificato come pericoloso dalle stesse Forze dell’Ordine. Eppure nei suoi confronti, come ricorda Flamigni, non vennero fatte ulteriori fotografie comprovanti la sua presenza a Pinerolo. Questo spiegherebbe, ricorda Fernanda, «come mai in nessuna foto agli atti del processo torinese delle Brigate Rosse non compare Moretti». Cosa più strana è che Mario Moretti non è arrestato. Ne consegue che la presenza di Girotto, non solo comproverebbe l’ingerenza dei servizi segreti dietro gli stessi Brigatisti, ma evidenzierebbe che la retata sarebbe stata organizzata con lo scopo preciso di arrestare soltanto una parte della Brigate rosse e lasciare poi spazio al nuovo capo Mario Moretti. Moretti è il vero beneficiario dell’arresto. Egli cambia strategie e obiettivi del gruppo armato, dando una svolta violenta e bellicosa: il film mostra le immagini del telegiornale relative al 6 giugno del 1976, quando le Br uccisero il magistrato Francesco Coco e i due carabinieri della scorta. Come ricorda Saracini, «è a partire da questo preciso momento che le Br adottano l’omicidio come metodo di lotta». Quando Moretti assume il comando, le Brigate Rosse stanno progettando il sequestro dell’onorevole Giulio Andreotti, «Moretti invece, convince l’organizzazione a spostare il tiro su Aldo Moro… nel momento in cui quelli che manovrano Moretti decidono il sequestro di Moro, il presidente della Democrazia Cristiana è un uomo morto». Ricorda Franceschini, che nel ’74 si era deciso di organizzare il sequestro Andreotti con il quale i brigatisti avrebbero chiesto in cambio i compagni della XXII Ottobre e di Maurizio Ferrari (arrestato dopo la liberazione di Sossi). Nel ’76, dopo il reclutamento di Morucci, i brigatisti iniziarono un’inchiesta su Moro, spingendo verso la realizzazione del suo sequestro. Moretti, spiegherà che molto probabilmente le Br non avevano compreso in pieno la differenza tra Moro e Andreotti. Ma appunto, ricorda Flamigni, «perché Moro e non Andreotti?», perché il leader democristiano vicino alla sinistra, progressista, filoaraba, inviso agli americani e allo stesso Mossad? Perché non Andreotti, capo della destra anticomunista accusato dalle stesse Br di essere il regista politico della svolta “neo-gollista” di Sogno? Sono domande che Moretti evade con sfrontata ambiguità. Sofri ricorda una dichiarazione di Moretti: «non mi risulta che si sia pensato ad altri per la grande campagna di primavera del ’78 […] la nostra attenzione e il nostro impegno si concentrarono su Moro». Dunque, strane contraddizioni. Rosario illustra le nuove priorità delle Br, il cambiamento di rotta. Moretti è l’unico brigatista importante ancora libero: trasforma l’obiettivo delle Br attraverso un’opera di propaganda per sequestrare il vero nemico del proletariato e del partito armato, l’esponente di spicco dei Stati Imperialisti Multinazionali: Aldo Moro. Da adesso in poi, Moro è il vero responsabile del regime democristiano. Rosario ricorda che intorno ad Aldo Moro esisteva già una «cortina di ferro» anche nell’area di partito, di governo e nel mondo politico internazionale. La realizzazione del suo progetto politico, attraverso l’entrata del partito comunista nell’area di governo, avrebbe rappresentato un serio pericolo per le forze democratiche e per lo stesso regime comunista. Si tratta del punto più delicato e fondamentale del film. La politica di Moro era destabilizzante, avrebbe permesso ad un partito “nemico” di accedere ai segreti militari della Nato. L’entrata del Pci nel Governo avrebbe significato svelare tutti i segreti Nato al nemico. Di contro, avrebbe significato che un partito comunista poteva partecipare al processo democratico attraverso un consenso popolare ed elettorale, senza il bisogno di costruirsi su di una solida impalcatura burocratica come poteva essere l’Unione Sovietica di Breznev. Dunque, il compromesso storico rappresentava oggettivamente un problema geopolitico e strategico-militare tanto per Washington, quanto per Mosca. È il punto chiave del film. Lo stesso Pecorelli aveva evidenziato il carattere internazionale del sequestro Moro attraverso un articolo intitolato Yalta in via Mario Fani: «l’agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni in un Paese industriale, integrato nel sistema occidentale». Più avanti aggiunge che l’obiettivo principale di questo sequestro è l’allontanamento del partito comunista dall’area di governo, e al tempo stesso, l’allontanamento di una prospettiva troppo democratica per lo stesso comunismo o «eurocomunismo». Il film diviene la descrizione narrativa di questo articolo: il fattore Yalta e la divisione del mondo in due blocchi. Pecorelli insiste in questa prospettiva: la partecipazione del Pci non era gradita nè a Washington e ne a Mosca, «la dimostrazione storica che un comunismo democratica può arrivare al potere grazie al consenso popolare, rappresenterebbe non soltanto il crollo del primato ideologico del Pcus sulla Terza Internazionale, ma alla fine dello stesso sistema imperiale moscovita». L’apertura al “quarto livello” è da identificare con la logica di Yalta, «è Yalta che ha deciso via Mario Fani». Da questo presupposto il film introduce il dubbio sulla identità organica e unitaria delle stesse Brigate rosse e su alcuni suoi componenti, proprio come aveva fatto lo stesso Pecorelli attraverso un altro articolo: E anche Renato Curcio fa il suo dovere. Si tratta di un articolo sibillino che allude al fatto che i rapitori di Moro non avrebbero niente a che vedere con le Brigate rosse, con il «grande fatto politico – tecnicistico del sequestro Moro». La scelta di Moretti di puntare l’attenzione su Aldo Moro coincide “stranamente” con la volontà internazionale dei due blocchi di scongiurare a tutti i costi la realizzazione del compromesso storico in un paese, l’Italia, in cui esisteva il partito comunista più forte sotto giurisdizione Nato. Da qui, il film, spinge ulteriormente sulle strane anomalie del brigatista Moretti: la sua straordinaria fortuna nell’evitare gli arresti, fino all’aprile 1981, i suoi misteriosi viaggi, i contatti con Hyperion, i suoi evasivi resoconti sulla dinamica del sequestro Moro, versioni non sempre chiare e soddisfacenti. Tanto che, in carcere Moretti verrà emarginato da tutti gli altri brigatisti, come ricorda Galati, perché considerato spia. Il film mostra l’opuscolo che il giudice avrebbe avuto dall’Entità a Parigi. L’opuscolo definisce i piani d’intervento militare da adottare in caso di vittoria elettorale del partito comunista o in caso d’invasione dell’Armata Rossa, attraverso l’azione di agenti infiltrati. Si tratta, afferma Rosario, della direttiva FM 30/31 B che prevedeva azioni di provocazione e reazione di alti esponenti della sinistra comunista e azioni di sequestro, fino all’assassinio di leader politici. Il dato più significante è quello che riguarda i piani d’intervento militare presenti nell’opuscolo in mano a Rosario sono incredibilmente simili ai piani di intervento politico e finanziario in programma per le elezioni politiche del 18 aprile 1948. Si tratta dei piani di Gladio, di cui Moro stesso era a conoscenza, e della struttura segreta Stay Behind, nata per lo stesso motivo: osteggiare il pericolo di un’avanzata politica e militare comunista[256]. Ed è probabilmente a questa guerra che Moro si sarebbe rivolto nelle sue lettere. Aspetti militari e politici che in quel periodo ancora erano del tutto sconosciuti all’opinione pubblica e a buona parte del mondo politico, ma di cui Aldo Moro, noto anche con il nomignolo di Signor Omissis, ne conosceva gli interessi e la gestione. Da un punto di vista narrativo la scena della torre assume un’importanza fondamentale per risolvere definitivamente l’indagine. Rosario, si rivolge a Branco, affermando che forse conosce l’ubicazione del presunto vero Memoriale Moro. Ed è in questa direzione che il film tenta il suo percorso investigativo. Il Memoriale che tutti conoscono quello riscoperto nel ’91 sarebbe dunque incompleto e il giudice Saracini starebbe per raggiungere quello vero e definitivo.

13. LA FINE DEL RACCONTO. Nella ricorrenza della strage di Via Fani del 16 marzo 1988, Il Messaggero pubblicò alcune dichiarazioni del pubblico ministero Domenico Sica. Il magistrato affermava: «non ci sono verità nascoste sul caso Moro... tutto quello che poteva essere scoperto è stato scoperto… sono convinto che ciò che resta da sapere è assolutamente irrilevante ai fini dell’individuazione del nucleo terroristico responsabile». È un punto di vista condiviso dalla maggior parte delle Istituzioni e dalla politica italiana: nel caso Moro non c’è più niente da scoprire e per questo sono da escludere tutti quei misteri che continuerebbero a destabilizzare la verità giudiziaria. Tutte le indagini personali portate avanti da un certo settore dalla pubblicistica apparterebbero, quindi, ad una dietrologia speculativa e fantastica. Quella di De Sica è un’affermazione molto forte che stride con l’idea narrativa del film di Martinelli e con le ipotesi proposte da altri scrittori, giornalisti e intellettuali. Lo stesso Moretti, ancora oggi, è fermamente convinto che le Br, di fatto, furono un gruppo rivoluzionario armato che voleva attuare una lotta contro il Potere. Tuttavia, molti sono i buchi neri che confermerebbero le strane circostanze del sequestro Moro. Ci si trova di fronte ad uno strano bivio, un doppio percorso che descriverebbe i due approcci del caso Moro. Da una parte esiste la versione ufficiale, divulgata in ogni dove, di cui si fanno portavoce maggiori rappresentati della cultura e della politica italiana. È il caso dell’Odissea del caso Moro, di Vladimiro Satta, ricordato polemicamente dallo stesso Flamigni, o ancora di alcuni interventi giornalistici di Pierluigi Battista o ancora di Paolo Mieli che avrebbero sminuito il lavoro investigativo di Flamigni o criticato lo stesso film di Martinelli. Dall’altra esiste una “strana” minoranza, che continuerebbe il personale percorso investigativo, molto spesso solitario e difficoltoso, cercando di portare alla luce gli elementi poco definiti della vicenda. Due tendenze che, effettivamente, sembrano rispecchiare un divario storico e politico tutto italiano e che rappresentano due tendenze opposte e contrarie che sembrano andare molto al di là della semplice ricerca storiografica. Forse, come ha osservato il presidente della commissione stragi Giovanni Pellegrino «la classe politica italiana non ha un reale interesse all'accertamento della verità sulle stragi in quanto ciascuna forza politica punta ad una verità che giovi al proprio interesse». Sopra le due tendenze, sembra esistere un potere molto più ampio, che gestirebbe la verità storica e giudiziaria: è la tesi narrativa proposta dal film e che colpirà direttamente i familiari di Fernanda e lo stesso procuratore Saracini. Si tratta, almeno da un punto di vista filmico, della conferma della tesi del complotto, e di come esista un potere che convive con gli eventi quotidiani della società civile, che gestisce gli eventi della storia. La morte del marito di Fernanda, in circostanze che il film presenta chiaramente delittuose, e la scoperta della vera identità di Branco, indicherebbero la presenza di un potere insidioso dedito al controllo delle informazioni, proteso ad un incessante spionaggio. Martinelli racconta che il caso Moro nasce in un contesto storico e politico determinato da una guerra di spie di altissimo livello internazionale. Gli eventi incalzano tutti verso il finale: l’inseguimento di un misterioso elicottero che tenta di eliminare il giudice[263]; la visita intimidatoria nella casa del giudice che viene messa a soqquadro[264]; la strana telefonata che Rosario riceve dal capo della magistratura che lo invita a presentarsi immediatamente a Roma. Si tratta, ineccepibilmente, di un superpotere che esiste e convive concretamente con la vita del procuratore, che controlla segretamente tutti gli eventi privati e pubblici della vita del singolo cittadino. Quando Rosario scoprirà la chiave per accedere al programma informatico, comprenderà che si tratta del nome di una nota zona romana, prossima a piazza Navona, dal nome piazzadellecinquelune: è la password che gli consentirà di svelare il mistero intorno al memoriale Moro. Piazza delle Cinque Lune è anche il luogo dove Varisco, Pecorelli e il generale Dalla Chiesa si sarebbero incontrati in più riprese e dove, molto probabilmente, sarebbero venuti a conoscenza, già durante il 1978, dei passi censurati del memoriale Moro. Piazza delle Cinque Lune sarebbe la chiave per accedere al Memoriale, il luogo dove si sarebbe creata una strana collusione tra servizi segreti e occulti superpoteri. Ma sarebbe anche lo spazio scenico del finale narrativo del racconto, il telos della storia. Quindi il livello storico si sovrappone al codice narrativo, delineando una nuova possibilità investigativa. Il titolo del film spiegherebbe tale circostanza complottistica e insidiosa, la rappresentazione di “poteri” non meglio definiti. Piazza delle cinque lune è il luogo fisico carico di misteri, è l’elemento narrativo che scioglie l’intreccio e spiega la logica del racconto. Un luogo che sosterrebbe il significato storico e storiografico di tutta la vicenda: il caso Moro nasconderebbe un’intricata matassa da districare, resa contorta dalla mancanza di documenti troppo spesso confusi o addirittura scomparsi. Se il giudice Saracini scopre di essere stato spiato sin dal primo momento, lo spettatore scopre che tutto il caso Moro è controllato da un superpotere nascosto e onnisciente. Tutta la storia raccontata è quindi travolta dal poderoso dubbio finale che travolgerebbe tutta la storiografia riferita al caso Moro. Tutta la finzione narrativa, quindi, corrisponderebbe ad un reale livello storico ancora da esplorare. Nell’incontro con Branco si assiste allo svolgimento dell’intreccio narrativo che però non risolve quello storico: anzi lo ammanta di un dubbio maggiore. Chi si nasconderebbe dietro il caso Moro? È l’invisibilità dell’evidenza, per dirla con Sciascia. Il potere dentro il sistema è onnicomprensivo, onnisciente e onnipresente. Convive a fianco della magistratura, della politica, nell’esecutivo e per poi intervenire quando crede. L’inquadratura dall’alto assume anche questo significato: il controllo. Il punto di vista rappresenta la visione complessiva degli eventi e come un potere più grande che controlla gerarchicamente quelli più in basso. Il film, come ho osservato precedentemente, adotta questo linguaggio semantico per evidenziare questo aspetto del racconto, ovvero la relazione esistente tra il punto di vista narrativo (la macchina da presa) e il punto di vista storico (lo svelamento di alcuni indizi giudiziari). Il Memoriale non sarà scoperto nemmeno alla conclusione del racconto: «il film ha una conclusione amara, ovvero che la verità è destinata a rimanere nascosta in questo paese. Il famoso Memoriale non verrà fuori neanche nel film […] in Italia certi misteri sono destinati a non essere svelati mai, come è successo per i fatti di Ustica, per la strage di Bologna e in tanti altri tragici episodi della nostra storia». Il Memoriale Moro fa riferimento ad espressioni tipo «come dirò più avanti» oppure «come ho già detto altrove». Nelle 229 pagine fotocopiate, trovate nel covo di via Montenevoso il 9 ottobre del ’90, mancherebbero tali rimandi. Perché i brigatisti non hanno divulgato il Memoriale, pur avendo affermato che “niente doveva essere nascosto al popolo”? Dov’è finito l’originale scritto a mano del Memoriale Moro? Dove sono finite le pagine mancanti? Dove le bobine registrate? Dove sono le trascrizioni degli interrogatori? Il regista sceglie la strada del finale aperto. L’impossibilità narrativa di trovare il Memoriale è la triste constatazione di una storia politica e giudiziaria ancora da risolvere. Da questo punto di vista, il film raggiunge il suo scopo narrativo. Il discorso della storia e il discorso della forma coincidono nell’impossibilità di non poter chiudere il film. Si tratta di un film che inquieta lo spettatore, il quale non riesce a trovare un finale perché non esisterebbe, secondo Martinelli, nemmeno nella storia ufficiale, perché nessuno è ancora riuscito a trovare la versione definitiva del Memoriale Moro. Il collante di questi misteri è rappresentato da una location virtuale, un luogo che per tutto il film non esiste, se non nell’indagine che compiono i protagonisti, e compare soltanto nel finale del film, nella soluzione amara dell’intreccio: Rosario non troverà il Memoriale, ma scopre la doppia faccia dello Stato. Il Memoriale, è molto probabilmente dietro a questo superpotere. Cercare di scoprire l’ubicazione del Memoriale, significherebbe affrontare la presunta identità di uno Stato che si muove nel segreto, con tutte le conseguenze che questo comporterebbe. Il punto di vista è confermato anche dalla scelta stilistica del regista, dalla costruzione scenica e narrativa della scena finale. L’ending shot, è realizzato attraverso il ritorno della forma elicoidale della rampa delle scale e dalla panoramica sulla mappa della città. Tutto richiamerebbe alla rete in cui è caduto il giudice. La forma essenziale di questi due elementi, già presenti durante la narrazione, sono esasperati attraverso l’utilizzo di un piano sequenza che partendo dall’interno del palazzo, in cui si trova il giudice, arriva a coinvolgere una zona enormemente più grande e più complessa. La violenza del zoom out non indica soltanto lo stato d’animo del giudice, sorpreso e spaventato della presenza di Branco, ma è anche l’espressione diretta, tangibile ed estetica del complotto. Il film, attraverso questo finale, offrirebbe un’ulteriore spiegazione sull’utilizzazione semantica del punto di vista. Lo svelamento del reticolo delle strade, visto dall’alto, indica chiaramente l’incastro diabolico e perfido di tutta la storia, quella del giudice che tenta l’indagine e quella stessa di Moro, ricca di contraddizioni irrisolte. La figura ellittica, come ho già evidenziato precedentemente, è la metafora di una ragnatela che circoscrive l’affaire, la stessa che fa riferimento alla citazione in esergo al film: «la giustizia è come una tela di ragno: trattiene gli insetti piccoli, mentre i grandi trafiggono la tela e restano liberi». Si tratta di una conclusione inquietante che entra nettamente in contrasto con quella garantista e risoluta delle istituzioni. Ce lo ricorda Franceschini. Per lui Moretti era un infiltrato di terzo livello: il primo livello era il movimento rivoluzionario; il secondo livello erano le stesse Br; e il terzo era rappresentato da chi «utilizzava anche la lotta armata per garantire gli equilibri del mondo sanciti a Yalta nel 1945». D’altra parte, è lo stesso Moretti a ricordare la valenza storica dell’affaire Moro sarebbe rimasta ancora aperta, «perché questa storia che politicamente è finita non è una storia giuridicamente finita». E Franceschini parla apertamente di trattative: «nelle galere c’è stata la contrattazione su quello che si doveva e non si doveva dire, e il silenzio è stato pagato con la libertà o i benefici di legge a favore degli ergastolani». Flamigni, a suo modo giunge ad alcune conclusioni simili a Franceschini, in totale disaccordo con gli esiti giudiziari: la verità ufficiale raccontata dai brigatisti e sancita dai tribunali come tale è, in più punti, inverosimile; non crede alla purezza rivoluzionaria delle Brigate rosse morettiane e tanto meno a quella di Moretti; egli è convinto che nel delitto Moro vi siano state implicazioni dei servizi segreti e collusioni “atlantiche”. Si tratta di tesi soggettive e per tanto opinabili, afferma Flamigni, ma libere di essere espresse e di essere argomentate. Ed è, al contempo, il filo rosso che percorre tutto il film di Martinelli, nel racconto di finzione e nell’indagine giudiziaria. Un film, come ricordavo all’inizio è prima di tutto un fatto narrativo, che rientra di diritto nel campo estetico. Ma non per questo deve essere necessariamente destinato al mondo della finzione e dell’invenzione intellettuale. Da questo punto di vista, il film di Martinelli può essere definito come un fondamentale esempio di impegno civile e sociale interessato all’analisi e allo studio della verità storica. Non si tratta di puntare l’attenzione sul fattore spettacolare che tenta di trarre il massimo dai tanti misteri che esistono nella prima repubblica. E ne si può accusare il film di Martinelli di faziosità politica o giudiziaria. Gli elementi presentati nel film, sono in primo luogo indizi, tracce reali, segni oggettivi che messi insieme definiscono una possibile pista investigativa, una possibile interpretazione storica che non può essere tacciata come difettosa o paranoica. Il film è l’esempio in cui il cinema, come immagine movimento, possa intervenire nella realtà sociale per rappresentare il suo più alto contributo etico ed estetico. La costruzione della trama, il rifacimento delle scene, costringe il film, per forza di cose, ad ipotizzare un'altra dinamica degli eventi a tal punto da scorgere, senza imbarazzo, brigatisti e istituzioni dietro una versione troppo spesso superficiale. Così accade nella ricostruzione della strage di via Fani dove due elementi giudiziari non hanno permesso, a rigore di logica, lo svolgimento drammatico e fattivo dell’incidente: l’impatto della macchina di Moro, che non c’è mai stato e l’uccisione del maresciallo Leonardi. Qui il film insinua il dubbio e lo fa secondo una base oggettivamente riscontrabile nei resoconti giudiziari e nelle versioni fornite dai stessi brigatisti. Probabilmente, come afferma il regista, se brigatisti hanno potuto mentire sull’azione di via Fani e su un aspetto evidente come il mancato tamponamento, forse hanno mentito su tutto il resto. Dunque, il film non è esclusivamente un fatto finzione o di invenzione. Da questo punto di vista il racconto ribadisce continuamente il suo sforzo di costruzione semantica e al tempo stesso storiografica, degna di un cinema della migliore tradizione italiana, del cinema di Rosi, di Petri, del cosiddetto cinema politico. In oltre, il film ha un altro primato: per la prima volta all’interno del cinema italiano viene trattato senza troppi formalismi l’argomento P2. Non solo. Nel film esiste una vera e propria struttura gerarchica, un organigramma, che si mostra chiaramente in tutta la sua forza storica e giudiziaria, attraverso alcune inquadrature chiare e distinte in un contesto storico preciso. Prima di questo film, nessuna opera aveva osato tanto, nessun racconto aveva tentato di presentare i nomi di uomini politici, militari e civili per inserirli in un racconto. Da questo punto di vista, il film di Martinelli ha effettivamente rotto un muro di omertà e per questo, volenti o nolenti, bisogna dargliene atto. Ma la conclusione spetta proprio allo spettatore, poiché il film è creato soprattutto per stimolare la sua conoscenza e la sua intelligenza. Allo spettatore spetta il compito di unire i spezzoni proposti nel film, di operare un scelta tra le tante versioni esistenti, di creare un unico percorso narrativo unendo i diversi tempi e i diversi spazi proposti nel film: il flashback, il repertorio, le immagini di finzione, le telefonate dei brigatisti, il filmato di via Fani, i nuovi elementi indiziari. Tutto questo deve essere necessariamente contestualizzato se si vuole dare un senso al racconto narrativo e al racconto storiografico. Per dirla insieme a Deleuze, l’attività dello spettatore finisce per coincidere con quella «falda di trasformazione» che inventa una sorta di continuità, di comunicazione trasversale, liberando così la stessa narrazione dall’impaccio del racconto e operare un senso compiuto. Percezione, ricezione e riflessione: la sintesi deve essere data e offerta proprio dallo spettatore, che completa il finale aperto del film. Ma forse «è un lavoro che rischia lo scacco, talvolta produciamo soltanto una polvere incoerente fatta di prestiti giustapposti, talvolta formiamo soltanto generalità che prendono in considerazione solo delle somiglianze» e in tutto questo, lo spettatore comune può perdersi, confondendo ulteriormente la ricerca della verità. Ma si tratta, inevitabilmente, di un rischio che il cinema deve correre se vuole intervenire positivamente nei gangli dello sviluppo sociale e civile, modificare i punti nevralgici del Potere e incentivare la crescita degli individui. La costruzione finale del racconto indica inequivocabilmente l’allargamento del caso Moro: l’affaire è «una vicenda di intelligence internazionale, non circoscritta solo all’Italia e nella quale molti sono i punti oscuri». Il film propone dunque l’idea di questa storia e non pretende, secondo la più alta ambizione del cinema politico italiano, di risolvere la vicenda e nè tanto meno di schierarsi su di un fronte interessato e partitico: «vorrebbe sollecitare gli spettatori a riflettere su tutte le incongruenze e le menzogne che da venticinque anni ruotano intorno a questo evento epocale». Lo scopo dell’arte impegnata del cinema cosiddetto politico è quello di incitare allo studio della propria storia, stimolare la curiosità e comprendere le cause e gli effetti del proprio paese, significa crescere e costruire il futuro. Lo scopo del cinema verità è quello di impedire l’oblio, provocare l’indignazione non per il gusto estetico di provocare emozioni forti e violente: semplicemente per non dimenticare la propria storia e gli strani revisionismi che non collimano tra loro, molto spesso forzati e interessati. L’indignazione è il gesto rivoluzionario dello spettatore, è una delle possibilità per acquisire coscienza critica. È uno dei modi per poter raggiungere la verità. E la verità è sempre illuminante e ci aiuta a essere coraggiosi, come scriveva Moro. Il film di Martinelli è un film coraggioso proprio perché cerca una verità senza tornaconti. Andrea Lomartire

“Il patto segreto di Tangentopoli tra Pool e Pds” di Ferdinando Cionti. Ferdinando Cionti, avvocato, incaricato dall’allora Presidente Craxi di verificare la legittimità dell’operato del Pool Mani pulite, ricostruisce gli avvenimenti di quegli anni e giunge alla conclusione che venne effettuato un vero e proprio colpo di Stato, con il quale si modificarono i rapporti costituzionali tra magistratura e politica, instaurando una egemonia della magistratura, tuttora vigente. L’intelligenza dell’analisi e la sincera passione civile che animano queste pagine siano per i lettori un’occasione per conoscere più approfonditamente i fatti e valutarli sotto il profilo giuridico – oltre che politico, com’è avvenuto prevalentemente finora – anche per inquadrare correttamente le vicende dei nostri giorni.

Ferdinando Cionti è avvocato a Milano ed è stato professore a contratto di Diritto Industriale per il Management presso l’Università di Stato di Milano Bicocca, facoltà di Economia, dipartimento di Diritto per l’economia. La sua concezione del diritto è sintetizzata nel saggio "Per un ritorno alla certezza del diritto", pubblicato su Libertates. Ha pubblicato numerosi saggi, tra cui "La funzione del marchio" e "Sì Logo" (Giuffrè). Per LibertatesLibri è uscito "Il colpo di Stato", presente nello Store di Libertates. Quale collaboratore dell’ “Avanti”, ha seguito quotidianamente le vicende di Mani Pulite.

Le critiche sollevate dalla Magistratura alla Commissione Parlamentare d'Inchiesta su Tangentopoli, sono compendiate in questa dichiarazione del giudice milanese Claudio Castelli, vicepresidente dell'Associazione nazionale magistrati, scrive Ferdinando Cionti. "Come associazione nazionale magistrati, ci preoccupano invece alcuni passaggi della legge istitutiva, che rendono concreto il rischio di uno sconfinamento istituzionale: la commissione su Tangentopoli non può diventare una sorta di quarto grado di giudizio. Il problema proprio questo: un'indagine politica strumentalizzata per delegittimare la magistratura. Si tratta di critiche generate da veri e propri equivoci, che vanno chiariti. Innanzitutto le conclusioni della Commissione Parlamentare d'Inchiesta non potranno mai concretarsi in "una sorta di quarto grado di giudizio", posto che in ogni caso le sentenze restano quelle che sono. Non che la Commissione possa riformare o annullare questa o quella sentenza. Potrebbe, per esempio, rilevare che le due sentenze definitive di condanna di Craxi sono state emesse in applicazione di norme processuali riconosciute poi ingiuste, tant' che si approvata la riforma costituzionale del giusto processo..."

Così nacque il patto segreto che legò i giudici e la sinistra. Il saggio di Ferdinando Cionti spiega perché "Mani pulite" non toccò i leader del Pds e quali furono le conseguenze, scrive Dario Fertilio, Venerdì 24/03/2017, su "Il Giornale". Colpo di Stato fu, e non solo giudiziario: la matrice di Tangentopoli fu anche politica. Si basò, secondo Ferdinando Cionti, sul patto d''acciaio fra il Pool di Mani Pulite e un partito dai molti nomi: Pci/Pds/Ds/Pd. In un saggio precedente, Il colpo di Stato (edito da LibertatesLibri, come quello che ora ne è il proseguimento, Il patto segreto di Tangentopoli tra Pool e Pds, pagg. 230, euro 12), il giurista aveva smontato l'ingranaggio dell'inchiesta condotta fra il '92 e l'anno successivo. Secondo la sua analisi Borrelli, Di Pietro & C. erano responsabili di una serie di illegalità, tra le quali ripetute violazioni dell'articolo 289 del codice penale (attentato contro gli organi costituzionali). In particolare avevano fatto cadere la nomina di Bettino Craxi a presidente del Consiglio: al vertice dello Stato, Scalfaro, informato dai giudici di Mani Pulite, aveva preso atto delle indagini segrete in corso e aveva ripiegato su Giuliano Amato. Ne conseguiva che un pubblico ministero aveva condotto indagini illegittime contro Craxi, interferendo nella nomina del Presidente del Consiglio, scavalcando l'esito delle elezioni, il Parlamento, e limitando lo stesso potere del Presidente. Ma in che senso le indagini del Pool erano state illegittime? Per molti motivi. La scintilla dell'inchiesta, cioè l'arresto di Mario Chiesa per la vicenda delle tangenti legate al Pio Albergo Trivulzio, era scoccata in seguito a una serie di intercettazioni illegali. In pratica Di Pietro aveva «inventato» l'esistenza di un reato per il quale è consentita l'intercettazione telefonica. Anche il conferimento dell'inchiesta a Di Pietro era stata irregolare: lui stesso per l'«operazione Chiesa» aveva concordato con la polizia giudiziaria una data in cui era di turno, in modo da farsi assegnare il processo. Ancora, nei confronti di Mario Chiesa, Di Pietro aveva dimenticato deliberatamente di depositare nei tempi dovuti gli atti previsti per il rito direttissimo. Il che gli aveva consentito di prolungare indefinitamente la detenzione, cuocendo Chiesa a fuoco lento: le confessioni erano il risultato di una procedura illegale basata sullo choc indotto da carcere e manette. Non basta: Di Pietro, dopo aver proceduto per concussione al fine di condurre intercettazioni illegali, aveva ideato un altro trucco, applicando alla sua inchiesta sulle tangenti la legge che riguarda le rogatorie internazionali per il riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di droga o armi. Così aveva scavalcato il ministro della Giustizia, che avrebbe dovuto autorizzarlo, alterando i rapporti fra magistratura ed esecutivo.

Non basta? Si consideri allora che il Pool aveva inventato la «dazione ambientale», un reato sociale e collettivo di corruzione, secondo il quale il rischio di reiterazione dei reati è sempre possibile. Effetto: veniva fatto capire all'indagato che la sua permanenza in carcere poteva durare all'infinito. Un metodo infallibile per farlo passare dalla confessione dei propri reati alla delazione di quelli altrui. Nel caso di Chiesa, aveva anche uno scopo politico: far sì che alla fine venisse chiamato in causa Craxi, nemico pubblico numero uno del partito dei giudici dal tempo del delitto Tobagi, e ancor più da quando il Psi si era schierato a favore della responsabilità civile dei magistrati. Ma soprattutto le indagini sull'odiato cinghialone erano avvenute in violazione dell'articolo 335 del codice di procedura penale, segretamente, senza iscrivere il suo nome nel modello 21, il registro in cui finiscono le notizie di reato con nominativo conosciuto, e che prevedono al massimo sei mesi di indagini, in modo da non chiedere l'autorizzazione a procedere nei confronti del parlamentare Craxi. Di qui gli attacchi del Pool all'articolo 68 della Costituzione appunto sulla autorizzazione a procedere (che aveva lo scopo di mantenere indipendenti i poteri legislativo ed esecutivo dal giudiziario).

Ecco le conclusioni di Cionti: il Pool guidato dal procuratore Borrelli aveva bisogno di un alleato per ottenere l'abolizione dell'immunità parlamentare e sanare a posteriori i più gravi reati commessi. Questo alleato fu l'allora Pds, mortalmente minacciato dal crollo dell'Urss, e disposto ad accordarsi con Craxi pur di entrare nell'Internazionale socialista. Temendo che il suo disegno egemonico ne venisse bloccato, il Pool offrì al partito di Occhetto la distruzione di Craxi e del Psi, in modo che il Pds potesse prenderne il posto. Ecco il motivo dell'annullamento all'ultimo momento, da parte dei post-comunisti, del documento che avrebbe dovuto sancire nel 1992 «l'intesa fra tutte le forze di progresso», cioè l'alleanza col Psi. Ecco perché l'inchiesta riguardò solo esponenti marginali o miglioristi del Pds. E perché le migliaia di manifestanti spontanei in favore di Mani Pulite e contro Craxi furono quasi tutti militanti di quel partito. E come mai, in seguito ai segnali intermittenti e inquietanti che aveva ricevuto dai giudici su quel che stava accadendo, ci furono le improvvise dimissioni di Cossiga dal Quirinale. Su questo sfondo si legge lo svuotamento della autorizzazione a procedere e la nascita del patto d'acciaio fra sinistra e partito dei giudici, ormai inossidabile. Svuotamento di fatto che diventava di diritto, con la riforma dell'articolo 68 della Costituzione, resa possibile dall'incalzante iniziativa del Pds che pagava in tal modo la sua salvezza; e, parallelamente, dalla pressione esercitata dal Pool con le sue azioni giudiziarie nei confronti dei parlamentari della maggioranza, in violazione proprio dell'articolo 68. Così cambiavano i rapporti tra i poteri dello Stato, poiché parlamento e governo risultavano subordinati al potere coercitivo della magistratura. E poiché il potere coercitivo è l'essenza della sovranità, veniva attuato un vero e proprio colpo di Stato - conclude l'autore del saggio - secondo l'articolo 287 del codice penale. Ferdinando Cionti a suo tempo era stato incaricato da Craxi di verificare se la Procura di Milano, nei giorni convulsi di Tangentopoli, avesse commesso illegalità. Oggi può dire d'aver portato a termine quel compito.

Mani golpiste. Rileggere Tangentopoli con il codice penale alla mano per scoprire che il colpo di stato ci fu. Un libro sul Pool di Milano, scrive Dario Fertilio il 25 Gennaio 2015 su “Il Foglio”. Nei confronti di Mario Chiesa il pm Di Pietro dimentica poi deliberatamente di depositare nei tempi dovuti gli atti. Questo gli consente di prolungare indefinitamente la detenzione. Mettiamo che tra il 17 febbraio del 1992 e il 29 ottobre dell’anno successivo si sia consumato in Italia un colpo di stato, senza che nessuno (o quasi) se ne sia reso conto. Dietro le quinte, nessuno zampino di servizi segreti né complotto di generali; al contrario, alla luce del sole, un rumoroso tintinnare di manette agitate dai giudici di Mani pulite. Mettiamo che Ferdinando Cionti, avvocato di cultura liberale, incaricato dall’allora segretario socialista Bettino Craxi di verificare la legittimità dell’operato del Pool di Milano, sia riuscito, firmando “Il colpo di Stato” (LibertatesLibri, pp, 158, euro 10) a smontare meticolosamente, articolo per articolo, l’ingranaggio giudiziario (con contorno politico e mediatico) su cui si è retta l’inchiesta di Tangentopoli. Concediamo pure che l’autore non abbia saputo né voluto spogliarsi di una antica passione garantista nel redigere il suo atto d’accusa contro i giudici della procura di Milano che determinarono il crollo della Prima Repubblica. Restano comunque i fatti elencati da Cionti, che vengono prima delle interpretazioni e delle tesi politiche: ed è a essi che occorre anzitutto dare udienza.

Con una premessa, che vale anche da conclusione: se colpo di stato a opera dei giudici ci fu, come sostiene Cionti, deve essere possibile inquadrare penalmente l’accaduto. Ed ecco: basta riferirsi agli articoli 287 e 289 del codice penale, là dove stabiliscono rispettivamente: “Chiunque usurpa un potere politico ovvero persiste nell’esercitarlo indebitamente, è punito con la reclusione da sei a quindici anni”; e ancora, “è punito con la reclusione da uno a cinque anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette atti violenti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente, al presidente della Repubblica o al governo l’esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge; alle assemblee legislative, alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l’esercizio delle loro funzioni”.

Ma prima di passare alle radicali conclusioni cui giunge Cionti, basandole sui due articoli appena citati, ecco i passi salienti della sua indagine, in cui viene “smontata” pezzo per pezzo, e articolo per articolo, la macchina giudiziaria messa in moto a suo tempo dai giudici di Mani pulite. La scintilla dell’inchiesta, cioè l’arresto di Mario Chiesa per la vicenda delle tangenti legate al Pio Albergo Trivulzio, scocca in seguito a una serie di intercettazioni illegali. In pratica Di Pietro, giostrando fra gli articoli 266 del codice di procedura penale, e il 317 e 318 del codice penale, invece di iscrivere nel registro la sola notizia di un reato di diffamazione, vi aggiunge in base a un sospetto non provato quello di corruzione e addirittura di concussione. In pratica “inventa” l’esistenza di un reato per il quale è consentita l’intercettazione telefonica. Inoltre il conferimento dell’inchiesta a Di Pietro avviene in modo illegittimo: in certo modo è come se il suo autore, per poterne essere titolare, l’avesse assegnata a se stesso. Egli infatti concorda con la polizia giudiziaria una data per l’“operazione Chiesa” in cui lui sia di turno, in modo che il processo gli venga assegnato, evitando il rischio che finisca a un altro sostituto. Ma questo è ancora il meno – benché sia già una violazione del regolamento – perché Di Pietro determina l’assegnazione dello stesso processo a un gip gradito, contro il disposto dell’articolo 25 della Costituzione, che pone il divieto di sottrarre l’imputato al suo giudice naturale. La tecnica messa in atto, in questo caso come nei successivi di Mani pulite, consiste nell’intasare con fascicoli di scarso rilievo l’ufficio del gip competente per turno, ma considerato meno malleabile, facendo in modo che il fascicolo passi in eredità a quello favorevolmente disposto (in quel caso Italo Ghitti). Nei confronti di Mario Chiesa il pm Di Pietro dimentica poi deliberatamente (come ammetterà lui stesso successivamente in un’intervista) di depositare nei tempi dovuti gli atti previsti per il rito direttissimo. Questo gli consente di prolungare indefinitamente la detenzione, cuocendo Chiesa a fuoco lento: le sue confessioni, per quanto rilevanti ai fini dell’inchiesta, sono il risultato di una procedura illegale che si basa sullo choc indotto dal carcere e dalle manette, con la prospettiva di una macchia indelebile sull’immagine pubblica dell’inquisito.

Ancora: Di Pietro, dopo aver proceduto per concussione al fine di effettuare le intercettazioni illegali, inventa un altro trucco o “giochino”: applica ai fini della sua inchiesta sulle tangenti la legge che riguarda le rogatorie internazionali per il riciclaggio di denaro sporco proveniente dal traffico di droga o di armi. In questo modo, tra l’altro, scavalca le prerogative del ministro della Difesa, che avrebbe dovuto autorizzarlo, alterando di fatto i rapporti fra magistratura e potere esecutivo.

Viene poi creato dal Pool, attraverso l’invenzione della “dazione ambientale”, un tipo di reato sociale e collettivo di corruzione, secondo il quale il rischio di reiterazione dei reati, dell’inquinamento delle prove e della fuga, è sempre possibile. Come dire che, essendo l’Italia in generale un paese di corrotti, ognuno deve essere comunque trattato come tale. Effetto: viene fatto capire all’indagato che la sua permanenza in carcere può durare all’infinito. Man mano che si avvicinano i termini di scadenza, gli si fanno piovere addosso a intervalli regolari nuovi ordini di custodia cautelare per reati simili a quello originario, con nuove ondate di pubblico discredito e un impatto umano devastante. E’ un metodo quasi infallibile che serve per far abbassare le difese all’inquisito, inducendolo a passare dalla confessione dei propri reati alla delazione riguardo a quelli altrui.

Nel caso di Chiesa, inoltre, il prolungarsi della detenzione assume anche uno scopo politico: far sì che alla fine venga chiamato in causa Craxi, nemico pubblico numero uno del “partito dei giudici” dal tempo del delitto Tobagi, e ancor più da quando il Psi si è schierato a favore della responsabilità civile dei magistrati. Ed è così, racconta l’autore, che si incomincia a indagare sul conto del leader socialista, il cosiddetto “cinghialone”. Ma, in violazione dell’articolo 335 del codice di procedura penale, lo si fa segretamente, senza iscrivere il suo nome nel modello 21, il registro in cui finiscono le notizie di reato con nominativo conosciuto, e che prevedono un termine di sei mesi per le indagini. Si ricorre invece astutamente al modello 44, riservato ai casi in cui l’identità dell’indagato è ignota: il termine dei sei mesi in questo caso non c’è più e dunque è possibile procedere a tutto campo contro l’odiato Craxi.

Se non che Craxi era un parlamentare. E qui sale il livello politico della sfida: iniziano cioè gli attacchi del Pool all’articolo 68 della Costituzione, quello che allora stabiliva come: “Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento possa essere sottoposto a procedimento penale”. Non si parlava di condanna, cioè, ma di “procedimento”: perché era chiaro al legislatore, preoccupato di mantenere separati e indipendenti i poteri legislativo ed esecutivo da quello giudiziario, come perseguire un politico ne pregiudicasse irreparabilmente la carriera. Quindi, in attuazione del disposto costituzionale, entro trenta giorni dalla iscrizione nel registro degli indagati il pubblico ministero avrebbe dovuto chiamare il parlamentare Craxi, chiedergli spiegazioni e, se queste non fossero riuscite convincenti, rivolgersi al Parlamento per l’autorizzazione a procedere. Questo non viene fatto, e i pm del Pool continueranno a non farlo in futuro, di fatto violando l’articolo 68 della Costituzione e mettendo la classe politica di fronte al fatto compiuto. Così il Pool creerà i presupposti per la modifica, finché si incaricherà Borrelli di chiederla pubblicamente.

Siamo al nocciolo della questione, e ormai apertamente su un terreno tutto politico: la presa di posizione del “partito dei giudici”, combinata con l’azione dei fiancheggiatori e lo stillicidio delle pubblicazioni su varie riviste e giornali dei verbali riservati, ostacola e infine fa cadere la nomina – proprio in quei momenti all’ordine del giorno – di Bettino Craxi a presidente del Consiglio. Al vertice dello stato, Scalfaro, informato dal Pool, prendeva atto delle indagini in corso su Craxi e ripiegava sul conferimento dell’incarico a Giuliano Amato. Ed è qui dunque, con logica stringente, che Ferdinando Cionti fa discendere la conclusione dalle premesse: un pubblico ministero – afferma – ha effettuato indagini illegittime contro Craxi e se ne è avvalso per intromettersi direttamente nella nomina del presidente del Consiglio. Dunque, l’ha condizionata, esercitando un potere di fatto che scavalca l’esito delle elezioni, il Parlamento, e limita lo stesso potere del presidente della Repubblica nella sua maggiore espressione. Da qui l’attentato contro gli organi costituzionali, secondo l’articolo 289 del codice penale. Un punto di non ritorno, dal momento che si sarebbe dovuto modificare la Carta, e sanare a posteriori il reato commesso, oppure andare incontro a una messa in stato di accusa del Pool. Insomma, da un lato si continuava a disapplicare l’articolo 68, dall’altro si chiedeva pubblicamente, per bocca di Borrelli, la riforma di questa norma.

Il resto è storia nota. L’inchiesta su Tangentopoli procederà trionfalmente senza più ostacoli: si arriverà a indagare 131 parlamentari soltanto a Milano, mentre in tutto saranno 1.069 i politici coinvolti, di cui 205 deputati (un terzo del totale). In un clima simile di caccia giustizialista alle streghe, che l’autore definisce “rivoluzionario”, diventerà impossibile riconoscere l’evidenza: come cioè tutti i partiti fossero coinvolti in una associazione a delinquere basata su tangenti implicite e pressoché automatiche. Sicché non si poteva parlare legittimamente di corruzione né di concussione, rendendo inevitabile la famosa “soluzione politica” auspicata da Craxi, in modo da evitare il crollo dell’intero sistema democratico. Ma il tentativo messo in atto a questo fine dal ministro Giovanni Conso, che si proponeva di depenalizzare il reato di finanziamento ai partiti, sarà immediatamente bloccato dalla durissima reazione di Borrelli e dei suoi collaboratori, addirittura con una minaccia di dimissioni collettive, fino a indurre il presidente Scalfaro a non firmare il decreto. Si procederà invece in un’altra, opposta direzione, giungendo nell’ottobre del 1993 ad abolire l’immunità parlamentare. Sotto la mannaia cadrà intanto gran parte della Dc (non la sinistra, che confluirà poi nel Pds), l’ala migliorista e garantista del Pci, e naturalmente l’intera leadership socialista. Tutti i gruppi dirigenti, insomma, considerati “nemici” dal partito dei giudici. In questo clima, mentre si indagano i 131 parlamentari soltanto a Milano – ripetiamo: in tutto saranno 1.069 i politici coinvolti, ma i deputati appartenevano quasi tutti alla maggioranza – si inquadra il voto quasi unanime per l’abolizione dell’immunità parlamentare. Il Parlamento è in pratica sotto ricatto, anche in considerazione del fatto che l’opposizione, pur di essere risparmiata, è indotta ad allinearsi.

Fu presa del potere prima di fatto e poi ufficiale, insomma, riassume l’autore de “Il colpo di Stato”. E venne realizzata mediante l’esercizio di una decisiva facoltà di intimidazione e di veto; l’impresa di lì a poco sarebbe culminata nel blocco della riforma con la quale avrebbe potuto essere finalmente avviata la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Finché, più tardi da Hammamet, Craxi avrebbe parlato di “una certa mappa con dei confini interni: c’è chi dev’essere protetto, chi deve essere tenuto a bagnomaria, e chi dev’essere distrutto”.

Operazione chirurgica, conclude Ferdinando Cionti, finalizzata al “cambiamento” dello stato. Un putsch, precisa, di tipo “bonapartista”, cioè basato sulla legalizzazione a posteriori dell’evento rivoluzionario. Come Napoleone nel famoso 18 brumaio del 1799 bloccò il Parlamento, e poi convocando i parlamentari a lui fedeli ottenne la ratifica dei nuovi poteri a lui attribuiti, così la magistratura nel ’93 indusse i parlamentari consenzienti a spingere per la riforma, intimidendo e paralizzando gli altri. Che poi ne sia risultato un potere “oligarchico” della magistratura, tuttora in vigore e contrario al primo articolo della Costituzione fondata sulla sovranità popolare, può essere materia di riflessione per chi si propone di cambiare le cose oggi o domani. Sempre tenendo presente come il terribile potere del giudice, che dispone della vita degli uomini, abbia posto da sempre il problema della sua delimitazione, ovviamente senza lederne l’indipendenza. La soluzione adottata (soprattutto nei paesi regolati dalla civil law anglosassone) è stata quella di distinguere nettamente la titolarità dell’azione penale, esercitata dal potere esecutivo mediante il suo “procuratore”, dal ruolo affidato al giudice e predeterminato dalla legge, in modo che l’uno bilanci l’altro. Sicché, in quasi tutti i paesi, vige la separazione del pubblico ministero – che esegue la legge promuovendo l’azione penale – dal giudice, che interpreta la legge nel caso concreto, pronunciando la sentenza. (Tranne che in Francia e in Bulgaria, dove però il pubblico ministero è alle dirette dipendenze del ministro della Giustizia).

Come si sa, invece, in Italia giudice e pm fanno parte della medesima corporazione, indipendente dal ministro della Giustizia e da qualsiasi altra autorità di qualsiasi natura. Con la conseguenza che questa corporazione gestisce l’intero monopolio della “violenza legittima” dello stato, l’essenza stessa della sovranità. Forse non è ancora tempo, se mai lo sarà, di un’elezione popolare e diretta di giudici e pm, come avviene in America. Ma questo potere sovrano di una corporazione, priva di legittimazione popolare, dovrebbe trovare un limite nella impossibilità di invadere il potere legislativo – democratico perché eletto – grazie all’immunità parlamentare stabilita dall’art. 68 della Costituzione nel testo originario. Una volta travolto quell’argine sotto i colpi di Mani pulite, il potere giurisdizionale è diventato aristocratico, illimitato e irresponsabile. Insomma, né il presidente della Repubblica né il presidente del Consiglio possono sfiorarlo con un dito, mentre esso, alla fine, può intervenire su entrambi.

La morale di questa vicenda? E’ sempre valida, anche al di là di Tangentopoli e della stretta politica giudiziaria: è una fatale illusione credere di poter combattere un crimine commettendone un altro. 

LA ZONA GRIGIA. LA LOTTA DI CLASSE, LA REPUBBLICA SOCIALE (SALO’) ED IL REGNO DEL SUD.

Io fascista. 1945-1946. La testimonianza di un superstite. Di Giorgio Pisanò. Editore: Il Saggiatore. Anno edizione: 2010. Dopo la resa del governo Badoglio e la fuga di Vittorio Emanuele III, ottocentomila giovani decidono di difendere la Repubblica sociale italiana e di continuare a combattere per una causa ormai persa. "lo fascista" è la testimonianza di uno di questi giovani e dei giorni successivi alla fine della Rsi: dalla ritirata nel ridotto alpino valtellinese agli ultimi combattimenti della "colonna Vanna" che, circondata dalle forze partigiane, si arrende il 28 aprile 1945. Per Giorgio Pisano seguono lunghi mesi di prigionia accompagnato dal costante timore di venire giustiziato sommariamente - che lo portano dal carcere di Sondrio, a San Vittore a Milano, fino al 370 POW, il gigantesco campo di prigionia inglese a Rimini.

Sangue chiama sangue. Storie della guerra civile. Di Giorgio Pisanò. Amazon 2012. Recensioni su Amazon.

Da Danilo il 24 luglio 2012. Giorgio Pisanò, per i non "addetti ai lavori", è stato probabilmente il più grande storico della guerra civile italiana. Il fratello Paolo, nella premessa di questo libro, lo definisce "cronista di razza". E davvero non si può dargli torto scorrendo le pagine di questo testo che raccoglie alcune delle vicende più terribili che lo stesso Pisanò, assieme al fratello, pubblicò negli anni '60 nel giornale che allora dirigeva e che poi raccolse nell'ormai introvabile "Storia della guerra civile" in tre volumi da enciclopedia. Nonostante l'argomento sia ostico il libro si legge con relativa facilità sia per la scrittura chiara e diretta sia per l'abbondante documentazione che l'Autore non manca mai di fornire. Molto interessante la storia relativa al massacro delle Fosse Ardeatine: con dovizia di particolari Pisanò spiega chi sono i veri colpevoli della strage senza peraltro nulla togliere alla responsabilità dei tedeschi che, a dispetto della fede politica dell'Autore, sono spesso e volentieri citati come "ottusi e irragionevoli" (e questo per chi dice che il Fascismo e Mussolini erano schiavi dei tedeschi...). Consigliato agli insegnanti come integrazione dei testi scolastici (anzi, meglio, come succedaneo ad essi).

Da Paganini il 16 aprile 2014. Un libro agghiacciante che fa quasi "piazza pulita" di quel "lavaggio del cervello" che la propaganda post bellica ha inculcato in tutte le generazioni a seguire: l'idea che la resistenza sia stata "il secondo risorgimento". La guerra civile in Italia è stata una tragedia con poca gloria per tutti, e con crimini inumani da una parte e dall'altra. In particolare il ruolo nefasto dei comunisti e i loro crimini, che avevano come scopo non la libertà ma la consegna dell'Italia a una nuova dittatura (sovietica) certo non migliore del nazifascismo, sono rimasti nascosti per decenni grazie una distorsione della storia a cui non solo il PCI ma anche le altre forze della neonata repubblica hanno propinato all'Italia. Certo, detto senza mezzi termini, Pisanò è un fascista, non ne ha mai fatto mistero. Per fortuna in tempi recenti, altri testimoni di sicura fede democratica e antifascista (Gianpaolo Pansa su tutti) hanno sentito il dovere di svelare quelle terribili verità. "Boia" non migliori di Kappler o Priebke, come i comunisti "Gemisto" o "Giacca", sono stati eletti anche nel nostro parlamento, e alcuni (Bentivegna e Capponi) anche decorati con medaglia d'oro. Ci vorranno ancora decenni perché nelle scuole sia raccontata la storia e non la storia come la sinistra la vuole, ma ci arriveremo.

Dacianto il 3 febbraio 2015. Un bello schiaffo in faccia non solo a chi ha mistificato la storia ma anche a chi, come il sottoscritto, ha passivamente assorbito quello che la scuola gli ha propinato senza farsi troppe domande. Non è mai troppo tardi, però, per aprire gli occhi e acquisire una coscienza da uomini liberi quando si scopre di aver creduto in un sacco di fandonie. Questo libro spalanca un panorama da mozzare il fiato su una serie di miti che la società italiana continua perpetuamente a rinnovare, dando per scontata la versione dei fatti passata ai libri di storia: le Fosse Ardeatine e Marzabotto, giusto per fare due nomi noti a tutti. Non si tratta di scoprire chissà quali verità nascoste e riemerse a 70 anni di distanza; bensì solo di appurare le vere responsabilità dei tanti eccidi che hanno scandito la guerra civile. L'autore di questo libro ha la lucidità di fare questo e di presentare al lettore interessato un resoconto chiaro, preciso, completo e soprattutto credibile di quel buio periodo su cui quasi nessuno, nell'Italia repubblicana, ha avuto interesse a far luce.

Giorgio Pisanò. Da Wikipedia, l'enciclopedia quasi libera. Il padre Luigi, pugliese di San Vito dei Normanni, laureato in giurisprudenza, era un funzionario statale. A Ferrara, negli anni venti del Novecento, quando era in servizio alla prefettura, conobbe una ragazza e la sposò. Giorgio è il primo di cinque figli. La famiglia si sposta da una città all'altra, come per tutti i funzionari di prefettura. Giorgio prese la maturità classica a Taranto, durante il periodo bellico. A 18 anni ebbe il comando della Compagnia di pronto intervento della GIL, addestrata per soccorrere la popolazione durante i bombardamenti. In seguito il padre venne inviato alle prefetture di Messina, Pescara e Pistoia. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 Pisanò si trovava proprio nella città toscana, dove con altri ragazzi organizzò la riapertura della casa del fascio e l'occupazione della Caserma Gavinana, abbandonata dai soldati, in attesa di un reparto tedesco. Ben presto si arruolò volontario nella Xª Flottiglia MAS, chiedendo di far parte degli NP. L'addestramento fu svolto a Jesolo, mentre a Tradate furono effettuati i lanci con il paracadute. Destinato alla raccolta informazioni oltre le linee nemiche, operò insieme al pistoiese Ruy Blas Biagi. Verso la fine della guerra si trovò in Valtellina come tenente della XXXVIII Brigata Nera "Ruy Blas Biagi" di Pistoia, assegnato ai servizi speciali del Comando generale. Nel 1944 fu inviato in missione oltre le linee anglo-statunitensi e fu paracadutato nei pressi di Roma. Dopo aver svolto la missione assegnatagli, fu preso prigioniero dall'esercito del Regno Unito mentre tentava di rientrare[3]. Non identificato come agente fascista, fu comunque incarcerato per un mese nel carcere di Arezzo perché sorpreso a circolare in zona di guerra senza permesso. Il 20 aprile 1945 raggiunse la Valtellina dove si stava organizzando il Ridotto Alpino Repubblicano e il 27 aggregato alla colonna guidata dal maggiore Renato Vanna della Guardia Nazionale Repubblicana di Frontiera ne condivise le vicende fino allo scioglimento. Fu preso prigioniero dai partigiani il 28 aprile 1945 a Ponte Valtellina e imprigionato nel carcere di Sondrio dove documentò le fucilazioni dei propri compagni di prigionia presenti in quel momento nel carcere e che durarono fino al 13 maggio quando i carabinieri sottrassero i prigionieri ai partigiani. Dal 29 agosto al 26 ottobre 1945 rimase in prigionia nel carcere milanese di san Vittore. Fu poi trasferito nei campi di concentramento alleati R707 di Terni e a Rimini dove restò fino a novembre 1946. Terminata la prigionia, raggiunse la famiglia, oramai stremata in seguito all'epurazione del padre, a Lucino. Per aiutare la famiglia iniziò l'attività di contrabbandiere fra Italia e Svizzera. Pisanò riscoprì la politica ed incontrò la professione della sua vita: il giornalismo. Nel 1947, a Como, fu tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano, diventando il primo segretario di quella federazione. La sua attività professionale comincia nel 1948 dove coprirà le cariche di redattore e inviato dei settimanali Meridiano d'Italia, un settimanale di destra neofascista, diretto da Franco De Agazio. Proprio con Meridiano d'Italia, alla cui direzione era giunto Franco Maria Servello, inizia a condurre ricerche sugli omicidi del dopoguerra compiuti dai partigiani, molti dei quali legati al mistero dell'oro di Dongo. Nel 1949 è membro della giunta nazionale del Raggruppamento giovanile studenti e lavoratori del MSI. Nel 1951 fonda e ricopre la carica di primo presidente lombardo dell'Associazione Studenti "La Giovane Italia", che confluisce nel 1954 nella Giovane Italia. Divenuto giornalista professionista, approda nel 1954 a Oggi, settimanale fondato da Angelo Rizzoli e diretto da Edilio Rusconi. Nel 1960, Rusconi - che nel frattempo aveva fondato Gente - lo incarica di raccogliere per il settimanale tutto il materiale fotografico e documentale sulla Resistenza, per un reportage da pubblicare a puntate. Nel 1963 fonda il settimanale Secolo XX, nel quale comincia a pubblicare notizie controverse e scottanti. In particolare suscita scalpore l'inchiesta che Pisanò pubblica sulla morte misteriosa del capo dell'Eni Enrico Mattei. In quegli anni all'attività giornalistica affianca quella storico-saggistica con diversi testi sulla II guerra mondiale e sul fascismo durante al RSI come Sangue chiama sangue (1962), La generazione che non si è arresa (1964), Storia della guerra civile in Italia, 1943-1945 (1965), Gli ultimi in grigioverde. Storia delle forze armate della Repubblica Sociale Italiana (1967) e Penna nera. Storia e battaglie degli alpini d'Italia. Nel 1965 Pisanò è relatore al convegno dell'Hotel Parco dei Principi sulla guerra rivoluzionaria in funzione anticomunista. Nel 1968 fa rivivere il settimanale Candido, erede di quello fondato da Giovannino Guareschi e che aveva cessato le pubblicazioni nel 1961. In un'intervista riportata da Giampaolo Pansa nel volume La Grande Bugia, il fratello di Giorgio, Paolo Pisanò, riferisce che Guareschi, poco prima di morire, avrebbe accolto con favore l'idea del giornalista. Pisanò assunse la carica di direttore, mantenendola fino al 1992. Candido conduce molte campagne giornalistiche. In particolare nel 1980 fu particolarmente virulenta quella indirizzata a dimostrare che dietro la figura di Aldo Moro vi era un intreccio di interessi di personaggi non sempre limpidi. Diventa membro del Comitato Centrale e dal 1972 della Direzione nazionale del MSI. Nel 1972, viene eletto senatore per il Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale, nella circoscrizione Lombardia. Riconfermato ininterrottamente per cinque legislature (1976, 1979, 1983 e 1987) fino al 1992. In tale veste è stato componente delle Commissioni Parlamentari permanenti della Difesa e degli Affari Costituzionali, della Commissione parlamentare di vigilanza RAI, della Commissione parlamentare Antimafia e della Commissione Parlamentare d'Indagine sulla Loggia P2. Dal 1980 al 1994 Pisanò ricopre la carica di consigliere comunale della città di Cortina d'Ampezzo. Nel 1989 Pisanò fonda una corrente comunitarista interna al Movimento Sociale Italiano - Destra Nazionale, dopo la fuoriuscita dal MSI, il 25 luglio 1991 la corrente diventa Movimento Fascismo e Libertà, con Pisanò segretario nazionale. Il partito si configurò come l'unico partito a richiamarsi espressamente al fascismo sul simbolo stesso, che include e pone in evidenza al centro un fascio di colore rosso, facendo esplicito riferimento alle ideologie della Repubblica Sociale Italiana e della destra sociale, come il corporativismo, la socializzazione dell'economia, la fiscalità monetaria e il nazionalismo. Contemporanei processi per violazione della legge Scelba porteranno all'assoluzione di Pisanò e altri membri del partito poiché, al contrario della fattispecie di reato individuata dalla legge, il MFL ha in programma una Repubblica presidenziale bicamerale con Presidente della Repubblica con pieni poteri ed eletto dal popolo invece che la ricostituzione della dittatura fascista. Il partito ha eletto alcuni consiglieri comunali soprattutto nell'astigiano, in occasione delle elezioni politiche del 1992. Negli anni novanta riprese l'attività pubblicistica, pubblicando diversi testi sulla RSI. Nel 1995, dopo la svolta di Fiuggi e la definitiva trasformazione del Movimento Sociale Italiano in Alleanza Nazionale, Pisanò decide di associarsi a Pino Rauti nel progetto di conservazione dello storico partito della Destra italiana, che avrebbe dato origine alla Fiamma Tricolore. Alcuni mesi più tardi lascia però la vita politica, complice l'aggravarsi del suo stato di salute. Pisanò muore a Milano nel 1997, dopo una lunga malattia.

PISANO' L' IRRIDUCIBILE, CACCIATORE DI SCOOP IN CAMICIA NERA. E' morto ieri notte a Milano, dopo una lunga malattia, Giorgio Pisanò, 73 anni, giornalista e storico del fascismo, per cinque legislature senatore del Msi, che poi lasciò nel '91, scrive il 18 ottobre 1997 "La Repubblica". A FURIA di difendere Mussolini, lui che la notte della tumulazione a Predappio montava la guardia in camicia nera, e col pugnale staccò una scheggia dalla cassa per custodirla come una reliquia, Giorgio Pisanò aveva finito per assomigliare anche fisicamente al Duce, con la sua rotonda pelata e il mascellone quadrato. Lui lo sapeva e ne andava segretamente orgoglioso, più di quelle due croci di guerra ricevute dai nazisti come paracadutista della X Mas. La considerava, quella somiglianza, un riconoscimento della natura per la sua ostentata fedeltà postuma al fascismo, a Mussolini e al fantasma di Salò. Un segno del destino, forse. Pisanò è stato un fascista a 24 carati, uno che non si è mai arreso all' evidenza della storia, fino ad andarsene sbattendo la porta da un Msi che giudicava ormai "falsamente revisionista e assai poco fascista", e a fondare - incurante del clamoroso ossimoro - il movimento "Fascismo e libertà", di cui era ovviamente il segretario nazionale. Pochi, pochissimi l'avevano seguito, ma lui non se n' era preoccupato, dopo una vita vissuta controcorrente dalla parte sbagliata. La sua tempestosa avventura politica cominciò - come per Rauti, per Tremaglia, per Tassi, per Baghino e soprattutto per Almirante - con la divisa repubblichina di Salò. Arruolatosi nei paracadutisti comandati da Valerio Borghese, lui venne infiltrato nel Sud in mano agli Alleati, fu catturato e fuggì rocambolescamente, tornò al Nord e incappò nei partigiani mentre era con le Brigate nere a Ponte di Valtellina, il 28 aprile 1945. Alla fine della guerra, quasi per caso, si ritrovò a fare il giornalista per "Il Meridiano d' Italia", e portò nel mestiere la grinta del parà, cominciando subito con gli scoop. Uno lo rubò a "Oggi" diretto da Edilio Rusconi, che aveva pagato alcuni milioni per una cassa di diari (falsi, si scoprirà poi) del Duce. Pisanò li ottenne, gratis, per il "Meridiano", e Rusconi lo raggiunse al telefono infuriato: "Mi diede del filibustiere, poi mi invitò ad andare da lui la mattina dopo. Per assumermi". Il colloquio tra i due dà l'idea del personaggio: "Direttore, so che lei è stato deportato ad Auschwitz: è bene che sappia che io stavo nelle Brigate nere e non sono pentito". "Non me ne frega niente - rispose Rusconi - si preoccupi piuttosto di far piangere le donne con i suoi pezzi". Dopo aver seguito Rusconi a "Gente", Pisanò decise di copiarne l'esempio e si mise in proprio, riaprendo il "Candido" di Giovanni Guareschi. Dal '68 al '92, furono 24 anni di campagne contro i democristiani ("Andreotti è il vero capo della P2") e contro i socialisti ("Mancini, sei un ladro"), ma anche di scoop autentici e di intuizioni giuste come l'inchiesta a puntate sulla morte di Enrico Mattei, mescolati naturalmente a un bombardamento monocorde contro i nemici di una volta, i partigiani rossi. Nel '71, accusato da Dino de Laurentiis di estorsione, Pisanò passò 114 giorni a Regina Coeli, ma quando uscì Almirante lo mandò dritto a Palazzo Madama. E' stato senatore per vent' anni, fino al '92, ma ha usato il suo mandato, da una commissione all' altra, per continuare a cercare scoop, approdando persino in tv con la borsa che portava Roberto Calvi il giorno della sua morte. Prima dell'estate, vedendo il suo tramonto avvicinarsi, diceva di sè: "Ho 73 anni e li ho vissuti bene". Era soddisfatto delle 60 mila copie vendute dal suo ultimo libro, "Gli ultimi cinque secondi di Mussolini", dove quarant' anni di inchieste giornalistiche lo avevano condotto a quello che considerava lo scoop della sua vita: la convinzione che ad uccidere il Duce non fosse stato il celebre colonnello Valerio ma addirittura Luigi Longo, il futuro segretario del Pci, allora comandante generale delle Brigate Garibaldi. E a chi gli diceva "bum", lui rispondeva citando Dostoevskij: "Amico mio, la verità autentica è sempre inverosimile...".

Anniversari. Giorgio Pisanò pioniere del revisionismo sulla storia d’Italia, scrive il 17 ottobre 2013 Giorgio Ballario su "Barbadillo". Se oggi, a distanza di oltre sessant’anni, è possibile provare a riscrivere un pezzetto di storia italiana, è merito anche di persone come Giorgio Pisanò, giornalista e politico del vecchio Msi, scomparso il 17 ottobre di quindici anni fa. E Giampaolo Pansa, giornalista onesto e coraggioso, l’ha sempre riconosciuto. E’ stato lui, Pansa, a rendere patrimonio collettivo di una nazione una verità storica che in precedenza era stata appannaggio di poche migliaia di italiani ostinati. Ostinati lettori di ostinati piccoli autori storici come Pisanò, che diffondevano quasi clandestinamente le loro opere. “Il sangue dei vinti”, uscito nel 2003, ha squarciato il velo di omertà che teneva ostaggio un’intera nazione; così come in seguito hanno continuato a fare “Sconosciuto 1945” (2005), “La grande bugia” (2006) e “I gendarmi della memoria” (2007). Ma questi libri fondamentali non sarebbero mai stati scritti se prima non ci fossero state le opere di Pisanò: “Sangue chiama sangue” (1962), “Storia della guerra civile in Italia” (1965) e il più recente “Il triangolo della morte” (1992). Nato a Ferrara nel 1924, figlio di un funzionario pubblico di origine pugliese, Giorgio Pisanò brucia la “prima” delle sue vite combattendo con l’impeto dei vent’anni la guerra persa della Rsi, prima nella X Mas, poi con le Brigate Nere, infine, dopo il 25 aprile, con gli ultimi sbandati nel ridotto della Valtellina. Arrestato dai partigiani il 28 aprile del 1945 finisce in carcere a Sondrio e poi per un anno e mezzo in un campo di concentramento a Terni. Liberato nel novembre del ’46, è tra i fondatori dell’Msi a Como. Ma è l’anno successivo che inizia la sua “seconda” vita, quella di giornalista. Lavora al settimanale “Meridiano d’Italia”, poi passa al rotocalco “Oggi”, di Edilio Rusconi, dove comincia a raccogliere materiale e testimonianze sul periodo della guerra civile e sul famoso mistero dell’oro di Dongo. Scrive anche su un altro settimanale Rusconi, “Gente”. Nel 1963 lancia la rivista “XX Secolo”, dove pubblica inchieste scottanti su vari enigmi italiani, fra cui la morte di Mattei. Nel 1968 resuscita e dirige il famoso settimanale “Candido”, fondato da Giovannino Guareschi, che porterà regolarmente in edicola fino al 1992. L’attività di giornalista si interseca poi con la sua “terza” vita, quella di parlamentare. Nel 1972 viene eletto in Senato nelle file dell’Msi e vi rimarrà per cinque legislature, fino al 1992, partecipando fra l’altro a commissioni delicate come quella di Controllo sulla Rai, la Commissione Antimafia e quella che indagò sulla Loggia P2. Nel ’91, pochi anni dopo la morte di Almirante, lascia l’Msi e fonda un suo partito, Fascismo e Libertà, ricoprendo anche la carica di consigliere comunale a Cortina d’Ampezzo. Nel ’95, dopo la “svolta di Fiuggi”, aderisce al progetto di Pino Rauti per dar vita alla Fiamma Tricolore, partito che abbandonerà presto anche per il peggioramento delle sue condizioni di salute. Muore a Milano il 17 ottobre del 1997 dopo una lunga malattia. La sua ultima avventura editoriale risale al 1994, quando aveva fondato il mensile “Seconda Repubblica”. Sottotitolo: “Periodico dei fascisti e dei produttori per la democrazia corporativa”. I bersagli erano ben chiari e lo stesso Pisanò li individuava in un’intervista al Corriere della Sera: “Fini e i suoi uomini”. “Sono un giornalista d’ assalto, non un intellettuale – commentava in quella circostanza – La logica, il buon senso e i miei settant’anni mi consigliavano di starmene tranquillo. Ma la logica e il buon senso non hanno mai avuto un ruolo determinante nella mia vita”. Comunque si giudichi l’uomo Giorgio Pisanò e la sua cinquantennale attività politica e giornalistica, è stato un personaggio genuino, disinteressato, che merita un posto nella galleria ideale di chi preferisce cantare “fuori dal coro”.

Pisanò e gli orrori del ‘45. La verità sui giorni drammatici della guerra civile in Italia, scrive il 7 luglio 2014 Emma Moriconi su "Il Giornale d'Italia". Si intitola “Sangue chiama sangue”, di Giorgio Pisanò, e racconta “le terrificanti verità che nessuno ha mai avuto il coraggio di dire sulla guerra civile in Italia”. Un libro-inchiesta che è una finestra sulla realtà taciuta per decenni. Il volume prende le mosse da un’indagine giornalistica condotta dall’autore per il settimanale Gente che nel 1960 pubblicò uno speciale in diciotto puntate dedicato alla “Storia fotografica” della guerra civile. “Fin dall’inizio delle ricerche – scrive Pisanò nella premessa al volume – mi accorsi che, troppo di frequente, il linguaggio dei documenti ufficiali, delle lapidi, persino le motivazioni di certe altissime decorazioni al valore riportate da partigiani, non rispondevano assolutamente alla realtà dei fatti cui si riferivano. Appresi inoltre che molti partigiani, i cui nomi figuravano tra quelli dei caduti nella lotta contro i tedeschi e i fascisti, erano stati assassinati invece da partigiani comunisti. Scoprii infine che non esisteva alcuna documentazione storica veramente attendibile su quel periodo”. Le fonti su cui Pisanò si trovò a lavorare erano frammentarie e relative a piccole realtà, la stragrande maggioranza di esse erano faziose e di parte, spesso anche contraddittorie. Prezioso fu invece l’apporto che fornirono allo storico e scrittore gli archivi dell’Associazione famiglia caduti e dispersi della Rsi, “che, provincia per provincia – scrive Pisanò – ha schedato tutti i fascisti caduti dopo l’8 settembre 1943, specificando, per ognuno, luogo, data di morte e, spesso, i nomi dei partigiani cui deve essere attribuita la responsabilità della eliminazione”. Pisanò ebbe la premura, da buon giornalista, di verificare con minuzia ogni fatto, ogni notizia: si recò nei luoghi dei fatti, interrogò le persone, cercò testimoni e superstiti, di ogni fazione politica, con l’occhio curioso dello storico, arrivando al punto di controllare ogni notizia almeno due volte e di “contare le croci nei cimiteri per stabilire il numero delle vittime di determinati episodi di guerriglia”. E, aggiunge Pisanò, “vale la pena di notare che nulla di quanto pubblicammo diede origine a smentite o a precisazioni di sorta”. Il lavoro di Pisanò costituisce una fonte essenziale per comprendere ed analizzare un periodo che ancora oggi costituisce elemento di controversia storica ma anche ideologica. Molti sono gli episodi che l'autore racconta, dettagliati e documentati, prendendo le mosse da una verità sconvolgente: analizzando le origini del male, cercando i perché è il come inizio quella brutta pagina di storia patria. Per farlo va a scandagliare con estrema attenzione il periodo che va dall'8 settembre 1943 e che arriva al marzo del '44, epoca in cui si annida il germe della lotta fratricida che di lì a poco andrà ad insanguinare le strade della Nazione. Germe che Pisanò individua in una "massiccia e ben diretta azione terroristica decisa ed attuata dai comunisti con uno scopo ben preciso: spezzare il clima di tranquillità e di rassegnato attendismo che si era diffuso ovunque, dopo l'8 settembre, nei territori controllati dal nuovo governo Mussolini, e che consentiva ai fascisti di procedere indisturbati ad una rapida organizzazione del loro apparato statale e delle loro forze armate". Ovviamente l'autore documenta tutto ciò che afferma con una meticolosità estrema e, ovviamente, necessaria. Il libro va letto, tutto, e con attenzione, perché svela meccanismi che altrove è impossibile trovare. A partire dalle uccisioni del federale di Ferrara Igino Ghisellini (di cui abbiamo recentemente parlato sul Giornale d'Italia), del federale di Milano Aldo Resega (al quale abbiamo recentemente dedicato un approfondimento), del federale di Bologna Eugenio Facchini e di quello di Forlì Arturo Capanni, le cui storie saranno l'oggetto della nostra attenzione a breve. I quattro personaggi suddetti hanno una cosa in comune: sono "moderati", non rispondono con rappresaglie alle provocazioni, numerose, che arrivano dai partigiani comunisti. Tutti e quattro riescono a trovare un equilibrio con le forze partigiane non comuniste del Cln, e per questo tutti loro si attirano l'odio dei partigiani comunisti, che hanno invece interesse ad infuocare lo scontro. Quale migliore tattica, per lasciare campo libero alle forze fasciste estremiste, che la loro eliminazione? Ecco, il germe della guerra civile sta lì. Compreso questo, ci si può lasciar trasportare nell'era del sangue che chiama il sangue, dalla verità sulla rappresaglia delle Fosse Ardeatine a quella di Sant'Anna di Stazzema, da Marzabotto alle vicende biellesi. Senza retorica e anche riconoscendo tutte le responsabilità. Ma proprio tutte.

"Mio fratello Giorgio Pisanò cronista e detective scomodo". La sua inchiesta sulla Guerra civile non faceva sconti e non era ideologica. Per questo fu escluso dai "salotti", scrive Paolo Pisanò, Venerdì 31/03/2017, su "Il Giornale". Il talento vero di Giorgio Pisanò (1924-1997) non era quello dello storico accademico ma quello del giornalista investigativo di prim'ordine. Pisanò era soprattutto un cronista-detective provvisto di un intuito formidabile e di quella capacità innata di analisi-sintesi che spinge irresistibilmente alcuni (pochi) più che altri a cogliere in uno scenario complesso e ambiguo gli elementi essenziali per afferrarne la chiave interpretativa e renderli comprensibili al di là di ogni ragionevole dubbio. Questa sua intima caratteristica non gli era sempre benefica perché lo metteva necessariamente in rotta di collisione con coloro (tanti) che per le più disparate ragioni tendono a privilegiare l'interpretazione a priori (pregiudiziale) degli scenari complessi e ambigui per sovrapporvi una dimostrazione di comodo che tutto è tranne che qualcosa di attinente alla realtà. Ma la testardaggine da verità del segugio ostinato riusciva ad avere la meglio sui pregiudizi di convenienza e le inchieste di Pisanò hanno lasciato il segno più volte nella prima repubblica: dalla difesa di Raoul Ghiani nel caso Fenaroli con annesso scandalo Italcasse (1958) allo scandalo Lockheed (1980); dallo scandalo Anas (1970: la clamorosa denuncia di tangentopoli, rivelata in nuce vent'anni prima di mani pulite) allo scandalo dei petroli (1980); dalla prima inchiesta sull'assassinio di Enrico Mattei (1963) a quella sulla morte dal banchiere Roberto Calvi (1982), per citarne solo alcune. Ovviamente, ostinandosi a cantare fuori dal coro, Giorgio Pisanò non poteva pretendere di entrare nei salotti buoni (vulgo, niente editoria paludata per lui: doveva stamparsi tutto da sé), cosa della quale s'infischiava altamente perché questo tributo inevitabile al suo modo di essere non gli negava l'ammirazione e la stima di tanti e perfino di colleghi avversari politici ma capaci di apprezzarne il valore al di là delle ideologie divergenti.

Come scriveva Dario Di Vico sul Corriere della Sera dell'11 novembre 1996 sotto il titolo «Che bravo quel Pisanò»: «Giorgio Pisanò? È uno dei più bravi giornalisti italiani. Non ha mani ricevuto premi per la semplice ragione che è fascista. Di quelli dichiarati. Mai pentiti. Questo non gli impedisce di essere un ostinato cacciatore di notizie. A scrivere questo clamoroso elogio dell'ex direttore del Candido non è stato né Vittorio Feltri, né Pietrangelo Buttafuoco e nessun'altra delle penne della destra, ma addirittura un avversario politico. Quel Marco Nozza, inviato del Giorno e capofila per molti anni dei giornalisti antifascisti e democratici milanesi. Nozza ha tributato la standing ovation al vecchio Pisanò dopo aver visto in tv un'ennesima prova del suo fiuto giornalistico: uno speciale sull'oro della Banca d'Italia trafugato dai nazisti».

Sull'essere fascista di Giorgio Pisanò (sull'essere fascista tout court dalla seconda metà del secolo scorso) ci sarebbe da scrivere un saggio corposo e non è questa la sede, ma resta il fatto che Pisanò, trent'anni prima, non aveva indagato e scritto la Storia della Guerra Civile da fascista: l'aveva indagata e scritta da italiano capace di un'inchiesta colossale in condizioni proibitive e consapevole del bene supremo di una memoria nazionale riconoscibile e rispettabile da tutti in quanto rispettosa dei fatti realmente accaduti. Una memoria nazionale non umiliata da un avvilente catechismo storiografico, imposto per manicheismo istituzionale, che ancora oggi oltraggia necessariamente una parte cospicua della collettività in funzione di quell'«antifascismo, inteso come ideologia di Stato» che il primo, vero, grande storico accademico del fascismo, Renzo De Felice, avrebbe cominciato a contestare a viso aperto dal 1987. Se così non fosse stato, se cinquant'anni or sono Giorgio Pisanò avesse condotto la più grande inchiesta della sua vita non da italiano ma da fascista, possiamo essere certi che un altro suo collega, irriducibile avversario politico ma testardo al pari di lui nel pretendere il rispetto della verità storica come base irrinunciabile della convivenza civile, Giampaolo Pansa, mai avrebbe scritto, come invece fece nel 2011: «C'è stato qualcuno, qualche temerario coraggioso, a cominciare da Giorgio Pisanò, che ha rifiutato di sottomettersi al gioco imposto dai vincitori. Ha cominciato a far parlare i parenti di chi era stato ucciso dai partigiani, a raccogliere le testimonianze dei superstiti della RSI, a cercare documenti e a ricostruire la storia di chi si era battuto a fianco di Mussolini. Senza personaggi come Pisanò e pochi altri il sottoscritto non sarebbe mai stato in grado di percorrere la strada che ha percorso, libro dopo libro». Nessuno ha mai smentito i contenuti delle opere di Giorgio Pisanò.

"Così Pisanò ha raccontato il dramma dei fascisti dell'Rsi". L'autore de "Il Sangue dei vinti" ci spiega come negli anni Sessanta il giornalista abbia infranto un tabù culturale, scrive Matteo Sacchi, Giovedì 30/03/2017 su "Il Giornale".  Esiste anche la storia e il coraggio di chi stava dalla parte sbagliata. Esistono anche le colpe di chi si è trovato dalla parte del vincitore. Ma in Italia questo elementare ragionamento a lungo non si è applicato al periodo compreso tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Anche soltanto parlare di un'evidenza, ovvero del fatto che fosse stata una vera e propria guerra civile era ben poco gradito agli storici accademici, spesso accademici proprio in quanto dotati di un preciso orientamento politico. Il primo a cercare di rompere questo velo di silenzio non è stato infatti un cattedratico, ma un giornalista: Giorgio Pisanò (1924-1997). Le sue inchieste e i suoi libri, per quanto ostentatamente ignorati dall'intellighezia di sinistra, hanno fornito per la prima volta agli italiani, almeno quelli disposti a farlo, la possibilità di leggere una narrazione meno stereotipa. Quanto sia stata importante l'azione culturale di Giorgio Pisanò per rompere i tabù sulla storia della Guerra civile italiana lo abbiamo chiesto anche all'altro grande revisionista Giampaolo Pansa (da poco in libreria con il suo ultimo volume L'Italia non c'è più. Come eravamo, come siamo, Rizzoli). Forse ancora più eretico nel rompere questo tabù in quanto di sinistra.

Pansa, quando le è capitato di avvicinare per la prima volta le opere di Pisanò?

«Io mi sono occupato di guerra di liberazione sin dalla mia tesi, 600 pagine, che vinse il premio Einaudi e poi divenne un libro. Appena iniziò a pubblicare sul tema io iniziai a leggerlo. Capii da subito il grande merito che avevano le inchieste e i libri di Pisanò. Sino a quel momento sul tema, il lacerante conflitto civile tra il '43 e il '45, avevano potuto parlare e scrivere solo gli antifascisti e, soprattutto, gli antifascisti comunisti. A partire dal suo Sangue chiama sangue del 1962, questo giornalista con il piglio dell'indagine ha messo a disposizione di chi voleva ascoltarla anche la voce degli altri. Di quella generazione, a cui anche Pisanò apparteneva, che, cresciuta con gli ideali del Fascismo, non ha voluto o saputo rinnegarli. Pisanò quell'esperienza l'aveva vissuta sino in fondo».

Conosceva quel mondo?

«Certamente. Poi è venuto il suo lavoro storiografico iniziato, a partire soprattutto dalle immagini, quando Edilio Rusconi gli chiese di realizzare il documentario fotografico Il vero volto della guerra civile. Pisanò dimostrò subito la sua capacità di raccolta di dati. Era un lavoratore preciso e certosino. Era solitario e determinato. Questo gli ha consentito di costruire un enorme archivio che ora è gestito da suo fratello Paolo che a volte mi ha consentito di utilizzarlo con grande generosità».

Come vennero accolte le opere di Pisanò?

«Solo il fatto che tu lo chieda rivela la tua età. Silenzio ed ostracismo dall'accademia. Come se non esistessero. Oppure una scarica di querele. Per questo Giorgio Almirante lo candidò al Senato. Per fornirgli un minimo di scudo. Ma l'opera di Pisanò non era una emanazione del Msi anche se qualcuno cercò di etichettarla così. Pisanò era un solitario».

Ma lei l'hai conosciuto personalmente?

«Sì era quello che gli spagnoli definirebbero un hombre vertical. Che si può più o meno tradurre come un uomo tutto d'un pezzo. Era molto morale, pensava, secondo me, nei termini di un dover essere. Mi sono spesso chiesto dove l'avrebbe portato il suo lavoro di ricerca se non fosse morto troppo presto. Per fortuna ha lasciato un grande lascito, il suo archivio».

Faccio l'avvocato del diavolo. Nella sua ricostruzione della storia Pisanò partiva da un punto di vista preciso. Questo ha avuto effetto sull'oggettività del suo racconto?

«Io penso che i suoi lavori, a partire dalle dispense originali in cui venne pubblicata a puntate Storia della guerra civile italiana, siano accurati. Personalmente li ho studiati molto e non ho mai trovato errori. Pisanò non è stato un autore intossicato dalla fede ideologica. Ed è per questo che ripubblicarlo oggi ha ancora pienamente un senso. Io ho sempre pensato che la storia vada sempre guardata dai due lati. Soprattutto la storia di una guerra civile. Le guerre civili sono tutte sporche. Parte dello sporco, dell'ignominia, quello che stava dalla parte dei vincitori, è stato ignorato. E sono esistiti anche un coraggio e una dignità che vanno riconosciuti a chi quella guerra l'ha persa. Deve essere per forza un racconto a due voci. È per questo che me ne sono occupato così a lungo anche io. E non è stato facile, quindi ho perfettamente chiaro il tipo di ostracismo che ha dovuto affrontare Pisano. Ancora nel 2003 quando è uscito Il sangue dei vinti l'argomento era assolutamente tabù. E si rischiava ancora di essere messi al bando. Parlo per esperienza personale».

Come eravamo, come siamo. Il sottotitolo de "L’Italia non c’è più" rende alla grande quello che è l’intento di Giampaolo Pansa espresso nel suo ultimo libro. Lo scrittore e giornalista piemontese racconta, attraverso circa un secolo di storia, quella che è stata l’evoluzione dello Stivale. Nel bene, come nel male. Ne viene fuori un racconto che intreccia presente, passato e futuro. 

Sinossi. Il gran Ganassa sta annaspando. Ma anche gli altri non se la passano bene. Se un marziano sbarcasse in Italia resterebbe senza parole nel constatare i tanti guai del nostro Paese. A cominciare dalla capitale che di fatto non esiste più, da quando si è insediata la sindaca dalla giunta inesistente. «Seguo e racconto la politica da più di 50 anni» scrive Pansa «ma non avevo mai assistito a un fatto tanto strabiliante: la Repubblica italiana sta diventando un territorio pronto a qualsiasi scorribanda. Presto verremo governati dai carabinieri e dalla Guardia di Finanza. Non si tratterà di un colpo di stato bensì di un semplice passaggio di consegne tra un potere morente e uno ben saldo nelle sue tante caserme».

Descrizione. «Non è la mia autobiografia, è la vostra vita che racconto. Come finiremo? Temo di saperlo. I partiti politici spariranno. Si imporrà un governo di gelidi super tecnici o di militari, un affare per carabinieri e guardie di finanza. Sono pessimista? Giudicherete voi.» Immaginate di avere di fronte i due protagonisti di questo libro. Il primo è un giornalista anziano, Paolo. L’altro è una ragazza sui vent’anni, Carlotta, bella, sfrontata e ignorante. Che cosa credete stiano facendo? Se pensate all’inizio di un rapporto a luci rosse, vi sbagliate. In realtà Carlotta, figlia di un amico, ha accettato di assistere Paolo nella stesura delle proprie memorie. Ecco, avete tra le mani il diario del loro lavoro. Un racconto dell’Italia com’era qualche decennio fa e una previsione dell’Italia che sta cambiando sotto i nostri occhi. Cambia in meglio? Per niente. Siamo un paese che ha perduto se stesso. Tanto da rendere inevitabile il titolo di questo libro: L’Italia non c’è più. Come eravamo, come siamo. Anzi, come saremo. Sull’Italia del passato non ho dubbi. Ci ho vissuto da bambino, quindi da studente e infine da cronista. Ho fatto in tempo a vedere in carne e ossa Benito Mussolini, ancora in sella. Poi la guerra e il terrore di morire sotto le bombe americane. Le notti nei rifugi antiaerei che offrivano uno spettacolo di sorprendente umanità, comprese un po’ di ragazze senza vergogna e senza mutande. I giorni sanguinosi della Liberazione. Il miracolo del dopoguerra, quando il boom economico non era un sogno, ma un traguardo possibile. Infine tutte le altre puntate del film che qui troverete. Dove rivivono donne e uomini che avete intravisto soltanto da lontano. Eroi e avventurieri, vittime e carnefici, morti ammazzati e terroristi rivoluzionari, partiti politici decenti e altri avviati a diventare la casta di ladri arroganti che continua ad asfissiarci. La mia opinione è che un tempo l’Italia fosse migliore di questa del 2017. Oggi siamo un paese allo sbando, schiavo di troppe vanità inutili, a cominciare dal sesso esibito. Dove il bullismo è diventato lo sport nazionale, tanto da contagiare leader di prima fila. Il lavoro manca soprattutto ai giovani. E la lingua italiana sta sparendo, sconfitta dal gergo impoverito dei social net- work. Tutto questo e altro ancora lo narro nel libro che avete tra le mani.

Italia 1943 1945: nel Paese dei vinti e dei liberati. La Resistenza, gli Alleati, Salò: gli anni più lunghi della nostra storia in un libro che molti giudicheranno eretico, I vinti e i liberati, di Gianni Oliva, editore Mondadori. Articolo di Messina Dino, Corriere della Sera, 19 settembre 1994. Un'interpretazione eretica, che far scandalo a destra e a sinistra. Un libro scritto non tanto per gli specialisti ma per il largo pubblico, che sul periodo più difficile della nostra storia, il biennio che va dall' 8 settembre '43 al 25 aprile '45, non dispone di un'opera complessiva. Non se la prendano gli accademici per l'ambizione di Gianni Oliva, 42 anni, docente a Torino, che con "I vinti e i liberati" (in uscita da Mondadori) ha voluto colmare una lacuna della nostra saggistica. In un Paese in cui la divulgazione storica è stata lasciata soprattutto ai giornalisti il giovane studioso torinese ha voluto seguire l'esempio di illustri colleghi stranieri, come l'inglese Denis Mack Smith, che ha saputo coniugare ricerca e divulgazione. Sul periodo '43- '45 esiste una produzione sterminata, ma anche le opere di sintesi si sono occupate di aspetti particolari. Giorgio Bocca per esempio nella sua "Storia dell'Italia partigiana" ha puntato sugli aspetti militari della Resistenza, mentre Roberto Battaglia con la sua "Storia della resistenza italiana" ha sposato un punto di vista di classe. E poi Gianni Oliva non parla soltanto di partigiani e nazisti, ma indaga le vicende della repubblica di Salò, analizza le strategie militari degli Alleati, la politica del Cln, racconta le condizioni di vita nel regno del Sud. Insomma, un quadro d'insieme che ancora mancava.

Professor Oliva, perchè "I vinti e i liberati"?

"Il titolo dà conto della situazione in cui si trovavano gli italiani, vinti e allo stesso tempo liberati dagli Alleati.”

Già dire questo è un po' ridimensionare la Resistenza, vista nel contesto generale della guerra mondiale, pur senza sottovalutarne l'importanza.

“Ma io sottolineo anche aspetti sinora trascurati come le azioni dell'esercito italiano a fianco degli americani al Sud".

Come mai abbiamo dovuto attendere tanto per una storia unitaria?

"Sul periodo '43 '45 hanno scritto un po' tutti, ma in un'ottica settoriale o influenzata da una particolare visione ideologica. La Resistenza è terreno di contesa dagli anni Cinquanta, quando i comunisti hanno tentato di appropriarsene come di un mito proprio per autolegittimarsi. Dall'altra parte i moderati hanno ridimensionato gli aspetti innovativi, interpretando la Resistenza come un episodio da ricollegare al Risorgimento. Una contrapposizione di bandiera che ha reso impossibile un'opera d'insieme".

In questi anni c'è chi tende a presentare la Resistenza come guerra civile. E d' accordo?

"E questa una distorsione che si dà dell'interpretazione del professor Claudio Pavone, il quale in realtà nel suo saggio parla dei tre aspetti della Resistenza, nello stesso tempo guerra patriottica di liberazione, guerra civile e guerra di classe. Un punto di vista che io condivido. E poi, nel mio libro la Resistenza è un aspetto di questi due anni, un aspetto importante più dal punto di vista morale, politico e sociale che da quello militare".

Vengono così ridimensionate le vecchie polemiche sui mancati aiuti ai partigiani da parte degli Alleati.

"Può darsi che le accuse di aver privilegiato alcune formazioni rispetto ad altre siano vere, ma bisogna capire per esempio che gli angloamericani attestati al di sotto della Linea Gotica non avevano interesse a territori liberati come la Repubblica dell'Ossola. L'importanza militare della guerriglia partigiana risiedeva nel tenere impegnato l'esercito nazista. Per un certo periodo contro i "banditen" furono impiegate ben sei divisioni tedesche. I partigiani hanno poi reso difficili i collegamenti e soprattutto hanno delegittimato la presenza dei tedeschi in Italia".

E’ d'accordo con chi considera fascismo e antifascismo categorie superate?

"Sono categorie superate, come dice Bobbio, se si riferiscono al presente. Ma non si può sostenere che a distanza di cinquant' anni le ragioni dei repubblichini avevano la stessa dignità di quelle dei partigiani. Certo, si può riconoscere la buona fede a un giovane di diciotto anni che rispondeva alla chiamata alle armi della Repubblica di Salò.”

Ma la buona fede non basta al giudizio storico: non si può dimenticare che chi stava con Salò combatteva per il progetto di egemonia nazista dell’Europa. Non tutti i valori sono uguali, come scrive Italo Calvino nel "Sentiero dei nidi di ragno": "C' che noi, nella storia siamo dalla parte del riscatto, loro dall'altra". Che senso ha il nostro interesse quasi ossessivo verso i due anni raccontati nel suo libro?

"Le generazioni hanno bisogno di una memoria con cui confrontarsi. E un periodo così importante non si è più ripetuto".

Ma per una lunga fase sulla Resistenza s'è fatta tanta retorica.

"E uno dei motivi per cui alle manifestazioni ci sono sempre meno giovani. Adesso c'è un'atmosfera diversa e si può parlare di tanti aspetti trascurati. Non è un caso che la storiografia fino a dieci anni fa non si sia occupata dei prigionieri militari. In quegli anni in Italia c'erano tante storie diverse: c'era chi viveva l'esperienza della banda partigiana, di cui mi occupo anche dal punto di vista della vita quotidiana, c'erano i deportati in Germania, i prigionieri dei russi o degli americani... E poi c'era l'esperienza del fronte vissuta da una popolazione civile sostanzialmente schierata con i partigiani".

L’Italia di Salò. 1943-1945 di Mario Avagliano e Marco Palmieri. Nei venti mesi che vanno dall’annuncio dell’armistizio, l’8 settembre 1943, all’uccisione di Mussolini e alla fine della guerra, nell’aprile del 1945, l’Italia non solo continuò a essere un campo di battaglia tra eserciti stranieri – gli Alleati che avanzavano da sud e i tedeschi che occupavano il centro-nord – ma diventò anche teatro di una sanguinosa «guerra civile» e «contro i civili», che vide coinvolti su fronti opposti coloro diedero vita alla Resistenza e coloro che rimasero fedeli al fascismo, aderendo alla Repubblica di Salò. Nel dopoguerra, però, il punto di vista resistenziale è stato oggetto di innumerevoli studi e ricerche e ha rappresentato una narrativa dominante. Al contrario, la vicenda dei tanti italiani che scelsero di combattere dalla parte sbagliata è rimasta a lungo marginale, finendo per rappresentare un vuoto, un autentico tassello mancante nel panorama storiografico e della memoria di quel complesso periodo, che segnò lo spartiacque tra la dittatura fascista e la democrazia. In particolare, restava ancora da scandagliare in profondità lo spettro delle motivazioni che indussero oltre mezzo milione di italiani – uomini e donne, spesso giovanissimi – ad aderire e combattere, in molti casi volontariamente, per la Rsi. Cosa che fa, in modo documentatissimo, il saggio storico L’Italia di Salò. 1943-1945 (Il Mulino, pp. 490, euro 28), di Mario Avagliano e Marco Palmieri. Questa ricerca affronta sulla base delle fonti coeve disponibili – lettere, diari, testamenti ideologici, posta censurata, relazioni sul morale delle truppe e sullo spirito pubblico, notiziari della Gnr, note fiduciarie, carte di polizia e dei servizi segreti – e della memorialistica postuma, scevra dai condizionamenti politici che l’hanno caratterizzata e dalla pregiudiziale politico-ideologico-culturale che ha portato molti testimoni a tenere a lungo nascoste le tracce di un passato inconfessabile. La cesura del 25 luglio prima e dell’8 settembre poi, infatti, per molti italiani non rappresentò un taglio netto con il precedente ventennio fascista, bensì una svolta in continuità, la cui naturale conseguenza fu la partecipazione all’esperienza della Rsi, che a sua volta non fu un evento senza propagazioni e conseguenze sulla storia politica e sociale del dopoguerra. Il ritorno sulla scena di Mussolini e la nuova chiamata alle armi, per continuare la guerra contro le potenze nemiche e intraprenderne una nuova contro i traditori, il nemico interno, i banditi, misero nuovamente gli italiani di fronte alla necessità di fare una scelta. Quali furono le principali motivazioni che animarono coloro che decisero di aderire? Quale fu il collegamento ideale col precedente regime? Quali aspettative si nutrivano nei confronti del nuovo fascismo. Perché molti giovanissimi compirono quella scelta? Che tipo di esperienza vissero sotto le armi coloro che combatterono per Salò? Cosa sapevano della Resistenza e come la giudicavano? Cosa percepivano e come metabolizzavano le stragi e le deportazioni razziali e politiche dei nazisti, alle quali molti di loro presero parte anche attiva? Quanti ebbero ripensamenti e per quale motivo? Chi rimase fedele alla causa fino alla fine e perché? A questi interrogativi Avagliano e Palmieri, attraverso una gran mole di documenti prima in gran parte inediti o poco noti, forniscono una risposta dal basso, passando in rassegna sia le diverse esperienze militari e combattentistiche di Salò (l’esercito nazionale formalmente apolitico, le milizie di partito quali la Guardia nazionale repubblicana e le Brigate nere, le formazioni relativamente autonome come la X Mas, le sanguinarie bande irregolari e chi militò direttamente con i tedeschi come le SS italiane), sia l’esperienza quasi del tutto dimenticata degli Imi che optarono, dei prigionieri di guerra degli Alleati che non accettarono di cooperare e dei fascisti clandestini che operarono dietro le linee nemiche nelle regioni già liberate dagli anglo-americani. Tra di loro ci furono anche molti italiani che nel dopoguerra diventeranno personaggi noti della politica, della cultura, del giornalismo, dello spettacolo e via dicendo. Uno dei tratti salienti delle risposte fornite in sede di memoria successiva, escludendo quelle di stampo dichiaratamente rivendicativo o apologetico, è stato il carattere giustificativo. Spesso, cioè, rispetto alla messa a fuoco oggettiva delle ragioni che all’epoca portarono a fare quella scelta, ha prevalso il desiderio di farla apparire comprensibile e accettabile a coloro i quali non la vissero in prima persona o si schierarono su fronti opposti. Ma in realtà, come sostengono Avagliano e Palmieri, per una generazione di italiani cresciuta fin dalle aule scolastiche nel mito del duce e forgiata da slogan fideisti, come il famigerato Credere obbedire combattere, l’adesione alla Rsi e l’impegno nella guerra civile in molti casi fu una conseguenza naturale e ovvia di quel percorso formativo. Inoltre dal saggio L’Italia di Salò emerge che la gran parte dei combattenti della Rsi, fossero essi reclute dell’esercito regolare formalmente apolitico o membri delle formazioni di partito fortemente ideologizzate, venne impiegata prevalentemente nella guerra civile e contro il nemico interno, e che i vertici politico-militari della Rsi, il suo apparato burocratico-amministrativo e molti uomini che militarono nelle sue forze armate e di polizia presero parte al clima di violenza indiscriminata, sommaria e diffusa contro i partigiani e la popolazione civile e all’opera di cattura e deportazione degli avversari politici (i triangoli rossi) e degli ebrei.

RISCRIVERE LA STORIA DELLA RESISTENZA? Di Ernesto Brunetta. È giunto il momento di riscrivere la storia della Resistenza. Non per aggiungere alle tante che già ci sono un’altra cronaca che poi alla fine approdi a una stanca apologia o a una vacua stroncatura o, nella migliore delle ipotesi, a una più vasta catalogazione degli eventi. Credo si debba riscriverla perché il tempo trascorso e l’abbondanza della documentazione consentono oggi di affrontare il problema con altra metodologia e su una scala più variegata e mossa di elementi interpretativi. È chiaro che sarà necessario richiamare gli eventi, ma il centro del lavoro dovrebbe radicarsi piuttosto sulle persistenze, negandosi il valore di frattura della storia della società italiana sul quale si è imbastita un’intera – e per certi versi benemerita – storiografia. Se ci collochiamo da questo punto di vista, vanno modificati intanto i limiti cronologici, per tali intendendo sia il termine a quo sia il termine ad quem. A me sembra che il termine a quo vada localizzato al 1939, cioè alla data della stipula del Patto d’acciaio che legò indissolubilmente le sorti del paese alle sorti della Germania nazista. È fuorviante il gioco dei memorialisti tesi alla distinzione temporale sui tre o quattro anni di preparazione alla guerra che nel Patto o nei colloqui che lo accompagnarono o in chissà quale protocollo segreto sarebbero stati previsti. Naturalmente, dal momento che la periodizzazione è sempre una scelta arbitraria di chi scrive, si potrebbe andare anche più in là e muovere dalle leggi razziali del 1938 – che non sembrano aver turbato particolarmente le coscienze, nonostante la vulgata del dopo continui a proclamare il contrario, se la protesta della Chiesa, per citare un solo caso, si limitò a contestare l’interpretazione dell’articolo del Concordato concernente i matrimoni misti e si guardò bene dall’intervenire nel cuore del problema – o addirittura dal viaggio di Mussolini in Germania nel 1937. E in qualche maniera si coglierebbe nel segno, tutto contribuendo all’allineamento dei due paesi e delle due rivoluzioni. Ma è il Patto d’acciaio che rende irrevocabile la scelta, che era poi non tanto la scelta di un’alleanza, quanto la scelta di una guerra. Il molto parziale distacco dal regime che si ebbe tra il 1936 – data del massimo del consenso – e il 1939, processo peraltro non piano e progressivo quanto piuttosto sinusoidale, Ernesto Brunetta 170 non è, infatti, legato all’innaturalità dell’alleanza o al rifiuto dell’impero del male o così via dicendo, quanto piuttosto a un’opinione pubblica che avverte, sia pur a livello elementare, che il patto porterà a una guerra che non si desidera combattere, convinta com’era essa opinione pubblica che si dovesse fecondare l’impero appena conquistato e che la bonifica integrale fosse la guerra che Lui preferiva. Tant’è: ancor oggi – anno duemila – una parte non trascurabile di questa opinione pubblica è ancora convinta che l’unico errore di colui che fino a quel momento aveva avuto sempre ragione sia stato l’essere entrati in guerra, come se la cosa fosse stata evitabile e non sia stata invece che la conclusione ovvia di un processo, più mussoliniano invero che fascista, di parametrazione del regime sul modello tedesco, donde le contestuali velleità di una reale totalitarizzazione del regime con l’eliminazione della monarchia, il ridimensionamento della Chiesa, la limitazione dei poteri forti dell’economia e della finanza. Ma per far ciò era necessaria non solo una guerra vittoriosa, era necessario altresì che la guerra fosse guidata dal duce in persona. Galeazzo Ciano, diarista infedele invero, usa un’espressione significativa laddove parla di brama di gloria militare dalla quale il Mussolini sarebbe stato invaso e alla quale attribuisce dunque tutti i guai del paese. Ed è pur vero che se il duce voleva operare nei termini più sopra indicati, doveva presentarsi all’ultimo spettacolo come l’imperator nell’accezione latina del termine, cioè come il comandante di un esercito vittorioso che getta sulla bilancia, per farla pendere dalla sua parte, il peso della spada. Come termine ad quem, mi sembra vada scelto il 1949, non evidentemente per banali motivi di simmetria numerica, bensì con riferimento all’adesione dell’Italia al Patto atlantico che segna veramente una svolta, ben più delle elezioni del 18 aprile 1948 o dell’avvio della ricostruzione del paese, destinata d’altronde a distendersi ben oltre nel tempo e a determinare poi, con il cosiddetto miracolo economico, quella rivoluzione dei costumi, della mentalità e della cultura che è stato il vero punto di frattura della storia della società italiana contemporanea. Fu la scelta di campo internazionale a determinare la nostra storia da quel momento in avanti. È segno della continuità, sulla quale torneremo ampiamente più sotto, che tale scelta avvenga in senso contrario a quelle che erano state le ispirazioni e le motivazioni della parte più cospicua quantitativamente della Resistenza; per altro, va sottolineato al di là delle polemiche di allora e non solo di allora, fu la scelta della maggioranza di un parlamento liberamente eletto. Che è poi la dimostrazione ulteriore che la tesi di Leo Valiani sulla continuità dello stato andrebbe, non so se sostituita, certamente completata, dalla tesi della continuità della società molto parzialmente toccata dai valori della Resistenza. In altre parole, non c’è dubbio su cosa optare tra la tesi della congiura di pochi – politici, burocrati, monsignori o agenti degli angloamericani che siano – che violentarono la coscienza popolare e la tesi di una grande maggioranza della società civile di null’altro desiderosa che di tornare alla normalità – nel senso piccolo borghese e perbenista del termine Riscrivere la storia della Resistenza? 171 – e timorosa delle novità. Naturalmente, quanto sopra affermato ha un senso solo se viene allargata anche la prospettiva geografica. Non solo per il fatto elementare che la periodizzazione scelta insiste per larga parte su un paese, prima e dopo la cesura costituita dalla Resistenza, unitario che si trascina dietro gli stessi problemi, ma soprattutto perché anche nell’arco dei due anni della divisione sussistettero una serie di elementi comuni che superavano senza residui la linea Gustav o la linea gotica. Penso alle difficoltà di armare ed equipaggiare un corpo di liberazione incontrate dal governo del Sud, pari o forse superiori a quelle incontrate dal governo del Nord di fronte ai tedeschi; penso alla renitenza alla leva e al movimento del “non si parte” – rimando al bel libro di Maria Occhipinti che pur era una militante comunista – presenti al Sud così come al Nord; penso al fenomeno dell’occupazione delle terre fino al provvedimento d’urgenza di Fausto Gullo, o fino a forme estreme quali la Repubblica di Caulonia. Fenomeno, quest’ultimo, assimilabile ai grandi scioperi della classe operaia del Nord. In ordine ai quali, non possono essere dimenticati i tentativi socializzatori del gruppo che, nella RSI, faceva capo ad Angelo Tarchi e a Manlio Sargenti. D’altronde lo stesso Giuliano si dà originariamente alla macchia per un sacco di grano sottratto all’ammasso – ammasso che continuò a non funzionare a Nord e a Sud, durante e dopo il fascismo, si chiami esso ammasso obbligatorio o granaio del popolo – e divenne colonnello dell’Evis, sempre all’origine dunque più Robin Hood che bandito da strada secondo un iter di crinale proprio a non pochi partigiani e sul quale naturalmente torneremo, anche perchè ci sembra questa una categoria interpretativa del tutto omessa o quanto meno fortemente trascurata dalla storiografia. Logicamente, le costanti intraviste non devono farci fare di ogni erba un fascio, come se nulla ci sia stato di diverso tra i vari comparti geografici del paese. Perché se è vero che, nonostante tutto, non è irrilevante che a Pinerolo ci sia stata la Resistenza e ad Agrigento no, che a Roma essa sia stata limitata e che a Firenze invece sia esplosa e dunque ci siano state conseguenze diverse al Nord, al Centro e al Sud, è altresì vero che il discorso può ulteriormente ampliarsi ad altre zone geografiche o ad altre comunità che la separazione venne forzatamente a creare. È fuorviante inserire “sic et simpliciter” la storia della Venezia Giulia nella storia della Resistenza italiana secondo lo schema dei due contendenti perché, nel caso di specie, l’inserimento della resistenza jugoslava, e delle mire annessionistiche giuste o sbagliate che fossero delle quali essa si fece portatrice, inserisce un terzo contendente che altrove non c’è. Così come non è possibile per la storia della Venezia tridentina ove, con qualche accenno anche in Friuli e a Trieste, non mancarono aspirazioni neoasburgiche che guardavano infatti piuttosto a Vienna che a Berlino. Cio che vale anche per la storia degli internati militari italiani in Germania – da non confondere ovviamente con gli ebrei e i politici ristretti nei campi di sterminio che appartengono senza distinzioni alla storia dell’Olocausto e alla Ernesto Brunetta 172 più complessiva storia della Resistenza – della cui consistenza quantitativa, del cui stato giuridico e delle cui vicende sarebbe opportuno indagare a parte per la complessità stessa delle risposte che si dovrebbero dare. Discorso che vale naturalmente anche per i prigionieri di guerra catturati dagli alleati, se è vero che esistettero i campi dei non cooperatori dei quali, al di là della memorialistica che pur si avvale di nomi quali Berto o Tumiati, poco sappiamo e che costituisce invece una comunità della quale qualcosa, sulle motivazioni della non cooperazione intendo, andrà pur detto e qualche interpretazione del fenomeno andrà pur data. In conclusione, esistono evidentemente storie diverse determinate da situazioni diverse e che conducono a conseguenza diverse, ma nell’unità di una società sconnessa e lacerata, colpita e vulnerata nella sua fibra morale prima ancora che nei suoi mezzi di sussistenza materiale che è tale per lo smarrimento delle coscienze così come per la fame, per la paura, per il disordine, ovunque si posi l’occhio dal Texas alla Germania e, a maggior ragione, dalle Alpi a Capo Passero. Quella che si dovrebbe fare, dunque, è una storia della società italiana in quegli anni. Ciò non significa sminuire l’importanza della storia dei gruppi dirigenti. Significa porre al centro dell’interesse il vario dispiegarsi delle componenti sociali così come agirono e reagirono in quel periodo cruciale. E una storia della società impone il ricorso all’incrocio strutturale delle forme economiche e delle vischiosità culturali presenti in quel periodo. Per quanto concerne l’economia – premesso che il discorso si dilaterebbe e obbligherebbe a rivisitare la grande crisi del 1929 e i modi con quali il regime a essa si oppose – va comunque detto, e dopo De Felice e non solo lui, non vedo come si possa fare diversamente, che negli anni Trenta piuttosto che nei Cinquanta si posero le premesse per il futuro sviluppo industriale del paese, fissando di esso i prerequisiti in termini di scelte di politica economica. Si pensi all’IRI, all’IMI ed anche alla riforma bancaria del 1936 e alla costruzione fisica dell’industria e dei servizi a quella necessari, dal Lingotto all’avvio dell’elettrificazione della rete ferroviaria fino alla costruzione dei primi tronchi autostradali. Naturalmente, poiché tutto ha un prezzo, nonostante il conclamato ruralismo che il regime continuò a ostentare dai consorzi dì bonifica alla promessa di risolvere il problema del latifondo siciliano, è l’agricoltura a essere subordinata alle ragioni dello sviluppo industriale attraverso quel capolavoro di demagogia che fu l’esaltazione della mezzadria e la cultura della famiglia patriarcale. Pur tenendo conto, e sarebbe stolto non farlo, della legislazione assistenziale e previdenziale posta in essere dal regime e che collocava il paese, da questo punto di vista, alla pari con gli altri paesi industrializzati d’Europa, il 1939 intervenne nel momento in cui l’operazione di sviluppo di un’industria moderna con la conseguente diminuzione del numero degli addetti all’agricoltura e l’altrettanto conseguente cambio della mentalità dei cittadini, era a metà del Riscrivere la storia della Resistenza? 173 guado. Vale a dire che produzione e produttività industriale, anche a causa della sciagurata politica autarchica, non erano ancora sufficienti a definire l’Italia come un paese industrializzato così come a metà del guado era il trasferimento degli addetti dall’ attività primaria alla secondaria e alla terziaria. In realtà, l’Italia del 1939 è ancora sostanzialmente un paese agricolo segnato però da non trascurabili presenze industriali, sul quale paese poi grava la cappa di una pesante burocrazia di Stato, di partito e dei nuovi enti economici e previdenziali la cui estrazione piccolo borghese determina nella mentalità di quelle, tutto salvo l’idea di vivere in un paese che si andava industrializzando. E quindi, se fenomeni crudeli e terrorizzanti quali la guerra e la Resistenza, o la non-Resistenza, compaiono proprio in una fase di trasformazione, la prima reazione di chi a quella prova sottostà – nella media statistica naturalmente, non nella parte minoritaria e consapevole della posta in gioco – è la chiusura in se stessi, la memoria di un mitico buon tempo antico, la speranza che tutto torni come prima. Il che ci porterebbe a parlare della cultura della maggioranza, ma prima di abbandonare l’analisi della struttura socio-economica del paese, va segnalato quello che è, a mio avviso, l’aspetto più importante dell’impatto della guerra e del dopoguerra su quella struttura, vale a dire il capovolgersi del binomio città-campagna, largamente favorevole al primo termine fino a quel momento per ragioni di proprietà e di riconosciuta gerarchia sociale, da quel momento in poi favorevole al secondo termine perché è la campagna che detiene i generi alimentari necessari alla sopravvivenza dei cittadini, perché è in campagna che gli sfollati trovano rifugio, perché è in campagna che gli sbandati si possono nascondere. Per quanto concerne la cultura, essa è in stretto rapporto con la presenza di una pesante stratificazione di classe, certo accettata e a suo modo anche incrementata dal fascismo, ma risalente più in là nel tempo fino a confondersi con la storia del Risorgimento e via via procedendo all’insù. Nelle città, la scala costituita dalla grande borghesia degli affari e delle professioni, dalla piccola borghesia degli impiegati e dei minuti esercenti, dalla massa operaia e dall’esercito di riserva dei disoccupati, dei lavoratori saltuari e dei mestieranti vari sul crinale labile della malavita e del vizio, è una scala rigida. Così come, nelle campagna, è rigida la scala costituita dai grandi e medi proprietari, dai coltivatori diretti, dai contadini comunque contrattualmente fissati sulla terra e dai braccianti stagionali dediti al lavoro giornaliero e al furto campestre. Più importante della rigidità è però il fatto che tali scale erano sostanzialmente accettate e fatte proprie anche da coloro che più ne soffrivano e avrebbero dunque avuto interesse a modificarle. Né la trasformazione industriale in atto, appunto perché ancora “in fieri”, era riuscita fino a quel momento a modificare questa mentalità. Sarebbe eccessivo parlare della sopravvivenza di una società organica premoderna dal momento che un certo tasso di mobilità era implicito nei processi in essere, anche se a quel tipo di società eravamo ancora vicini pur se evidentemente più in certe zone che in altre. Ernesto Brunetta 174 Era anche una società non secolarizzata; dominata, al contrario, da una religiosità di tipo tridentino ove erano frequenti le pratiche pie, l’adorazione del Sacro Cuore, il fioretto mariano, le processioni, i rosari, i tridui e le novene, le forme cioè di una pietà popolare a volte sentita e vissuta, a volte confinante con la superstizione al punto che il contenuto del terzo segreto di Fatima come previsione dell’Apocalisse identificata con la guerra e le sue distruzioni era uno degli argomenti di conversazione più frequenti nei rifugi antiaerei. Di ciò, di questa mentalità intendo, molto si servì la Chiesa, interiorizzando nelle popolazioni delle campagne l’idea della “restauratio in Cristo” come unica via di soluzione dei gravi problemi in essere, producendo per gli strati cittadini più colti, una sua visione della storia che interpretava come satanico il processo “riforma-illuminismo-rivoluzione francese-liberalismo-socialismo”, il cui divenire andava interrotto, visto che aveva provocato i mali dei quali tutti erano testimoni, sostituendo agli errori la città futura impregnata di motivi cristiani e ancor più specificamente cattolici. Naturalmente, ciò non era proprio di tutti gli italiani e specie degli abitanti delle maggiori città o di quelle campagne ove il bracciantato era maggioritario, ma di molti sì, e la guerra che di per sé provoca un ritorno alle pratiche religiose, nonchè l’opera della Chiesa come punto fermo in un mare in tempesta, tendeva ad accrescerne il numero, così da poter affermare che questa era la “facies” culturale propria di quella parte del paese che non aveva trovato in altre chiese e con altrettanto fideismo le sue ragioni di ancoraggio. Nel merito, va detto che non partiamo dall’anno zero dal momento che le tre ormai classiche categorie interpretative di Claudio Pavone – la Resistenza come guerra di Liberazione, come guerra civile e come guerra di classe – costituiscono già una solida base di riferimento. Di esse, però, è da dire che coprono l’arco delle motivazioni dei “resistenti” e dunque di una minoranza, lasciando scoperta sia la cosiddetta zona grigia, per la quale sembra a me sia necessario trovare una categoria interpretativa autonoma, nonché le motivazioni di quanti militarono dall’altra parte della barricata. Non solo, tripartendo le summenzionate categorie così come lo stesso Pavone impone, otterremo motivazioni ciascuna valida per la minoranza di una minoranza. Il che, per una storia della società quale infatti il Pavone non intendeva scrivere, è francamente poco e impone la necessità di un completamento. A me sembra, infatti, possibile, per meglio chiarire il concetto, estendere le medesime categorie anche a quanti aderirono alla Repubblica di Salò. Se guerra di Liberazione significa assumere la Resistenza come guerra al tedesco invasore in ottemperanza alle direttive del governo considerato legittimo, è però altrettanto vero che il modo stesso con il quale si era pervenuti all’armistizio e alla fuga di Pescara e i sospetti addirittura di un accordo con Kesserling per favorire quella fuga con il sacrificio dell’esercito, incrinarono il concetto di legittimità e fecero sì che si potesse interpretare l’onore nazionale come superiore alle contingenze dei go- Riscrivere la storia della Resistenza? 175 verni e l’essere stesso della dinastia. L’odg del C.L.N. del 16 ottobre 1943 contesta proprio la legittimità sostanziale del Governo in quel momento stanziato a Brindisi, e fu proprio il comportamento del Re e di Badoglio dall’8 al 10 settembre a indurre la direzione milanese del P.C.I. a discutere in una lettera a quella romana sulla legittimità dell’uno rispetto all’altro dei due governi presenti in quel momento nel paese. Ne consegue, senza che in ciò nulla c’entri il fascismo, che la guerra di Liberazione poteva anche essere intesa come guerra di resistenza all’invasore angloamericano a fianco dei camerati tedeschi come si era fatto nei tre anni precedenti. In altre parole, se Enrico Martini – Mauri – va in montagna per fedeltà al giuramento prestato al re o Edgardo Sogno scende con il paracadute oltre le linee perché si sente prima di tutto un ufficiale dell’esercito del re, senza considerare il caso limite del generale Gandin che si fece massacrare con la sua divisione a Cefalonia, non si vede perché non si possa applicare la stessa categoria interpretativa al comandante Borghese che rifiutò il concetto stesso di armistizio o a un altro marinaio quale il Fecia di Cossato che, dopo aver consegnato a Malta la sua nave in base alle clausole dell’armistizio, preferì suicidarsi a usbergo del suo onore infranto. Ciò vale a maggior ragione per la categoria della guerra civile, crocianamente guerra di religione o di principii, ove importa poco che i “resistenti” avessero ragione, combattessero cioè per i grandi valori della civiltà, e i fascisti avessero torto e si battessero per una società autoritaria fondata sull’ineguaglianza; dal punto di vista storiografico, conta che essi, e non pochi, si siano schierati e abbiano difeso quei pur non condivisibili principii nei quali si riconoscevano e ai quali credevano. Valgono le parole che Frank Rosengarten attribuisce a Silvio Trentin morente circa la necessità di sterminare i fascisti con un’iniezione di cianuro, ma valgono anche le imprese di quelli che Giorgio Bocca icasticamente chiama i fascisti neri, quelli cioè che riaprirono le federazioni prima ancora della liberazione di Mussolini dal Gran Sasso – dopo interessanti tentativi di rimettere clandestinamente in piedi il partito durante i 45 giorni di Badoglio – che anelavano alla vendetta contro i traditori del 25 luglio e che più avanti costituirono le Brigate nere come milizia di partito legata indissolubilmente alle vecchie squadre del ‘21, senza considerare presenze quale quella del gruppo di Irmo Gramatico nella Sicilia occupata, gruppo inteso a difendere il principio anche nelle condizioni più avverse. Più complessa sembra essere l’estensione del concetto di guerra di classe, l’uso del quale trova peraltro, come vedremo subito, limiti anche nella sua applicazione alla lotta partigiana; anzi, se inteso nel suo proprio senso, impossibile, ogni atto del fascismo di prima e di dopo essendo orientato all’opposto concetto della collaborazione di classe. Della presenza, però, della quale non è possibile, per altro, non tener conto specie dopo le recenti indagini del Ganapini e di altri, su una sinistra fascista o sindacalfascista che appare nel corso dell’intero arco di vita del regime e del gruppo già ricordato dei socializzatori all’interno della R.S.I. Fu questo gruppo che portò anche all’estremo tentativo Ernesto Brunetta 176 di un rapporto con i socialisti onde fosse fatta salva la legislazione sociale già prodotta, e alla quale fa cenno anche Luigi Longo. A me non sembra che tale esperienza possa essere liquidata come una semplice operazione di bassa demagogia, come un vuoto al quale non corrisponde niente. Una delle ultime lettere spedite dalla clandestinità da Longo a Togliatti, in previsione dell’imminente Liberazione, è chiarissima nel sottolineare l’opposizione politica del P.C.I. a quelle leggi, precisando però, che, dal punto di vista sostanziale, molti di quei provvedimenti e di quelle disposizioni avrebbero dovuto, dopo, essere ripresi perché oggettivamente favorevoli alle masse. D’altronde, il progetto dei consigli di gestione così come espresso dal C.L.N.A.I., viene, “mutatis mutandis”, dallo stesso progetto contenuto nella legge sulla socializzazione. Certamente, nessun fascista accettava una visione classista della società, ma una volontà di riforma, un’acredine contro il grande capitale accusato di aver trascurato gli interessi nazionali a favore dei propri, l’idea che non si potesse comunque tornare al tipo di economia propria del prefascismo, indubbiamente c’erano e, per analogia, possiamo individuare un’area di fascismo non timorosa della nazionalizzazione di parte della struttura industriale del paese e di incisive riforme sociali quali potevano essere realisticamente pensate anche dall’altra parte della barricata. D’altronde, il concetto di guerra di classe è di difficile applicazione comunque, se diamo a esso, e non si vede come si possa fare diversamente, il significato marxisticamente corretto che esso deve avere, se teniamo presente la felice osservazione di Massimo Salvadori sul comunismo come religione del libro assimilabile strutturalmente alle grandi religioni monoteistiche. Così inteso, il concetto presuppone una consapevolezza e un’assunzione di responsabilità che non potevano essere se non patrimonio di una ristretta cerchia di quadri del PCI, di qualche esponente massimalista del PSIUP e di quanti – altro campo di indagini spesso trascurato – interpretarono la chiave marxista così rigidamente da rifiutare guerra e Resistenza come scontro di opposti interessi alle quali la classe operaia – cioe il soggetto privilegiato della lotta di classe – non aveva nessun motivo per partecipare. Se pensiamo a quell’indagine sulle motivazioni che avevano indotto alla lotta i garibaldini di una brigata della Val Sesia – sottolineo brigata garibaldina nella zona di un dirigente sperimentato e valido quale Cino Moscatelli – scopriamo come le motivazioni più ampiamente espresse attengano a torti subiti nel tempo dai partigiani o dai loro familiari o dai loro amici, e che la coscienza di classe non ha un posto particolarmente rilevante. Se prescindiamo dai Togliatti, dai Longo e dai Secchia le cui vicende interessano relativamente la storia sociale, a me sembra che alla stragrande maggioranza dei garibaldini, che è poi la stragrande maggioranza dei partigiani, vada applicata piuttosto la categoria della rivalsa sociale. Che è categoria più ampia e più confusa rispetto a quella di coscienza di classe, ma è anche più immediata e di più facile accesso. L’otto settembre, ma già precedentemente vi aveva influito il clima della Riscrivere la storia della Resistenza? 177 guerra e dopo il 25 aprile ciò proseguirà nel tempo, rende tutti liberi. Caduto ogni punto di riferimento, scomparso lo Stato, infrante le gerarchie, sconvolti i rapporti sociali, tutto sembrò essere possibile. Si può non consegnare il grano agli ammassi, non pagare il fitto al padrone, sabotare la produzione, fare il mercato nero, rifiutarsi di andare a fare il soldato. Di più, con il fucile in mano, si possono vendicare i torti subiti, rincorrere la giustizia sociale, ma anche ricorrere a quelli che più avanti nel tempo si chiameranno espropri proletari, uccidere i fascisti e le spie, ma magari anche i padroni o i preti. Solo chi è in malafede – come chi mostra di meravigliarsi perché le esecuzioni del dopoguerra interessarono non solo i fascisti, ma anche altri simboli dell’oppressione di classe – o le vestali di un puritanesimo bolscevico, irrilevante per la storiografia, in azione per ripulire od omettere, o le anime belle che distinguono tra Resistenza e Resistenza stendendo un velo su quella rossa, non si rendono conto di questa realtà che è invece insopprimibile perché la rivalsa viene dai più infimi strati sociali che combattono sì contro il fascismo ma anche contro lo Stato, contro l’oppressione di classe, contro la struttura economica che li ha esclusi ed emarginati, contro una generica ingiustizia della quale si sentono, quasi sempre a ragione, vittime. Se il partigianato rosso recepisce soggettivamente, come io credo, la Resistenza come il preludio di una rivoluzione sociale, molti di essi interpretano il concetto in maniera diciamo così spicciola, come immediata reazione ai torti subiti, come vendetta personale, come anticipazione violenta della giustizia che verrà. Ha ragione, insomma, quella spontanea innografia partigiana che esalta l’aspetto classista della Resistenza, così come ha ragione quel partigiano del Mugello che spiega, all’inglese che ha appena raggiunto la banda, la lotta come volta contro i padroni per instaurare un regime proprietario diverso. La categoria della rivalsa sociale è dunque zona di frontiera dei comportamenti al limite della legalità di guerra. Non meraviglia dunque che dall’esperienza romana di “Bandiera Rossa” germini poi la banda del Gobbo del Quarticciolo o che a Padova si discuta ancora se Pino Lampioni sia l’eroe redento dalla lotta e dalla morte o il membro della Banda Bedin che continuò anche in quei mesi la sua attività criminosa. Che sono discussioni futili perché la rivalsa sociale è questo e quello nel suo più ampio spettro di applicazione. Naturalmente, le categorie interpretative delle quali finora si è discusso valgono esclusivamente per quanti una scelta in qualche maniera la fecero, al più aggiungendo che la rivalsa sociale è categoria utile a capire anche gli eroi della sesta giornata, se basta una raffica di mitra per prendersi la rivincita che si ritiene opportuno prendersi. Ma la gran parte degli italiani non ha fatto la Resistenza né ha combattuto sotto le insegne di Salò. Per motivi geografici intanto, se è vero che, al Sud, “resistenza” non potè esserci per il precoce arrivo degli Alleati – le quattro giornate di Napoli e qualche consimile episodio sono estemporanei e nulla hanno a che vedere con quanto successe al Nord – e se al Centro, a esclusione della Toscana che da questo punto di vista è Nord a tutti Ernesto Brunetta 178 gli effetti, essa fu limitata nel tempo ed ebbe sostanzialmente anche contenuti diversi. Resta dunque il Nord, ove però la maggioranza costituì la cosiddetta zona grigia, l’aggregato di quanti non presero posizione o la presero per opportunismo o, nella migliore delle ipotesi, non andarono oltre un consenso passivo che lasciava comunque aperte delle vie d’uscita. A interpretare il quale atteggiamento – che merita attenzione non solo per l’imponenza quantitativa del fenomeno, bensì anche per le motivazioni che lo reggono – credo si debba utilizzare la categoria della sopravvivenza a sua volta determinata dall’estrema stanchezza della popolazione. L’Italia è entrata in guerra per vincerla in poche settimane, e su questa ipotesi esisteva un largo consenso. Così non avvenne e la somma di cattiva scelta politica, di impreparazione alla continuazione e di durezza del conflitto, dell’imperversare dei bombardamenti aerei su città inermi, della fame, della caduta delle regole elementari del vivere civile provocarono il desiderio che alla guerra si ponesse fine comunque. L’autunno del 1942 è il punto di frattura – segnato oltretutto da una malattia del Duce in ordine alla quale si parlò nell’ambito del gruppo dirigente di possibile morte e successione – perché Stalingrado ed El Alamein rendono chiara l’impossibilità della vittoria dell’Asse. Vincano pur dunque gli Alleati purché tutto finisca in fretta e si torni alla normalità. Si può dire: perisca la vita pubblica purché si torni a una passabile – pacifica – vita privata. Il 25 luglio, quando si distruggono con i busti del Duce anche le tessere annonarie, e 1’8 settembre, quando in molti accantonamenti militari si suona la tromba del tutti a casa, sono contrassegnati da grandi manifestazioni di giubilo che solamente una storiografia di parte può attribuire esclusivamente alla gioia per la caduta del tiranno o al giubilo per la resa alla grande coalizione antifascista. In realtà, si festeggiò la prevista fine della guerra e si fu ebbri di felicità perché l’una e l’altra data sembrarono ai più aver aperto la strada e perfezionato l’iter per giungere alla pace. Certo che Duccio Galimberti capì tutto. Che la direzione del PCI lanciò l’idea della Guardia Nazionale a fine agosto, che il cosiddetto Governo nazionale fascista tuonò da radio Monaco perché si tornasse al combattimento a fianco dei camerati traditi, che velleitariamente e quasi pateticamente Badoglio sperò di schierare subito le divisioni che gli rimanevano per perfezionare il ribaltamento del fronte. Certo, ma per i più doveva essere la pace che non fu, e dunque si trattava di sopravvivere, di traghettare, finché essa non fosse stata assicurata. Tenta di sopravvivere lo scugnizzo napoletano e lo sciuscià romano che scopre che gli alleati hanno indotto inflazione, rialzo del costo della vita, mercato nero; tentano di sopravvivere molti che vanno con Salò nella speranza di uno stipendio e di un posto tranquillo in qualche ufficio non particolarmente esposto; tenta di sopravvivere l’internato che accetta di uscire dai campi di concentramento per andare a lavorare fuori; tenta di sopravvivere lo sbandato che non entrerà mai in una formazione, bensì continuerà a vagare cercando qualche rifugio sicuro; tenta di sopravvivere il Riscrivere la storia della Resistenza? 179 contadino che – estate 1944 – aiuta i partigiani e – autunno 1944 – è pronto a tradirli per il terrore delle rappresaglie; tenta di sopravvivere la donna che scambia vestiti e gioielli per burro e carne. In realtà, lo testimonia la memoria privata certamente più confusa, ma meno distorta della memoria pubblica, partigiani e fascisti sono dei rompiscatole che non consentono un tranquillo traghetto, che non consentono cioè che tedeschi e alleati se la vedano tra loro, davanti a noi assiepati sulla collina di Calatafimi per vedere come andrà a finire. Certo che a poco a poco anche la zona grigia tende ad abbandonare i fascisti e ad avvicinarsi ai partigiani, perché è evidente che saranno questi ultimi a vincere e la vittoria è una droga inebriante, con la quale, scelto accortamente il momento opportuno, è bene stordirsi, ma ciò nulla cambia della sostanza del discorso. Al più, si può dire che la zona grigia segue la parabola della Chiesa che di essa, con alcune eccezioni locali che andranno esaminate per vedere con che cos’altro essa venne sostituita, fu una specie di gestore. Che ci siano stati preti partigiani o preti cappellani delle brigate nere, francamente a me importa poco. Importa, invece, che la Chiesa come struttura sempre di più assuma una specie di funzione benedettina, come ponendosi “super partes”. Una chiesa afascista e apartigiana, cioè, che agisce in termini di supplenza di strutture non più legittimate o non ancora legittimate. Da Pio XII benedicente sopra le macerie di S. Lorenzo e chiamato infine “Defensor urbis” fino all’ultimo parroco di montagna, è al prete infatti che ci si può rivolgere per evitare una rappresaglia, per nascondersi in canonica, per ottenere qualche aiuto per sopravvivere o la comunicazione attraverso la Radio Vaticana con qualche congiunto lontano. Il manto della carità, peraltro benemerita, copre un opzione politica ben precisa che dall’afascismo sconfina nell’antifascismo quando sarà chiaro che non era possibile lasciare il monopolio della Resistenza, ormai sulla via della vittoria, ai comunisti e più in generale alla sinistra. “Naturaliter centrista”, tra “Mit Brennender Sorge” e “Divini Redemptoris”, la Chiesa continuò questa sua operazione anche nel dopoguerra quando la pace è già giunta, ma insicurezza, timori, privazioni, esistono ancora e sono destinati a durare relativamente a lungo. E poiché anche la zona grigia è “naturaliter” centrista, bastano poche correzioni per adattare l’azione della Chiesa e farla proseguire ben oltre la fine della guerra. Non a caso, la monarchia perse per poco il referendum del 1946, non a caso la Chiesa guidò la crociata destinata a sfociare nel 18 aprile 1948 pescando voti nella Vandea contadina e tra i diseredati del Sud. Sbaglia la memoria pubblica a ripulire i fatti e a esaltare i don Morosini o i don Mercante; in realtà, si coglie il cauto antifascismo della Chiesa solo se lo accostiamo al suo acceso anticomunismo e ne traiamo le debite conseguenze, senza riempirci la bocca con il salvataggio degli Ebrei che pur ci fu e fu indubbiamente meritorio. Una nota, infine, per i balilla che andarono a Salò, per dirla con Carlo Mazzantini. Che ci furono e non erano, per evidenti motivi di età, nè vecchi Ernesto Brunetta 180 soldati nè vecchi squadristi nè aspiranti socializzatori. Una loro canzone recitava: “C’è a chi piace far l’amore – c’è a chi piace far denaro – a noi piace far la guerra – con la morte paro a paro”. Nulla come questi versi esprime la differenza tra lo spirito che animava gli altri, compresi i partigiani molti dei quali erano fidenti nel mito dell’ultima guerra, e quello che animava loro, quasi fosse diversa la stessa struttura antropologica. Se dobbiamo, però, trovare il motivo di questa diversità, io credo si debba ricorrere alla categoria dell’esasperazione nazionalistica e bellicistica nella quale i balilla erano stati allevati. È una categoria dannunzianeggiante per la quale la bella morte andava perseguita oltre e più della vita, la patria era un corpo mistico, la guerra un’avventura iniziatica verso la virilità, l’impero romano l’ideale che si apriva davanti alle quadrate legioni del Littorio. Furono vittime insomma di cattivi maestri, e se il presidente Violante a loro si riferiva quando parlava di comprendere, per quanto mi concerne, non trovo difficoltà all’abbraccio con costoro. È con i cattivi maestri che non intendo conciliarmi mai. Di Ernesto Brunetta.

IL REGNO DEL SUD. Da Wikipedia, l'enciclopedia quasi libera. L'espressione «Regno del Sud» è utilizzata in ambito storico, giornalistico, saggistico e archivistico per indicare il periodo di continuità amministrativa legittima del Regno d'Italia compreso tra il settembre 1943 e il giugno 1944 con la liberazione di Roma. Con «Regno del Sud» ci si riferisce quindi ai fatti avvenuti dopo l'armistizio di Cassibile quando il re Vittorio Emanuele III lasciò la capitale e il governo italiano, presieduto da Pietro Badoglio, si trasferì a Brindisi in territorio non occupato dai tedeschi. In uno stato di sovranità limitata dai termini dell'armistizio con le forze alleate e dal fatto che gran parte del territorio italiano era occupato dall'esercito tedesco, il governo controllava in questo periodo solo alcune zone dell'Italia meridionale, la Sardegna e, dal febbraio 1944, la Sicilia, estendendo la sua giurisdizione verso nord con l'avanzare del fronte di guerra. Dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, l'armistizio di Cassibile e il suo annuncio l'8 settembre e la fuga del re da Roma, il Governo Badoglio insediato a Brindisi mantenne la struttura costituzionale del Regno d'Italia, cercando di ricostruire l'amministrazione statale, poiché la quasi totalità dei funzionari e dei dipendenti ministeriali erano rimasti intrappolati nella Capitale. Vittorio Emanuele III annunciò la sera del 10 settembre in un messaggio registrato trasmesso da Radio Bari i motivi che l'avevano spinto a lasciare Roma: «Per il supremo bene della patria che è sempre stato il mio primo pensiero e lo scopo della mia vita, e nell'intento di evitare più gravi sofferenze e maggiori sacrifici, ho autorizzato la richiesta di armistizio. Italiani, per la salvezza della Capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di Re, col Governo e con le Autorità Militari, mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale. Italiani! Faccio sicuro affidamento su di voi per ogni evento, come voi potete contare fino all'estremo sacrificio, sul vostro Re. Che Iddio assista l'Italia in quest'ora grave della sua storia.» Per gli Alleati era necessario che nell'Italia liberata vi fosse un governo in grado di esercitare un potere legittimo da contrapporre a quello della Repubblica Sociale Italiana costituitasi a Salò. Per questo già il 19 settembre le provincie pugliesi di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto e la Sardegna non furono poste sotto il controllo della Amministrazione militare alleata dei territori occupati (AMGOT), ma riconosciute indipendenti e affidate al governo di Badoglio pur sotto lo stretto controllo della Allied Control Commission. Uno dei primi atti del Governo insediatosi a Brindisi fu la firma del cosiddetto armistizio lungo, integrazione dall'armistizio corto firmato a Cassibile il 3 settembre. Pur rendendo esecutivo il principio della resa incondizionata, gli Alleati si impegnavano a ammorbidire le condizioni in proporzione all'aiuto che l'Italia avrebbe fornito nella lotta contro i nazisti. Il 13 ottobre il governo dichiarò guerra alla Germania. Dal punto di vista politico tale dichiarazione era molto importante poiché poneva l'Italia all'interno delle forze alleate sia pur con la qualifica di cobelligerante. Da questo momento il governo italiano cominciò lentamente ad acquisire maggior autonomia. In questa prima fase erano sotto il controllo del governo soltanto la Sardegna e le provincie pugliesi, mentre il resto del territorio liberato rimaneva sotto il controllo dell'Amministrazione militare alleata. L'insediamento del secondo governo Badoglio a Salerno nell'aprile 1944. L'11 febbraio 1944 gli Alleati trasferirono al governo italiano la giurisdizione della Sicilia, che era sotto l'Amministrazione militare alleata dal luglio 1943, e le province dell'Italia meridionale già occupate e quelle che venivano via via liberate. La competenza dell'AMGOT si ridusse così a Napoli, alle zone prossime al fronte e a quelle di particolare interesse militare. Nel febbraio del 1944 il governo si trasferì a Salerno che divenne così la seconda "capitale" provvisoria d'Italia. La cosiddetta «svolta di Salerno» permise di trovare un compromesso tra i partiti antifascisti, la monarchia e il maresciallo Badoglio che consentisse di formare un governo di unità nazionale con la partecipazione di tutte le forze politiche presenti nel Comitato di Liberazione Nazionale, accantonando temporaneamente i dissidi politici e istituzionali sorti dopo la caduta del fascismo. Il 22 aprile 1944 entrò quindi in carica il secondo governo Badoglio sostenuto politicamente da una coalizione degli appena ricostituiti partiti italiani. Il 4 giugno 1944 Roma venne liberata e Vittorio Emanuele III nominò l'indomani il figlio Umberto quale Luogotenente del regno e si ritirò a vita privata. Umberto si insediò al Quirinale e su proposta del CLN affidò l'incarico di formare il nuovo governo a Ivanoe Bonomi, anziano leader politico già Presidente del Consiglio prima dell'avvento del fascismo. Il nuovo governo ritornò così in luglio nella Capitale. L'espressione «Regno del Sud» è stata utilizzata spesso in contrapposizione alla cosiddetta «Repubblica di Salò», l'autoproclamatasi Repubblica Sociale Italiana guidata da Benito Mussolini e riconosciuta dalla Germania nazista, che nello stesso periodo controllava la porzione del territorio italiano sotto occupazione militare tedesca. Secondo alcuni storici l'espressione è usata in modo improprio, sia come raffronto con Salò, sia perché il "regno" non viene considerato come una entità a sé stante, ma come reale continuazione del Regno d'Italia. Un primo utilizzo dell'espressione è attribuita all'economista Agostino degli Espinosa, all'epoca dei fatti addetto all'ufficio stampa del governo di Brindisi, che pubblicò nel 1946 un saggio intitolato proprio Il Regno del Sud nel quale l'autore intendeva rendere noto «un primo tentativo di cronaca degli avvenimenti in cui si è espressa la vita politica dell'Italia liberata fra il 10 settembre 1943 e il 5 giugno 1945.» In alcuni casi «Regno del Sud» è stato utilizzato con valenza politica, per identificare la discontinuità tra il periodo fascista e la nascita dei primi governi democratici nel dopoguerra. In ambito storiografico la locuzione è usata per identificare in modo estensivo anche il periodo che arriva al 1945 e alla fine della guerra. Fino a quando cioè, l'Italia era ancora divisa e il governo italiano, che pur si era ristabilito a Roma, non aveva il pieno controllo del territorio e degli enti locali, di polizia e militari. In questa situazione gli atti amministrativi, militari e politici e la relativa documentazione erano suddivisi tra quelli gestiti dal governo di Roma, dalla Repubblica Sociale Italiana, dalle forze partigiane e dagli eserciti in campo. Nelle polemiche politiche, storiche e giornalistiche sui fatti successivi all'armistizio, il cosiddetto «Regno del Sud» viene spesso indicato come uno "stato fantoccio" privo di reale autonomia alle dirette dipendenze degli Alleati, analogamente al giudizio che viene dato della Repubblica di Salò quale emanazione priva di autonomia della Germania nazista.

LA GUERRA CIVILE IN ITALIA. Guerra civile in Italia (1943-1945). Da Wikipedia, l'enciclopedia quasi libera. La locuzione guerra civile in Italia è impiegata nella storiografia di settore, anche internazionale, per riferirsi agli eventi accaduti durante la seconda guerra mondiale, in un periodo compreso tra l'annuncio dell'armistizio di Cassibile (8 settembre 1943) e la resa di Caserta (2 maggio 1945), durante il quale si verificarono combattimenti tra reparti militari della Repubblica Sociale Italiana (RSI), collaborazionisti con le truppe occupanti della Germania nazista, e i partigiani italiani (inquadrati militarmente nel Corpo Volontari della Libertà e in maggioranza politicamente organizzati nel Comitato di Liberazione Nazionale), sostenuti materialmente dagli Alleati, nell'ambito della guerra di liberazione italiana e della campagna d'Italia. Oltre ai combattimenti diretti tra i reparti armati delle due parti, si registrarono anche rappresaglie sulla popolazione civile e repressioni da parte delle autorità della RSI, contrasti interni al movimento partigiano[5], mentre rari furono gli scontri armati tra le truppe fasciste e quelle fedeli al governo monarchico, il cosiddetto "Regno del Sud". Dopo la vittoria conseguita nella campagna del Nordafrica, gli Alleati diedero avvio alla Campagna d'Italia: tra l'11 e il 12 giugno del 1943 Lampedusa e Pantelleria furono i primi territori italiani ad essere conquistati, il 10 luglio iniziò lo sbarco in Sicilia, mentre il 19 luglio Roma fu bombardata per la prima volta. La minaccia dell'invasione del territorio nazionale, la convinzione dell'inevitabilità della sconfitta, l'incapacità di Mussolini di «sganciarsi dalla Germania», insieme alla consapevolezza che la sua presenza impediva ogni trattativa con gli Alleati, determinarono la caduta del suo governo: nella notte tra il 24 ed il 25 luglio il Gran Consiglio del Fascismo approvò una mozione di sfiducia contro il primo ministro, denominata ordine del giorno Grandi, dal nome del suo promotore Dino Grandi. L'indomani il re Vittorio Emanuele III fece mettere agli arresti Mussolini e lo sostituì al governo con il maresciallo Pietro Badoglio. Di fronte al colpo di Stato, i fascisti rimasero inerti e l'esercito poté occupare senza incontrare resistenze sia palazzo Wedekind che palazzo Braschi, rispettivamente sedi del partito e della federazione romana. In mancanza di ordini da parte del generale Enzo Emilio Galbiati (che pure aveva votato contro la destituzione di Mussolini), non si mosse nemmeno la milizia fascista, sebbene potesse contare sulla 1ª Divisione corazzata "M", costituita da elementi fedeli al regime, che era dislocata a nord del Lago di Bracciano. La notizia delle dimissioni di Mussolini venne vissuta da una parte degli italiani, prostrati dal conflitto, come prova della sua prossima conclusione: si ebbero manifestazioni di giubilo, ma anche di violenza, con la distruzione di beni e proprietà del PNF e delle organizzazioni di partito, la rimozione ed il danneggiamento di simboli e monumenti legati al fascismo. Tuttavia, le speranze riposte nella pace svanirono ben presto, in seguito al proclama con cui Badoglio annunciava: «La guerra continua. L'Italia [...] mantiene fede alla parola data». Cominciava così il periodo dei «quarantacinque giorni», in cui iniziarono le trattative segrete per concludere una pace separata con gli Alleati, dissimulate da pubbliche dichiarazioni di fedeltà alla Germania. I tedeschi intanto, preparati all'eventualità di una resa italiana, pianificavano l'operazione Achse per occupare la penisola.

Il governo Badoglio iniziò l'opera di smantellamento dello Stato fascista e adottò provvedimenti per mantenere l'ordine del Paese: sciolse il PNF, mantenne la proibizione della costituzione di partiti politici e impose la legge marziale. Inoltre, furono represse nel sangue alcune manifestazioni antifasciste, come quelle che si svolsero il 28 luglio a Bari (eccidio di via Nicolò dell'Arca) e Reggio Emilia (eccidio delle Reggiane), dove i militari spararono contro i manifestanti come disposto da una circolare del generale Mario Roatta, capo di stato maggiore dell'esercito, che ordinava di fronteggiare i disordini «in formazione di combattimento» e di «aprire il fuoco a distanza anche con mortai e artiglieria senza preavviso di sorta». Tali provvedimenti fecero in modo che presso gli antifascisti si diffondesse l'idea di una sostanziale continuità tra il governo di Mussolini e quello di Badoglio, fino a «domandarsi se la liquidazione del fascismo non sia per caso un tragico inganno». Il sentimento era suffragato anche dal fatto che molti funzionari pubblici del periodo fascista in posti chiave erano stati lasciati al loro posto dal nuovo governo, come rimarcato dalla strofa della Badoglieide: «Gli squadristi li hai richiamati / gli antifascisti li hai messi in galera / la camicia non era più nera / ma il fascismo restava padron». Successivamente, Badoglio riuscì a neutralizzare completamente la milizia, incorporandola nell'esercito e sostituendo i quadri superiori con ufficiali di sicura fede monarchica. Il successore di Galbiati al comando del corpo, Quirino Armellini, emanò il 30 luglio una circolare con cui riuscì a garantire a Badoglio l'inoffensività delle camicie nere, stigmatizzando «la reazione del Paese, antipatica e spesso brutale nei riguardi della Milizia», e assicurando la volontà del nuovo governo di continuare la guerra contro gli angloamericani, descritti come nemico «animato da inumano odio e dal deciso proponimento di annientare» la patria, al quale bisognava «oppore i nostri petti e le nostre armi, strenuamente combattendo a fianco dell'alleato». Negli stessi giorni, gli antifascisti cominciavano a riorganizzarsi grazie al ritorno dal carcere, dal confino o dall'esilio di numerosi dirigenti di primo piano: Longo, Secchia e Scoccimarro per i comunisti; Nenni, Pertini, Morandi e Saragat per i socialisti; Bauer, La Malfa e Lussu per gli azionisti. Iniziarono quindi a formarsi le prime organizzazioni e i primi "Comitati di opposizione interpartitici" antifascisti, gettando le basi del futuro Comitato di Liberazione Nazionale. Il 3 agosto, una delegazione del Comitato centrale delle opposizioni – composta da Bonomi, De Gasperi, Salvatorelli, Ruini e Amendola – presentò a Badoglio una dichiarazione con cui si «reclamava» dal governo, «senza esitazioni e indugi che potrebbero essere fatali, la cessazione di una guerra contraria alle tradizioni e agli interessi nazionali e ai sentimenti popolari, la responsabilità della quale grava e deve gravare sul regime fascista». Durante la notte tra il 23 e il 24 agosto il gerarca fascista Ettore Muti – accusato di complottare per restituire il potere a Mussolini – fu ucciso dai carabinieri inviati ad arrestarlo, ufficialmente durante un tentativo di fuga. In seguito alla fondazione della RSI, i fascisti indicarono in Badoglio il mandante dell'uccisione e celebrarono ampiamente Muti come il primo caduto della guerra civile, rivendicando la tesi del complotto come dimostrazione di non essere rimasti inattivi dopo il 25 luglio. L'argomento secondo cui un tentativo di rivolta fascista contro Badoglio sarebbe stato impedito dalla morte di Muti – oltre che dall'assenza dei «migliori fascisti», impegnati al fronte, e dall'aver creduto alla continuazione dell'alleanza con la Germania – fu riproposto dalla pubblicistica di Salò anche nel dopoguerra. Le stime sulle uccisioni di fascisti e le aggressioni da loro subite durante i quarantacinque giorni sono variabili[15]. Nei mesi successivi, gli antifascisti si sarebbero presto convinti di essere stati eccessivamente clementi verso gli esponenti del deposto regime, tanto da ricondurre l'inizio della guerra civile al fatto che «I fascisti sono ritornati perché il 25 luglio sangue fascista non è stato sparso» (Giuseppe Lopresti). Viceversa, per i fascisti il 25 luglio sarebbe iniziato il loro «martirio», del quale bisognava vendicarsi.

Nelle settimane successive alla caduta di Mussolini, mentre l'Italia continuava la guerra accanto alla Germania, il nuovo governo ricercò con una certa confusione di far uscire il Paese dal conflitto: il 3 settembre firmò l'armistizio di Cassibile, imposto dalle Potenze Alleate, e ne diede inaspettatamente comunicazione con un messaggio radiofonico letto dal maresciallo Badoglio la sera dell'8 settembre. Più rapidamente di quanto accadde il 25 luglio, malgrado l'iniziale entusiasmo con cui la maggior parte della popolazione accolse la notizia, apparve chiaro che l'armistizio non avrebbe portato la pace. Il giorno stesso, il re e Badoglio abbandonarono la capitale riparando in Puglia con la maggior parte dei membri del governo, al fine di evitare la temuta reazione tedesca per la resa italiana. In breve tempo i tedeschi attuarono l'operazione Achse e occuparono gran parte della penisola, compresa Roma, lasciata senza difesa nonostante nei dintorni della capitale le forze del Regio Esercito fossero in numero nettamente superiore a quelle della Wehrmacht. In Italia e nelle zone d'occupazione (Francia meridionale, Balcani e Grecia) furono centinaia di migliaia i soldati che, in assenza di ordini, si arresero senza combattere e furono deportati in Germania, dove furono detenuti nella dura condizione di "internati militari". Altri riuscirono a procurarsi abiti borghesi e a trovare rifugio, beneficiando delle numerose manifestazioni di solidarietà in cui si prodigò la popolazione civile[18]. I casi in cui dei reparti reagirono con successo all'aggressione tedesca furono invece rari e dovuti all'iniziativa personale dei comandanti. Nelle città, provocarono rabbia e disperazione le scene in cui moltitudini di soldati italiani sbandati vennero rapidamente sopraffatte da pochi militari tedeschi: fu proprio la repentina disfatta subita per mano degli ex alleati, ancor più della resa agli angloamericani, ad essere percepita come una «nuova immensa Caporetto». L'annuncio dell'armistizio prese parecchi italiani alla sprovvista: le circostanze in cui esso venne reso pubblico determinarono la sensazione tra militari e civili di essere stati abbandonati e lasciati a sé stessi, rispettivamente i primi dagli ufficiali ed i secondi dall'autorità pubblica, e vi è stato chi ha visto nell'8 settembre e nelle sue conseguenze il momento della venuta meno del tessuto connettivo nazionale. Nei giorni immediatamente successivi all'armistizio, con l'eclissi del potere dello Stato regio, iniziarono a delinearsi i due schieramenti della guerra civile, i partigiani e i fascisti, entrambi convinti di rappresentare legittimamente l'Italia. Molti di coloro che imbracciarono le armi si trovarono, colti di sorpresa dall'armistizio, da una parte o dall'altra quasi casualmente e dovettero compiere la propria scelta di campo sulla base delle circostanze. La decisione fu resa maggiormente drammatica per la solitudine in cui avvenne, in quanto di fronte al crollo dello Stato non esisteva più la possibilità di rifarsi ad un'autorità, ma solo ai propri valori. Naturalmente le scelte non furono tutte istantanee e basate su certezze assolute, bastava anzi «un nulla, un passo falso, un impennamento dell'anima» per trovarsi dall'altra parte. La scelta fu particolarmente gravosa per i militari, vincolati da una parte al giuramento al re e dall'altra al rispetto dell'alleanza con i tedeschi, pena in entrambi i casi il proprio onore di soldati; risolsero il problema facendo appello alla propria coscienza: alcuni, considerando sciolto il giuramento al Re per via del suo comportamento, si presentarono ai comandi tedeschi chiedendo d'essere arruolati, ricevendo come distintivo una fascia da braccio con un tricolore e la scritta Im Dienst der Deutschen Wehrmacht (al servizio della Wehrmacht germanica); altri, pur essendo del medesimo avviso, scelsero comunque di non parteggiare per l'Asse[28]. In alcuni casi fu determinante anche la sorte avuta in seguito al 25 luglio, come accadde al futuro comandante partigiano Nuto Revelli: «Senza la Russia, all'8 settembre forse mi sarei nascosto come un cane malato. Se nella notte del 25 luglio mi fossi fatto picchiare, oggi forse sarei dall'altra parte. Mi spaventano quelli che dicono di aver sempre capito tutto, che continuano a capire tutto. Capire l'8 settembre non era facile!»

Disordini e scontri a fuoco avvennero durante i giorni dell'armistizio, ma raramente coinvolsero italiani di entrambi gli schieramenti. Lo stato maggiore del Regio Esercito provvide in alcuni casi a modificare i comandi con elementi di sicura fede monarchica, come accadde alla 1ª Divisione corazzata "M", che divenne 136ª Divisione corazzata "Centauro II" e fu assegnata al generale Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, genero del re; tuttavia il Comando Supremo non giudicava affidabile la divisione, che infatti durante gli eventi dell'8 settembre non si mosse a difesa di Roma. Ciò non di meno, vi furono alcuni episodi in cui italiani delle due parti si scontrarono. Rilevanti fatti di sangue si registrarono in Sardegna, dove il contingente italiano, godendo di una netta superiorità numerica e di una buona qualità dei reparti a disposizione, tra i quali la 184ª Divisione paracadutisti "Nembo", obbligò i tedeschi ad una veloce ritirata dall'isola. Di conseguenza, diversamente che dal resto d'Italia, non vi fu margine di manovra per quegli italiani che non avessero voluto obbedire alle disposizioni armistiziali e che pertanto dovettero compiere la scelta di campo immediatamente. La Sardegna fu quindi teatro di «uno dei primi episodi di guerra civile», quando all'annuncio dell'armistizio il XII battaglione della "Nembo", al comando del maggiore Mario Rizzatti, si ammutinò per seguire i tedeschi della 90ª Divisione di fanteria motorizzata e continuare quindi la lotta contro gli angloamericani. A sedare questa sedizione venne inviato il tenente colonnello Alberto Bechi Luserna, che fu ucciso dagli ammutinati. Cinque giorni dopo veniva ucciso da un ignoto il maresciallo ordinario Pierino Vascelli, che, sebbene non si fosse unito agli ammutinati, non aveva nascosto i propri sentimenti fascisti. Si schierarono con i tedeschi anche il 63º battaglione della legione Camicie Nere Tagliamento, un centinaio di paracadutisti della scuola di Viterbo, una parte del 10º reparto Arditi presso Civitavecchia, nonché i militari della Xª Flottiglia MAS di stanza a La Spezia, al comando del principe Junio Valerio Borghese, che ricostituì il corpo mantenendo lo stesso nome, principalmente come fanteria di marina. In altre parti d'Italia i fascisti non presero posizione contro i reparti fedeli alla monarchia, ma si limitarono a non opporre resistenza ai tedeschi. Nel clima generale in cui «tutti erano come posseduti da un "bisogno di grandi tradimenti" contro i quali rivalersi», entrambe le parti (sebbene tra i partigiani non mancasse una minoranza di convinti monarchici) erano accomunate dalla condanna del re e di Badoglio: i fascisti li accusavano di aver tradito l'alleanza con i tedeschi e di aver così compromesso l'onore dell'Italia agli occhi del mondo, mentre i resistenti di aver impedito all'8 settembre di «trasformarsi in una trionfale e redentrice giornata di resurrezione» (Silvio Trentin). I primi gruppi di fascisti ripresero l'iniziativa; contemporaneamente a Roma – perduranti ancora i combattimenti fra Regio Esercito e Wehrmacht – veniva fondato dagli esponenti dell'antifascismo politico il primo Comitato di Liberazione Nazionale, mentre, specialmente in Piemonte e in Abruzzo, si formarono i primi gruppi partigiani[36]. In quei giorni furono gettate le basi sia della "resistenza attiva" sia della "resistenza passiva", con la popolazione civile che offriva solidarietà ed aiuto ai soldati che si davano alla macchia o che sceglieva "di non scegliere", mettendosi nella "zona grigia" o fra gli "attendisti".

L'Italia centro-settentrionale negli ultimi mesi del 1943. In giallo il territorio della Repubblica Sociale Italiana (RSI), occupato dai tedeschi. In verde le zone d'operazioni delle Prealpi (OZAV) e del Litorale adriatico (OZAK), aree nominalmente appartenenti alla RSI, ma di fatto sottoposte al diretto controllo tedesco e oggetto di politiche di deitalianizzazione in vista di una futura annessione al Terzo Reich. Il confine meridionale della RSI è qui rappresentato dalla Linea Gustav. A seguito della divulgazione pubblica dell'armistizio e degli eventi conseguenti, l'Italia si trovò divisa in più entità politico-territoriali. Il governo Badoglio, presieduto dal Re, si trovò ad esercitare la propria autorità solo su una parte del territorio del Regno d'Italia, corrispondente principalmente alle province di Brindisi e Taranto ed alla Sardegna. Solo progressivamente i territori italiani via via conquistati dagli angloamericani passarono sotto la giurisdizione regia: per questo motivo i territori amministrati direttamente dal Re e dal suo governo erano denominati "Regno del Sud". Le terre italiane sotto controllo alleato non ancora affidate all'amministrazione regia erano sottoposti a un governo militare d'occupazione, l'Allied Military Government of Occupied Territories (AMGOT). Dipendente dal quartier generale di Algeri, l'AMGOT fu retto da diversi generali alleati, tra cui il colonnello Charles Poletti, di origini italiane e accusato poi di collusioni con la mafia, che aveva esercitato un ruolo importante nel favorire lo sbarco angloamericano in Sicilia. Nelle terre sottoposte alla legge alleata, venne emessa una nuova moneta, l'Am-lira (che provocò una consistente svalutazione della lira normale). Dal febbraio 1944, rimasero competenza dell'AMGOT solo la zona di Napoli e le terre d'interesse militare. Fu sottoposta ad un AMGOT anche la "Zona A" del Territorio Libero di Trieste tra il 1945, quando furono cacciati i partigiani jugoslavi, che nel frattempo avevano occupato Trieste effettuando rastrellamenti di massa ed esecuzioni sommarie, coadiuvate da partigiani comunisti locali, e il 1954, quando la città si ricongiunse all'Italia. Durante l'occupazione alleata della Sicilia e soprattutto dopo il ritorno dell'isola alla parziale sovranità del Regno si verificarono episodi di rivolta, a carattere indipendentista e sociale, sfociati in scontri, nell'intervento dell'Esercito, vittime e feriti e nella proclamazione di effimere "repubbliche" (Comiso, Vittoria, Piana degli Albanesi), dove le varie correnti sotterranee del malcontento si andavano a sommare in convergenze tra fascisti e comunisti. "Repubbliche" autoproclamate sorsero anche altrove, nel Mezzogiorno, come per esempio la Repubblica rossa di Caulonia, in Calabria. A seguito della caduta di Mussolini del 25 luglio 1943, al suo arresto ed allo scioglimento del Partito Nazionale Fascista, avvenuto due giorni dopo, alcuni alti gerarchi si rifugiarono in Germania. Fra costoro Roberto Farinacci, Renato Ricci e Alessandro Pavolini. Anche la famiglia di Mussolini fu messa al sicuro in Germania. Fin da quel momento la dirigenza politica e militare del Terzo Reich aveva iniziato a progettare un possibile rovesciamento del governo regio e l'instaurazione di uno stato fascista filotedesco, che garantisse l'alleanza col Reich. Quando – dopo l'annuncio dell'Armistizio di Cassibile – venne meno la necessità per la Germania che i rapporti col governo di Roma fossero anche solo formalmente mantenuti, Adolf Hitler in persona ordinò che Benito Mussolini, fino ad allora prigioniero sul Gran Sasso, venisse liberato e portato in Germania.

L'Operazione Quercia che portò alla liberazione di Mussolini avvenne il 12 settembre 1943: tradotto a Monaco e poi a Rastenburg, il Duce si incontrò il 14 con Hitler, il quale gli fece presente la necessità di creare un governo fascista nella parte d'Italia non occupata dagli Alleati. Il 15 settembre Mussolini emanò da Radio Monaco le prime direttive volte a riorganizzare il disciolto partito fascista, annunciando la nomina di Alessandro Pavolini alla sua guida e la prossima formazione di uno stato fascista in Italia. Il 18 settembre Mussolini parlò, sempre da Radio Monaco, annunciando il suo ritorno. Nel discorso annunciava la costituzione della Repubblica, la decadenza della Monarchia, lo scioglimento di militari e funzionari italiani dal giuramento al Re e la ricostituzione della Milizia. Egli si richiamava a Mazzini ed enfatizzava le origini e i contenuti repubblicani e socialisti, riprendendo il programma dei Fasci italiani di combattimento del 1919, il cosiddetto Sansepolcrismo. Sembra che, peraltro, Mussolini non si facesse molte illusioni sulle speranze che restavano al movimento fascista e alla sua persona. Nei giorni successivi il governo fascista repubblicano prese forma ed accanto ad esso furono stabilite da Berlino anche le strutture di potere tedesche in Italia: Rudolph Rahn, ambasciatore tedesco presso la RSI, e Karl Wolff, comandante in Italia delle SS e della polizia. Hitler rifiutò di rivedere i provvedimenti presi poco prima e poco dopo la liberazione di Mussolini circa la sorte delle province di Trento, Bolzano, Belluno, Udine, Gorizia, Trieste, Fiume, Lubiana e Zara, sottoposte alla giurisdizione militare e civile del Reich. La situazione degli ebrei, rimasta immutata dopo le leggi razziali del 1938 fino al settembre 1943, ebbe una evoluzione tragica nel territorio italiano occupato dai tedeschi in cui si organizzò l'apparato amministrativo dalla RSI. La soluzione finale poté avere attuazione anche in Italia: a partire dalla notte del 15-16 ottobre 1943 (aktion contro la comunità ebraica di Roma) ebbero inizio le deportazioni. Il 30 novembre 1943 il ministero degli interni della RSI decise il concentramento di tutti gli ebrei, e l'apparato repressivo della Repubblica partecipò attivamente con i tedeschi alle retate. In dicembre 1943 venne organizzato un campo di transito a Fossoli di Carpi da cui gli ebrei vennero deportati dai tedeschi nel campo di sterminio di Auschwitz; circa 7.500 ebrei furono deportati dall'Italia e solo 800 sopravvissero. Il 13 ottobre 1943 fu annunciata l'imminente convocazione di un'Assemblea Costituente, che avrebbe dovuto redigere una Carta costituzionale nella quale la sovranità sarebbe stata attribuita al popolo. La costituzione, pur essendo stata redatta non venne mai discussa e approvata. Infatti, dopo la prima assemblea nazionale del PFR, svoltasi a Verona il 14 novembre 1943, questo annuncio fu annullato da Mussolini, avendo deciso di convocare detta Assemblea Costituente a guerra conclusa. Nel corso della stessa assemblea, venne costituito il Partito Fascista Repubblicano, erede del PNF, venne ufficializzata la nomina di Alessandro Pavolini come suo Segretario di partito e ne venne adottato il manifesto programmatico, che riconosceva a Benito Mussolini il titolo di Capo della Repubblica. Sulla funzione, sul ruolo e sulle caratteristiche fondamentali del nuovo stato repubblicano fascista, alcuni storici hanno parlato di "alleato occupato", evidenziando la subordinazione del regime alle esigenze dell'alleato nazista e la dipendenza per la propria sopravvivenza reale dal Terzo Reich e dall'apparato militare germanico, inserendo quindi la RSI tra le numerose forme di collaborazionismo organizzate dalla Germania negli stati occupati. Altri, oltre a questi aspetti, hanno evidenziato i caratteri di originalità dello stato di Salò, interpretato come evoluzione della precedente esperienza fascista del ventennio e parlano di una complessità della Repubblica Sociale, non più considerata semplice fenomeno di collaborazionismo. Il PFR venne militarizzato per far fronte alle esigenze belliche: si ebbe la costituzione di formazioni militari impegnate nella repressione e nella lotta contro i partigiani; l'esercito regolare della RSI prese parte anch'esso prevalentemente nelle operazioni antipartigiane; si ebbero episodi di intimidazione e di uso della violenza nei rapporti con la popolazione passiva o simpatizzante con la Resistenza. Erede di ciò che rimaneva al nord della MVSN, dell'Arma dei Carabinieri e della Polizia dell'Africa Italiana, fu creata la Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), con compiti di polizia giudiziaria e di polizia militare, posta sotto il comando di Renato Ricci. Si ebbero gruppi di donne volontarie alla causa fascista, organizzate nel Servizio Ausiliario Femminile.

Il conflitto civile combattuto tra fascisti e partigiani raramente coinvolse in scontri diretti le forze armate di RSI e Regno del Sud. I due Stati italiani in linea di massima evitarono perfino di schierare i propri reparti al fronte davanti a reparti dell'altro[6]. In alcuni casi tuttavia soldati italiani si trovarono dinnanzi altri italiani: il Gruppo Battaglioni Forlì della RSI inquadrato nella 278ª Divisione tedesca ebbe di fronte i marò del Gruppo di Combattimento ''Folgore'' del Regio Esercito, coi quali vi furono anche scontri con morti e feriti, e quello del Gruppo di Combattimento Cremona, il cui I Battaglione si scontrò con i resti del Battaglione Barbarigo della Decima MAS in ritirata, a Santa Maria in Punta nel Polesine. Al sud si sviluppò anche un movimento di resistenza fascista agli angloamericani, che tuttavia non ebbe né l'estensione né il supporto popolare di quello antifascista al nord. La stampa della RSI ne ingigantiva propandisticamente l'entità attraverso la figura di O' Scugnizzo, un sottotenente che operava al sud dietro le linee nemiche, protagonista anche di una striscia a fumetti di Guido Zamperoni. Nonostante i tentativi da parte di Alessandro Pavolini di creare unità militari vere e proprie che operassero con tattiche partigiane alle spalle delle linee alleate, per espressa volontà di Mussolini l'attività del movimento di resistenza fascista al sud si limitò allo spionaggio, alla propaganda e al sabotaggio contro le truppe d'occupazione. Si registrarono casi di omicidio, come quello del console generale della milizia Gianni Cagnoni, ucciso – presumibilmente dai fascisti per la sua attività di doppio agente in intelligenza con i servizi segreti alleati – in Sardegna nel 1944. Più articolata e problematica è la questione dei rapporti segreti fra Salò e Brindisi (poi Salerno), in particolare fra elementi delle due Marine Militari (e – nell'ambito della Marina Nazionale Repubblicana – della Xª MAS) allo scopo di raggiungere un modus vivendi e di evitare scontri diretti fra le due Forze Armate, e – verso la fine del conflitto – per cercare di pianificare un'azione comune di sbarco in Istria, onde scongiurare il pericolo dell'invasione iugoslava. Contatti diretti fra emissari di Borghese e il capitano di vascello Agostino Calosi, nonché con Ivanoe Bonomi e l'ammiraglio De Courten non condussero tuttavia ad alcun risultato, per l'opposizione della Germania e della Gran Bretagna, che per motivi analoghi non gradivano la presenza italiana in Venezia Giulia. Diversi risultati si ottennero invece nel coinvolgimento, a guerra finita, di ex marò nelle organizzazioni stay behind anticomuniste o in operazioni segrete come l'affondamento dietro commissione britannica di navi cariche d'armi destinate ai sionisti in Palestina.

I primi nuclei del movimento partigiano si costituirono attorno a Boves (Piemonte) e a Bosco Martese (Abruzzo). Altri gruppi, prevalentemente comunisti e collegati con i partigiani jugoslavi, nacquero o si rafforzarono in Venezia Giulia. Altri ancora si formarono attorno ai soldati alleati, iugoslavi e sovietici prigionieri di guerra, rilasciati o sfuggiti alla prigionia in seguito alle vicende dell'8 settembre. Questi primi nuclei organizzati subirono la dura e immediata repressione tedesca e molti si disgregarono in breve tempo. In particolare, a Boves – durante una di queste operazioni di controguerriglia – soldati tedeschi Waffen-SS commisero la loro prima strage su territorio italiano. Fin dalla sera dell'8 settembre, poche ore dopo la comunicazione radiofonica dell'armistizio, a Roma si riunirono i seguenti esponenti dell'antifascismo politico, usciti dalla clandestinità a seguito del crollo del regime fascista il 25 luglio: Ivanoe Bonomi (PDL), Scoccimarro e Amendola (PCI), De Gasperi (DC), La Malfa e Fenoaltea (PdA), Nenni e Romita (PSI), Ruini (DL), Casati (PLI). Essi costituirono il primo Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) e Bonomi ne assunse la presidenza. In particolare il PCI premeva per prendere decisamente l'iniziativa senza attendere gli Alleati: « ...è necessario agire subito ed il più ampiamente e decisamente possibile perché solo nella misura in cui il popolo italiano concorrerà attivamente alla cacciata dei tedeschi dall'Italia, alla sconfitta del nazismo e del fascismo, potrà veramente conquistarsi l'indipendenza e la libertà. Noi non possiamo e non dobbiamo attenderci passivamente la libertà dagli angloamericani.»

D'altronde gli Alleati non credevano nelle possibilità di successo di una guerriglia locale, tanto che inizialmente il generale Harold Alexander invitò i nuclei costituiti a posticipare gli attacchi contro i nazisti. Il 16 ottobre il CLN diramava un comunicato, il primo di rilevanza politico-operativa – in cui respingevano gli appelli alla riconciliazione lanciati dagli esponenti della RSI. Il CLN milanese faceva eco con un ordine del giorno in cui chiamava alle armi «tutto il popolo italiano alla lotta contro il tedesco invasore e contro i fascisti, che se ne fanno servi». Il Partito comunista ebbe un ruolo decisivo nel processo di organizzazione e crescita del movimento partigiano nel territorio occupato dai tedeschi in cui era in costituzione un regime fascista collaborazionista. Fin dal 10 settembre 1943, durante una riunione della direzione del partito costituita il 30 agosto a Roma da dieci dirigenti, venne deciso che Pietro Secchia sarebbe partito subito per Milano per coordinare l'attività cospirativa dei militanti comunisti; tra il 20 e il 22 settembre anche Luigi Longo partì per il nord per affiancare Secchia nel compito di organizzazione del movimento di resistenza. A fine novembre i comunisti decisero la costituzione di "distaccamenti d'assalto Garibaldi", che poi sarebbero diventati "brigate" e "divisioni", di cui prese il comando Luigi Longo, con commissario politico Pietro Secchia e Giancarlo Pajetta capo di Stato Maggiore. Il primo ordine operativo – datato 25 novembre – recitava:

a) attaccare in tutti i modi e annientare ufficiali, soldati, materiale, depositi delle forze armate hitleriane;

b) attaccare in tutti i modi e annientare le persone, le sedi, le proprietà dei traditori fascisti e di quanti collaborano con l'occupante tedesco;

c) attaccare in tutti i modi e distruggere la produzione di guerra destinata ai tedeschi, le vie e i mezzi di comunicazione e tutto quanto può servire ai piani di guerra e di rapina dell'occupante nazista.

A iniziare da dopo l'Armistizio sorsero, per iniziativa del Partito Comunista Italiano, al quale rimasero quasi sempre legati, i Gruppi d'azione patriottica, composti da gruppi esigui a struttura cellulare, concepiti per non pregiudicare l'esistenza reciproca in caso di arresto o di tradimento di singoli elementi, il cui scopo principale fu quello di scatenare azioni di terrore urbano colpendo con attentati dinamitardi tedeschi, fascisti e simpatizzanti per minarne sicurezza e morale. L'abilità dei GAP nel compiere le missioni fu tale che inizialmente le polizie italiane e tedesche credettero che fossero composti da agenti segreti stranieri. A tal proposito è significativo quanto scritto nell'Appello del PCI al popolo italiano del settembre 1943: «Alla prepotenza del nazismo che pretende di ridurre in servitù con la violenza e il terrore dobbiamo rispondere con la violenza e il terrore.»

Una parte della pubblicistica ha giustificato l'azione gappista come missione di "giustizia" contro la prepotenza ed il terrore nazifascista, ponendo l'accento su come la selezione degli obiettivi da colpire privilegiasse «ufficiali, gerarchi collaborazionisti, agenti prezzolati per denunciare uomini della Resistenza ed ebrei, informatori della polizia nazista e delle organizzazioni repressive della RSI», rivendicando pertanto una sostanziale differenza con il terrore nazifascista, che invece sarebbe risultato indiscriminato agli occhi della popolazione. La memorialistica partigiana insiste sull'«eliminazione di nemici particolarmente odiosi», quali torturatori, spie, provocatori. Alcuni ordini diramati dai comandi partigiani insistono sulla necessità di evitare di colpire gli innocenti, fornendo invece elenchi delle categorie da colpire in quanto «individui meritevoli di punizione». La pubblicistica di Salò fin dal periodo bellico ha insistito sul fatto che accanto a queste azioni venissero pianificate ed effettuate operazioni di eliminazione di quegli elementi del fascismo repubblicano più disposti al compromesso ed alla trattativa, come Aldo Resega, Igino Ghisellini, Eugenio Facchini ed il filosofo Giovanni Gentile. L'uccisione di quest'ultimo divise il fronte antifascista ed è stata al centro di polemiche anche in anni recenti. Alla Resistenza parteciparono anche, principalmente per attività di approvvigionamento di viveri, indumenti e medicinali, di propaganda antifascista, di raccolta fondi, di mantenimento delle comunicazioni nel ruolo di staffette partigiane, di soccorso e d'assistenza, diverse donne, variamente organizzate; alcune parteciparono attivamente al conflitto come combattenti: il primo distaccamento di partigiane combattenti sorse in Piemonte alla metà del 1944 presso la Brigata garibaldina "Eusebio Giambone". Donne parteciparono a scioperi e manifestazioni contro il fascismo.

Igino Ghisellini, federale fascista di Ferrara, ucciso il 14 novembre 1943. La sua uccisione, la cui matrice non è mai stata definitivamente chiarita e a cui i fascisti fecero seguire una dura rappresaglia, è considerata l'inizio della fase più sanguinosa della guerra civile. Tra i fatti di sangue più significativi accaduti nella fase immediatamente successiva alla costituzione della RSI vi fu l'uccisione del federale ferrarese Igino Ghisellini, avvenuta il 14 novembre 1943. Durante il Congresso di Verona del Partito Fascista Repubblicano la notizia che il federale di Ferrara fosse stato ucciso provocò una reazione squadrista che si tradusse in rappresaglia su undici antifascisti estranei all'assassinio. Un gesto definito «stupido e bestiale» dallo stesso Mussolini. Tale fu l'impressione negativa che questo episodio sollevò come «primo omicidio della guerra civile» e come termine ad ogni speranza «di riconciliazione degli italiani», che sull'effettiva responsabilità della morte di Ghisellini c'è stata una serie di reciproche accuse da parte di entrambe le parti e non è mai stata definitivamente chiarita. A prescindere da chi abbia materialmente sparato "il primo colpo", Claudio Pavone liquida il problema del «primo colpo» come «poco produttivo» e parte dalle conclusioni di Giorgio Bocca («È ovvio che siano gli antifascisti a muoversi per primi e che si muovano per primi i comunisti»), considerandole però non esaurienti e necessitanti di un'integrazione attraverso l'analisi del «desiderio di vendetta» dei fascisti repubblicani. Renzo De Felice fa ascendere l'origine della guerra civile alla nascita della Repubblica Sociale Italiana: secondo lo storico la fondazione di uno Stato italiano fascista, collaborazionista con la Germania nazista, impedì alla Resistenza di assumere un carattere nazionale esclusivo e di esclusiva liberazione dai tedeschi per trasformarla anche in un movimento di lotta politica e sociale, in cui i comunisti ebbero una parte di grande importanza. Alcuni tentativi di evitare lo scoppio di una guerra civile operati da diversi esponenti fascisti vennero presto accantonati di fronte agli sviluppi degli avvenimenti, alla realtà della dura occupazione tedesca, al crescere della violenza dei gruppi partigiani. Ben presto gli intransigenti del neonato Partito Fascista Repubblicano ebbero il sopravvento. I comunisti presero l'iniziativa di portare la resistenza armata contro il nuovo fascismo, alleato dei tedeschi, nelle città; dopo una serie di attentati, i GAP uccisero il 29 ottobre il capo della Milizia di Torino Domenico Giardina, e quindi gli attacchi si diffondono in tutte le città: a Roma (attacco al Teatro Adriano dove parlava il maresciallo Graziani), a Firenze, a Genova, a Ferrara. Di fronte a questa serie di attacchi e attentati, gli intransigenti fascisti, Pavolini prima d'ogni altro, ebbero la possibilità di far valere la propria posizione ed imporre un giro di vite anche a Mussolini: a fine novembre Mezzasoma ordinò ai giornali di cessare ogni discussione circa la possibile "pacificazione". Le prime formazioni partigiane – quasi tutte a carattere militare, perché formate principalmente da militari del Regio Esercito sbandati o da ex prigionieri di guerra fuggiti dai campi di concentramento – furono investite dalla reazione tedesca e distrutte anche perché impiegavano tattiche di presidio territoriale e di mantenimento di capisaldi attraverso una difesa rigida e concentrata, anziché adottare la guerriglia; un esempio fu la sorte toccata al gruppo Cinque giornate, badogliano, che venne assediato nel forte di San Martino sopra Varese dai tedeschi e costretto alla resa. Di conseguenza il movimento partigiano ottenne migliori risultati con la creazione di squadre e gruppi di dimensioni minime – cellulari – con le quali compiere attacchi. Tuttavia fu con il "Bando Graziani" del 19 febbraio 1944 che la Resistenza acquistò una massa di uomini sufficiente per poter dar vita ad un vero e proprio esercito clandestino alle spalle delle linee tedesche. Fino al febbraio 1944, infatti, secondo Ferruccio Parri le forze armate partigiane assommavano ad un totale di 9.000 effettivi. Con la proclamazione della leva di massa, almeno settantamila giovani si unirono ai partigiani per non dover sottostare all'arruolamento, e buona parte di costoro andò ad ingrossare i reparti resistenziali. A questi occorreva poi aggiungere i reparti della pianura e delle città, i "patrioti" e i fiancheggiatori, che durante il periodo di massima attività partigiana giunsero a toccare i 200.000 elementi fra uomini e donne. Nella primavera-estate del 1944 la forza del movimento partigiano fu tale da consentire la creazione di effimere Repubbliche partigiane, che riuscirono a sopravvivere fino all'autunno-inverno dello stesso anno, quando vennero distrutte da controffensive italotedesche. In particolare Mussolini definì le operazioni contro le repubbliche partigiane piemontesi una «marcia della Repubblica Sociale contro la Vandea», riferendosi all'episodio delle guerre civili francesi dove le armate rivoluzionarie schiacciarono le rivolte legittimiste vandeane. Nei confronti dei partigiani, sempre più audaci nelle loro imprese, i tedeschi decisero di impiegare in misura sempre maggiore le forze della RSI, facendo anche leva sulle personalità più intransigenti, e legando la "repressione del ribellismo" ad un problema interno italiano del quale gli italiani stessi si sarebbero dovuti occupare. In questa maniera, oltre a demandare il "lavoro sporco" ad altri[105], riuscivano anche a tenere occupate le forze della RSI, che altrimenti – se impiegate al fronte – avrebbero creato problemi di ordine militare e politico. In seguito allo sfondamento del fronte sulla Linea Gustav ed all'avanzata alleata nell'Italia centrale, molte delle guarnigioni della GNR si sciolsero. Al contrario, specialmente in Toscana, gli elementi armati dipendenti direttamente dal Partito riuscirono in qualche misura ad organizzarsi e ad offrire un'ultima resistenza all'avanzata nemica e agli attacchi partigiani. I franchi tiratori di Firenze tennero in scacco numerosi reparti alleati e partigiani per diversi giorni. Questi episodi diedero la possibilità ad Alessandro Pavolini di ottenere da Mussolini la militarizzazione del Partito mediante la costituzione delle Brigate Nere, fondate con la dichiarata intenzione di combattere innanzitutto contro i partigiani prima ancora che contro gli Alleati: la loro creazione rappresentò il punto di non ritorno della guerra civile, definita da Pavolini una «guerra di religione», tanto che nella loro creazione viene individuato «il punto culminante dell'impegno fascista nella guerra civile». Le brigate furono utilizzate eminentemente in operazioni antipartigiane, ma anche, nonostante ciò fosse contrario al loro intento originario, in compiti di polizia, quali arresti e requisizioni, anche dirette alla cattura degli ebrei; solo sporadicamente parteciparono a scontri bellici, che riguardarono quei reparti che si trovarono a dover affrontare le unità alleate in offensiva o che rimasero nelle città del nord dopo l'evacuazione delle truppe regolari formando gruppi di resistenza e franchi tiratori. Le Brigate Nere e la GNR si distinsero per la mancanza di disciplina e per l'estrema durezza impiegata nella repressione, al punto che in più occasioni gli stessi comandi tedeschi e talvolta i questori italiani protestarono per le violenze gratuite, le esecuzioni sommarie e la loro spettacolarizzazione attraverso l'esposizione di cadaveri nelle strade. Ad esempio, sul finire del 1944 il generale Frido von Senger und Etterlin, preoccupato per la tenuta dell'ordine pubblico, contestò alle autorità fasciste di Bologna i metodi della brigata di Franz Pagliani, per poi determinarne l'espulsione dalla città all'inizio del 1945. L'operazione militare più importante cui presero parte le brigate fu l'azione, portata a termine con successo di concerto con reparti della GNR e tedeschi, per la riconquista della Val d'Ossola e la distruzione dell'omonima repubblica partigiana. Mancò quasi sempre il contatto col nemico angloamericano, poiché l'impiego delle brigate fu costantemente ridotto alle retrovie del fronte, dove si svolsero i pochissimi episodi che le videro coinvolte al di fuori della guerra civile. La necessità per la RSI di mantenere l'ordine e riaffermare la sovranità sul territorio era imperativa anche per poter gestire le relazioni coi tedeschi, in maniera da cercare di riacquisire posizioni e contemporaneamente impedire che le autorità germaniche – con la scusa di dover assicurare le retrovie alle loro armate – scavalcassero le autorità fasciste. Nonostante tutti gli sforzi, questo obiettivo fu mancato, e il deflagrare sempre più duro della guerra civile, unito all'incapacità dei fascisti di mantenere autonomamente l'ordine pubblico e contrastare i partigiani, consentì ai tedeschi di erodere anche il poco potere che formalmente la RSI era riuscita a farsi lasciare. In questa guerra «a tre» i tedeschi mantennero un atteggiamento ambiguo, non esitando a sacrificare i fascisti nel nome del quieto vivere coi partigiani. In diversi casi i tedeschi offrirono ai comandi partigiani coi quali erano venuti in contatto "carta bianca" nelle azioni contro i fascisti, purché fossero risparmiati i reparti germanici. Nonostante molti dei comandanti partigiani abbiano rifiutato accordi simili, il clima di «odio contro i fascisti rispetto a quello contro i tedeschi» sembra prevalere nell'ambito delle motivazioni che spingevano i partigiani alla lotta. Questo genere di motivazioni erano prevalenti fra i partigiani di area azionista, mentre alcuni commissari comunisti vedevano comunque con preoccupazione la possibilità di un «offuscarsi del carattere nazionale della lotta». In altri casi si giunse a volte ad accordi locali, specialmente con elementi partigiani non azionisti o comunisti, per esempio le Fiamme Verdi, con scopi tattici oppure per raggiungere un modus vivendi di tipo patriottico o addirittura con temporanee alleanze «per la lotta alle bande estremiste e ai delinquenti comuni» presenti in ampie zone del Paese. Questi contatti ottenevano il risultato di provocare aspri contrasti dentro l'uno e l'altro schieramento: le formazioni partigiane si accusavano tra loro di intelligenza col nemico, e di sfruttare temporanee tregue coi nazifascisti a danno di reparti partigiani di diverso allineamento ideologico oppure di volersi conservare lasciando il grosso delle perdite ad altri, in attesa del momento buono per una resa dei conti. In particolare sono azionisti e comunisti che nelle loro denunce mostrano il timore di trame strette alle loro spalle fra partigiani "di centro e di destra" con i nazifascisti. Inoltre, i comunisti credevano che i partigiani autonomi, a causa dell'anticomunismo dei loro comandanti, potessero diventare gli equivalenti italiani dei cetnici, partigiani jugoslavi monarchici in duro contrasto con i partigiani comunisti di Tito. In non pochi casi fra reparti partigiani si consumarono scontri e vendette (uno dei più eclatanti dei quali fu quello della Malga Porzûs). Il problema della guerra civile fra italiani fu molto sentito da entrambe le fazioni in lotta: molti furono coloro i quali ebbero forti obiezioni di coscienza verso questo tipo di guerra, ma molti furono anche gli intransigenti. Inoltre, sebbene i comandi militari angloamericani non volessero affatto una crescita oltremisura del movimento partigiano ed un suo impegno militare al di là delle esigenze alleate (sostanzialmente: spionaggio e raccolta di informazioni; sabotaggio; messa in salvo di agenti, piloti abbattuti e fuggiaschi alleati), le radio di propaganda alleata (Radio Algeri, Radio Londra, Radio Milano Libertà, Radio Bari) incitavano apertamente all'omicidio nei confronti degli esponenti del fascismo repubblicano, lanciando avvertimenti intimidatori e diffondendo notizie circa domicilio, abitudini, frequentazioni ed eventuali coperture di questi, affinché si sentissero perennemente braccati.

Il più scottante dei problemi legati alla guerra civile in Italia è quello delle rappresaglie, delle loro cause e delle loro conseguenze. Fin dai primissimi episodi della guerra, le contrapposte fazioni definirono le rappresaglie attraverso schemi che – sopravvissuti al conflitto – hanno costituito la base della cosiddetta "vulgata resistenziale" e della tesi reducistica neofascista. Per la fazione resistenziale, le rappresaglie erano stragi che testimoniavano ad un tempo la rabbiosa impotenza degli occupanti nazisti e dei loro alleati fascisti e la loro costituzionale bestialità nei confronti di una popolazione che li odiava. Per la fazione neofascista, le rappresaglie erano scientificamente cercate dai partigiani del PCI, attraverso azioni ed attentati volti coscientemente a colpire gli elementi più moderati del Fascismo repubblicano e contemporaneamente a scatenare quelli più intransigenti e i tedeschi. Quest'ultima accusa è anche il principale sostegno della versione neofascista della tesi della "guerra civile". La storiografia scientifica moderna ha accolto e sintetizzato entrambe le tesi enucleando da un lato le motivazioni psicologiche delle azioni di rappresaglia – legate al nichilismo del Fascismo repubblicano[120], al "bisogno di vendetta" generalizzato, alla scarsa considerazione che godevano gli italiani di fronte ai tedeschi dopo l'8 settembre – ma anche riconoscendo la strategia perseguita dalle forze della Resistenza – soprattutto dai comunisti – volta all'innalzamento del livello di scontro, all'aperto coinvolgimento delle masse popolari, ad ottenere lo scollamento fra popolazione, fascisti e tedeschi. Non mancano peraltro sostenitori di quest'ultima tesi anche nella letteratura resistenziale. La posizione, circa il problema delle rappresaglie, del Comando militare per l'Alta Italia del CLN si trova esposta in un documento del febbraio 1944, dove era prescritto che «evitare o limitare i motivi di rappresaglia» andasse fatto «tutte le volte che fosse possibile», aggiungendo tuttavia che «la preoccupazione della rappresaglia non deve costituire un impedimento insuperabile all'azione e tanto meno rappresentare una mascheratura della non capacità e volontà di agire». Alcuni hanno evidenziato come per aumentare il clima di tensione e lo scollamento fra popolazione e fascismo repubblicano o per frustrare quei tentativi delle Propaganda Staffeln tedesche di fraternizzare con i civili italiani per disporli alla collaborazione, i comandi partigiani cercarono coscientemente di scatenare le rappresaglie nazifasciste. In questo quadro andrebbero inquadrati gli attentati di via Rasella a Roma e di piazzale Loreto a Milano, ma anche i giri di vite nei confronti di quei comandanti partigiani troppo rispettosi delle convenzioni di guerra. D'altro canto, gli stessi partigiani fecero uso della rappresaglia – anche se sotto forme differenti, per esempio nell'uccisione dei congiunti di aderenti alla RSI – e soprattutto della controrappresaglia, minacciando esplicitamente fucilazioni in varie proporzioni di prigionieri tedeschi o fascisti per ogni partigiano o patriota ucciso dalle forze dell'Asse.

Oltre alle unità regolari dell'Esercito della RSI ed alle Brigate Nere, operarono vari reparti speciali fascisti, spesso inizialmente costituitisi spontaneamente e poi inquadrati nelle forze armate di Salò. Queste formazioni, costituite in buona parte da delinquenti comuni, adottarono spesso metodi brutali durante operazioni di controinsurrezione, repressione, rappresaglia e controspionaggio. Tra le prime a formarsi, vi fu la banda dei federali Bardi e Pollastrini a Roma, i cui metodi grossolani e volgari scandalizzarono persino i tedeschi. Successivamente, sempre a Roma fu molto attiva la Banda Koch che contribuì a smantellare la struttura del Partito d'Azione nella capitale. La cosiddetta Banda Koch, guidata da Pietro Koch, personalità discussa inizialmente collegata con Bardi e Pollastrini, in seguito sotto la protezione del generale Kurt Mälzer, comandante militare della piazza, si distinse per i metodi violenti basati anche sulla tortura contro partigiani e antifascisti. Dopo la caduta di Roma Koch si trasferì a Milano e divenne l'uomo di fiducia del ministro dell'Interno Guido Buffarini Guidi, continuando la sua azione di repressione e partecipando alle lotte intestine tra i vari poteri e le varie polizie della Repubblica. In Toscana e nel Veneto fu attiva la Banda Carità, costituita come Reparto Servizi Speciali all'interno della 92ª Legione Camicie Nere, che si rese protagonista di gesti come l'Eccidio di Piazza Tasso. A Milano operò invece la Squadra d'azione Ettore Muti (poi Legione Autonoma Mobile Ettore Muti) agli ordini dell'ex caporale dell'esercito Francesco Colombo, già espulso dal PNF durante il ventennio per malversazioni. Ritenendolo pericoloso per l'ordine pubblico, nel novembre 1943 il federale Aldo Resega avrebbe voluto destituirlo, ma venne ucciso da un attacco dei GAP; Colombo rimase al suo posto, nonostante varie denunce e inchieste. Furono gli squadristi della Muti insieme a militi della GNR a compiere il 10 agosto 1944 la strage di Piazzale Loreto, di cui furono vittime quindici detenuti antifascisti, come rappresaglia per un assalto contro un camion tedesco. In seguito al massacro, lo stesso podestà e capo della provincia di Milano, Piero Parini, rassegnò le dimissioni nel tentativo di rinsaldare la coesione delle forze moderate, minata dalla durezza della repressione tedesca e delle varie milizie della Repubblica Sociale. Anche la catena di comando dell'Esercito Nazionale Repubblicano in primo luogo nella persona del maresciallo Graziani e in subordine dei suoi vice Mischi e Montagna contribuì alla repressione antipartigiana coordinando le azioni delle truppe regolari, della GNR, delle Brigate Nere e delle varie polizie semiufficiali di concerto con i tedeschi, cui vennero spesso fornite anche informazioni su persone e gruppi di resistenti poi utilizzate per rappresaglie; inoltre, di certo, contribuì a rendere tale Esercito uno strumento realmente operativo, grazie al famoso e draconiano Bando Graziani. Va detto comunque che Graziani almeno nominalmente fece sì che le forze armate della RSI fossero unitarie e apolitiche, dipendenti quindi non dal Partito Fascista Repubblicano ma dal comando supremo delle forze armate.

Nei primi mesi del 1945, comprendendo che la guerra era perduta, il comandante delle SS e delle forze di polizia tedesche in Italia (Höhere SS und Polizeiführer, HSSPF), il generale delle SS Karl Wolff, prese contatto con gli agenti segreti alleati in Svizzera. Nel tentativo di accattivarsi le simpatie alleate, ordinò diverse scarcerazioni di esponenti partigiani catturati (primo fra tutti, Ferruccio Parri) e quindi il 12 marzo 1945 impose alle truppe alle sue dipendenze la cessazione delle operazioni antipartigiane, eccetto l'autodifesa e il minimo indispensabile per salvare la «necessaria apparenza». Questo ordine fu reiterato il 26 aprile, il giorno seguente l'insurrezione. L'esercito clandestino, quindi, poté operare con tutta la sua forza contro i reparti fascisti repubblicani che, privi di ordini e disorientati si trovarono praticamente abbandonati dai tedeschi. Il 9 aprile 1945 gli Alleati scatenarono l'offensiva finale sulla Linea Verde. il 10 il PCI inviava una circolare ai comandi partigiani comunisti di tenersi pronti all'insurrezione in ogni caso. Il 19 l'intero CLNAI si accordava sull'insurrezione, proprio lo stesso giorno in cui le avanguardie alleate entravano a Bologna. Nel frattempo, Mussolini aveva abbandonato Gargnano e si era recato a Milano, dove sperava di poter prendere contatti sia con gli antifascisti del CLNAI, sia con eventuali agenti stranieri. Tramite di queste trattative era la curia del cardinal Ildefonso Schuster. Gli ultimi giorni della RSI si fanno convulsi, accavallandosi ordini contraddittori fra loro, mentre alcuni elementi – principalmente nella Guardia di Finanza del generale Diamanti – già erano segretamente passati col nemico. L'invasione alleata della Valle del Po dopo il 20 aprile si era fatta inarrestabile, e il 25, durante l'incontro con gli esponenti del CLNAI all'Arcivescovado, Mussolini dovette prendere atto che le promesse di Karl Wolff di resistenza ad oltranza erano false: i tedeschi non combattevano quasi più, ma si ritiravano, abbandonando frequentemente le forze fasciste come retroguardia, senza preavviso e prive di ordini. Negli ultimi giorni della RSI furono le Brigate Nere ad offrire una certa opposizione contro l'invasione alleata e l'insurrezione partigiana; circa 5.000 brigadisti neri costituirono il nerbo della cosiddetta "Colonna Pavolini", che, nell'intenzione del gerarca, avrebbe dovuto raggiungere la Valtellina per l'ultima resistenza. A Torino, in particolar modo, i franchi tiratori della Brigata Nera Ather Capelli si opposero alle forze partigiane fino alla fine di aprile 1945. In Romagna alcune Brigate Nere – durante la ritirata – impedirono ai tedeschi di operare distruzioni e rappresaglie. Infine, presso i pozzi di petrolio di Montechino, reparti delle BBNN combatterono assieme a quelli dell'ENR e della GNR per contenere l'avanzata delle forze americane. Alla Repubblica Sociale non restavano che pochi giorni, e Mussolini si agitava fra diverse opzioni. Contemporaneamente tentava di dare l'avvio alla socializzazione, per lasciare all'Italia un'eredità socialista (le "uova di drago"), anche come ultima vendetta contro le "plutocrazie". Sul piano militare, mentre Diamanti e Borghese proponevano di attendere l'inevitabile resa arma al piede, Pavolini e Costa continuarono a propugnare l'idea di un'estrema resistenza in Valtellina, mentre Graziani rimaneva ancora convinto che le truppe tedesche combattessero lealmente al fianco di quelle della RSI e rifiutava ogni ipotesi di accordo che avrebbe consentito per la seconda volta ai tedeschi di accusare l'Italia di tradimento. Dopo un inutile tentativo nel pomeriggio del 25 aprile di trattare con gli esponenti del CLNAI con la mediazione del cardinale Schuster e disorientato dalla scoperta delle trattative segrete di Wolff con gli angloamericani, Mussolini alle ore 20 dello stesso giorno decise di abbandonare Milano in direzione del lago di Como, per motivi ancora non chiari. Con la partenza del Duce, seguito da una lunga colonna di fascisti in armi e di gerarchi, le forze della Repubblica sociale a Milano si disgregarono. Nel frattempo, mentre si moltiplicano gli scontri a fuoco fra insorti e forze della RSI e tedesche, lo stesso 25 aprile Sandro Pertini proclamava alla radio lo sciopero generale insurrezionale della città di Milano.

Il crollo dell'autorità centrale, la successiva faticosa ripresa del governo regio al sud e di quello fascista repubblicano al nord provocarono un vuoto di potere del quale approfittarono individui e bande dediti al brigantaggio ed alla delinquenza. In tutto il Paese si assistette ad una recrudescenza dei fenomeni criminali, spesso favoriti anche dal torbido clima politico del periodo, con aderenze di volta in volta a questa o a quella fazione politica o potenza belligerante. «Rapina, tortura, saccheggio, linciaggio: concetti da cui era aliena ogni mente onesta [...] sono diventati il nostro pane spirituale quotidiano. [...] La cronaca nera è saltata dalla quarta pagina dei quotidiani alla prima.» L'impatto sulle popolazioni fu molto duro e in molte zone della RSI le autorità non riuscirono a far fronte al dilagare del banditismo, anche per la crisi nel controllo del territorio provocata dall'internamento di numerosi carabinieri (a causa della loro fedeltà monarchica) e dall'incompleta od inadeguata sostituzione coi militi della Guardia Nazionale Repubblicana. Addirittura in alcune zone la latitanza di ogni potere statuale e la presenza di episodi di banditismo e delinquenza spinse le popolazioni locali ad organizzare proprie ronde armate a difesa delle proprietà. In alcuni casi a commettere gesti di brigantaggio erano gli stessi elementi fascisti o partigiani (anche a viso aperto); vi furono episodi in cui uomini travestiti con uniformi finte compivano ruberie, sia per avvalersi della soggezione che la vista di una divisa provocava nel popolo, sia per creare un vero e proprio "danno d'immagine" al nemico, facendo cadere su di esso la colpa di furti, delinquenze e rapine. Inoltre per sua stessa natura la guerriglia partigiana aveva necessità di "autofinanziamento" e di conseguenza «le rapine alle banche, alle casse delle aziende e ai danni di ricchi proprietari e imprenditori [...] divennero pressoché una necessità alla quale tutte o quasi le formazioni finirono per far ricorso abbandonandosi (soprattutto quelle garibaldine) assai spesso a soprusi, imposizioni, grassazioni e violenze indiscriminate...». Per i partigiani si pose quindi ben presto il problema di distinguersi dai banditi comuni, poiché l'incertezza della «linea di demarcazione» tra partigianato e banditismo nuoceva fortemente all'immagine della Resistenza presso la popolazione. Su questo problema, Nuto Revelli scrisse: «Il fenomeno del banditismo si sta allargando. Ex militari sbandati della 4ª armata e delinquenti locali, mascherandosi alla partigiana, terrorizzano le popolazioni. Basta un cappello alpino, una giubba grigioverde, per confondere le acque. Tanti ne pescheremo, tanti ne fucileremo. Se vorremo evitare che i tedeschi e i fascisti facciano di ogni erba un fascio, speculandoci su per diffamarci, non dovremo perdonare.» Oltre a collaborare con i Carabinieri al servizio della RSI, i comandi partigiani adottarono misure rigorose per reprimere la delinquenza. In primo luogo, furono emarginate le formazioni che non riconoscevano l'autorità del CLN e del CVL, alle quali fu negata ogni legittimità. Fu inoltre previsto che chi avesse usato i buoni di prelevamento del CLN usurpandone il nome sarebbe stato giudicato da un tribunale popolare, mentre chi lo avesse fatto senza nemmeno servirsi del nome sarebbe stato fucilato. La severità di tali provvedimenti, testimoniata dalle numerose condanne alla pena di morte inflitte ai partigiani che si resero colpevoli di rapine e furti, era richiesta – come evidenzia Claudio Pavone – dalla «necessità di autolegittimazione senza ombre del movimento resistenziale». Situazione speculare quella venutasi a creare con i soprusi e le rapine commesse da tedeschi e fascisti, che spesso risultavano incontrollabili nonostante ogni sforzo e stigmatizzazione da parte del potere centrale. Schegge impazzite di entrambe le compagini si comportavano in maniera banditesca. Fra i tedeschi, inoltre, si segnalavano per particolare efferatezza quei reparti formati da elementi "ost" (tartari, russi bianchi e, in misura minore, cosacchi eccetera), che spesso si abbandonavano a violenze e stupri, e non di rado dovevano essere tenuti a bada con vero e proprio controterrorismo da parte delle autorità militari della RSI. D'altro canto gli stessi tedeschi non esitavano a passare per le armi quegli elementi italiani (guide, spie, delatori, informatori o collaborazionisti di vario genere, ma anche regolari) che approfittavano dei rastrellamenti per compiere grassazioni e rapine. Risulta difficile studiare il problema della criminalità comune nell'ambito della guerra civile, poiché le fonti primarie di parte fascista o tedesca (notiziari e relazioni delle questure, dei comandi GNR e del Ministero degli Interni) e i resoconti (diari di guerra, memoriali) sono viziate da un punto di vista politico, che tende a confondere indiscriminatamente partigiani, briganti, militi fascisti e grassatori. Inoltre la stessa natura della guerra intestina creava delle aderenze, scambi di ruolo, intelligenze fra fazioni, tali da rendere a volte impossibile discernere fra combattenti politici e semplici delinquenti o addirittura fra combattenti dell'una o dell'altra parte. Ne è esempio il caso del cosiddetto "Battaglione Davide", una formazione partigiana dedita al banditismo comune nella zona di Canelli, duramente contrastata dai rastrellamenti fascisti, che improvvisamente si mise a disposizione delle autorità, addirittura proponendosi come "battaglione bersaglieri". Dopo violenti screzi sia coi fascisti della Guardia Nazionale ("Davide" – al secolo Giovanni Ferrero – si definiva pubblicamente "antifascista" e "filotedesco" e i suoi uomini gridavano provocatoriamente «morte al Duce») che con altre bande partigiane dei dintorni, venne d'arbitrio prelevata in blocco dai nazisti per essere impiegata nelle SS e come guardia nella Risiera di San Sabba a Trieste. A Torino la GNR catturò una banda di delinquenti minorili che rapinava tabaccherie ed altri esercizi commerciali rilasciando dei "pagherò" con un falso timbro "Brigata Garibaldi". A Roma – durante l'occupazione tedesca – un gruppo di truffatori diffondeva false notizie circa "liste di proscrizione" tedesche e fasciste, estorcendo poi alle terrorizzate vittime denaro o beni coi quali, assicuravano, sarebbero riusciti a corrompere dei fidati funzionari per ottenere la cancellazione dei nomi dalle liste. Nel territorio del Regno proprio in questo periodo si assisté alla nascita del fenomeno del Bandito Giuliano, sul cui ruolo criminale o politico, le aderenze con l'occupante americano o addirittura con frange dei servizi segreti fascisti-repubblicani il dibattito storiografico è tuttora aperto. Sempre nel Regno con l'occupazione alleata e la drammatica situazione sociale ed economica favoriva la rinascita o la recrudescenza del fenomeno camorristico – in special modo a Napoli ed a Bari, dove la presenza di basi logistiche alleate era terreno fertile per i traffici del mercato nero e per la prostituzione, anche infantile. Anche al Sud dunque c'è stata una recrudescenza del banditismo (anche a carattere sociale e spinto dai motivi tradizionali della fame, della disperazione e del crollo di ogni riferimento statuale), della delinquenza comune e organizzata, della corruzione, corresponsabile la scarsa autorità esercitata dal Regio Governo. A partire dalla mattina del 26 aprile tutta la Valle del Po si trovò in insurrezione. I tedeschi oramai erano in ritirata sotto i bombardamenti dell'aeronautica alleata e le avanguardie americane oltre il Po a Guastalla e Borgoforte combattevano contro i reparti della divisione "Etna", contro il battaglione "Debiça" delle SS Italiane e contro il gruppo corazzato "Leonessa". Per le truppe della Repubblica Sociale restava ancora valido il piano Nebbia Artificiale, che nelle intenzioni di Kesselring e Vietinghoff avrebbe dovuto condurre ad una ritirata strategica dietro la linea Po-Ticino per una resistenza ad oltranza. In realtà già dal 20 i comandi germanici intendevano retrocedere fino all'Adige. Le forze della RSI erano a questo punto abbandonate: le divisioni tedesche dell'Armata Liguria sul fronte alpino (DXXV Armeekorps, generale Schlemmer) si stavano ritirando dal 23 verso la linea Po-Ticino, senza aver avvisato i reparti italiani delle divisioni "Littorio" e "Monterosa", che restarono da sole ad affrontare l'offensiva francese e gli attacchi partigiani. Le divisioni e i reparti schierati sul fronte meridionale (Savonese, Langhe e Garfagnana) invece restarono compatte, ed iniziano a ripiegare verso Ivrea, in lunghe colonne, soprattutto dopo lo sfondamento della Linea Verde a Massa, tenuta dalla malferma 148ª Divisione di fanteria tedesca.

A Genova il comandante della piazza, generale Meinhold, cercò di trattare, senza successo, con i partigiani della brigata garibaldina Pinan-Cichero appostati sulle montagne che dominano la città, mentre il capitano di vascello Bernighaus organizzava la distruzione del porto. Dopo violenti scontri al centro tra le squadre GAP e i garibaldini della brigata Balilla e i reparti tedeschi e fascisti, il generale Meinhold firmò la resa del presidio alle ore 19.30 del 25 aprile. Il capitano di vascello Berlinghaus ed il capitano Mario Arillo della Xª MAS continuarono tuttavia la resistenza, decisi a eseguire le distruzioni previste; dopo nuovi scontri con i partigiani della Cichero e della Mingo scesi in città la sera del 26 aprile anche gli ultimi reparti nazifascisti si arresero. I partigiani avevano salvato il porto dalla distruzione e catturato 6.000 prigionieri che furono consegnati agli alleati giunti il 27 aprile a Nervi.

A Torino, mentre alcune colonne nazifasciste si avviavano verso Ivrea, per attendere gli alleati e arrendersi, i reparti della RSI radunarono alcuni reparti e ingaggiarono aspri scontri coi partigiani che raggiunsero la città dalle montagne il 28 aprile. Le colonne militari tedesche riuscirono a ripiegare attraverso l'abitato. Quindi, mentre alcuni reparti della RSI abbandonavano il capoluogo piemontese per avviarsi nella Valtellina, il grosso dei fascisti torinesi rimasti in armi decideva di continuare a combattere. Le brigate Garibaldi di "Nanni", gli autonomi di "Mauri", i reparti "Giustizia e Libertà", liberarono gran parte della città dopo violenti combattimenti e salvaguardarono i ponti in attesa dell'arrivo degli alleati che giunsero a Torino il 1º maggio.

La sera del 25 aprile, Milano era ancora relativamente tranquilla, alcuni reparti fascisti decisi a combattere avevano abbandonato la città, mentre alcuni tedeschi restavano in armi nei loro quartieri, senza combattere secondo gli ordini di Wolff. La Brigata Nera "Aldo Resega" abbandonò le sue posizioni dentro la città, la Guardia Nazionale Repubblicana si sciolse spontanemente, mentre la Xª MAS, invece di ripiegare in Valtellina, rimase accasermata e si arrese senza combattere[160]. La Guardia di Finanza invece si unì agli insorti e, comandata da Alfredo Malgeri, occupò facilmente, nella notte tra il 25 e il 26, i principali punti nevralgici della città. Il 27 aprile, alle ore 17.30, arrivarono in città con poche difficoltà i partigiani garibaldini delle brigate di Cino Moscatelli, mentre altri reparti occuparono Busto Arsizio e le strade per la Valtellina su cui in teoria avrebbero dovuto ripiegare gli ultimi reparti della RSI.

La sera del 25 aprile Mussolini lasciò Milano seguito da una colonna di fascisti determinati a raggiungere la Valtellina. Dopo una tappa a Como e diversi, confusi spostamenti lungo la costa occidentale del lago, la colonna fascista alla quale si era unito un reparto di contraerea tedesco fu fermata dai partigiani. Mussolini venne arrestato e condotto – insieme alla sua amante Claretta Petacci – a Bonzanigo, frazione di Mezzegra, dove passò la notte fra il 27 e il 28. Il 28 aprile Mussolini e la Petacci furono uccisi dai partigiani, insieme a sedici fra gerarchi e membri della colonna fascista fucilati sul lungolago di Dongo. Sulle modalità dell'uccisione di Mussolini, su chi la ordinò e su chi materialmente la eseguì, ci sono ipotesi e interpretazioni controverse. In seguito, i diciotto cadaveri furono trasportati a Milano dove il 29, esposti a Piazzale Loreto (luogo di una precedente sanguinosa rappresaglia fascista), furono oltraggiati dalla folla. In quei giorni, i prigionieri di guerra della RSI, tra cui soldati, sostenitori e collaboratori a vari livelli, vennero internati, alcuni sino al dicembre del 1947, in vari campi di concentramento, siti a Pisa (Coltano), Rimini, Viareggio e altre località.

Alcuni storici che si sono occupati del fenomeno della guerra civile in Italia hanno preso in considerazione anche i fenomeni di violenze postbelliche, collocando il termine della guerra civile oltre la fine ufficiale della Seconda guerra mondiale in Europa. Pertanto, per costoro, non è facile identificare una vera e propria data finale del fenomeno, che tende a sfumare con il diradarsi delle violenze. Alcuni hanno proposto come data finale della guerra civile l'amnistia Togliatti del 22 giugno 1946. Immediatamente dopo che le forze della Resistenza partigiana riuscirono ad assumere il potere nelle città del nord, vennero istituiti tribunali improvvisati che, sulla base di giudizi sommari, comminarono condanne capitali ai fascisti catturati. Nei due mesi successivi all'insurrezione un numero notevole di persone fu sottoposto a processi popolari e giustiziato, a volte anche senza processo, per aver militato nella RSI, aver manifestato simpatie fasciste o aver collaborato con le autorità tedesche. Gli atti di giustizia sommaria nei confronti di fascisti e collaborazionisti, compiuti nei giorni immediatamente successivi al termine della guerra, furono localmente tollerati dai comandi alleati: «Fate pulizia per due, tre giorni, ma al terzo giorno non voglio più vedere morti per le strade». Le esecuzioni degli esponenti della Repubblica di Salò avvennero in fretta e con procedimenti sommari anche perché – constatato il mancato rinnovamento dei quadri del vecchio regime nell'Italia regia – i capi partigiani temevano che il passaggio definitivo dei poteri agli angloamericani ed il ritorno alla "legalità borghese" avrebbero impedito un'epurazione radicale. Questa volontà di accelerare i tempi trova testimonianza in una lettera in cui l'azionista Giorgio Agosti scrive al compagno di partito Dante Livio Bianco, comandante delle formazioni Giustizia e Libertà, che «occorre... prima dell'arrivo alleato, una San Bartolomeo di repubblichini che gli tolga la voglia di ricominciare per un bel numero di anni». Le condanne a morte per collaborazionismo in alcuni casi colpirono anche persone innocenti accusate senza prove, come nei casi degli attori Elio Marcuzzo (di fede antifascista) e Luisa Ferida. Nel clima di violenza insurrezionale si verificarono anche omicidi legati a fatti privati. Tra le vittime figurano infatti non solo personalità legate al PFR, appartenenti ai reparti armati della RSI (Brigate Nere, GNR, SS italiane,… ), delatori e collaborazionisti, ma anche funzionari e dipendenti pubblici, sacerdoti, appartenenti alla borghesia contrari al comunismo, semplici cittadini e addirittura aderenti alle organizzazioni partigiane (ad esempio Giorgio Morelli), vittime sia di radicali propugnatori della lotta di classe, ma anche di sconsiderati approfittatori e comuni criminali, che sfruttarono il momento di confusione per perseguire i propri scopi[167]. Il 24 giugno 1945, Ferruccio Parri stigmatizzò duramente questi episodi nel corso del primo radiomessaggio agli italiani tenuto dopo la sua nomina a capo del governo: «Ed ancora una parola per gli atti arbitrari di giustizia, quando non sono di vendetta, e per le esecuzioni illegali che turbano alcune città del Nord, ci compromettono con gli alleati ed offendono soprattutto il nostro spirito di giustizia. È un invito preciso che io vi formulo. Basta: e siano i partigiani autentici, diffamati da questi turbolenti venuti fuori dopo la vittoria, siano essi a cooperare per la difesa della legalità che la nostra stessa rivoluzione si è data.» Sulle dimensioni effettive delle violenze postbelliche si è sollevata un'aspra polemica in Italia fin dal dopoguerra. I due estremi parlano di 1.732 morti, secondo l'allora ministro Mario Scelba, e di trecentomila morti, secondo diverse fonti neofasciste. Studi scientifici più accurati e testimonianze hanno evidenziato cifre intermedie:

Guido Crainz, in base ad un'analisi delle varie fonti, tra cui i rapporti della polizia del 1946, indica come realistica la cifra di 9.364 uccisi o scomparsi "per cause politiche", aggiungendo poi – tuttavia – un lungo elenco di violenze ed uccisioni a carattere di vera e propria jacquerie, secondo l'autore solo debolmente collegate ai fatti della guerra civile, ma piuttosto legate ad una lunga tradizione di scontri sociali e di «durezza estrema, settaria», risalenti addirittura al secolo precedente, o al ritorno ad una ferocia ancestrale;

secondo lo studioso tedesco Hans Woller dell'Università di Monaco, le vittime furono 12.060 nel 1945 e 6.027 nel 1946;

in un articolo pubblicato nel 1997, il giornalista Silvio Bertoldi asserì di aver saputo da Ferruccio Parri (durante un colloquio con quest'ultimo avvenuto in epoca imprecisata) che le vittime fossero state circa 30.000;

il reduce della RSI Giorgio Pisanò giunse a stimare il numero dei morti fascisti, o presunti tali, in 48.000, comprendendo però nel computo anche le vittime dei massacri delle foibe in Istria e Dalmazia.

Il 24 giugno 1952, durante una discussione parlamentare relativa alla legge n. 645/52 (la quale, molti anni dopo, fu modificata dall'attuale Legge Mancino), l'onorevole Guglielmo Giannini rivelò di essere stato lui stesso, tramite il proprio giornale, a diffondere quella che egli definì «menzogna bene architettata» secondo cui i morti fascisti sarebbero stati trecentomila: «Fui io a diffondere la notizia dei 300 mila morti. Avevo lo stesso giornale che ho adesso (...) E diffusi la notizia di questi 300 mila morti, - fascisti o presunti tali-, con tutti gli effetti politici che una notizia di tale gravità poteva comportare (...). Questo può suggerire ironiche considerazioni sulla fortuna dei giornali che fino a quando pubblicano panzane trovano lettori a centinaia di migliaia e quando pubblicano invece la verità vedono calare il numero dei loro lettori».

Nel libro "Il triangolo della morte" gli autori Giorgio Pisanò e Paolo Pisanò riportano l'elenco nominativo di circa 4.500 vittime della frenesia giustizialista scatenatasi alla caduta del regime nazi-fascista nell'area compresa tra Bologna, Ferrara e Modena. Ma anche Torino (1.138), Cuneo (426), Genova (569), Savona (311), Imperia (274), Milano (610), Bergamo (247), Piacenza (250), Parma (206), Treviso (630), Udine (391), Asti (17), la Toscana (308) e il Lazio (136) ebbero le proprie vittime della cosiddetta resa dei conti. «Da parecchi giorni le esecuzioni capitali avvengono all’alba, lontano dagli sguardi dei curiosi. […] Nei primi giorni della liberazione dall’odiata espressione fascista repubblicana, il cuore sanguinante di chi era stato colpito negli affetti più cari ha chiesto altro sangue ed ha voluto vederlo scorrere. La cosa era spiegabile. Dopo 48 ore di reazione ho avuta l’impressione che la massa non volesse più il «pubblico spettacolo». […] E’ stato deciso allora che l’esecuzione capitale fosse compiuta lontano dagli occhi della folla». Da un documento del Ministero dell'Interno, non firmato, datato 4 novembre 1946 e che all'epoca non fu reso pubblico, risulta che «il numero delle persone uccise, perché politicamente compromesse, è di n. 8.197 mentre 1.167 sono state, per lo stesso motivo, prelevate e presumibilmente soppresse». Secondo Nazario Sauro Onofri, l'iniziativa di redigere tale statistica venne dall'allora ministro dell'Interno Alcide De Gasperi, il quale però non rese noti i risultati dell'inchiesta e non ne informò neppure gli altri membri del governo; non si conoscono i metodi attraverso cui il Ministero ottenne tali numeri totali.

Nel biennio 1943-1945, la natura di guerra civile del conflitto combattuto tra fascisti e antifascisti era riconosciuta in entrambi gli schieramenti (in campo antifascista soprattutto tra gli azionisti), ma dal dopoguerra la definizione di "guerra civile" fu gradualmente respinta dalla cultura antifascista, cosicché cadde quasi completamente in disuso. Salvo alcune eccezioni, rimase circoscritta alla pubblicistica neofascista fino agli anni ottanta, quando fu riproposta all'attenzione della storiografia accademica da Claudio Pavone in una serie di convegni. Dopo un intenso dibattito, lo stesso Pavone nel 1991 ne determinò una vasta diffusione con la sua opera più celebre: Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Tra gli studi successivi, dedicato a questa fase storica è anche l'ultimo volume della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice, intitolato La guerra civile 1943-1945. Alcuni degli storici che si sono occupati dell'argomento hanno esteso la loro ricerca alle conseguenze che la guerra civile ebbe nell'immediato dopoguerra.

La zona grigia. La categoria storiografica che va sotto il nome di "zona grigia" fu introdotta per la prima volta da Renzo De Felice ed è stata, nel tempo, oggetto di vari studi. Il termine "zona grigia" indica quella parte della popolazione italiana, maggioritaria, che assistette alla guerra civile senza prenderne parte, oscillando su posizioni di opportunismo e mantenendo un rigido atteggiamento attendista. Rifiutando di schierarsi costoro venivano visti da entrambi gli schieramenti come traditori. Il sentimento prevalente era quello di aspirazione alla pace. Gli attendisti detestavano i fascisti – considerati come causa prima del perdurare della guerra e dei sacrifici che essa comportava – e mal tolleravano i partigiani, a loro volta ritenuti causa delle rappresaglie, rastrellamenti e – in ultima analisi – del coinvolgimento delle popolazioni civili in una guerra che non era sentita come propria. Naturalmente le sfumature di comportamento delle popolazioni della "zona grigia" erano estremamente varie e la memorialistica e la letteratura di parte ha di volta in volta sottolineato la simpatia manifestata per i reparti e le istituzioni della RSI oppure la solidarietà verso la lotta partigiana, concretizzatasi anche nell'occultamento dei prigionieri alleati, dei piloti alleati abbattuti e degli ebrei nonché nel sostegno dato ai renitenti alla macchia e ai militari del Regio Esercito in clandestinità. Tuttavia le reazioni delle due fazioni in lotta nei confronti delle manifestazioni di simpatia per l'altra – reciprocamente considerate un "tradimento" – e che andavano da vendette (saccheggi, vandalismo sui beni e gli animali dei civili, cattura di ostaggi, violenze fisiche) a rappresaglie sanguinose, fino all'invocazione dei bombardamenti alleati su quei borghi che avessero accolto festosamente il passaggio di un reparto della RSI o l'abbruciamento di quei paesi che avessero appoggiato le formazioni partigiane, aumentarono il distacco delle popolazioni, tanto che con l'avvicinarsi della primavera 1945 la stanchezza e il rancore delle popolazioni verso i contendenti erano diffuse. Alcune frange fasciste tendevano ad enfatizzare l'isolamento in cui versavano, per alimentare il mito dei «pochi, ma sani». Un esempio è dato dalla protesta contro il giornale di Roberto Farinacci, che scrisse che al funerale di Igino Ghisellini aveva partecipato l'intera popolazione di Ferrara: «Anche sui giornali quotidiani è bene che il 'popolo bue' sappia che intorno alle bare dei fascisti, come ai tempi di Berta, non c'erano e non ci sono che i fascisti, soli con la loro inesauribile fede ed il loro grande amore di Patria. Neppure sui giornali vogliamo che il ricordo che noi abbiamo dei nostri martiri e dei nostri morti venga confuso con quello della 'popolazione tutta'. Ce ne freghiamo del consenso popolare, perché ormai sappiamo che questo non può assolutamente esistere là dove si chiedono sacrifici per la salvezza della Patria.» La stanchezza e il disimpegno delle popolazioni civili non fu però un fenomeno solo registrato nelle regioni coinvolte direttamente dalla guerra civile, ma riguardò l'intero Paese, con il rifiuto del richiamo di leva, con una renitenza diffusa e malamente repressa dagli organi centrali dello Stato regio. Fra i motivi di questo scollamento di parte della popolazione dalla politica e dall'impegno vi è la percezione del peso dell'impegno dell'Italia regia nella lotta all'Asse come insignificante (e dunque un'ulteriore inutile sofferenza per le popolazioni costrette a sostenerlo), l'epurazione delle classi dirigenti fasciste[189], vista a seconda del punto di vista come troppo leggera, oppure come un'ingiusta persecuzione perpetrata in un Paese dove pressoché tutti potevano essere considerati ex fascisti, il diffondersi della miseria e della fame, appena ostacolata dalle elargizioni alleate (considerate come un'elemosina) e del mercato nero (ampiamente tollerato dalle autorità d'occupazione se non addirittura gestito dall'Allied Military Government). È nel 1944 che nasce appunto a Roma il Fronte dell'Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, reazione politica all'autolegittimazione dei partiti del CLN. Nonostante anche altri paesi europei come la Norvegia, i Paesi Bassi e la Francia avessero governi collaborazionisti, in nessuno di essi l'estensione del confronto armato tra compatrioti raggiunse l'intensità toccata in Italia. Lo studioso di relazioni internazionali Luigi Bonanate ha individuato proprio nella guerra civile le cause di quella che definisce l'«eccezione italiana»: «Perché il caso italiano sfugge a ogni regola? Si considerino i casi di tre diversi paesi, Francia, Germania e Italia, e li si confrontino con le tre possibili forme di guerra che uno stato può conoscere: guerra internazionale, guerra partigiana (o di liberazione), guerra civile (che potremo considerare come tre cerchi concentrici). Ebbene, la Germania ha sperimentato esclusivamente la prima; la Francia ha conosciuto le prime due e non la terza; l'Italia tutte e tre. L'intensità della violenza nei tre casi è crescente e progressiva, fino a toccare il massimo nell'ultimo: la Germania è stata schiacciata e disgregata, ma la sua guerra è stata una sola; in Francia si è svolta, come in Italia, una fase di resistenza e poi di guerra di liberazione contro l'occupante, ma come è noto le dimensioni del movimento partigiano vi furono ben più limitate che non in Italia, la quale oltre ad avere partecipato – per così dire – a una doppia guerra internazionale (quella nazifascista a cui poi seguì quella con gli alleati occidentali), ne ha combattuta un'altra, condotta dal CLN e mirante a ricacciare i tedeschi fuori dal Paese (come la Francia), e poi ancora una terza, la più tragica e lacerante – la guerra civile – tra fascisti e antifascisti.» Scrive “La Storia siamo Noi". Fascisti e antifascisti, la Repubblica sociale italiana e la Resistenza, le rappresaglie, la difesa della patria: quale? Italiani contro italiani. I 600 giorni della Repubblica di Salò. “Il 4 luglio 1943 – ricorda Leone Cattani – a Milano in via Poerio in un villino del professor Rolier (un valoroso partigiano), avvenne la riunione decisiva fra tutti i partiti antifascisti. Vi parteciparono Concetto Marchesi per il Partito Comunista, Riccardo Lombardi per il Partito d’Azione, l’avvocato Veratti per il Partito Socialista, Pietro Mentasti in sostituzione di Gronchi per la Democrazia Cristiana e io per i liberali. Assisteva alla riunione anche Lelio Basso del Movimento di Unità Proletaria. Da quella riunione, in cui finalmente si raggiunse l’accordo fra le coalizioni di Roma e di Milano, nacque l’unità dei partiti antifascisti”. Nel luglio del 1943, lo sbarco in Sicilia degli Alleati trasferisce la guerra sul territorio italiano. Nessuno dubita più della sconfitta, dinanzi alla avanzata dal Sud di quel potentissimo esercito. Anche il gruppo dirigente fascista ne è consapevole e nella notte fra il 24 e il 25 luglio, il Gran Consiglio vota contro Mussolini. A sua volta il re cerca di padroneggiare la situazione, facendo arrestare Mussolini a villa Savoia e affidando il governo al generale Badoglio. Si decide cioè a compiere un gesto, che fin dal 1924 i deputati aventiniani si aspettavano da lui dopo il delitto Matteotti e che avrebbe potuto evitare il fascismo e forse la guerra. Dopo il colpo di Stato gli italiani si aspettano la fine delle ostilità, ma la voce di Pietro Badoglio, alla radio, pronuncia la famosa frase: “la guerra continua”. Tuttavia il 26 luglio l’Italia è in festa. Il fascismo è caduto dopo vent’anni di dittatura, dopo una guerra rovinosa e impopolare. Durante i 45 giorni di Badoglio non si può dire che sia tornata la libertà; la censura sulla stampa continua e le riunioni dei partiti sono ufficialmente vietate. I gruppi politici però non rimangono inattivi. Continuano a riunirsi e a chiedere al governo di agire. E finalmente, dopo difficili trattative, tentate e avanzate all’indomani della caduta di Mussolini, alle 19,30 dell’8 settembre, Badoglio comunica che l’armistizio con gli eserciti alleati è stato firmato. Meno di otto ore dopo, all’alba del 9 settembre, la famiglia reale e Badoglio lasciano Roma diretti a Pescara e poi a Brindisi. Allora tutti i partiti antifascisti si uniscono nel Comitato di Liberazione Nazionale, che chiama gli italiani “alla lotta e alla resistenza”. Il 9 settembre, a Roma, esercito e popolo, si uniscono nella battaglia di Porta San Paolo. Il 12 settembre Mussolini, dopo la liberazione dal Gran Sasso ad opera di un reparto di paracadutisti tedeschi, viene portato a Monaco di Baviera, dove riceve da Hitler l’invito a ricostituire un governo fascista. È un uomo stanco, che si avvia verso i suoi 600 giorni. Il 18 settembre, da radio Monaco, egli si rivolge agli italiani: “Italiani e italiane, dopo un lungo silenzio ecco che nuovamente vi giunge la mia voce e sono sicuro che voi la riconoscete. È la voce che vi ha chiamato a raccolta in momenti difficili, che ha celebrato con voi le giornate trionfali della Patria. Ho tardato qualche giorno prima di indirizzarmi a voi perché dopo un periodo di isolamento morale era necessario che riprendessi contatto col mondo”. Il 23 settembre torna in Italia per stabilirsi alla Rocca delle Caminate, in provincia di Forlì (la sua dimora privata di un tempo), dove s’incontra con l’ambasciatore tedesco Rahn, e quattro giorni dopo presiede il primo Consiglio dei ministri per nominare i responsabili del nuovo governo repubblicano fascista. Ai primi di novembre la sede del governo viene stabilita a Salò, sul lago di Garda. Il 14 novembre, con il Congresso di Verona e l’approvazione della “carta sociale” nasce ufficialmente la Repubblica Sociale Italiana. Gli italiani che aderiscono alla nuova Repubblica fascista sono chiamati “repubblichini” dai partigiani, che la ritengono uno Stato fantoccio manovrato dalla Germania nazista. Gli italiani, fascisti e partigiani, si scontrano fino alla primavera del 1945 gli uni contro gli altri, ognuno con la propria idea di patria. Un conflitto rimasto insanato che ha segnato la storia politica italiana del Novecento.

Fascismo di Salò, più nero che grigio. Un libro dell’autore Carlo Greppi (Feltrinelli) ricostruisce i gravi delitti compiuti a Torino dai repubblichini della Rsi. É tuttavia criticabile il proposito dell’autore di non giudicare, scrive Corrado Stajano il 4 maggio 2016 su "Il Corriere della Sera”. L’argomento di grande rilievo e poco discusso di questo libro affronta il problema dei tanti, forse dei più, che nei momenti più difficili della vita e della storia, quelli delle scelte, decidono di stare alla finestra e aspettano in attesa di quel che succede, di come va a finire. L’ha scritto un giovane storico, Carlo Greppi: Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile (Feltrinelli). Il tempo è quello dei 600 giorni della Repubblica di Salò, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, il teatro, senza ombra di finzione, è Torino, il luogo è la caserma Lamarmora di via Asti, ai piedi della collina, sede dell’Upi, l’Ufficio politico investigativo della Gnr, la Guardia nazionale repubblicana, una delle formazioni fasciste, dove si tortura e si uccide, dove le nequizie, le indescrivibili violenze, le vendette sono di casa. Protagonisti, con il maggiore Gastone Serloreti, il comandante, sono un’infinità di personaggi, tra gli altri il federale Giuseppe Solaro, il colonnello Giovanni Cabras, don Edmondo De Amicis, un prete torturatore, nipote dello scrittore di Cuore, «Kappa Nove», pittoresca spia, cacciatore di uomini, doppiogiochista, infiltrato nelle bande partigiane e, soprattutto, un brigadiere, Antonio M. al quale l’autore affida un ruolo importante, a significare il destino, difficile da decifrare, di un piccolo uomo in un mondo più grande di lui. Nel suo libro sofferente, I sommersi e i salvati, citato anche dall’autore, Primo Levi scrisse della «zona grigia dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi. Possiede una struttura interna incredibilmente complicata, ed alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare». Questo libro ha anch’esso qualche «zona grigia». «Non sta a me», scrive l’autore, «dire quanto il campione di vicende umane presente in queste pagine sia rappresentativo del grigio, ma penso che la mia generazione debba saper guardare alle catene dei vinti». I campioni servono ai sondaggi, non alla Storia. Se ne potrebbero però citare forse altri, di campioni di quel tempo, i 600 mila ufficiali e soldati italiani internati nei lager in Germania che dissero no alle lusinghe dei repubblichini: era sufficiente una firma per tornare in patria. Preferirono la fame, il freddo, la violenza nazifascista. Se si vuol credere ai sondaggi esiste la memoria di tante altre scelte: Nuto Revelli, alpino della divisione Tridentina, già a Nikolaevka, durante la ritirata di Russia, giurò a se stesso che avrebbe smesso per sempre la sua divisa da ufficiale di carriera e avrebbe combattuto — ciò che da partigiano farà valorosamente — contro i nazisti visti nel loro furore assassino da signori della guerra. E non ebbero dubbi i 12 della Banda Italia libera di «Giustizia e Libertà», uomini di ogni professione, che subito dopo l’armistizio lasciarono Cuneo per Madonna del Colletto e combatterono per due anni partigiani in montagna. Quel che accadde tra i muri della caserma di via Asti è talmente vergognoso, contro ogni dignità umana, come a villa Triste a Milano, come in via Tasso a Roma, da non meritare alcuna forma di dubbio giustificazionista. Uomini in grigio è un libro cupo, oscuro, che dà angoscia perché incarna il sottosuolo dell’animo umano. Fa capire, anche se non è questo il suo intento, come lo stare alla finestra in quei momenti tragici della vita sia, al di là della paura e del coraggio, il simbolo del «particulare mio», della cancellazione delle idee, dei sentimenti, della coscienza. Scrive Carlo Greppi che la «“zona grigia” non è una categoria da celebrare e deprecare, dal momento che lo storico non deve giudicare, ma provare a raccontare e raccontando a interpretare, rispondere ad alcuni interrogativi, o ammettere — quando è il caso — la sua inadeguatezza». È imbarazzante questo giudizio se si pensa agli storici che proprio a Torino — Bobbio, Quazza, Venturi — non hanno fatto altro: il diritto/dovere dello storico è proprio quello di giudicare. E la sentenza su quel che fecero i repubblichini è della Storia, non soltanto della giustizia che fu manchevole. Il maggior merito del libro di Carlo Greppi è la sua straordinaria documentazione: verbali, rapporti, istruttorie, inchieste, libri introvabili, memorie, testimonianze, ricerche faticate. Un archivio prezioso che, purtroppo, non riesce a diventare una narrazione. L’io che dovrebbe servir da guida è flebile e non serve a comporre i molti frammenti. Uomini in grigio manca di un’organica struttura, prevale il disordine, le storie si aggrovigliano, così come vengono presentate, e confondono il lettore. Occorre sottolineare anche la non esemplare e precaria cura editoriale in una materia che spesso si fa informe e lo si può verificare anche dal difficile indice. Restano nella mente i protagonisti e i gregari, uomini neri su uno sfondo sanguinante, i carnefici, i doppiogiochisti, gli intriganti, i filibustieri, gli infami e i deboli, i colonnelli, gli agenti segreti, i piantoni, i profittatori, le spie. E con loro le vittime, gli eroi, coloro che seppero resistere, le mogli piangenti, le figlie doloranti. Il brigadiere Antonio M. fu soltanto l’incolpevole autista del comandante o fu invece uno zelante collaboratore degli assassini? Fu responsabile dell’arresto di due capi partigiani, Carlo Pizzorno, poi fucilato, e Pierino Cerrato, deportato in un lager, o salvò veramente alcune vittime dell’Upi? (Dopo la Liberazione fu condannato a 10 anni di reclusione, ma a raccontare la sua storia, tra verità e menzogna, bisognerebbe forse risuscitare un grande scrittore del Novecento, uno come Mario Soldati). La caserma di via Asti fu un pentolone ribollente dove la vita e la morte furono in quei due anni separate da un macabro filo sottile. Là dentro, con i carnefici, entrarono le vittime e molte non uscirono più da quelle muraglie e, con loro, altri che cercavano di salvare esistenze in pericolo, Vittorio Valletta, l’amministratore delegato della Fiat di allora, per perorare la causa e la sorte di Aurelio Peccei, dirigente dell’azienda, dal futuro illustre, uomo della Resistenza, prigioniero per quasi un anno, a un passo dall’esecuzione. E poi Mario Dal Fiume, avvocato di fiducia della Fiat, che per denaro trattò anche con successo, per la libertà di alcuni, impigliato in storie non limpide, dopo il 25 aprile finì in carcere. E il giovane Benito Bolognese, detto Balilla, agente della Polizia del popolo, arrestato dalla Gnr che misteriosamente entrava e usciva dalla caserma, anche per andare al cinema. I più dei responsabili di quel che successe in via Asti, non certo uomini alla finestra, se la cavarono in fretta. Per la clemenza dei presidenti delle Corti d’Assise straordinarie presiedute da magistrati cresciuti nel clima del fascismo, per l’amnistia del guardasigilli Togliatti del 22 giugno 1946, per la memoria collettiva via via sempre più labile che scordò i fucilati del Martinetto, i partigiani impiccati agli alberi di corso Vinzaglio lasciati appesi per molte ore, e per le tante iniquità commesse dai fascisti nei 600 giorni di Salò. Per dare solennità simbolica all’evento, il 25 aprile 1945, la Giunta regionale del governo del Piemonte decretò che la morte del federale di Torino Giuseppe Solaro e del colonnello Giovanni Cabras, comandante della caserma di via Asti, «condannati dal tribunale di guerra, responsabili di crimini nefandi che hanno profondamente commosso la coscienza popolare», avvenisse mediante capestro.

Fascismo e «zona grigia»: lo storico racconta fatti, non scrive sentenze. L’autore del libro Uomini in grigio (Feltrinelli), riguardante il tragico periodo 1943-45, interviene sull’articolo che Corrado Stajano ha dedicato sul «Corriere» al suo lavoro, scrive Carlo Greppi il 10 maggio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Nascita di una formazione partigiana l’ho visto per la prima volta con un gruppo di studenti che avrei accompagnato sui luoghi della memoria del cuneese. È un film del 1973, e racconta la vicenda – che non esiterei a definire eroica – di un pugno di uomini che il 12 settembre del 1943, quattro giorni dopo l’annuncio dell’armistizio che diede il via all’occupazione nazista e alla guerra civile, si ritrovò alla cappella-santuario di Madonna del Colletto, in Piemonte. Erano dodici, e diversi mesi dopo sarebbero stati raggiunti da Nuto Revelli, un ufficiale di carriera reduce dalla campagna di Russia, e che laggiù aveva iniziato a maturare la decisione che lo avrebbe reso un pilastro dell’Italia del dopoguerra: la scelta partigiana.

Il film, che narra uno dei primi embrioni della lotta di liberazione, la storia di alcuni tra quelli che presero quella strada con convinzione, è un visionario ibrido tra «docu» e fiction, ed è tra i primi passi di un autore che avrebbe contribuito a costruire, nella sua vita, il pantheon su cui si radica la storia democratica del nostro paese: insieme a Ermanno Olmi, lo firma Corrado Stajano. Per questo quando ho saputo che proprio Stajano aveva dedicato un lungo articolo sul «Corriere della Sera» al mio libro Uomini in grigio. Storie di gente comune nell’Italia della guerra civile (Feltrinelli), ho provato un’emozione difficile da restituire. La lettura del pezzo, tuttavia, ha suscitato in me reazioni contraddittorie, che vorrei esplicitare. Non posso che essere d’accordo con il titolo (Salò, più nera che grigia) e con le considerazioni sui carnefici, i responsabili dei luoghi dove la vita e la morte erano «separate da un macabro filo sottile», come la caserma Lamarmora di via Asti, a Torino, sede dell’Ufficio politico investigativo (Upi) della Guardia nazionale repubblicana di Salò e «scena» principale del libro. Un luogo denso di grigio, ma dove allo stesso tempo non mancava certamente il «nero» più scuro degli esecutori, appunto, che prende la fisionomia del maggiore Gastone Serloreti dell’Upi e del federale Giuseppe Solaro che – come scrivo – furono senza dubbio «tridimensionali nella loro spietatezza». È evidente che le tinte nette, nell’Italia occupata di allora, ci furono eccome, e ce le hanno raccontate innanzitutto i protagonisti – come lo stesso Nuto Revelli citato da Stajano – e poi grandi storici delle generazioni che precedono la mia (da Pavone a Ganapini e Gagliani, da De Luna a Peli), sottolineandone costantemente la eccezionalità in un contesto sovente imperscrutabile, spaventato, oscillante. Ed è noto che – Stajano lo ricorda – anche Oltralpe, lontani dalla guerra civile, seicentomila internati militari seppero dire «no», preferendo la prigionia a un compromissorio ritorno a casa, ma furono un numero consistente anche i «sì» che andarono a ingrossare le fila della Rsi, quell’universo senza scrupoli sul quale il mio giudizio non può che rimanere saldo. Ma, come sintetizza l’articolo, il libro affronta un tema a lungo inesplorato, «il problema dei tanti, forse dei più, che nei momenti più difficili della vita e della storia, quelli delle scelte, decidono di stare alla finestra e aspettano in attesa di quel che succede, di come va a finire». O almeno ci provano. Quegli uomini che da vari angoli dell’Europa insanguinata dai fascismi si trovarono a orbitare, volontariamente o per casualità, sulle scene che ho ricostruito, erano per la maggior parte coloro che provarono ad aspettare che «passasse la nuttata», che misero in atto strategie di sopravvivenza, schiacciati tra il consenso e la paura, tra il coraggio e la vergogna di vivere tempi che sarebbero stati giudicati. Ho provato a mettere in primo piano la complessità dei comportamenti che si rivela – come ha scritto Simonetta Fiori su «Repubblica» – «un’oscillazione costante, una gamma di sfumature emotive troppo ricca per poter essere racchiusa nello stigma del disprezzo». Il giudizio, per quanto sommario e imperfetto, nell’immediato dopoguerra, in molti casi arrivò. E ho raccontato anche queste «scene» che riempirono le aule giudiziarie del nostro paese, in cui si fecero i conti con il recente passato e – di nuovo – affiorarono ampi sprazzi di grigio. Non credo che il «diritto/dovere» dello storico sia quello di giudicare, come sostiene Stajano: scavare negli atteggiamenti complessi non significa produrre altre sentenze, ma tentare di formulare domande e dei percorsi per arrivare ad alcune risposte, o a ulteriori domande. Saranno naturalmente altri – non io – a dire se ci sono riuscito, del tutto o in parte. Sono stato guidato dall’intenzione di restituire concretezza – storiografica, antropologica, umana – a questi «uomini in grigio», di prelevarli dall’anonimato e farli rivivere sulla pagina, orchestrando la polifonia di vicende di persone ordinarie che si sfiorarono, si denunciarono o si aiutarono, in un impianto narrativo che vuole raccontare quel groviglio di scelte e destini anche a chi non si occupa di storia di mestiere. È questa una delle ragioni per cui il volume è senza note (ma ha un’ampia sezione di credits) ed è provvisto di un indice dei nomi e delle storie, risultato di questo approccio non convenzionale. Queste scelte narrative e «di montaggio» sono, naturalmente, la strada che ho deciso di percorrere, a tutti gli effetti parte di ogni ricerca e della sua divulgazione: la speranza è che il dibattito sul come si racconta la storia prosegua anche grazie a questo libro. Sono per contro d’accordo senza alcuna riserva con un’altra sentenza di Stajano: «Quel che accadde tra i muri della caserma di via Asti è talmente vergognoso, contro ogni dignità umana, come a villa Triste a Milano, come in via Tasso a Roma, da non meritare alcuna forma di dubbio giustificazionista». Proprio perché è imperdonabile abbiamo il dovere, credo, di capire come accadde, di studiarne la materia umana. Ed è questo l’unico accostamento che mi permetto di fare tra Uomini in grigio e I sommersi e i salvati di Primo Levi: in maniera del tutto incomparabile, anche il mio è un «libro sofferente». Perché il mio cuore e la mia testa stanno e sono sempre stati dalla parte di chi seppe scegliere il coraggio, perché mi tremano le ossa a rendermi conto che non molti anni fa, nelle strade che calpesto ogni giorno, la gente camminava a testa bassa: non poteva – non riusciva – a fidarsi di nessuno. Perché, per riprendere ancora Levi, quella zona «alberga in sé quanto basta per confondere il nostro bisogno di giudicare» ed è indispensabile conoscerla «se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare». Io che sono cresciuto nel tempo di pace, che mi sono commosso e mi commuovo a leggere le ultime lettere dei condannati a morte della Resistenza, che ho l’immeritata sorte di venire da una famiglia che scelse il partigianato, io non lo so, se avrei avuto il coraggio di fare la scelta giusta, non so se avrei avuto la perseveranza necessaria per rinnovarla – come seppero fare poche, davvero poche persone. Non lo so, e invidio chi ha la fortuna di saperlo.

La Repubblica di Salò. La nascita del fascismo clandestino, scrive Enzo Sardellaro su "Tutto Storia". La testimonianza di due combattenti della RSI. Uno degli aspetti sicuramente più interessanti sotto l'aspetto storiografico della formazione della RSI sulla costa occidentale del Garda fu una inopinata “ripresa” del fascismo dopo l'8 settembre del 1943. Poiché il fenomeno era presente un po' dappertutto sul territorio nazionale, soprattutto in quelle zone ormai nelle mani degli alleati, è evidente che la “ripresa” avvenne con tecniche surrettizie e direi quasi da società segreta. In particolare il fascismo clandestino si manifestò con la pubblicazione di giornali o di volantini, ma talvolta tendeva a concretizzarsi in azioni militari, che vennero esaltate dalla stampa legata alla Repubblica di Salò, senza però fossero per ovvie ragioni date indicazioni precise sui nomi di coloro che dietro le linee degli alleati operavano con azioni di sabotaggio. Il fenomeno del cosiddetto “fascismo clandestino” ebbe ampiezza piuttosto larga sul territorio nazionale, ma dar ragione di tutto il movimento della “rinascita neofascista” richiederebbe spazi che vanno al di là di questa breve nota. Soffermandoci sugli episodi più macroscopici, ricorderemo che quelli più significativi, che spesso sfociarono in processi tenuti dai tribunali militari alleati, si ebbero per esempio in Sicilia, ove agiva un gruppo che non si limitava alla sola propaganda, ma che agiva con azioni di carattere militare, che furono interpretate dagli alleati come una gravissima minaccia dell'incolumità delle truppe americane, e che vennero stroncate con una notevole durezza, come nel caso della condanna a morte decretata nei confronti di Salvatore Bramonte, le cui azioni di sabotaggio si dispiegarono tra Vittoria e Gela in Sicilia. Molto forte fu il movimento clandestino fascista anche in Sardegna: qui gli aderenti ai gruppi del neofascismo, tra i quali massiccia era la presenza di militari, furono alla fine catturati, ma condannati a pene molto blande, o addirittura mandati assolti. Sul continente, un gruppo clandestino di una certa rilevanza fu quello guidato e fondato dal prìncipe Pignatelli, che battezzò la propria organizzazione clandestina «Guardie ai Labari», che aveva la funzione di agire alle spalle degli alleati con azioni di disturbo. Intorno al 1944 anche l'organizzazione del Pignatelli venne individuata e molti componenti di essa furono arrestati e messi sotto processo, Il gruppo di Pignatelli, del quale si contarono alcuni attentati contro le truppe alleate, si distinse anche per i suoi tentativi di stabilire contatti con la RSI, fornendo informazioni di carattere militare. La cattura avvenuta nel 1944 non si risolse con condanne a morte, ma con pene detentive che andarono da un massimo di dieci anni di reclusione a un minimo di due, con varie assoluzioni per insufficienza di prove. La pena detentiva più severa venne comminata al prìncipe Pignatelli, condannato a dodici anni di reclusione, mentre la pubblica accusa ne aveva richiesti diciotto. Nel caso della rinascita neofascista a Roma, allorché venne presa dagli alleati, il “fascismo clandestino”, più che con atti di sabotaggio si mise in evidenza per atti di spionaggio e per i contatti con la RSI. Alla cattura di numerose spie seguì l'ipotesi che dietro le linee alleate agisse una sorta di “quinta colonna” sulla cui consistenza numerica è difficile dire, ma che certamente si rivelò efficace a livello propagandistico, cercando di seminare lo scontento tra la popolazione, spesso soggetta a requisizioni e al carovita, come testimonia l'articolo del Barbagallo sull'Avanti del novembre 1944, dal titolo emblematico: “Neofascismo”. Il revival neofascista comunque preoccupò notevolmente le forze politiche in campo, anche perché, effettivamente, accanto a gruppi che agivano più che altro come una rete di informazioni per la RSI, in Campania furono paracadutati numerosi elementi della X MAS guidati da Luigi Locatelli, i quali agivano sul territorio con caratteri tipicamente militari, tanto che, alla loro cattura, gli aderenti rischiarono la pena di morte. Il processo comunque andò per le lunghe perché gli atti furono poi trasferiti al Tribunale Militare di Milano, in quanto il giudice aveva dichiarato la propria incompetenza per vari fatti ascritti a molti imputati. Quale fu l'importanza del fascismo clandestino nell'Italia 1943-1945? Esso ebbe indubbiamente un valore indiscutibile nel ridare vigore e fiato alla RSI, con la quale tutti i gruppi menzionati tentarono con alterna fortuna di entrare in contatto. Il problema, umano e storiografico, nato in quegli anni e mai in fondo definitivamente “risolto” sta tutto nel chiarire il senso della vera e propria guerra civile che si scatenò in Italia tra i gruppi partigiani e coloro che aderirono alla Repubblica di Salò; cosa che scatenò, all'interno di un conflitto tra i più cruenti nella storia del mondo contemporaneo, quello che Pavone definì “ un supplemento d'odio” che comportò una lotta terribilmente cruenta e ricolma di episodi, da una parte e dall'altra, di inenarrabile crudeltà tra gli italiani divisi tra le due opposte sponde, con “reciproche denunce di aver dato avvio alla lotta fratricida”. Ricostruendo, sia pure per sommi capi, quelle tragiche vicende, si ricorda brevemente che verso la fine del 1943 fu bandita dalla repubblica di Salò la leva per i nati fra il '24 e il '25. Si trattò di una chiamata che non ebbe una risposta massiccia; gli studi mettono in vista che solo un 40 per cento dei giovani si presentò ai rispettivi distretti militari. In sostanza l'esercito di Salò poteva contare effettivamente sui 200.000 uomini circa, oltre ovviamente su qualche migliaio di soldati raggruppati in formazioni minori, delle quali sicuramente la più famosa era costituita dalla X flottiglia MAS. La storiografia più seria e avvertita ha comunque alla fine stabilito alcuni dati di fondo inoppugnabili e non smentibili: qualunque ne fossero le ragioni, molti giovani aderirono con passione alla Repubblica di Salò, e le testimonianze in nostro possesso ne danno prova sicura. Si riportano sotto le lettere di due giovani combattenti della RSI, tratte da un testo pubblicato nel 1975, a cura dell'Associazione Nazionale delle famiglie dei caduti e dispersi della RSI. Si tratta delle testimonianze di giovani che indubbiamente erano in buona fede; e del resto, se a distanza di oltre mezzo secolo siamo ancora qui a indagare e a discutere intorno a quei lontani anni e alle responsabilità che ebbero quegli uomini, possiamo con onestà intellettuale dare credito alle parole di quei giovani di circa vent'anni che, vissuti tutti dentro il Regime, si trovarono a operare scelte personali che, forse, avrebbero messo in difficoltà anche soggetti molto più navigati e scaltriti dall'esperienza della vita e degli uomini. Le parole più sobrie in questo senso le ha dette, ancora agli inizi degli anni '70 Guido Quazza, il quale, cercando di fare un po' il punto sulla storia della Resistenza in Italia, scrisse che per giungere a delle conclusioni che abbiano il sapore della verità e della fondatezza "... è importante ... capire il come e il quanto del consenso dei giovani – un certo settore dei giovani -al regime, dell'influenza esercitata dal tessuto di 'massa' teso dal partito fascista e dalle sue organizzazioni collaterali nei più riposti angoli della vita del Paese, delle conseguenze sulle generazioni nate in periodo fascista grazie a un partito che sapeva – giungere al singolo attraverso un'articolazione capillare del potere fascista nella società..." (3). Alla luce di queste sapienti parole di Quazza, si possono ora leggere le due testimonianze; la prima lettera, sincera e toccante, è del “quasi bambino” Emanuele Frezza, che, all'atto della scrittura delle righe che seguono era poco più di un ragazzino, contando appena 19 anni. La seconda lettera è di un ragazzo di circa 28 anni, Mario Moretti. Condannato anch'egli a morte, lasciava la moglie e un bambino.

"La Spezia, 20 novembre 1943. Babbo e mammina carissimi, vi scrivo oggi poche righe prima di arruolarmi volontariamente in qualità di aspirante ufficiale nella X flottiglia MAS. Lotte segrete di parti, fermentate dal più vile servilismo, hanno condotto nel baratro la nostra bella Italia e con essa gli Italiani. Un vile tradimento, un odioso armistizio hanno portato all'invasione di buona parte del nostro sacro suolo... Come posso restare sordo all'appello della Patria? Il mio nemico è uno: L'Inghilterra. Contro di esso combatterò con tutte le mie forze. Forse la lotta è vana, ma il risultato sarà grande lo stesso: laveremo col sangue l'onta del disonore... Vostro Lello".

"... 16 aprile 1944... Se dovessi dire che vado a morte contento, direi una bugia e tu non sapresti il vero di Mario tuo. Morire in questo momento avrebbe per me tre squallori, l'uno più grande dell'altro. Primo. Non solo chiudere gli occhi su una Patria morente, senza conoscere qual è la via d'uscita che può renderla ancora onorata e libera, se non grande... Secondo. Che in questa Italia sconvolta e perigliosa io lascio te, sola, indifesa, con un avvenire oscuro quanto mai... Non rimproverarmi se sono morto prima di averti condotto al riparo: non potevo. Ama l'Italia, e se vivrai in tempo di avvilimento e di servaggio, pensa che Essa fu grande e sfortunata perché i suoi figli non furono degni di Lei... Viva l'Italia!".

Il lato nascosto di Salò: la "resistenza nera" al Sud. Per la prima volta si dà spazio anche al fascismo clandestino che si organizzò nell'Italia liberata, scrive Roberto Chiarini, Lunedì 27/03/2017, su "Il Giornale". Dai «figli di stronza» di Elio Vittorini ai «quindicenni sbranati dalla primavera» di Francesco De Gregori, passando per i «non uomini» segnati dal «marchio di Caino» per finire con gli «esuli in patria» figli di nessuno: il destino di chi ha aderito alla Repubblica sociale è stato di reprobi sul piano morale e di feroci persecutori dei partigiani su quello politico. Insomma, ha oscillato a lungo tra il «disconoscimento totale» della loro umanità e la taccia di essere «gregari» di un «regime fantoccio» al servizio dello straniero occupante, fautore di una causa aberrante che riservava un futuro di schiavitù e di oppressione ai popoli dell'intera Europa. Risultato: non solo nel dibattito politico ma anche nella considerazione storiografica, sui «ragazzi di Salò» ha gravato un pesante cono d'ombra fatto di silenzio e di disprezzo. Esattamente quel che si meritano dei sanguinari che non si sono fermati di fronte al baratro di una guerra fratricida in cui avrebbero cacciato il proprio Paese pur di soddisfare la loro sete di violenza. Al confino morale e politico comminato loro dai vincitori si è paradossalmente sommato il cieco spirito di rivalsa dei «vinti» e dei loro epigoni, cui il rancore ha fatto velo a un'auspicabile rielaborazione critica della «scelta sbagliata» da loro compiuta. Ci sono voluti, prima le possenti spallate inferte da Renzo De Felice al pregiudizio che riduceva il fascismo a regime dittatoriale imposto di forza a un popolo di democratici, poi il coraggioso cambio di passo impresso agli studi sul Ventennio da Claudio Pavone con lo sdoganamento della categoria storiografica di guerra civile per liberare la considerazione dei «Balilla che andarono a Salò» dal vizio della loro demonizzazione. Stiamo parlando praticamente dell'intera generazione dei nati nel 1924 e '25. Se infatti si sommano ai volontari i giovani chiamati alla leva che o per un'atavica sudditanza all'autorità costituita o per un malinteso spirito di servizio o per un più elementare, comprensibile desiderio di sfuggire alla pena di morte riservata ai renitenti, si raggiunge la somma di più di 500mila ragazzi che alla fine misero comunque in gioco la loro vita per una causa che, bene o male, sapevano persa in partenza. Ora di questo vasto e variegato mondo di vinti disponiamo di un'opera sistematica. Sulla scorta di un'accurata investigazione di fonti archivistiche edite e inedite nonché della cospicua letteratura accumulatasi nel frattempo in materia, Mario Avagliano e Marco Palmieri con il saggio 1943-1945 (Il Mulino, pagg. 490, euro 28) ci mettono in condizione di articolare un giudizio sull'argomento a ragion veduta. La loro è una «storia dal basso», condotta cioè seguendo passo dopo passo il percorso compiuto da quegli italiani che, a diverso titolo e con diverse talora opposte - motivazioni, scelsero o subirono l'atroce destino di combattere o semplicemente di schierarsi a fianco del risorto regime fascista. Già il federale di Milano Vincenzo Costa aveva riconosciuto che, accanto agli idealisti, si nascondevano anche degli autentici sciacalli che vestirono la divisa per «camuffare i propri bassi istinti, le loro furfanterie». Entrando più nel dettaglio, Mario Cervi ha introdotto la distinzione tra i «fanatici, gli entusiasti, i rassegnati, i dubbiosi, i riluttanti», mentre Giorgio Bocca li ha suddivisi in «politici, romantici, onesti, illusi, profittatori scaltri, imprevedibili». Insomma, non si trattò solo di giovani invasati, di sanguinari, di accecati dall'odio ideologico. Corse a Salò, bene o male, tutta una generazione di giovanissimi nati, allevati e cresciuti a «libretto e moschetto», quindi «naturalmente» fascisti. Questo non impedì a molti di loro di maturare, alla luce della barbarie scatenata, di procedere poi a una sofferta revisione critica delle proprie originarie convinzioni fino ad aderire alla causa della libertà. Avagliano e Palmieri hanno il merito di esaminare nel dettaglio tutti i capitoli della vicenda, umana e politica, vissuta dei «figli di stronza», arricchendoli peraltro di una ricca documentazione: dai giovani che non aspettarono la nascita dello Stato fascista per impugnare le armi contro gli Alleati ai soldati che all'indomani dell'8 settembre o solidarizzarono con i tedeschi o che, una volta internati in Germania, decisero di rivestire la divisa della Rsi nonché ai prigionieri non cooperatori fino a quanti si arruolarono nelle varie formazioni «nere» (dalle SS italiane alla Guardia Nazionale Repubblicana, dalla X Mas alle Brigate Nere, allo stesso reparto femminile delle Saf per non dire delle famigerate bande Koch e Carità, resesi responsabili delle più barbare atrocità) o nell'Esercito nazionale repubblicano. Sono pagine di storia non del tutto sconosciute. Molte sono già state messe in chiaro dalla nutrita serie di memoriali e diari redatti dai reduci, oltre che da numerosi studi condotti dagli storici sull'argomento. Forse la meno nota al largo pubblico è la pagina scritta dalla cosiddetta resistenza nera, ossia dal fascismo clandestino che si organizzò nell'Italia liberata. Una forma di insorgenza fascista si manifestò soprattutto in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia. L'elenco delle organizzazioni animatrici della lotta agli Alleati, solo abbozzate o semplicemente ostentate, sarebbe lungo. Si va dal Movimento giovanile di rinascita nazionale di Catania alla Lega Italica di Caltanisetta, al gruppo Onore di Roma, al Movimento dei giovani italiani repubblicani di Firenze, soprattutto alla Guardia ai labari, formazione costituitasi ancor prima della caduta di Mussolini per espressa volontà del duce su mandato del segretario Scorza. Solo a partire dal 1944, comunque, il fascismo clandestino diede concreti segni di vita, sviluppando una qualche forma di propaganda, persino azzardando conati rivoltosi. Nel complesso, però, l'impatto della sua azione fu assai modesto. Non riuscì né a stabilire un saldo coordinamento tra le varie realtà operanti né a dotarsi di una leadership riconosciuta. Il suo stesso esponente di maggior rilievo e visibilità, il bizzarro principe Valerio Pignatelli della Cerchiaia, finì col rimanere invischiato nella ragnatela da lui costruita senza riuscire a far compiere un salto di qualità al movimento clandestino. È vero che il mandato delle varie organizzazioni non era di serrare le file del popolo fascista ormai in disarmo. Era, più modestamente, di non lasciare nulla di intentato per contrastare l'invasione del nemico facendo leva sull'acuta sofferenza sociale della popolazione. A Palermo nell'ottobre del '44 la pessima situazione alimentare fece scattare una vivissima protesta nei confronti delle autorità occupanti. La repressione che ne seguì provocò numerose vittime, tanto che si parlò apertamente di una «strage del pane». Ancor più grave fu la rivolta suscitata dalla chiamata alle armi dei nati da parte del Regno del Sud tra il 1914 e il 1924. Il moto, avviatosi a Catania si estese poi a molti altri centri. Non fu, comunque, in grado di far rialzare la testa a un fascismo agonizzante.

La vera storia dello sbarco in Sicilia, scrive Andrea Cionci il 24/02/2017 su "La Stampa". Sulla spiaggia di Trappeto (Trapani), fino a pochi giorni fa, sorgeva “la Cupola”, un piccolo bunker costiero semidiroccato, costruito nei primi anni ’40, al quale la popolazione locale era molto affezionata. Faceva ormai parte del paesaggio, ma il tetto si era inclinato e, invece di procedere a un possibile restauro, le autorità hanno deciso di mandare uno scavatore per rimuoverlo. La notizia, divulgata dal giornale locale Il Vespro, ha suscitato ovunque indignazione e dispiacere, per “l’ennesimo intervento che distrugge pezzi della nostra storia, cancella i ricordi, le immagini, i momenti”. Il recente episodio evoca in modo simbolico un’altra drastica rimozione, quella della vera storia dello sbarco angloamericano in Sicilia, di solito tramandato dalla storiografia tradizionale come una sorta di “passeggiata”, avvenuta tra festose distribuzioni di chewing gum e cioccolato da parte dei soldati alleati. Le cose andarono molto diversamente. Ad esempio, è stato rimosso quasi del tutto il sacrificio della divisione “Livorno” che, insieme alla “Napoli” si fece massacrare mettendo forse a rischio l’intero sbarco alleato. In secundis, solo da qualche anno, si comincia a parlare delle collusioni tra Forze armate Usa e la mafia italoamericana di Lucky Luciano; il recente film di Pif  “In guerra per amore” per quanto sotto le vesti di una commedia romantica, ha avuto il merito di portare finalmente al grande pubblico, in una veste “accettabile”, questo scottante tema. Se pressoché nulla si è divulgato del ruolo preciso che la mafia ebbe nel sabotare quasi un terzo del sistema difensivo italiano, ancor meno è filtrato, alla coscienza collettiva, sulle stragi dimenticate e impunite compiute dai militari americani su civili e prigionieri italiani. Cercheremo di sintetizzare il tutto con i dati provenienti dalla più qualificata e aggiornata letteratura storica dedicata al tema. Poco si può comprendere dello sbarco in Sicilia senza fare riferimento a un antefatto. Nel 1924, il prefetto di Trapani Cesare Mori (cui l’appena scomparso regista Pasquale Squitieri dedicò un famoso film) del ruolo di sradicare la mafia dalla Sicilia. Mori attuò una durissima repressione del fenomeno mafioso, ricorrendo, spesso, a metodi brutali: furono incardinati diecimila processi, con innumerevoli condanne, mentre molti pericolosi boss furono mandati al confino o costretti a emigrare negli States. Tuttavia, come scrive lo storico palermitano Giuseppe Carlo Marino in “Storia della mafia”, Mori seppe anche mobilitare largamente l’opinione pubblica, soprattutto tra i giovani, nell’impegno contro Cosa nostra facendo sentire la presenza dello Stato sul territorio. Attraverso il “bastone e la carota”, ridusse ciò che restava della mafia-delinquenza a una condizione “dormiente” e inattiva, ma fu costretto a fermarsi di fronte al baronato, il ceto dei grandi latifondisti che utilizzava la manovalanza mafiosa per il controllo delle proprietà agricole. Se male avevano sopportato l’opera del “Prefetto di ferro”, i baroni reagirono malissimo all’assalto al latifondo con l’istituzione, nel 1940, dell’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano. Questo organismo li costringeva, infatti, ad apportare migliorie produttive (con i contributi dello Stato) pena l’esproprio delle loro campagne. Così, i grandi proprietari terrieri fondarono un comitato d’azione separatista capeggiato da un triumvirato composto dal conte massone Lucio Tasca, dal liberale massone Andrea Finocchiaro-Aprile e dal “mafioso tout court” don Calogero Vizzini, tornato a Villalba dopo sei anni di confino. Nel ’42, il comitato prenderà il nome di Movimento per l’Indipendenza della Sicilia (Mis), e avrà la sua grande occasione con lo sbarco alleato del ’43, salutando gioiosamente gli angloamericani al loro arrivo e “sollecitando” il popolino a fare altrettanto nelle strade e nelle piazze. Nel frattempo, come scrive Massimo Lucioli in “Mafia & Allies”, negli Stati Uniti si creava il legame tra US Navy e mafia italoamericana. Fin dallo scoppio della guerra, nel ’39, gli Usa, per quanto ancora formalmente neutrali, cominciarono a rifornire gratuitamente tutti i nemici dell’Asse. Il porto di New York assumeva, quindi, importanza strategica e si temevano sabotaggi da parte di spie tedesche e italiane. Fu per scovare e colpire queste ultime, ben nascoste nella numerosa comunità italoamericana newyorkese, che uno dei massimi responsabili dell’intelligence, addetto alla sicurezza portuale, il maggiore Radcliffe Haffenden, decise di prendere i primi contatti con il gangster Lucky Luciano. Il boss, infatti, nonostante stesse scontando in carcere una condanna a cinquant’anni per sfruttamento della prostituzione, continuava a controllare le attività illecite del porto tramite il suo affiliato Joe Lanza. La collaborazione con la mafia partì in grande stile: la valanga di informazioni fornite ai servizi segreti Usa da Lucky Luciano consentì agli americani non solo di smantellare la rete spionistica italiana nel porto di New York, ma anche di garantirvi una forzosa pace sindacale per non turbare l’invio di materiale bellico in Europa. I contatti di Haffenden con Luciano sono confermati dai microfilm pubblicati per un breve periodo sul sito del Freedom information act (Foia) che riporta i resoconti delle indagini della stessa Fbi su Haffenden. Del resto, anche l’avvocato di Lucky Luciano, Moses Poliakoff, ammise tranquillamente: “Nel 1942, il procuratore distrettuale della contea di New York, per conto del Controspionaggio della US Navy intendeva chiedere a Luciano una “certa assistenza”. Mi chiesero se ero disposto a fare da intermediario”. Un altro servigio reso da Lucky Luciano fu quello di segnalare agli americani i mafiosi residenti in Sicilia che avrebbero certamente cooperato al momento dello sbarco in Sicilia (operazione Husky). L’Office of Strategic Services (Oss) il servizio segreto statunitense, si preoccupò anche di selezionare militari di origine siculo-americana e di creare una rete di contatti con tutti coloro che, nella Trinacria, fossero ostili al regime, non ultimi gli influenti membri del Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. Il principale interlocutore di Lucky Luciano nell’isola fu, appunto, don Calogero Vizzini, il quale aderì al progetto, unendo insieme le forze dei latifondisti affiliati al Mis - e dei mafiosi - a quelle dei servizi segreti americani. “Ufficiale di collegamento” fra Vizzini e Luciano era il criminale Vito Genovese che, dall’America, era ritornato in Italia già nel 1938. Lo ritroviamo in una fotografia mentre posa, in divisa americana, accanto al bandito Salvatore Giuliano, mentre, in un’altra foto, si riconosce il mafioso italo-americano Albert Anastasia, sempre in uniforme, inquadrato in un reparto di fanteria il cui gagliardetto consisteva in una grande “L” gialla (da “Luciano”) in campo nero. Lo stesso vessillo è, incredibilmente, apparso attaccato su un’auto in una foto del 2010 - del tutto inedita - scattata da Massimo Lucioli, insieme a due altri testimoni, nel paese di Cassibile (SR) durante la celebrazione dell’armistizio siglato con gli Alleati nel ‘43. La vettura sconosciuta è passata di fronte alle autorità statunitensi mentre la banda U.S. Navy suonava l’inno a stelle e strisce. La vicenda dell’emblema con la “L”, per quanto già nota a livello locale, non è mai stata presa sul serio a livello della storiografia nazionale. La foto che pubblichiamo fuga ogni dubbio: c’erano anche “loro” e, ancor oggi, qualcuno tiene a ricordarlo agli americani. Uno dei più efficaci provvedimenti mafiosi fu quello di minacciare pesantemente i militari siciliani di stanza nella loro regione. Venne “caldamente consigliata” la diserzione e il sabotaggio per evitare conseguenze spiacevoli per loro e le loro famiglie. Ecco perché due delle quattro divisioni mobili italiane di stanza in Sicilia si sfaldarono, in buona parte, all’arrivo degli angloamericani. Michele Pantaleone scrive in “Mafia e droga” che il 70% dei soldati delle divisioni “Assietta” e “Aosta” - quota corrispondente, appunto, a quella dei militari siciliani - il 21 luglio 1943, a sbarco avvenuto, “scomparve senza lasciare traccia pregiudicando, così, l’intero apparato difensivo siciliano”. Questo si era verificato poiché, come spiega Giuseppe Carlo Marino “il boss mafioso Genco Russo e i suoi sgherri avevano fatto intendere che c’erano parecchi malintenzionati che li avrebbero fatti fuori prima dell’arrivo degli anglo-americani”. I soldati siciliani della “Assietta” e della “Aosta” provenivano dai ceti agrari e, come contadini, erano da sempre vessati dalle pressioni dei capi mafia e sottoposti ai loro ordini. Non a caso, una simile diserzione di massa non avvenne nella divisione “Livorno”, poiché in essa i siciliani erano pochissimi, appena il 9%. A ulteriore conferma, va considerato che i soldati siciliani costituenti il 60% della divisione “Napoli” fecero, invece, il loro dovere fino in fondo – ed eroicamente - perché si trovavano nella Sicilia orientale, quindi al di fuori della sfera di influenza dei mafiosi collaborazionisti (attivi, piuttosto, nell’entroterra). Questo dimostra che i militari siciliani non erano affatto meno “costituzionalmente combattivi” degli altri soldati italiani. A riprova di ciò, come appurato dal convegno svoltosi lo scorso anno a Napoli, voluto dal presidente dell’Anpi Carlo Smuraglia, i siciliani furono, insieme ai campani, i più numerosi italiani partecipanti alla Resistenza e, nel nord Italia, dimostrarono grande spirito combattivo. Il guiderdone della mafia sarà, dopo lo sbarco alleato, la piena infiltrazione nel tessuto politico-amministrativo di gran parte dei comuni isolani, supportata dall’Allied Military Government of Occupied Territories (Amgot). Dopo aver lucrato con il mercato nero durante il conflitto, Cosa nostra comincerà a prosperare, nel dopoguerra, soprattutto con il traffico di stupefacenti. Al momento dello sbarco, il 10 luglio 1943, la divisione motorizzata “Livorno”, per ordine del comandante della 6° armata, il valido generale Alfredo Guzzoni (poi processato dalla Rsi, ma assolto) fu prontamente mandata all’attacco della testa di ponte americana, sulle spiagge di Gela. Era da sola: come riferisce il suo comandante, gen. Domenico Chirieleison, l’appoggio della divisione corazzata tedesca “Hermann Goering” giunse, infatti, diverse ore dopo. Il comandante americano George Patton sottovalutò, inizialmente, la Livorno (convinto che le sue truppe avrebbero facilmente respinto quei “vigliacchi italiani”, come ebbe a definirli) ma, in capo a poche ore, l’impeto di quei soldati, pure, male armati, quasi privi di armi automatiche, senza copertura d’artiglieria e con pochi, obsoleti carri armati, riuscì a far arretrare gli statunitensi fino all’abitato di Gela e a travolgere le loro linee difensive. Furono momenti molto difficili per gli americani anche perché da Malta gli aerei inglesi non erano potuti decollare, in appoggio, a causa della nebbia. A quanto riferisce il generale Alberto Santoni in una pubblicazione dello Stato Maggiore dell’Esercito, Patton fu colto dal timore e diramò ai suoi persino l’ordine di prepararsi a un possibile reimbarco. Per quanto la circostanza fu poi negata dall’interessato e dal Pentagono, il testo del radiomessaggio, intercettato dal comando italiano di Enna, “dovrebbe trovarsi - scrive Santoni - ancora negli archivi dell’Esercito”.  Dietro nostra richiesta, l’Ufficio storico dell’Esercito non ha ritrovato il documento citato, ma ha prodotto una importante nota del Comando della XVIII Brigata Costiera che riporta, alle ore 15.00: “E’ stato notato che i natanti (Usa) vanno e vengono dalla spiaggia di Gela, si ha l’impressione che il nemico riprenda rimbarco”. Come sottolineato dallo stesso Ufficio storico, però, il generale Emilio Faldella scrive, invece, di una intercettazione contemporanea relativa a una semplice richiesta di rinforzi da parte di Patton. L’episodio sembra, però, ancora riconfermato, nelle sue memorie, dal tenente della “Livorno” Aldo Sampietro che ricordava l’istante di speranza in cui vide “carri armati americani ripiegare verso la spiaggia per reimbarcarsi”. Anche Raffaele Cristani, un altro ufficiale reduce, riporta: “Fino a quel momento gli americani si erano sempre ritirati di fronte ai nostri battaglioni, tanto che ci fu un momento in cui sembrò che stessero per ritirarsi”. Se è vero, come riportano varie fonti, che la Livorno stava per costringere gli americani alla ritirata nel settore di Gela, questo avrebbe potuto compromettere l’intera invasione. (Quanto alla terminologia, va osservato che gli stessi angloamericani si consideravano degli “invasori” come si legge nella Soldier’s Guide of Sicily, distribuita alle loro truppe). Le truppe da sbarco di Patton erano in crisi, così le navi angloamericane ricevettero l’ordine di intervenire per salvare la situazione. Contro gli italo-tedeschi si scatenò, allora, un inferno di fuoco navale prodotto dai cannoni da 340 mm che “aravano” letteralmente sezioni di terreno procedendo di 100 metri alla volta, disintegrando qualsiasi forma di vita vi si fosse trovata. Poi si aggiunsero le bombe degli aerei inglesi, che erano finalmente riusciti a partire da Malta. I difensori dovettero ritirarsi. In un caso, un reparto italiano fu costretto ad arrendersi perché gli americani utilizzavano prigionieri di guerra come scudi umani. Nella “Relazione cronologica degli avvenimenti” del XVIII Comando Brigata Costiera, infatti, il generale Orazio Mariscalco annotò: “Il col. Altini comunica che la 49a btr. si è arresa perché il nemico veniva avanti facendosi coprire dai nostri soldati presi prigionieri…”. Fu una carneficina per i giovani della “Livorno”, come ricorda Pierluigi Villari ne “L’onore dimenticato”: resisteranno ad oltranza per 24 ore tra i ruderi di Castelluccio di Gela. Un soldato così annotava nel suo diario: “Eravamo stretti uno all’altro, immersi nella polvere; era un martellare implacabile di una quarantina di cannoni navali, di pezzi di artiglieria campale, i colpi ci piovevano vicinissimo tutt’attorno mentre schegge, pallottole, sassi fischiavano sulla nostra testa”. In totale, la “divisione fantasma”, come recita il titolo di un saggio di Camillo Nanni, lasciò sul campo, tra morti, feriti e dispersi, 7.200 uomini dei suoi 11.400 effettivi. Anche nel settore inglese, più ad est, la divisione di fanteria “Napoli” insieme al Kampfgruppe “Schmalz”, combatté strenuamente fino all’annientamento. I pochi elementi superstiti si sacrificarono per permettere agli alleati tedeschi di ritirarsi sul fiume Simeto. Alle due divisioni “Livorno” e “Napoli” che, pure, avevano giurato fedeltà al Re e non al Duce, sono stati negati per decenni, in nome della politica, la memoria e l’onore che spettavano loro per aver difeso, fino all’estremo sacrificio, il proprio paese. Furono ben 630, infatti, le medaglie al valore – per gran parte postume – concesse ai militari del solo Regio esercito (escludendo Marina e Aeronautica) che difendevano la Sicilia. Di essi si ricordano il caporal maggiore Cesare Pellegrini, che impegnato in furiosi corpo a corpo, fu alla fine pugnalato nel fortino di Porta Marina; il sottotenente carrista Angelo Navari che col suo carro armato riuscì a impegnare una intera compagnia di soldati americani; il colonnello Mario Mona che resistette a oltranza di fronte alla spropositata preponderanza nemica per poi scomparire nella mischia; il sottotenente Luigi Scapuzzi che si sacrificò a Leonforte per permettere ai suoi colleghi e ai suoi uomini di poter ripiegare. Ai soldati che caddero prigionieri, non sempre capitò una sorte migliore dei loro commilitoni caduti. Sono, purtroppo, diverse le stragi compiute dagli americani ai danni di militari italiani arresi e civili inermi. A questi eccessi contribuì in modo determinante lo spirito particolarmente aggressivo infuso da Patton ai suoi uomini. Riportiamo uno dei suoi discorsi agli ufficiali precedenti lo sbarco: «Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! È finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!» Molti subalterni lo presero alla lettera, come dimostra, ad esempio, il Massacro di Biscari che vide 76 prigionieri italiani e 12 civili cadere sotto le mitragliate del capitano John Compton e del sergente Horace West. Come riferisce Andrea Augello in “Uccidi gli italiani”, Compton si giustificò dichiarando che credeva di aver ben interpretato le parole del generale Patton. Anche gli otto carabinieri di Gela che si erano arresi dopo una breve resistenza fiaccata dal tiro navale, come ha rivelato il saggista Fabrizio Carloni, furono passati per le armi senza motivo. E ancora, le stragi e gli ammazzamenti di Piano Stella, di Comiso, di Castiglione, di Vittoria, di Canicattì, di Paceco, di Butera, di Santo Stefano di Camastra e vari altri paesi sono stati indagati dai testi di Giovanni Bartolone (“Le altre stragi”), Franco Nicastro (“Le stragi americane”) e Gianfranco Ciriacono (“Le stragi dimenticate”). Quasi tutti i responsabili, nei casi in cui furono sottoposti a corte marziale, furono assolti o condannati a pene irrisorie. Pubblichiamo la sentenza di assoluzione del capitano Compton, solo per breve tempo desecretata dagli archivi americani. Justin Harris, in una tesi di laurea dell’Università di San Marcos, in Texas, spiega che la sentenza fu “not guilty” – non colpevole, perché la commissione che giudicò Compton apparteneva alla sua stessa divisione, la 45esima. Harris ha anche pubblicato i nomi di tutti i militari che facevano parte del gruppo di fuoco. A Troina (EN), poi, cominciarono gli stupri, le uccisioni e le razzie del reparto Tabor, composto da 832 militari marocchini sbarcati al seguito della 3° divisione americana, che si protrarranno per quattro mesi fino alla Toscana segnando le vite di 60.000 italiani. Il dato si riferisce alle denunce raccolte dall’Istituto nazionale per le vittime di guerra, ma è sottostimato considerando che denunciare uno stupro, all’epoca, richiedeva molto coraggio. Notizie sulle cosiddette “marocchinate”, sono riportate da Bruno Spampanato in “Contromemoriale”.

La verità nascosta delle “marocchinate”, saccheggi e stupri delle truppe francesi in mezza Italia. L’episodio del remake porno del film di De Sica è l’occasione di parlare dopo 70 anni, documenti alla mano, dei diretti responsabili: tra cui lo stesso Charles De Gaulle, scrive Andrea Cionci il 16/03/2017, su "La Stampa". Il fatto che un regista italiano di film porno abbia potuto girare una pellicola hard su una delle pagine più mostruose vissute dalla nostra popolazione civile durante la Seconda guerra mondiale, offre la caratura di quanto questi misfatti siano stati rimossi dalla coscienza morale collettiva. L’episodio del remake porno de La Ciociara di Vittorio De Sica, che ha suscitato un’interrogazione parlamentare e una lettera pubblica al premier Gentiloni, offre piuttosto l’occasione di raccontare, documenti alla mano, tutta la verità relegata per oltre settant’anni nei sotterranei della storia, indicando i numeri reali, i colpevoli e i personaggi di primissimo piano - tra cui lo stesso Charles De Gaulle - che ne furono i diretti responsabili. “Marocchinate”: con questo termine si sono tramandati gli stupri di gruppo, le uccisioni, i saccheggi e le violenze di ogni genere perpetrate dalle truppe coloniali francesi (Cef), aggregate agli Alleati, ai danni della popolazione italiana, dei prigionieri di guerra e perfino di alcuni partigiani comunisti. La storiografia tradizionale, le poche volte che ne ha trattato, ha circoscritto questi orrori a qualche centinaio di episodi verificatisi nell’arco di un paio giorni nella zona del frusinate. Le proporzioni, tra numeri e gravità dei fatti, furono di gran lunga superiori. E a breve – lo annunciamo in esclusiva - sarà aperto un procedimento penale internazionale, ai danni della Francia, per iniziativa di un avvocato romano. 

1. Cos’era il CEF. Nel 1942, gli americani sbarcano ad Algeri e le truppe coloniali francesi del Nord Africa, fino ad allora agli ordini della repubblica filonazista di Vichy, si arrendono senza sparare un colpo. Il generale Charles De Gaulle, fuggito dalla Francia occupata dai tedeschi e capo del governo francese in esilio “Francia libera”, allora, attinge a questo personale militare per creare il Cef: Corp Expeditionnaire Français, costituito per il 60% da marocchini, algerini e senegalesi e per il restante da francesi europei, per un totale di 111.380 uomini ripartiti in quattro divisioni. Vi erano però dei reparti esclusivamente marocchini di goumiers (dall’arabo qaum) i cui soldati provenivano dalle montagne del Riff ed erano raggruppati in reparti detti “tabor” in cui sussistevano vincoli tribali o di parentela diretta. Erano in tutto 7.833, indossavano il caratteristico burnus arabo, vestivano una tunica di lana verde a bande verticali multicolori (djellaba) e sandali di corda. Erano equipaggiati non solo con le armi alleate (mitra Thompson cal. 45 mm e mitragliatrice Browning 12.7 mm) ma anche con il tipico pugnale ricurvo (koumia) con il quale, secondo una loro antica usanza, tagliavano le orecchie ai nemici uccisi per farne collane e ornamenti (in particolar modo i tedeschi ne fecero le spese). Il loro comandante era l’ambizioso generale Alphonse Juin, nato in Algeria che, da collaborazionista dei nazisti, era passato alle dipendenze di De Gaulle.

2. Primi impieghi, prime violenze. Gli stupri delle truppe marocchine cominciano già nel luglio ’43, con lo sbarco alleato in Sicilia. Gli 832 magrebini del 4° tabor aggregato agli americani che sbarcano a Licata, compiono saccheggi e violentano donne e bambini presso il paese di Capizzi, vicino Troina. Come riporta lo storico Michelangelo Ingrassia, i siciliani reagirono uccidendone alcuni con doppiette e forconi.  

3. I marocchini aggirano Cassino risalendo i monti. Come noto, gli Alleati, risalendo l’Italia senza troppe difficoltà, si impantanarono a Cassino, sulla Linea Gustav, dove i tedeschi opponevano una tenacissima resistenza. Fu il generale Juin, sin dall’inizio, a proporre ai colleghi statunitensi Clark e Alexander l’aggiramento del caposaldo nemico. Dopo tre battaglie sanguinosissime e prive di risultato gli Alleati avallarono la proposta di Juin il quale aveva scoperto che il monte Petrella, a est di Cassino, era stato lasciato parzialmente sguarnito dai tedeschi. In quelle zone, solo le sue truppe marocchine di montagna avrebbero potuto farcela. Infatti, con l’operazione “Diadem” (l’ultimo assalto collettivo degli Alleati) i goumiers riuscirono a sfondare la Linea Gustav e, attraversando l’altipiano di Polleca, si lanciarono verso Pontecorvo. Kesselring, comandante tedesco in Italia, per tamponare lo falla, inviò i suoi Panzegrenadieren insieme a reparti italiani della Rsi, (Gnr di Frosinone) i quali, dopo accaniti combattimenti, dovettero soccombere. E’ accertato che gli ultimi soldati tedeschi rimasti a Esperia si suicidarono gettandosi da un burrone per non finire decapitati come altri loro commilitoni catturati. Questo avveniva mentre i marocchini cominciavano a violentare moltitudini di donne, uomini e bambini sull’altopiano di Polleca. 

4. La popolazione non comprende il pericolo. Sebbene siano conosciuti i manifesti della propaganda fascista (alcuni disegnati da Gino Boccasile) che mettevano generalmente in guardia la popolazione dalle truppe di colore alleate, il partigiano e storico ciociaro Bruno D’Epiro racconta che già prima della battaglia di Esperia un ricognitore tedesco aveva lanciato sui monti Aurunci volantini che incitavano la popolazione a fuggire dalle prevedibili violenze delle truppe nordafricane. Molti bambini furono evacuati dalla Guardia Nazionale Repubblicana e inviati nelle colonie di Rimini, ma la maggior parte della popolazione ciociara, stanca della guerra, si limitò ad aspettare, con rassegnato distacco, il passaggio dei liberatori. Scriveva Renzo De Felice che “l’8 settembre aveva fatto perdere agli italiani qualsiasi volontà di partecipare attivamente alle vicende belliche”. Alberto Moravia, all’epoca sfollato nel frusinate, ne “La Ciociara”, descrive bene questo sentimento di rassegnata apatia facendo dire alla protagonista: “Per noi bisogna che qualcuno vinca sul serio, così la guerra finisce”. 

5. Comincia l’inferno. Alla ritirata dei nazifascisti, vari paesi della Ciociaria vennero occupati dai franco-coloniali del Cef. Questo fu l’inizio di un assurdo calvario. Ad Ausonia decine di donne furono violentate e uccise, e lo stesso capitò agli uomini che tentavano di difenderle. Dai verbali dell’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra risulta che anche “due bambini di sei e nove anni subirono violenza”. A S. Andrea, i marocchini stuprarono 30 donne e due uomini; a Vallemaio due sorelle dovettero soddisfare un plotone di 200 goumiers; 300 di questi invece, abusarono di una sessantenne. A Esperia furono 700 le donne violate su una popolazione di 2.500 abitanti. Anche il parroco, don Alberto Terrilli, nel tentativo di difendere due ragazze, venne legato a un albero e stuprato per una notte intera. Morirà due anni dopo per le lacerazioni interne riportate. A Pico, una ragazza venne crocifissa con la sorella. Dopo la violenza di gruppo, verrà ammazzata. A Polleca si erano rifugiati circa diecimila sfollati, per lo più donne, vecchi e bambini in un campo provvisorio. Qui si toccò l’apice della bestialità. Luciano Garibaldi scrive che dai reparti marocchini del gen. Guillaume furono stuprate bambine e anziane; gli uomini che reagirono furono sodomizzati, uccisi a raffiche di mitra, evirati o impalati vivi. Una testimonianza, da un verbale dell’epoca, descrive la loro modalità tipica: “I soldati marocchini che avevano bussato alla porta e che non venne aperta, abbattuta la porta stessa, colpivano la Rocca con il calcio del moschetto alla testa facendola cadere a terra priva di sensi, quindi veniva trasportata di peso a circa 30 metri dalla casa e violentata mentre il padre, da altri militari, veniva trascinato, malmenato e legato a un albero. Gli astanti terrorizzati non potettero arrecare nessun aiuto alla ragazza e al genitore in quanto un soldato rimase di guardia con il moschetto puntato sugli stessi”. Riportiamo solo alcune di queste atrocità per fornire un’idea di massima.  

6. Malattie veneree, orfani e suicidi. I comuni coinvolti nel Lazio furono anche Pontecorvo, Campodimele, S. Oliva, Castro dei Volsci, Frosinone, Grottaferrata, Giuliano di Roma e Sabaudia. Migliaia furono le donne contagiate da sifilide, blenorragia e altre malattie veneree, e spesso contagiarono i loro legittimi mariti. Così come migliaia furono quelle ingravidate: il solo orfanotrofio di Veroli, accoglieva, dopo la guerra, circa 400 bambini nati da quelle unioni forzose. Molte delle donne “marocchinate” furono poi scansate dalla comunità, a causa dei pregiudizi di allora, ripudiate dalle famiglie e, a centinaia, finirono suicide o relegate ai margini della società. Una scia di sofferenze fisiche e psicologiche, quindi, che si trascinò per decenni.

7. Colpevoli anche i soldati francesi bianchi. Non solo truppe di colore. Da documenti dell’Archivio Centrale dello Stato, risulta che anche i francesi bianchi parteciparono alle violenze: a Pico furono, infatti, violentate 51 donne (di cui nove minorenni) da 181 franco-africani e da 45 francesi bianchi. Dato questo episodio e considerando che francesi europei costituivano il 40% di tutto il Cef, risulta limitativo addossare la responsabilità delle violenze ai soli goumiers marocchini. Anche gli americani sapevano di questi fatti: solo in un paio di casi tentarono debolmente di frenare i goumiers. Scrive Eric Morris in “La guerra inutile” che, ancora vicino a Pico, gli uomini di un battaglione del 351° fanteria americana provarono a fermare gli stupri, ma il loro comandante di compagnia intervenne e dichiarò che “erano lì per combattere i tedeschi, non i goumiers”.

8. I comandanti non intervengono, fino in Toscana. Massimo Lucioli, co-autore, insieme a Davide Sabatini, del primo completo studio sulle marocchinate “La ciociara e le altre” (1998), spiega: “Dato il coinvolgimento dei bianchi, non presenti nei reparti goumier, si può affermare che i violentatori si annidavano in tutte e quattro le divisioni del Cef. Forse anche per questo, gli ufficiali francesi non risposero ad alcuna sollecitazione da parte delle vittime e assistettero impassibili all’operato dei loro uomini. Come riportano le testimonianze, quando i civili si presentavano a denunciare le violenze, gli ufficiali si stringevano nelle spalle e li liquidavano con un sorrisetto”. Questo atteggiamento perdurò fino all’arrivo in Toscana del Cef. Qui ricominciarono le violenze a Siena, ad Abbadia S. Salvatore, Radicofani, Murlo, Strove, Poggibonsi, Elsa, S. Quirico d’Orcia, Colle Val d’Elsa. Perfino membri della Resistenza dovettero subire gli abusi. Come testimonia il partigiano rosso Enzo Nizza: “Ad Abbadia contammo ben sessanta vittime di truci violenze, avvenute sotto gli occhi dei loro familiari. Una delle vittime fu la compagna Lidia, la nostra staffetta. Anche il compagno Paolo, avvicinato con una scusa, fu poi violentato da sette marocchini. I comandi francesi, alle nostre proteste, risposero che era tradizione delle loro truppe coloniali ricevere un simile premio dopo una difficile battaglia”.

9. 50 ore? Il proclama di Juin. Infatti, un comunicato attribuito al generale Juin ai suoi uomini, recita: ““Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c’è un vino tra i migliori del mondo, c’è dell’oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto è promesso e mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete”. L’autenticità di questo proclama è stata spesso messa in dubbio, ma Juin, come si legge nei trattati giurisprudenziali dell’epoca, poteva riferirsi legittimamente a una antica norma del diritto internazionale di guerra che prevedeva il “diritto di preda bellica”, tra cui lo stupro. Tant’è che le vittime furono, in fretta e furia, dopo la guerra, risarcite con minimi compensi economici solo attraverso un procedimento amministrativo, invece che dopo un regolare processo penale. Gli indennizzi furono erogati prima dai francesi e poi dallo Stato italiano. Con ottime probabilità, il proclama di Juin è, quindi, da ritenersi autentico. Secondo Lucioli, questo discorso fu poi diffuso ad arte per limitare nello spazio-tempo le violenze che, de facto, durarono ben più di 50 ore: dal luglio ’43 all’ottobre ’44 quando i franco-coloniali lasciarono l’Italia e si imbarcarono per la Provenza ancora occupata dai nazisti. Solo nell’imminenza del ritorno in Francia, alcuni dei violentatori furono puniti. Un partigiano della brigata rossa “Spartaco Lavagnini” ricorda: “Sei marocchini vennero fucilati sul posto perché avevano violentato una donna. Il capitano (francese n.d.r.) ebbe a dirmi: “Questa gente sa combattere benissimo, però meno ne riportiamo in Francia, meglio è”. Poco prima che i marocchini toccassero il suolo provenzale, i loro comandanti, quindi, avevano deciso di riportarli severamente all’ordine tanto che non si registrarono mai violenze ai danni di donne francesi. Una volta in Germania meridionale, invece, potranno dare nuovamente sfogo ai loro istinti sulle donne tedesche, come riportano alcuni recenti studi. Segno, quindi, che le efferatezze di queste truppe avrebbero potuto essere certamente controllate e disciplinate.  

10. Le responsabilità di De Gaulle. Un fenomeno di queste dimensioni che si è protratto per dodici mesi, in mezza Italia, che ha interessato un numero elevatissimo di persone, non poteva essere sottaciuto o nascosto ai comandanti. “E’ evidente – continua Lucioli - che vi sono responsabilità a livello gerarchico-militare e politico mai indagate. Innanzitutto, i generali di divisione del CEF: Guillaume, Savez, de Monsabert, Brosset e Dody i quali, non solo non hanno impedito le violenze, ma le hanno incentivate: prima dell’attacco in Ciociaria, infatti, le truppe coloniali erano state tenute consegnate in recinti di filo spinato, lontano dai loro bordelli, evidentemente, per aumentarne l’aggressività. Ma il principale responsabile della barbarie è da ricercarsi, per un principio di responsabilità gerarchica, nel comandante in capo di Francia libera, Charles De Gaulle, che – è provato – durante il culmine delle violenze, si trovava, insieme al suo Ministro della Guerra André Diethelm, proprio a Polleca presso il casolare del barone Rosselli, eletto a quartier generale avanzato del Cef. Vi sono fotografie inoppugnabili e anche un suo discorso che tenne, in loco, in quei giorni. Le violenze accadevano, quindi, sotto ai suoi occhi”. Va anche ricordato che, quando alcuni marocchini a Roma violarono due donne e le gettarono poi da un treno in corsa, uccidendole, l’ “Osservatore romano” e “Il Popolo” aprirono una accesa polemica, denunciando chiaramente le violenze che si verificavano ovunque i marocchini si fossero accampati. A questi rispose il giornale delle truppe francesi in Italia “La Patrie”, minimizzando l’accaduto. Ancora una volta, quindi, De Gaulle non poteva non sapere. Impossibile pensare, anche, che i comandanti alleati ignorassero quegli eventi. 

11. I numeri delle vittime. Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Vittime delle Marocchinate, fornisce i numeri di questo massacro: “Nella seduta notturna della Camera del 7 aprile 1952 la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi denunciò che solo nella provincia di Frosinone vi erano state 60.000 violenze da parte delle truppe del generale Juin. Dalle numerose documentazioni raccolte oggi possiamo affermare che ci furono 20.000 casi accertati di violenze, numero del tutto sottostimato; diversi referti medici dell’epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, che si erano fatte medicare, sia per vergogna o per pudore, preferì non denunciare. Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal Cef, iniziate in Sicilia e terminate alle porte di Firenze, possiamo quindi affermare con certezza che ci fu un minimo di 60.000 donne stuprate, ognuna, quasi sempre da più uomini. I soldati magrebini, ad esempio, mediamente violentavano in gruppi da due o tre, ma abbiamo raccolto testimonianze di donne violentate anche da 100, 200 e 300 uomini. Oltre alle violenze carnali, vi furono decine di migliaia di richieste per risarcimenti a danni materiali: furti, incendi, saccheggi e distruzioni”.  

12. La rimozione storica. Nonostante le pubblicazioni del professor Bruno D’Epiro, cittadino di Esperia che fu il primo, a livello locale, a interessarsi in maniera organica a questi misfatti, a parte qualche articolo successivo e qualche raro documentario, la storiografia nazionale ha lasciato pressoché unicamente al film di Vittorio De Sica “La Ciociara”, il difficile ruolo di trasferire al grande pubblico qualcosa sulle marocchinate. Fino agli anni ’90, poi, come scriveva al sindaco di Esperia lo storico belga Pierre Moreau, nulla del genere era mai apparso sulla letteratura storica in lingua inglese, francese e olandese. La memoria di queste aberrazioni è, tuttavia, ancora una ferita aperta nei luoghi che furono colpiti. Nel 1985, a Esperia, fu organizzata una manifestazione di riconciliazione tra tutti i reduci della guerra. Solo i francesi non furono invitati, in quanto espressamente “non graditi”. Il cimitero di guerra di Venafro, che ospita i caduti del Cef, sovente, ancor oggi, vede la propria insegna marmorea imbrattata di vernice da mani ignote.

13. Il prossimo procedimento legale ai danni della Francia. L’avvocato romano Luciano Randazzo, già noto per aver fatto riaprire casi riguardanti le Foibe e l’esecuzione di Mussolini, dichiara: “Anni fa assistetti una povera signora che, durante la guerra, era stata “marocchinata” ed ebbi modo di conoscere da vicino quei drammi: era tutta povera gente. Nel 2003, una tv francese mi intervistò, valutando se si potesse intraprendere un’azione legale verso l’Associazione d’arma dei goumiers “Koumia”. Fino ad oggi, cosa ha fatto lo Stato italiano per chiedere i giusti risarcimenti ai francesi? Nulla. Ecco perché, a breve presenterò un ricorso presso il Tribunale Militare di Roma e presso la Corte internazionale, ai danni della Francia”. 

La storia delle marocchinate non è ancora chiusa.  

A proposito delle vittime della mafia e la solita liturgia antimafia che nasconde il malaffare. In virtù degli scandali gli Italiani dalla memoria corta periodicamente scoprono che sui bisogni della gente e dietro ad ogni piaga sociale (mafia, povertà ed immigrazione, randagismo, ecc.) ci sono sempre associazioni e cooperative di volontariato che vi lucrano. Un sistema politico sostenuto da una certa stampa e foraggiato dallo Stato. Stato citato dalle grida sediziose dei ragazzotti che gridano alle manifestazioni organizzate dal solito sistema mafioso antimafioso. Cortei che servono solo a marinare la scuola ma in cui si grida: “Fuori la mafia dallo Stato”. Poveri sciocchi, se sapessero la verità, capirebbero che, se ottenessero quello che chiedono, nessuno rimarrebbe dentro a quello Stato, compresi, per primi, coloro che sono a capo di quei cortei inneggianti. La scusa delle piaghe sociali non è che serve ad una certa sinistra comunista per espropriare la proprietà dei ricchi o percepire finanziamenti dallo Stato al fine di ridistribuire la ricchezza, senza che si vada a lavorare e queste manifestazioni pseudo antimafia, non è che sono propaganda per non far cessare il sostentamento?

25 APRILE. DATA DI UNA SCONFITTA.

Mussolini riposa in pace. L’odio, no! Scrive Martedì 4 aprile 2017 Nino Spirlì su “Il Giornale”. Non è ancora arrivato, quel fatidico 25 aprile (in primis, Festa di San Marco e, dunque, onomastico di mio nipote Marco) – il giorno in cui c’è ancora chi si sente vivo, ringalluzzito, al solo pensiero che il fascismo sia finito – che già si avverte nell’aria un olezzo di menzogna e di becero protagonismo. Ad ogni annata, si aggiunge un figlio, un nipote, un pronipote di qualche presunto “eroe” della guerra civile, che vuole godere dei suoi quindici minuti di esposizione pubblica, di talk, di docufiction pseudostorica, durante i quali concionare sulla guerra di liberazione. Quella che ha sporcato di sangue non solo le strade, ma, soprattutto, la dignità degli Italiani, macchiandoci, per sempre, del peggiore dei peccati: il fratricidio e il parricidio. Settanta e più anni passati nell’odio non hanno ancora insegnato, a una porzione di questo Popolo quasi meraviglioso, che la Storia si scrive da sola: non la creano né i vincitori, né i vinti. Prima o poi, infatti, le bugie dei vittoriosi vengono scoperte e la guerra riprende. Già! La guerra. Quella che i finti vincitori continuano a deprecare pubblicamente, ma di cui si beano nei racconti. Salvo, poi, dover fare i conti coi propri incubi. Le innegabili schifezze perpetrate sui civili, a fine conflitto, non hanno giustificazione. Fascisti o no!  E sono sicuro che i protagonisti di quelle porcate siano proprio gli stessi che, nel corso di questi maledetti settant’anni, abbiano inventato una nobiltà che quella guerra non ha avuto. Non sono nobili quegli stupri, gli omicidi, i ferri di cavallo inchiodati alle mani e ai piedi di gente inerme, le sevizie, le torture, le foibe… Così come non lo erano stati i lager, le leggi razziali, le purghe…E non è nobile, oggi, a parer mio, continuare a mentire. Né continuare a riesumare fantasmi di un passato che E’ PASSATO, per cercare di rattoppare un presente sbrindellato e senza dignità. Figlio di una ricostruzione fasulla e di una rivoluzione politica e sociale postsessantottina, ignorante, proterva e stronza. Tanto per rimanere alle chiacchiere da bar della piazza e senza voler intavolare discorsoni da convegno mondiale sul XX secolo. Non finiranno le repliche televisive pasquali di tutti i gesucristi cinematografici, che cominceranno le messe in onda di “testimonianze” di ogni genere su un periodo che, piaccia o no, ha portato l’Italia ad essere una delle Potenze Mondiali. Ma “i Vinti” non avranno, ancora una volta, diritto alla parola. A ciacolare di fascismo e antifascismo saranno, ancora, storici improvvisati, magari trenta/quarantenni; presunti “testimoni”, senza prove alla mano; parenti o eredi di antifascisti veri e presunti. Magari qualche vedova di partigiano. Anche di quelli che lo sono diventati dopo il 25 aprile 1945, dopo il 28 aprile 1945! O, peggio, si ritaglieranno uno spicchio di palcoscenico quei dannati della storia, nati dieci, vent’anni dopo la fine della guerra, che grondano odio per sentito dire. Per ozio. Perché da piccoli non avevano la televisione. Perché non esserci fa male. Mussolini riposa. Anche i suoi figli. L’odio, no.

L'altra Resistenza. Quella che nessuno vuole più ricordare. Il saggio di Ugo Finetti ricostruisce le vicende di militari e partigiani dimenticati Erano patrioti e lontani dal Pci, per questo nei libri di storia non c'è stato posto per loro, scrive Matteo Sacchi, Venerdì 24/04/2015, su "Il Giornale". Tra l'8 settembre del 1943 e il 25 aprile del 1945 (data ufficiale della Liberazione, anche si sparò ancora un bel po') chi ha combattuto per liberare l'Italia dall'occupazione tedesca supportata dalle forze (assolutamente gregarie) della Rsi? La risposta all'apparenza è molto semplice. In primo luogo gli anglo-americani e gli alleati, tra cui andrebbe citato il numerosissimo contingente polacco che arrivò a contare 75mila uomini. In secondo luogo le forze cobelligeranti italiane, il Corpo Italiano di liberazione, ovvero ciò che restava del regio esercito. Che crebbe di consistenza durante il conflitto per arrivare a contare 22mila uomini perfettamente armati e disciplinati. Poi le formazioni partigiane di diversa estrazione ideologica e politica. Nel '43 i loro organici erano ridottissimi. Nell'aprile del '44 secondo la maggior parte delle fonti contavano circa 22 mila uomini. Le formazioni comuniste erano le più numerose, ma ben lontane da rappresentare la maggioranza assoluta delle forze partigiane. Quello fatto sin qui potrebbe sembrare un bigino inutile ed ovvio. Però a settant'anni dal 25 aprile del '45 l'immagine che ci viene regalata della Liberazione è ancora molto distorta. Ideologizzata. Il contributo delle truppe regolari italiane marginalizzato, i partigiani raccontati come se avessero tutti al collo un fazzoletto rosso (ma rosso comunista, perché anche sui socialisti già si potrebbe storcere il naso), gli anglo-americani rimossi, anzi quasi colpevoli di averci negato la possibilità di essere inclusi nel Patto di Varsavia. È del resto di qualche giorno fa un titolo delle pagine di Repubblica che recitava così L'Armata Rossa che fece la Resistenza. Racconta le vicende dei soldati sovietici che fuggiti ai tedeschi cooperarono coi partigiani. Sulla loro consistenza numerica non occorre fare molti conti, nel testo si spiega che se ne sa poco, ma il titolo fa ben capire dove si vuole andare a parare. Se si vuole sfuggire a questo clima, che ha stravolto la storiografia per decenni, è di aiuto il testo di Ugo Finetti che proponiamo in allegato con il Giornale nella nostra biblioteca storica, La Resistenza cancellata (pagg. 376, euro 7,60 più il prezzo del quotidiano). Finetti, ex giornalista della Rai con all'attivo moltissime inchieste e reportage, ricostruisce in questo saggio l'uso politico della Resistenza fatto nel Dopoguerra. Spiegando quanto quest'uso politico abbia fatto male alla stessa Resistenza. Per usare le sue parole: «Quando l'antifascismo diventa un marchio di cui una minoranza pretende di avere l'esclusiva, e si accusa quotidianamente di fascismo la maggioranza, si scava un fossato tra antifascismo e opinione pubblica». Ma soprattutto Finetti dà largo spazio alla storia dei resistenti dimenticati. In prima istanza i militari. E rende loro giustizia dopo decenni di oblio: «La resistenza non fu infatti una guerra civile tra due élites - i rivoluzionari comunisti e gli irriducibili di Salò - ne ebbe come caratteristica la lotta di classe. Vide alla nascita come protagonisti militari guidati da ufficiali legittimisti... Le prime formazioni hanno come denominazione richiami risorgimentali e gli Alleati ne favorirono la nascita. Il Partito comunista, dal 25 luglio 1943 fino all'aprile 1944, svolse un ruolo del tutto secondario». E l'opera di ricerca di Finetti è pregevole soprattutto quando aiuta a riscoprire personaggi importanti come il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, che fu il vero organizzatore della lotta antitedesca a Roma. Partecipa all'inutile tentativo di difendere la città sotto l'attacco tedesco. Si dà alla clandestinità. Il 10 dicembre 1943, quale comandante riconosciuto dal governo Badoglio, dirama a tutti i raggruppamenti militari nell'Italia occupata dai nazifascisti la circolare 333/op, nella quale vengono indicati gli obbiettivi dell'organizzazione clandestina e le direttive per la condotta della guerriglia. Le sue parole d'ordine erano: «guerra al tedesco et tenuta ordine pubblico». Cosa che lo metteva in forte concorrenza con i Gap (Gruppi di azione patriottica) e getta una luce sinistra sul suo arresto e la sua fucilazione alle fosse ardeatine. Ma non è un caso isolato. Anche Edgardo Sogno, medaglia d'oro della Resistenza, contatto principale di Radio Londra tra i resistenti italiani, è stato ostracizzato. Stessa sorte per Alfredo Pizzoni che subito dopo l'8 settembre 1943, pur non appartenendo ad alcun partito politico, fu scelto per presiedere il Cln lombardo, che nel febbraio 1944 divenne il ClnaI. Nei libri di storia non compare, troppo borghese. Finetti rende giustizia a quei patrioti, come i militari che resistettero alla Wehrmacht mentre per colpa del Re e di Badoglio il Paese finiva allo sbando, che sono stati rimossi dalla memoria perché non omologabili. È revisionismo? O il revisionismo di comodo è stato il precedente oblio?

Esecuzioni, torture, stupri Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega, scrive Giampaolo Pansa, Domenica 07/10/2012, su "Il Giornale". C’è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro. Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della libertà. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile. C'è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell'introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro.

Alle sanguinose radici della guerra civile italiana. "Dalla fondazione dell'Rsi al 25 aprile del 1945". Il saggio di Giorgio Pisanò racconta giorno per giorno come la nazione si spaccò in due dopo l'8 settembre '43, scrive Matteo Sacchi, Sabato 01/04/2017, su "Il Giornale".  C'è stato un periodo in cui, in Italia, per le vicende belliche occorse tra l'8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 alcune locuzioni, per quanto evidenti e banali, erano vietate. Si poteva parlare di Resistenza, ma solo in toni enfatici. Per quanto ormai sia un fatto accettato da quasi tutti gli storici che la consistenza militare delle formazioni partigiane fu minima. Si poteva altresì parlare di occupazione nazifascista. Nonostante il fatto che la definizione fosse quanto meno ambigua. Sì, certo, le truppe del Reich avevano occupato buona parte della penisola sfruttando la disastrosa gestione dell'armistizio da parte dei vertici militari italiani. Ma non è che i fascisti, la seconda metà di questa endiadi, fossero spuntati da Marte. Erano italiani che per un motivo o per l'altro preferivano il vecchio regime. Non avevano occupato un bel nulla. La locuzione guerra civile, invece, piaceva molto meno. Anche se dava conto molto meglio degli eventi. L'Italia si era spaccata in due. E non solo geograficamente. La frattura tra chi era rimasto fascista e chi no tagliava verticalmente in due anche le singole famiglie. Ma di questo a guerra conclusa non si voleva più parlare. Meglio aggrapparsi a parole come «cobelligeranti» e regalare una nuova verginità al Paese. Tra i primi a scrivere chiaro e tondo che di guerra civile si era trattato c'è stato Giorgio Pisanò (1924-1997). Quella guerra l'aveva vissuta in pieno, arruolandosi volontario nella X Mas e poi prestando servizio nella XXXVIII Brigata Nera «Ruy Blas Biagi» come tenente. Catturato, finì nel campo di prigionia R707 di Terni. Un luogo in cui gli alleati, con i non collaboranti, usavano una mano (munita di frusta) piuttosto pesante. Ma Pisanò non si limitò al personale e non giocò mai la faccenda in chiave di rivalsa, semmai di oggettività giornalistica. Prova ne è il gigantesco archivio che iniziò a costituire subito dopo la guerra e che aveva assunto anche una enorme consistenza, per quanto riguarda le fotografie originali, quando Edilio Rusconi gli chiese di realizzare Il vero volto della guerra civile. Documentario fotografico (1961). Da questo lavoro certosino è nato anche Storia della guerra civile in Italia di cui oggi il Giornale pubblica il primo volume. In una narrazione molto asciutta Pisanò ricostruisce i fatti accaduti subito prima e subito dopo l'8 settembre. È dato spazio alla misteriosa morte di Ettore Muti, al pasticciaccio brutto della mancata difesa di Roma e alla formazione dei primi raggruppamenti partigiani. Pisanò mette chiaramente in luce quanto la situazione subito dopo l'armistizio fosse confusa. E l'animo dilaniato della popolazione. Un esempio per tutti: la vicenda di Vincenzo Costa. Costa al momento dell'armistizio era capitano degli alpini. Appena i tedeschi iniziarono a manovrare per prendere il controllo di Udine diede vita a una feroce resistenza. Quando poi capì che Mussolini stava tornando al potere fece rotta verso Milano (era un fascista della prima ora e originario di Gallarate). I tedeschi, grazie a una spia, lo catturarono. Avevano tutta l'intenzione di sistemarlo per le feste e lo misero su un vagone piombato. Riuscì a scappare portando con sé molti altri prigionieri. Una volta a Milano però divenne il comandante della Brigata Nera «Aldo Resega». Tanto per far capire quanto fosse difficile per tutti capire da che parte stare. La gran parte della popolazione? Piaccia o non piaccia rimase per lo più in attesa. A cambiare le cose ci pensarono il pugno duro dei tedeschi e la scelta dei Gap comunisti (molto diversi dai raggruppamenti partigiani in montagna) che, colpendo senza pietà, scatenarono così la reazione inconsulta dei fascisti più violenti ed esagitati. Un esempio fu l'attentato a Milano al federale Aldo Resega. Resega era contrario alle rappresaglia per gli attacchi dei Gap. Quando i Gap lo uccisero i fascisti oltranzisti diedero vita alla più inutile delle rappresaglie, uccidendo dei prigionieri antifascisti che nulla avevano a che fare con l'attentato. Ma a lungo questa ricostruzione precisa di Pisanò è stata sgradita alla storia accademica.

La "caduta" della Rsi raccontata in ogni dettaglio, scrive "Il Giornale" Venerdì 31/03/2017. Domani, per la collana «Controstoria d'Italia» de «Il Giornale», sarà in edicola una nuova opera dedicata alla guerra civile in Italia dal 1943 al 1945. Si tratta della documentata inchiesta di Giorgio Pisanò, rieditata in dieci volumi, dal ricchissimo apparato iconografico. 2.314 fotografie quasi tutte inedite, 6.000 nomi di persone e 2.000 località citate per raccontare la trama sanguinosa della lotta fratricida: regione per regione. I libri - in abbinamento ciascuno al prezzo di euro 9,90 più il prezzo del quotidiano - squarciano il silenzio sulla resa dei conti tra italiani: omicidi, vendette, eccidi, da sempre esclusi dalla storiografia dei vincitori. Insieme al primo volume sarà allegato in omaggio il libro «Gli ultimi cinque secondi di Mussolini», dello stesso Giorgio Pisanò.

L’altra faccia della resistenza. Un’eccezionale opera di valore storico e documentario, unica ed imprescindibile per capire quegli anni: 10 volumi illustrati; 2314 fotografie; 6000 nomi di persone; 2000 località citate.

Dalla fondazione dell'Rsi al 25 aprile del 1945, scrive "Il Giornale" Sabato 1/04/2017. Da oggi, per la collana «Controstoria d'Italia» del «Giornale», sarà in edicola una nuova opera dedicata alla guerra civile in Italia dal 1943 al 1945. Si tratta della documentata inchiesta di Giorgio Pisanò (1924-1997), riedita in dieci volumi, dal ricchissimo apparato iconografico, 2314 fotografie quasi tutte inedite, 6mila nomi di persone e 2mila località citate per raccontare la trama sanguinosa della lotta fratricida regione per regione, città per città, valle per valle. I libri - in abbinamento ciascuno al prezzo di euro 9,90 più il prezzo del quotidiano - rompono il silenzio sulla resa dei conti tra italiani: omicidi, vendette, eccidi, da sempre esclusi dalla storiografia dei vincitori. Insieme al primo volume di «Guerra civile in Italia» sarà allegato, in omaggio, il libro «Gli ultimi cinque secondi di Mussolini», dello stesso Giorgio Pisanò, che racconta nel dettaglio la cattura e l'esecuzione del Duce da parte dei partigiani. Un’opera di eccezionale valore storico e documentario, unica e imprescindibile per capire quegli anni. Quanto costò in lacrime, sangue, orrori e distruzioni la lotta tra italiani? Quanti furono i fascisti o "presunti tali" massacrati a guerra finita? Chi furono i responsabili delle atrocità che insanguinarono "il triangolo della morte" dopo la conclusione del conflitto?"Storia della guerra civile in Italia 1943-1945" di Giorgio Pisanò squarcia la cortina di silenzio sulla resa dei conti tra italiani e sulla lotta fratricida da sempre esclusa dalla storiografia dei vincitori. Un'opera che documenta i falsi miti della Resistenza. In questo libro c'è la prova della truffa del 25 aprile.

La lettera aperta di Paolo Pisanò, fratello del giornalista e saggista Giorgio Pisanò, al direttore Alessandro Sallusti in merito alla riedizione della Storia della Guerra civile in Italia da parte de Il Giornale. Paolo Pisanò, Giovedì 06/04/2017. Egregio direttore, la riedizione della Storia della Guerra civile in Italia dopo mezzo secolo dalla prima uscita, grazie all'iniziativa editoriale del Giornale, segna, a mio parere, un punto di non ritorno: se ciò che documentava Giorgio Pisanò cinquant'anni or sono è ancora valido e credibile, allora il 25 aprile non può continuare a essere una festività nazionale oppure ne va rivisto il senso. Perché delle due l'una: o quella di Giorgio Pisanò è una raccolta di fake news da Guinness dei primati, ovvero notizie false e tendenziose atte a screditare le radici nobili della Repubblica italiana (ma allora non si capisce perché si possano ancora diffondere impunemente invece di essere demolite istituzionalmente e perseguite penalmente), oppure sono storiograficamente inattaccabili e allora nessuna Repubblica al mondo, nemmeno sedicente «nata dalla Resistenza» (in realtà nata dalla sconfitta militare dell'Asse, al pari di Germania e Giappone), può permettersi di elevare a festa nazionale una data che è soprattutto di morte, strage e orrore per milioni di cittadini discendenti dalle centinaia di migliaia di vittime da allora bollate come «indegne di ricordo» (basti pensare solo ai centomila italiani rimasti sotto le macerie dei bombardamenti terroristici «liberatori» e totalmente dimenticati) ma i cui figli, nipoti e pronipoti si sono moltiplicati e custodiscono invece con affetto la memoria dei loro cari, ingiustamente discriminata.

Nessuno Stato al mondo, per quanto retto da follia o demenza, può macchiarsi, oltre un certo limite temporale, di una simile, sadica assurdità.

L'odierna democraticissima Germania non festeggia la «liberazione dal nazismo» il 29 aprile, il 7 maggio e l'8 maggio, giorni della sua capitolazione sui tre fronti europei Sud, Ovest, Est.

L'odierno democraticissimo Giappone non festeggia la «liberazione dal militarismo» il 2 settembre, giorno della sua resa a Tokyo.

L'odierna democraticissima Francia non festeggia la liberazione di Parigi dal «tedesco invasore» il 25 agosto, pur avendone tutto il diritto perché i tedeschi in Francia erano dei veri occupanti e il governo in esilio presieduto a Londra dal generale De Gaulle poteva legittimamente rappresentare la Repubblica francese indomita davanti a quelli. Mentre il governo Laval con il maresciallo Pétain (al pari del governo Badoglio con Casa Savoia in Italia dopo l'8 settembre 1943) era un'entità sotto costrizione e collaborazionista con l'invasore, tanto da gestire direttamente, in nome e per conto di quest'ultimo, l'orrenda retata di ebrei concentrati al Velodromo d'inverno di Parigi il 16 e 17 luglio 1942.

L'odierna democraticissima Spagna non festeggia il primo aprile la vittoria della «crociata contro i senza Dio» nella sua Guerra civile (17 luglio 1936-1 aprile 1939) ma neppure, il 20 novembre, la «liberazione dal franchismo» (morte di Francisco Franco, 4.12.1892-20.11.1975). Conserva invece, molto civilmente, sulla Sierra di Guadarrama, l'imponente Valle de Los Caídos (saggiamente depoliticizzato per legge dal 2007) dove i vincitori avevano riunito, fin dal 1940, gli uni accanto agli altri, i resti di 33.872 caduti di tutte le parti in lotta (anche volontari italiani fascisti e antifascisti) raccolti su tutti i fronti della carneficina (300mila morti).

Gli odierni democraticissimi Stati Uniti d'America non festeggiano il 9 maggio la «liberazione dalla schiavitù», ovvero la fine della loro Guerra civile (12 aprile 1861-9 maggio 1865): 1.030.000 vittime. Celebrano, invece, il Memorial Day ogni ultimo lunedì di maggio, giorno dedicato alla commemorazione di tutti gli americani caduti nella storia militare Usa, confederati inclusi. Gli Stati Uniti ebbero la forza morale di fare questo passo avanti dopo la prima guerra mondiale, ossia dopo che per oltre mezzo secolo il Memorial Day era stato dedicato solo ai caduti unionisti.

Sarebbe così difficile chiedere oggi, in tanti, trasversalmente, allo Stato italiano la stessa forza morale per cancellare il 25 aprile dalle festività nazionali e sostituirlo con un diverso Giorno del ricordo per tutte, indistintamente tutte, le vittime di quel tragico periodo, incluse quelle sacrificate agli «eccessi del dopo», consumati per le spicce nell'orgia rossa di «soluzione finale del problema borghese» ma anche attraverso i famigerati «tribunali del popolo» e le infami leggi retroattive brandite per puro spirito di vendetta dalle vergognose «corti d'assise straordinarie» a vocazione fucilatoria?

Non sarebbe ora che anche l'Italia si adeguasse, in quanto a capacità celebrativa, agli standard di civiltà del terzo millennio comandando in servizio in ogni Giorno del ricordo picchetti armati di soldati italiani per rendere gli onori militari di Stato (ossia di tutti) a tutte le vittime della Guerra civile, in tutti i luoghi simbolici ormai ben definiti, anche quelli affidati ancora al rispetto e al ricordo della sola iniziativa privata perché «istituzionalmente indegni», con contorno di immancabili polemiche sempre più anacronistiche e disgustose a proposito di inesistenti «vincitori» e «vinti», «parti giuste» e «parti sbagliate»?

Fuori dai propri confini, davanti al mondo, l'Italia intera, allora, era vinta e stava dalla parte sbagliata, tanto che sarebbe stata ammessa all'Onu solo il 14 dicembre 1955, ossia dieci anni dopo la sua fondazione (24 ottobre 1945).

Non si potrebbe, con un po' d'impegno civile, di buon senso e di buona volontà, far sentire i maniaci della festa di morte (irrimediabilmente simboleggiata dal carnaio di piazzale Loreto), una volta tanto «politicamente scorretti»?

Io credo che se lei prendesse anche questa iniziativa coraggiosa, tanti italiani la seguirebbero con sollievo e gratitudine.

Cronache dalla guerra civile. Storia nostra e verità nascoste, scrive su "Il Giornale d'Italia" Emma Moriconi il 10/01/2017.  Le indagini di Giorgio Pisanò e le orribili vicende di Mosso Santa Maria. Di guerra civile e verità nascoste abbiamo parlato a lungo in questi anni durante i quali, quotidianamente, abbiamo tentato di raccontare ai nostri lettori vicende storiche obliate dai libri di storia. Il problema più grosso, lo abbiamo detto e lo ripetiamo, sono i libri scolastici: quelli cioè su cui si formano le menti degli uomini di domani. I quali buon senso vuole che si rendano edotti della verità storica e non di un racconto di parte, anche perché sono passati più di settant'anni e questa roba non si sopporta davvero più. Della guerra civile in Italia abbiamo parlato a lungo, eppure tantissime sono le vicende da riferire, da esaminare, da conoscere per comprendere la nostra storia, tutta. Il lavoro egregio di Giorgio Pisanò, inoltre, non può restare sepolto, questo è certo. Il fatto è che i suoi documentatissimi scritti, frutto di anni di ricerche nei luoghi, di reperimento di testimonianze, di analisi delle prove, non sono di facilissimo reperimento, figurarsi. Mentre gli scaffali delle librerie pullulano di libri più o meno veritieri, questo prezioso tesoro firmato dal grande giornalista è diventato roba per collezionisti: difficile trovarlo, complicato averlo tra le mani per esaminarlo. E dunque laddove mancano le grandi case editrici, cerchiamo di porre rimedio su questo Giornale d'Italia, che ogni giorno è impegnato nella missione della ricerca e diffusione della verità. Siamo nel Biellese, oggi. I lettori più fedeli ed attenti ricorderanno che ci siamo già stati più volte. Una zona dove, riferisce Pisanò, la gente non aveva alcuna velleità se non quella di essere lasciata in pace. Era chiedere troppo. La notte del 17 febbraio 1944 i paesi di Cossato, Strona e Lessona, a est di Biella, videro l'ingresso di alcune pattuglie comuniste, arrivate per prelevare un certo numero di persone tra le più conosciute della zona. A comandare la "Piave" era Piero Maffei. Come si può vedere Pisanò fornisce nomi e cognomi. Agli ordini di costui, due comunisti, Ermanno Angioino e Edis Valle, prelevarono dodici persone, tra cui cinque donne, mentre una tredicesima venne uccisa nella sua abitazione, mentre ignaro apriva la porta di casa sua ai suoi assassini, che non si preoccuparono nemmeno del fatto che l'uomo tenesse in braccio il più piccolo dei suoi figli: una scarica di mitra, e il malcapitato si ritrovò a terra, cadavere. Si tratta di Enrico Carta, di Cossato. Fascisti e tedeschi in perlustrazione nella zona si scontrarono con i tre, mentre questi erano impegnati in un altro prelevamento di persone. Maffei, Angioino e Valle rimasero uccisi, un quarto uomo riuscì a fuggire e diede l'allarme. Riferisce testualmente Pisanò: "Nelle tasche di uno dei caduti venne trovato l'elenco delle persone che dovevano essere prelevate quella notte: trenta, tra le quali molti dei più noti industriali della zona. Nella versione che il Moscatelli dà dell'avvenimento, tutto ciò viene gratuitamente definito 'un'azione contro le spie'". In realtà si trattò di una spedizione punitiva vera e propria: secondo i partigiani il rastrellamento di civili sarebbe stato una "lezione" per tutti, visto che gli industriali del territorio lavoravano dietro ordinazioni effettuate da tedeschi. "Lavoravano", precisiamo: cioè tiravano a campare, prendevano ordinazioni e realizzavano prodotti che vendevano. Figurarsi se per gli industriali del Biellese fosse importante da chi arrivava l'ordine: si lavora per vivere, o no? Fatto sta che l'impresa fallisce parzialmente, e così i partigiani decidono di dare "l'esempio" fucilando i dodici prigionieri. Erano le ore 12 del 18 febbraio, il fuoco contro i dodici civili venne esploso presso il cimitero di Mosso Santa Maria. Nemmeno i Sacramenti ricevettero, i dodici. Pisanò ce li elenca tutti, e noi ve li raccontiamo, uno dietro l'altro, affinché nessuno e nulla sia dimenticato: Carlo Botta, 59 anni e le sue due figlie Duilia (23 anni) e Gemma (21); Francesco Repole, un agricoltore 61enne; Raffaele Veronese, impiegato, 42 anni; Giuseppina Goi, operaia, 49; Ernesto Ottina, negoziante, 46 e sua moglie Tecla, 45; Leo Negro, commerciante, 46; Giovanni Maffei, agricoltore, 39; Sandro Tallia, 25 anni, commerciante; Palmira Graziola, 57 anni. Gente normale, nessuno coinvolto con la Repubblica Sociale, anzi Ottina aveva fornito mezzi ai partigiani e aveva "preteso" di essere pagato: e così venne prelevato e assassinato proprio per dare un ulteriore esempio... Ma la tragedia di Mosso Santa Maria doveva ancora fare un'altra vittima. Il Comandante della Stazione dei Carabinieri, Alfonso Taverna, si suicidò con un colpo alla testa per il senso di colpa per non aver potuto impedire il massacro. Aveva 39 anni. Per rappresaglia, nei giorni successivi alcune squadre fasciste andarono a cercare i partigiani. Molti riuscirono a fuggire, ne vennero prelevati sette e vennero condotti al cimitero, e lì fucilati. Erano tutti giovanissimi, e ci si chiede perché si debba morire così, a 18 anni appena. La rappresaglia è una legge di guerra, e la guerra civile non fa eccezione. Ma quanto sangue versato... ecco i nomi dei sette giovani partigiani uccisi il 21 febbraio: Antonio Gavazzo,18 anni. Palmiro Carmelo, 18. Corrado Lanza, 18. Roberto Arrigoni, 18. Francesco Crestani, 21. Frank Bowes, neozelandese. Kenneth Osborne, australiano.

Troppo sangue. Davvero troppo. E ogni vita stroncata è una ferita aperta nella storia d'Italia, questo è certo. Però la verità va detta tutta. E dunque non può bastare il racconto che della vicenda fa Moscatelli, che non dice una parola sul rastrellamento e sulle tredici uccisioni ma parla soltanto della spedizione punitiva di fascisti e tedeschi contro i partigiani. Ma non abbiamo finito, e ci mancherebbe. Appuntamento a domani, per un'altra brutta vicenda che farà male, ma che dobbiamo conoscere.

Quelle mani partigiane sporche di sangue, scrive su "Il Giornale d'Italia" Emma Moriconi l'1 luglio 2016. Nella Capitale il libro "Il sasso che alza il cielo - La mia lunga ricerca della verità sui nonni uccisi dai partigiani". Ieri la presentazione del volume di Lara Foletti a "Incontri d'Arte", sul Lungotevere, con il patrocinio di Regione Lazio e Comune di Roma. Forse la verità non fa più così paura. Forse c'è finalmente voglia di raccontarli tutti, i fatti del secondo dopoguerra. Forse siamo un popolo che può crescere, migliorare, maturare. Forse. Perché se un libro come quello di Lara Foletti dal titolo "Il sasso che alza il cielo", Faust Edizioni, viene presentato a Roma, sul Lungotevere, nel corso dell'evento "Incontri d'Arte: poesia romanesca e narrativa storica", evento patrocinato dalla Regione Lazio e dal Comune di Roma e organizzato da Accademia di Musica Italia, si può finalmente sperare che certe vicende siano state finalmente consegnate alla storia. Il libro - del quale parleremo in maniera approfondita nei prossimi giorni e che intanto ci permettiamo di suggerire ai nostri lettori - reca documenti inediti e rivelazioni sulle violenze commesse dai partigiani negli anni della guerra civile in Italia. All'evento hanno preso parte, insieme all'autrice, la storica e critico d'arte Anna Iozzino, l'autrice e poetessa Stefania Angeliani e la critica e avvocatessa Licia De Pascalis. Un tavolo tutto al femminile, insomma, per un evento interessante e di livello. Il libro della Foletti ha destato alcune polemiche, perché va a toccare un argomento che scotta: si può dire che ci furono partigiani che assassinarono gente innocente, che si macchiarono di violenze inaudite, se si hanno i documenti che lo provano? Direi proprio di si, non deve più esistere l'equazione partigiani=eroi perché non è così. E non discuto sul fatto che ci siano stati partigiani animati da sentimenti sinceri, per carità. È vero, anzi (e infatti alcuni vennero massacrati da altri loro compagni proprio perché non si adeguavano ai diktat imposti, ma questa è un'altra storia. O forse no, è proprio la stessa storia...). Non deve più esistere la sudditanza psicologica e culturale di non poter discutere sui partigiani: c'è chi discute su Dio, figuriamoci se loro possono considerarsi intoccabili! Il libro di Lara Foletti si concentra, geograficamente parlando, nel territorio di Ferrara e della sua provincia, l'autrice è originaria di Alfonsine, appunto nel ravennate, e vive a Roma. Il sottotitolo del volume parla da sé: "La mia lunga ricerca della verità sui nonni uccisi dai partigiani". Uscito in prima edizione nel luglio 2015, ristampato nell'autunno dello stesso anno e ora disponibile nella sua seconda edizione con nuovi documenti inediti e clamorosi. La prefazione è firmata da Paolo Pisanò, che definisce il lavoro della Foletti come una "testimonianza di ribellione all'infamia elevata a sistema e di amore per la propria terra e la propria gente. Testimonianza - aggiunge - soprattutto di verità sacrosanta ma ancora 'sconosciuta' per suprema ipocrisia di Stato e infinita stoltezza politica". Quanto ha ragione, Paolo Pisanò. Di questo lavoro di Lara Foletti daremo ampio conto ai nostri lettori, perché intendiamo sostenere la sua battaglia di verità, che poi è la battaglia di ciascuno di noi. Perché la storia familiare di Lara, e le vicende nel ferrarese, appartengono alla storia d'Italia, alla storia dell'uomo, e non si può pensare di seppellire, insieme a quei poveri morti, persino la verità.

RETORICA PARTIGIANA. Il 25 aprile e il falso storico della Resistenza vittoriosa. La Resistenza è stata ininfluente ai fini della liberazione della penisola dai nazi-fascisti, ha colpevolmente mentito sui massacri della guerra civile, è diventata il simbolo dell’Italia comunista. Ma ha ancora senso celebrare il 25 aprile? Scrive Roberto Bettinelli. In una società che ha l’ossessione dell’immediato e dell’evanescente, caratterizzata da attributi come la liquidità e la fluidità, è corretto riproporre ciclicamente spazi e momenti destinati alla memoria. Sono i momenti in cui l’esistente è sottoposto al giudizio che si sviluppa a partire dal confronto con il passato. Se si escludono i giorni che rivestono un’importanza cruciale nel calendario religioso L'esigenza di fermare il flusso dell’esistenza, di giudicare appunto, si manifesta in occasione delle ricorrenze che scandiscono la storia dell’Italia repubblicana. Fra queste il 25 aprile, la Festa della Liberazione, ricopre un ruolo fondamentale. E usurpato. Il 25 aprile è il giorno in cui si festeggia la liberazione dalla dittatura fascista e dall’occupazione nazista. Un’impresa che la storiografia encomiastica della Resistenza attribuisce alla guerriglia partigiana. Non c’è nulla di più falso. Il fascismo si è disgregato a causa della scelta nefasta dell’entrata in guerra al fianco della Germania. Benito Mussolini è stato esautorato la sera del 24 luglio del ’43 da un ordine del giorno del Gran Consiglio del Fascismo redatto dal gerarca Dino Grandi, squadrista e figura di spicco del ventennio, già ministro della Giustizia, degli Esteri e presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Si trattò di un golpe interno ed ebbe successo grazie al contributo attivo della monarchia sabauda. La riunione del 24 luglio venne preparata da Grandi dopo aver preso accordi con il re Vittorio Emanuele III che aveva detto chiaramente come fosse necessario il passaggio della sfiducia del Gran Consiglio per destituire Mussolini. Dei 28 membri presenti alla seduta, 19 votarono a favore dell’ordine del giorno, 8 votarono contro e uno si astenne. Il giorno dopo Mussolini venne arrestato a Villa Savoia e il re, forte dell’articolo 5 dello Statuto Albertino, riprese il comando delle forze armate. Come si evince da questa rapida carrellata il fascismo finì a causa di un'implosione e non certo, come si è voluto far credere a lungo, per l'aggressione del movimento partigiano. Un attore, questo, che non può rivendicare molto nemmeno sul fronte della guerra ai nazisti dal momento che furono gli alleati, a partire dagli sbarchi in Sicilia e ad Anzio, a cacciare l’esercito di Hitler dalla penisola. I partigiani diedero un apporto minimo, confuso, irrilevante ai fini della conclusione del conflitto. In più le loro azioni, spesso condotte irresponsabilmente contro i reparti tedeschi già in fuga, provocarono reazioni sanguinose contro la popolazione civile che si sarebbero potute evitare risparmiando la vita a numerosi innocenti. L’insurrezione del 25 aprile, in memoria della quale è stata istituita la Festa della Liberazione, venne ordinata dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia guidato da Longo, Sereni, Pertini e Valiani e fu, in tutta onestà, una risposta più che altro simbolica, priva di rischi e di effetti sul piano militare. Drammatica fu invece la stagione della guerra civile che venne inaugurata subito dopo. Il copione è ampiamente conosciuto grazie al successo dei libri coraggiosi di un giornalista di sinistra come Giampaolo Pansa. Italiani contro italiani, partigiani contro repubblichini, faide e vendette. Una scia di sangue che non consente a nessuna delle due parti, men che meno ai ‘resistenti’ che in taluni casi seguitano a mentire sui massacri compiuti, di mettersi al petto le medaglie della verità e dell’impunità. I morti ci furono sia fra le fila dei partigiani sia fra quelle dei fascisti. Ma con la differenza rilevante che ai primi è stato concesso tutto, compresa una gloria militare immotivata e la piena immunità davanti al tribunale della storia. Ai vinti, invece, è stato negato tutto. Perfino la dignità del ricordo. Sgombrato il campo dagli equivoci di natura storica, resta da capire quale è stata l’eredità del 25 aprile. Nata per volontà del più grande statista repubblicano, Alcide De Gasperi, è diventata via via il trionfo di una morale superiore, personificata nel mito della Resistenza. Il paradosso della Festa della Liberazione, concepita per suggellare nel candore e nell’eroismo la nascita della nuova repubblica, è che è diventata successivamente il simbolo di quella cultura di sinistra che non ha mai smesso di odiare la nazione sorta sulle ceneri del ventennio per immaginare un’altra Italia. A lungo, quest’altra Italia, è stata plasmata sul modello della Russia comunista. Un regime che ha superato di gran lunga il fascismo mussoliniano nella repressione delle libertà uguagliando, nei crimini e negli stermini di massa, la Germania nazista. Ora fortunatamente i sostenitori dell’altra Italia, ideologica e di sinistra, non possono più contare sul silenzio della storia. La Resistenza ha ormai mostrato il suo vero volto. L’inganno non può essere perpetrato se non colpevolmente. Il 25 aprile non può più essere la festa in cui legittimamente si celebra la vittoria del movimento partigiano. Può essere, però, molto di più. La festa della riconciliazione nazionale. Ma allora, in tutte le città italiane, dovrebbero apparire corone di fiori per i vinti e non solo i vincitori. E a scuola gli studenti dovrebbero apprendere la verità dei fatti invece della menzogna. In assenza di questi segnali è doveroso negarne il valore storico ed educativo. Ed è impossibile non denunciarne la sostanziale inutilità ai fini della costruzione di una coscienza nazionale fondata sulla pacificazione, sull'unità e sul comune senso di giustizia.

Roberto Bettinelli si laurea con lode in Scienze Storiche presso l'Università degli Studi di Milano scrivendo una tesi sul politologo americano Robert A. Dahl. Sempre a Milano consegue la laurea nel corso magistrale di Lettere Moderne. Giornalista professionista. Studia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano dove consegue la laurea triennale in Scienze della Comunicazione e la specialistica in Comunicazione politica e sociale. Si è occupato a lungo di cronaca nera e giudiziaria. Ha fondato e diretto la testata online l’Inviato Quotidiano. Laureato con lode all'Università di Bologna nel corso di laurea Dams indirizzo arte. Ha collaborato con enti e associazioni nell'ambito dell'attività di ufficio stampa e comunicazione politica. 

Il 25 aprile. Testimonianza scritta da “L’Altra Verità". Il Presidente della Repubblica, il Governo, le forze politiche ed anche Alleanza Nazionale, alla quale aderiscono molti ex- combattenti della RSI, definiti da Gianfranco Fini “combattenti del male assoluto”, partecipando alle manifestazioni per il sessantennio della insurrezione partigiana vorrebbero significare l'unità nazionale stessa dinanzi a quegli eventi. Ma anche al più superficiale degli italiani, per non dire allo storico, appare evidente la contraddizione. Come può celebrarsi, quale fatto di unità nazionale, l'epilogo di una guerra civile?

Sessanta anni passati dalla tragica primavera italiana del 1945 sono ormai un tempo sufficiente, se non per affermare verità storiche, per lo meno per ricercarle. Decine di opere editoriali sono venute alla luce in questo periodo per rievocare eventi storici; alcune, in modo particolare quelle di Giampaolo Pansa, cercando di capire le ragioni dei perdenti ed il dramma vissuto nei giorni della “Liberazione” ma molte, ancora troppe, celebrano una guerra civile, volendo ignorare le ragioni, i contenuti ideali, presenti anche nella parte perdente, pur sapendo che , per logica e per natura, quelle ragioni e quei contenuti sono insiti in tutti gli atti umani, in ogni momento della storia dell'umanità?

Ci si compiace, e si ritiene che questo possa avere validità storica, di indicare gli sconfitti della guerra civile puramente e semplicemente come “turpe nemico”, come il “servo del tedesco invasore”, rendendo così agiografiche e stucchevolmente retoriche, tutte le rievocazioni delle gesta dei vincitori. Al di là di ogni intenzione di ricercare noi la verità storica per stabilire cosa furono in effetti la Resistenza italiana e l'epilogo del Fascismo italiano, questo numero di ADSUM vuole essere semplicemente la cronaca degli ultimi giorni della guerra civile in Italia. In quei giorni si evidenziò una carica d'odio, nell'Italia del Nord, che provocò un bagno di sangue, e rappresentò la sola realtà storica della primavera italiana del 1945. E allora la ricerca storica ci aiuta a capire il movente dei fatti verificatisi oltre 50 anni fa e soprattutto la struttura umana di coloro che vollero quel bagno di sangue. Non per ribadire la condanna dei persecutori, né per beatificare le vittime, ma per dare un contributo, sia pure modesto, alla ricerca della verità. Alla fine del mese di marzo del 1945, le armate russe hanno ormai superato il fiume Oder, l'ultima linea di resistenza della Germania nazista. Scompare, praticamente, in termini di rilevanza bellica, l'esercito tedesco ad oriente. In coincidenza con questi eventi, resa della Rhur ad occidente. L'incalzare ormai inarrestabile delle armate anglo-americane, annuncia prossimo il crollo del Terzo Reich.

E' in questo quadro che si schiude la scena dell'ultimo atto della guerra sul fronte italiano. La vittoria anglo-americana in Italia è corollario alla sconfitta della Germania in Europa e ciò puntualmente si verifica nei primi giorni del mese di aprile. Cadono i contrafforti della linea gotica, inizia l'azione d'aggiramento dalla sponda adriatica al cuore dell'Emilia, cedono le ultime resistenze tedesche e italiane in Garfagnana e sul versante tirrenico. Forse ci si illude che sia ancora possibile riorganizzare una linea di resistenza sul Po, ma il 21 aprile l'occupazione di Bologna decreta la fine di ogni organizzata resistenza italo-tedesca anche sul fronte italiano.

Gli eventi bellici, da quel punto e da quel momento, sono nel susseguirsi di episodi di sistematica ritirata, nello straripare di armate anglo-americane nell'Italia del Nord, consistono in una pura e semplice operazione di occupazione militare. Questo epilogo sul fronte italiano ha avuto il suo presupposto nella assoluta supremazia dei mezzi alleati su quelli dell'apparato militare tedesco, sorretto solo dallo sforzo militare che la Repubblica Sociale era riuscita a realizzare, dopo il “tradimento” del Re d’Italia.

E' in questo quadro che si inseriscono gli eventi della cosiddetta insurrezione partigiana. Cosa fu l'insurrezione partigiana nei limiti di un'effettiva visualizzazione storica è lapidariamente descritto dal Comandante Supremo Alleato, Maresciallo Alexander, che così pubblicava nella “London Gazett” nel giugno 1950: “Vi fu, beninteso, l'insurrezione del 25 aprile '45; ma ciò avvenne dopo che gli eserciti tedeschi erano stati distrutti in battaglia a sud del Po, dopo che essi avevano intavolato trattative per la resa e appena una settimana prima della loro formale capitolazione finale”. Per una attenta analisi di quei giorni occorre valutare la realtà del movimento di resistenza nell'Italia del Nord dagli ultimi mesi del 1944 al febbraio del 1945. Nell'estate del 1944 si era consolidato il fronte italiano, una volta arrestatasi l'offensiva alleata a sud dell'Emilia, fra l'Adriatico e il Tirreno, da Rimini a La Spezia. Ebbero allora inizio le grandi azioni antipartigiane condotte dalle formazioni fasciste e dai reparti italo-tedeschi col risultato di eliminare, come entità operative, pressoché tutti i focolai partigiani di montagna. In quel momento il Comando interalleato del Mediterraneo rivolge precisi ordini alla resistenza italiana di sciogliersi, disimpegnarsi, nelle montagne e nelle città.

Cosa era rimasto nell'inverno '44 e sino al febbraio '45 di tutto l'apparato di guerriglia partigiana, sono gli stessi storici resistenziali a precisarlo: sopravviveva soltanto la capacità organizzativa del Partito Comunista, essendo questo riuscito a salvare sia i quadri delle formazioni partigiane garibaldine, che quelli delle Sap e dei Gap, vere e proprie organizzazioni terroristiche di città. Nel febbraio dei 1945, nel momento in cui l'epilogo del conflitto è prevedibile come imminente, in Italia si configura una nuova strategia del Partito Comunista. Esso persegue lo scopo predominante, se non esclusivo, di proiettare il nostro Paese nell'area dell'Impero Sovietico. Dopo l'inverno del '44 sono i quadri della resistenza comunista l'unica realtà operativa storicamente accertabile. In montagna sono le formazioni garibaldine del Partito Comunista che si riorganizzano, mentre in città riesplode il terrorismo delle Sap e dei Gap. Oggi gli storiografi dell'antifascismo parlano anche di sopravvissute e restaurate altre forze politiche: storicamente di costoro non esiste traccia.

Nel tentativo di storicizzare fatti insignificanti o addirittura inesistenti, nella rievocazione si è caduti nel ridicolo. L'obiettivo delle formazioni partigiane di montagna e di città, in quel momento, non è quello di coadiuvare in qualche modo lo sforzo militare degli Alleati per sconfiggere i tedeschi e i fascisti, ma, quello di assicurare al Partito Comunista il controllo dei grandi centri urbani dell'Italia Settentrionale e il conseguente insediamento dei comunisti nei posti di potere più importanti. In questa visuale il Partito Comunista si colloca al di sopra e al di fuori e, se necessario, contro lo stesso Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. Con la direttiva numero 15 i comunisti, nel febbraio-marzo 1945, stabiliscono quale obiettivo dei triumvirati provinciali e regionali della resistenza l'Insurrezione Partigiana. Ed è proprio per questo scopo che i triumvirati sono stati organizzati. Pietro Secchia così riferisce: “Per coordinare la lotta politica delle masse lavoratrici ...fin dal giugno 1944 il PCI aveva provveduto a costituire in ogni regione occupata dai tedeschi un triumvirato insurrezionale composto da tre, dirigenti le organizzazioni politiche e militari. Questi triunmvirati, pur di assicurare la vittoria all'insurrezione nazionale, dovevano operare anche nel caso in cui gli organismi unitari (i CLN) al momento decisivo non avessero funzionato o fossero stati paralizzati da dissensi interni”.

E’ il PCI che fa tattica e strategia, nell'ultima fase della guerra civile, rifiutando qualsiasi conclusione del conflitto che prescinda dall'insurrezione partigiana. Si rifiuta qualsiasi ipotesi di trasmissione indolore dei poteri tra la Repubblica Sociale Italiana e il governo del Sud, tra la Repubblica Sociale Italiana e lo stesso Comitato di Liberazione Alta Italia.

Su una eventuale pacificazione nazionale che potesse sorgere dall'una o dall'altra parte, dopo tanto sangue fraterno versato, i comunisti sono spietati e irremovibili. Ecco come si esprime il più autorevole compagno del nord, Luigi Longo: “Nessun lasciapassare, nessun ponte d'oro a chi se ne va, ma guerra di sterminio ... “. E ancora Longo che così redarguisce i pacifisti del CLN: per il successore di Togliatti alla guida del PCI, in quel momento il disegno da attuare è chiaro: “Muoiano della morte dei traditori i turpi fascisti e i plutocrati profittatori”.

Ora non si parla di sterminio dei soli fascisti, ma anche dei “plutocrati profittatori”. E il partito comunista che ritiene necessario che la cerchia degli eliminandi debba essere allargata a tutti quelli che in qualche modo potranno contrastare la prospettiva politica post bellica del comunismo. Alla direttiva numero 15 sopra ricordata, il 10 aprile fa seguito la direttiva insurrezionale numero 16, ovvero quanto occorreva fosse fatto “per predisporre e scatenare vere e proprie azioni insurrezionali”. E proprio Pietro Secchia, alter ego di Luigi Longo, nel fomentare e dirigere la guerra civile in Alta Italia, a dichiarare la necessità di: “respingere decisamente tutte le manovre tendenti a evitare e far fallire l’insurrezione nazionale (comunista)”. Gli storici seri hanno riconosciuto, trenta e più anni or sono, su “Civiltà Cattolica” che “Sul piano storico la resistenza si compendia in un'Italia piena di memorie tragiche e grandi ma che fu lotta fratricida che ha lasciato strascichi dolorosi negli animi degli italiani, una ferita non ancora rimarginata: una guerra civile combattuta con spaventosa violenza che ha portato le parti in lotta - partigiani, tedeschi e fascisti - ad efferatezze, ad eccidi, a rappresaglie e vendette terribili”. Ci si domanda oggi perché quella terribile lotta fratricida dovesse per forza proseguire dopo la fine della guerra e sfociare in un ulteriore bagno di sangue conseguente alla insurrezione partigiana? Ovvia la risposta.

Il Partito Comunista allora maestro di reapolitik, sapeva che non vi era spazio in Italia per una svolta rivoluzionaria. Aveva ben appreso dal suo “padrone” e ispiratore moscovita che lo schieramento internazionale dopo l'incontro di Yalta e gli accordi tra russi, americani e inglesi, non dava spazio in Italia ad un evento che consentisse la trasformazione della società italiana in senso comunista. Ma se non era possibile al PCI la conquista tout court del potere, lo scopo poteva essere raggiunto più tardi, previa la eliminazione fisica del maggior numero possibile di fascisti o comunque anticomunisti, la liberazione, cioè, della piazza da ogni seria opposizione al neo regime filosovietico. Ed è su questo presupposto che si verifica la mattanza della primavera '45, che è l'unico concreto risultato dell'insurrezione partigiana del 25 aprile. Eliminazione fisica dei fascisti o “presunti tali” allora, mistificazione storica poi, per spezzare sul piano psicologico il retaggio di valori ideali che le generazioni future avrebbero potuto acquisire dalla parte perdente. Vediamo cosa accadde, per esempio, a Genova, a Milano e a Torino.

Nella riunione del Partito Comunista che ebbe luogo a Milano nei giorni 11 e 12 marzo 1945, Longo e Secchia impartivano direttive secondo quanto indicava Ercole Ercoli (Palmiro Togliatti), da Roma: una decisa opposizione a qualsiasi tentativo, che potesse essere accettato dalle altre componenti del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, di addivenire a “tregue”, a “patti di non aggressione”. Opposizione assoluta, quindi, all'alternativa di una conclusione indolore della guerra civile, ed eliminazione fisica dei fascisti e degli anticomunisti. Queste direttiva per l'insurrezione a qualsiasi costo, sono consacrate nel messaggio inviato sempre da Ercole Ercoli alle 16,30 del 13 aprile al compagno Gallo (Luigi Longo). In questo messaggio Togliatti riconferma che il disegno politico della insurrezione deve essere attuato anche in contrasto o addirittura in opposizione alle direttiva del comandante americano Clark, il quale aveva in pratica ordinato alle formazioni partigiane di attendere che le grandi città fossero occupate dagli Alleati. Testualmente il 13 aprile alle ore 16,30 Togliatti comunicava a Longo: “Per il compagno Gallo. Il nuovo ordine del giorno del Generale Clark è stato emanato senza l'accordo né del governo, né nostro. Tale ordine del giorno non corrisponde agli interessi del popolo. E' nostro interesse vitale che il popolo si sollevi in un’unica lotta per la distruzione dei nazifascisti prima della venuta degli Alleati. Questo è indispensabile specialmente nelle grandi città come Milano, Torino, Genova, ecc., che noi dobbiamo fare il possibile per liberare con le nostre forze ed epurare integralmente dai fascisti”. Ecco quindi, dedotto dal testo originale, il leit motiv, lo scopo politico dell'atto insurrezionale che si vuol attuare: “epurare integralmente dai fascisti”. Sta per cominciare la giostra della insurrezione che ha per obiettivo la strage dei vinti.

Dall'altra parte, dalla parte fascista, qual è l'orientamento, quali sono i propositi in quei giorni di tragica vigilia? La principale preoccupazione di tutti, dal capo ai gregari, era quella di conservare la struttura dello Stato Repubblicano fino al passaggio dei poteri allo Stato Italiano, che rappresentava legalitariamente la parte vincente. Questa sembrava a Benito Mussolini la naturale conclusione degli eventi. Ci si illudeva che la conclusione del conflitto in Europa potesse coincidere con la fine della guerra civile in Italia, che dopo i giorni dell'odio si potesse guardare oltre, perché a quegli eventi sopravvivesse il popolo italiano tutto essendo figli di una stessa terra. Questo è il senso delle trattative di resa offerte da Mussolini, tramite il figlio Vittorio agli Alleati e, tramite il Cardinale Schuster, al CLNAI. Ed ecco l'affannarsi organizzativo del Partito Comunista per l'insurrezione, una insurrezione a freddo promossa da calcolo politico, non certamente da volontà di popolo. Non gli alleati anglo-americani, dice il Partito Comunista, devono liberare le grandi città del nord, ma l'insurrezione partigiana. E gli eventi, nella realtà storica, dimostrarono poi che le grandi città non furono liberate da azioni insurrezionali, ma occupate dalle formazioni comuniste nel momento in cui le forze fasciste e tedesche le abbandonarono, sotto l'incalzare delle colonne anglo-americane dilaganti ormai, oltre la linea del Po.

Genova, Milano, Torino: l'atto insurrezionale si verifica con 24 ore, al massimo con 48 ore di anticipo sull'arrivo delle truppe alleate. E l'insurrezione, chiamiamola così, facilitò almeno l'evolversi della situazione militare?

No di certo, se è vero che la guerra non ha più storia del momento in cui l'esercito rinunciò ad ogni resistenza sulla linea del Po. E la linea del Po significa 22 aprile, mentre il timido inizio del primo fatto insurrezionale - quello di Genova - risale al 24 aprile. Addirittura il 24 aprile è la vigilia della formale capitolazione militare tedesca agli alleati presso il Quartier Generale di Caserta.

Ma chiarificatore della necessità per il PCI, di precedere di almeno 24-48 ore l'arrivo degli alleati, è il documento relativo alla seduta del 14 marzo 1945 del Comitato di Liberazione Nazionale Lombardia. Si legge testualmente nel resoconto verbale (vedi Documenti inediti a cura di Pietro Secchia, Feltrinelli 1971) che in quella seduta si puntualizzò “per quanto riguarda l'opera di giustizia, il comando alleato si disinteressa di quanto verrà fatto ai fascisti nel periodo che precederà l'assunzione dei potere da parte dell'AMG”.

Cos'è l'assunzione del potere da parte dell'AMG, Governo militare alleato?

E’ l’occupazione delle città da parte delle truppe alleate. Ecco allora la necessità, nel disegno politico comunista di anticipare di 24 ore almeno l'occupazione alleata, onde consentire ai comunisti, appunto, la pulizia etnica sulla pelle dei fascisti veri e presunti. Ed è Palmiro Togliatti che dà conferma di tutto questo. Nel discorso del 19 maggio 1945 a Milano affermerà: “L'obiettivo di liberare l'Italia dai traditori fascisti è stato raggiunto anche se non tutto quello che avrebbe dovuto è stato possibile farlo”. Ma, per buona pace del compagno Togliatti, siamo solo al 19 maggio; quello che non si era potuto fare sino a quel punto verrà fatto nei mesi seguenti dalle volanti rosse e da quel simulacro di giustizia che furono le Corti di Assise straordinarie. E' Togliatti, alias Ercoli, il fuoriuscito arrivato dalla Russia ai primi del 1944 nell'Italia del sud, che nell'ultimo atto diviene il coordinatore feroce ed implacabile della giustizia comunista.

E Togliatti di queste cose, abbiamo detto, se ne intendeva. Aveva già fatto esperienza di cinico curatore delle più atroci epurazioni staliniane negli anni precedenti.

Nessuna sorpresa, pertanto, se l'architetto delle “radiose giornate” fu il Migliore. Gli ultimi atti politici delle autorità di Governo della Repubblica Sociale Italiana e del vertice del Partito Fascista Repubblicano si inquadrano nella situazione, che appare ormai globalmente compromessa con l'occupazione di Bologna da parte degli Alleati, tra il 20 e il 21 aprile; Bologna, che per 24 ore almeno fu alla totale mercé delle bande partigiane comuniste prima che il grosso delle armate alleate, dopo le avanguardie, entrasse in città. Le notizie che il vertice della RSI riceve da Bologna fanno apparire evidente che ormai non ha più senso la speranza di trapasso indolore dei poteri, una tregua per concordare la resa del Governo della RSI e delle forze armate fasciste Repubblicane, con il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. A Bologna è già in corso la strage indiscriminata dei fascisti, o meglio degli anticomunisti, così come la vuole il Partito Comunista Italiano. La giustizia partigiana che non dà spazio ad alcun anelito di pacificazione. Lo storico inglese Kirkpatrik cosi testimonia: “Il giorno 23 aprile dappertutto era in corso la caccia ai fascisti, che vengono uccisi senza pietà”. Il 24 aprile: a Milano le autorità della RSI e Benito Mussolini hanno ormai netta la percezione, per quanto apprendono dai territori appena occupati, che la grande strage è incominciata. La giornata del 25 aprile vede a Milano l'ultimo tentativo operato al massimo livello per un trapasso di poteri dalla Repubblica Sociale Italiana al CLNAI quale rappresentante del governo del Sud. Mussolini che si reca all’Arcivescovado e alla presenza dei Card. Schuster incontra alcuni dei principali esponenti del Comitato di Liberazione Alta Italia. Un tentativo teso ad evitare altri spargimenti di sangue, altre inutili stragi.

La risposta è chiara. Nessuna trattativa, nessun passaggio di poteri, nessuna tregua, nessuna capitolazione secondo le leggi dell'umana convivenza, ma soltanto resa incondizionata. Mussolini, prima ancora di recarsi all'Arcivescovado forse prevedeva questo rifiuto, ma ciò che soprattutto lo convinse dell'inutilità del tentativo fu l'assenza all'incontro del responsabile del Partito Comunista Italiano. Mussolini aveva elementi certi per sapere che l'unica seria e bene organizzata formazione partigiana di montagna e di città era quella del Partito Comunista; la sua assenza, quindi, era di per sé eloquente. Mussolini lascia l'Arcivescovado alle ore 17 circa del 25 aprile e prende atto che nulla servirà ad evitare l'ultimo atto della tragedia. Così nell'accomiatarsi dai suoi fedeli alla prefettura di Milano, egli li scioglie dal giuramento di fedeltà. E' ancora l'inglese Kirkpatrik che dichiara: “Mussolini era risoluto a non essere causa di uno spargimento di sangue, non voleva più chiedere fedeltà ai suoi seguaci, eppure il suo istinto rifiutava di arrendersi. Mussolini decise di allontanarsi da Como. Si preoccupava, come si era preoccupato a Milano di non coinvolgere la città nella battaglia...”. Alla decisione di cui sopra Mussolini aggiunge una frase: “Gli ordini vi verranno da Pavolini”. E gli ordini saranno quelli di allontanare dai grandi centri urbani le formazioni fasciste ancora in armi, non tanto nell'illusorio disegno di giungere la Valtellina, quanto nella speranza di evitare scontri sanguinosi ed eliminare in tal modo ogni pretesto di insurrezione da parte dei comunisti. Si dovevano abbandonare i centri urbani e seguire direttrici di avanzata degli angloamericani per arrendersi a loro secondo le tradizioni militari. Così si erano comportate le autorità fasciste di Bologna, e avevano abbandonato con gli ultimi reparti armati la città. Ne derivò che la giustizia partigiana, a Bologna, si esercitò subito dopo sugli inermi, gli umili, sulle famiglie dei fascisti e sugli esponenti della borghesia non fascista, anch'essa obiettivo del furore insurrezionale, perché ritenuta anticomunista.

Anche da Genova le formazioni fasciste in armi si erano in gran parte allontanate e quelle rimaste con i presidi tedeschi attendevano, in stato di tregua, l'ormai imminente arrivo delle armate anglo-americane. Il 18 aprile il fronte occidentale italo-tedesco, che dalla Garfagnana raggiunge il mar Tirreno a La Spezia, si dissolve. Le truppe tedesche e quelle dell'armata di Graziani, anziché retrocedere lungo la tortuosa via Aurelia, attraversano il passo della Cisa percorrendo la prevista direttrice di ripiegamento lungo la linea del Po. Questo dà la certezza al Comitato di Liberazione Ligure di poter agire liberamente senza cioè il pericolo dello scontro con divisioni tedesche e repubblicane, ma questo significa anche che aperta sarà la strada ad una rapida avanzata degli americani lungo l'Aurelia verso Genova. Non resta quindi che attendere le 48 ore necessarie perché gli alleati giungano tranquillamente in porto. E a questo punto che il CLN di Genova decide di proclamare l'insurrezione contro i tedeschi e contro i fascisti, giustificandola con la volontà di salvaguardare gli impianti portuali dalle distruzioni tedesche, dal momento che necessità di altro genere non ne esistevano. Ora è chiaro, che eventuali distruzioni di impianti e infrastrutture industriali i tedeschi potevano effettuarle solo per rappresaglia contro attacchi partigiani, ed è altrettanto chiaro che l'insurrezione, semmai, rischiava di provocare proprio la temuta distruzione delle opere portuali da parte dei tedeschi. Mentre il 23 aprile il CLN di Genova proclamava l'insurrezione per il giorno dopo, quello stesso giorno le autorità fasciste e tedesche decidevano, sulla base delle notizie che provenivano dal fronte e degli ordini ricevuti dal segretario del PFR Pavolini, di iniziare il ripiegamento verso la Lombardia. Ciò avveniva nella notte tra il 23 e il 24 aprile. Senza alcun disturbo da parte partigiana, le colonne fasciste al comando del Federale Falappa, precedute da mezzi corazzati, si attestavano all'imbocco dell'autostrada per Milano che immediatamente iniziavano a percorrere. Le colonne germaniche preferirono invece dirigersi verso la Val Polcevera, anch'esse senza incontrare alcun ostacolo. A Genova erano rimaste, agli ordini del generale Meinhold, truppe di guarnigione, comandi, uffici e reparti di retrovia. Militarmente efficienti erano soltanto i presidi dei forti e del porto, alle dirette dipendenze del Comandante di Marina Max Berningaus. I punti strategici del porto erano altresì presidiati da potenti reparti della Xa MAS al comando della Medaglia d'Oro Arillo.

Italiani e tedeschi intendevano attendere in armi l'arrivo degli americani. Ciò si annunciava più celere del previsto dato che lo stesso 24 aprile si era arreso il 46° corpo di armata corazzato tedesco incaricato di proteggere la linea di copertura del fronte Liguria. E' a questo punto che scatta l'insurrezione di Genova. Ma è la stessa storiografia partigiana che ammette testualmente: “Il 24 Genova insorgeva, prima tra le città italiane e il 25 aprile l'insurrezione si estese ovunque, ma non fu un evento trionfale; i partigiani erano pochi e le superstiti forze del nemico rappresentavano ancora un'incognita.” La prima e unica azione partigiana di un certo rilievo fu l'attacco in piazza De Ferraris ad una colonna di camions in buona parte occupati da funzionari civili e paramilitari tedeschi. La colonna tedesca fu distrutta, onde la reazione delle unità germaniche. Tedeschi e fascisti dai punti presidiati incominciarono a rispondere all'attacco partigiano. E' in questa fase dell'insurrezione a qualsiasi costo che si rileva il contrasto delle autorità antifascista e della Curia con il partito comunista, al quale si era affiancato l'entusiastico “personale appoggio del democristiano Taviani”, (Ex littore fascista per chi non lo sapesse). Curia e autorità antifascista volevano che altro sangue non si spargesse a Genova, ma il PCI, naturalmente, era di contrario avviso. Ciò nonostante a qualche accordo si era pervenuti, se è vero che il centro della città il 25 aprile fu controllato dalla unità di Pubblica Sicurezza del tenente Pisano, col consenso tacito dei membri non comunisti del Comitato di Liberazione Nazionale, della Curia e dello stesso Comando tedesco e fascista. Ed è perciò contro il tenente Pisano e i suoi uomini, contro la loro azione pacificatrice, che si scagliano i partigiani. Certamente la funzione di questo corpo “franco”, diciamo così, di PS, era quella di impedire che le bande comuniste assumessero il controllo della città, ma era anche vero che esso avrebbe potuto benissimo garantire l'ordine pubblico sino all'arrivo delle forze alleate. Frattanto le formazioni garibaldine dall'entroterra nella tarda serata del 25 aprile cominciano ad entrare in città. Il loro primo obiettivo è naturalmente la Pubblica Sicurezza del tenente Pisano. Questa unità, in breve, è costretta ad asserragliarsi nel grattacielo, a intavolare trattative con il comando partigiano per essere infine proditoriamente aggredita e sterminata insieme col suo comandante fatto precipitare dalla finestra del 12° piano.

Così si esprime, Meinhold nelle sue memorie: “Nel corso del 24 aprile io avevo preso la decisione di mettermi a pied'arm. Mi avevano determinato a ciò i rapporti recapitatimi sull'avanzata degli americani: costoro, a sud, avevano già superato La Spezia, a nord i loro mezzi corazzati erano a Stradella” quindi quasi alle nostre spalle. Un esame preciso della situazione rilevò che se anche fossimo riusciti ad aprirci un varco e raggiungere la Pianura Padana, qui lo scontro con i carri armati nemici avrebbe decimato le nostre truppe. Quanto poco in tutto ciò considerassimo i partigiani, risulta da quanto detto in precedenza”. E il 25 aprile alle ore 9 il Gen. Meinhold si arrende al CLN. A determinare la resa, dunque, non fu l'insurrezione partigiana, ristretta in una modesta area, ma la valutazione della situazione militare del fronte anti alleato, insostenibile per i tedeschi. Per altro, l'accordo stipulato da Meinhold con il CLN non veniva riconosciuto dalle truppe comandate da Berningaus e nemmeno dai combattenti della X' MAS. Ciò detto, non va nemmeno taciuto il fatto che tanto poco aveva inciso l'insurrezione partigiana sulla reale situazione militare, che, nonostante l'annuncio via radio alle ore 9 del giorno 26, della conquista partigiana di Genova alle ore 14 dello stesso giorno, unità navali inglesi dovettero cannoneggiare le postazioni tedesche e fasciste. L'unico risultato concreto dell’intervento “garibaldino” fu l'entrata in funzione dei tribunali del popolo fin dal giorno 25. Ne furono insediati all'albergo dei Poveri, al Bristol, all'albergo Crespi, a Sestri Ponente e a Pegli. Quanto auspicavano i comunisti era stato raggiunto. A volere, per la verità storica, questi democratici tribunali, non furono a Genova soltanto i comunisti. Ascoltiamo, in proposito, Giancarlo Pajetta nella sua intervista pubblicata da “Rinascita” il 28 maggio 1966: “Al Nord, nel CLN, c'era gente che si dichiarava più estremista di noi. Taviani non andava tanto per il sottile sulle misure da prendere contro i fascisti”.

E Taviani, poveretto, aveva grandissimo bisogno di dimostrare il suo entusiasmo insurrezionale a fianco dei comunisti. Come avrebbe potuto altrimenti farsi perdonare i suoi trascorsi littori? Ricrearsi quella verginità antifascista di cui oggi va orgoglioso? Far dimenticare il suo estremismo in camicia nera manifestato a Trieste e a Bologna nel 1938? E quanto aveva scritto nel giugno '36 su “Vita e Pensiero”: “L'Italia oggi in Africa Orientale ha il suo impero perché attua i principi mussoliniani del vivere pericolosamente, del credere, obbedire, combattere”? E' proprio Taviani che annuncia alla Radio di Genova la mattina del 26 aprile la vittoria partigiana. Ma quanto essa fosse superflua e poco meritata lo dimostrarono il 26 sera le avanguardie della divisione americana Bufalo occupando Nervi. E' a questo punto che effettivamente ogni resistenza tedesca e fascista cessò e che tutte le unità si arresero e si consegnarono agli alleati. Questo accadeva agli uomini in divisa nelle stesse ore in cui la caccia al fascista inerme si fa spietata, più o meno come cinque giorni prima era accaduto a Bologna. I giustiziati di Genova in quelle giornate, per concorde valutazione delle due parti, superarono i 2.000. E fra essi molti furono gli episodi di inaudita ferocia, quali ad esempio, le sevizie cui furono sottoposte, prima di essere trucidate, Ester Oliviere e Alidina Parrini, il prof. Giuseppe Eboli, i fascisti Brunetti e Tonganelli, e le vittime delle stragi di Torriglia e Masone. Il podestà fascista di Genova, Silvio Parodi, esempio di esemplare moderazione nei mesi della guerra civile, veniva gettato vivo in una fornace; il fratello dell'ex segretario del Partito Nazionale Fascista Vidussoni veniva assassinato solo perché tale. Fra gli episodi più atroci di quelle ore sono le torture inflitte a Mario Arzeno, il cui padre Tito è poi obbligato dai partigiani a scaraventarlo, ancora vivo, dall'arcata del porto di Cornigliano. E' il Partito Comunista che affida al CLN genovese il compito di raccogliere i cadaveri, i quali sono tanti che è necessario impartire l'ordine di adibire le vetture tramviarie alla loro traslazione. Per rimuovere i cadaveri dei fascisti prelevati nelle carceri di Marassi e poi fucilati, furono impiegati carri dell'assistenza vaticana, giunti al seguito delle truppe alleate. Il resto della Liguria in quei giorni cercò di non essere da meno dei capoluogo. Centinaia furono i fascisti soppressi, così che ai primi giorni di maggio - è lo storico antifascista Simiani che lo dice - si erano raggiunte le 3.000 esecuzioni. - Perché non ricordare le infamie consumate contro le diciassettenni Ramella e Bosia, soppresse a Imperia in quanto infermiere nei reparti militari della RSI? Ad Alassio il cap. Corticelli della Guardia Nazionale Repubblicana fu crocifisso su un tavolo di osteria; ad Albenga, a Romeo Alamandola e a Cesare Lamposone, prima di essere fucilati, furono tagliati naso e orecchie. A quegli assassinii, a quelle stragi in quei giorni terribili seguiranno poi gli assassinii legati dalle sentenze delle Corti d'Assise straordinarie. A Genova sembrava ormai che il “vento del Nord” non dovesse cessare mai.

Altrettanto era successo a Bologna, appena occupata dagli alleati, per mano dei boia di Stalin, Longo, Togliatti, ecc. A Milano, che si volle capitale morale della insurrezione partigiana del Nord Italia, i giorni 24 e 25 aprile scorrono senza che vi sia traccia di alcun fatto, di alcuna azione insurrezionale. Il Governo della RSI e il suo Capo continuarono in quei giorni ad esercitare la loro funzione in assoluta libertà d'azione, tant'è che Mussolini mantenne il proprio Quartier Generale nella Prefettura in corso Monforte, sino al momento in cui decise di lasciare la città per Corno. Ciò avvenne alle ore 20 del 25 aprile 1945. E' indubitato che sino a quell'ora i fascisti erano liberi nei loro movimenti sia a Milano che nella provincia. Qua e là si registra, il giorno 25 aprile, qualche scaramuccia con i posti di blocco fascisti della periferia, e un appena accennato tentativo di occupazione della Pirelli e di qualche industria nella zona di Sesto San Giovanni vede un ritorno offensivo dei reparti della RSI che riprendono l'immediato controllo della situazione. La storiografia della resistenza fissa nel pomeriggio del 25 aprile, con l'esplosione “dirompente” nella notte tra il 25 e il 26 aprile l'inizio del moto insurrezionale in Milano. Questo contraddice con la realtà storica, se si considera che, in esecuzione degli ordini impartiti da Pavolini, oltre 5.000 fascisti, con centinaia di automezzi, decine di mezzi corazzati e blindati poterono schierarsi, nelle prime ore del mattino del 26 aprile sul centralissimo itinerario che va da piazza Dante al Castello Sforzesco. La lunga colonna, ordinata e inquadrata, raggiunse Corno senza alcun intralcio, a meno che non si voglia considerare tale qualche sporadica sparatoria, a distanza, all'altezza delle ultime case della periferia. A Milano a volere l'insurrezione furono solo i comunisti, il resto del CLN era disposto ad accettare un pacifico trapasso dei poteri. Il CLN di Milano sapeva bene che non c'era alcuna intenzione insurrezionale nelle masse popolari, se si esclude l'apparato comunista di guerriglia e se vogliamo credere, come noi crediamo, nelle parole del card. Schuster pubblicate nel libro Gli ultimi giorni del regime: “contrari, minacciando una frattura nella compagine del CLN, i comunisti”. Ed i comunisti, a Milano, non erano in grado di promuovere alcunché di insurrezionale né contro i fascisti né contro i tedeschi. L'unico atto rilevante, che si può tutt'al più definire una pura e semplice assunzione di poteri, fu l'occupazione fra il 25 e il 26 aprile della Prefettura in corso Monforte, dopo che se ne era andato l'ultimo fascista. A compierla non furono né i comunisti né altri, ma i 500 uomini della Guardia di Finanza comandati e inquadrati dal Colonnello Malgeri, in esecuzione di un ordine del Gen. Cadorna, rappresentante del Governo legalitario del sud presso il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. E del Gen. Cadorna i comunisti non erano per nulla soddisfatti, per la ragione che lo stesso, anche in ossequio a precise disposizioni comunicategli dal Comando militare alleato, non assecondava i propositi insurrezionali dei comunisti. Sui rapporti tra Cadorna e i comunisti, ad esempio, riferisce lo storico inglese Collier: “A Milano anche il giorno 26 scorre in sporadici e limitatissimi scontri tra i partigiani, che si moltiplicano e spuntano anche tra persone che sino allora mai si erano interessate di resistenza, e piccoli gruppi di fascisti rimasti in città ad attendere l'arrivo degli anglo-americani.” Ma abbiamo già chiarito che il partito comunista per insurrezione intendeva ben altra cosa. Ad eseguire la quale occorrevano comunisti di provata fede e di cieca obbedienza: costoro, infatti, si presentarono con le brigate garibaldine di Moscatelli.

E' Pietro Secchia che ce ne informa nel suo libro Aldo dice 26 x 1: “Soltanto alle ore 17 del 27 aprile, la prima colonna di partigiani, seguita poi da altre, faceva il suo ingresso a Milano”. Mussolini e i fascisti l'avevano lasciata da più di 36 ore. E più avanti: Ma nemmeno le brigate rosse, cui la storiografia resistenziale assegna tanti eroismi fecero molto, se è ancora Secchia a scrivere: “Comandi tedeschi asserragliati in edifici trasformati in fortezze, difesi da reticolati... non cessarono di sparare, dicendo che si sarebbero arresi agli Alleati ... “. E così fu.

Ma l'arrivo delle brigate comuniste a Milano significò ben altro; ce lo riferisce lo storico antifascista Simiani: “Ogni paese, ogni più piccolo borgo voleva la sua brigata. Il nemico era sbaragliato, ma i volontari continuavano ad affluire a centinaia di migliaia e gli ultimi arrivati, gli eroi della sesta giornata si dimostrarono i più accaniti, i più violenti, i più presuntuosi. Si giustiziava dovunque, senza discriminazione; e intanto agli occhi degli esperti non sfuggiva l'incetta di armi da parte di individui misteriosi che poi scomparivano. Questa incetta, dal momento che le armi non dovevano servire più e dopo il chiaro ordine di consegna delle medesime, a quale scopo mirava? Non c'era paese o località dove non si desse la caccia più spietata al "repubblichino”". Anche se si trattava di un povero diavolo che, o per timore o per bisogno, aveva semplicemente aderito al crollato regime senza aver mai fatto nulla di male”.

E per esemplificare il loro stile, non si può dimenticare l'uccisione a freddo del cieco di guerra Medaglia d'Oro Carlo Borsani. Questi doveva essere colpito dalla giustizia comunista, perché la sua predicazione d'amore contro l'odio poteva rappresentare un punto di riferimento per le future generazioni. Così, colpiti alle spalle, furono assassinati valorosi combattenti, quale l'asso dell'Aviazione Repubblicana Maggiore Adriano Visconti, conte di Modrone. Egli della guerra civile sapeva solo per sentito dire, si era battuto fino all'ultimo nei cieli di Milano e delle città del nord per difenderle dai bombardamenti terroristici alleati, ma anche lui doveva essere eliminato secondo la logica comunista perché il suo esempio di dedizione alla Patria poteva essere un punto di riferimento per i giovani. A Milano la giustizia comunista colpiva anche i partigiani che, avendo combattuto sul serio, non credevano nella necessità dell'insurrezione; fra costoro ricordiamo Federico Barbiano, giustiziato misteriosamente, insieme a cinque suoi compagni, da un plotone di esecuzione delle brigate garibaldine nel carcere di San Vittore il 28 aprile. Vengono eliminati anche i non fascisti, quegli uomini che avrebbero potuto in qualche modo contrastare il comunismo. E' così che viene assassinato a Sesto San Giovanni Ugo Gobbato, dirigente dell'Alfa Romeo, uomo venuto dalla “gavetta” e che per di più poteva ascrivere a suo merito di aver salvato gli impianti dalla distruzione e centinaia di operai dall'internamento in Germania. Sempre a Sesto San Giovanni cadevano i dirigenti industriali Soliveri, Grazioli, Scotoli e Mazzoli della Breda, tutti responsabili di anticomunismo. Se vogliamo definire insurrezionali questi fatti, essi sicuramente lo furono conforme al credo comunista. Ed è ancora Togliatti che lo precisa, come si legge nel libro di Marcella e Maurizio Ferrara “Conversando con Togliatti”: “La direttiva della insurrezione nazionale fu concretamente data e spiegata a tutto il popolo dai comunisti”.

Con la stessa logica e nelle stesse forme si giustiziava a Como, a Legnano, a Brescia, a Pavia, a Piacenza, a Sondrio, dove interi reparti della RSI, regolarmente arresisi e perciò prigionieri di guerra, furono proditoriamente massacrati dopo la consegna delle armi. Come i comunisti volevano, l'odio e la vendetta si ispiravano ad un preordinato disegno, anche se ad esso si tentava di applicare la maschera dello sdegno popolare. Così si comprende lo scempio di piazzale Loreto che risultò lo scenario meglio curato dalla regia comunista; infatti, doveva servire da monito a tutti coloro che nutrissero idee e progetti antitetici, appunto, a quelli del partito comunista. Ecco come ne riferisce ancora lo storico Kirkpatrik: “29 aprile. Un furgone portò i cadaveri dei giustiziati in piazzale Loreto... furono appesi per i piedi alle traverse di una stazione di servizio ed esposti al pubblico ludibrio... erano trascorsi appena quattro mesi da quando Mussolini era stato acclamato nelle strade di Milano.” Nei giorni che seguirono, gli Alleati finalmente assunsero il controllo della città e di tutta la Lombardia, ma ciò nonostante la strage continuò. Per alcuni mesi ancora la stampa del Nord quotidianamente registrerà il ritrovamento di uno o più corpi di “giustiziati” nelle strade e nei borghi. Fu adottata la dizione “cadavere di fascista o presunto tale”. Dovranno passare parecchi anni prima che autorevoli rappresentati della resistenza abbiano il coraggio di criticare quanto avvenne.

Torino e il Piemonte furono il terzo degli epicentri del disegno insurrezionale del PCI. Già tra il 18 e il 20 aprile Torino era stata teatro di un tentativo di sciopero pre-insurrezionale, che, come è storicamente accertato, fallì e registrò soltanto una parziale astensione dal lavoro, tant'è che il Comando Fascista della Piazza e le Autorità provinciali della RSI mantennero facilmente il controllo della città e i collegamenti con Milano e le altre province del Nord, fino al 26 aprile. La presenza di consistenti forze tedesche a Torino e il dislocamento delle divisioni “Littorio” e “Monterosa” e della Guardia Nazionale Repubblicana a protezione della frontiera occidentale contro il pericolo della avanzata gollista verso il Piemonte, aveva sconsigliato ogni velleità insurrezionale. E di conseguenza anche i comunisti nulla osarono in quella vigilia.

E' il 27 Aprile che anche a Torino le autorità della RSI tentano una consegna pacifica dei poteri al Comitato di Liberazione Nazionale. Così riferisce Pietro Secchia: “Verso mezzogiorno, il Comitato militare per la resistenza in Piemonte riceve una prima proposta dei fascisti che intendevano trattare per il trapasso dei poteri. Le proposte sono respinte; ai fascisti il CLN risponde che non intende concordare alcun passaggio di poteri”. Dinanzi a questa presa di posizione che rivelava un proposito insurrezionale ad ogni costo, le unità della RSI si riunirono la sera in prefettura e il comandante della piazza colonnello della GNR Cabras decise di ritirare dalla città tutte le unità militari efficienti, costituendo nella notte tra il 27 e il 28 aprile una colonna autocarrata di oltre 20.000 uomini, protetta da reparti corazzati e blindati della “Leonessa” di cui assunse personalmente il comando. La colonna lasciò Torino, superò agevolmente ogni tentativo di blocco e si diresse verso la Valtellina. Solo il 30 aprile, quando ormai gli eventi bellici si erano risolti, Cabras si arrendeva alle avanguardie americane incontrate lungo l'itinerario. A Torino erano rimasti circa 2.000 volontari delle Brigate Nere, al comando dell'ispettore federale Giuseppe Solaro, per svolgere una azione di copertura alla partenza della colonna Cabras e il recupero di eventuali sbandati in ripiegamento dalle valli viciniori.

E' su questi volontari, sulle famiglie dei fascisti, sugli umili gregari, sugli anticomunisti, che si scatenò la rabbia partigiana. Ma anche a Torino gli ultimi fascisti si comportarono molto diversamente da quello che il mito resistenziale vuol far credere. Racconta Del Boca nel libro Ricordi di un partigiano semplice: “I fascisti aprirono il portone e vennero fuori con due carri armati, credendo di farci paura. Ma i nostri addetti ai bazooka li lasciarono avvicinare, poi una grande fiammata e tutto fu distrutto. Visto che eravamo ben armati, alcuni fascisti cercarono scampo vestendosi in borghese, altri si arresero, i più scalmanati resistettero gridando "Viva il Duce" e gridando morirono”. E ancora si legge: "Da per tutto si vedevano partigiani, i fascisti sembravano morti. Nelle vie si incontravano spesso i loro corpi crivellati di colpi". E poi: "La sparatoria continuò finché arrivarono dei rinforzi che salirono nell'alloggio e riuscirono a farli prigionieri. Erano due giovani delle Brigate Nere in divisa. Sul berretto avevano disegnato un teschio e con aria spavalda gridavano 'Viva il Duce'. Li portammo al comando e li fucilammo". E così dell'ultimo episodio: “Il fascista alzò le mani gettando l'arma. Tranquillamente ci seguì e senza una parola si diresse verso un monumento. Si aggiustò la divisa e il berretto e aspettò la morte. Era da ammirare. Moriva per il suo ideale”.

Le storie partigiane per oltre 40 anni hanno cercato di denigrare gli uomini di Solaro, definendoli “franchi tiratori”. Strana gente questa che, in divisa combatteva, e con la divisa moriva in postazione o fucilata! Ma era necessario definirli “franchi tiratori” per giustificare la “giustizia partigiana” immediatamente entrata in azione. Giustizia partigiana, che sterminò i prigionieri, ignorando ogni legge civile e militare. E che fosse strana quella giustizia traspare dagli atti ufficiali della resistenza piemontese, come si legge nella “Storia del CLN regionale”, edito da Feltrinelli. “La giustizia dei patrioti agiva rapidamente... anche se l'inevitabile esplodere dei risentimenti e delle vendette colpiva talvolta con fatale crudeltà qualche vittima, le cui colpe erano infime”. In tal modo, fino al 5 maggio, quando finalmente intervennero, armi alla mano, gli Alleati per porre termine a tanta infamia, nelle vie e nei sobborghi di Torino caddero 4.000 fascisti o “presunti tali”. Per la loro somiglianza al colonnello Cabras, tre innocenti furono assassinati. Morirono in quei giorni per vendette personali dirigenti e tecnici delle fabbriche invisi ai comunisti, morirono tanti innocenti per le sentenze emesse dai Tribunali del Popolo, dei quali il più attivo fu quello insediato nel carcere giudiziario di Torino, donde, per festeggiare il I° maggio, vennero prelevati e fucilati in Corso Vittorio Emanuele, angolo Corso Inghilterra, 17 fascisti. Le donne a Torino e in Piemonte pagarono un alto prezzo la “colpa” di essere madri, sorelle, spose, fidanzate di fascisti. A decine i corpi delle Ausiliarie seviziate e massacrate, vennero raccolti sul greto dei Po, tra il 1° e il 5 maggio. Nel cuneense, nel novarese, a Saluzzo, caddero a centinaia gli appartenenti ai reparti della RSI, alpini, paracadutisti, camicie nere, che, credendo nella buona fede degli avversari, avevano sottoscritto formale atto di resa e consegnato le armi. Dinanzi a tanto scempio, anche la coscienza di alcuni partigiani si ribella. E' il caso del comandante della 105a brigata Alberto Polidori il quale, al Rondò della Furca, tenta inutilmente, a rischio della propria vita, di salvare 5 giovani Ausiliarie. Il martirio di Giuseppe Solaro trascinato appeso alla corda su un autocarro per le strade di Torino, che guarda con volto sereno i carnefici, è un atto di fede e di amore che onora in quella ora tristissima il Piemonte e l'Italia. Ora, non sarebbe seria la ricerca storica, se non si ricordasse, a parziale conforto di tante angosce, l'esempio di civiltà che diedero le genti della Val d'Aosta. In Val d'Aosta non un solo fascista fu giustiziato; anzi, i partigiani non comunisti ebbero cura di garantire salva la vita ai soldati della RSI che a loro si erano arresi. In questo modo gli autentici combattenti della libertà, interpretarono il sentimento popolare di gratitudine verso quei soldati che sulle montagne, ai confini della Francia, avevano difeso il Piemonte dall'occupazione dei gollisti francesi, preceduti dai marocchini. Chi avrebbe altrimenti salvato quelle povere donne dalle turpi violenze impartite alle ciociare un anno prima?

Quella primavera del '45 sembrava non dovesse finire mai. A mano a mano che le città passavano sotto il controllo alleato e poi italiano, si tentava di ricostituire una parvenza di autorità per cercare di contrastare il disegno, ormai evidente, della epurazione fisica ad oltranza voluta dal PCI. Se qualcosa si riusciva a fare nelle più importanti città, col disarmo imposto dalle truppe anglo-americane, non altrettanto accadeva nelle province. Ancora nella prima decade di giugno, la polizia partigiana, tutta inquadrata da elementi di fiducia dei PCI, proseguì la sua azione insurrezionale. E' di quei primi giorni la vicenda atroce delle corriere, dei mezzi di trasporto di fortuna, che riportavano dalle province del Nord alle loro residenze quanti erano stati sorpresi dagli eventi bellici. Corriere e mezzi di fortuna, che venivano intercettati dalla polizia partigiana al momento dell'attraversamento del Po o poco oltre. Una volta fermati e perquisiti, i passeggeri, che credevano di essere sulla via della salvezza, finivano nelle caserme partigiane, vere bolge dantesche. Basterebbe ricordare quanto avvenne a Concordia, nel modenese, dove nel '71, l'indagine giudiziaria, condotta dalla Procura della Repubblica di Bologna, che prosciolse per amnistia i responsabili, accertò che il maggiore problema che avevano dovuto risolvere gli “eroi della insurrezione partigiana”, fu quello di coprire con gli altoparlanti ad altissimo volume le urla dei prigionieri torturati prima di essere consegnati al plotone di esecuzione. Lo scoprimento di fosse comuni con i resti di centinaia di persone prima seviziate e poi soppresse continua tuttora nei cosiddetti “triangoli della morte”. Dei quali, uno dei più tragici, è quello circostante il ponte della Bastia, all'incrocio delle province di Ravenna, Bologna e Ferrara, dove per anni i “compagni” hanno ucciso e nascosto le loro vittime. Gli orrori delle “radiose giornate” (tali furono definite dal “Migliore”) in un secondo tempo, si cercò di legalizzare con le sentenze delle Corti di Assise straordinarie. Poco o nulla importava che le testimonianze fossero, o no, attendibili e le accuse più o meno fondate; fatto sta che il risultato era invariabilmente la condanna a morte. Con le eccezioni a conferma della regola. A conclusione di questa sintetica analisi è bene ricordare che dove non si era riusciti con l'eliminazione fisica si è cercato di ottenere con la più spudorata e asfissiante mistificazione storica del fascismo, presentato agli ignari come un concentrato di idiozia e di violenza, quasi che i più illustri antifascisti, a babbo morto, non siano stati, nei cosiddetti “anni del consenso” i più fieri apostoli del fascismo.

Ma la storia, grazie a Dio, è fatale giustiziera e la verità, quando che sia, verrà alla luce. Fu quello delle “radiose giornate” un odio senza speranza, proprio perché si esercitò sulla pelle dei vinti, padri, figli, spose, fratelli che fossero. La Spagna franchista, vent'anni dopo la fine della guerra civile eresse e consacrò al culto degli spagnoli, il monumento della “Valle dei Caduti”, dove fraternamente sono raccolti, dimenticati gli anni del furore, i caduti dell'una e dell'altra parte. L'Italia della storiografia resistenziale, ancora alla fine degli anni '90 ha scoperto fosse comuni con i miseri resti dei vinti. Questo disprezzo per i Morti, tanta empietà nei comportamenti, emblematicamente consegna alla storia uomini e classi dirigenti che la storia fatalmente condannerà, o nel più benevolo dei casi, ignorerà. Ricordate, al riguardo, la lettera inviata 38 anni fa da Alberto Giovannini alla tredicenne figlia Marzia?

Concludiamo con ciò che Cesare Pavese, pubblicò nel 1949: "Ho visto i nostri morti, ma ho visto anche i morti sconosciuti, quelli del nemico, quelli "repubblichini" sono questi che mi hanno svegliato qualcosa... Il nemico, anche vinto, è qualcuno, e dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l'ha sparso. Ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione. Al posto di un nemico nostro potremmo essere noi e non ci sarebbe differenza. Per questo ogni guerra è una guerra civile. E dico, se vogliamo ritornare a sperare e vivere, pietà, pietà anche per il nemico ucciso".

ANPI: da “liberatori” a “talebani”, scrive Luciano Fasano il 19 agosto 2016 su “Il Giornale”. L’ANPI, Associazione Nazionale Partigiani di Italia, è ormai da diversi anni vittima di una brutta involuzione fondamentalista e – diciamolo pure – antidemocratica. Ultima dimostrazione ne sia la recente sostituzione ai vertici del Coordinamento regionale dell’Emilia Romagna di Ivano Artioli, Presidente della sezione di Ravenna, con Anna Cocchi, Presidente della sezione di Bologna. Motivazione ufficiale: la prescrizione statutaria che impone il coordinamento regionale venga affidato al Presidente della sezione del capoluogo di regione. Motivazione ufficiosa (anche se spesso a essere maliziosi ci si azzecca): il fatto che Artioli sia un sostenitore del sì alla riforma costituzionale del governo Renzi, mentre Cocchi – allineata con la linea politica dell’associazione – sia contraria a tale riforma. Ma al di là delle polemiche, un aspetto di questa vicenda sembra chiaramente assodato: che all’interno dell’ANPI – per usare le parole dello stesso Artioli – “il confronto sul Referendum è stato duro e aspro”. Certo, l’ANPI di oggi ha ben poco che vedere con una associazione di partigiani – comunisti, socialisti, cattolici, liberali, azionisti – che si sono battuti per la liberazione dalla dittatura fascista. Assai lontani sono i tempi in cui al suo interno si discuteva sull’amnistia dell’allora Ministro di Grazia e giustizia Palmiro Togliatti che beneficiava i sostenitori del fascismo, al fine di voltare pagina e inaugurare una nuova storia per la nascente democrazia italiana. Una discussione in cui prevalse la linea dei partigiani che sostenevano di aver combattuto per la libertà di tutti, fascisti compresi. Oggi quel clima è definitivamente smarrito, mentre l’ANPI è sempre meno associazione di partigiani e sempre più lobby dell’antifascismo militante radicale, nelle mani di giovani di estrema sinistra che di antifascismo sanno ben poco e anziani compiacenti che assecondano quei giovani, in un gioco in cui la vuota retorica ha la meglio su un’analisi politica concretamente fondata sui valori della convivenza democratica. Una cieca retorica dell’antifascismo militante, che spesso porta l’associazione a esprimere posizioni barricadiere più prossime all’antagonismo dei centri sociali che alla difesa delle regole dello stato di diritto. La vuota litania della “costituzione più bella del mondo” (che poi verrebbe da chiedersi: forse che le altre costituzioni democratiche facciano schifo? Ma chi l’ha detto? E perché? Sulla base di quali criteri?), dietro alla quale si cela una visione del compromesso democratico a senso unico e del tutto fuori dai tempi. Sono questi gli ingredienti ideologici fondamentali di un’associazione partigiani che sembra sempre più un’organizzazione settaria, anchilosata in difesa di una concezione conservatrice e a senso unico della democrazia, rispetto alla quale chiunque la pensi in maniera diversa è da mettere all’indice e stigmatizzare come nemico della libertà. E che si alimenta costantemente dell’eccezionalissimo morale tipico delle chiese più settarie, in virtù del quale ogni sua scelta sarebbe sempre e comunque giustificabile. Fino a generare paradossi come il fatto schierarsi nella battaglia referendaria sulla riforma costituzionale con Casa Pound e organizzazioni di estrema destra alle quali, in altri contesti, non si è ovviamente disposti a riconoscere il diritto all’esistenza. L’ANPI come associazione di partigiani rappresentativa di quella comunità di donne e uomini che si sono battuti per la liberazione dal nazi-fascismo non esiste più. L’ANPI di coloro che si erano battuti per le libertà di tutti, fascisti compresi, è morta e defunta. Oggi al suo posto vi è una cricca talebana che si erge a difesa di una concezione paradossalmente anti-democratica della convivenza civile. Il rigore staliniano (purghe comprese) con cui persegue la linea politica contro la riforma costituzionale ne è soltanto l’ultimo conclamato esempio.

Il Parlamento appartiene ai nostri partigiani, è grazie a loro se ce l'abbiamo libero". Sono le parole pronunciate dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, a Passolanciano, sulla Majella, in Abruzzo, il 3 agosto 2016 durante la cerimonia di commemorazione dei 60 anni della tragedia di Marcinelle, in Belgio, che l'8 agosto del 1956, costò la vita a 136 minatori, di cui 60 abruzzesi. La Boldrini ha ricordato "l'epopea della Brigata Maiella, a cui va il mio riconoscimento. Si unì insieme agli altri partigiani e liberò il centro Italia dal nazifascismo. Da qui, dalle montagne abruzzesi, partirono in tanti per andare a combattere su altre montagne. Tanti sono stati i caduti", ha detto, ricordando la cerimonia organizzata in Parlamento, quando i partigiani sono stati invitati "a sedersi sugli scranni, non come ospiti". 

Il 25 aprile chi va in piazza a cantare Bella ciao è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell’Italia. Un’immagine suggestiva della Resistenza, ma non corrisponde alla verità. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile da chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era solo il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell’Urss. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e come si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Per concessione di autore ed editore anticipiamo dal libro Bella ciao il capitolo 6 del libro, Terrorismo e ostaggi.

I primi a sparare e a uccidere furono i comunisti di Reggio Emilia. Diedero voce alle rivoltelle quando Longo e Secchia non avevano ancora messo in campo la struttura incaricata di scatenare il terrorismo nelle città e nei piccoli centri. Quindici giorni dopo l’armistizio, la sera di giovedì 23 settembre 1943, poco dopo le nove, un ciclista solitario si recò nel paese di San Martino in Rio, sul confine tra le province di Reggio e di Modena. Aveva l’aspetto del contadino o del bracciante che ritorna a casa dopo una giornata di lavoro sui campi. (...)

Giampaolo Pansa racconta il lato oscuro della Resistenza, tra terrorismo e uccisioni per le strade. Pansa parla dell'obiettivo dei Gap: alimentare la lotta armata, nonostante le rappresaglie. Lo facevano ammazzando padri davanti ai figli e sparando a vista. Poi il giornalista ci racconta il caso di Buranello, il gappista torturato.

Giampaolo Pansa affronta in questo libro tutti i falsi storici che hanno contribuito a dipingere la Resistenza come un mondo dove tutti erano buoni e uniti. La storia della Resistenza è molto diversa da quella celebrata dagli studiosi faziosi. Esiste un retroterra di contrasti, intrighi, faide politiche e personali, conflitti interni e feroci delitti. Per i comunisti guidati da Togliatti nell’Italia del sud e da Longo e Secchia al nord, la Resistenza è soltanto il prologo di una seconda guerra decisiva: quella per la conquista del potere in Italia.

La controstoria di Pansa svela il lato oscuro della Resistenza e la spietatezza di uno scontro tutto interno al fronte antifascista. E riporta alla luce vicende, personaggi e delitti sempre ignorati. Pagina dopo pagina, prendono vita i protagonisti di un dramma gonfio di veleno ideologico. A cominciare dagli “spagnoli”, i reduci delle Brigate internazionali nella guerra di Spagna, presenti in tutte le bande garibaldine, inchiodati a un comunismo primitivo e brutale. Pansa ce li presenta anche nei loro errori di rivoluzionari senza onore, pronti a uccidere chi li contrastava. E nel metterli a confronto con i partigiani che si battevano per un’Italia libera da qualsiasi dittatura rievoca una pagina di storia che la sinistra ha finto di non vedere. Bella ciao verrà ritenuto un libro scandaloso dai gendarmi della memoria resistenziale. E questa sarà la conferma che Pansa ha fatto un importante passo in più nel suo percorso di narratore revisionista - Il 25 aprile chi va in piazza a cantare “Bella ciao” è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell’Italia. È un’immagine suggestiva della Resistenza, ma non corrisponde alla verità. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile da chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell’Unione Sovietica. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e in che modo si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Quando si sparava, dire di no ai comunisti richiedeva molto coraggio. Il Pci era il protagonista assoluto della Resistenza. Più della metà delle formazioni rispondeva soltanto a comandanti e commissari politici rossi. Bella ciao ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sin dall’agosto 1943, con la partenza dal confino di Ventotene. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l’omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l’incendio della guerra civile.

Così il Pci scatenò il terrore per impadronirsi del Paese.

In "Bella ciao" Giampaolo Pansa racconta la strategia delle Brigate Garibaldi per sterminare i fascisti. E non solo, scrive Giampaolo Pansa  su “Il Giornale”.  Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto da Bella Ciao. Controstoria della Resistenza (Rizzoli, pagg. 430, euro 19,90; in libreria dal 12 febbraio) di Giampaolo Pansa. Nel saggio Pansa ricostruisce con dovizia di particolari il ruolo del PCI all'interno della guerra civile che ha insanguinato l'Italia dall'8 settembre del '43 sino al 25 aprile del '45 (anche se in molti casi le violenze si sono trascinate ben oltre). Il giornalista documenta come i comunisti si battessero per obiettivi ben diversi da quelli di chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura filosovietica. Pansa racconta come i capi delle brigate Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario. Ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sino dall'agosto 1943. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l'omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l'incendio della guerra civile.

A distanza di tanti decenni colpisce sempre la strategia messa in atto dai militanti del Pci. In molti luoghi dell'Italia del Nord e del Centro, senza strutture apposite, comandi riconosciuti, progetti elaborati, basi predisposte. All'inizio tutto avvenne per iniziativa di singoli militanti, a volte sconosciuti anche ai dirigenti comunisti periferici. Fu così che si mise in moto un'offensiva fondata su uno schema semplice e terribile. Lo schema può essere riassunto nel modo seguente. Un attentato, una rappresaglia nemica. Un nuovo attentato, una nuova rappresaglia più dura. Un terzo attentato, una terza rappresaglia ancora più aspra. E così via, con una catena senza fine che aveva un solo risultato: allargare l'incendio della guerra civile e spingere alla lotta pure chi ne voleva restare lontano. Scriverà Giorgio Bocca: «Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell'occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Cerca la punizione per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell'odio». Ecco qual era la strategia dei Gruppi di azione patriottica, i Gap. Fondati verso la fine del 1943 per iniziativa del Comando generale della Brigate Garibaldi, ossia di Longo e di Secchia. Uno degli spagnoli, Francesco Scotti, poi raccontò: «Qualche compagno sosteneva che non era giusto scatenare il terrore individuale, perché questo era contrario ai principi marxisti leninisti. Anche in Francia avevo ascoltato critiche di questo genere». Aderire alla strategia dei Gap, anche soltanto sul terreno del consenso politico, era difficile per molti iscritti al Pci clandestino. Gente semplice e coraggiosa che rischiava l'arresto perché aveva in tasca una tessera o partecipava a una raccolta di denaro per i primi nuclei ribelli. Ma trovare dei compagni disposti a sparare alla schiena di un avversario, e a sangue freddo, risultava un'impresa davvero ardua. [...] Il vertice delle Garibaldi non perdeva tempo a strologare su queste esitazioni. Voleva vedere subito dei morti nelle strade. Secchia incitava ad agire «contro le cose e le persone» dei fascisti. Le azioni non venivano quasi mai rivendicate. E questo accentuava la paura seminata dalle molte uccisioni. Pochi si rendevano conto che i Gap erano piccoli nuclei armati, composti soltanto da militanti comunisti, clandestini nella clandestinità, capaci di vivere nell'isolamento più totale. Una solitudine in grado di mettere a dura prova la resistenza nervosa anche del più freddo terrorista. In realtà i gappisti veri e propri, quelli professionali e in servizio permanente, erano una frazione davvero minuscola rispetto ai tanti comunisti che iniziarono a sparare quasi subito contro i fascisti. Gli omicidi di dirigenti del nuovo Partito fascista repubblicano, di solito segretari federali, vennero preparati e compiuti da terroristi dei Gap. Ma gli altri delitti, ben più numerosi, furono il risultato di iniziative decise da singoli militanti, decine e decine di volontari, senza nessun rapporto con il vertice delle Garibaldi. Erano pronti a sparare e a uccidere, sulla base di una tacita parola d'ordine diffusa da nessuno. Ecco qualche esempio di queste azioni, di solito destinate a non entrare nella storia della guerra civile. Il 5 novembre 1943, a Imola, venne ucciso il seniore della Milizia Fernando Barani. Il 6 novembre, a Medicina, sempre in provincia di Bologna, furono accoppati quattro fascisti. Il 7 novembre, a San Godenzo (Firenze) altri quattro fascisti caddero sotto le rivoltellate di sconosciuti. In seguito Giorgio Pisanò scrisse che questo attentato era stato compiuto da un gruppo guidato dal meccanico Alessandro Sinigaglia, poi capo dei Gap fiorentini. Anche lui uno spagnolo reduce da Ventotene, perse la vita nel febbraio 1944 in una sparatoria. Nel Reggiano, dopo la fine del Tirelli, si cercò di accoppare il commissario della nuova federazione fascista, l'avvocato Giuseppe Scolari. Era l'imbrunire del 13 novembre e l'attentato fallì. Andò a segno il terzo colpo, messo in atto il 17 dicembre. L'obiettivo era Giovanni Fagiani, cinquantenne, seniore della Milizia e già comandante della 79ª Legione. Abitava nel comune di Cavriago e stava ritornando a casa in bicicletta. Era in compagnia della figlia Vera, 19 anni, che pedalava accanto a lui. In località Prati Vecchi, il seniore venne affrontato da due ciclisti, in apparenza contadini avvolti nel tabarro per difendersi dall'umidità invernale. Gli spararono e lo uccisero. Mentre Vera si gettava sul padre, tirarono anche su di lei e la colpirono al volto. La ragazza sopravvisse, ma rimase cieca. A Genova il gruppo di Buranello, ormai divenuto il Gap della capitale ligure, il 27 novembre 1943 cercò di intervenire in appoggio agli operai meccanici e ai tranvieri scesi in sciopero. L'agitazione era stata indetta dal Pci per adeguare il salario al carovita e ottenere l'aumento della quantità di alcuni generi alimentari tesserati. Ma l'aiuto si limitò a un paio di attentati contro i tralicci dell'alta tensione. Più pesante fu l'intervento in occasione del nuovo sciopero deciso tra il 16 e il 20 dicembre. Due fascisti vennero uccisi, forse dai Gap o da altri. Per reazione, le autorità repubblicane fucilarono due operai già in carcere perché trovati in possesso di armi mentre tentavano di sabotare dei tram. La rappresaglia, resa pubblica il 20 dicembre, fece terminare subito l'agitazione.

Giampaolo Pansa, con il suo nuovo Bella ciao, racconta gli assassini resistenziali del Pci. Pacificazione? Basta la verità. Molte controverità in tanti libri. Nessuna smentita, mai, scrive Goffredo Pistelli su “Italia Oggi”. Giampaolo Pansa va avanti. Questo grande giornalista monferrino, classe 1935, prosegue il suo lavoro di ricostruzione degli anni di storia italiana che vanno dal 1943 al 1948, il periodo che comincia con l'8 settembre e la costituzione delle prime forme resistenziali e che arriva al confuso e violentissimo dopoguerra. Dopo i libri, come Il sangue dei vinti (Sperling&Kupfer), che hanno riportato a galla le ragioni degli sconfitti, dei reietti che scelsero, o si trovarono a scegliere, la Repubblica di Salò, Pansa ha alzato il tiro sulla grande congiura del silenzio, sulla storiografia accomodata sull'immagine dei vincitori, su una narrazione che è stata funzionale anche alle ragioni, spesso poco commendevoli, di un partito, quello comunista. Il suo nuovo lavoro, Bella ciao, in uscita per Rizzoli, di questo si occupa soprattutto ed è destinato, come gli altri, a scatenare le polemiche.

Domanda. «Pansa, un altro libro, ricco e documentato, ma stavolta non è solo il racconto di storie terribili e di vendette silenziate...»

Risposta. «Infatti, stavolta ho cercato di spiegare quanto il Partito comunista italiano, il più forte e l'unico organizzato in quegli anni, vedesse la liberazione dai nazifascisti come l'inizio della rivoluzione. Pietro Secchia, grande dirigente di allora, lo affermò, d'altra parte: volevano fare dell'Italia una democrazia popolare sul modello dell'Urss di Stalin.»

D. «Figuriamoci, già fino a poco tempo fa era disdicevole parlare di «guerra civile» e non «di liberazione», ora lei va scrivere che si voleva fare la rivoluzione...»

R. «Pazienza ciò spiega, come scrivo, perché i comunisti erano implacabili contro chi non stava ai loro ordini. «O stai con noi» e il motto di quel partito con una potenza gigantesca.»

D. «Una spietatezza che arrivò sino all'omicidio politico, nel famoso episodio di Porzus in Friuli, nel febbraio del 1945, quando 18 partigiani della Brigata Osoppo furono uccisi un gruppo di partigiani legati al Pci. Lei aggiunge dettagli nuovi.»

R. «Sì, ho fatto una ricostruzione della biografia di Giacca, il gappista che comandò quella strage, il padovano Mario Toffanin, che morì in Slovenia nel 1999, dopo aver ricevuto la grazia da Sandro Pertini, nel 1978, e da allora percependo fino alla fine la pensione dello Stato italiano.»

D. «Però lei racconta un altro delitto legato a Porzus quello di Leo Scagliarini detto Ricciotti, altro comandante partigiano di Palmanova (Ud)...»

R. «Ufficialmente Scagliarini morì mitragliato da un aereo alleato, mentre si muoveva in auto. Dalle ricostruzioni e dalle testimonianze raccolte dai figli, è evidente che fu ammazzato in altro modo: alcuni partigiani garibaldini lo fecero inginocchiare e gli spararono alla testa. Lui era comandante garibaldino, ma non comunista, era andato in giro a dire che su Porzus si sarebbe dovuta far luce.»

D. «Un'altra morte misteriosa fu quella di Aldo Gastaldi detto Bisagno, capo partigiano garibaldino in Liguria ma cattolico...»

R. «Una fine assurda nella ricostruzione ufficiale: inspiegabilmente Bisagno si sarebbe messo sopra la cabina di un camion in marcia, dalla quale sarebbe rovinosamente caduto. Ho fatto qualche anno di cronaca nera e di morti più improbabili non ne ricordo.»

D. «S'era opposto all'organizzazione resistenziale del Pci in Liguria.»

R. «Era uno dei comandanti più forti e capaci, giovane, aitante, uno da oratorio ma col mitragliatore sten a tracolla. Comandava una divisione e più di una volta il Pci aveva cercato di toglierselo dai piedi con le buone ma lui e i suoi, agguerritissimi, s'erano rifiuti di sloggiare. Riuscirono a impedire che scendesse a Genova per la liberazione anche perché sapevano che si sarebbe opposto alla mattanza dei fascisti: più di 800 esecuzioni in pochi giorni. E in una riunione immediatamente successiva, chiese lo scioglimento della polizia comunista, responsabile di molti di quegli omicidi. Storie che rendono ancora improbabile il racconto della sua morte.»

D. «Vicenda simile a quella di Franco Anselmi detto Marco, altro comandante non comunista, ucciso a Castenaso, in Emilia.»

R. «Fu ucciso l'ultimo giorno di guerra, il 26 aprile, da una raffica di un tedesco in ritirata. Sono andato a vedere la casa dove spirò. Molti ritengono che fosse stato abbattuto da fuoco amico, in realtà. Uno con cui ne parlai fu Italo Pietra...»

D. «Il mitico direttore del Giorno... In cui lei, Pansa, lavorava...»

D. «Certo, Pietra fu comandante di divisione nell'Oltrepò Pavese.»

D. «E che le disse?»

R. «Le sue parole furono chiare: «Vuoi un consiglio? Non domandarti nulla. Marco è morto da vent'anni. Lasciamolo riposare in pace».

D. «Perché lei continua a scrivere questi libri?»

R. «Mai una smentita, lo scriva, mai una smentita...»

D. «Certo. E anche uno degli storici che all'inizio l'aveva criticato, Sergio Luzzatto, lo scorso anno le ha riconosciuto, dalle pagine del Corriere, rigore nella ricerca.»

R. «I ripensamenti non mi interessano. Le storie contemporanee sono tutte basate sulle fonti resistenziali, usare anche quelle dei fascisti pareva indecoroso.»

D. «Infatti, ora che l'eredità politica di quel Pci si va esaurendo, rimangono tetragone le cattedre universitarie...»

R. «C'è il pensiero unico, in materia. Fior di baroni accademici, gente che si ritiene l'unica titolata a occuparsi di storia della Resistenza, mi hanno messo al bando accusandomi di un reato per loro infame: il revisionismo storico. Una colpa ancora più grave perché commessa da chi non appartiene alla loro casta, un giornalista, un bastian contrario, un dilettante della ricerca storica.»

D. «C'è speranza di vedere attecchire una ricerca diversa là dentro?»

R. «Poche. Peggio delle burocrazie, e in Italia ne sappiamo qualcosa, ci sono le burocrazie accademiche: ordinariati che si trasmettono di padre in figlio o di zio in nipote. E comunque anche sugli eredi del Pci...»

D. «... che cosa si può dire?»

R. «Che anche dopo la Bolognina e la condanna di un certo comunismo, c'è stato il sequestro della memoria resistenziale.»

D. «Come mai, secondo lei?»

R. «Avendo visto cadere una grande quantità di certezze, era il solo un osso da succhiare. E la Resistenza è diventata roba loro. Si ricorda quando Letizia Moratti ebbe l'ardire di presentarsi al corteo del 25 aprile a Milano col papà?»

D. «Certo. L'anziano resistente, in carrozzella...»

R. «Era stato un partigiano di Edgardo Sogno, della Organizzazione Franchi, dei badogliani, era finito persino nei campi di sterminio. Furono entrambi insultati. Una cosa vergognosa: la Resistenza sequestrata. Ho voluto intitolare il libro Bella ciao anche per questo.»

D. «Torno al punto. Che valore ha un altro libro come questo, nell'Italia di oggi? Qualcuno potrebbe obiettare che i comunisti ormai sono minoritari anche nel partito che ne ha raccolta l'eredità, per mano di quel Matteo Renzi che, da qualche sua intervista, mi pare non le stia troppo simpatico...»

R. «Il valore di non disperdere memoria vera del nostro passato. È necessario, anzi, se si vuol capire proprio cosa è in grado di fare Renzi, che non mi è antipatico, anzi sta dando scosse elettriche ad altissimo voltaggio, fra Senato e Titolo V dello Costituzione. Lo invidio per la sua giovinezza: fa quello che i politici di centrosinistra avrebbero dovuto fare già da un pezzo.»

D. «Aveva ragione Luciano Violante quando, qualche anno fa, invocava una pacificazione nazionale?»

R. «Non ci credo, non credo alla «memoria condivisa»: l'unica pacificazione possibile è dire la verità, raccontare come sono andati i fatti.»

D. «I protagonisti di quella guerra, tra l'altro, sono quasi tutti morti...»

R. «Il sangue dei vinti in dieci anni ha venduto un milione di copie e io ho ricevuto più di 20 mila lettere scritte dagli eredi di quei vinti: figli, nipoti. Per la maggior parte sono le donne: quando c'è un piccolo archivio familiare, ordinato, ben tenuto, in genere c'è la mano di una donna. Insomma c'è una memoria di quella tragedia, che è difficile da far collimare con quella della vittoria.»

D. «Ha visto che cosa è capitato al cantautore Simone Cristicchi, contestato per il suo spettacolo sulle foibe?»

R. «Non mi sorprende. Le dico che il libro è stato prenotato da centinaia di librerie ma sono costretto a dire di no a molte richieste di presentazione. Da quando, anni fa, a Reggio Emilia sono stato aggredito dai militanti dei centri sociali, devo stare più attento. D'altronde i piccoli gruppi, oggi, sono capaci di tutto, basta vedere cosa hanno fatto cinque leghisti a Strasburgo a un galantuomo come Giorgio Napolitano.»

D. «Lei per anni ha lavorato in gruppo editoriale, quello di Repubblica e di L'Espresso, sulle cui pagine culturali, non erano certo ammessi revisionismi. Come ha fatto?»

R. «Nel «Gruppone», come lo chiamo io, ci sono stato per 31 anni, pensi. Avevano bisogno di me quando nacque Repubblica: erano un gruppo di giovanissimi e io ero uno d'esperienza. Con loro e con gli intellettuali che scrivono sui quei giornali, ho avuto polemiche feroci da quando sono usciti i miei libri. La verità è un'altra...»

D. «Quale?»

R. «Che allora i giornali erano migliori: oggi sono ideologicamente blindati. Al mattino ormai ci impiego solo due ore per leggerne una decina: alcuni ripetono sempre gli stessi articoli. Il suo direttore fa eccezione: ItaliaOggi è un giornale aperto, direi quasi libertino, che ammette visioni diverse. Una rarità.»

Ciononostante negli anni 2000 inoltrati c'è ancora qualcuno che simpatizza per una ideologia del millennio precedente. "Non prova imbarazzo ad avere il padre fascista?". La domanda è come un boomerang e questa volta torna indietro a colei che per prima l'aveva scagliata come fosse un dardo all'indirizzo del deputato M5S Alessandro Di Battista ospite delle sue "Invasioni Barbarie", scrive Libero Quotidiano. Daria Bignardi, infatti, è lei stessa figlia di un padre fascista. Lo fa notare Marco Travaglio, sul suo editoriale, raccontando lo "scandalo" dell'interessamento di Enrico Letta al tweet di Rocco Casalino che chiedeva alla Bignardi se prova imbarazzo per il suocero Adriano Sofri, condannato a 22 anni perché mandante del delitto Calabresi. "Nessuno meglio di lei può raccontare", puntualizza Travaglio sul Fatto Quotidiano, "visto che è così interessata, cosa si prova ad avere un fascista e un assassino in famiglia. Dunque che le salta in mente di chiederlo ai suoi ospiti?". Anzi uno solo: Di Battista. Travaglio fa notare che il giochino, esteso ad altri ospiti del programma, potrebbe innescare scene davvero imbarazzanti, visto che "fino al 1945 gli italiani erano quasi tutti fascisti: compresi il fondatore del giornale su cui scrive Sofri e, absit iniuria verbis, il presidente della Repubblica in carica e in ricarica". Ma quello che più fa imbestialire il vice direttore del Fatto non è tanto la domanda della Bignardi. "La polemicuzza", scrive in prima pagina,"potrebbe finire lì, fra un Casalino e una Bignardi, eventualmente anche un Sofri (nel senso del padre del marito della Bignardi, il quale comunica sul Foglio che lui è, sì, un condannato per omicidio, ma non è un omicida: un po’ come Berlusconi che è, sì, un pregiudicato per frode fiscale, ma non è un frodatore fiscale)". Quello che proprio non va giù a Travaglio è che da Doha, "si fa inopinatamente vivo – si fa per dire – il presidente del Consiglio, per stigmatizzare a nome del governo e delle più alte cariche dello Stato il tweet del Casalino e solidarizzare con la famiglia Bignardi-Sofri, parlando di “frasi folli” e di “barbaria senza fine”, poi tradotta in 'barbarie'". "E doveva pure essere sobrio", ironizza l'editorialista, £visto che l’uso e abuso di alcolici nei paesi islamici è severamente vietato. Il che spiega lo sguardo interrogativo e allarmato degli emiri presenti alla scena". Il pezzo di Travaglio si chiude con la domanda: "Cosa prova Letta ad avere quello zio?".  

L'Italia liberata dagli alleati. La storia scritta, invece, da chi si dichiara vincitore: Saccenti e cattivi sempre contro.

Dubbi e ricordi di Salandra. Così l'Italia entrò in guerra. Primo ministro fra il marzo 1914 e il giugno 1916 fu lui, con Sonnino, a "pilotare" il Paese dalla neutralità all'intervento a fianco dell'Intesa, scrive Francesco Perfetti su "Il Giornale". Il 2 giugno 1915 Antonio Salandra pronunciò in Campidoglio, nella bella sala degli Orazi e Curiazi, un celebre e appassionato discorso per illustrare le motivazioni che avevano spinto l'Italia a imbracciare le armi. Disse che la guerra, appena iniziata per l'Italia, era «santa» e si combatteva «a tutela delle più antiche e più alte aspirazioni, dei più vitali interessi della patria». Aggiunse che sarebbe stata «più grande di qualunque altra la storia» ricordasse e che avrebbe coinvolto tutti gli italiani. Per dare al discorso il carattere di un solenne atto di governo era stato scelto un giorno non festivo. Salandra aveva lavorato al discorso per due mattinate, ma gran parte di esso fu pronunciato a braccio sulla base di appunti. Cionondimeno ebbe successo e piacque persino a Benedetto Croce non certo tra i fautori dell'intervento, che vi trovò parole «veramente da italiano, da italiano antico e moderno, insieme borghese nel miglior senso della parola» e del quale gli piacque «quell'assenza completa di fanatismo nazionalistico, quella concezione patriottica e umana insieme, che è una delle più belle note dell'italianità». Salandra era succeduto a Giolitti nel marzo 1914. Aveva superato i sessant'anni e aveva alle spalle una lunga carriera politica: eletto deputato per la prima volta nel 1886, aveva poi ricoperto più volte incarichi di sottosegretario e ministro. Era, anche, uno studioso illustre di diritto amministrativo, formatosi culturalmente alla scuola di Francesco De Sanctis e di Silvio Spaventa. Liberal-conservatore, si era battuto per «l'unione di tutte le forze liberali» contro i partiti estremi e, formando il governo, si era ispirato al principio di creare una «concentrazione liberale» alla quale partecipassero esponenti della sinistra zanardelliana, del centro e della destra. Interessato soprattutto alla politica interna, all'amministrazione, al rafforzamento dello Stato e alla costruzione del grande partito liberale, si trovò subito a dover gestire la posizione dell'Italia, allora legata dalla Triplice Alleanza all'Austria-Ungheria e alla Germania, di fronte alla guerra scoppiata nell'estate del 1914. La sua prima scelta fu la neutralità, il 3 agosto di quello stesso anno. Poi venne, l'anno successivo, dopo le «radiose giornate» del maggio 1915, la decisione di prendere parte al conflitto per portare «a compimento il Risorgimento» ed «elevare l'Italia alla realtà di grande potenza». Proprio al periodo compreso fra la scelta neutralista e quella di entrare in guerra Salandra dedicò un importante volume di «ricordi e pensieri» intitolato L'intervento che la Fondazione Biblioteche Cassa di Risparmio di Firenze ha ristampato in una curata edizione anastatica e che verrà distribuito gratuitamente a tutti i partecipanti al grande convegno Niente fu più come prima. La Grande Guerra e l'Italia cento anni dopo, che si svolgerà a Firenze il 13 e 14 marzo. L'opera è una testimonianza che ricostruisce, sulla base dei ricordi di un protagonista e sulla documentazione, le trattative con l'Austria e quelle con l'Intesa, la stipulazione dell'accordo di Londra, le battaglie in piazza e in Parlamento fra neutralisti e interventisti, la crisi del maggio 1915, gli estremi tentativi diplomatici per evitare l'ingresso in guerra e le fasi della mobilitazione militare e civile. Salandra aveva cominciato a pensare che la neutralità fosse destinata a finire quando «l'ambizioso piano germanico della guerra di poche settimane» si era infranto sulle rive della Marna. C'erano, quindi, state, prima, la crisi governo per divergenze sul finanziamento del piano militare e, poi, la formazione del nuovo gabinetto del quale entrarono a far parte personalità come Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino. Quest'ultimo, nominato ministro degli Esteri, era legato a Salandra da una trentennale amicizia e da una «solidarietà politica» in nome di una concezione «forte» del liberalismo e della necessità di un «ritorno allo Statuto» per recuperare o tonificare il prestigio e l'autorità dello Stato. I veri protagonisti dell'attività diplomatica svolta in maniera sotterranea nei difficili e drammatici mesi compresi fra il novembre 1914 e la primavera del 1915 furono, proprio, loro due, Sonnino e Salandra. Questi lo riconosce senza mezzi termini: «del bene e del male a noi due spetta l'onore e il biasimo». Le trattative con Vienna e Berlino iniziarono nel dicembre 1914 ma si arenarono per l'insufficienza dei compensi offerti all'Italia dalle potenze della Triplice. Quelle con l'Intesa, che avrebbero portato al Patto di Londra e all'impegno italiano a entrare in guerra entro un mese, cominciarono all'inizio di marzo. La descrizione che Salandra fa della crisi di maggio è precisa e ricca di chiaroscuri. Il fronte interventista era costituito da intellettuali e studenti, nazionalisti, irredentisti, sindacalisti rivoluzionari. Era, per così dire, un vario interventismo raccolto attorno al progetto di completare l'unità nazionale e assicurare all'Italia un ruolo paritario fra le potenze. A esso si contrapponeva il fronte neutralista comprendente liberali giolittiani, socialisti e cattolici. Sottolinea Salandra come la spinta venisse proprio dal Paese: «mentre i neutralisti tenevano il campo a Montecitorio, gli interventisti occupavano le piazze». Poi, finalmente, ci fu la dichiarazione di guerra contro l'Austria. Dal volume emerge la personalità di un uomo che, liberale con una visione conservatrice della politica in linea con la tradizione della Destra storica, segnò la fine dell'età giolittiana e del tentativo di Giolitti di proporre un liberalismo fondato sull'arte del compromesso e sulla prassi della mediazione. Con la sua «politica nazionale» contrapposta alla «sana democrazia» di Giolitti, Salandra diventò il naturale punto di riferimento della «borghesia liberale» costituita dai nuovi ceti medi sorti dal processo di industrializzazione e modernizzazione dell'Italia postunitaria.

La stanza di Montanelli su “Il Corriere della Sera”: Ecco perchè Mussolini entrò in guerra. Caro Montanelli, Sono un giovane appassionato di argomenti storici e ultimamente sto leggendo il suo libro sulla storia d'Italia del Novecento. Per quanto riguarda il secondo conflitto mondiale, vorrei farle questa domanda. Secondo lei Mussolini proprio non avrebbe potuto fare a meno di entrare in guerra a fianco della Germania di Hitler nel giugno del 1940, e, magari, non avrebbe fatto meglio a fare come Franco, cioè il neutrale? Arduino Lapo. Caro Lapo, Se lei sta leggendo il libro mio e di Cervi sull'Italia del Novecento, dovrebbe avervi già trovato risposta alla sua domanda. Niente e nessuno costringeva Mussolini a entrare in guerra a fianco della Germania. Il problema si era posto il 3 settembre dell'anno prima (1939), quando la guerra era stata - controvoglia, molto controvoglia - dichiarata da Francia e Inghilterra alla Germania che aveva invaso la Polonia. E in quel momento forse Hitler avrebbe voluto che l'Italia si schierasse al suo fianco, come stabiliva il patto d'alleanza (il famoso e famigerato "Patto d' Acciaio") fra i due Paesi. Mussolini, addusse due motivi a giustificazione della sua - come oggi la si chiamerebbe - "desistenza". Il primo era quello di non essere stato nemmeno informato del colpo di mano sulla Polonia che non poteva non provocare l'intervento di Francia e Inghilterra, dati gl'impegni che alla Polonia le legavano. Il secondo era la condizione posta da Mussolini e, a quanto pare, accettata da Hitler, che la guerra non dovesse scoppiare prima di altri tre anni, quanti ne occorrevano all'Italia - da poco reduce dagli sforzi bellici compiuti in Abissinia e in Spagna - per prepararvisi. Tutto questo era noto solo nei ristretti ambienti della diplomazia. Ma io, che in quel momento mi trovavo a Berlino per conto di questo giornale, ricordo con quale disprezzo ci guardavano i tedeschi. "I soliti traditori" pensavano di noi italiani. Nel giugno del '40 le cose erano del tutto cambiate. L' esercito francese era stato spazzato via dalla Wehrmacht, solo un brandello di quello inglese era riuscito a reimbarcarsi e a tornare a casa. E la Germania, convinta di non aver più bisogno di aiuto per giungere alla vittoria, non solo non sollecitò l' intervento italiano, ma ne fu infastidita. (Che cosa i tedeschi pensassero di noi, mi era stato chiaro fin dal 1938, quando, di passaggio a Londra, venni a conoscenza di un episodio che governo e stampa inglesi avevano, per motivi di opportunità, tacitato. Un'associazione di reduci della prima guerra mondiale aveva invitato a una conferenza uno dei più autorevoli Marescialli tedeschi - Brauchitsch mi dissero, ma poi mi smentirono - sulle nuove tecnologie militari. Alla fine del banchetto che seguì, qualcuno gli chiese chi avrebbe vinto la prossima guerra. "Chi la vincerà, non lo so - avrebbe risposto l'ospite -, ma so con sicurezza chi la perderà: chi avrà per alleato l'Italia". Non giuro sul nome di Brauchitsch, ma sull'autenticità dell' episodio sì). Fu quindi di sua testa, e contro l'opinione dei suoi uomini migliori - Grandi, Balbo, Bottai - e dello Stato Maggiore a guida Badoglio, che Mussolini volle e decise la guerra. Perchè? Perchè era convinto che i tedeschi l'avessero già vinta, e che quindi convenisse sedere, al tavolo della pace, al loro fianco. Lei mi chiederà in quali documenti questo sta scritto. No, i documenti non ci sono nè potrebbero esserci. Sono i gesti, le parole e le decisioni di Mussolini a darcene la certezza, del resto condivisa da tutti coloro che avevano accesso a lui e coi quali ho a lungo e ripetutamente parlato. Mussolini era intelligente, ma abbastanza ignorante. Non sapeva cosa fossero l'Inghilterra e l'America. Uomo dell'Ottocento e di cultura ricalcata sulla pubblicistica francese della fine di quel secolo (i suoi autori erano Zola e Sorel), coltivava il mito della Grande Armee, e, quando la vide crollare in pochi giorni, si persuase che più nulla e nessuno potesse arrestare la marcia trionfale dell'odiato (sì, odiato: so quel che dico) alleato. Franco, molto meno intelligente, ma più scaltro, freddo e calcolatore di lui, non ci cascò ("Piuttosto che avere un altro colloquio con quel tipo - disse Hitler al termine del loro incontro nel '40, sulla costa basca -, preferirei farmi strappare tutti i denti"), e così salvò il suo Paese e se stesso. Nemmeno questo sta scritto nei documenti. Ma lo si ricava, senza possibilità di dubbio, dai fatti.

Aprile 1945: gli ultimi giorni di Mussolini. Il 16 aprile lascia il Garda. A Milano cerca inutilmente la mediazione con il CLNAI quando la RSI è ormai agonizzante e i tedeschi si ritirano,scrive Edoardo Frittoli su "Panorama". "Si, Giulio Verne,…ne riparleremo più avanti". Così Mussolini aveva ironicamente risposto al capo della polizia repubblicana Tamburini quando questi aveva fantasticato sulla possibilità di fuga del duce e dei gerarchi a bordo di un sottomarino costruito a Trieste e diretto in Argentina o Polinesia. Il Mussolini dei primi mesi del 1945 è lo spettro di sé stesso. L'ultima fiammata l'aveva spesa al Teatro Lirico di Milano nel dicembre precedente. I tedeschi ormai parlano sempre meno di armi segrete e saccheggiano sempre di più derrate e macchinari industriali nell'ottica di un'estrema difesa del Reich. La violenza e l'anarchia dei reparti "speciali" di Polizia Repubblicana e delle Brigate Nere lo avevano spinto allo scontro con alcuni membri del governo di Salò, sopra tutti Buffarini Guidi. Poi c'erano i battitori liberi come Roberto Farinacci, più vicini ai tedeschi che a Mussolini, che agitavano le acque nella speranza di una successione alla guida del fascismo repubblicano. E gli alleati germanici, con lo strapotere di plenipotenziari vicini a Hitler come Karl Wolff, Eugen Dollmann, Walter Rauff (uno dei padri delle Gaswagen, le camere a gas mobili). Nel marasma degli ultimi giorni della RSI Mussolini altalena tra il purismo del ritorno alla rivoluzione sansepolcrista e spinte neo-socialiste, reminiscenze della sua cultura pre-fascista. Si avvicina e lo avvicinano intellettuali e personaggi grotteschi, che gli propongono soluzioni impraticabili nell'imminenza della fine. Edmondo Cione, un allievo di Benedetto Croce, gli presenta un nuovo assetto politico del fascismo repubblicano, che avrebbe dovuto includere elementi dell'opposizione liberale e cattolica in senso critico. Divorato dall'ulcera, il Mussolini degli ultimi giorni di Salò sembra voler perseguire a tutti i costi la strada della "socializzazione" delle industrie e dell'agricoltura. Da un lato per cercare di preservare il patrimonio industriale del Nord dalla devastazione operata dai tedeschi. Dall'altra pensa ad un passaggio di mano dal fascismo ad uno stato socialista e anti borghese.  Il piano non sarà mai di fatto attuato per la risoluta avversione dei tedeschi e per la generale ostilità degli operai in continua agitazione, nonostante le concessioni salariali promesse dalla RSI. Con l'avvicinarsi degli Alleati e con la ripresa dell'azione da parte del CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) il governo di Salò comincia a formulare ipotesi di estrema resistenza o, eventualmente, di fuga in Svizzera per poi giungere nella Spagna franchista e da qui in Sudamerica. Nasce in questi giorni il piano cosiddetto R.A.R. (Ridotto Alpino Repubblicano). Si trattava di fortificare la zona montuosa della Valtellina e resistere almeno fino all'arrivo degli Alleati. Il più convinto sostenitore del ridotto era Alessandro Pavolini, segretario del PFR. Il vecchio generale Graziani, rassegnato e depresso, lo aveva deprecato sin dall'inizio. Infatti mancavano le forze necessarie per realizzarlo e difenderlo. Risultò chiaro sin da subito che il ridotto sarebbe stato devastato in poco tempo dall'aviazione alleata. Mussolini asseconda i suoi e cerca di contattare gli Alleati, i quali rispondono categoricamente: resa incondizionata. Il CLNAI fa altrettanto, così che Mussolini cerca contemporaneamente due strade alternative. Dal 16 aprile il duce decide di andarsene dalle sponde del Garda e lascia Gargnano per Milano, dove si stabilisce in Prefettura. Nella capitale lombarda Mussolini cerca contatto con l'ambasciatore svizzero Troendle. Questi temporeggia, ponendo difficili condizioni alla richiesta di asilo per il duce e i ministri di Salò. L'altra via è la mediazione della Chiesa. Per questo l'Arcivescovo di Milano Idelfonso Schuster si attiva per organizzare un incontro con il governo del CLNAI. Incontro che avviene presso la sede dell'Arcivescovado il 25 aprile, giorno dell'insurrezione. Ad attendere Mussolini c'è il generale Raffaele Cadorna, comandante militare del CVL e c'è Riccardo Lombardi per il CLNAI. Per il governo della RSI ci sono il generale Graziani e il sottosegretario Francesco Maria Barracu, il fondatore dei "Volontari di Sardegna-Battaglione Angioy" , grande invalido e seguace di Mussolini fino alla fine. I colloqui di fatto non cominceranno mai perché al duce è annunciata la voce di una pace separata con gli Alleati voluta da Karl Wolff. Mentre in città echeggiano gli spari e i tumulti dell'insurrezione generale, Mussolini fa ritorno in Prefettura. In corso Monforte termina la sua permanenza a Milano. Verso le 19 raduna i suoi comunicando di fatto la volontà di lasciare la città alla volta di Como, per un "precampo" prima del tentativo di espatrio in Svizzera. A nulla valgono gli estremi tentativi di Carlo Borsani, il cieco di guerra, di far tornare il duce in Arcivescovado. Alle 19,30 circa l'autocolonna con Mussolini e il suo seguito lascia Milano per l'ultimo viaggio.

E alla fine arrivarono gli Alleati. Le divisioni britanniche e americane superarono il Po il 24 aprile. E appresero lungo la strada per Milano che la città era già stata liberata. E i primi carri armati alleati arrivarono in Duomo solo il 29 aprile, scrive Massimo de Leonardis su “Il Corriere della Sera”. Le liberazioni delle grandi città italiane ebbero caratteristiche diverse. A Roma, per ragioni strategiche e per la sua peculiarità di sede del Papato, non vi furono né battaglia né devastazioni: i tedeschi si ritirarono poco prima dell’arrivo degli alleati. Opposto il caso di Firenze, con la città divisa e aspri scontri, che durarono settimane. Torino fu aggirata dalle truppe tedesche in ritirata, ma vi si manifestò il fenomeno dei franchi tiratori fascisti. A Milano le truppe americane arrivarono con la città già in mano ai partigiani, tranne alcuni centri di resistenza tedeschi. Nell’aprile 1945, sotto il Comando Supremo Alleato nel Mediterraneo del britannico Generale Sir Harold Alexander, operava in Italia, agli ordini dell’americano Tenente Generale Mark W. Clark, il XV Gruppo di Armate, composto dall’8a Armata britannica del Generale Sir Richard L. McCreery, e dalla 5a Armata americana del Tenente Generale Lucian K. Truscott, Jr, che contava circa 270.000 soldati (con altri più di 30.000 di riserva), oltre 2.000 pezzi di artiglieria e mortai e migliaia di veicoli, ed era schierata sulla linea di montagna a zig zag dal mare Tirreno, all’altezza del Cinquale tra Viareggio e Massa, al Monte Grande, vicino alla via Emilia. Da qui, verso sud-est, partiva il fronte della 8a armata britannica, a cavallo dei fiumi Sillaro e Santerno, e poi a nord-est lungo la sponda sud del Senio fino alla riva meridionale della laguna di Comacchio sull’Adriatico. Le operazioni preliminari iniziarono sul fronte dell’8a armata alle 3 del 2 aprile nella laguna di Comacchio, mentre l’azione diversiva sulla costa tirrenica iniziò il 5 aprile. Alle 14 del 9 aprile, dopo massicci bombardamenti ed un intenso fuoco di preparazione dell’artiglieria, iniziò l’attacco generale della 8a armata e alle 9.45 del 14 quello della 5a Armata. La svolta nell’offensiva avvenne il 20; il 21 fu conquistata Bologna e a mezzanotte del 24 l’88a divisione di fanteria americana passò per prima il Po. Il Generale Truscott ordinò l’avanzata della 5a Armata verso Verona, conquistata il 26 aprile, per separare la 10a e la 14a Armata tedesca, bloccare le vie di ritirata verso il Brennero e rompere la linea dell’Adige. Più a Occidente la 1a Divisione Corazzata americana, gli «Old Ironsides», doveva bloccare le linee di ritirata verso l’Austria e la Svizzera tra i laghi di Garda e di Como. Il 27 la Divisione incontrò partigiani provenienti da Milano, apprendendo che la città era stata liberata dalle forze della Resistenza. La mattina di domenica 29, gli americani occuparono la periferia e i primi carri armati arrivarono fino al Duomo; la sera il Col. americano Charles Poletti, governatore militare alleato in Lombardia, fu ricevuto in prefettura dai membri del Clnai e del Cvl. Il pomeriggio del 30 entrò in città il Tenente Generale Willis D. Crittenberger, comandante del IV Corpo d’Armata americano, con il Combat Command “B”. Già dal 27 era comunque a Milano il Capitano Emil Quincy Daddario dell’Office of Strategic Services (antesignano della CIA). Il giorno precedente aveva arrestato a Cernobbio il Maresciallo Rodolfo Graziani e i Generali Bonomi e Sorrentino; li trasferì a Milano, prima all’Hotel Regina, poi al Grand Hotel et de Milan e infine al carcere di S. Vittore, da dove infine li condusse verso Bergamo. L’Hotel Regina, tra le vie Silvio Pellico e Santa Margherita, era sede del comando della Sicherheitspolizei-SD. Daddario negoziò la resa dei tedeschi, che avevano rifiutato di arrendersi ai partigiani. Il 30, protetti da mezzi corazzati americani e sotto le armi puntate dei partigiani, i tedeschi abbandonarono l’albergo. Una folla minacciosa tentò di assalirli e gli americani spararono raffiche di mitra in aria per “calmare gli animi”. Nel frattempo, intorno a Milano le truppe americane e brasiliane eliminarono sacche di resistenza di truppe tedesche e della RSI. Dal 9 aprile al 2 maggio 1945, data della resa in Italia, le perdite dei tedeschi e dei fascisti, tra morti, feriti e dispersi, furono di 70.000 uomini, quelle alleate di 16.700.

Professore ordinario di Storia delle relazioni e delle istituzioni internazionali e Docente di Storia dei trattati e politica internazionale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dallo stop alle vendette alla «coabitazione»: Antonio Greppi, il sindaco della Liberazione. Rimasto nella memoria di tutti i milanesi, Antonio Greppi aveva visto morire un figlio, Mario, per mano della Legione «Ettore Muti». Ma non esitò a fermare le rappresaglie contro gli ex repubblichini, scrive Jacopo Perazzoli su “Il Corriere della Sera”. Per i milanesi è rimasto, fino all’ultimo, il sindaco della Liberazione, perché il socialista Antonio Greppi (1894-1982) a capo della nostra città c’era arrivato quando i nazisti erano ancora asserragliati nell’hotel Regina, a pochi passi da piazza della Scala. Non appena nominato dal Clnai il 27 aprile 1945, il neo primo cittadino si spese con determinazione per risolvere le gravi criticità lasciate sul campo dalla guerra. Fu così quando, per contrastare l’annoso problema del fabbisogno di alloggi per i milanesi, decise di nominare un commissario ad hoc e, al tempo stesso, di rivolgersi direttamente ai concittadini, perché coloro che ne avessero la possibilità mettessero a disposizione dei senzatetto alcuni locali: era l’inizio della coabitazione, che sarebbe rimasta nella memoria storica della città per molto tempo. Ma non soltanto. Per esempio, sul piano dell’assistenza sociale, il sindaco non perse tempo: pur in un regime di ristrettezza economica (nel 1945 le casse comunali disponevano di poco meno di 5 milioni di lire da spendere), optò per riorganizzare l’Ente comunale di assistenza, un organo ideato negli anni del fascismo. Esso fu affidato alla direzione di un altro socialista illustre, Ezio Vigorelli, che riuscì a fronteggiare con efficacia le conseguenze del caro viveri (nel secondo semestre del 1945 il costo della vita era infatti aumentato del 20,8%). Ugualmente riconducibile ai limitati mezzi finanziari fu un’altra scelta che contraddistinse l’operato di Greppi: nel 1945, quando uno dei problemi maggiori in città era rappresentato dal diffondersi della tubercolosi, il primo cittadino creò il cosiddetto «fondo penicillina», per coprire le spese necessarie all’acquisto del medicinale per i cittadini meno abbienti e chiese ai milanesi di finanziarlo, trovando un’adesione plebiscitaria. Un altro aspetto, questo di natura morale, ha contribuito a tramandare un’immagine positiva del «sindaco della Liberazione». Nei giorni immediatamente successivi alla resa delle forze nazifasciste, si scatenò in città un’ondata di vendette contro gli ex sostenitori della Repubblica di Salò. Da apprezzato avvocato penalista, Greppi non esitò a prendere posizione ufficiale contro quelle violenze, benché lui stesso fosse da considerare una vittima indiretta del fascismo, dato che suo figlio Mario, membro dell’VIII brigata Matteotti, era caduto a Milano nel corso di una rappresaglia attuata dalla legione Ettore Muti. La sua posizione contraria alla prosecuzione della violenza politica, una volta terminata la Resistenza, non toglie nulla al fatto che Greppi fosse una personalità integrata nell’antifascismo milanese. Il Clnai, su precisa volontà del suo presidente Alfredo Pizzoni, lo scelse quale primo cittadino anzitutto perché godeva di ottime credenziali da oppositore della dittatura. Nel 1938 e nel 1940 venne infatti internato a San Vittore poiché sospettato – non a torto – di attività clandestina antifascista (dal 1937 reggeva le sorti del Centro interno del Partito socialista), e il 26 luglio 1943 firmò, quale rappresentante del Psi, un manifesto dei partiti democratici milanesi con cui si chiedeva la liquidazione di qualsiasi traccia del ventennio mussoliniano. Sottoscrivere quel documento, soprattutto in seguito alla rinascita del fascismo sotto le vesti della Repubblica sociale, volle dire per Greppi prendere la via dell’esilio: dopo l’uccisione di Aldo Resega, il commissario federale di Milano della Rsi, fu costretto a riparare in Svizzera, visto che sul suo capo pendeva una condanna a morte. Dietro a quel motivo se ne celava però un altro che spinse i vertici del Clnai a puntare su Greppi. Partendo dal presupposto che scegliere un socialista quale sindaco di Milano significava ricollegarsi idealmente alla stagione dei suoi predecessori Caldara e Filippetti, venne indicato Greppi perché all’interno di quella famiglia politica era uno dei pochi che potevano contare su una buona esperienza amministrativa. Infatti, tra il 1920 e il 1922, seguendo un suggerimento giuntogli direttamente da Filippo Turati, aveva guidato l’amministrazione di Angera, la città da cui proveniva; nel piccolo centro lacustre impostò un’azione che avrebbe poi perseguito nel capoluogo lombardo, rappresentata dalla messa in campo di misure di politica sociale e culturale, insieme ad un forte sviluppo dell’edilizia convenzionata. Per questa serie di ragioni Sandro Pertini, allora capo dello Stato, parlò di «un grande vuoto nella vita democratica» lasciato da Greppi con la sua scomparsa, avvenuta il 22 ottobre 1982. L’autore fa parte del dipartimento di Studi umanistici dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale «Amedeo Avogadro»

Primo Maggio e 25 Aprile: ma è ancora festa? Momenti di patriottismo per altri soltanto ponte. E c'è chi pensa di abolirle, scrive Carmelo Caruso su "Panorama". E poi è subito 2 maggio. E prima ancora era stato il 26 aprile. Portate via dal giorno successivo, affievolite dalle proteste che non mancano (A Napoli quest’anno con evento sospeso). 25 Aprile e 1 maggio, celebrazioni con appendice musicale “segnato dal tempo”, ha avuto modo di dire perfino Susanna Camusso, segretario della Cgil, tanto da far ipotizzare la fine di quello che è divenuto la foto del primo maggio ovvero il concertone di piazza San Giovanni. Feste, certo e già lo storico Mario Isnenghi sottolineava come non ci sia festa il cui fine non sia la creazione di una memoria condivisa, strumenti per costruire una nazione. Forse. Divenute un lungo “ponte” per alcuni, a vedere le piazze sempre meno affollate, per altri un braccio di ferro sempre più vinto dalle catene commerciali che ne hanno fatto una crociata del lavoro senza attenuanti. Serrare le saracinesche o tenerle aperte? A Firenze un anno fa fu protesta condivisa perché fosse festa di tutti, ma peggio provò a fare Giulio Tremonti, ex ministro dell’Economia, quando si disse pronto ad abolirle o meglio “a spostarle” alle domeniche tutte quelle feste repubblicane che compongono il calendario laico di un paese: 25 aprile, 1 maggio e 2 giugno, provocando la solita polemica tra abolizionisti e antiabolizionisti. Rientrò subito dopo le proteste di storici e dell’Anpi con la benedizione del nostro presidente. Del resto l’idea di abolire le feste era passata in mente anche a Giulio Andreotti che abolì nel 1976 addirittura l’Epifania poi reintrodotta da Bettino Craxi, ma l’abolizione del primo maggio la realizzò solo Benito Mussolini che nel 1925 volle sopprimere la festa dei lavoratori che nel frattempo erano stati trasformati in cocci delle “corporazioni”, il compromesso storico inventato dal duce tra padroni e operai. Polemica stantia, salvo registrare, come appunto la Camusso, un qualcosa che sa di logoro e non per il simbolo quanto per la contingenza. «Il concerto del Primo Maggio vuole parlare ai giovani con un linguaggio che ci permette di interloquire con loro. Il prossimo è il 25simo. Tutte le cose sono segnate dal tempo». E ha precisato: «Bisogna fare una riflessione ma non voglio dire comunque che questo sia l'ultimo». “Magari andrebbe ripensata con nuove formule, ciò non toglie che queste siano e rimangono feste di tutti – convinto risponde il presidente dell’Anpi, Carlo Smuraglia che proprio nel 2006 decise di aprire le porte dell’associazione - prima eravamo solo partigiani, adesso anche i giovani vengono ad iscriversi. E’ stato un modo per rigenerare. Proprio per questo credo che il concerto non bisogna eliminarlo, rimane un modo per fare uscire dall’isolamento i giovani. E’ il classico momento d’incontro. Poi è inevitabile che una festa come il Primo Maggio abbia subito dei contraccolpi a causa della crisi”. Un riflusso che addolora per primi i padri della Repubblica, quei Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano che di fatto si sono “inventati” la festa del 2 giugno togliendole quella patina di retorica e parata per riconsegnarla alla memoria degli italiani come battesimo e genetliaco della Repubblica. Notizia vuole che il presidente abbia deciso di celebrare per quest’ anno un 2 giugno “sobrio” senza ricevimenti con i diplomatici e c’è chi come Sel di Nichi Vendola auspica la sospensione della parata, ecco. Del resto ci sono date che s’iscrivono e che devono farsi stele dice la storica dell’arte Antonella Sbrilli ricordando l’uso che il pittore Jacques Louis David ne fece nel suo “La Morte di Marat”, attraverso quella data che si legge nel testamento del giacobino il quadro si fa monumento annotò lo scrittore Michael Butor. E credere che ci avrebbero unito anche se così non sembrerebbe, almeno a leggere quanto accaduto ieri a Napoli, alla Città della Scienza, da poco incendiata. Tafferugli tra Cobas e sindacati, insomma frazionismo sindacale con i Cobas che gridavano: “Non c’è niente da festeggiare”. Sicuri? Proprio anni fa su questo stesso giornale lanciava la sua provocazione Paolo Guzzanti premettendo l’accusa a cui sarebbe andato incontro: “Lo so mi tacceranno di revisionismo”. Eppure era proprio quel polemista di Guzzanti stroncandolo a ricordare un primo maggio che oggi sa di sbiadito: “Grumi di memorie inconfessate, se non Spartaco Polizza da Volpedo, almeno le cariche della Celere di Mario Scelba o l’eco dei bambini minatori e di David Copperfield. Quel che non va è proprio la retorica di un mondo morto e non ci sono ingaggi di musica sotto il palco che possono dare vita a ciò che è morto”. La pioggia ieri ha fatto il resto e se si aggiunge il contro concertone (brutto definirlo così) organizzato a Taranto da David Riondino, il più noto commissario Montalbano giovane, le somme si tirano da sé, piazze divise e il pericolo di un deja vu che sa di stanchezza e scoramento. Di solito è questo il destino di qualsiasi data e il poeta Valerio Magrelli ne ha cantato in una sua poesia la caducità: “Luce di stella morta/ giunta da un trapasso presente/ il suo oggi è lo ieri/luce salma/ memoria di un oltretomba quotidiano”. Che sia colpa dell’impossibilità di allungare le date? Probabile, visto che ogni celebrazione è destinata a finire troppo presto, allungarle è soltanto un desiderio che l’incedere quotidiano ha impedito. Sarà per questo che nel testo irridente di Elio e le Storie Tese “Il complesso del primo maggio”, gioco satirico di controinformazione sui clichè della festa, la voce di Eugenio Finardi subentra a ricordare una verità: “Il primo maggio è fatto di gioia, ma anche di noia…”. Nel frattempo è già tre maggio, meno un mese al due giugno…

25 aprile, una festa lunga 70 anni. Iniziative, immagini e celebrazioni per l'anniversario della Liberazione. 25 aprile, cinque libri per la Festa della Liberazione. Dai classici di Calvino e Vittorini ai più recenti di Aldo Cazzullo e Giacomo Verri, cinque romanzi per ricordare, scrive Andrea Bressa su "Panorama". Come ogni anno, il 25 aprile ci si ferma per un giorno a ricordare e celebrare la liberazione dal giogo fascista e dalla barbarie della guerra. La nostra Festa della Liberazione la vogliamo passare anche tra le pagine di chi ha saputo raccontare i drammi di quegli anni, magari anche impegnato nella lotta in prima persona. Ecco dunque cinque libri per riflettere sul significato di una ricorrenza tanto importante.

La mia anima è ovunque tu sia – Aldo Cazzullo (Mondadori)

Nella primavera del 1945 i tedeschi sono ormai costretti a ritirarsi abbandonando i frutti delle loro razzie. Nella città di Alba i tesori dei nazisti vengono spartiti tra il capo dei partigiani e un rappresentante della Curia. Più di cinquant’anni dopo, un misterioso omicidio scuote la città e sembra riportare a galla gli eventi di quei giorni febbrili.

Uomini e no – Elio Vittorini (Mondadori)

Il primo romanzo in assoluto sulla Resistenza, scritto quando la lotta per la liberazione dal nazifascismo era ancora in corso. Il capitano Enne 2 guida il suo gruppo di partigiani alla scoperta di una Milano spettrale e deserta, ormai abbandonata alle violenze e ai soprusi della guerra.

Il partigiano Johnny – Beppe Fenoglio (Einaudi)

Questo classico della letteratura partigiana ha il sapore di una moderna epopea. Il giovane Johnny, studente di letteratura inglese, decide di prendere parte alle azioni di guerriglia per difendere le sue amate Langhe dall’invasore nazista. Il romanzo s’ispira in larga parte alla biografia dell'autore.

Il sentiero dei nidi di ragno – Italo Calvino (Mondadori)

La guerra civile al tempo della Resistenza è narrata dal punto di vista di Pin, un bambino che osserva con stupore e con sinistra ammirazione le imprese compiute dai ‘grandi’. L’apparente sicurezza con cui affronta fascisti e partigiani cela in realtà un profondo disagio, quello dell’orfano di guerra abbandonato da tutti.

Partigiano Inverno – Giacomo Verri (Nutrimenti)

Un ragazzino innamorato, un giovane irrequieto e un pensionato mite e disorientato, sullo sfondo di una Resistenza raccontata in forma di epica contemporanea. Dal passato non arriva solo la storia narrata, ma anche il registro e la voce di un mondo lontano.

C’è un antifascismo un pò fascista. Scrive Piero Sansonetti su "Il Garantista". Esistono tre modi di concepire l’antifascismo, e quindi di celebrare il settantesimo anniversario della Liberazione, che cade sabato prossimo, 25 aprile.

Il primo è un modo freddo e storico. Che si limita a osservare la grandiosità di quella data che rappresenta la caduta del nazi-fascismo, e cioè di un fenomeno e di una leadership politica dell’Europa occidentale che trascinò l’intero continente sull’orlo del baratro, al limite della fine della civiltà. E’ talmente gigantesco l’obbrobrio politico creato dal fascismo e dal nazismo – e che ha avuto il suo apice nel razzismo e nello sterminio della popolazione ebraica e dei rom – che la sua sconfitta militare (in Italia sancita dall’ingresso a Milano dell’esercito anglo-americano) segna uno spartiacque nella storia del nostro paese e del continente.

Il secondo è il modo della retorica. Il più diffuso. L’antifascismo proclamato non come un valore ma come una ”appartenenza”. Una bandiera. L’antifascismo come luogo degli eletti, al di fuori del quale c’è solo feccia e vermitudine, e dunque chiunque non entri con baldanza e convinzione nel cenacolo antifascista, e non si sottoponga ai riti e alle giaculatorie, è condannato ad essere scacciato tra i reietti. Questo è l’antifascismo più diffuso. E’ l’antifascismo delle cerimonie, ed è una specie di sotto-ideologia, dai confini molto vasti -dalla vecchia Dc ai centri sociali – che ha permesso per anni alle forze politiche di sinistra di rinunciare ad una propria struttura politica – di idee e di progetto – perché questa struttura era sostituita dal pacchetto-già-pronto dell’antifascismo e della militanza antifascista. Dentro questo antifascismo non ci sono idee o valori: c’è ”identità”. Anzi, questo modo di concepire l’antifascismo è esso stesso ”identità”. E questa “identità”, siccome è molto debole, labile, perché non sia dispersa, è “militarizzata”.

Poi c’è un terzo modo di pensare l’antifascismo. Ed è quello di ricercare, di ricostruire e poi di affermare i suoi valori. Quali sono i suoi valori? Sono il rovesciamento delle caratteristiche più reazionarie del fascismo, e cioè delle caratteristiche che lo hanno portato alla condanna della storia. Proviamo ad elencarle. L’autoritarismo. L’illiberalismo. L’intolleranza e la richiesta di appartenenza. Il militarismo. Il pensiero unico. La violenza, fisica e culturale. L’arroganza. Il senso di superiorità. Il razzismo e la xenofobia. Lo statalismo. La repressione. Il disprezzo per lo stato di diritto. L’antifascismo del ”terzo tipo” è quello che trasforma in valori la lotta contro queste tendenze. Ed è un antifascismo attualissimo, perché queste tendenze non solo sono presenti, e radicate, nello spirito pubblico italiano di oggi, ma sono larghissimamente maggioritarie e prevalenti. E sono trasversali, uniscono destra e sinistra, così come fu trasversale il movimento fascista. Quasi tutte queste tendenze si ritrovano, esasperate, (ma in misura variabile) nel leghismo, nel grillismo, nel travaglismo. E si ritrovano anche, meno esasperate, ovunque. Il ”renzismo”, se lo vogliamo chiamare così, non è certo esente dalla retorica fascista, sia nei suoi aspetti autoritari (riduzione del parlamento a bivacco di manipoli …) sia nel suo linguaggio politico (spianiamo tutto, chissenefrega del dissenso, abbasso i vecchi evviva la giovinezza, se avanzo seguitemi…). E anche nella violenza della polemica politica.

Dei tre tipi di antifascismo che ho citato, il primo è scarsamente rilevante, il secondo è dilagante, il terzo è del tutto marginale. E come tutti gli antifascismi che si rispettano è quasi clandestino…Il problema drammatico è che l’antifascismo di secondo tipo, quello retorico e militarista, che ha dominato il dibattito politico durante tutto il tempo della prima e della seconda repubblica, oggi sta assumendo caratteristiche sempre più militariste, autoritarie e intolleranti, quasi sovrapponendosi allo stesso fascismo. E’ un antifascismo di tipo fascista. E tuttavia è l’unico antifascismo con diritto di parola. Se fino a qualche anno fa il suo limite era l’assenza di pensiero e il trionfo del conformismo, ora le cose si sono complicate, perché si è mescolato con i grandiosi populismi di destra e di sinistra di questi anni, ed ha subito un fortissimo degrado. Basta ascoltare le posizioni di gran parte del mondo politico e giornalistico sull’immigrazione. Sono posizioni che sempre più spesso “sdoganano” principi di tipo nazista. E alle quali non si oppone quasi nessuno, al di fuori della Chiesa cattolica. Oppure basta seguire le polemiche più diverse, su tanti giornali, e la carica di intolleranza e di rifiuto del dialogo, e di senso di superiorità che vi si trova. Mi ha colpito un articolo di Antonio Padellaro – persona mite e seria – pubblicato ieri sul “Fatto”. Giustamente Padellaro in quell’articolo rivendica il diritto ad essere “buonisti” e rivendica persino il valore della tolleranza contro quello dell’intransigenza. E una riga esatta dopo aver scritto questo, si ricorda che sta scrivendo sul ”Fatto” e si rivolge ai suoi avversari politici, che ha visto in un certo talk show, e li definisce la ”feccia di qualche zoo del Nord-est”. E’ questo il problema: a nessuno viene in mente che rivendicare la tolleranza e definire feccia chi dissente (a qualunque titolo e su qualunque posizione) non funziona.  E però ci avviamo a celebrare un 25 aprile in questo clima. Che non credo sia molto diverso da quello del 1922.

A chi il 25 aprile? Ai soliti noti (ma su Raiuno). Prima serata a rischio retorica con Saviano, Pif, Albanese, Paolini e Ligabue, scrive Maurizio Caverzan su "Il Giornale". Ci saranno tutti o quasi. Dite un nome e lo trovate. Fazio e Saviano, Albanese e Marco Paolini, Pif e Ligabue. E poi chissà quanti altri. Del resto, il momento è solenne, bisogna ammetterlo: settant'anni dalla Liberazione del 25 aprile 1945. Quindi, per l'occasione, Raiuno si traveste da Raitre o, se preferite, Raitre trasloca su Raiuno. Una grande serata unificante, dal titolo schietto e festoso: Viva il 25 aprile! col punto esclamativo. Una serata che avrà nella Piazza del Quirinale il cuore pulsante della celebrazione officiata da Fabio Fazio. «Perché le vere feste si fanno in piazza - recita il comunicato di Raiuno - e la piazza del Quirinale è la piazza di tutti». E ancora: «Il 25 aprile è una festa di compleanno e quest'anno ricorre il 70° compleanno della Libertà». Insomma, diciamola tutta, una grande serata a rischio retorica. Per la quale il servizio pubblico non ha lesinato sulle risorse. Ordunque, Fazio all'ombra del Quirinale, Pif in collegamento dalla Sicilia, Roberto Saviano da Montecassino, Marco Paolini ed Elisabetta Salvatori da Sant'Anna di Stazzema, Antonio Albanese da Alba, Ligabue e Francesco De Gregori in concerto da un'altra piazza di Roma. En plein. Dicono i beninformati che a volere la grande serata unificante sia stato il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi. E che abbia orchestrato l'operazione in perfetta sintonia con Andrea Vianello, direttore di Raitre, con il quale peraltro l'intesa è consolidata dalle trattative sul caso Floris e dalla scelta di trasmettere Gomorra sulla Terza rete con lancio della coppia Fazio-Saviano, e non, per esempio, su Raidue. Secondo queste fonti il capo di Raiuno, Giancarlo Leone, avrebbe fatto buon viso a forza maggiore. E ora aspetterebbe di vedere come va il mezzo trasloco, il cambio di tasto sul telecomando con conseguente, probabile, spaesamento del pubblico. Tuttavia, non c'è tanto da stupirsi. Perché comunque, questa strana serata nasce da un equivoco che viene da lontano. Ovvero che la Liberazione della Seconda guerra mondiale e la Resistenza siano esclusive di una certa sinistra, più salottiera che militante, ma pur sempre sinistra (come se non esistessero partigiani non comunisti o azionisti). E, di conseguenza, che l'anniversario di uno dei momenti fondanti della Repubblica non possa essere gestito se non dai soliti noti. Ma siccome quest'anno il «compleanno della Libertà» è più solenne perché trattasi del settantesimo, cifra tonda, ci voleva la rete ammiraglia, il primo canale, la massima potenza di fuoco. Sarà davvero difficile restare alla larga dalla retorica.

Quest'anno torna la retorica. La Storia invece fa il ponte. Per la festa il diktat è archiviare il "revisionismo", scrive Matteo Sacchi su "Il Giornale". Ma la Resistenza quanto dura? La risposta di qualcuno è semplice, da corteo: «Ora e sempre Resistenza!». Viene da una poesia di Calamandrei, per carità, ma senza la dedica al generale Kesselring (che voleva un monumento dagli italiani) perde di senso. E così, a 70 anni dal 25 aprile, se uno sfoglia i giornali o va in libreria si trova davanti una serie di richiami alla lotta al nazifascismo che dà l'impressione che Kesselring prema di nuovo contro il baluardo alpino. Anzi, se in questi anni qualche tentativo di ragionamento più pacato lo si è fatto, la cifra tonda e l'inserimento della ricorrenza nel calendario del Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale sono visti da qualcuno come l'occasione per tornare alla «Resistenza perfetta». Lo storico Giovanni De Luna lo teorizza nel suo volume intitolato proprio La resistenza perfetta (Feltrinelli). Dice di provare «un insopportabile disagio» quando si indaga sulle imperfezioni della Resistenza: «Dagli anni '90 in poi si è messa in moto una valanga di fango e detriti inarrestabile, alimentata da una storiografia punteggiata da aneddoti poco edificanti». Meglio mettere tutto sotto lo zerbino e buttarla in retorica, allora? Qualche esempio. A Modena lo scorso weekend c'è stato il Festival play , un poco resistenziale festival del gioco. Si è dovuto comunque colorirlo di «memoria». Si è giocato alla staffetta partigiana. Oppure a Radio Londra. Niente di male, però la caccia al tesoro che parte da dove si uccise Angelo Fortunato Formiggini e finisce alla lapide per i fucilati è un po' troppo. Meglio allora lo spiegamento di libri del Corriere della Sera che sino al 26 settembre proporrà letteratura partigiana. Promuovendo l'operazione con titoli tipo: «Raccontare la Resistenza, un impegno di libertà». E c'è anche un po' di confusione, visto che tra i libri resistenziali finiscono dei racconti di Mario Rigoni Stern che con la Resistenza hanno poco a che fare ( Aspettando l'alba ). Ma siamo alle solite, tutto è Resistenza, persino Rigoni Stern, volontario fascista, che scriveva: «Non vi è stata una guerra più giusta di questa contro la Russia sovietica». Certo, si dirà: ha cambiato idea mentre era in un lager tedesco, dopo l'8 settembre. Forse. Di sicuro il 25 aprile stava ancora cercando di tornare a piedi dalla Polonia, rientrò a casa il 5 maggio. Del resto qualsiasi cosa, in attesa del 70º, può essere «partigianizzata». Mettiamo che si decida di parlare di una mostra di Mario Dondero, come ha fatto La Stampa il 10 aprile. Dondero è un grande della fotografia. Fra le altre cose ha fatto il partigiano in Val d'Ossola, ma questo poco o nulla ha a che fare con i suoi scatti. Però il titolo diventa: «Dondero, la guerra all'ingiustizia del partigiano con l'obiettivo». L'intervistatore sentirebbe pure la necessità di denunciare «il revisionismo diventato senso comune». Meno male che il revisionismo è diventato senso comune: proprio La Stampa pubblica in prima pagina un «conto alla rovescia» per il 25 aprile a firma Paolo Di Paolo, scrittore «inviato nel 1945». L'inviato raccoglie a piene mani virgolettati d'epoca di Togliatti. E il quotidiano propina anche titoli equilibrati come: «Il momento della scelta tra barbarie e civiltà». Per non dire di come è stata strumentalizzata la lettera del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Micromega . Di tutto ciò che ha scritto, nelle titolazioni di alcuni giornali come il Fatto , si è isolata (quando non forzosamente interpretata) solo la frase sull'evitare «pericolose equiparazioni tra i due campi in conflitto». Lo storico Angelo D'Orsi, sempre sul Fatto esulta per «la fine del “rovescismo” alla Pansa», e nella sua visione persino Luciano Violante, che osò «salutare i ragazzi di Salò», sembra un apologeta. Beh, certo ma quel che conta, chioserà qualcuno, è la tv! Iris, canale Mediaset dedicato al cinema, da oggi al 24 aprile, presenterà il ciclo «Storie di libertà», omaggio alla Resistenza. A commentare la rassegna, Fausto Bertinotti. Quanto ai titoli: Il Generale della Rovere , Il delitto Matteotti , I piccoli maestri ... E anche l'hollywoodiano Il mandolino del Capitano Corelli che, a essere sinceri, trasforma l'eccidio di Cefalonia in un polpettone romantico a cui forse bisognerebbe «resistenzialmente» ribellarsi. Raiuno invece imbastirà una serata affidata a Fazio. Ospiti i soliti noti: Saviano, Paolini, Albanese, Ligabue... Che sia un po' sbilanciata a sinistra? Sulle librerie sarebbe meglio non far parola. Oscar Farinetti, il patron di Eataly, in Mangia con il pane (Mondadori) racconta le avventure del padre Paolo Farinetti. Il comandante Paolo ha un curriculum bellico di tutto rispetto: liberò dalle carceri di Alba 22 detenuti politici. Ma la biografia si trasforma in una narrazione edulcorata. E Farinetti jr., quando può, si ritaglia anche uno spazietto per spiegare quanto è bella Eataly: «Non è un impero, è piuttosto un gruppo di lavoro di circa 4mila persone che si sbattono per celebrare la meraviglia dell'agroalimentare italiano». Insomma, resistere oggi è mangiare bene. Del resto a Milano si va dal «tutto è Resistenza» alla Resistenza a rischio di antisemitismo. La brigata ebraica non è gradita in piazza. Perché? Perché si fa resistenza anche a Israele. Abbastanza per far adirare anche il presidente della Fondazione Anna Kuliscioff, Walter Galbusera: «I veri partigiani... sono rimasti in pochi e i gruppi dirigenti non sempre hanno atteggiamenti costruttivi». Polemiche non dissimili si sono sviluppate anche a Roma. Dove c'è chi ha detto - e la presidente della Camera gli ha dato ragione - «si dovrebbe togliere la scritta “Dux” dall'obelisco del Foro Italico a Roma». Cancellare i nomi è un modo un po' strano di rievocare la storia. Ecco, la Storia? Quella il 25 aprile fa il ponte.

Giorgio Albertazzi: "Io, il duce, piazzale Loreto", scrive “Libero Quotidiano”. Sta per tornare il 25 aprile. E come accade tutti gli anni, torna la retorica della Liberazione. Prima sui giornali e poi sulle piazze. Uno dei quotidiani che si è portato avanti è Il Fatto Quotidiano, che dedica al 25 Aprile due pagine, una delle quali dedicata a una intervista a Giorgio Albertazzi. Che fu negli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale tra i fascisti di Salò. E su quanto accadde in piazzale Loreto ha un giudizio sicuramente controcorrente. "Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l' ha voluto e chi l' ha portato a termine quel disegno. Ma non poteva essere evitato, non nel senso politico del termine, ma perché l' uomo è quella cosa lì. Un animale? Il peggiore degli animali". Lui non c'era, quel giorno a Milano: "Non ero in Italia. Io ero a combattere. Paradossalmente contro i tedeschi che erano i nostri alleati. Ma nella confusione di quei giorni ci trovammo a sparare ai tedeschi, in Austria, tra le montagne innevate. Senza più niente". La fama di fascista non me la sono mai scrollata di dosso. Andai a Salò come tanti ragazzi, convinto che lì si combattesse per l' Italia, ma con altro spirito, e soprattutto consapevole che in quel momento stavo dalla parte di chi già aveva perso". Finì due anni in carcere, per essere stato coi Repubblichini: "Come dissi in un' intervista all' Espresso nella sentenza del Tribunale militare che mi ha assolto in istruttoria dopo due anni di carcere preventivo, c' è scritto che ho messo in salvo 19 ebrei. Ma non l' ho mai raccontata questa cosa. Non mi andava. le mie responsabilità, seppur di ventenne, me le prendo tutte".

Il 25 aprile nei diari conservati all'archivio di Pieve Santo Stefano. Quel giorno di 70 anni fa a Milano raccontato dalle parole di chi era lì. Nove storie selezionate tra quelle conservate nell'archivio diaristico nazionale, scrive Nicola Maranesi su “L’Espresso”. Sono trascorsi settant’anni da quel mercoledì 25 aprile 1945. Il giorno della Liberazione, il giorno in cui l’Italia ha debellato il nazifascismo e chiuso l’oscura esperienza della Repubblica Sociale Italiana. Milano è stata e resta il luogo simbolo di quel passaggio storico. Una città che in pochi giorni ha vissuto gioie estreme e dolori estremi, distribuiti tra centinaia di migliaia di persone che tornavano ad abbracciarsi e altrettante che continuavano a uccidersi. Con le vittime e i carnefici a passarsi il testimone, in uno di quei momenti della storia in cui è impossibile tracciare un confine universale tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Per comprendere cos’è accaduto in città in quei giorni di 70 anni fa non esiste racconto più efficace di quello racchiuso nei diari e nelle memorie di chi c’era. Centinaia di questi sono conservati presso l’ Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano , in provincia di Arezzo. Una rapida perlustrazione di questo fondo in gran parte inedito lascia affiorare le voci dei protagonisti. Ne abbiamo scelte nove, che ci sembrano rappresentative di sentimenti e stati d’animo diversi e complementari. A partire da quella dell’operaio della Compagnia generale elettricità Antonio De Palo ("Due fucilati") che il 24 assiste a uno degli ultimi crimini commessi dai fascisti, che “per impressionare le maestranze” fucilano due partigiani prelevati dal carcere di San Vittore nel piazzale antistante la sede della Compagnia. C’è poi quella della giovane studentessa di ragioneria Maria Rachele Ciccarelli (“Liberi? Sembra impossibile”), che riassume l’enorme impatto delle novità che si stanno abbattendo sulla vita di tutti con una semplice frase, pronunciata dal sanatorio dov’è in cura: “Liberi. Cosa vuol dire per noi liberi. Mi sembra impossibile”. Una libertà che sfugge a Rina Alberici ("Trentasette morti"), che nella sua testimonianza racconta ancora di esecuzioni sommarie, ma che vedono invertirsi le parti tra vittime e carnefici. Allo stabilimento Breda gli operai insorti hanno imprigionato il personale dirigente. Compilano una lista di capi d’accusa e si fanno giustizia da soli. Tra i reclusi c’è anche Aurelio, marito di Rina, che verrà risparmiato e tornerà a casa salvo, facendosi però strada tra i cadaveri di trentasette colleghi ammucchiati di fronte al cancello della fabbrica. Non rischierà la vita ma subirà una violenta aggressione la giovanissima Maria Luisa Torti ("Picchiata dai partigiani") che sarà picchiata e rasata dai partigiani per essersi rifiutata di baciare una lercia bandiera rossa. Sono gli episodi più tragici di una riconquista della città che annovera molte tappe pacifiche, come quelle che Antal Mazzotti ("Scene dalla Liberazione") e il membro del Comitato di liberazione nazionale Vella Folgore ("La riconquista di Milano") descrivono minuziosamente nei rispettivi diari. Sono i rovesci inaspettati che il partigiano ed ex repubblicano Luigi Mingozzi riassume alla perfezione nella sua biografia e nel racconto delle giornate che seguono il 25 aprile ("Vendette, festeggiamenti, amori"). Tutte queste storie di gente comune rappresentano tasselli che aiutano a comprendere la Storia. E a rispondere agli interrogativi. Come quelli che è lecito porsi al cospetto della compassione che prova il piccolo Mauro Pistolesi ("Più pietà che odio" ) pur trovandosi di fronte ai fascisti fiancheggiatori dei nazisti, responsabili dei delitti ai quali ha assistito. Come quello di cui parla un altro testimone, Claudio Cimarosti ("A otto anni ho visto il duce a testa in giù"), nella sua memoria. Claudio ha otto anni quando il 29 aprile il padre lo conduce a piazzale Loreto per vedere i cadaveri di Mussolini, Clara Petacci e dei gerarchi. “Come hai potuto pensare di portare un bambino?”, ha chiesto al genitore anni dopo. “Mi sembrò assolutamente normale portare anche te”, la risposta. “Tutti gioivano che il fascismo avesse fatto quella fine. Che fosse finita la guerra, le lotte civili, la dittatura. E mi sembrò giusto far partecipare anche te a questa gioia”.

"A otto anni ho visto il duce a testa in giù". A soli otto anni Claudio Cimarosti è già abituato a guardare la morte in faccia. Non solo quella che gli appare a piazzale Loreto nei volti del Duce, di Clara Petacci e dei gerarchi, al cospetto dei quali è posto dal padre senza alcun indugio. Tra partigiani assassinati e violenze verbali, Claudio può dire di aver bruciato presto le tappe della vita. Quel giorno in piazzale Loreto io c’ero. Prima ancora che fossero appesi a testa in giù alla pensilina del distributore di benzina, la notizia che Mussolini e la Petacci erano stati uccisi ed erano in piazzale Loreto si sparse per la città. Anche mio papà lo seppe, prese immediatamente la bicicletta, mi mise in canna e partimmo per piazzale Loreto. In piazzale Loreto c’era una folla enorme. Mio papà, con me per mano, tentò di avvicinarsi al punto dove c’erano i cadaveri di Mussolini, della Petacci e degli altri gerarchi, ma fu impossibile anche perché, ad un certo punto, la strada era stata completamente allagata. […] Poco dopo che fummo arrivati furono appesi a testa in giù alla pensilina di un distributore di benzina e noi potemmo vederli. Forse credo […] che quello non debba essere stato uno spettacolo molto edificante per un bambino di otto anni! E questo ebbi modo di dirlo a mio papà, una sera, chiacchierando, qualche anno prima che lui morisse. “Come hai potuto pensare – gli chiesi – di portare un bambino di otto anni a vedere dei cadaveri esposti in piazza?”. E lui mi diede ragione. “Oggi – mi disse – Non lo rifarei sicuramente, ma questo ti deve far capire che clima c’era in quel periodo, che aria si respirava in quei giorni. Tu sai che in vita mia non sono mai stato un esagitato, però quel giorno mi sembrò assolutamente normale portare anche te, perché quello era un avvenimento storico eccezionale, ma soprattutto perché tutti gioivano che il fascismo avesse fatto quella fine. Che fosse finita la guerra, le lotte civili, la dittatura. E mi sembrò giusto far partecipare anche te a questa gioia”. […] D’altro canto non era la prima volta che vedevo dei cadaveri. Era una cosa quasi normale in quel periodo. Una mattina io ed i miei amici, nel bel mezzo del parco Solari che dovevamo attraversare per andare alle scuole di via Ariberto, trovammo, steso in un prato, il cadavere di un partigiano. Evidentemente era stato ucciso nel corso della notte e giaceva là da ore senza che alcuno se ne curasse. Un’altra volta andammo a vedere due partigiani che erano stati fucilati a piazza Cantore. E di morti se ne sentiva parlare ogni giorno. Uccisi da entrambe le parti, partigiani e fascisti. E si sentiva parlare di gente arrestata, di persone sparite, si sentiva parlare di torture che avvenivano nelle carceri.

Trentasette morti. Madre del piccolo Pierpaolo e moglie di Aurelio, un dirigente della Breda, Rina Alberici ha lasciato una testimonianza autobiografica sul 25 aprile priva di entusiasmi. Nelle ore che accompagnano la Liberazione, ore che definisce “della caccia all’uomo, sanguinosa e fratricida”, un pericolo di morte minaccia la sua famiglia: Aurelio è stato sequestrato dagli operai insorti. Il diario di Rina Alberici (foto di Luigi Burroni)Io e Pierpaolo (il figlio di Rina, ndr) sembravamo due senza fissa dimora; la maggior parte del tempo lo passavamo per strada, scrutando qua e là in attesa di un arrivo. Un pomeriggio, guardando verso viale Umbria vidi stagliarsi nella luce fra gli alberi una sagoma e mi parve di riconoscere Aurelio. “Non è lui” mi dissi “Aurelio non viaggia in bicicletta”. Quell’uomo pedalava piuttosto forte tenendo il manubrio con una sola mano poiché nell’altra aveva una ciambella con coperchio per W.C. Scuotendo la manina Pierpaolo gridavo: “Guarda è papà, papà; Aureliooo” e scoppiai a piangere. Aurelio stava bene, non aveva né fame né sete; in quei tre giorni, rinchiusi nei sotterranei, mangiarono e bevvero come nababbi; non gli fecero mancare neppure il fumo. Secondo gli “aguzzini” si trattava degli ultimi pasti della loro vita. […] All’entrata in Milano degli americani gli operai misero in atto repentinamente la loro “rivolta”; già armati (un’organizzazione fatta a regola d’arte) presero possesso di tutto lo stabilimento (Breda, dove lavorava Aurelio, ndr) convogliando il personale dirigente o con alte cariche nei sotterranei che avevano funzionato come rifugi antiaerei. Il Comitato promotore disponeva della lista di coloro su cui pendevano i capi d’accusa; di mano in mano ne prelevarono quattro o cinque, ma non facevano più ritorno. Aurelio, fra i rinchiusi, quando sentiva l’appello gli sembrava che il cuore volesse scoppiargli. Ne furono prelevati una quarantina circa; non era difficile immaginare la fine che fecero. Il terzo giorno Aurelio si sentì chiamare, le gambe gli tremavano ed un incaricato gli disse che poteva andare a casa; su di lui non pendevano capi d’accusa. Non gli sembrò vero. […] Uscendo dal cancello dovette scavalcare circa 37 morti fucilati, abbandonati in mucchio per terra. La fretta e la paura non gli diedero la possibilità di riconoscerli; là si fucilava senza regolare processo. Presa una bicicletta qualsiasi incominciò a pedalare, ma visto un posto di blocco si fermò rifugiandosi in un negozio di servizi igienici e per non fare la figura del fuggiasco trattò l’acquisto della famosa ciambella.

Picchiata dai partigiani. Quando giunge il 25 aprile e la Liberazione Maria Luisa Torti ha una sola certezza. Il peggio è passato. Purtroppo sbaglia. Mentre osserva senza favori l’ingresso degli americani a Milano, è vittima di una ritorsione immotivata da parte dei partigiani. Il diario di Maria Luisa Torti (foto di Luigi Burroni)Era il giorno che era logico pensare che chiunque avrebbe come minimo avuto la forza di alzare la testa, di guardare avanti, perché ognuno di noi sopravvissuti potevamo dire “io ho già pagato!”. Invece io, proprio io, non avevo ancora finito di pagare. Il tempo, le ore non avevano misura, so che non era ancora del tutto buio [… so che la porta venne spalancata improvvisamente ed entrarono due partigiani, ovvero così si presentavano in quei momenti di caos, tutti coloro che avevano voglia di alzare la voce. Questi due ragazzi (perché non avevano più di sedici-diciassette anni) che conoscevo bene perché abitano due palazzi oltre il mio, prima buttarono all’aria la casa, cassetti e armadi in cerca di che cosa non so, perché infatti non presero nulla, poi guardandomi dissero “tu vieni con noi”. Ricordo solo le labbra di papà che erano diventate due fessure dipinte di bianco. I vicini di casa silenziosi che avevano riempito la stanza e io (ancora oggi per quanti sforzi faccia, non ricordo come scesi le scale, come mi trovai in quel piccolo giardino di quella villetta) io mi vedevo lontana, non vivevo in prima persona. C’era una macchina accanto a me da dove scendevano tanti partigiani, erano aggrappati alle portiere, e avevano tutti i capelli e la barba lunghi, e tutti avevano intorno al collo un fazzoletto rosso, e tutti cantavano continuamente fino a drogarsi col canto “…e bandiera rossa sempre vincerà…e bandiera rossa sempre vincerà…”. I due stupidini che mi avevano prelevata a casa dissero al compagno Lupo: “Questa è una repubblichina”. Dieci, cento mani mi spinsero, mi toccarono, mi spinsero, i bottoncini della camicetta bianca erano saltati ed il mio seno era semiscoperto. Ero una fanciulla di una figura meridionale bruna e prorompente, perciò maggiormente tutti erano eccitati. I due ragazzi che mi avevano portata non c’erano più; forse chi era più grande di loro e che mi conosceva sapeva che io non c’entravo per niente con tutto ciò, ma la voce del compagno Lupo mi portò alla realtà perché mi gridò: “Bacia la bandiera”. Davanti a me c’era una specie di tovaglia rossa, lercia, sporca, bagnata, strappata, puzzava di sudore e di sangue e il tessuto (non il simbolo) mi fece schifo e voltai la faccia…non l’avessi mai fatto! Il volto mi fu riempito di schiaffi, il primo mi colpì subito la bocca, mi si ruppe il labbro superiore e sentivo il sapore dolciastro del mio sangue, i mei capelli lunghi si sparpagliavano intorno al mio volto e ogni tanto sentivo: “Bacia la bandiera”. E io cretina continuavo a voltare la faccia finché i miei capelli, che mi coprivano il volto, e che mi entravano in bocca quando prendevo fiato per urlare di nuovo…improvvisamente il mio volto era libero. E i miei bei capelli neri e riccioluti, erano in terra più in là. E quelli ridevano e quello con la forbice che faticava a tagliare. E quelli che mi tenevano la testa. E io che urlavo e poi una voce forte che grida “Basta!”. Basta. […] Fui sollevata da terra e Glauco, un ragazzo che conoscevo da piccola ed ora già adulto, pulito, con gli occhiali i capelli normali e diventato qualcuno di importante durante la vita partigiana, presami per un braccio mi disse: “Stai tranquilla, è stato un errore…”.

L'altra Resistenza. Quella che nessuno vuole più ricordare. Il saggio di Ugo Finetti ricostruisce le vicende di militari e partigiani dimenticati Erano patrioti e lontani dal Pci, per questo nei libri di storia non c'è stato posto per loro, scrive Matteo Sacchi su "Il Giornale". Tra l'8 settembre del 1943 e il 25 aprile del 1945 (data ufficiale della Liberazione, anche si sparò ancora un bel po') chi ha combattuto per liberare l'Italia dall'occupazione tedesca supportata dalle forze (assolutamente gregarie) della Rsi? La risposta all'apparenza è molto semplice. In primo luogo gli anglo-americani e gli alleati, tra cui andrebbe citato il numerosissimo contingente polacco che arrivò a contare 75mila uomini. In secondo luogo le forze cobelligeranti italiane, il Corpo Italiano di liberazione, ovvero ciò che restava del regio esercito. Che crebbe di consistenza durante il conflitto per arrivare a contare 22mila uomini perfettamente armati e disciplinati. Poi le formazioni partigiane di diversa estrazione ideologica e politica. Nel '43 i loro organici erano ridottissimi. Nell'aprile del '44 secondo la maggior parte delle fonti contavano circa 22 mila uomini. Le formazioni comuniste erano le più numerose, ma ben lontane da rappresentare la maggioranza assoluta delle forze partigiane. Quello fatto sin qui potrebbe sembrare un bigino inutile ed ovvio. Però a settant'anni dal 25 aprile del '45 l'immagine che ci viene regalata della Liberazione è ancora molto distorta. Ideologizzata. Il contributo delle truppe regolari italiane marginalizzato, i partigiani raccontati come se avessero tutti al collo un fazzoletto rosso (ma rosso comunista, perché anche sui socialisti già si potrebbe storcere il naso), gli anglo-americani rimossi, anzi quasi colpevoli di averci negato la possibilità di essere inclusi nel Patto di Varsavia. È del resto di qualche giorno fa un titolo delle pagine di Repubblica che recitava così L'Armata Rossa che fece la Resistenza. Racconta le vicende dei soldati sovietici che fuggiti ai tedeschi cooperarono coi partigiani. Sulla loro consistenza numerica non occorre fare molti conti, nel testo si spiega che se ne sa poco, ma il titolo fa ben capire dove si vuole andare a parare. Se si vuole sfuggire a questo clima, che ha stravolto la storiografia per decenni, è di aiuto il testo di Ugo Finetti che proponiamo in allegato con il Giornale nella nostra biblioteca storica, La Resistenza cancellata (pagg. 376, euro 7,60 più il prezzo del quotidiano). Finetti, ex giornalista della Rai con all'attivo moltissime inchieste e reportage, ricostruisce in questo saggio l'uso politico della Resistenza fatto nel Dopoguerra. Spiegando quanto quest'uso politico abbia fatto male alla stessa Resistenza. Per usare le sue parole: «Quando l'antifascismo diventa un marchio di cui una minoranza pretende di avere l'esclusiva, e si accusa quotidianamente di fascismo la maggioranza, si scava un fossato tra antifascismo e opinione pubblica». Ma soprattutto Finetti dà largo spazio alla storia dei resistenti dimenticati. In prima istanza i militari. E rende loro giustizia dopo decenni di oblio: «La resistenza non fu infatti una guerra civile tra due élites - i rivoluzionari comunisti e gli irriducibili di Salò - ne ebbe come caratteristica la lotta di classe. Vide alla nascita come protagonisti militari guidati da ufficiali “legittimisti”... Le prime formazioni hanno come denominazione richiami risorgimentali e gli Alleati ne favorirono la nascita. Il Partito comunista, dal 25 luglio 1943 fino all'aprile 1944, svolse un ruolo del tutto secondario». E l'opera di ricerca di Finetti è pregevole soprattutto quando aiuta a riscoprire personaggi importanti come il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, che fu il vero organizzatore della lotta antitedesca a Roma. Partecipa all'inutile tentativo di difendere la città sotto l'attacco tedesco. Si dà alla clandestinità. Il 10 dicembre 1943, quale comandante riconosciuto dal governo Badoglio, dirama a tutti i raggruppamenti militari nell'Italia occupata dai nazifascisti la circolare 333/op, nella quale vengono indicati gli obbiettivi dell'organizzazione clandestina e le direttive per la condotta della guerriglia. Le sue parole d'ordine erano: «guerra al tedesco et tenuta ordine pubblico». Cosa che lo metteva in forte concorrenza con i Gap (Gruppi di azione patriottica) e getta una luce sinistra sul suo arresto e la sua fucilazione alle fosse ardeatine. Ma non è un caso isolato. Anche Edgardo Sogno, medaglia d'oro della Resistenza, contatto principale di Radio Londra tra i resistenti italiani, è stato ostracizzato. Stessa sorte per Alfredo Pizzoni che subito dopo l'8 settembre 1943, pur non appartenendo ad alcun partito politico, fu scelto per presiedere il Cln lombardo, che nel febbraio 1944 divenne il ClnaI. Nei libri di storia non compare, troppo borghese. Finetti rende giustizia a quei patrioti, come i militari che resistettero alla Wehrmacht mentre per colpa del Re e di Badoglio il Paese finiva allo sbando, che sono stati rimossi dalla memoria perché non omologabili. È revisionismo? O il revisionismo di comodo è stato il precedente oblio?

Non erano tutti comunisti. La Resistenza fuori dal mito. Una lunga mistificazione, scrive Francesco Perfetti su "Il Giornale". Vent'anni or sono, nel 1995, Renzo De Felice, dopo aver ricordato che la Resistenza era stato «un grande evento storico» che nessun revisionismo sarebbe riuscito a negare, richiamò l'attenzione sul fatto che i numeri di quanti avevano preso parte attiva alla lotta partigiana erano ancora controversi. Ma, quali che ne fossero le dimensioni, quel che sembrava certo allo studioso, era il fatto che, al contrario di quanto si sosteneva generalmente, non era possibile «definire la Resistenza un movimento popolare di massa» se non nelle settimane che precedettero la resa dei tedeschi e la vittoria delle truppe alleate. Del resto anche uno dei suoi principali protagonisti, il generale Raffaele Cadorna aveva scritto nelle sue memorie che, al momento della liberazione, il numero dei partigiani era cresciuto «a dismisura» e aveva aggiunto: «Un semplice fazzoletto rosso al collo bastava a tramutare un pacifico operaio o un contadino in partigiano persuaso di avere acquistato larghe benemerenze nella liberazione della patria». L'amara verità è che la grande maggioranza degli italiani, ormai stanca della guerra, aveva preferito evitare di schierarsi in maniera palese a favore della Resistenza o della Repubblica sociale italiana. Il sentimento collettivo era andato coagulandosi, non per opportunismo ma come scelta di «mera necessità» e come «male minore», in una sorta di «zona grigia» costituita essenzialmente da «quanti riuscirono a sopravvivere tra due fuochi, impossibile da classificare socialmente, espressa trasversalmente da tutti i ceti, dalla borghesia alla classe operaia». La tesi di De Felice sembrò dirompente perché metteva in discussione non già la Resistenza in quanto tale ma piuttosto il suo uso politico e ideologico, la sua strumentalizzazione. Quello dello storico era, in realtà, un invito a rileggere e studiare la Resistenza al di fuori del «mito» che ne era stato accreditato soprattutto ad opera dei comunisti. Questi ultimi erano riusciti a far prevalere l'idea non solo di una grande rivolta popolare di massa ma anche, e soprattutto, di un fenomeno unitario a guida comunista. Cosa che non era affatto vera perché alla Resistenza, nelle sue varie fasi, presero parte, oltre ai comunisti e agli azionisti con le brigate «Garibaldi» e «Giustizia e Libertà», anche esponenti di altre forze politiche, dai cattolici ai socialisti, dai liberali ai monarchici inquadrati in brigate e formazioni autonome, talora in dissenso sulle scelte operative. Per non dire, infine, del contributo alla lotta di liberazione da parte dei militari italiani del Corpo italiano di Liberazione e di quell'altra e coraggiosa forma di resistenza rappresentata dal rifiuto di collaborare con i tedeschi da parte dei soldati internati nei campi di concentramento, gli Imi dei quali fece parte anche Giovannino Guareschi. Alle origini del processo di mistificazione storica della Resistenza c'era un preciso disegno portato avanti dal Partito comunista e, in via subordinata, dal Partito d'azione, quello di accreditare che la Resistenza fosse il vero e il solo evento rivoluzionario della storia dell'Italia unita. Il che spiega, per inciso, il motivo per il quale le formazioni autonome, quelle cioè che facevano riferimento a forze politiche diverse dal Pci o dal Pda, fossero guardate con diffidenza se non addirittura con ostilità. Rientra, per esempio, in questo quadro - e vi entra in maniera emblematica delle lotte intestine all'interno del movimento partigiano - il caso dell'eccidio della malga di Porzûs, dove un gruppo di partigiani della Brigata Osoppo di orientamento cattolico e laico-socialista fu barbaramente liquidato da parte di partigiani comunisti. Spiega, ancora, perché si dovesse glissare sul contributo militare, importante ed anzi essenziale, degli Alleati alla liberazione del Paese e perché si inventasse quella dubbia categoria interpretativa della Resistenza come «secondo Risorgimento» giustamente criticata da un grande ed equilibrato storico come Rosario Romeo. E spiega, infine, come, per molto tempo, la storiografia ufficiale della Resistenza, quella che De Felice avrebbe definito la vulgata, si fosse preoccupata non soltanto di minimizzare, di fatto sottovalutandola, la partecipazione delle componenti non comuniste all'epopea resistenziale. Quando, nel 1991, venne pubblicato il volume di Claudio Pavone dal titolo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza , sembrò che si aprisse una stagione completamente nuova rispetto, per esempio, al classico libro, la Storia della Resistenza , che uno storico militante come Roberto Battaglia aveva scritto, quasi a caldo e sotto la guida ispiratrice di Luigi Longo, presentando, in chiave marxista, la Resistenza come una guerra di popolo egemonizzata e guidata dai comunisti. La novità stava, in primo luogo, nel recupero, in ambito storiografico, della nozione di «guerra civile» prima sdegnosamente rifiutata e utilizzata solo nella polemica politica e in talune ricostruzioni provenienti dall'ambiente neofascista. Adesso la «guerra civile» non era più rifiutata, ma diventava un aspetto della Resistenza accanto ad altri due, quelli di una «guerra patriottica» e di una «guerra di classe». Ma si trattava di una novità apparente perché, al fondo del discorso, rimaneva in piedi l'equazione che tendeva a collegare l'idea della Resistenza con l'idea di una rivoluzione politica e sociale. Non è un caso che la ponderosa, e pur importante, opera di Pavone liquidasse la vicenda di Porzûs in una nota e sottovalutasse il contributo delle componenti non comuniste o azioniste della Resistenza: come dimostra, per esempio, il fatto che le citazioni del nome di un liberale come Edgardo Sogno si contino sulla punta delle dita. Il proposito comunista di accreditare l'immagine di una Resistenza unitaria guidata dai quadri dirigenti del partito comunista e farne il fondamento legittimante dello Stato democratico post-fascista era funzionale al disegno di Palmiro Togliatti, e dei suoi accoliti, di conquistare il potere attraverso l'affermazione della «democrazia progressiva». Era un proposito di natura «pedagogica» e politica al tempo stesso che si risolveva, però, in un vero e proprio «tradimento» della Resistenza stessa e dei suoi valori. La storia della Resistenza raccontata dalla vulgata comunista e azionista è contenuta in un libro ideale pieno di pagine stracciate e cancellate che solo da poco tempo alcuni volenterosi ricercatori stanno tentando di restaurare o ricostruire. È la storia di una «Resistenza rossa» che si sarebbe affermata, come sostenne Luigi Longo durante le celebrazioni del primo decennale, vincendo le opposizioni di cattolici e liberali e di tutti quegli antifascisti che, troppo legalitari, ne boicottavano il carattere di movimento popolare di massa e ne ostacolavano l'evoluzione in senso classista. Ma è una storia falsa che ha avuto successo soltanto grazie all'egemonia culturale gramsci-azionista che per molto tempo, per troppo tempo, ha condizionato le menti degli intellettuali italiani. È ora di riscrivere la storia vera della Resistenza, con le sue luci e le sue ombre, per assegnarle il posto che, legittimamente, le spetta. Al di là e al di fuori del mito. E, soprattutto, delle speculazioni politiche.

La guerra dei sette giorni dei «repubblichini» traditi. Dopo il 25 aprile del 1945, i tedeschi sacrificarono gli italiani per proteggere la propria ritirata verso il Brennero. E per gli uomini della Rsi il conflitto proseguì fino al 2 maggio, scrive Rino Cammilleri su "Il Giornale". Nel 70º anniversario del «25 aprile» l'editore D'Ettoris ha pubblicato un libro che mancava: Il gladio spezzato. 25 aprile-2 maggio 1945: guida all'ultima settimana dell'esercito di Mussolini (pagg. 144, euro 14,90). L'autore, Andrea Rossi, dottore di ricerca in Storia Militare, colma una lacuna. Sì, perché, come dice Francesco Perfetti nella prefazione, permane «la convinzione che il 25 aprile 1945 siano cessate definitivamente le ostilità in Italia». Ma «il conflitto durò ancora per una settimana provocando perdite fra militari e civili almeno fino al 2 maggio 1945. Questi sette giorni sono stati poco esplorati dalla storiografia». Con una precisione da consumato studioso, Rossi ci informa nel dettaglio su ciò che avvenne in quella settimana fatale. Che conobbe il caos, le diserzioni, il «si-salvi-chi-può», i voltagabbana, ma anche pagine di autentico valore e di lotta disperata. Già, perché fu subito chiaro, a chi voleva vederlo, che «i tedeschi intendevano sacrificare gli italiani per proteggere la propria ritirata verso il Brennero», cosa che fin dal febbraio 1945 era stata decisa in una riunione a Parma dei vertici militari tedeschi. Del resto, che cosa questi pensassero degli italiani era stato bene espresso in un giudizio del generale Eugen Ott, ispettore della Wehrmacht per le divisioni della Rsi: «Conoscendo la qualità militare e la mentalità dell'italiano \ non ci si può aspettare molto da questa truppa». Così, i repubblichini furono praticamente lasciati a vedersela con l'avanzata anglo-americana e i partigiani. E i fedeli del Duce sapevano bene che questi ultimi non erano inclini a fare prigionieri. «Come bene aveva intuito Renzo De Felice (e, a onor del vero, assai prima Beppe Fenoglio) nella sua opera postuma e, purtroppo, incompleta, fu guerra civile “senza se e senza ma”, e il solo fatto che se ne parli a quasi settanta anni di distanza accalorandosi come se tali eventi fossero di attualità, dimostra a volumi - se ancora ce ne fosse bisogno - che come tale essa è percepita ancora oggi da molti italiani». Fenoglio nel 1949 aveva intitolato una sua prima raccolta di scritti Racconti della guerra civile , ma l'editore Einaudi l'aveva modificato in Racconti barbari . Il termine «guerra civile» dilagò solo dopo la pubblicazione, nel 1991, del libro di Claudio Pavone Una guerra civile (Bollati Boringhieri). In quei giorni parossistici il destino dell'agonizzante repubblica fascista e delle sue forze armate era l'ultimo dei pensieri non solo dei tedeschi, ma anche degli Alleati, per i quali l'Italia rappresentava un teatro di guerra secondario nello scacchiere europeo. Inoltre «i leader occidentali (Winston Churchill su tutti) temevano una replica dell'amara esperienza greca, dove alla liberazione era seguita una feroce guerra civile fra nazionalisti e comunisti nella quale le truppe britanniche erano rimaste pesantemente coinvolte». La guerra era ormai praticamente conclusa e l'evitare un insensato sacrificio di vite umane fu il problema che occupò le lunghe trattative in Svizzera tra Karl Wolff, plenipotenziario delle forze armate tedesche, e Allen Dulles, responsabile dell'Oss (Office of strategic service), che negoziarono la resa tedesca in Italia. Ma che fare dei prigionieri repubblichini? «Questi ultimi erano considerati dagli Alleati alla stregua dei tedeschi, ossia reparti combattenti i cui componenti ricadevano pienamente sotto la convenzione di Ginevra». Così non la pensava Giovanni Messe, capo di stato maggiore del regio esercito, per il quale, essendo l'Italia di Vittorio Emanuele III ufficialmente in guerra con la Germania dall'ottobre 1943, i soldati di Salò erano colpevoli di tradimento per aver collaborato in armi «con il tedesco invasore». E dire che il Messe era stato a suo tempo decorato dai tedeschi con la croce di ferro di prima e seconda classe e, per giunta, era l'unico Maresciallo d'Italia ad avere ottenuto l'ambitissima Ritterkreuz che neanche Graziani, capo delle forze armate repubblichine, aveva. Per quanto riguardava il Cln, questo aveva stabilito l'instaurazione di tribunali straordinari che avrebbero dovuto giudicare i «collaborazionisti». Il Cmrp (Comitato militare regione Piemonte), da parte sua, decise di passare subito per le armi tutti coloro che avessero militato nelle forze armate di Salò. Né i fascisti, d'altro canto, si comportavano in modo granché diverso con i partigiani catturati. I marò repubblichini furono abbandonati dal generale tedesco Eccard von Gablenz, che contrattò il ritiro dei suoi uomini con i partigiani senza dirlo agli italiani. Questi, decimati dall'aviazione alleata durante la fuga, il 26 aprile 1945 decisero di sciogliersi. Tutti a casa (forse). Quelli di Brescia, responsabili di una rappresaglia, nello stesso giorno «con poca accortezza» si consegnarono al Cln di Lumezzane. Con il risultato che il loro comandante, tenente colonnello Mario Zingarelli, e venticinque marò furono fucilati il 10 maggio. E così via. Italiani contro italiani. Più guerra civile di così...

Ecco le memorie inedite dei "repubblichini" di Salò. I ragazzi di Salò erano spesso giovani che avevano perso tutto e mossi da ideali patriottici. Ecco le loro testimonianze, scrive Roberto Chiarini su "Il Giornale". Parafrasando Carl Schmitt, si potrebbe affermare che, se nello stato di eccezione si costituisce una nuova legittimità, della legittimità in quello stesso passaggio si definiscono anche i principi fondativi. Il nostro stato d'eccezione è stata la Liberazione. Si fissarono allora i criteri ispiratori del nuovo Stato. Il 28 aprile è il giorno in cui i partigiani passarono per le armi l'artefice della dittatura, l'8 maggio quello in cui finì la guerra in Europa, ma è il 25 aprile, giorno della sollevazione di Milano contro l'occupante nazista e il collaborazionista fascista, che è stato assunto come data simbolo della nuova Italia. La Repubblica, nata dalla Resistenza, ha fatto dell'antifascismo lo statuto valoriale che ha tracciato il confine della legittimità democratica. Ne è derivato che l'assolutizzazione della «giusta causa» dei partigiani contro la «causa sbagliata» dei militi della Rsi abbia portato ad assolutizzare uniformandole anche le ragioni della lotta ingaggiata dai due campi nemici: delle avanguardie consapevoli al pari delle maggioranze gregarie. Quel che vale per un giudizio storico-politico complessivo sulla Liberazione, non è detto però valga anche come criterio nella considerazione delle singole vicende personali. Non tutti i «ragazzi di Salò» furono volontari. Non tutti furono fascisti irriducibili. Non tutti furono sanguinari, anche se tutti si caricarono sulle spalle la responsabilità di sostenere la causa di un'Italia e di un'Europa destinate a divenire baluardi di regimi totalitari e razzisti. Del fascismo repubblicano disponiamo di una ricca letteratura fatta di memoriali o di ricostruzioni redatte per lo più da gerarchi o da personaggi in vista del regime, tutte ovviamente più o meno auto-assolutorie. Meno conosciuti sono, invece, i percorsi esistenziali, morali, alla fine anche inesorabilmente politici dei - chiamiamoli - «giovani qualunque», seppure essi costituissero la gran massa di quanti vestirono la divisa saloina. Per quel che si è riusciti a indagare, il mondo dei giovani dell'esercito di Salò risulta più variegato e complesso di quanto sommari giudizi abbiano sinora lasciato intendere. Ecco due casi a nostro giudizio istruttivi.

Umberto, un ragazzo di Padova non ancora diciottenne, in una giornata di sole della primavera del 1944 va con gli amici a giocare la sua solita partita al pallone. Torna a casa e scopre di essere diventato orfano di entrambi i genitori e per giunta anche ridotto sul lastrico. Non c'è più nemmeno la sua casa, colpa di un bombardamento. Non sapendo a quale santo votarsi, non trova di meglio per campare che arruolarsi in Marina, nelle file della X Mas. Viene dislocato in Friuli, dove nel corso di uno scontro finisce prigioniero dei partigiani. Liberato dai suoi commilitoni, è trasferito sul Senio, nei pressi di Castel Sampietro. Qui è impiegato in rischiose azioni sulla linea del fronte. Ferito nel corso di un bombardamento, dopo un trasferimento avventuroso, è ricoverato prima nell'ospedale di Argenta, poi in quello di Verona. Le sue condizioni peggiorano per le molteplici, gravi ferite riportate. È salvato in extremis da un ufficiale medico tedesco che gli asporta decine di schegge. Non ha ancora finito la convalescenza che si vede costretto a fuggire dall'ospedale per non finire nelle mani dei partigiani ormai alle porte di Verona. È a Padova, a casa di una zia dove si sta curando le ferite, quando viene sorpreso dal 25 aprile. Fugge. Tenta inutilmente di rifugiarsi in Francia. Ripiega allora su Bardonecchia. Qui riesce a sopravvivere e soprattutto ad occultare il suo passato da repubblichino facendo il garzone da un fornaio comprensivo. Sospettato di nascondere un passato da milite della Rsi, alla fine del 1945 lascia Bardonecchia per Padova, dove riesce ad arruolarsi nella Guardia di Finanza. Conduce poi una vita nell'ombra, ben guardandosi da compiere atti che facciano riesumare il suo passato compromettente. È la figlia a metterlo nei guai sposando - parole sue - «un comunista» che non manca di riaprire la ferita. Ma il colpo più duro lo riceve allorché l'adorata nipotina, di ritorno dalla scuola, lo apostrofa corrucciata: «Ma tu nonno è vero che sei un massacratore di partigiani?». L'anziano «ragazzo di Salò» scoppia in un pianto sconsolato. Prende allora la decisione di registrare a futura memoria la sua esperienza di combattente della Rsi. Scopo - confessa - lasciare testimonianza perché un giorno la nipotina, divenuta adulta, possa rendersi conto che suo nonno non si è macchiato di delitti né di azioni infamanti.

Tre amici ricevono la chiamata alle armi dall'esercito di Salò. Hanno tutti un'educazione fascista ma nessuno è un ardente mussoliniano. Pur senza entusiasmi, accettano di arruolarsi. Uno, Vaifro, finisce sul fronte orientale dove troverà la morte. Gli altri due, Amilcare e Lucio, sono inviati sul fronte occidentale, in Liguria, in due unità diverse. In occasione di una licenza, Lucio riceve dalla madre del commilitone una lettera e un pacco da consegnare all'amico. Al suo rientro, si presenta alla caserma di Amilcare ma, non appena fa il suo nome, suscita allarme: viene a sapere che ha disertato unendosi a una formazione partigiana. Temendo che nella lettera siano presenti indicazioni compromettenti, Lucio decide di consegnare ai superiori solo il pacco. L'amico finirà comunque catturato, torturato e ucciso. Lucio invece finisce la guerra sempre sotto le insegne della Rsi. A fine guerra, tornando al paese teme di finire oggetto di una qualche attenzione non benevola da parte dei partigiani del posto. Non gli succede invece nulla di tutto questo. La madre di Amilcare, sorella del sindaco socialista insediatosi dopo la Liberazione, lo mette sotto la sua protezione. Mostra in tal modo la sua riconoscenza per il gesto con cui Lucio, tenendo per sé la lettera a suo tempo consegnatagli, aveva coperto la fuga dell'amico. Da allora fino alla morte, avvenuta qualche anno fa, Lucio non manca mai di onorare ogni anno nel giorno dei morti con una corona di fiori la memoria dei suoi due amici, Vaifro e Amilcare, l'uno repubblichino, l'altro partigiano.

Albero della Vita in piazza Loreto, ma l'Anpi: "Offusca ricordo dei partigiani". Secondo il comune, la torre simbolo di Expo potrebbe finire in piazzale Loreto, "per cancellare un momento storico controverso". I partigiani insorgono: "Confonderebbe le idee", scrive Ivan Francese su "Il Giornale". Ha sempre diviso e continua a dividere gli animi dei milanesi e degli italiani, piazzale Loreto.  Prima teatro della barbara esposizione dei cadaveri di quindici partigiani, fucilati nell'agosto 1944 dalle forze della Repubblica di Salò e quindi lasciati esposti al pubblico ludibrio; poi, nell'aprile 1945, testimone dell'altrettanto barbara esposizione dei cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci e altri gerarchi, in quella che lo stesso comandante partigiano Ferruccio Parri definì un'oscena "macelleria messicana". Da novembre piazzale Loreto potrebbe ospitare l'ormai celeberrimo "Albero della Vita" progettato per diventare il simbolo di Expo. La torre di 35 metri di Marco Balich potrebbe venire trasferita nella piazza alla fine di corso Buenos Aires su proposta dell'assessore al Verde Chiara Bisconti. "Per cancellare un momento storico controverso con un inno alla vita", spiega la Bisconti. Una proposta che ha subìto scatenato le ire dei partigiani: "Sarebbe una nota stonata che creerebbe solo confusione - protesta il presidente milanese dell'Anpi Roberto Cenati - Il simbolo di piazzale Loreto c'è già ed è il monumento che ricorda i 15 partigiani, che da tempo chiediamo che venga restaurato. L'installazione di Basich resti sul sito di Expo". Più favorevole, invece, il centrodestra. Non si oppone, ad esempio, l'ex vicesindaco Riccardo De Corato, che però avverte: "Prima dovremmo mettere anche una targa che ricordi che qui è stato appeso Mussolini".

Veneziani: il 25 aprile nega dignità anche a chi ha dato la vita per la patria, scrive Antonella Ambrosioni su “Il Secolo D’Italia”. “Non celebriamo il 25 aprile perché non è una festa ”. È stato chiaro, ultimativo, Marcello Veneziani, giornalista e scrittore, autore di saggi storici e filosofici, fresco di nomina come direttore scientifico della Fondazione Alleanza Nazionale. Il 25 aprile non è una festa perché rimane una celebrazione divisiva e mai concepita all’insegna della veritas e della pietas, sostiene il neo direttore.

Veneziani, lei ha parlato di una festa divisiva e di una festa “contro”. Parole quanto mai opportune ascoltando le esternazioni colme di rinata retorica resistenziale e antifascista del presidente della Camera prima, del Capo dello Stato poi, non trova?

«Sì, il 25 aprile non è mai stata una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse, che rappresentano legittimamente una parte degli italiani, ma solo una parte, non sono l’Italia. È una festa nata contro “gli italiani del giorno prima”, ovvero non considerava che gli italiani fino ad allora non erano stati certo antifascisti. Non è un festa di tutti gli italiani, perché non rende onore al nemico, anzi nega dignità e memoria a tutti costoro, anche a chi ha dato la vita per la patria, solo per la patria, pur sapendo che si trattava di una guerra perduta. Oggi c’è una rinnovata enfasi corale per un evento che più si allontana nel tempo, più è lontano dalla sensibilità della gente e più viene imposto mediaticamente. Per cui mi sono convinto che sia necessario ridiscutere il valore di questa festa così come viene concepita».

Lei sostiene che nella retorica di parte il 25 aprile “oscura” persino la Grande Guerra: come è possibile?

«Facendo parte del Comitato degli anniversari di Palazzo Chigi, ho potuto notare proprio questo paradosso: mentre alcune ricorrenze, come il centenario della Grande Guerra, sono ricordate solo negli aspetti tragici, catastrofici, con il carico di dolore, sacrifici e morte, sul settantesimo del 25 Aprile prevale esclusivamente l’aspetto celebrativo, senza mai ricordare le pagine nere, sporche, sanguinose che l’hanno accompagnata. Negli ultimi tempi è poi è cresciuta l’ enfasi per i 70 anni della Liberazione parallelamente a una minore attenzione per i 100 anni della Prima Guerra mondiale. Anzi, per la Grande Guerra si è deciso solo di restaurare monumenti, per il 25 aprile vi sono celebrazioni ovunque. Prima considerazione: scusate, il centenario è una data più importante, una data “tonda”, non la celebriamo mai; mentre il 25 aprile viene celebrato ogni anno, è l’unica festa civile del nostro Paese, oltre alla Festa del Lavoro, quindi non è certo una festa trascurata; e oltretutto è irrituale celebrare i Settantesimi. Chiedevo, pertanto, nient’altro che l’equiparazione dei giudizi storici, esaminare i due eventi dal punto di vista storico e non celebrativo, mettendo in luce anche i punti critici della Resistenza».

Le parole del Capo dello Stato non aiutano certo a ricomporre la memoria storica quando ancora una volta ristabiliscono una gerarchia tra giovani di Salò e partigiani: pietà per i morti – ammette – ma i primi stavano dalla parte sbagliata, i secondi da quella giusta. Parole che segnano un passo indietro rispetto al processo di riconciliazione avviato da Luciano Violante quando parlò della necessità di comprendere le ragioni dei ragazzi e delle ragazze che scelsero la Rsi.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: tutte le falsità sulla Resistenza. "Gli anniversari dovrebbero essere aboliti. Soprattutto quando celebrano un evento politico che si presta a una giostra di opinioni non condivise. Accade così per il settantesimo del 25 aprile 1945, la festa della Liberazione.  Una cerimonia che suscita ancora contrasti, giudizi incattiviti e tanta retorica. A volte un mare di retorica, uno tsunami strapieno anche di bugie e di omissioni dettate dall'opportunismo politico. Per rendersene conto basta sfogliare i quotidiani e i settimanali di questa fine di aprile. È da decenni che studio e scrivo della nostra guerra civile. Ma non avevo mai visto il serraglio di oggi. Una fiera dove tutto si confonde. Dove imperano le menzogne, le reticenze, le pagliacciate, le caricature. È vero che siamo una nazione in declino e che ha perso la dignità di se stessa. Però il troppo è troppo. Per non essere soffocato dalla cianfrusaglia, adesso proverò a rammentare qualche verità impossibile da scordare. La prima è che la guerra civile conclusa nel 1945, ma con molte code sanguinose sino al 1948, fu un conflitto fra due minoranze. Erano pochi i giovani che scelsero di fare i partigiani e i giovani che decisero di combattere l'ultima battaglia di Mussolini. Il «popolo in lotta» tanto vantato da Luigi Longo, leader delle Garibaldi, non è mai esistito. A perdere furono i ragazzi di Salò, i figli dell'Aquila repubblicana. Ma a vincere non furono quelli che avevano preso la strada opposta. L'Italia non venne liberata da loro. Se il fascismo fu sconfitto lo dobbiamo ad altri giovani che non sapevano quasi nulla di un Paese che dal 1922 aveva obbedito al Duce e l'aveva seguito in una guerra sbagliata, combattuta su troppi fronti. La vittoria e la libertà ci vennero donate dalle migliaia di ragazzi americani, inglesi, francesi, canadesi, australiani, brasiliani, neozelandesi, persino indiani, caduti sul fronte italiano. E dai militari della Brigata Ebraica, che oggi una sinistra ottusa vorrebbe escludere dalla festa del 25 aprile. Gli stranieri e gli italiani si trovarono alle prese con una guerra civile segnata da una ferocia senza limiti. Qualcuno ha scritto che la guerra civile è una malattia mentale che obbliga a combattere contro se stessi. E svela l'animo bestiale degli esseri umani. Tutti gli attori di quella tragedia potevano cadere in un abisso infernale. Molti lo hanno evitato. Molti no. Eccidi, torture, violenze indicibili non sono stati compiuti soltanto dai nazisti e dai fascisti. Anche i partigiani si sono rivelati diavoli in terra. In un libro di memorie scritto da un comandante garibaldino e pubblicato dall' Istituto per la storia della Resistenza di Vercelli, ho trovato la descrizione di un delitto da film horror. Una banda comunista, stanziata in Valsesia, aveva catturato due ragazze fasciste, forse ausiliarie. E le giustiziò infilando nella loro vagina due bombe a mano, poi fatte esplodere. La ferocia insita nell' animo umano era accentuata dalla faziosità ideologica. La grande maggioranza delle bande partigiane apparteneva alle Garibaldi, la struttura creata dal Pci e comandata da Longo e da Pietro Secchia. È una verità consolidata che tra le opzioni del partito di Palmiro Togliatti ci fosse anche quella della svolta rivoluzionaria. Dopo la Liberazione sarebbe iniziata un' altra guerra. Con l' obiettivo di fare dell' Italia l' Ungheria del Mediterraneo, un Paese satellite dell' Unione Sovietica. I comunisti potevano essere più carogne dei fascisti e dei nazisti? No, perché chi imbraccia un' arma per affermare un progetto totalitario, nero o rosso che sia, è sempre pronto a tutto. Ma esiste un fatto difficile da smentire: le stragi interne alla Resistenza, partigiani che uccidono altri partigiani, sono tutte opera di mandanti ed esecutori legati al Pci. La strage più nota è quella di Porzûs, sul confine orientale, a 18 chilometri da Udine. Nel pomeriggio del 7 febbraio 1945, un centinaio di garibaldini assalgono il comando della Osoppo, una formazione di militari, cattolici, monarchici, uomini legati al Partito d' Azione e ragazzi apolitici. Quattro partigiani e una ragazza vengono soppressi subito. Altri sedici sono catturati e tutti, tranne due che passano con la Garibaldi, saranno ammazzati dall' 8 al 14 febbraio. Un assassinio al rallentatore che diventa una forma di tortura. In totale, 19 vittime. La strage ha un responsabile: Mario Toffanin, detto "Giacca", 32 anni, già operaio nei cantieri navali di Monfalcone, un guerrigliero brutale e un comunista di marmo. Ha due idoli: Stalin e il maresciallo Tito. Considera la guerriglia spietata il primo passo della rivoluzione proletaria. Ma l' assalto e la strage gli erano stati suggeriti da un dirigente della Federazione del Pci di Udine. Di lui si conosce il nome e l'estremismo da ultrà che gioca con le vite degli altri. È quasi inutile rievocare le imprese di Franco Moranino, "Gemisto", il ras comunista del Biellese. Un sanguinario che arrivò a uccidere i membri di una missione alleata. E poi fece sopprimere le mogli di due di loro, poiché sospettavano che i mariti non fossero mai giunti in Svizzera, come sosteneva "Gemisto". Il Pci di Togliatti difese sempre Moranino e lo portò per due volte a Montecitorio e una al Senato. Anche lui come "Giacca" morì nel suo letto. Tra le imprese criminali dei partigiani rossi è famoso il campo di concentramento di Bogli, una frazione di Ottone, in provincia di Piacenza, a mille metri di altezza sull' Appennino. Dipendeva dal comando della Sesta Zona ligure ed era stato affidato a un garibaldino che oggi definiremmo un serial killer. Tra l' estate e l' autunno del 1944 qui vennero torturati e uccisi molti prigionieri fascisti. Le donne venivano stuprate e poi ammazzate. Soltanto qualcuno sfuggì alla morte e dopo la fine della guerra raccontò i sadismi sofferti. A volte erano dirigenti rossi di prima fila a decidere delitti eccellenti. Le vittime avevano comandato formazioni garibaldine, ma si rifiutavano di obbedire ai commissari politici comunisti. Di solito questi crimini venivano mascherati da eventi banali o da episodi di guerriglia. Uno di questi comandanti, Franco Anselmi, "Marco", il pioniere della Resistenza sull' Appennino tortonese, dopo una serie di traversie dovute ai contrasti con esponenti del Pci, fu costretto ad andarsene nell' Oltrepò pavese. Morì l' ultimo giorno di guerra, il 26 aprile 1945, a Casteggio per una raffica sparata non si seppe mai da chi. Negli anni Sessanta, andai a lavorare al Giorno, diretto da Italo Pietra che era stato il comandante partigiano dell' Oltrepò. Sapeva tutto del Pci combattente, della sua doppiezza, dei suoi misteri. Quando gli chiesi della fine di Anselmi, mi regalò un' occhiata ironica. E disse: «Vuoi un consiglio? Non domandarti nulla. Anselmi è morto da vent' anni. Lasciamolo riposare in pace». Un' altra fine carica di mistero fu quella di Aldo Gastaldi, "Bisagno", il numero uno dei partigiani in Liguria. Era stato uno dei primi a darsi alla macchia nell' ottobre 1943, a 22 anni. Cattolico, sembrava un ragazzo dell' oratorio con il mitragliatore a tracolla, coraggioso e altruista. Divenne il comandante della III Divisione Garibaldi Cichero, la più forte nella regione. Era sempre guardato a vista dalla rete dei commissari comunisti della sua zona. Nel febbraio 1945, il Pci cercò di togliergli il comando della Cichero, ma non ci riuscì. Alla fine di marzo Bisagno chiese al comando generale del Corpo volontari della libertà di abolire la figura del commissario politico. E quando Genova venne liberata, cercò di opporsi alle mattanze indiscriminate dei fascisti. Non trascorse neppure un mese e il 21 maggio 1945 Bisagno morì in un incidente stradale dai tanti lati oscuri. In settembre avrebbe compiuto 24 anni. Ancora oggi a Genova molti ritengono che sia stato vittima di un delitto. Sulla sua fine esiste una sola certezza. Con lui spariva l'unico comandante partigiano in grado di fermare in Liguria un'insurrezione comunista diretta a conquistare il potere. Scommetto mille euro che nessuno dei due verrà ricordato nelle cerimonie previste un po' dovunque. Al loro posto si farà un gran parlare delle cosiddette Repubbliche partigiane. Erano territori conquistati per un tempo breve dai partigiani e presto perduti sotto l' offensiva dei tedeschi. Le più note sono quelle di Montefiorino, dell' Ossola e di Alba.

Nel 1944, Montefiorino, in provincia di Modena, contava novemila abitanti. Con i quattro comuni confinanti si arrivava a trentamila persone. L' area venne abbandonata dai tedeschi e i partigiani delle Garibaldi vi entrarono il 17 giugno. La repubblica durò sino al 31 luglio, appena 45 giorni. Fu un trionfo di bandiere rosse, con decine di scritte murali che inneggiavano a Stalin e all' Unione Sovietica. Vi dominava l'indisciplina più totale. Al vertice c' era il Commissariato politico, composto soltanto da comunisti. Il caos ebbe anche un lato oscuro: le carceri per i fascisti, le torture, le esecuzioni di militari repubblicani e di civili. Ma nessuno si preoccupava di difendere la repubblica. Infatti i tedeschi la riconquistarono con facilità. La repubblica dell'Ossola nacque e morì nel giro di 33 giorni, fra il settembre e l'ottobre del 1944. Era una zona bianca, presidiata da partigiani autonomi o cattolici. E incontrò subito l' ostilità delle formazioni rosse. Cino Moscatelli, il più famoso dei comandanti comunisti, scrisse beffardo: «A Domodossola c' è un sacco di brava gente appena arrivata dalla Svizzera che ora vuole creare per forza un governino pur di essere loro stessi dei ministrini». La repubblica di Alba venne descritta così dal grande Beppe Fenoglio, partigiano autonomo: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre 1944». Durata dell'esperimento: 23 giorni, conclusi da una fuga generale. Sentiamo ancora Fenoglio: «Fu la più selvaggia parata della storia moderna: soltanto di divise ce n'era per cento carnevali. Fece impressione quel partigiano semplice che passò rivestito dell'uniforme di gala di colonnello d'artiglieria, con intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri...». In realtà la guerra civile fu di sangue e di fuoco. Con migliaia di morti da una parte e dall'altra. Dopo il 25 aprile ebbe inizio un'altra epoca altrettanto feroce. L'ho descritta nel libro che mi rende più orgoglioso fra i tanti che ho pubblicato: Il sangue dei vinti. Stampato da un editore senza paura: la Sperling e Kupfer di Tiziano Barbieri. Un buon lavoro professionale. Dal 2003 a oggi, nessuna smentita, nessuna querela, ventimila lettere di consenso, una diffusione record. Ma le tante sinistre andarono in tilt. E diedero fuori di matto. Più lettori conquistavo, più venivo linciato sulla carta stampata, alla radio, in tivù. Mi piace ricordare l' accusa più ridicola: l' aver scritto quel libro per compiacere Silvio Berlusconi e ottenere dal Cavaliere la direzione del Corriere della Sera. Potrei mettere insieme un altro libro per raccontare quello che mi successe. Qui preferisco ricordare i più accaniti tra i miei detrattori: Giorgio Bocca, Sandro Curzi, Angelo d'Orsi, Sergio Luzzatto, Giovanni De Luna, Furio Colombo, qualche firma dell'Unità, varie eccellenze dell' Anpi, del Pci e di Rifondazione comunista. Tutti erano mossi dalle ragioni più diverse. Se ci ripenso sorrido. La meno grottesca riguarda l' ambiente legato al vecchio Pci. Dopo la caduta del Muro di Berlino e la svolta di Achille Occhetto nel 1989, gli restava poco da mordere. Si sono aggrappati alla Resistenza. E hanno inventato uno slogan. Dice: la Resistenza è stata comunista, dunque chi offende il Pci offende la Resistenza. Oppure: chi offende la Resistenza offende il Pci e gli eredi delle Botteghe oscure. Ecco un'altra delle menzogne spacciate ogni 25 aprile. Insieme alla bugia delle bugie, quella che dice: le grandi città dell' Italia del nord insorsero contro i tedeschi e li sconfissero anche nell' ultima battaglia. Non è vero. La Wehrmacht se ne andò da sola, tentando di arrivare in Germania. In casa nostra non ci fu nessuna Varsavia, la capitale polacca che si ribellò a Hitler tra l'agosto e il settembre 1944. E divenne un cumulo di macerie. In Italia le uniche macerie furono quelle causate dai bombardamenti degli aerei alleati. Che cosa resta di tutto questo?

Di certo il rispetto per i caduti su entrambe le parti. Ma anche qualcos'altro. Quando viaggio in auto per l' Italia, rimango sempre stupito dalla solitaria immensità del paesaggio. Anche nel 2015 presenta grandi spazi vuoti, territori intatti, mai violati dal cemento. È allora che ripenso ai pochi partigiani veri e ai figli dell' Aquila fascista. E mi domando se avrei avuto il loro stesso coraggio se fossi stato un giovane di vent'anni e non un bambino. Si gettavano alle spalle tutto, la famiglia, gli studi, l'amore di una ragazza, per entrare in un mondo alieno, feroce e sconosciuto. Erano formiche senza paura e pronte a morire. L'Italia di oggi merita ancora quei figli, rossi, neri, bianchi? Ritengo di no. Giampaolo Pansa".

Pansa: «La Boldrini dovrebbe andare al doposcuola. Non conosce la storia», scrive Aldo Di Lello su “Il Secolo D’Italia”. «La Boldrini? Dovrebbe andare a ripetizione di storia». Non fa sconti, Giampaolo Pansa, alla terza carica dello Stato dopo Bella ciao cantata nell’Aula della Camera e dopo gli interventi sul  25 aprile che hanno riproposto i temi della vecchia vulgata resistenziale della Prima repubblica. In questi giorni di retorica d’annata, l’autore de Il sangue dei vinti è intervenuto su Libero (23 aprile) per ricordare alcune verità scomode sulla Resistenza.

Allora Pansa, non ritieni che il clima di questo settantesimo anniversario del 25 aprile sia caratterizzato da un sorta di passo indietro rispetto alle aperture e alle ammissioni di qualche anno fa? Penso a Mattarella, che non vuol sentir parlare di “ragioni” dei “ragazzi di Salò”, a differenza di quanto a suo tempo affermò Luciano Violante e di quanto, più recentemente, ha ammesso Napolitano. Penso soprattutto alla Boldrini, che giorni fa, in televisione, è arrivata a negare l’esistenza di una guerra civile. Per la presidente della Camera bisognerebbe solo parlare di «lotta di liberazione». Un vero e proprio ritorno al passato. Non ti pare? 

«Non voglio polemizzate con Mattarella: è una persona che stimo. È il Capo dello Stato e mi rappresenta. Della Boldrini penso invece che dovrebbe essere mandata al doposcuola, perché dimostra di non conoscere la storia italiana. Non può parlare in quel modo. L’estrema semplificazione della sua non conoscenza c’è stata quando ha fatto intonare Bella ciao alla Camera:  non è mai stata una canzone partigiana. I partigiani cantavano Fischia il vento. Ha fatto uno spettacolo da teatrino dell’oratorio rosso».

Che differenza noti tra il tempo in cui uscì Il sangue dei vinti e oggi?

«Il sangue dei vinti uscì nel 2003 ed ebbe subito un successo pazzesco. Dopo pochi mesi aveva già venduto duecentomila copie. E l’interesse è continuato  negli anni successivi, fino alla vendita di un milione di volumi.  Fui bersagliato in tutti i modi. Me ne dissero di tutti i colori. E si trattava spesso di accuse ridicole e grottesche. Ci fu anche chi, ad esempio,  disse che volevo fare un regalo a Berlusconi per farmi nominare direttore del Corriere della Sera. Non c’è dubbio che era un’Italia faziosa.  Oggi abbiamo una faziosità nascosta, che non si esprime. Siamo alle prese con una crisi economica che, nonostante quello che dice Renzi, non è affatto risolta. E poi c’è l’enorme dramma delle migrazioni e degli sbarchi. L’Italia è come un malato che non si è ancora alzato dal letto per la paura di muoversi. Rispetto ad allora, l’Italia è più addormentata. Ed è su questa Italia che si è abbattuto lo tsunami di retorica per il settantesimo anniversario del 25 aprile».

Non ritieni che, in questa Italia addormentata, il conformismo attecchisca più facilmente?

«Ti rispondo con un esempio tratto dai miei ricordi d’infanzia. A quel tempo, avrò avuto otto o nove anni, i miei genitori mi facevano preparare il “prete”. Sai che cos’è?»

Ecco perché il 25 aprile non è la festa di tutti, scrive Luigi Benedetti il 25 aprile 2015. Tanto tempo fa, quando andavo a scuola, mai avrei potuto immaginare anni, questi, in cui la consapevolezza mi avrebbe portato a rivedere con difficoltà tutto quello su cui ero stato formato; volente o nolente. Ricordo i libri dettagliatamente esaustivi sulle vicende storiche che riguardavano la seconda guerra mondiale e non vi nascondo che, avendo da sempre avuto un otto in storia, ero convinto di conoscere e di sapere ciò che c’era da conoscere e da sapere. Questa mia convinzione di allora è probabilmente la convinzione rimasta in molti, oggi, che non hanno, come me, intrapreso un lavoro di passione fatto di ricerche, letture e studi personali durati anni. I più, infatti, restano convinti di conoscere la storia del ‘900 grazie all’istruzione scolastica, sempre difesa per politically correct ma davvero indifendibile avendo un minimo di cognizione di causa. Anche se già qualcosa non tornava quando mi accorsi che il mio libro di testo esaltava i risultati dei piani quinquennali di Stalin, la mia vita cambiò totalmente quando, appena diplomato, lessi l’opera che svelò al mondo la tragedia marxista leninista: Arcipelago Gulag. Immaginatevi di dormire. Siete nel pieno di un sonno riposante e sereno e, improvvisamente, vi viene sbattuta una padella in faccia. Ecco, per metafora, quello che provai quando lessi l’opera di Aleksandr Solzenicyn. Compresi chiaramente di non sapere assolutamente nulla della storia del 900. Anzi, compresi che tutti non sapevano completamente nulla; a parte le nozioni su Nazismo e Fascismo che rappresentano una parte piccolissima della storia del secolo del male; una parte che annichilisce dinanzi alla furia e alla durata dei regimi comunisti. Ed anche questi, mi accorsi nelle varie letture, non erano poi insegnati per ciò che accadde, con la sola eccezione dei Paesi anglosassoni. Mi piacerebbe dire molte cose. Parlare di come, contrariamente a quanto fattoci credere, i nazisti e i comunisti erano alleati. Fino all’operazione Barbarossa, infatti, così era e quando, capitolata Parigi, Hitler decise di attaccare l’est, Stalin venne preso alla sprovvista. A Mosca il Bolscioj dava soltanto Wagner ed erano proibiti i film antifascisti. Nella Polonia occupata, sul ponte di Brest Litovsk, la NKVD comunista (prima che si chiamasse KGB) consegnava alla Gestapo nazional socialista gli ebrei tedeschi fuggiti in Urss. Come poter chiudere gli occhi davanti al fatto che, quando cadde La Francia, mentre le truppe di Hitler entravano a Parigi sfilando sotto l’arco di Trionfo, gli amici del Partito Comunista Francese, su L’Humanité (l’Unità francese), titolavano a tutta pagina: “Bravi camerati! La borghesia mondiale sa finalmente di che pasta è fatto il proletariato tedesco!”. Si, i comunisti francesi inneggiavano, sul proprio giornale, agli amici nazisti che invadevano la Francia. Pagine della storia che, ad esser studiate, produrrebbero autocoscienza; pagine strappate, quindi, che nessuno vi farà mai studiare. La problematica dello studio consono e giusto della storia del comunismo e in generale del 900, a causa del fatto che questo partecipò alla vittoria e gli venne consentito di scrivere i libri di storia, riguarda tutti i Paesi. Lo dimostrano gli attacchi violenti subiti da Alain Bensacon per essersi permesso di dire che nessuno studia lo sterminio Ucraino o la kolyma. Le motivazioni dell’oblio a cui la storia del comunismo è stata destinata sono tante e difficilmente analizzabili. Certo, però, non esiste un Paese come il nostro da questo punto di vista. Un Paese passato da una dittatura, quella fascista, ad una egemonia culturale dittatoriale, quella comunista, senza passare da una rivoluzione liberale. Una egemonia culturale nelle mani del partito comunista più forte dell’occidente che ha fatto del possedimento dell’istruzione pubblica e dell’arte in genere il proprio punto di riferimento. E i risultati si vedono. I risultati sono quelli sperati e cioè convincere noi tutti, non importa se di destra o di sinistra, di una grande grandissima bugia; e cioè che il comunismo è stato il più grande e valoroso strumento antinazista ed antifascista. Un falso storico ben raccontato da Francois Furet. Questo valore, assolutamente falso, è il motivo grazie al quale si è sempre giustificato ogni scempio. E’ il motivo per il quale si è consegnata alla gente da istruire una consapevolezza basata sulla menzogna. La storia Italiana e in particolar modo la storia della resistenza italiana sono il simbolo di quanto detto fino ad ora. Tra le pagine del nostro passato, ad esempio, è quella dei partigiani italiani che certamente gode di più retorica e intoccabilità, e falsità, pena il pubblico disprezzo e la pubblica derisione. I partigiani sono sacri…La realtà, ciò che avvenne nel ’45, è ben diversa e in questi anni è stata ben rivisitata e analizzata da un bravissimo giornalista che, proprio in quanto antifascista come provenienza culturale, ha fatto questa battaglia di verità a testa alta. Avrete certamente sentito parlare di lui. Giampaolo Pansa ha dovuto combattere contro quelli che chiama i “gendarmi della memoria”. I violenti compagni a guardia della “vulgata resistenziale”.  E’ stato aggredito, minacciato di morte, umiliato, vessato, licenziato dal quotidiano Repubblica dopo 25 anni. Perché egli intraprese questo percorso? Lui, come avvenne per Solzenicyn tanti anni prima, si è trovato quasi per caso ad essere il punto di riferimento di tanti nostri concittadini che, figli di persone assassinate dai partigiani, avevano subito torti atroci ma non avevano mai potuto raccontare la loro storia essendo “prigionieri del silenzio”. Le tante lettere ricevute lo convinsero che era dannatamente vero che l’Italia repubblicana, infondo, era stata fondata su quella che lui chiamò “La Grande Bugia” e cioè l’insieme di convinzioni storiche inesatte riportate sui testi scolastici. Riporto testualmente dall’introduzione del suo libro che prende proprio questo nome: “Come nasce una grande bugia? Nasce da un insieme di reticenze, di omissioni, di piccole menzogne ripetute mille volte, di distorsioni della verità. Tutte giustificate dal pregiudizio autoritario che la storia di una guerra la possono raccontare solo i vincitori. Anzi, uno solo dei vincitori. Mentre i vinti devono continuare a tacere.” E’ bene dire che una delle grandi verità è che gli italiani erano Fascisti e, fino al ’38, entusiasti. Se si riesce ad avere giudizi sereni e distaccati il motivo di ciò appare evidente; evito di argomentare a fondo ma basta dire che mentre nel “paradiso socialista” c’erano i campi di concentramento, in Italia c’erano l’INPS e le colonie estive per i bambini. Ciò non toglie che il Fascismo sconfinò in una dittatura che, se al confronto del comunismo e del nazismo è da considerarsi una meraviglia, perseguitò gli oppositori; erano gli strumenti del tempo. Giorgio Napolitano era il Presidente delGruppo Universitario Fascista. Giorgio Bocca scriveva articoli contro gli ebrei. Come dimenticareDario Fo, che in piena disfatta si arruolò nella Repubblica Sociale e combatté per il suo Duce, fino all’ultimo, nelle brigate di Tradate contro i partigiani. Ma non voglio parlare della ipocrisia vomitevole che esiste in questo Paese bensì della grande e negata verità sulla guerra di liberazione. Liberazione…Il fronte partigiano era composto da tante anime e, mentre la maggior parte volevano dare all’Italia la democrazia, l’anima comunista come quella della Brigata Garibaldi operava in maniera organica all’Unione Sovietica che doveva invadere da est l’Italia ed instaurare il comunismo. Tutti i dirigenti partigiani e del PCI avevano combattuto in Spagna ed erano stati formati a Mosca. Su questo ho anche visionato personalmente le cartine con i piani di invasione del Kgb all’interno dell’archivio Mitrokhin; piani rimasti militarmente attivi fino ai primi anni ’80. Ho già parlato di ciò che avvenne nei territori a confine quando ho scritto delle foibe in febbraio nell’articolo “Il genocidio italiano”; meno l’ho fatto per ciò che prese inizio all’interno del territorio Italiano. Tutti noi siamo stati convinti che gli scontri e le rappresaglie durarono fino alla morte di Mussolini e che a quel punto l’Italia venne liberata. La cosa è totalmente falsa. In realtà, morto Mussolini, iniziò una battaglia di tre anni che per nostra fortuna si concluse con la vittoria della Democrazia Cristiana. E’ molto importante sapere cosa avvenne nelle zone a più influenza comunista e cioè quelle emiliane. Il triangolo compreso tra i paesi di Manzolino, Castelfranco Emilia e Piumazzo passò alla storia come il triangolo della morte per lo spaventoso numero di martoriati e uccisi dai partigiani comunisti. Era in atto una operazione di terrore marxista che vedeva la macelleria non di fascisti, ma di tutti quanti potessero contrastare negli anni seguenti una ascesa rossa; fino a quando non venne dato il contro ordine da Stalin sul progetto di invasione, i partigiani iniziarono un lavoro dicarneficina verso comuni cittadini: il farmacista, il notaio, il medico condotto, il parroco, il maestro, l’avvocato, lo studente universitario, il proprietario terriero, l’imprenditore, l’artigiano. Trucidati: prelevati la sera, portati via e mai più rientrati. Migliaia, spesso dati in pasto ai porci affinché non ci fossero cadaveri da riesumare. Tutto questo, ricordiamolo, con Mussolini già morto. Per questi assassini, spesso già condannati all’ergastolo, Togliatti amministrò una amnistia che liberò uomini che avevano compiuto esecuzioni in massa e sanguinosi atti “rivoluzionari”. Questi furono avviati verso la Cecoslovacchia, dopo il 1948, e lì sono rimasti ad addestrare negli anni Sessanta e Settanta i futuri Brigatisti rossi. Oggi, i “gendarmi della memoria”, ci raccontano che i partigiani combattevano solo contro i fascisti e che ammazzarono i fascisti per donarci la democrazia, per liberarci. Questa è una bugia intoccabile che è arrivata fino ai giorni nostri. Prova ne è il fatto che i componenti della Brigata Osoppo, che erano partigiani non comunisti che facevano anch’essi la resistenza, vennero ammazzati a martellate sul cranio in una imboscata perché non accettavano il progetto di invasione sovietica. La strage di Porzus, appunto, è una delle pagine della nostra storia simbolo della verità nascosta. Se in Italia non fossero state presenti le truppe alleate, il bagno di sangue comunista avrebbe raggiunto proporzioni colossali e avrebbe avuto inizio, come già accaduto ad est, una dittatura sanguinaria che avrebbe cambiato per sempre la nostra vita. Questa è la verità. E a lavorare in favore degli stermini e di questo progetto c’erano i partigiani comunisti. Coloro i quali siamo obbligati a celebrare come i nostri eroi in un Paese dove la menzogna è la pietra fondante e dove ad essere celebrati dovrebbero essere i ragazzi di 17 anni prelevati dalla scuola e morti congelati sul Carso, sul Grappa, in Russia per difendere la Patria Italiana. Giovani italiani dimenticati, mai celebrati. I nostri eroi. Dal punto di vista politico, con i suoi continui errori, la sinistra italiana ha trovato nelle tematiche riguardanti la resistenza la vera e propria prigione culturale dalla quale non è riuscita ad uscire, a tal punto da diventare patetica nell’esercizio di una retorica spinta oltre il normale. Prova ne è che, nella dialettica politica, le parole resistenza e liberazione trovano sempre spazio contro l’avversario politico. Questo nel 2015. Una sinistra sempre a matrice culturale comunista che, nonostante i tentativi di apparente cambiamento coadiuvati da cambi di nome del PCI, non ha portato in porto un processo di maturità politica propedeutica a una pacificazione nazionale. Un isterismo e una reazione violenta si sono sempre registrati, nella sinistra italiana, al tentativo di operare, appunto, verso una strada di pacificazione dove tutti i cittadini si sentano figli di una stessa storia e dove le date, come appunto quella del 25 aprile, siano davvero sentite come patrimonio comune. Sfida impossibile ormai. E’ sotto gli occhi di tutti che questa data non è sentita dalla maggior parte della gente. Perchè questa data non è e non può rappresentare una memoria positiva. E non è e non può rappresentare un momento di festa. Solo bandiere rosse, in piazza, e niente tricolori; ci sarà un motivo? A raccontare la verità sulla liberazione ci sono gli stermini comunisti del nord, ma anche tanto da raccontare al sud, con ad esempio le truppe alleate marocchine, quelle della foto in testa all’articolo, che saccheggiarono con violenza intere regioni, stuprando donne e sodomizzando uomini legati agli alberi. Ne avete mai sentito parlare? E’ la storia mai raccontata del marocchinato alleato. Ma anche se non raccontata è la nostra storia, la vera storia della “liberazione” e appartiene a tutti noi. Siamo stati invasi da eserciti stranieri che hanno vinto la guerra e hanno conquistato il territorio risalendo da sud, facendosi largo con i metodi di ogni conflitto: la violenza. Il sistema sanitario nazionale mise a disposizione le condotte mediche per imbastire una grandissima operazione di aborti. Per le centinaia di migliaia di donne stuprate, incinte dei soldati nemici, dei “liberatori”. Queste cose chi le sa? Questa è la verità, con buona pace di tanti politici che presenziano il teatrino che celebra, ogni anno, la menzogna. Siamo l’unico Paese del mondo che festeggia la sconfitta delle seconda guerra mondiale come un giorno di vittoria, fateci caso: è grottesco. Ma anche se questa data è spacciata per gioiosa, anche se a scuola la verità non ce la fanno studiare, per molti nostri concittadini è e sarà sempre una data di morte e di lutto; non solo per i “figli dell’aquila” ma anche, ad esempio, per i figli di quei tanti partigiani non comunisti assassinati. Una parte importante, maggioritaria, dell’Italia non può riconoscersi nel 25 aprile che è quindi festa solo rossa, di divisione; è roba loro! Perché al contrario di quanto propinatoci e fattoci credere, questa data ricorda la sconfitta, l’invasione delle truppe nemiche, gli stupri e le violenze; ed è l’anniversario del tentativo di instaurare in Italia una dittatura comunista. Che fallì. Ecco perché il 25 aprile non è la festa di tutti.

25 APRILE: LA FALSIFICAZIONE SPUDORATA DELLA STORIA. La Storia non si celebra, si studia, scrive Gianfredo Ruggiero il 25 aprile 2015. Ogni anno, con l’approssimarsi del 25 aprile, si susseguono a ritmo incalzante le rievocazioni della guerra di liberazione. E’ un crescendo di manifestazioni, convegni e interventi per celebrare degnamente il sacrificio dei partigiani e di quanti si immolarono per riportare in Italia libertà e democrazia. Le piazze si tingono di rosso e i ricordi della barbarie nazifascista riaffiorano alla mente. Tutto bene tranne che… Dei crimini fascisti oramai sappiamo tutto o quasi, ma del lato oscuro della resistenza, quello fatto di processi sommari, fucilazioni, fosse comuni e di soldati uccisi sui letti di ospedale o prelevati dalle prigioni e freddati con un colpo alla nuca, di violenze e stupri cosa sappiamo? Poco, molto poco. E delle motivazioni, non sempre nobili, che hanno portato i partigiani a coprirsi il volto e a imbracciare il fucile, cosa ci viene tramandato? Praticamente nulla. Conosciamo tutti la triste vicenda dei 7 fratelli Cervi uccisi dai fascisti (è stato perfino tratto un film), ma quanti conoscono l’altrettanto dolorosa storia dei 7 fratelli Govoni, tra cui una donna incinta, fucilati dai partigiani perché uno di essi vestiva la camicia nera? Si ricordano giustamente le 365 vittime della strage nazista delle Fosse Ardeatine, mentre è stata rimossa dalla storia un’altra orribile strage, quella di Oderzo dove, a guerra finita, 598 tra allievi ufficiali e militi della Guardia Nazionale Repubblicana furono fucilati dai partigiani e gettati nel Piave dopo essersi arresi e aver deposto le armi. Di vicende come queste la storia, quella vera, ne è piena.  Non è mia intenzione fare la macabra contabilità dei morti o stabilire chi maggiormente si macchiò le mani di sangue innocente, ma solo contribuire a sollevare quel velo di omertà che copre le malefatte dei vincitori e questo non per spirito di rivalsa, ma solo per amore di verità, perché solo riconoscendo gli errori del passato possiamo evitare di ripeterli in futuro. Messi con le spalle al muro i sostenitori della mitologia partigiana, dopo aver negato per sessant’anni i crimini della loro parte, ora ammettono, a bassa voce e con evidente imbarazzo, che in effetti qualche errore e qualche eccesso ci fu, però – e qui incomincia la solita stucchevole tiritera – da una parte, quella partigiana, c’era chi combatteva per la libertà, mentre dall’altra parte c’erano i sostenitori della tirannide nazifascista. Quindi secondo loro quegli eccessi sono pienamente giustificati dal nobile fine, esattamente come le Foibe, anch’esse nascoste per sessant’anni e poi presentate come reazione all’oppressione fascista. Se devesse prevalere questa logica qualunque crimine, anche il più efferato, sarebbe giustificato. Dipenderebbe solo dalla potenza di comunicazione e dalla forza di persuasione di chi detiene il potere. Per motivi anagrafici non ho conosciuto il Fascismo e anch’io, come la maggior parte degli italiani, sono cresciuto a pane e resistenza avendo appreso la storia in maniera superficiale dai libri di testo, dai programmi televisivi e attraverso la cinematografia imperniata sui soliti luoghi comuni che vede i cattivi da una parte e i buoni dall’altra. Solo che non mi sono accontentato della verità ufficiale – quella scritta dei vincitori – e ho voluto approfondire le mie conoscenze. Il risultato è stato che man mano colmavo i miei vuoti i dubbi aumentavano. Dubbi che a tutt’oggi nessuno è stato in grado di sciogliermi. Il primo dubbio riguarda la definizione dei partigiani quali “patrioti e combattenti per la libertà”. Il movimento partigiano pur essendo variegato e spesso al suo interno profondamente diviso era militarmente e, soprattutto, politicamente egemonizzato dal Partito Comunista Italiano (Pci), all’epoca diretta emanazione della Russia Sovietica da cui prendeva ordine (e denari) tramite Togliatti, stretto collaboratore di Stalin, che infatti viveva in Russia. Obiettivo dichiarato di questi partigiani era quello di fare dell’Italia, una volta sconfitto il fascismo, uno stato comunista satellite dell’Unione Sovietica. Non si capisce quindi su quale base logica e storica i partigiani si possano definire tout court patrioti e combattenti per la libertà. Se l’Italia è oggi una Repubblica “democratica” (sul concetto di democrazia – altro grande equivoco – torneremo) non è certo per merito dei partigiani, ma in virtù della divisione del mondo in due blocchi contrapposti decretata a Yalta nel ’45, da cui scaturì la nostra collocazione nel campo occidentale e la conseguente dipendenza americana. Il contributo dei partigiani alla sconfitta tedesca fu, infatti, del tutto marginale se lo rapportiamo all’enorme potenziale bellico messo in campo dagli alleati. Le fila partigiane s’ingrossavano man mano che l’esercito tedesco si ritirava sotto l’incalzare degli angloamericani. Gli stessi americani avevano una scarsa considerazione dei partigiani e li tolleravano solo perché facevano per loro il lavoro sporco come assassinare i gerarchi fascisti e fare attentati dinamitardi per suscitare la rappresaglia tedesca che fu quasi sempre spietata e spropositata. Il 25 aprile del ‘45 Mussolini era a Milano e solo dopo la sua partenza per trovare la morte a Dongo il capoluogo lombardo fu “liberato” dai partigiani che si abbandonarono ad una vera e propria orgia di sangue contro i fascisti o presunti tali, compresi i loro familiari. Come testimoniano le lapide al Campo 10 del Cimitero Maggiore di Milano che raccoglie le spoglie dei fascisti (di quelle che si riuscì a recuperare, oltre un migliaio) molti dei quali barbaramente assassinati o fucilati ben oltre il 25 aprile e dopo che ebbero deposto le armi. Lo stesso discorso riguarda la Russia di Stalin la quale contribuì in maniera determinante alla sconfitta della Germania nazista, pagando per questo un pesante tributo di sangue, ma al solo scopo di estendere il suo dominio su tutto l’est europeo e non certo per portare in quelle sciagurate terre democrazia e libertà. Non dimentichiamoci poi che l’Unione Sovietica fu alleata della Germania nazista fino al 1941 con la quale si spartì la Polonia due anni prima. Particolare importante che la storiografia ufficiale nasconde – perché farebbe smontare in un sol colpo la tesi di comodo della “lotta della democrazia contro la tirannide” – riguarda la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra all’indomani dell’invasione tedesca della Polonia: fu dichiarata alla Germania, ma non alla Russia pur avendo anch’essa attaccato, da est, la Polonia alcuni giorni dopo. Perché? Evidentemente la Polonia fu solo un pretesto per muovere guerra alla Germania, mentre Stalin, che dopo la Polonia si apprestava ad invadere la Finlandia e ad annettersi le deboli Repubbliche Baltiche con l’assenso occidentale, era considerato già da allora un prezioso alleato, ben sapendo che questi era uno spietato dittatore, che con le sue “purghe” aveva massacrato, deportato nella gelida Siberia e ridotto alla fame milioni di russi, molti dei quali ebrei, definiti “nemici della rivoluzione” (ma questo, evidentemente, alle democrazie occidentali – America in testa – poco importava). Il secondo dubbio riguarda la definizione di “guerra di liberazione”, quando invece fu una classica e tragica guerra civile. I fascisti non venivano da Marte, era italiani come italiani erano i partigiani. In quei lunghissimi 18 mesi la guerra non risparmiò nessuno, attraversò le famiglie e divise i fratelli. La guerra è una cosa tragica e quella civile lo è ancor di più, in queste circostanze gli uomini tendono a perdere la loro dimensione umana per accostarsi a quella bestiale, per cui o stendiamo un pietoso velo e consideriamo tutti i morti uguali e rispettiamo gli ideali che animarono le loro azioni giusti o sbagliati che possano apparire, oppure la storia la raccontiamo tutta e per intero, senza reticenze e convenienze politiche. Altro grande equivoco riguarda la presunta invasione nazista dell’Italia: tedeschi non invasero l’Italia, c’erano già. Dopo la caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943, il governo Badoglio chiese aiuto dell’alleato tedesco per contrastare gli anglo americani che nel frattempo erano sbarcati in Sicilia. I soldati italiani e tedeschi si ritrovarono, quindi, a combattere spalla a spalla contro l’invasore americano fino all’8 settembre ’43, quando il Re e Badoglio, con estrema disinvoltura e lasciando allo sbando il nostro esercito, passarono armi e bagagli dalla parte del nemico, scatenando l’ira di Hitler. Solo la nascita della Repubblica Sociale Italiana e la ricostituzione di un esercito lealista cui aderirono, secondo uno studio di Silvio Bertoldi e confermati dai libri matricola, in seicentomila (quanti furono i partigiani è invece un mistero), frenò i propositi di Hitler che aveva previsto il totale smantellamento e trasferimento in Germania del nostro apparato industriale, la deportazione nei campi di lavoro e nelle fabbriche tedesche di tutti gli uomini che si fossero rifiutati di arruolarsi nella Wehrmacht e chissà cos’altro. Le motivazione che spinsero tanti giovani ad entrare nel neo costituito Esercito Fascista Repubblicano furono diverse e non sempre nobili (come spesso accade in questi casi): il rischio di fucilazione per i renitenti alla leva, l’intento di molti militari deportati nei campi di concentramento in Germania di tornare in Italia per poi disertare, la paga e la voglia di protagonismo. Vi aderirono anche fior di criminali, ma la stragrande maggioranza di essi lo fece per riscattare l’onore perduto e per sottrarre l’Italia alla vendetta hitleriana. Questi giovani, uomini e donne, potevano, al pari di molti loro coetanei, aspettare in qualche luogo sicuro che la bufera passasse, oppure andare con i partigiani le cui fila s’ingrossavano man mano che i tedeschi si ritiravano e la vittoria alleata si approssimava. Potevano, ma non lo fecero. Preferirono continuare a combattere, in divisa e a volto scoperto, per quel senso dell’onore che oggi, in epoca di consumismo e individualismo, si fatica a comprendere, consapevoli che le sorti del conflitto erano segnate e che difficilmente ne sarebbero usciti indenni. Furono migliaia e migliaia in tutta Italia i soldati fascisti fucilati dopo la loro resa o condannati a morte dopo processi sommari, come ampiamente documentato nei libri di Gianpaolo Pansa, di Giorgio Pisanò e di Lodovico Ellena, (solo per citarne alcuni). Un capitolo a parte lo meritano le ausiliarie, Il primo reparto al mondo di donne combattenti, addestrate senza nessuna differenza con i loro commilitoni maschi. Il loro tributo di sangue fu altissimo, catturate dai partigiani venivano spesso violentate e uccise.A guerra finita molte di loro, rapate a zero, furono costrette a passare su carri bestiame tra ali di folla inferocita, sottoposte a insulti e angherie di ogni genere. Il terzo dubbio riguarda la modalità di lotta dei partigiani. Mentre i fascisti come abbiamo visto combattevano in divisa e a volto scoperto, inquadrati nelle divisioni dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana o nelle varie milizie volontarie i partigiani, invece, pur potendo anch’essi vestire una divisa – essendo armati e finanziati dagli americani – e pur potendo combattere a fianco dell’esercito alleato o nell’esercito  italiano di Badoglio secondo le regole di guerra, preferirono il passamontagna, i soprannomi e la tecnica del mordi e fuggi a base di attentati, sabotaggi e omicidi alle spalle. Tecnica sicuramente meno rischiosa per loro, ma devastante negli effetti. Il fine era infatti quello di scatenare la rappresaglia tedesca e creare i presupposti per quella guerra civile, poi eufemisticamente definita di “liberazione”, le cui ferite ancora oggi stentano a rimarginarsi. Non si capisce infine l’ostinazione dei partigiani con la quale insistono a definirsi militari nonostante una sentenza del Tribunale Supremo Militare abbia negato loro tale status, attribuendolo invece ai combattenti fascisti della Repubblica Sociale Italiana Sono questi i dubbi su cui mi piacerebbe si sviluppasse un sereno dibattito, scevro da pregiudizi ideologici e senza reticenze, finalizzato a capire la storia e non solo a celebrarla come purtroppo avviene da oltre sessant’anni.

La memoria. Il 25 aprile divide meno, ecco perché, scrive il 25 aprile 2016 Marco Gervasoni su "Il Messaggero"

Lo dicono tutti: il 25 aprile è ormai spento, non accende più le “grandi passioni”. Meglio così, verrebbe da dire. L’origine della parola “festa” nella nostra lingua rimanda all’idea di “accogliere”, di “ospitare nel focolare domestico”. Ma il 25 aprile non è mai stata una celebrazione condivisa, ha spesso prodotto gli effetti contrari, ha esaltato una divisione degli italiani in nome di memorie contrapposte. Negli anni Cinquanta i governi non rievocavano quella data, lasciandola ai comunisti, che ne fecero una festa dell’antifascismo, buona per rafforzare la loro identità. In seguito si trasformò in una celebrazione della Resistenza, intesa come incompiuta e da attuare, magari con l’incontro tra i “grandi partiti popolari”, la Dc e il Pci. Solo negli anni Ottanta, con il salutare spegnersi delle guerre ideologiche, il 25 aprile sembrò normalizzarsi, anche se caricandosi di una retorica celebrativa fine a se stessa. Poi crollò la repubblica dei partiti, venne Berlusconi, e il 25 aprile ritrovò vita, ma era una vita apparente, perché la festa diventò uno strumento di lotta politica. Molti ricordano il 25 aprile 1994, quando una parte della sinistra cercò di trasformare la celebrazione in una rivincita contro la vittoria elettorale del Cavaliere.

Chi ha tradito il 25 aprile? "Da qualche tempo, il 25 aprile si festeggia sempre più stancamente, tra l'indifferenza generale, tra bande, cortei, bandiere, labari, gagliardetti, con la scorta di un numero sparuto di superstiti partigiani, ormai ultra90enni, che si guardano di sottecchi, quasi sgomenti ed imbarazzati, chiedendosi dove mai si trovino. Il 25 aprile viene ormai celebrato solo come un rito, senza comprenderne, appieno e a fondo, il significato, secondo una liturgia abitudinaria, da officiare, semel in anno. Sale su un palco qualche politico locale, che, spesso, non sa nemmeno, anche per ragioni anagrafiche, che cosa sia mai la Resistenza, e che si profonde in discorsi retorici di circostanza, vani e vuoti, tra slogans ripetitivi e roboanti. Tante orazioni sono tenute da personaggi invischiati in connivenze mafiose e in sporchi intrallazzi politici; poi, l'oratore ridiscende tra i comuni mortali, la banda attacca “Oh, bella, ciao!”, infine, tutto termina a tarallucci e vino, fino al prossimo 25 aprile. E i vecchi partigiani vengono di nuovo rinchiusi in un cassetto, sotto naftalina, per essere riesumati, l'anno seguente; chi è sopravvissuto, beninteso. Non capisco poi l'abitudine di celebrare il 25 aprile con riti religiosi, con tanto di Messe, in cui il sacerdote, dal pulpito, non sa che diamine dire, e che si accoda poi ai vari cortei, con tanto di croce in testa e seguito di chierichetti: mi pare che sia quasi unire “un s-ciopp cunt un cunfesiunàl”, come diceva mia nonna milanese, Trono ed Altare, sacro e profano, politica e religione. Calamandrei esemplifica così lo spirito eroico e di fratellanza del movimento partigiano: “Tra tutti i morti della Resistenza, vi erano seguaci di tutte le fedi: ognuno aveva il suo Dio, ognuno aveva il suo credo: e parlavano lingue diverse, e avevano pelle di diverso colore: eppure, nella libertà, si sentivano fratelli: e quando si trattò di difendere questi beni, ognuno fu pronto, nonostante la diversità di fede e di nazione, a sacrificarsi per il fratello”. E Ungaretti sottolineò

”Qui

vivono per sempre

gli occhi che furono chiusi alla luce

perché tutti

li avessero aperti

per sempre

alla luce”

Questo è ciò che dobbiamo ricordare e tramandare, aldilà delle sterili cerimonie rievocative. Non è da abolire la commemorazione del 25 aprile, ma la sua stanca ripetizione, tra rituali di circostanza. Il 25 aprile non deve limitarsi alla reiterazione e all'ecolalia di parole come Libertà e Resistenza, senza poi trasformarle in prassi civile quotidiana. Altrimenti, la Resistenza scade nell'ironico, direi quasi irriverente, gioco di parole, di “Partigiano reggiano”, di Zucchero. Evitiamo dunque i discorsi retorici improduttivi e le parate inutili.

Tanti caduti partigiani, se ritornassero in vita, oggi, che cosa mai non direbbero, constatando, con amarezza, che hanno sacrificato la loro vita inutilmente?" Franco Bifani

«Via i libri di Pansa dal banchetto per la Resistenza». Sul banchetto nell’atrio centrale della biblioteca comunale “Bassani”, in questi giorni vi sono tanti libri e saggi storici in mostra, a raccontare, in occasione del 25 aprile, la storia della..., scrive il 23 aprile 2016 “La Nuova Ferrara”. Sul banchetto nell’atrio centrale della biblioteca comunale “Bassani”, in questi giorni vi sono tanti libri e saggi storici in mostra, a raccontare, in occasione del 25 aprile, la storia della Resistenza italiana. Una iniziativa non nuova per la biblioteca Bassani, che per eventi di attualità propone agli utenti il materiale della biblioteca. Però, tra i libri esposti sul banchetto in questi giorni, anche quelli di Giampaolo Pansa che hanno innescato una petizione e che ieri aveva raggiunto un centinaio di adesioni. Una petizione proposta da Irina Aguiari per rimuovere i testi di Pansa dal banchetto allestito: tre titoli, "La Grande Bugia", "La Guerra Sporca dei Partigiani e dei Fascisti" e "Il Sangue dei Vinti". «Testi revisioni e negazionisti» scrive la Aguiari, sottolineando che «la biblioteca giustifica tale scelta con la volontà di garantire molteplici punti di vista». «Credo - la motivazione della petizione - che su una dittatura durata un ventennio e una guerra civile per la libertà d'Italia non esistano punti di vista discordanti». «Soprattutto - continua - non in una città in cui gli antifascisti sono stati fucilati, non in una biblioteca intitolata a Giorgio Bassani, non in occasione della Giornata della Liberazione». Nella petizione si parla di «sfregio alla memoria di tutti coloro che hanno dato la vita per la libertà del nostro Paese (partigiani e civili)». E si conclude «così come nessuno oserebbe (a ragione) porre un testo di Hitler accanto al Diario di Anna Frank, non vedo per quale motivo tale riserbo non venga dedicato anche alla nostra storia». La richiesta di rimuovere i testi- è bene dire - è già stata respinta da Enrico Spinelli, direttore Servizio biblioteche Comune, che spiega: «A mio personale giudizio non ci sono elementi di scandalo poichè Pansa scrive libri, chiunque può analizzarli criticamente e può dire la propria: l’operazione della biblioteca Bassani è corretta, senza faziosità». E commenta: «Le purghe dei libri ricordano anni bui della cultura europea, dico di più: a mio giudizio il 25 aprile, la memoria di Bassani e dei partigiani escono rafforzate dal confronto con quanto scrive Pansa. Quindi ho deciso di respingere la richiesta inoltratami via mail di far rimuovere quei testi dal banchetto».

La sinistra contro Pansa contraddice il senso della Liberazione. "Egregio Direttore, Leggo della triste petizione promossa da Irina Aguiari per rimuovere i libri di Giampaolo Pansa dai banchetti del 25 Aprile, davanti alla biblioteca comunale “Bassani” di Ferrara. Invocare la rimozione di libri richiama tempi bui, nega e contraddice quindi il significato vero del 25 Aprile, ossia la lotta per la Libertà, anche di opinione. Non se ne può più di questo retaggio nostalgico della sinistra, che si è impossessata di una festa di tutti, di una data storica. Ricordo che la Resistenza non l’hanno fatta solo i comunisti, ma tra gli eroi che diedero la vita per liberare il Paese dal nazifascismo ci furono anche liberali, cattolici, liberi pensatori, persone di diversa estrazione e di credi differenti. E’ ora che certa sinistra la finisca di strumentalizzare il 25 Aprile per far propaganda a se stessa. Mio nonno, Gianpietro Fabbri, fu partigiano, non comunista, ma democristiano. Il suo ricordo è il mio orgoglio. Nei circoli Anpi ci si ostina a parlare esclusivamente di "compagni", promuovendo di fatto un falso storico (o, quantomeno, solo mezze verità). E’ ora inoltre che si inizi a parlare di ciò che è accaduto dopo la guerra, e che anche l’Anpi dica la sua a riguardo, per evitare di giustificare ogni tipo di assassinio in nome di un conflitto già finito. Ricordo a questo riguardo episodi come l’eccidio di Argelato: l’esecuzione sommaria, compiuta dai partigiani delle Brigate Garibaldi, di decine di persone, tra cui i sette fratelli Govoni. Esecuzioni precedute da torture e sevizie, a guerra finita. Ricordo anche l’uccisione dei preti e dei seminaristi, vittime della furia ideologica comunista, come il nostro Rolando Maria Rivi, beato della Chiesa cattolica, barbaramente trucidato a 14 anni solo perché indossava l’abito talare. Se Pansa ha tolto dal cono d’ombra argomenti scomodi alla retorica comunista è perché ha a cuore la verità storica. E questo dà valore al 25 Aprile, che è festa di tutti. Non lasceremo che – anche quest’anno – la sinistra si impossessi della festa di Liberazione per la sua bassa propaganda politica. La petizione di Irina Aguiari è la negazione stessa del 25 Aprile. Cordiali saluti". Lettera di Alan Fabbri (Capogruppo Lega Nord in Regione Emilia Romagna) su “Estense”.

Pansa “Il nazismo e il fascismo non sono stati sconfitti dalla Resistenza, ma dagli Alleati”. La voce e l’opinione di Pansa in un intervista di Cesare Martinetti pubblicata su La Stampa il 25 Aprile 2016. «Pansa!». La vociona rimbomba nel telefono al terzo squillo.

Buongiorno Pansa, parliamo della Resistenza?

«Certo, sono anch’io un figlio della Resistenza, me ne occupo e ne scrivo da quasi sessant’anni, ho cominciato con la tesi di laurea che ho discusso nel 1959 a Torino, relatore Guido Quazza, 110, lode e dignità di stampa. Da allora non ho più smesso di occuparmene».

Quanti anni aveva durante la guerra civile?

«Tra gli 8 e i 10, parliamo del ’43-’45. La mia famiglia era genericamente socialista. Se avessi avuto 19 anni con ogni probabilità sarei andato anch’io in montagna».

A combattere il fascismo?

«Sì, ma in Italia nazismo e fascismo non sono stati sconfitti dalla Resistenza. È una verità che non piace a molti, ma è la verità. Sono stati sconfitti dagli Alleati, in particolare dagli angloamericani e non solo. Da migliaia di ragazzi americani, inglesi, canadesi, brasiliani, persino indiani e della Brigata ebraica che sono morti fino all’aprile 1945. Non possiamo dimenticarlo».

E cosa fu la lotta di Liberazione?

«Una guerra civile, un affare di due minoranze. Erano ragazzi di 18-19-20 anni. E si sono trovati in un conflitto bestiale. La retorica resistenziale accredita la ferocia soltanto ai fascisti e certo che erano feroci, ma i partigiani lo sono stati nello stesso modo, hanno compiuto eccidi e torture. È successo in Valsesia – la fonte è uno storico di provata fede antifascista, Cesare Bermani – che due ausiliarie ritenute spie furono uccise facendo esplodere una bomba a mano nella vagina. Ma è solo uno dei tanti episodi».

Perché questa ferocia?

«Dipendeva dal carattere dei comandanti o delle bande, partigiane o fasciste che fossero, ma anche dal tipo di guerra e tra il ’43 e il ’45 ci sono state tante guerre: c’era chi combatteva per liberare il Paese dal fascismo e chi per preparare la rivoluzione comunista. Ci sono stati delitti politici che non verranno di sicuro ricordati tra il 24 e il 25 aprile. C’è stato l’eccidio dei partigiani bianchi a Porzûs, le malefatte della banda Moranino, ci sono stati dei comandanti, veri partigiani, ma non comunisti, eliminati misteriosamente nei giorni della Liberazione».

Pansa, lei dodici anni fa ha pubblicato da Sperling & Kupfer “Il sangue dei vinti”, rovesciando il punto di vista ufficiale e guardando ai fatti dalla parte degli sconfitti, dei fascisti. Perché? Qual era il suo intento??

«Per capire bene le guerre civili non possiamo fermarci nel momento in cui si concludono, uno vince e uno perde. Conoscevo i tentativi di Giorgio Pisanò e i piccoli libri pubblicati da editori sconosciuti. Ma non c’era un racconto organico. Ho fatto un’inchiesta, ho girato mesi, nel Centro ma soprattutto nel Nord Italia, andando a vedere i posti e verificare quello che mi raccontavano. L’unico intento era di fare una cosa che per come la facevo io non l’aveva mai fatta nessuno».

E infatti il suo libro è stato uno scandalo: ma come, Pansa, uno di noi, che si mette dalla parte dei fascisti?

«È successo il finimondo per la reazione dei compagni e dei compagnucci ma anche di altra gente, mi viene in mente Giorgio Bocca, ma è scomparso e non voglio più litigare con lui. La cosa meno cattiva ma più sciocca che mi dissero era che l’avevo scritto per compiacere Berlusconi perché mi facesse nominare direttore del Corriere della Sera. Una cosa ridicola».

Un successo che non le è stato perdonato?

«Il mio caso ha messo allo scoperto un mondo terribile e cioè che una democrazia nata da una guerra civile dovrebbe essere conciliante, riconoscere e non disprezzare il lavoro di uno che viene dalla sua parte, che ha lavorato per tutta la vita in giornali di sentimenti antifascisti, dal Giorno, a La Stampa, al Corriere, a Repubblica per 15 anni, all’Espresso per 17 e che ha attraversato un territorio proibito per raccontare quello che era successo».

Un revisionista?

«Ah quella parola sono stato tra i primi a pronunciarla, il 24 maggio del 1959, in un convegno a Genova, c’era Ferruccio Parri, mi sono alzato e ho attaccato Roberto Battaglia, autore della Storia della Resistenza italiana pubblicata da Einaudi (che Longo aveva corretto, perché troppo intrisa di azionismo), dicendogliene di tutti i colori. L’ex sindaco socialista di Genova ha protestato, ma Parri mi ha lasciato parlare. Poi mi ha chiamato e mi ha detto: hai fatto bene, i giovani devono tirare i sassi nei vetri, i vetri si rompono, vediamo che erano sporchi e andavano cambiati. Poi mi diede 25 mila lire, un assegno rosa del Credito italiano, come una sua personale borsa di studio».

Senta, Pansa, nei suoi libri fascisti e partigiani sembrano stare sullo stesso piano. Perché? Non c’era una parte giusta e una sbagliata?

«Intanto non è vero che metto tutti sullo stesso piano. E poi, che domanda è? La parte giusta era quella della Resistenza. Con una nota a margine. Che il maggior numero delle bande erano delle Garibaldi ed erano comandate da due ossi da mordere, Longo e Secchia, convinti che la guerra di resistenza al fascismo fosse solo il primo tempo. Poi doveva arrivare il secondo… per fortuna grazie a Stalin, a Yalta, a De Gasperi il secondo tempo, dalla dittatura nera a quella rossa, non arrivò mai».

S’è mai pentito di aver scritto quel libro?

«Mai, ne sono orgogliosissimo, ha rotto un tabù, ma mi fa ridere chi dice che si sapeva tutto. Mi fa paura la retorica che esploderà in questi giorni… guai se non si celebrasse il settantesimo, ma chissà cosa dirà Renzi che non sa niente. Vorrei scappare dall’Italia, fare il turista in Australia…».

E invece cosa farà il 25 aprile?

«Come ogni giorno mi alzerò alle 6 e dopo una piccola colazione accenderò il computer e mi metterò a scrivere. È la mia vita, lo farei anche gratis. E poi, come diceva Totò, bisogna insistere: e io insistisco».

25 aprile: basta con l’idea di elevare a Nazione una festa di partito, scrive Emanuele Ricucci il 25 aprile 2016. L’idea di elevare a Nazione una festa di partito. L’Italia è figlia di pochi pregi e tanti errori, è impossibile chiamare democrazia ciò che scrivono solo i vincitori. Fiano e Boldrini: ecco la nuova Resistenza? Nella parolina magica, antifascismo, ormai, c’è un mondo. Un po’ come dire oggi democristiano. Antifascismo è un credo, una mezzo e una missione. Un accessorio vintage, una scusa per tutto e un’offerta promozionale: passa ad antifascismo ed avrai elevazione sociale, culturale, 4 gb al mese, 400 sms e 400 minuti di chiamate. Del fascista – sempre da intendersi come prolungamento naturale di antifascismo, quindi con assoluto disprezzo – oggi ci si da tutti, random. Un modo gretto ed assolutamente superficiale per indicare il male, momentaneo e di qualsiasi forma. Per decentrosocializzare e rendere alla portata di tutti un evento che con il presente non ha più nulla a che fare. Chi sono i nuovo paladini della Resistenza, in una società perennemente a base di antifascismo? I centri sociali, Emanuele Fiano, l’uomo che vuole rendere illegale l’anellino con la croce celtica e maledire a vita il suo portatore o Laura Boldrini, la distruttrice di obelischi, l’apriporte alla Camera dei nonnetti con il fazzolettino al collo e la gita pagata – quelli che almeno mezzo mitra in mano l’hanno tenuto? – In una società liquida in cui il polo d’attrazione è il centro e tutto il resto è anacronismo, l’ideologia è anacronismo e rinnegamento, in cui va configurandosi l’antipolitica populista, canonicamente intesa, nello schieramento del poveraccio popolano costretto sempre alla sofferenza contro il politico di professione, chi è il vero Resistente, qual è la vera Resistenza? Allora stanca da morire la brutalità e l’ipocrisia con cui la retorica militante impone di leggere ancora oggi, nel 2016 disastrato da crisi umane ed economiche continue, nel 2016 della decadenza occidentale, disumanizzante, in cui la Tecnica oltrepassa qualsiasi flusso di coscienza e lobotomizza le masse, il “benedetto” valore della Resistenza. Forse utile a tenere aperti i circoli di quella creatura mitologica definita Associazione Nazionale Partigiani d’Italia? Forse per acchiappare audience in momenti di estrema difficoltà. I crimini fascisti, tutti segnati nel grande libro. Negata la storia. Allora pare che questa disgraziata Italia parta per il lungo viaggio verso la sua maturità solo da dopo la Resistenza. Né il Rinascimento, né il Risorgimento, né il fascismo, ovviamente, né la Grande Guerra, troppo patriottica per essere il riferimento di slancio dell’italica modernità, per essere la protagonista dell’Italia che cresce. Incuranti di alcuni dettagli che giammai potrebbero essere insegnati nelle scuole di ogni ordine e grado. Dal concetto di guerra civile, che mise fratelli contro altri fratelli, che mai si può definire tale, da intendersi invece come Resistenza, come mito della Resistenza, come necessità di Resistenza, come gesta della Resistenza e non come tale, protrattasi anche dopo la cessazione del secondo conflitto. Dal Pci armato che subito dopo la guerra tentava di imporsi, fucili alla mano, per eliminare gli avversari della futura democrazia subito – “Nemici da uccidere sono anche i partigiani bianchi, i militari anticomunisti che hanno combattuto insieme agli Alleati, gli antifascisti liberali, i possidenti, i sacerdoti, i politici moderati, i socialisti riformisti”, quindi non solo fascisti in fuga nelle campagne, scrive Giampaolo Pansa nel suo “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli, 2010) -, approfittando del conflitto ancora caldo, alle parole di Pietro Secchia – una della teste più importanti della Resistenza italiana -, scritte negli anni ‘70, capaci di far intuire un certo scopo: “Particolarmente importante, come indice del nostro orientamento, mi sembra il fatto che già nel settembre 1943 noi sottolineassimo che il nostro obiettivo era la lotta per una democrazia popolare. In seguito si parlerà di democrazia progressiva. Ma sin dall’inizio il nostro obiettivo era chiaro ed esplicito: noi comunisti non ci battevamo per ritornare alla democrazia prefascista” o a quelle del generale Raffaele Cadorna, inviate nel 1945 all’allora Ministro della Guerra, Alessandro Casati: “Il PCI, che conduce il gioco, non nasconde affatto che il suo scopo è di prendere il potere. Per instaurare un regime russo che chiama popolare progressivo. I suoi capi nell’Italia del Nord sono stati addestrati in Unione Sovietica. E sono passati attraverso la trafila delle Brigate internazionali in Spagna e del comunismo in Francia. Dichiarano apertamente di volersi appoggiare all’Urss e a Tito. E recalcitrano al pensiero di doversi sottomettere agli ordini degli alleati occidentali”. Degli omicidi metaconflitto, degli stupri di ragazzine, umiliate e poi uccise – come nel caso di Giuseppina Ghersi -, del “triangolo della morte”, finanche delle crocifissioni – Il ‘triangolo della morte’, una specifica zona del Nord Italia in cui trovarono la fine numerose persone per mano partigiana, di cui non tutte furono legate direttamente al fascismo. Dall’uccisione di Rolando Rivi, poi Beato della Chiesa Cattolica, giovane seminarista di 14 anni, ai sette fratelli Govoni, di cui soltanto due aderirono de facto alla Rsi, facenti parte del secondo ‘Eccidio di Argelato’, compiuto nel maggio del 1945; in entrambi gli accadimenti, persero la vita più di 30 persone. La strage della ‘cartiera Burgo’ a Mignagola, in cui vennero rinvenuti nei pressi della stessa cartiera più di 80 cadaveri occultati da componenti delle brigate ‘Garibaldi’. Oltre ai civili massacrati, vi era Luigi Lorenzi, sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana. Testimoni oculari affermarono che, ancora vivo, fu inchiodato ad una specie di croce formata da due legni e che poco prima di morire disse: “La croce che Gesù Cristo ha portato non può far paura a un cristiano” -, di queste azioni condotte da frange della Resistenza, da componenti della Resistenza e delle varie Brigate appartenenti alla grande famiglia del CLN o del CLNAI, poi riconosciuti con onore unici eroi, unici degni figli dalla futura Repubblica Italiana, non si può e non si deve parlare. Disturberebbe quantomeno la retorica della Resistenza che, invece, deve secondo qualcuno perpetuarsi nei secoli a venire. Tutta fantascienza di cattivo gusto. Solo alcuni esempi. Tranquilli, un parto della fantasia. “Il 25 aprile non è mai stata una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse, che rappresentano legittimamente una parte degli italiani, ma solo una parte, non sono l’Italia. È una festa nata contro “gli italiani del giorno prima”, ovvero non considerava che gli italiani fino ad allora non erano stati certo antifascisti. Non è un festa di tutti gli italiani, perché non rende onore al nemico, anzi nega dignità e memoria a tutti costoro, anche a chi ha dato la vita per la patria, solo per la patria, pur sapendo che si trattava di una guerra perduta. Oggi c’è una rinnovata enfasi corale per un evento che più si allontana nel tempo, più è lontano dalla sensibilità della gente e più viene imposto mediaticamente. Per cui mi sono convinto che sia necessario ridiscutere il valore di questa festa così come viene concepita”, scrive Marcello Veneziani. Impossibile la riappacificazione nazionale, unico gesto utile a rendere memoria a chi ha ceduto la vita combattendo per un’idea, verso cui dignitosamente va riconosciuta memoria, questo sì. Unico gesto utile a garantire una reale coscienza nazionale, un reale impulso democratico. Per evitare di celebrare la “festa” di una guerra civile – come l’hanno definita Giorgio Pisanò e Claudio Pavone –, per tendere davvero a valori nazionali condivisi.

Per il 25 aprile scoppia la faida tra i partigiani. La Scala concede uno spazio all'Anpi. Un reduce: non rappresenta tutti, scrive Luigi Mascheroni, Lunedì 25/04/2016, su "Il Giornale. La guerra civile, ora, è interna al mondo partigiano. Può sembrare un piccolo episodio ma, a un giorno dalle celebrazioni del 25 aprile, mette a nudo una vecchia contrapposizione - partigiani comunisti che hanno egemonizzato la Liberazione, e partigiani non comunisti sempre rimasti ai margini - che si trascina tra infastiditi silenzi e malumori da 70 anni, e ogni tanto alza la testa. Come ha fatto ieri un «affezionato scaligero» milanese, Carlo Guidi, il quale ha firmato una lettera aperta al sovrintendente del Teatro alla Scala, Alexander Pereira, per esprimere il suo dissenso (e sembra di capire di molti altri frequentatori del Piermarini) da un clamoroso gesto. Ritenuto offensivo. Quale? Avere concesso all'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani, l'autorizzazione ad aprire all'interno del teatro una sezione «che si prefigge di promuovere e tutelare i valori della Costituzione». Di per sé, obiettivo nobilissimo. Ma - si chiede il firmatario della lettera, «nipote di partigiano e ugualmente nipote di un combattente della Repubblica sociale» - perché non limitarsi a un richiamo alla Resistenza da parte del Teatro alla Scala (dedicare per esempio una sala a un grande partigiano o promuovere un concerto per l'anniversario della Liberazione) e invece arrivare a coinvolgere l'istituzione scaligera in un sodalizio con un'associazione «che non rappresenta affatto tutti i partigiani d'Italia, ma solo una parte?». «Da sempre l'Anpi è stata la succursale partitica del mito della Resistenza, ovvero quanto di più lontano dalla Liberazione: l'ha trasformata in un valore di partito e non di tutti gli italiani». «Trovo assai grave - è la conclusione della lettera, in cui chi firma promette di non assistere più ad alcuna rappresentazione nel periodo della direzione di Pereira - che un'associazione come l'Anpi, ancora purtroppo non del tutto scevra da logiche di partito e di contrapposizione ideologica, abbia messo un piede nel tempio sacro della musica milanese, dove la politica e lo spirito fazioso dovrebbero essere banditi». Augurandosi di non ritrovarsi «pugni chiusi e bandiere rosse dentro il Palco reale». La Scala, insomma, è la casa di tutti i milanesi, non la sede di un partito. E, se non bastasse, a rovinare la festa del 25 aprile, ecco scoppiare la polemica di giornata, rilanciata ieri dal Corriere del veneto. Il quotidiano ha raccontato di come giorni fa Deris Turri, del direttivo Anpi di Rovigo, sia finito nell'occhio del ciclone con accuse di simpatie per le Brigate rosse (alle quali - detto per inciso - i vecchi partigiani consegnarono molte armi e più di un'idea). E cos'ha fatto, il dirigente Anpi? Ha condiviso sulla sua pagina Facebook la frase «La rivoluzione è un fiore che non muore» accanto al volto di Prospero Gallinari, il brigatista rosso (morto nel 2013) condannato all'ergastolo per una serie di attentati, tra cui il rapimento di Aldo Moro: in totale fu esecutore diretto, con altri brigatisti, di otto omicidi. Titolo del post condiviso dall'esponente dell'Anpi? «Ciao Prospero». Conseguenze: polemiche violente in Rete, richieste di scuse, tentativi di giustificazione («La mia unica colpa è essere da sempre un vero Antifascista») e, infine - probabilmente su pressione dell'Anpi stessa - dimissioni dall'incarico. Buon 25 aprile. A tutti.

L’ITALIA DELLE MENZOGNE.

Menzogna e Autoinganno, scrive Igor Vitale il 7 aprile 2015. Nella pratica della menzogna, il mentire a se stessi appare certamente come quella più singolare, tanto che il dibattito sul perché questo accada ha appassionato, e appassiona tuttora, psicoanalisti e psicologi sperimentali, i quali hanno cercato di spiegare questo fenomeno da diversi punti di vista. “L’autoinganno è in primo luogo uno stato nel quale si determina una divergenza tra ciò che il soggetto che mente sa, sia pure a livello inconsapevole, e ciò che egli riconosce” Ciò che crea più sconcerto di tale meccanismo è che “impone di accettare il fatto che una persona creda allo stesso tempo ad una proposizione e alla proposizione che la nega” (De Cataldo Neuberger, Gulotta). Secondo la definizione di menzogna data da Anolli e riportata al paragrafo 1.1, infatti, per mentire a se stessi si va incontro ad un doppio paradosso:

a) “il paradosso statico, poiché un soggetto inganna se stesso soltanto se egli crede e accetta sia p (falso) sia non-p (vero);

b) il paradosso dinamico, poiché il soggetto che si autoinganna ha l’intenzione di inventare una falsa credenza per se stesso che conosce il vero”.

Più semplicemente, il soggetto è contemporaneamente ingannatore e ingannato. Il modello della teoria della scelta razionale risolve questi paradossi partendo dall’assunto che gli individui sono spinti ad abbracciare la scelta che assicura loro il grado più elevato di utilità attesa. L’autoinganno, pertanto, deriva da una debolezza del controllo cognitivo in quanto chi lo pratica non prende in considerazioni le motivazioni più valide, ma quelle maggiormente funzionali a raggiungere i propri scopi e desideri. Anche secondo Freud “l’io inganna se stesso quando fa prevalere il principio di piacere sul principio di realtà”. Ciò che ne consegue è che l’individuo preferisce evitare, consapevolmente o meno, una condizione spiacevole e sceglie pertanto l’informazione menzognera p piuttosto che accettare l’informazione vera non-p. Per fare questo, però, la persona deve ricorrere ad una distorsione del processo di elaborazione delle informazioni e trasformare le proprie credenze e opinioni. Secondo Nardone, il processo di distorsione inizia, ancora prima che nella nostra mente, nelle nostre percezioni in quanto i sensi deformano la realtà già nel momento in cui la percepiamo. Non solo: le percezioni vengono a loro volta influenzate in modo rilevante dagli stati d’animo in cui versiamo nel momento in cui le avvertiamo, ma, al contempo, le reazioni emotive sono innescate dalle percezioni stesse. Ecco allora che il nostro organismo fa sì che le nostre reazioni emotive siano veicolate da qualcosa che non corrisponde al vero, ma che è l’effetto dell’influenza reciproca tra ciò che viene sentito e colui che sente con le proprie caratteristiche funzionali. Pertanto mentire a sé stessi è il risultato di percezioni ambigue e ingannevoli o di emozioni contrastate e imprecise.

Mentire a se stessi con la memoria. Per quanto riguarda l’ambito cognitivo, il primo aspetto del mentire a se stessi riguarda la memoria, che, soprattutto quando si tratta di ricostruire il nostro vissuto e le nostre esperienze, il più delle volte risulta falsata o artefatta a causa dello stato emotivo del soggetto, delle sue credenze e delle sue dinamiche relazionali. Alcuni studi hanno rintracciato tre particolari “propensioni” o bias nella ricostruzione e revisione della nostra storia personale, tutti e tre riconducibili ad una funzione dell’Io intesa come organizzazione della conoscenza al servizio della percezione e del ricordo. Si tratta di:

1. egocentrismo, ovvero assegnarsi una funzione più rilevante rispetto a un evento passato di quanto sia stato realmente. L’autoreferenzialità della nostra memoria è un esempio del bias di egocentrismo: tutti noi tendiamo a ricordare gli eventi ponendoci in una posizione centrale;

2. beneffectance, cioè il percepirsi come responsabili dei risultati desiderabili, ma non di quelli indesiderabili. Studi condotti sulla beneffectance hanno dimostrato come, nello svolgere lavori di gruppo, le persone tendano a credere di aver contribuito in maniera determinante in caso di successo del gruppo, mentre sono portati a sminuire il proprio ruolo in caso di insuccesso. “Una spiegazione […] a questo fenomeno sembra essere che il considerarsi responsabile dei successi e non degli insuccessi sia un meccanismo adattivo che serve a mantenere o migliorare la propria autostima”.

3. conservatorismo, vale a dire la resistenza ai cambiamenti cognitivi come, ad esempio, non cambiare una situazione perché riteniamo erroneamente che le modifiche proposte possano danneggiarci. Il conservatorismo cognitivo serve a preservare strutture di conoscenza preesistenti quali schemi mentali e ricordi. Sono legati al conservatorismo due sottotipi di bias molto importanti: il confirmation bias, o “bias di conferma”, e il rewriting of memory, o “riscrittura del ricordo”.

Con il primo le persone mettono in atto una selezione dei dati che confermano dei giudizi preesistenti nella loro mente. Significa che le persone tendono a cercare indizi che confortano le loro credenze in maniera selettiva, arrivando spesso ad ignorare informazioni anche molto rilevanti. Per “riscrittura del ricordo” si intende quel fenomeno per il quale le persone tendono a riscrivere o a creare dal nulla i proprio ricordi qualora gli vengano passate delle informazioni di cui prima non erano a conoscenza. Dato che percezioni, emozioni e cognizioni sono il frutto di un autoinganno, non possono essere da meno le nostre azioni, le quali, il più delle volte, si basano su dei meccanismi, sempre di autoinganno, il cui ruolo è quello di mantenere il nostro equilibrio fisiologico, psicologico e relazionale. “Freud ci conferma che l’uomo ricorre all’autoinganno per nascondere a se stesso verità e realtà che non avrebbe altrimenti la forza di affrontare. L’autoinganno è, più precisamente, per Freud un meccanismo difensivo mediante il quale l’io si protegge da pulsioni che non è in grado di tenere sotto controllo. Ogni soggetto umano, secondo Freud, utilizza, senza rendersene conto, una serie di meccanismi di difesa […] che mettono l’io al riparo da verità inquietanti, spiacevoli o socialmente disdicevoli, ma il cui prezzo è la falsificazione dell’immagine si sé. I meccanismi difensivi dell’io attenuano per Freud la fatica quotidiana del vivere, contribuendo a sfuggire a sensazioni spiacevoli e ad esperienze di dolore”.

Mentire a se stessi con il comportamento. Gli autoinganni comportamentali spesso sono delle sequenze di comportamenti avviati dal nostro mentire a noi stessi che procedono secondo una logica rigorosa per perseguire un risultato finale. Le forme di autoinganno sono per lo più benefiche, ma se messe in atto in maniera esasperata diventano negative e controproducenti. In altre parole, ciò che prima era funzionale ad uno scopo produce effetti contrari a quelli desiderati. Anche Freud conferma questa tendenza asserendo che “a volte i meccanismi di difesa sono talvolta talmente complicati e a loro volta spiacevoli, da diventare meccanismi patogeni che danno luogo a psiconevrosi”.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell'Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

Il fascismo secondo Giampaolo Pansa. Intervista pubblicata su Il Messaggero di Federico Guiglia. All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino. “Ma quel grido lo sentivo di continuo”, ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore. Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. “Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato”, riprende il filo del discorso. “Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”, eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo”.

“Il nero nacque dal rosso” è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al suo - suo di Pansa -, edicolante citato in prefazione). Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

“Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte”.

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?

“A ogni azione corrisponde una reazione. E’ quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partito comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto su loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. E’ un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia”.

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?

“La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. E’ proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana”.

Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?

“Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato “Il Sangue dei vinti”, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea - poi pubblicata da Laterza - sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per De Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui”.

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.

“Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte”.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (Scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

"Le menzogne sulla Storia? Ci fanno sentire rassicurati". Cercas racconta le vicende di un impostore che si finse per anni superstite dei lager. Un grande libro sul rapporto tra mistificazione e verità nella memoria collettiva, scrive Stefania Vitulli su "Il Giornale”. Persino quando ha accettato di collaborare con Javier Cercas per scrivere la verità su di sé, Enric Marco si è lasciato andare a qualche menzogna. L'impostore (Guanda, pagg. 406, euro 20), appena uscito in Italia, è l'ultimo romanzo dello scrittore catalano autore de Soldati di Salamina e racconta appunto la storia «vera» di questo mentitore professionista. Marco, oggi novantenne, rifece il trucco alla sua vita quando ancora il costruirsi un alter ego era un'operazione più simile a quella delle spie internazionali che dell'uomo comune che si crea un falso profilo Facebook. Secondo il curriculum che si era inventato, era stato combattente antifascista, oppositore della dittatura di Franco, deportato nel campo di concentramento di Flossenbuerg e quindi, a ottant'anni suonati, detentore della carica di presidente degli Amical de Mauthausen, la più importante associazione spagnola di sopravvissuti ai campi nazisti. Ma il super partigiano era un super ciarlatano e lo scandalo lo colpì appena prima che pronunciasse, appunto a Mathausen, il discorso per i 60 anni dalla Liberazione. Lo studioso che lo smascherò riuscì a dimostrare che non si era cucito addosso solo il campo, ma tutta la Resistenza. Tuttavia è il libro di Cercas (al Festivaletteratura di Mantova domani, ore 18.30 e domenica, ore 15) che, con l'aiuto di questo narciso istrione, demolisce il falso mito frase per frase, icona per icona, in modo così «umano» che immedesimarsi in Marco è un attimo e altrettanto facile infuriarsi con se stessi subito dopo.

Può provare in poche parole a descrivere Enric Marco a chi non lo conosce?

«È una bugia che cammina. Un uomo che ha fatto della sua vita un plagio, dal principio alla fine e che ha continuato per anni a ingannare tutto il mondo. Mario Vargas Llosa lo ha chiamato il più grande impostore della storia e credo abbia ragione».

È un personaggio che ama o che odia?

«Né uno né l'altro. Ho cercato di capirlo - non di giustificarlo - e di presentare il suo caso in tutta la sua infinita complessità. È questo il dovere dello scrittore, verso i suoi personaggi, reali o immaginari che siano».

A chi si è ispirato?

«A nessuno. Marco è così reale che questo è un “romanzo senza finzione”. E lo è perché Marco stesso è una finzione. Sarebbe stato ridondante, e anche letterariamente irrilevante, scrivere una fiction su una fiction. Ho scritto un “racconto reale”, un romanzo in cui verità e menzogna, finzione e realtà combattono un duello mortale».

C'è mai un alibi valido per la menzogna?

«Supponiamo che lei venga a casa mia e mi racconti che un assassino la perseguita. Supponiamo che io le dia asilo. Supponiamo che l'assassino bussi alla mia porta e mi chieda se lei si trova da me. Ecco, in questo caso io ho il diritto - fors'anche il dovere - di mentire. L'esempio è di Benjamin Constant, ma il costrutto famoso è di Kant, che diceva che nemmeno in questo caso si ha diritto a mentire. Nessuno è perfetto».

L'impostore sembra anche un romanzo sui ricordi, sulla memoria. C'è un filo rosso con Soldati di Salamina.

«È come se fosse il negativo di Soldati di Salamina. Soldati parla della necessità di disseppellire il passato repubblicano e assumerlo come proprio. L'impostore della necessità di dissotterrarlo bene, nel modo giusto, di non falsificarlo falsificando noi stessi. Soldati parla di un vero eroe, che dice: No, non me ne vanterò mai. L'impostore di un falso eroe, che si vanta di aver detto No».

Con i suoi romanzi traccia una storia della Spagna del Novecento. Ma a volte sembra quasi che per lei sia più importante usare questa Storia per fondare le basi di una «memoria consapevole».

«Partendo dal presupposto che i miei romanzi non trattano di questioni locali, ma universali, come qualsiasi letteratura degna di questo nome, è vero che a volte racconto una specie di storia alternativa del mio paese. Ma non si tratta di un progetto cosciente, premeditato. Semplicemente mi è accaduto a un tratto di comprendere che il passato è una dimensione senza la quale il presente risulta incomprensibile, che la collettività è una dimensione senza la quale l'individuo risulta indecifrabile. E a proposito della memoria consapevole, è vero soprattutto per L'impostore che vuole contenere tutto il bene e tutto il male della memoria. Le sue trappole, i suoi miraggi. Le sue fragilità e il suo potere ricattatorio».

Il dolore di una vittima potrà mai trovare consolazione nelle giustificazioni di un carnefice?

«No, impossibile. E per questo le vittime non sono obbligate ad ascoltare i boia. Però noi sì. Perché è l'unica forma efficace di lotta contro di loro. Proprio se non siamo vittime dobbiamo dare ai carnefici la nostra attenzione. Anche se è dura».

Quante sono oggi in Spagna o anche in Europa le persone come Enric Marco?

«Non lo so. Però scrivendo il libro ho scoperto una cosa: agli esseri umani la verità non piace, specie se si tratta di verità come quelle sul nazismo o sul franchismo. Ci piacciono le menzogne. Il mondo ha creduto a Marco perché diceva quello che vogliamo sentire. Bugie. Bugie romantiche, sdolcinate, manichee, edulcorate e tranquillizzanti. Come tutte le bugie».

Le grandi bugie.

La Grande guerra e la rivoluzione proletaria. I sindacalisti rivoluzionari dal neutralismo all’interventismo, scrive Fabio Polese su "Il Giornale". Un saggio di Stefano Fabei ricostruisce, a distanza di un secolo, il confronto culturale e dottrinale dei sindacalisti soreliani in occasione dello scontro tra interventisti e neutralisti e rappresenta la clamorosa fine di due miti – quello pacifista e quello internazionalista – che sembravano intramontabili nel sindacalismo rivoluzionario italiano. Da quest’ultimo, che fu l’anima dell’interventismo rivoluzionario, ebbero inizio le turbolenze di un dopoguerra, fatto di sovversivismo e richiami all’ordine, da cui partirono sia il fascismo sia l’antifascismo. Ne La Grande guerra e la rivoluzione proletaria (in Edibus, 18.00 €) Fabei rappresenta l’alta tensione ideologica di allora e offre un quadro finalmente completo delle sfumature di pensiero e dei vari comportamenti di quei sindacalisti (da Filippo Corridoni ai fratelli De Ambris, da Angelo Oliviero Olivetti a Sergio Panunzio, da Paolo Orano a Edmondo Rossoni e Michele Bianchi, tanto per citare i più noti) che non solo dettero scandalo aderendo alle ragioni della nazione mostrandosi consapevoli di come si potesse essere al contempo nazionalisti e rivoluzionari, ma videro nella la guerra qualcosa di pedagogico, di esaltante e di fortemente sovversivo: imparando a fare la guerra, i lavoratori italiani, delle industrie e delle campagne, avrebbero imparato a fare la rivoluzione. Per un eccesso di entusiasmo e forse per la troppa ingenuità, gli «anarco-sindacalisti» non compresero – ma come avrebbero potuto farlo? – che la loro visione di un autogoverno delle categorie, di una società organizzata in termini sindacali, con una limitata entità politica suprema e molta responsabilità di categoria sarebbe stata cancellata dopo la guerra, quando lo Stato dimostrò come il peso accumulato durante il conflitto, inserendosi profondamente nel tessuto economico, non sarebbe stato abbandonato, anzi. Il Fascismo, nel quale molti sindacalisti rivoluzionari interventisti confluirono, spesso con un significativo apporto sul piano organizzativo e dottrinario, non avrebbe infatti trovato ostacoli nell’affermare, in contrasto con le loro premesse iniziali, un ruolo dello Stato che andava ben oltre il peso del Partito fascista e dei sindacati, trasformati in organismi di diritto pubblico. Fabei giustamente rappresenta il contesto in cui operarono quei sindacalisti che non potevano prevedere gli sbocchi del loro pensiero e delle battaglie da essi combattute prima e durante la guerra. Il secondo semestre del 1914 e i primi mesi del 1915 furono, d’altra parte, un periodo in cui il movimento rivoluzionario in Italia visse uno stato di crisi, dottrinaria, morale e politica, dopo una precedente fase di consolidamento dimostrato, tra il 1912 e il 1914, dall’accresciuto numero di militanti e di consensi attorno alle tesi dei leader più intransigenti della sinistra, come Mussolini, pure lui protagonista di una parallela, e per certi aspetti simile, evoluzione. Scoppiato il conflitto, messi in discussione importanti cardini ideologici, come il pacifismo e l’internazionalismo, peraltro falliti per le scelte compiute dai compagni francesi, austriaci e tedeschi, i nostri sindacalisti soreliani si convinsero che la guerra potesse offrire non soltanto una lezione di pedagogia eroica e rivoluzionaria al proletariato italiano, ma creare, attraverso la sconfitta degli imperi germanico e austro-ungarico, baluardi della reazione e della conservazione, i presupposti per fondare una società più libera e giusta, con al centro il lavoro. Dotato di un’introduzione di Giuseppe Parlato, quello di Fabei è un libro avvincente per la leggibilità e al tempo stesso specialistico; un saggio interessante, data l'originalità dei contenuti, per chi vuole conoscere la storia nazionale dalla vigilia della Prima guerra mondiale alle origini del fascismo.

Rabbia e armi nascoste Così il Pci voleva fermare la democrazia. Molti partigiani non accettarono la vittoria della Dc. La guerra civile non scoppiò solo perché Stalin si oppose, scrive Giampaolo Pansa su "Il Giornale". La guerra civile, in apparenza finita nell'aprile del 1945, non si era affatto spenta. I delitti politici continuavano impuniti. Avevano quasi sempre mandanti ed esecutori di un solo colore: il rosso. Tra i partiti ritornati sulla scena, il Pci era l'unico in grado di dettare legge dovunque. A renderlo forte, e in tanti casi prepotente, provvedeva la rabbia di molti partigiani scontenti per come si era conclusa la Resistenza. Spirava un vento di delusione irosa che sosteneva la necessità di un secondo tempo della guerra interna, questa volta con un obiettivo radicale: la conquista del potere in Italia. Tante bande delle Garibaldi si erano rifiutate di consegnare le armi alle autorità militari inglesi e americane. Nell'Italia settentrionale e centrale stava crescendo il numero degli arsenali clandestini. Tra il 1945 e il 1946 molti depositi venivano scoperti dalle forze dell'ordine, ma era sempre poca cosa rispetto a quelli esistenti. La voglia di una vittoria definitiva divideva persino un partito in apparenza monolitico come il Pci. Anche un leader dal grande carisma come Palmiro Togliatti era costretto a non decidere nulla a causa dell'opposizione di un'ala estremista che sosteneva la necessità di una resa dei conti con gli angloamericani. E di conseguenza con i partiti moderati. Prima fra tutti la Democrazia cristiana. Guidata da un personaggio che la sinistra odiava: Alcide De Gasperi. Dipinto come un servo del capitalismo e un lacchè del Vaticano. L'Italia del triennio 1945-1947 era davvero un'Italiaccia, un Paese sottosopra. Dove poteva accadere di tutto. Persino che qualche gruppo di giovani reduci della Repubblica sociale cercasse di vendicarsi della sconfitta patita e delle angherie che stavano soffrendo per mano dei partigiani rossi. Erano tentativi modesti e destinati a fallire. Ma dimostravano una realtà che pochi erano capaci di vedere: se Mussolini era un cadavere appeso a piazzale Loreto, chi aveva creduto in lui non era scomparso. Nel frattempo la società italiana cambiava, e non sempre in peggio. Dopo aver ottenuto il diritto di votare, nel 1946 le donne si erano presentate in massa alle elezioni per l'Assemblea costituente e nel referendum per la scelta tra monarchia e repubblica. E avrebbero fatto sentire il loro peso nelle prime consultazioni politiche del dopoguerra: quelle del 18 aprile 1948. Fu un passaggio cruciale per la giovane democrazia italiana. Ma anche un azzardo per la Dc e le altre forze moderate che si opponevano al Fronte democratico popolare, l'alleanza fra i comunisti e i socialisti. Una volta superato questo muro, l'Italiaccia si trovò in grado di intraprendere la strada che le avrebbe consentito di diventare un Paese normale. Da quel momento sono trascorsi sessantasette anni. Anche quanti allora erano ragazzi, come nel mio caso, non rammentano più che il 1948 fu ancora un'epoca di guerra. Le condizioni del Paese restavano quelle precarie che ho descritto. Imperava sempre il mercato nero. Vigeva il razionamento per il pane, la carne, la pasta, il latte. Non tutti erano in grado di mettere insieme il pranzo con la cena. Tre anni dopo la fine della guerra, risultarono essenziali gli aiuti alimentari inviati dagli Stati Uniti per favorire la vittoria dello Scudo crociato.

Li ricordo anch'io quei pacchi che ci venivano recapitati a casa. Mia madre non li ha mai respinti. Diceva: «Gli americani ci tirano su il morale chiedendoci soltanto di non votare per i comunisti e i socialisti fedeli a Stalin. Per quello che mi riguarda, ho già deciso: non darò mai una mano al Fronte popolare!». La mamma accettò anche un taglio di stoffa con la cimasa tricolore. E mi confezionò un cappotto marrone. Era un colore che odiavo, ma il tessuto made in Usa si rivelò ottimo e mi tenne caldo per tre inverni. Nella primavera del 1948, mentre il Fronte popolare era sicuro di vincere, la Democrazia cristiana temeva di perdere. In un santuario del Monferrato, De Gasperi incontrò il ministro degli Esteri francese, Georges Bidault, e gli presentò una richiesta che da sola testimoniava l'asprezza dello scontro. E ottenne che, in caso di sconfitta della Dc, la Francia avrebbe accolto come rifugiati politici tutti i dirigenti del suo partito, famiglie comprese. Come era accaduto nel 1946 per l'elezione dell'Assemblea costituente, pure nelle consultazioni del 18 aprile si rivelò decisivo il voto delle donne. Furono le protagoniste della rinascita dopo la guerra. Anche nella vita delle famiglie e nei rapporti di coppia, le loro decisioni prevalevano sempre più spesso su quelle dei maschi. Era una novità sconvolgente che non venne subito compresa. Ma cambiò abitudini e atteggiamenti rimasti gli stessi per secoli. A cominciare dai rapporti sessuali. Per molti uomini fu uno choc scoprire che persino a letto le donne volevano avere l'ultima parola. Il 18 aprile lo Scudo crociato stravinse. De Gasperi rimase alla guida del governo. E fu in grado di superare anche il trauma dell'attentato a Togliatti. Il 14 luglio 1948 poteva segnare l'inizio di una nuova guerra civile. Ma il vertice del Pci sapeva bene che un'insurrezione rossa non era possibile. Lo aveva già spiegato Giuseppe Stalin a Pietro Secchia, il leader dell'ala militarista del partito. Andato a Mosca per incontrare il nuovo zar, quel biellese secco, dal volto sparuto, sempre con i capelli in disordine e l'abito stazzonato, tornò a mani vuote. Il compagno Stalin gli confermò che in Italia la rivoluzione proletaria era nient'altro che un'illusione.

"L’italiaccia senza pace" di Pansa. Delitti politici rimasti senza colpevoli. Pugno di ferro sui fascisti sconfitti. Reduci di Salò che si vendicano. Fanatismi barbarici. Partiti divisi dall’odio. Il potere crescente delle donne, imposto anche nelle storie di sesso. Misteri ed enigmi che diventano incubi. Il primo dopoguerra italiano è stato tutto questo. Un inferno durato tre anni, sino alle elezioni del 18 aprile 1948 e all’attentato a Palmiro Togliatti subito dopo il trionfo di Alcide De Gasperi sul Fronte popolare rosso. Da allora sono trascorsi tanti anni e quasi nessuno rammenta quel tempo feroce. Ma Giampaolo Pansa l’ha vissuto con lo sguardo attento di un ragazzino curioso. E non l’ha dimenticato. Lui ha una tesi: l’Italia di questo 2015 è ancora figlia del primo dopoguerra, dei vizi e delle faziosità che lo inquinavano. Allora i comunisti sognavano di fare un colpo di Stato. Adesso i reduci del Pci rimasti sulla piazza hanno scoperto degli alleati imprevisti: i movimenti che vogliono il nostro distacco dall’Europa. Gli italiani di oggi sono più in frantumi degli italiani di allora. I partiti soffrono di un discredito che nel dopoguerra affiorava già, ma non li paralizzava. Purtroppo non abbiamo un De Gasperi che ci guidi verso una nuova rinascita. Siamo vittime di paure più cattive di quelle che fra il 1945 e il 1948 devastavano i sonni di un paese che aveva ben poco da perdere. Mentre oggi abbiamo il terrore di perdere tutto e di ricadere nella povertà. È questa convinzione che ha spinto Pansa a creare un affresco dal titolo ruvido: L’Italiaccia senza pace. Perché Italiaccia? Perché nel primo dopoguerra eravamo una nazione sottosopra, incapace di ritrovare una condizione di normalità e rapporti umani non inquinati dalla violenza. Si sente dire che il passato annoia, ma di certo non quello narrato da Pansa. Questo suo libro è un’incalzante sfilata di vicende osservate dal basso, dove il privato di tanti protagonisti diventa la spia di un’epoca senza misericordia. L’autore ha scovato nella propria memoria le sequenze di un dramma che nasce da un enigma: chi ha consegnato ai tedeschi l’ebreo Samuele Segre, un direttore di banca ucciso ad Auschwitz? La verità si scoprirà nelle ultime pagine dell’Italiaccia senza pace.

Case, scuole e ospedali distrutti tra strade e ferrovie bloccate Le aziende stentavano a riprendere fiato e a dare stipendi, scrive Mario Bernardi Guardi su “Il Tempo”. Un’"Italiaccia" quella tra il '45 e il '48? Con ogni possibile carità di patria e umana comprensione, siamo d'accordo con Giampaolo Pansa che nel suo ultimo libro la chiama così, raccontando misteri, amori e delitti di un affannato dopoguerra («L'Italiaccia senza pace», Rizzoli, pp. 351, euro 20). Un’"Italiaccia". Dove, dopo cinque anni di guerra, non si riesce a ritrovare "una condizione di normalità, un modo di vivere tranquillo, rapporti non inquinati dalla violenza, notti prive di incubi". Povera "Italiaccia"! Macerie e ammassi di rottami dappertutto. Case, scuole, strutture ospedaliere in gran parte distrutte. Strade, ponti, viadotti, linee ferroviarie spesso non utilizzabili. Aziende che stentano a riprendere fiato. Criminalità politica e delinquenza comune imperversanti. Malattie già sconfitte - come la tubercolosi e la scabbia - che celebrano il loro inquietante ritorno. Prostituzione trionfante. Metropoli, a cominciare da Napoli - raccontata da Malaparte nella "Pelle" con feroce iperrealismo - e trasformate in bordelli a cielo aperto. Povera Italia, poveri corpi, poveri cuori. Malandati, malati, avvelenati. Guerra e guerra civile hanno scatenato le loro furie e se, da una parte, c’è una disperata voglia di dimenticare, dall’altra odi, rancori e desideri di vendetta covano uova di serpente. Pietà l’è morta e continua a morire. Lo sa bene Pansa che sul "Sangue dei vinti", a partire dal libro che reca proprio questo titolo, ha scritto più volte. E più volte ha ricordato i volumi dedicati da Giorgio Pisanò alla guerra civile, con il terribile contrassegno "sangue chiama sangue". Una spirale perversa. I vinti non dimenticano i loro morti. E certe volte, per trovare consolazione, non basta attingere all’archivio della memoria. Bisogna colpire. Così, in una storia raccontata nell’"Italiaccia", c’è un vinto, Luigi, un giovane fascista già sottotenente della Divisione San Marco, che si trasforma in spietato killer, facendo fuori, uno dopo l’altro, e con un misterioso rituale (a ognuno degli assassinati viene messa una mela in bocca), cinque partigiani della "Garibaldi", responsabili dello stupro e della morte di sua madre. Un evento atroce cui aveva fatto seguito il suicidio del padre. Il quale, capitano dell’esercito repubblicano, impegnato sulla frontiera orientale a combattere contro i partigiani di Tito, si era sentito in colpa per non essersi trovato accanto alla moglie e non averla protetta. Tante le storie di quell’Italia sotto sopra e senza pace. Pansa le racconta intrecciandole a quelle di una famiglia ebrea, i Segre Foà, ben radicata nella cittadina piemontese (Casale Monferrato, la "piccola patria" dell’Autore, microcosmo "esemplare" da cui leggere la più vasta storia del Novecento italiano), fino alla proclamazione delle leggi razziali. Allorché, tutt’a un tratto, Samuele, direttore della filiale del Credito Italiano ed Elisa, professoressa di lettere, diventano corpi estranei alla comunità. Peggio: nemici. Guerra e persecuzione razziale infuriano: Samuele ed Elisa, insieme ai loro figli, abbandonano Casale e cercano scampo. Lui morirà ad Auschwitz; lei e i figli torneranno alla loro cittadina, ma come chiusi in una bolla d’aria che li separa dagli altri. Perché se, quando sono stati costretti ad andarsene, la stragrande maggioranza ha fatto finta di non vedere, per non essere compromessa, adesso la solita maggioranza è come disturbata da questi inattesi "spettri": che cosa vogliono? Che cosa pretendono? Quali sofferenze "in più" hanno da esibire rispetto a quelle patite da tutti gli altri? Sarà dura farsi capire e rispettare, senza chiedere elemosine di affetti. Ecco, dal ’45 al ’48, Elisa, i suoi figli, i nuovi amici "seguono" per noi e ci raccontano, dall’osservatorio della piccola città, le vicende dell’Italia nuova. Grava su loro il peso di quello che non si può dimenticare. E che rende complessa la loro "umanità". Appartengono, senza dubbio, alle schiere dei vincitori, ma sono anche dei vinti: nella memoria hanno ferite che non si rimarginano e l’istinto parrebbe invocare in certi momenti decisioni "forti". Nel nome di quel "sangue chiama sangue" che ha ispirato le vendette di Luigi, il giovane fascista "giustiziere". E tuttavia la storia corre, si compiono scelte pubbliche e private, si ragiona sulle idee e sui fatti, si ama e si odia all’insegna di nuove passioni. E si ride e si piange, e la carne, con i suoi appetiti, grida in tutti i modi e imbandisce vicende bollenti, mescolandole alla voglia di tenerezza. Intanto, il lettore "ripassa": il piano Marshall, il Fronte Popolare, la vittoria DC nell’aprile del ’48, l’attentato a Togliatti… "Quante storia, quante facce nella memoria, tanto di tutto, tanto di niente, le memorie di tanta gente", per dirla con le parole di una canzone scritta dall’ex- repubblichino Mario Castellacci per la mitica Gabriella Ferri! E allora ascoltiamo. Impariamo ad ascoltarlo, il tempo.

Quelli che... «il Migliore» era un democratico (solo un po' stalinista). La storia non ha fatto sconti al leader comunista, gli storici invece sì: infatti cercano di rivalutarlo, scrive Giampietro Berti Mercoledì 20/08/2014 su "Il Giornale. Il 21 agosto di cinquant'anni fa moriva a Yalta (Crimea) Palmiro Togliatti, figura primaria del comunismo italiano e internazionale. Se ci si domanda cosa rimane oggi della sua opera, non si può che rispondere in modo negativo. Naturalmente siamo ben lontani da sottovalutare la sua importanza storica, ma essa non presenta alcunché di benefico e di positivo. È stupefacente perciò osservare che, dopo il catastrofico fallimento del comunismo, fallimento a cui anche Togliatti ha dato il suo peculiare contributo, vi sia ancora da parte di alcuni studiosi l'ostinata volontà di rivalutarne il pensiero e l'azione, attivando verso di lui una sorta di storicismo giustificazionista. Non ci interessa demonizzare la figura di Togliatti, però non possiamo non contestare l'esito di questa operazione, che si risolve, per quanto riguarda la seconda parte della sua vita, nell'insostenibile tesi della democraticità del PCI e, appunto, del suo leader, Palmiro Togliatti. Ricordiamo qui la ristampa, con prefazione inedita di Togliatti e il partito di massa (Castelvecchi) di Donald Sassoon; l'epistolario di Togliatti degli anni 1944-1964, La guerra di posizione in Italia (Einaudi), a cura di Maria Luisa Righi e Gianluca Fiocco, con prefazione di Giuseppe Vacca; la nuova edizione della biografia Togliatti di Giorgio Bocca (Feltrinelli), con prefazione di Luciano Canfora; e anche qualche intervento giornalistico, tra cui ricordiamo, nei mesi passati quello di Francesco Piccolo, Rivalutare Togliatti apparso su La lettura , inserto del Corriere della Sera. Il nocciolo comune di questa tesi, sia pur articolata da ogni autore con interpretazioni e sfumature diverse, si riassume nel giudizio secondo cui il comunismo italiano, diversamente da qualsiasi altro comunismo europeo, avrebbe fornito un contributo decisivo alla nascita e al mantenimento della democrazia nel nostro Paese. Ora non c'è dubbio che con la partecipazione alla lotta contro il nazifascismo i comunisti, insieme con altre forze politiche, ebbero il merito di portare l'Italia sulla via della libertà dopo vent'anni di dittatura. Affermare però che essi, a cominciare dallo stesso Togliatti, fossero animati da uno spirito democratico è del tutto fuorviante. In realtà, grazie alla collocazione dell'Italia nell'ambito occidentale, i comunisti furono costretti a rinunciare alla lotta rivoluzionaria contro il capitalismo e contro la società borghese e ad accettare la liberal-democrazia. Rivendicarono perciò, in quanto comprimari artefici della Resistenza, dell'Assemblea Costituente e della successiva Costituzione, la legittimazione democratica del loro partito. Fecero, cioè, di necessità virtù, e dunque non furono dei veri democratici. Rimasero sempre prigionieri di una concezione strumentale del rapporto tra democrazia e socialismo. Vista l'impossibilità di conquistare il potere politico, Togliatti, infatti, avviò la strategia gramsciana diretta a controllare il più possibile una parte della società civile e istituzionale, con una pressante egemonia culturale (università, scuola, editoria, giornali), che si tradusse nella condanna della società liberale e borghese: una riserva di fondo che non venne mai meno. Ecco dunque la «doppiezza» togliattiana, che se da un lato portò il PCI a non sovvertire il regime esistente, dall'altro lo spinse continuamente a predicare la sua trasformazione in senso comunista, senza mai giungere ad una rottura definitiva con l'Unione Sovietica, da cui continuò a ricevere sino all'ultimo anche un ininterrotto aiuto finanziario. È necessario ricordare l'avallo di Togliatti, e di quasi tutti i comunisti italiani, al colpo di Stato in Cecoslovacchia (1948), alla repressione sanguinosa della sollevazione popolare di Berlino Est (1953) e di quella ungherese (1956)? Fino alla fine degli anni Sessanta, pur con alcuni distinguo, i comunisti italiani continuarono a identificare il marxismo con il comunismo e il comunismo con lo stalinismo. Così come Stalin rimandava a Lenin e Lenin rimandava a Marx, allo stesso modo, per converso, il marxismo giustificava il leninismo, tanto quanto il leninismo giustificava lo stalinismo: tranne rarissime eccezioni, tutti i comunisti erano stalinisti, a cominciare proprio da Togliatti. Centinaia di migliaia di libri, di opuscoli, di giornali, di comizi, di manifesti, di volantini, di ritratti, di documenti di partito hanno per trent'anni testimoniato la deferenza verso il dittatore. Questa incapacità di uscire dall'universo stalinista spiega perché non vi sia stata in Italia alcuna Bad Godesberg, vale a dire una socialdemocratizzazione capace di sradicare il PCI dal suo ceppo leninista. Ancora nel 1978, in un'intervista a la Repubblica , Enrico Berlinguer poteva parlare della «ricca e permanente lezione leninista». La «via italiana al socialismo» concepita da Togliatti, vale a dire la pretesa di superare la democrazia liberale con una democrazia superiore, era una strategia destinata al fallimento. Non a caso essa è poi sfociata nel compromesso storico, ovvero nella convergenza «totalitaria» del cattocomunismo, la cui natura era avversa ad ogni ratio e ad ogni ethos liberali. Disegni politici che hanno fatto perdere all'Italia qualche decennio di maturità democratica e che oggi, di fronte alle macerie del comunismo, appaiono per quello che erano: dinosauri convissuti per qualche tempo con la modernità. Pretendere, con le cosiddette «riforme di struttura», di fuoriuscire dal capitalismo mantenendo al contempo la democrazia; di avviare una politica anti-capitalista all'interno di un sistema capitalista, era una quadratura del cerchio che solo chi aveva fatto propria la concezione miracolistica della dialettica (marxista) poteva pensare di sciogliere. Come aveva già profetizzato quarant'anni fa Augusto Del Noce, il partito proletario di massa creato da Togliatti si è trasformato nel frattempo in un radicalismo culturale di massa, i cui quadri dirigenti sono stati salvati ora da un ex democristiano. Come tutti i marxisti, Togliatti nutriva la profonda convinzione di possedere la verità, per cui considerava con grande disprezzo e fastidiosa sufficienza tutti coloro che non erano comunisti. Abbiamo poi visto chi aveva ragione. La storia non ha fatto sconti neanche al «Il Migliore».

La storia compromettente del "compromesso storico". Quarant'anni fa Enrico Berlinguer rilanciò l'idea (che fu di Togliatti nel dopoguerra) della collaborazione fra Pci e Dc. Ma il flirt durò poco. E indebolì entrambi i partiti, scrive Francesco Perfetti Venerdì 27/09/2013 su "Il Giornale". La proposta di un «compromesso storico» fra cattolici e comunisti la lanciò l'allora segretario del Pci Enrico Berlinguer tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre 1973 dalle pagine di Rinascita, la rivista ideologica del partito fondata da Palmiro Togliatti, in tre articoli pubblicati con il titolo generale Riflessioni sull'Italia dopo i fatti del Cile. Nel Paese latino-americano si era appena consumato il colpo di Stato del generale Pinochet contro Salvador Allende: era stata interrotta traumaticamente la «via cilena al comunismo». Divenuto segretario del Pci nel marzo 1972 dopo esserne stato vice-segretario, Berlinguer si era formato ed era cresciuto politicamente all'ombra di Togliatti e durante la lunga segreteria di Luigi Longo si era rafforzata la sua autorevolezza. Aveva portato avanti la linea del «dissenso» dall'Urss dopo l'invasione della Cecoslovacchia del 1968, ma al tempo stesso aveva negato la possibilità di un abbandono dell'internazionalismo e di una posizione di rottura nei confronti dell'Unione Sovietica. I fatti cileni suggerirono a Berlinguer una proposta politico-strategica che egli rese nota attraverso quegli articoli senza che fosse prima discussa dagli organismi dirigenti del partito. Ciò anche se in maggio sulla rivista Il Contemporaneo, supplemento mensile di Rinascita, era apparso un ampio dibattito sulla «questione democristiana», in cui Alessandro Natta aveva accennato alla necessità di una intesa fra socialisti, comunisti e cattolici e Gerardo Chiaromonte aveva osservato che sarebbe stato difficile per i comunisti governare anche ottenendo la maggioranza assoluta dei voti a causa della estensione e della influenza delle forze avversarie. Ciò non toglie, peraltro, che la paternità dell'idea del compromesso storico, così come venne presentata, sia senza dubbio attribuibile a Berlinguer. Il caso cileno offriva una lezione importante. Dimostrava che l'unità delle sinistre, da sola, non era sufficiente a garantire la governabilità e che bisognava puntare alla collaborazione fra tutte le forze popolari, partito comunista e democrazia cristiana in primis, e quindi a un sistema di alleanze sociali che coinvolgesse ceti diversi. Al fondo, c'era la convinzione che solo così sarebbe stato possibile sbloccare il sistema politico italiano che, di fatto, anche per la sua collocazione internazionale, non consentiva una alternanza. La formulazione della proposta era chiara: «la gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie, e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande compromesso storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano». In altre parole, Berlinguer metteva in soffitta l'idea della «alternativa di sinistra» e la sostituiva con quella di una «alternativa democratica» che avrebbe consentito riforme radicali evitando il pericolo di derive reazionarie. La proposta poteva sembrare una novità. E come tale alimentò il dibattito politico. Ma non era così. Il filosofo cattolico Augusto Del Noce osservò che essa era «condizionata interamente dalla linea gramsciana» tanto che, riferita al pensiero di Gramsci, si configurava come «offerta» frutto della «constatazione della "maturità storica" per il passaggio dell'Italia al comunismo e per il transito dalla vecchia alla nuova Chiesa». D'altro canto lo stesso Berlinguer precisò che l'offerta di compromesso storico non era una «apertura di credito alla Dc», ma doveva intendersi come «sollecitazione continua» per una trasformazione radicale della stessa Dc che ne valorizzasse la «componente popolare» a scapito delle «tendenze conservatrici e reazionarie». A ben vedere, il discorso di Berlinguer riprendeva, con altre parole e in un contesto diverso, il progetto che, all'indomani del secondo conflitto mondiale, Palmiro Togliatti aveva sintetizzato nella celebre espressione «democrazia progressiva» fondata sulla collaborazione fra le «grandi forze popolari», ovvero comunisti, socialisti e cattolici. Esisteva, per dirlo con Del Noce, una «continuità Gramsci-Togliatti-Berlinguer e delle formule della via "nazionale" e "democratica" e dell'accordo dei partiti di massa». Nella visione berlingueriana il compromesso storico avrebbe dovuto rappresentare lo strumento per «sbloccare» il sistema politico italiano che - in virtù della tacita ma accettata conventio ad excludendum nei confronti del Pci per i suoi legami con Mosca e per la sua monolitica struttura interna di tipo leninista - precludeva ai comunisti l'ingresso nelle stanze del potere. Le opposizioni, più che le perplessità, furono numerose sia all'interno del Pci, dove molti pensavano ancora all'ipotesi della trasformazione del Paese in una «democrazia popolare», sia all'interno della Dc, del Psi e dei partiti laici minori, preoccupati, non a torto, che il compromesso storico si risolvesse nell'incontro fra due «religioni secolari». Comunque sia, alla prova dei fatti il compromesso storico non si realizzò. Gli anni fra il 1974 e il 1978 furono, sì, quelli della grande avanzata elettorale del Pci e del suo ingresso nell'area di potere con l'appoggio esterno al governo monocolore di «solidarietà nazionale» di Andreotti. Ma, al tempo stesso, furono anni - particolarmente difficili anche per l'offensiva del «partito armato» delle Brigate Rosse - che mostrarono come la «strategia dell'attenzione» nei confronti del Pci teorizzata da Aldo Moro fosse sostanzialmente velleitaria. Alla fine proprio il rapimento e l'assassinio di Moro chiusero traumaticamente la strada al compromesso storico. E aprirono una nuova stagione della politica italiana dominata dalla figura di Bettino Craxi e destinata a sua volta a esaurirsi con la fine ingloriosa della prima repubblica sotto i colpi di maglio della «rivoluzione giudiziaria» di Tangentopoli.

L'edificante epopea dei partigiani costruita a tavolino. Le carte dell'istituto "Perretta" svelano in che modo le vicende delle Brigate Garibaldi nel Comasco siano state reinventate a colpi di documenti apocrifi. A rendersene conto gli stessi protagonisti di quelle vicende, scrive Roberto Festorazzi, Martedì 23/02/2016, su "Il Giornale". La storia bugiarda, ossia la ricostruzione artificiosa e mitopoietica del passato, è una sorta di specialità nazionale, almeno dal Risorgimento in poi. Ma esiste una forma di menzogna più sottile, sistemica e dannosa, che procede attraverso la fabbricazione di documenti falsi attraverso i quali elaborare una vulgata edificante per chi compie l'operazione. Un caso da manuale è quello che abbiamo scoperto, compulsando le carte dell'Istituto di storia contemporanea Perretta di Como. Ossia, uno dei capisaldi della sacralizzazione delle vicende resistenziali, per il fatto che questo centro di memoria opera, da quasi quarant'anni, nell'area dove si compirono, in un sol colpo, tre eventi di gigantesca portata, nelle ultime giornate di aprile del 1945: la fine del fascismo, la conclusione della guerra e l'epilogo di Benito Mussolini e dei suoi fedelissimi. Consultando il Fondo Gementi del Perretta ci siamo imbattuti in una lettera esplosiva che mette a nudo i criteri attraverso i quali si è costruita la monumentalizzazione dell'episodio resistenziale. Un documento che dev'essere sfuggito ai censori rossi i quali controllano che nulla, di esiziale, possa sfuggire e capitare dentro i fascicoli che vengono distribuiti in consultazione agli studiosi. Bisogna spiegare anzitutto chi è stato il personaggio oggetto delle mie indagini. Oreste Gementi, milanese, classe 1912, fu il leader partigiano di più elevate responsabilità militari, negli organi di coordinamento interpartitico operanti durante la lotta di Liberazione, nel Comasco. Svolse infatti le funzioni di comandante della Piazza lariana del Cvl (Corpo volontari della libertà). Nonostante il suo rango elevato, su Gementi (nome di battaglia, Riccardo), è caduto un totale oblio, spiegabile con una circostanza molto semplice. Il comandante partigiano ebbe il torto, se così si può dire, di non allinearsi alle direttive del Partito comunista, il quale durante e dopo la Liberazione dettò legge, non soltanto nel Comasco. Tanto per cominciare, Gementi si convinse, sulla base di elementi raccolti già nell'immediatezza dei fatti, che a sparare a Mussolini e alla Petacci non fosse stato l'emissario di Luigi Longo, Walter Audisio, alias colonnello Valerio, ma l'umile operaio comasco Michele Moretti, il partigiano comunista Pietro. E ciò bastava perché il nome di Gementi venisse incluso nella lista di proscrizione stilata dagli apparatik della centrale di disinformacjia rossa concentrata nella triangolazione Pci-Anpi-Istituti storici della Resistenza. Non solo: il comandante Riccardo aveva tale determinazione morale da far spiccare, già nel giugno del 1945, un mandato di cattura contro Michele Moretti per il furto dell'oro di Dongo. Risultato: un mese dopo, il Pci architettò contro Gementi un agguato, che fu sventato solo grazie all'abilità straordinaria della vittima predestinata. Ma veniamo al cuore di questa nostra scoperta. Nel novembre del 1991, l'Istituto storico di Como diede alle stampe un volume di oltre 600 pagine, La 52ª Brigata Garibaldi Luigi Clerici attraverso i documenti: si trattava di un racconto della lotta di Liberazione, nel Comasco, attraverso una raccolta delle fonti scritte riferite all'attività della formazione partigiana cui si dovette l'arresto di Mussolini e il fermo della sua colonna, il 27 aprile 1945. Ben 550 documenti (relazioni, direttive, circolari, ecc.), presentati come originali, i quali portavano alla luce la trama organizzativa e l'intera vicenda cospirativa della brigata. Curatore dell'opera antologica era Giusto Perretta, comunista, fondatore e a lungo direttore dell'Istituto comasco di storia del movimento di Liberazione che oggi porta il nome di suo padre, l'avvocato Pier Amato Perretta, un antifascista ferito a morte a Milano da elementi delle Ss e della Legione Muti, nel novembre del 1944.Giusto Perretta, nella nota introduttiva, spiegava che la pubblicazione era frutto di ricerche «effettuate nel 1986-87 presso l'Istituto Gramsci di Roma». Tale scavo archivistico era valso ad arricchire e a integrare la già imponente documentazione in possesso dell'Istituto storico lariano. Ne sortiva una rassegna di materiali che il curatore accreditava come coevi, cioè «compilati e diffusi nel corso vivo della lotta»: in tal modo si sarebbero potute fornire «maggiori garanzie di veridicità» rispetto alle fonti cronologicamente successive. Fin qui le parole di Perretta. Ciò che non è mai trapelato, al riguardo, è la durissima contestazione pervenuta al curatore dell'opera, da parte di Gementi. Il comandante Riccardo, giunto ormai al termine dei suoi giorni terreni, il 10 aprile 1992 confessava, in una riservata-confidenziale, di aver accostato «con molto scetticismo» l'indigeribile repertorio stilato da Perretta, dichiarandosi incapace di «trarne alcun insegnamento», nell'impossibilità pratica di discernere «tra il vero ed il falso». Dove nasceva questo sentimento di somma diffidenza, nell'uomo che ben conosceva la segreta trama di quei lontani fatti della Resistenza, per averli vissuti dall'interno come pochissimi altri? Lo rivelava lo stesso Gementi, tornando con la memoria a una «confidenza fattami da Coppeno nei primi anni dopo la Liberazione, quando i nostri rapporti erano normali e saltuariamente ci incontravamo, ma soprattutto egli mi telefonava per accertarsi su dati e fatti del periodo clandestino». Il riferimento è a Giuseppe Coppeno, lo storiografo ufficiale cui il Partito comunista, già nell'immediato dopoguerra, affidò il compito di costruire, a tavolino, la storia bugiarda. In quale modo? Allestendo una vera e propria officina di fabbricazione di repertori documentari non genuini, allo scopo di produrre la glorificazione del movimento partigiano rosso. Coppeno, nato nel 1920 e scomparso nel 1993, fu un comunista duro e dogmatico che operò, durante la Resistenza, tra Como e Milano, quale cinghia di trasmissione delle direttive del partito dentro le formazioni garibaldine. In realtà, si chiamava Ciappina, in quanto fratello di Ugo Ciappina, un ex gappista che fu tra gli autori della rapina di via Osoppo, avvenuta a Milano, nel 1958. In conseguenza di tale fatto, egli chiese e ottenne di poter cambiare il cognome in Coppeno. Incontrai Ciappina-Coppeno, a Milano, nel maggio del 1992. Andai a casa sua, per intervistarlo. Il personaggio mi raggelò, ma non potevo nemmeno sospettare che si portasse appresso i segreti che Gementi non esitò a denunciare. Che cosa si era lasciato infatti sfuggire, il fratello del bandito Ugo Ciappina, nei suoi colloqui con il compagno di battaglie? Lo racconta lo stesso comandante Riccardo, con questa confessione-bomba: «Coppeno mi aveva confidato che, su richiesta di Gorreri e Fabio, stava costruendo documenti intesi a valorizzare e potenziare l'attività della 52ª, dal settembre '43 alla Liberazione». Dante Gorreri e Pietro Vergani Fabio furono dunque coloro che commissionarono il lavoro al falsario ideologico seriale. Vale la pena di ricordare chi fossero i due personaggi. Gorreri, segretario della Federazione lariana del Pci, e Vergani, comandante lombardo delle Brigate Garibaldi, furono due stalinisti ciecamente devoti al partito. Entrambi, negli anni Cinquanta, vennero rinviati a giudizio per alcuni delitti che insanguinarono il dopo-Liberazione, come quello del capitano Neri (Luigi Canali), leader morale della Resistenza comasca, della staffetta di questi, Gianna (Giuseppina Tuissi), e della giovane Annamaria Bianchi. La clamorosa denuncia dell'esistenza di una centrale della contraffazione, costituisce l'anello mancante di un teorema logico che gli storiografi di impostazione mentale laica, cioè non dottrinale, hanno sempre cercato di dimostrare. Vale a dire: i documenti sui quali è stata intessuta la trama della narrazione resistenziale non convincono. Ora sappiamo perché. I materiali apocrifi costruiti da Ciappina-Coppeno furono il preludio di una colossale opera di elaborazione storiografica mistificatoria che non è ancora cessata. Osserva, del resto, Riccardo che il falsario di partito lasciava, per così dire, le impronte del suo delitto nelle modalità stesse del confezionamento, in sequenza, di documenti in realtà non coevi: quelle carte risultavano infatti essere «dattiloscritti senza firma o con firma a macchina». Chiunque può constatare di persona che è proprio così: il compilatore seriale della storia bugiarda produsse documenti quasi sempre privi di firma autografa, o di altri elementi (come interpolazioni e correzioni manoscritte) che ne attestassero la genuinità sotto il profilo materiale. Autentiche polpette avvelenate, versate poi, in gran parte, all'Istituto Gramsci, dove poi Perretta andò a riesumarle. Istituto Gramsci il quale si fece, a sua volta, ente certificatore dell'autenticità e della sicura provenienza di quelle carte. Il bello è che, nella nota introduttiva al testo, lo stesso curatore compiva un'ammissione che, alla luce della lettera di Gementi, suona alquanto compromettente. «Date le condizioni delle copie originali», infatti, si era proceduto alla «loro ribattitura e riduzione rispettando rigorosamente il testo originale». Insomma, secondo Perretta, era stata effettuata la riscrittura, in forma dattilografica, delle fantomatiche carte originali, prendendo a pretesto le condizioni di cattiva conservazione, e conseguentemente di difficoltosa decifrazione, delle stesse. Ma, se così si fosse fatto, il curatore avrebbe dovuto avvertire quantomeno il dovere metodologico di produrre, in immagine, nelle pagine a fronte di ogni riduzione dattilografica (com'egli la chiama), i testi originali. Cosa che si guardò bene dal fare. Perretta non volle nemmeno spiegare quando, come, e da parte di chi, fosse stata realizzata questa colossale operazione da copisti. Questo autentico ginepraio ci riporta alle considerazioni dubitative di Gementi: a meno di voler per forza seguitare a supporre l'esistenza di veri documenti originali, gli unici originali paiono essere quelli, contrabbandati per tali, la cui matrice ci riporta alla figura di Ciappina-Coppeno e alla sua investitura a falsario di partito. Sorge del resto il sospetto che il Pci assumesse, per così dire, per vizio metodologico generalizzato, la predisposizione di un arsenale documentario realizzato in vitro, con un quadruplice scopo: alimentare il mito della propria forza egemone nel movimento partigiano, silenziare tutte le fonti non allineate con la propria verità di partito, riempire i vuoti narrativi e insieme occultare le degenerazioni violente della Resistenza.

Incoerenze e «copia e incolla» della (falsa) storia partigiana. Come spiega l'ex comandante «Stefano», i documenti artefatti mirano a «presentare la Resistenza come un fenomeno sorto da una volontà pianificata. Ma non fu così», continua Roberto Festorazzi, Mercoledì 24/02/2016, su "Il Giornale".  Mario Tonghini, 93 anni, comasco, è il superstite leader partigiano che operò, durante la Resistenza, a stretto contatto con Oreste Gementi («Riccardo»), che fu comandante della Piazza di Como del Cvl, il Corpo volontari della libertà guidato dal generale Raffaele Cadorna.Gementi, in una lettera del 10 aprile 1992 a Giusto Perretta, fondatore e a lungo direttore dell'Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, accusò Giuseppe Ciappina-Coppeno di aver costruito, nel primissimo dopoguerra, un intero arsenale documentario apocrifo, su richiesta del suo partito, il Pci.Materiale che fu alla base della pubblicazione del volume, di oltre 600 pagine, curato dalla stesso Perretta, e intitolato La 52ª Brigata Garibaldi Luigi Clerici attraverso i documenti. Un testo, edito nel novembre del 1991 dallo stesso Istituto storico lariano (oggi intitolato a Pier Amato Perretta, martire antifascista e padre di Giusto), che contiene la raccolta di circa 550 carte presentate come «originali».Tonghini, ex comandante di Brigata, con il nome di «Stefano», convinto anticomunista, ha passato alla lente d'ingrandimento i materiali pubblicati da Perretta, giungendo ad avvalorare in pieno la denuncia del comandante «Riccardo», che fu la più alta autorità militare partigiana nel territorio dove si consumarono l'epilogo del fascismo e la morte di Mussolini. L'operazione di «assemblaggio», in serie, dei documenti, balza evidente da alcuni dati di fatto. In questi testi si osservano anomalie ricorrenti: spesso, i rapporti non sono né datati, né firmati. Il che contraddice una prassi allora corrente, nota Tonghini. Anche alla prova dell'analisi strettamente contenutistica, le carte si rivelano tutt'altro che veritiere. Osserva il comandante «Stefano»: «Esaminando i testi, si coglie la tendenza a far apparire come l'origine delle formazioni scaturisse dalle funzioni di comando. Come se vi fosse una regia organizzativa che le facesse sorgere dal nulla. Ma ciò corrisponde alla visione del Partito comunista, che aveva l'interesse, ex post, a presentare la Resistenza come un fenomeno sorto da una volontà pianificata. Noi invece sappiamo che non fu così. Il movimento di Liberazione nasce con bande spontanee, costituite da uomini e da donne, che si coagulano subito dopo l'8 settembre 1943, sulla base di motivazioni squisitamente patriottiche. Se si va poi a vedere il racconto che emerge, dalle carte, balzano all'occhio contraddizioni macroscopiche. Parlo, naturalmente, per fatti e circostanze che siano a mia diretta e personale conoscenza. Un documento del Comando di raggruppamento delle Brigate Garibaldi, datato 9 settembre 1944 (a pagina 135 del volume), qualifica la nostra formazione autonoma dei Cacciatori delle Grigne operante nel Lecchese e nei cui ranghi esordii io stesso quale partigiano, come appena costituita e da inquadrare. Una cosa da non credere: i Cacciatori delle Grigne nascono già alla metà di settembre del 1943, con le prime riunioni clandestine tenutesi in casa del comandante Lino Poletti». Passiamo alla lettera, datata 11 dicembre 1944, e riprodotta a pagina 369 del volume, che Perretta attribuisce alla mano di Dante Gorreri. Il documento, diretto al capitano «Neri» (Luigi Canali), è completamente inattendibile, perché, in esso, si legge che i superiori vertici del Partito comunista intendevano affidare a Mario Tonghini e al suo compagno partigiano Dino Gaffuri «Walter» la ricostituzione della 89ª Brigata «Poletti», quella dei «Cacciatori delle Grigne».La datazione, anzitutto, non regge, perché, a quell'epoca, Tonghini era da mesi operativo nel territorio di Como, impegnato a fondo nell'organizzazione delle formazioni di pianura e di città. Il foglio, dunque, è sicuramente apocrifo, come ci conferma lo stesso comandante «Stefano»: «Non ho mai ricevuto disposizioni di tal genere: è da escludere che potessi essere rimandato indietro in montagna a ricostituire la Poletti, che avevo lasciato alle mie spalle mesi prima, dopo 5 rastrellamenti condotti contro di noi da tedeschi e fascisti». Va ancora peggio per un secondo documento, pubblicato alle pagine 390 e 391, e datato soltanto quattro giorni dopo il precedente: 15 dicembre 1944.Si tratta di una comunicazione, firmata da «Neri», indirizzata in primis al battaglione «Nannetti» della 52ª Brigata Garibaldi, in cui si annunciano misure di ricostituzione della 89ª Brigata «Poletti» e, al contempo, si invitano Tonghini, «Walter» e altri a raggiungere le formazioni «Ricci» per rifondarle. I nuclei partigiani guidati dal capitano Ugo Ricci, rimasto ucciso in un'imboscata, a Lenno, sul lago di Como, il 3 ottobre 1944, erano sbandati dopo la caduta del loro comandante. Qui si rasenta la follia. Appena quattro giorni dopo le presunte direttive tendenti a dirigere gli sforzi di Tonghini alla ricostituzione della Brigata «Poletti», giunge un ordine contraddittorio, che non contiene alcun riferimento alle motivazioni della revoca delle precedenti disposizioni di impiego operativo. Le aree di destinazione, infatti, non sono affatto contigue: le forze superstiti della formazioni Ricci sono attestate nella zona della Val d'Intelvi, mentre la «Poletti» ha sede nell'altro ramo del Lario, quello lecchese. Vi è però un'ulteriore circostanza che conferma in pieno la fondatezza della denuncia di Gementi. Nel volume curato da Perretta vi sono blocchi di testo che ricorrono, praticamente identici, in più parti. La seconda pagina della già citata relazione del 15 dicembre 1944, si può ritrovare, pari pari, in un documento del 3 dicembre precedente, intitolato «Situazione delle formazioni Ricci» (pagine 332-333). L'unica differenza, però significativa, tra i due testi, è data dal fatto che la versione di pagina 333 «chiude» con la firma del capitano «Neri», mentre quella inserita nella relazione del 15 dicembre (pagina 391) la omette, perché il testo prosegue per un'ulteriore facciata. Si tratta di una prova schiacciante della manipolazione operata dagli assemblatori di materiali. L'officina della contraffazione, insomma, mostra i suoi difetti. Costruisce «blocchi» di testi prefabbricati, veri e propri kit che poi «monta» nei contesti in cui essi appaiono più funzionali. Ne risulta che specialisti del «copia e incolla» erano in azione con decenni di anticipo sulla tecnologia informatica. Non meno sorprendente è una relazione dell'ispettore regionale garibaldino Pietro Terzi «Francesco» alla Delegazione lombarda delle Brigate Garibaldi, riprodotta alle pagine 465 e 466. Vi si riferisce, tra l'altro, dell'avvenuta liquidazione del distaccamento «Tomasich», come di un evento recente. La data riportata sul documento è il 27 febbraio 1945: a quel tempo, il «Tomasich», attestato sul primo tratto dei Monti Lariani, era però caduto da circa un mese! Del tutto priva di verosimiglianza, infine, è una lettera dello stesso «Francesco» al comandante «Riccardo», datata 31 marzo 1945 (la si trova a pagina 501), ossia ben quattro giorni dopo che Gementi era stato arrestato, a Milano, durante una retata in cui era caduto l'intero vertice militare clandestino della Resistenza lariana. Una circostanza, quella dell'inattendibile datazione, la quale obbligherebbe, qualora la si volesse prendere sul serio, a immaginare un inoltro della corrispondenza nelle carceri fasciste. Insomma, da qualunque parte la si voglia considerare, la fabbrica del falso confeziona le pentole ma non i coperchi.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega, scrive Giampaolo Pansa, Domenica 07/10/2012, su "Il Giornale". C’è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro. Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della libertà. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realtà era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile. C'è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell'introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro.

Non chiamateli eroi. L’elenco delle ausiliarie uccise dai partigiani dopo che si erano arrese, scrive il 25 aprile 2012 "Quelsi".

Amodio Rosa: 23 anni, assassinata nel luglio del 1947, mentre in bicicletta andava da Savona a Vado.

Antonucci Velia: due volte prelevata, due volte rilasciata a Vercelli, poi fucilata.

Audisio Margherita: Fucilata a Nichelino il 26 aprile 1945.

Baldi Irma: Assassinata a Schio il 7 luglio 1945.

Batacchi Marcella e Spitz Jolanda: 17 anni, di Firenze. Assegnate al Distretto militare di Cuneo altre 7 ausiliarie, il 30 aprile 1945, con tutto il Distretto di Cuneo, pochi ufficiali, 20 soldati e 9 ausiliarie, si mettono in movimento per raggiungere il Nord, secondo gli ordini ricevuti. La colonna è però costretta ad arrendersi nel Biellese ai partigiani del comunista Moranino. Interrogate, sette ausiliarie, ascoltando il suggerimento dei propri ufficiali, dichiarano di essere prostitute che hanno lasciato la casa di tolleranza di Cuneo per seguire i soldati. Ma Marcella e Jolanda non accettano e si dichiarano con fierezza ausiliarie della RSI. I partigiani tentano allora di violentarle, ma le due ragazze resistono con le unghie e con i denti. Costrette con la forza più brutale, vengono violentate numerose volte. In fin di vita chiedono un prete. Il prete viene chiamato ma gli è impedito di avvicinare le ragazze. Prima di cadere sotto il plotone di esecuzione, sfigurate dalle botte di quelle belve indegne di chiamarsi partigiani, mormorano: “Mamma” e “Gesù”. Quando furono esumate, presentavano il volto tumefatto e sfigurato, ma il corpo bianco e intatto. Erano state sepolte nella stessa fossa, l’una sopra l’altra. Era il 3 maggio 1945.

Bergonzi Irene: Assassinata a Milano il 29 aprile 1945.

Biamonti Angela: Assassinata il 15 maggio 1945 a Zinola (SV) assieme ai genitori e alla domestica.

Bianchi Annamaria: Assassinata a Pizzo di Cernobbio (CO) il 4 luglio 1945.

Bonatti Silvana: Assassinata a Genova il 29 aprile 1945.

Brazzoli Vincenza: Assassinata a Milano il 28 aprile 1945.

Bressanini Orsola: Madre di una giovane fascista caduta durante la guerra civile, assassinata a Milano il 10 maggio 1945.

Buzzoni Adele, Buzzoni Maria, Mutti Luigia, Nassari Dosolina, Ottarana Rosetta: Facevano parte di un gruppo di otto ausiliarie, (di cui una sconosciuta), catturate all’interno dell’ospedale di Piacenza assieme a sei soldati di sanità. I prigionieri, trasportati a Casalpusterlengo, furono messi contro il muro dell’ospedale per essere fucilati. Adele Buzzoni supplicò che salvassero la sorella Maria, unico sostegno per la madre cieca. Un partigiano afferrò per un braccio la ragazza e la spostò dal gruppo. Ma, partita la scarica, Maria Buzzoni, vedendo cadere la sorella, lanciò un urlo terribile, in seguito al quale venne falciata dal mitra di un partigiano. Si salvarono, grazie all’intervento di un sacerdote, le ausiliarie Anita Romano (che sanguinante si levò come un fantasma dal mucchio di cadaveri) nonché le sorelle Ida e Bianca Poggioli, che le raffiche non erano riuscite ad uccidere.

Carlino Antonietta: Assassinata il 7 maggio 1945 all’ospedale di Cuneo, dove assisteva la sua caposquadra Raffaella Chiodi.

Castaldi Natalina:Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.

Chandrè Rina, Giraldi Itala, Rocchetti Lucia: Aggregate al secondo RAU (Raggruppamento Allievi Ufficiali) furono catturate il 27 aprile 1945 a Cigliano, sull’autostrada Torino – Milano, dopo un combattimento durato 14 ore. Il reparto si era arreso dopo aver avuto la garanzia del rispetto delle regole sulla prigionia di guerra e dell’onore delle armi. Trasportate con i loro camerati al Santuario di Graglia, furono trucidate il 2 maggio 1945 assieme ad oltre 30 allievi ufficiali con il loro comandante, maggiore Galamini, e le mogli di due di essi. La madre di Itala ne disseppellì i corpi.

Chiettini (si ignora il nome): Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.

Collaini Bruna, Forlani Barbara: Assassinate a Rosacco (Pavia) il 5 maggio 1945.

Conti – Magnaldi Adelina: Madre di tre bambini, assassinata a Cuneo il 4 maggio 1945.

Crivelli Jolanda: Vedova ventenne di un ufficiale del Battaglione “M” costretta a denudarsi e fucilata a Cesena, sulla piazza principale, dopo essere stata legata ad un albero, ove il cadavere rimase esposto per due giorni e due notti.

De Simone Antonietta: Romana, studentessa del quarto anni di Medicina, fucilata a Vittorio Veneto in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Degani Gina: Assassinata a Milano in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Ferrari Flavia: 19 anni, assassinata l’ 1 maggio 1945 a Milano.

Fragiacomo Lidia, Giolo Laura: Fucilate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme ad altre cinque ausiliarie non identificate, dopo una gara di emulazione nel tentativo di salvare la loro comandante.

Gastaldi Natalia: Assassinata a Cuneo il 3 maggio 1945.

Genesi Jole, Rovilda Lidia: Torturate all’hotel San Carlo di Arona (Novara) e assassinate il 4 maggio 1945. In servizio presso la GNR di Novara. Catturate alla Stazione Centrale di Milano, ai primi di maggio, le due ausiliarie si erano rifiutate di rivelare dove si fosse nascosta la loro comandante provinciale.

Greco Eva: Assassinata a Modena assieme a suo padre nel maggio del 1945.

Grill Marilena: 16 anni, assassinata a Torino la notte del 2 maggio 1945.

Landini Lina: Assassinata a Genova l’1 maggio 1945.

Lavise Blandina: Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.

Locarno Giulia: Assassinata a Porina (Vicenza) il 27 aprile 1945.

Luppi – Romano Lea: Catturata a Trieste dai partigiani comunisti, consegnata ai titini, portata a a Lubiana, morta in carcere dopo lunghe sofferenze il 30 ottobre 1947.

Minardi Luciana: 16 anni di Imola. Assegnata al battaglione “Colleoni” della Divisione “San Marco” attestati sul Senio, come addetta al telefono da campo e al cifrario, riceve l’ordine di indossare vestiti borghesi e di mettersi in salvo, tornando dai genitori. Fermata dagli inglesi, si disfa, non vista, del gagliardetto gettandolo nel Po. La rilasciano dopo un breve interrogatorio. Raggiunge così i genitori, sfollati a Cologna Veneta (VR). A metà maggio, arriva un gruppo di partigiani comunisti. Informati, non si sa da chi, che quella ragazzina era stata una ausiliaria della RSI, la prelevano, la portano sull’argine del torrente Guà e, dopo una serie di violenze sessuali, la massacrano. “Adesso chiama la mamma, porca fascista!” le grida un partigiano mentre la uccide con una raffica.

Monteverde Licia: Assassinata a Torino il 6 maggio 1945.

Morara Marta: Assassinata a Bologna il 25 maggio 1945.

Morichetti Anna Paola: Assassinata a Milano il 27 aprile 1945.

Olivieri Luciana: Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.

Ramella Maria: Assassinata a Cuneo il 5 maggio 1945.

Ravioli Ernesta: 19 anni, assassinata a Torino in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Recalcati Giuseppina, Recalcati Mariuccia, Recalcati Rina: Madre e figlie assassinate a Milano il 27 aprile 1945.

Rigo Felicita: Assassinata a Riva di Vercelli il 4 maggio 1945.

Sesso Triestina: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.

Silvestri Ida: Assassinata a Torino l’1 maggio 1945, poi gettata nel Po.

Speranzon Armida: Massacrata, assieme a centinaia di fascisti nella Cartiera Burgo di Mignagola dai partigiani di “Falco”. I resti delle vittime furono gettati nel fiume Sile.

Tam Angela Maria: Terziaria francescana, assassinata il 6 maggio 1945 a Buglio in Monte (Sondrio) dopo aver subito violenza carnale.

Tescari -Ladini Letizia: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.

Ugazio Cornelia, Ugazio Mirella: Assassinate a Galliate (Novara) il 28 aprile 1945 assieme al padre.

Tra le vittime del massacro compiuto dai partigiani comunisti nelle carceri di Schio (54 assassinati nella notte tra il 6 ed il 7 luglio 1945) c’erano anche 19 donne, tra cui le 3 ausiliarie (Irma Baldi, Chiettini e Blandina Lavise) richiamate nell’elenco precedente. In via Giason del Maino, a Milano, tre franche tiratrici furono catturate e uccise il 26 aprile 1945. Sui tre cadaveri fu messo un cartello con la scritta “AUSIGLIARIE”. I corpi furono poi sepolti in una fossa comune a Musocco. Impossibile sapere se si trattasse veramente di tre ausiliarie. Nell’archivio dell’obitorio di Torino, il giornalista e storico Giorgio Pisanò ha ritrovato i verbali d’autopsia di sei ausiliarie sepolte come “sconosciute”, ma indossanti la divisa del SAF. Cinque ausiliarie non identificate furono assassinate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme a Lidia Fragiacomo e Laura Giolo. Al cimitero di Musocco (Milano) sono sepolte 13 ausiliarie sconosciute nella fossa comune al Campo X. Un numero imprecisato di ausiliarie della “Decima Mas” in servizio presso i Comandi di Pola, Fiume e Zara, riuscite a fuggire verso Trieste prima della caduta dei rispettivi presidi, furono catturate durante la fuga dai comunisti titini e massacrate. Fonte: "ausiliarie.blogspot.it".

O Bella Ciao, ovvero le gesta eroiche della resistenza. Il massacro dei carabinieri della centrale idroelettrica di Bretto. Avvelenati, torturati e tagliati a pezzi. Sorpresi nel sonno, avvelenati, torturati ed infine tagliati a pezzi. Fu questo il tragico destino di ben dodici giovani Carabinieri, catturati dai partigiani alle Cave dei Predil, nell’alto Friuli. I Carabinieri costituivano un presidio a difesa della centrale idroelettrica di Bretto. Il 23 Marzo 1945 i partigiani presero in ostaggio il Vicebrigadiere Dino PERPIGNANO, comandate dei presidio che stava rientrando negli alloggiamenti, sotto la minaccia delle armi, lo costrinsero a pronunciare la parola d’ordine e, con facilità, una volta entrati nel presidio, catturarono tutti i Carabinieri, gia in parte addormentati. Dopo il saccheggio, i dodici militari furono deportati nella Valle Bausizza e rinchiusi in un fienile dove fu loro servito un pasto nel quale era stata inglobata soda caustica e sale nero. Affamati, inconsciamente mangiarono quanto gli era stato servito, ma, dopo poco, le urla e le implorazioni furono raccapriccianti e tremende. Erano stati avvelenati e la loro agonia si protrasse fra atroci dolori per ore ed ore. Stremati e consumati dalla febbre, Pasquale RUGGIERO, Domenico DEL VECCHIO, Lino BERTOGLI, Antonio FERRO, Adelmino ZILIO, Fernando FERRETTI, Ridolfo CALZI, Pietro TOGNAZZO, Michele CASTELLANO, Primo AMENICI, Attilio FRANZON, quasi tutti ventenni (e mai impiegati in altri servizi tranne quello a guardia della centrale, cui erano stati sempre preposti), furono costretti a marciare fra inesorabili ed inenarrabili sofferenze ed insopportabili sacrifici fino a Malga Bala ove li attendeva una fine orribile. Il Vicebrigadiere PERPIGNANO fu preso e spogliato; gli venne conficcato un legno ad uncino nel nervo posteriore dei calcagno ed issato a testa in giù, legato ad una trave; poi furono incaprettati. A quel punto, i macellai partigiani, cominciarono a colpire tutti con i picconi: a qualcuno vennero asportati i genitali e conficcati in bocca, a qualche altro fu aperto a picconate il cuore o frantumati gli occhi. All’AMICI venne conficcata nel cuore la fotografia dei suoi cinque figli mentre il PERPIGNANO veniva finito a pedate in faccia ed in testa. La “mattanza” terminava con i corpi dei malcapitati legati col fai di ferro e trascinati, a mo’ di bestie, sotto un grosso masso. Ora le misere spoglie di questi Carabinieri Martiri/Eroi riposano, dimenticati dagli uomini, dalla storia e dalle Istituzioni, in una torre medievale di Tarvisio le cui chiavi sono pietosamente conservate da alcune suore di un vicino convento. Si scoprì in seguito, che l’eccidio fu consumato dalle bande partigiane filo-slave a Malga Bala, sulle montagne del Friuli. Fonte: "Dietro le quinte".

Sassuolo, una delle tante stragi effettuate dai partigiani censurata dalle Istituzioni, scrive "Imola Oggi" il 24 aprile 2016. Sassuolo – Una delle tante stragi effettuate dai partigiani nel dopoguerra, totalmente censurata dalle Istituzioni e dagli organi d’informazione “democratici”, di Modena e Reggio. A Sassuolo, nel tardo pomeriggio del 23 aprile 1945 cessavano gli ultimi combattimenti tra tedeschi, che s’andavano addossando sulla sponda del Secchia nel tentativo di attraversarlo, e Alleati che premevano da Sud. I partigiani, moltiplicatisi negli ultimi mesi, si cimentavano alla caccia di tedeschi in fuga e lo testimonierà Ermanno Gorrieri, il partigiano Claudio: “Parte di coloro che impugnavano le armi contro i tedeschi in fuga, erano persone che non avevano praticamente mai fatto niente o quasi niente nel movimento di Resistenza. Non a caso la gente, più tardi li chiamerà ‘i partigiani della domenica’ o ‘del lunedì’ – a seconda della zona – cioè i partigiani entrati in azione solo il giorno della liberazione”. Ma il comandante Claudio dirà anche che “sarebbero esplosi odii e vendette, insanguinando ancora una volta la terra emiliana”. Accadde che quello che restava di un Reparto della Divisione San Marco, arresosi in quel 23 aprile, fu eliminato in modo atroce a Sassuolo, nel cortile del Palazzo Ducale. Una cinquantina di questi prigionieri, fra i quali v’era qualche tedesco, subì una fine raccapricciante, venuta alla luce attraverso la testimonianza d’un ufficiale dell’esercito brasiliano, tra i primi contingenti entrati a Sassuolo e non dal parroco che pure vi assistette, don Zelindo Pellati. Da parte degli esecutori non trapelò, ovviamente, mai nulla e ufficialmente quelle estreme sevizie, non sarebbero mai avvenute. Quei prigionieri furono torturati anche con enucleazione degli occhi e poi uccisi per strangolamento. L’ufficiale in questione era Agostino Josè Rodrigues e la testimonianza è nel suo libro Terzo battaglione (Terceiro batalhao), edito nel 1985, quattordici anni prima che le salme di quegl’infelici fossero scoperte nello stesso luogo da lui indicato: “La piazza dove c’è la chiesa”. Ecco il brano: “Sassuolo segna il nostro primo incontro con la guerriglia partigiana del Nord Italia, uomini coraggiosi ma spietati. Hanno aiutato la causa degli Alleati durante gli anni dell’occupazione tedesca nella regione. Ed ora sono ancor più decisi nell’attaccare senza pietà il nemico. Come Castelvetro, Sassuolo è una pulita piccola città, un piacere per i nostri occhi. La piazza principale, dove è situata la chiesa, segna anche la nostra prima visione di esecuzioni sommarie. Ne avevamo già sentito parlare. Uomini uccisi con delle corde strette intorno al collo. E’ la vendetta imposta ai fasciste dai partigiani. Ci sono molti comunisti tra i partigiani. Ho visto un gruppo di questi con delle bandiere rosse. Dovunque essi vadano compiono esecuzioni sommarie. I partigiani si giustificano dicendo che si tratta di “traditori del popolo”. Ecco perché le camicie nere e i soldati tedeschi iniziano ad arrendersi a noi brasiliani. Sono terrorizzati dalla furia omicida di questi implacabili cacciatori”. Non solo le prime truppe brasiliane entrate a Sassuolo, ma anche il parroco della chiesa di San Giorgio, don Pellati, assistettero alla strage; il sacerdote aveva raccolto i documenti e gli effetti personali di quei disgraziati. Unico testimone di parte neutra egli preferì tuttavia, e fu pusillanime, non divulgare lo scempio cui assistette, né trascriverlo, come avrebbe dovuto, sul libro delle anime, cosicchè esso rimase sconosciuto e inedito fino al 1998, allorquando, durante gli scavi nel cortile del Palazzo Ducale, emersero quei resti. Il giorno del massacro può essere indicato nella settimana compresa tra il 24 aprile ed il primo maggio ’45. I partigiani che entrarono a Sassuolo discendevano dalle località di Casalgrande, Fiorano, Castellarano e Magrete e facevano parte tutti di formazioni comuniste. Il 25 aprile entrò a Sassuolo anche la formazione comandata da Achille, al secolo Giuseppe Ferrari (1919–2013) che con l’incarico di ‘occuparsi’ dei prigionieri, vi rimase almeno una settimana. Lo stesso Palazzo Ducale era divenuto sede di distaccamenti partigiani tra i quali risulta anche la Brigata Stoppa. Nel ’49 la Questura di Modena arrestò l’ex partigiano comunista Domenico Cavalli di Sassuolo: si voleva che rivelasse qualcosa, ma non parlò e fu rimesso in libertà. Nel ’98, all’indomani della scoperta della fossa comune, l’Associazione dei reduci della Divisione Fanteria San Marco presentò denuncia contro ignoti per il reato di strage. La strage di Sassuolo andrà a far parte dell’aneddotica resistenziale di revisione, la quale chiarendo fatti marginali darà rilievo alla storiografia, passo obbligato per raggiungere la Storia. Scriveva Renzo de Felice, l’autorevole storico di sinistra: “tutto quanto detto e scritto sul fascismo è falso, perché la sinistra politica ha nascosto tante verità, tanti delitti, tante vergogne partigiane”. In alcune pagine del citato libro di Bocca, Il Provinciale, si coglie il clima che regnava a Sassuolo nei primi mesi della liberazione. In un imprecisato giorno di maggio egli giunse a Sassuolo e andò alla Camera del lavoro ove trovò riuniti diversi partigiani. Gli dicono – “Di ben so giurnalesta, ma il tuo giornale è un po’ fazista. Quando la finite di menarla con il triangolo della morte”? Qualcuno mi guarda duro, ma mi lasciano andare. Esco da Sassuolo diretto a Formigine e sento dietro il rombo d’una motocicletta. E’ uno di quelli che mi sfottevano, ma adesso mi guarda da amico: – “Scolta me – dice – non passare per Formigine, ti aspettano all’uscita del paese”. (Tratto dal saggio storico sulle atrocità partigiane: “I GRANDI KILLER DELLA LIBERAZIONE” del Prof. Gianfranco Stella).

Le ultime ore di vita di Benito Mussolini in anteprima al Torino Film Festival. La pellicola è una sorta di quello che oggi viene chiamato docufilm, ricostruzione di un fatto reale con attori, scrive Adriano Palazzolo Lunedì 23/11/2015 su "Il Giornale". Gli ultimi minuti vissuti da Benito Mussolini e Claretta Petacci, prima di essere fucilati. È una storia inedita, raccontata per la prima volta da chi visse in prima persona quei momenti dell'aprile 1945, "Tragica alba a Dongo", il cortometraggio di Vittorio Crucillà presentato oggi in anteprima al Torino Film Festival. Girato nel 1950, il cortometraggio venne bloccato dalla censura e mai distribuito. Ritenuto perso per decenni, è stato ritrovato in una cantina austriaca dai proprietari, la famiglia Paternò di Pinerolo, e restaurato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino presso il laboratorio L'Immagine Ritrovata di Bologna. "Un documento storico, straordinario ed emozionante, che abbiamo restaurato per il suo grande valore di testimonianza", sottolinea il direttore del Museo del Cinema, Alberto Barbera. Una produzione semi-amatoriale, della durata di 38 minuti, girato dal giornalista Vittorio Crucillà, che di cinema ne sapeva poco. "Il suo intento - spiega lo storico Giovanni De Luna - era raccontare un fatto su cui il governo italiano non amava soffermarsi. Andreotti lo bloccò con la censura per ben tre volte. Senza contare che anche la famiglia di Mussolini si era opposta. E così aveva fatto pure il Comune di Dongo, nel comasco, per non venir tacciato di efferatezza". la pellicola è una sorta di quello che oggi viene chiamato docufilm, ricostruzione di un fatto reale con attori. Alcuni di questi ultimi sono gli stessi partigiani che bloccarono il convoglio tedesco che trasportava Mussolini, oltre ai coniugi Di Maria nel cui casolare Mussolini e la Petacci vennero rinchiusi a poche ore dalla morte. I loro primi piani arrivano al cuore dello spettatore di oggi: non dicono una parola, si muovono come degli automi, quasi incapaci di cogliere la grandezza di quelle ore.

Il docufilm (censurato) sulle ultime ore del Duce. "Tragica Alba a Dongo" fu girato nel 1950 con testimoni diretti. E bloccato più volte, scrive "Il Giornale" Martedì 24/11/2015. Si pensava che fosse ormai perduto, un documentario semi-amatoriale inedito, una testimonianza sulle ultime ore di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Ieri Tragica Alba a Dongo è stato presentato al Torino Film Festival, recuperato e completamente restaurato: un cortometraggio di 38 minuti, girato da Vittorio Crucillà nel 1950, che è dedicato proprio alla fine del Duce, agli ultimi momenti sul lago di Como fra il 27 e il 28 aprile del 1945. Il documentario di Crucillà fu fermato dalla censura più volte: «Fu Andreotti a bloccarne la distribuzione, e a più riprese: nel 1950, nel 1953 e ancora negli anni '60» ha spiegato il direttore del Museo nazionale del Cinema di Torino Antonio Barbera. La motivazione, ogni volta, era la stessa: «C'è il rischio di danneggiare moralmente l'immagine del Paese». Perciò gli italiani non hanno mai potuto vedere questo cortometraggio in bianco e nero, che ricostruisce «artigianalmente» gli ultimi episodi della vita di Mussolini, attraverso riprese nei luoghi reali e attori non professionisti: alcuni testimoni degli eventi; altri sono gli stessi partigiani che bloccarono il convoglio tedesco che trasportava il Duce; poi i coniugi Di Maria, proprietari del casolare in cui Mussolini e la Petacci furono rinchiusi prima della morte. Immagini (incluse quelle della fucilazione) che la censura ha considerato, per anni, troppo forti; perfino il comune di Dongo si era opposto alla distribuzione del cortometraggio, per non essere accusato di «efferatezza». Insomma Crucillà, che era un giornalista e non un regista, era riuscito a scontentare tutti: «Il suo intento era raccontare un fatto su cui il governo italiano non amava soffermarsi - ha aggiunto lo storico Giovanni De Luna - Anche la famiglia di Mussolini si era opposta». Dato ormai per perso, il «docufilm» di Crucillà è stato ritrovato in una cantina austriaca di proprietà della famiglia Paternò di Pinerolo e poi restaurato dal Museo nazionale del cinema di Torino, presso il laboratorio L'Immagine ritrovata di Bologna.

"Ecco come ho trovato il Diario inedito del Duce". Il direttore di Storia In Rete spiega in che modo è venuto in possesso di un'agenda del 1942. E perché è plausibile considerarla copia fedele di un originale, scrive Luca Gallesi Sabato 27/06/2015 su "Il Giornale". A settant'anni dalla morte, «il più grande statista del secolo» (copyright Gianfranco Fini) sembra emergere anche come il più prolifico scrittore del '900: oltre ai 45 volumi della sua Opera Omnia, di Benito Mussolini vanno conteggiati i carteggi con Churchill e numerosi diari (veri o presunti) che periodicamente vengono scoperti, compresi quelli riportati dal numero di Storia In Rete oggi in edicola. Il direttore Fabio Andriola spiega di cosa si tratta.

Che origine ha il Diario del Duce pubblicato dal mensile da Lei diretto?

«Appartiene a un collezionista svizzero che l'ha acquistato anni fa da un venditore italiano che non ha nulla a che vedere - mi assicurano - con la persona che vendette altre presunte agende mussoliniane a Marcello Dell'Utri. Probabilmente, proviene dalla diaspora di documenti in possesso della famiglia Panvini cui, pare, vennero affidati dal ministro degli interni della RSI, Paolo Zerbino, poi fucilato a Dongo. Il punto è stabilire se si tratta di un documento originale o di un falso. E, in questo secondo caso, di che tipo di falso: un documento completamente inventato oppure una copia più o meno fedele di un originale?».

Perché il Diario è plausibile?

«Dando per scontato che difficilmente si potrà arrivare a una prova certa in un senso o nell'altro (la storia delle perizie sui Diari è lunga e contraddittoria sia per le perizie tecniche che per quelle che puntano all'analisi interna del testo) ci sono, a mio avviso, alcuni elementi che dovrebbero far riflettere. Uno su tutti: sappiamo che i Panvini fecero fare delle agende degli anni '30 dove poi trascrivere - così dissero fino alla fine - i diari autentici che avevano avuto in custodia. Bene, non solo far fare quelle agende con le precise caratteristiche richieste era costosissimo, ma sarebbe stato inutile fare più copie della stessa annata, visto che per anni si cercò di vendere i diari a vari editori, italiani e stranieri. Che senso poteva avere l'offrire a due diversi acquirenti lo stesso anno? Eppure, per la prima volta nella storia dei Diari di Mussolini, ci troviamo, ora, davanti a due copie dello stesso anno, il 1942: una copia, completa a eccezione delle prime 16 giornate di gennaio, che è quella di cui parla Storia In Rete; e un'altra, di cui abbiamo una dozzina di fotocopie di altrettanti giorni e un testo dattiloscritto. In questo secondo caso, si tratta di materiale offerto in vendita a un quotidiano inglese nel '67 e di probabile provenienza panviniana. Ora, la sorpresa sta nel fatto che, mentre la grafia è evidentemente diversa, i testi coincidono con una particolarità: il testo del diario inedito è più lungo, quello proposto nel '67 è più corto. In pratica il “falsario” non potendo dare alla scrittura la stessa cadenza dell'originale che evidentemente stava copiando, arrivato a fondo pagina e non avendo più spazio per le ultime frasi semplicemente non le trascriveva...».

Che c'è di nuovo nel Diario del '42?

«Più che di novità parlerei di conferme: troviamo un Mussolini sempre più insofferente dei tedeschi, tutt'altro che ottimista sulle sorti della guerra, diffidente verso i suoi, a cominciare da Ciano, ma con un vero e proprio astio per Hitler. È un dittatore ripiegato su stesso che, la notte del 31 dicembre scrive, sottolineandolo: “Ora sotto di me si è aperto il precipizio”».

Cosa differenzia questo Diario dagli altri già pubblicati?

«Dietro questo Diario non ci sono intenti speculativi. Inoltre, a quanto mi risulta, per nessun'altra annata di un diario mussoliniano era mai stata fatta una comparazione su svariate pagine con un'altra copia sicuramente apocrifa. Ed è nelle differenze che indicavo prima che potrebbe esserci quell'errore fatale, “la prova delle prove” che lo stesso De Felice indicava nell'errore del falsario. Un falsario che potrebbe aver avuto di fronte un originale da copiare ma che non sapeva riprodurre fedelmente al 100%, come evidenzia il raffronto tra le due versioni che pubblichiamo. E questo potrebbe portare a riconsiderare anche il materiale pubblicato negli anni passati. Infatti, fra tante teorie abbastanza assurde che si sono accavallate negli anni (dal Mussolini che avrebbe copiato se stesso alla famigliola di Vercelli che si sarebbe scoperta capace di creare ex novo intere annate di diari mussoliniani solo con l'aiuto della biblioteca locale) perché non accettare, almeno come ipotesi, che davvero si provò a copiare qualcosa di già esistente? Da una lettera a un'amica scritta da Amalia Panvini nel '57 emerge lo stupore che la donna aveva provato nel possedere “una cosa di cui nessun altro può pensare di avere il possesso. Di avere una ricchezza che potrebbe sconvolgere la mente a tanti...”. Parole che c'entrano poco con una fredda ed enorme operazione di falsificazione studiata a tavolino».

Perché il Diario è stato nascosto fino ad adesso?

«Ci sono varie ragioni. Una è sicuramente che è in mano a un collezionista e non a uno speculatore, per cui non c'era tutta questa esigenza di pubblicizzarlo. Poi, il riserbo e la scarsa volontà di essere triturato dalla macchina mediatica: la gestione dell'operazione Dell'Utri non è stata particolarmente saggia e ha finito per gettare, oggettivamente, ulteriore discredito e scetticismo su una vicenda che già aveva inanellato diverse “cadute” dagli anni '50. Ma la cosa più curiosa è che, a differenza di altre carte mussoliniane, nessuno contesta che i diari di Mussolini ci siano stati realmente...».

"A NOI!". COSA CI RESTA DEL FASCISMO NELL’EPOCA DI BERLUSCONI, GRILLO E RENZI. Nella lingua italiana c’è una parola che, da più di novant’anni, non è mai passata di moda: “fascismo”. Definisce il Ventennio di Mussolini da cui, già nel ’45, abbiamo preso espressamente le distanze. Eppure da allora non abbiamo mai smesso di utilizzare l’aggettivo “fascista” per bollare uomini politici, movimenti, ma anche gruppi sociali e persino comportamenti comuni. In questo saggio, Tommaso Cerno parte da una semplice osservazione linguistica per riflettere sull’Italia di oggi. Perché continuiamo a usare un termine legato a un periodo storico ormai morto e sepolto? Vuol forse dire che qualcosa, di quel periodo, è rimasto nel modo di essere di noi italiani? Unendo analisi storica e interpretazione dell’attualità, Cerno va alla ricerca di figure carismatiche, scelte politiche e fenomeni sociali che mostrino una matrice comune con l’era del Duce. È solo un caso che Craxi e Berlusconi, come Mussolini, abbiano frequentato una scuola religiosa per poi concludere gli studi in un istituto laico? E, ancora scavando nelle vite dei nostri leader, cosa possiamo capire dal loro rapporto con mogli e amanti? Ma l’analisi di Cerno non si ferma alle biografie: interpreta gli stili di comunicazione, dai comizi al balcone del Duce agli hashtag di Renzi; sfata l’idea che certi comportamenti siano tipici del nostro tempo (che cosa successe dopo il terremoto nel Vulture del 1930? E dopo quello dell’Aquila nel 2009?); individua pregiudizi e forme di discriminazione che portano dal Ventennio all’affare Boffo. E che dire dei disinvolti ribaltamenti di potere, dalla notte del Gran Consiglio del Fascismo a #enricostaisereno? Basato su un’accurata ricerca storica, ma raccontato con ritmo battente, A noi! è un’acuta e originalissima lettura della nostra Storia e del nostro presente. Che ci fa capire chi siamo stati, chi ci ha governato e ci governa. E soprattutto chi siamo, noi italiani.

Ecco "A noi!" di Tommaso Cerno, la storia degli italiani eterni conformisti: dentro di noi il dna del duce. Tommaso Cerno e il popolo del tricolore: sensibile al richiamo dell’uomo forte pronto a rottamare, a predicare bene e razzolare male, soprattutto a non cambiare, scrive Bruno Manfellotto su “Il Messaggero Veneto” il 19 novembre 2015. Esce in libreria “A noi!” (240 pagine, 19 euro) il libro di Tommaso Cerno che indaga sui conformismi della società italiana e s’interroga su “cosa ci resta del fascismo nell’epoca di Berlusconi, Grillo e Renzi”. "Un fascistello dormicchia in noi. Subdolo e silente. Ma pronto a saltare fuori quando c’è da prendere posizione, partecipare a una svolta politica o di costume. Perché a quel punto ecco l’irresistibile richiamo dell’uomo forte, dell’urlo della piazza, della rottamaziome di massa. E non basta. C’è qualcosa di piú profondo nel Dna dell’Italietta e che, per esempio, l’ha fatta essere dall’oggi al domani tutta fascista e poi tutta antifascista: il conformismo. L’essere italiani, insomma, prevale su qualunque scelta di campo e la precede, la giustifica, la rende possibile. In un turbinìo di luoghi comuni che ben fotografano l’italico carattere: o Francia o Spagna purché se magna, saltare sul carro del vincitore, predicare bene e razzolare male, si fa ma non si dice...Per raccontare la stagione in cui ci è dato vivere, interpretarne gli umori e trovare un filo che ne leghi le vicende, Tommaso Cerno - giovane e sensibile cronista del dramma Englaro, poi giornalista politico dell’Espresso con brillanti incursioni in tv e oggi direttore del Messaggero Veneto - ha scelto una strada volutamente provocatoria, ma certamente illuminante. Che si fonda su una tesi netta: dal Ventennio gli italiani non sono cambiati, si comportano piú o meno allo stesso modo, e germi del fascismo che ha segnato drammaticamente la nostra storia e condizionato istituzioni, costume, economia, sono arrivati pari pari da allora a oggi, a noi, come con doppio rimando recita il titolo di un pamphlet che deve molto a Longanesi e a Flaiano (“A noi!”, Rizzoli editore). Certo, Cerno sta bene attento a distinguere: c’è stato il fascismo storico, «la dittatura, le leggi razziali, la guerra, i drammi umani e le sciagure militari»; e l’altro, che in questo caso lo interessa di piú perché oggetto della sua indagine: il fascismo degli italiani «un po’ opportunisti che di fronte all’uomo forte salvarono guicciardianamente il proprio “particulare” e si schierarono in un batter d’occhio». E continueranno a fare cosí: «Siamo un popolo di fascisti tra i fascisti, democratici fra i democratici, bigotti fra i bigotti. Siamo un popolo di conformisti», osserva amaramente Cerno che per dare spessore alla sua tesi ripercorre i momenti salienti della piú recente politica italiana. Evidenziando caratteri che si ripetono simili, pur se via via adattati, nei protagonisti di ieri e di oggi. Prendiamo quella certa voglia di decisionismo che percorre da sempre il sogno nascosto degli italiani parallelamente a quello di liberarsi di ogni personale responsabilità. A ben vedere, nota Cerno, c’è un filo che lega l’uomo «delle decisioni irrevocabili» e che voleva fare della Camera un bivacco per i suoi manipoli, il Bettino Craxi che entra a gamba tesa nel teatrino della politica italiana consociativa e compromissoria, il Silvio Berlusconi che s’immagina amministratore delegato dell’Azienda Italia e non convocherà mai un congresso di partito, e il Matteo Renzi che scala il Pd e mette in discussione i poteri costituti di parlamentari e sindacalisti. E l’antipolitica che diventa essa stessa una politica? In fondo, il primo Mussolini fece piazza pulita del linguaggio e del ceto politico d’inizio Novecento; Craxi debuttò liberandosi di parole e ambiguità e finirà processando un Parlamento per mendacio e ipocrisia; Berlusconi ha portato “in campo” i funzionari di Publitalia e Renzi, addirittura, è diventato segretario e premier promettendo la “rottamazione”. E si potrebbe andare avanti, come Cerno fa alla ricerca di una continuità che non registra cesure, proprio come nella pubblica amministrazione e nella magistratura nell’immediato dopoguerra: il delitto politico da Matteotti a Moro; le bombe dal Teatro Diana a Piazza Fontana; le ruberie e la corruzione da famiglie e gerarchi del Regime a Mafia Capitale; i nani e le ballerine dai convegni privati nella sala del Mappamondo al bunga-bunga di Arcore; la violenza del linguaggio razzista, xenofobo, omofobo dai cori della milizia alle piazze di Grillo e Salvini. Fino al trasformismo e al tradimento, cuore dell’italianità, stigmate che ci accompagna da Ciano a Scilipoti. Insomma - è la tesi di questo saggio sincero, dolente e divertente - c’è almeno un elemento comune tra la fine di Mussolini, la caduta di Berlusconi e la defenestrazione di Enrico Letta: le grandi svolte, scrive Cerno, mancano di pathos, avvengono nel Palazzo, ieri per ordini del giorno ieri oggi via tweet, mai per volontà popolare; e i toni sono non da dramma shakespeariano, ma pirandelliano. Dopo di che, gli italiani sono «oggi fascisti, domani antifascisti. Tutti democristiani, poi tutti anti-sistema. E ancora berlusconiani, renziani. In pratica, i soliti equilibristi». Una conclusione amara? Forse sí, ma se non si esagera un po’, non si riflette a fondo. E non si cambia.

Gli italiani? Sono fascisti dentro. Il nuovo libro di Tommaso Cerno in uscita in questi giorni, racconta come la mentalità del Ventennio sia ancora oggi diffusa nella politica, nella società, nella cultura del nostro Paese, scrive Tommaso Cerno il 20 novembre 2015 su “L’Espresso”. Pubblichiamo l’introduzione del libro di Tommaso Cerno, “A noi”, in libreria dal 20 novembre (Rizzoli, pp. 310, € 19). Si dice che un bambino nasca con la camicia, quando viene alla luce avvolto nel sacco amniotico. Quel sacco sembra un abito, cucito addosso durante i nove mesi dentro il ventre di mamma. E noi di chi siamo figli? L’Italia in cui viviamo, l’Italia del nostro Ventennio, quello che chiamiamo l’epoca di Berlusconi e Renzi, è nata con la camicia? Proviamo ad azzardare un’ipotesi: l’Italia è nata con la camicia nera. Proprio così, fasciata nel sacco amniotico del fascismo, da cui cerca a fatica di liberarsi da settant’anni, senza riuscirci davvero. Nel dopoguerra la retorica antifascista può avere dato l’impressione di un taglio netto con i vent’anni precedenti, ma come il “politicamente corretto” non cancella il razzismo, non ridà la vista a un cieco chiamandolo non vedente, l’affermazione di essere antifascista, per quanto eticamente giustificabile, non basta a cancellare ciò che del fascismo è dentro di noi. Dentro di noi perché italiano come noi, forse più di noi. In tutto il corso della sua storia, il fascismo fu senza dubbio un fenomeno rivoluzionario, giovanile, si direbbe oggi “rottamatore”. Mussolini contribuì a ringiovanire l’Italia, a partire dalla sua classe politica, così come consentì per la prima volta nella storia del nostro Paese ai ceti medi di entrare nelle stanze del potere. Questo significa che ebbe un legame con il Paese molto più radicato, profondo, osmotico di quanto si pensi. Un legame possibile solo quando c’è un collante. E questo collante viene proprio dall’essenza dell’italiano, dalle radici del nostro modo di essere, dal nostro rapporto con il potere, da ciò che non muta sulla nostra penisola al di là del regime o del governo, più o meno democratico, che ci capita di eleggere o di contestare. Impegnati come siamo a ripeterci che il fascismo è finito, oppure che si manifesta solo nei simboli esplicitamente esibiti del regime, dentro i partiti dell’ultradestra xenofoba, che alzano le croci celtiche nelle manifestazioni, non ci rendiamo conto di una cosa: quei militanti postfascisti sono riconoscibili prima ancora che espongano il proprio pensiero, mentre il fascismo del Ventennio fu un grande movimento di massa. Se ci ostiniamo a cercare il fascismo lì dove è fin troppo facile trovarlo, non facciamo altro che insistere nel non vedere. E perché lo facciamo? Perché abbiamo paura di ritrovarlo dove non ce lo aspettiamo più, nel nostro modo di essere quotidiano, nei nostri difetti di Paese, nel nostro sistema politico e sociale. Annidato là dove sempre è stato, nell’angolo buio della Repubblica che preferisce puntare i fari altrove, dove sa che fascismo non se ne vedrà. Riflettiamo su un fenomeno mediatico di questi ultimi settant’anni. Ancora oggi se accendiamo il televisore e ci sintonizziamo su un dibattito politico, sentiamo spesso ripetere come un ritornello: «Siete fascisti!». Si ascolta così tante volte, da essere assaliti dalla curiosità di capire perché. Un giorno il fascista in questione è Matteo Renzi, tacciato di metodi spicci da destra e da sinistra, addirittura da una parte del suo stesso partito, il Partito Democratico; il giorno appresso, invece, ci si riferisce a Silvio Berlusconi, accusato di avere addormentato il Paese come un nuovo Duce, di averlo assopito in una sorta di Ventennio che potremmo definire, piuttosto che regime dal volto umano, regime dal mezzobusto umano, trattandosi di un’anestesia televisiva pressoché totale. Questa anestesia, però, ha generato la propaganda di governo, come tutti i regimi democratici e non, ma ha generato anche i suoi anticorpi: l’antiberlusconismo militante. Un terzo giorno l’epiteto di fascista è attribuito alle epurazioni del Movimento 5 Stelle e a Beppe Grillo, accusato di essere l’uomo solo che decide per tutti, quando il tal deputato è espulso dal gruppo parlamentare perché “ribelle” alla linea ufficiale. Fino a Matteo Salvini, il leader leghista dell’era post-bossiana, il quale, abbandonato il divino Po e la sacra ampolla, si fa crescere la barba e si reinventa una specie di marcia su Roma per allargare il consenso, ormai troppo stringato, del suo Nord. La morale è che, almeno a parole, qui siamo tutti fascisti, destra e sinistra, alti e bassi, belli e brutti. Saremo anche il Paese delle generalizzazioni, ma c’è davvero da chiedersi cosa stia capitando a noi italiani. Perché, all’improvviso, ci accusiamo l’un l’altro di fascismo? Perché dopo la fine del regime, dopo l’epopea della Resistenza, dopo sette decenni di democrazia quella parola torna sulle labbra di tutti noi, usata con sufficienza, con disinvoltura? Forse perché il 1945, la data che mette fine ai regimi fascista e nazista in Europa, non è una data che l’Italia abbia davvero digerito. Certo sul piano ufficiale, nei proclami, nelle affermazioni di principio, così come nella retorica di Stato, il fascismo è morto e sepolto, giace sotto strati e strati di antidoto costituzionale, democratico, parlamentare. Eppure, nella vita di tutti i giorni, nel profondo degli italiani, la censura del modus vivendi mussoliniano non corrisponde affatto a una cesura, perché molti atteggiamenti del regime - che già provenivano dal passato - si sono conservati, pur con i naturali ammodernamenti, nel futuro: pensiamo ad esempio all’Italia bigotta e bacchettona che fa e non dice, al maschilismo diffuso in tutte le fasce sociali. Pensiamo alla distanza fra regole scritte e regole davvero applicate. Pensiamo all’usanza politica del dossier, all’insabbiamento dei misteri di Stato, alla corruzione come sistema di governo, all’utilizzo dell’informazione come macchina per controllare l’opinione pubblica prima ancora che per informarla, alle regole non scritte delle gerarchie comuniste del dopoguerra, dove il valore della “fedeltà coniugale” garantiva la scalata ai vertici del Pci (Partito Comunista Italiano) proprio come del Pnf (Partito Nazionale Fascista). Per arrivare, infine, all’uomo forte, al leaderismo craxiano, berlusconiano, renziano, incarnazioni del bisogno primario di un capo. Sono solo coincidenze? No, siamo nati davvero con la camicia nera. C’è un filo conduttore che unisce il fascismo “a noi”, proprio come era il saluto ai tempi del Duce. A noi del fascismo è giunto più di quello che vogliamo ammettere. Un’eredità che arriva dritta nell’epoca di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Un’eredità che non si manifesta nell’esibizione di simboli e bandiere, ma nei piccoli gesti, nei modi di pensare, nelle abitudini malate del nostro Paese che non mutano con i governi. Abitudini che ritroviamo nel fascismo di Benito Mussolini, nei risvolti del regime e del carattere del Duce che facevano del fascismo e del suo capo, prima ancora che una dittatura e un dittatore, un modello d’Italia e di italiano, simili nei difetti al popolo. Difetti che non sono scomparsi, sono solo mutati di sembianza. E che ritroviamo ancora oggi. Se sappiamo dove andare a cercarli.

E LA CHIAMANO DEMOCRAZIA…

Putin: “Stalin era un criminale comunista, stop alle celebrazioni”, scrive Girolamo Fragalà il 6 maggio 2015 su “Secolo D’Italia”. Nella Russia di Putin non c’è posto per Stalin, considerato un criminale comunista. Qualunque celebrazione pubblica della figura di Stalin «è inaccettabile e dovrebbe essere vietata per legge». La colossale parata militare nella piazza Rossa volta pagina. La ong russa Memorialchiede di mettere al bando ogni manifestazione mirata a esaltare il sanguinario dittatore sovietico e denuncia nuovi tentativi di rendergli omaggio da parte di comunisti e nostalgici dell’Urss. La svolta: ha seminato terrore, niente statue e vie. Ma l’ombra di Stalin si allunga minacciosa. Quasi 60 anni dopo l’inizio del processo di destalinizzazione voluto da Krusciov, il “padre di tutti i popoli” continua a essere oggetto di culto per alcuni russi. E secondo un recente sondaggio del centro demoscopico Levada il 45% della popolazione ritiene che i sacrifici sostenuti durante lo stalinismo siano stati giustificati dai “grandi obiettivi” dell’Urss: una quantità nettamente maggiore rispetto al 27% registrato nel 2008. A incoraggiare questa tendenza è anche la nuova ondata di nazionalismo che sta attraversando la Russia dopo l’annessione della Crimea un anno fa riportando a galla antiche aspirazioni imperialiste. Con la differenza che ora al posto di falce e martello c’è l’aquila bicipite russa.  Putin: Stalin ha causato la morte di milioni di persone. Vladimir Putin ha preso più volte le distanze dal responsabile del terrore rosso che ha causato la morte di milioni di persone. L’unico elemento positivo, secondo il leader russo, è l’aver trasformato l’Unione sovietica in una grande potenza mondiale. Putin continua a contrastare i nostalgici comunisti russi che propongono vie dedicate a Stalin a Mosca, a San Pietroburgo e a Nizhni Novgorod, e nelle scorse settimane nella capitale, in via Pliushika, è spuntato un enorme striscione (poi rimosso) con una foto del dittatore e lo slogan “Gloria eterna ai vincitori”. A Ussurijsk, nell’estremo oriente russo, il 30 aprile è stata addirittura installata una lapide per rendere omaggio a Stalin. E lo scorso febbraio a Yalta – nell’ormai russa Crimea – per ricordare la storica Conferenza è stata inaugurata in pompa magna una gigantesca statua in bronzo di una decina di tonnellate raffigurante Stalin, Churchill e Roosevelt: i tre capi di Stato dei principali paesi Alleati (Urss, Gb e Usa) contro il nazismo che dal 4 all’11 febbraio 1945 si spartirono di fatto l’Europa in sfere d’influenza. «Erigere un monumento con la figura di Stalin è sacrilego», denuncia l’organizzazione Memorial, fondata dal premio Nobel per la pace Andrei Sakharov per preservare la memoria delle vittime delle repressioni sovietiche. «Naturalmente – spiega – non si tratta di cancellare Stalin dalla storia o di vietare di menzionarne il nome, ma il posto che spetta ai dittatori è nelle sale dei musei, nei manuali, nei saggi storici, non nelle piazze delle città». Pagine di storia che grondano sangue, ma intanto in Russia c’è ancora chi pretende di tornare a chiamare Volgograd con l’antico nome di Stalingrado che gli fu tolto 54 anni fa.

Don Chisciotte tra i bolscevichi, scrive Wlodek Goldkorn su "L'espresso". Comunismo come metafisica, viaggio iniziatico, ma anche come oggetto di indagine semantica e sperimentazione linguistica. C'è tutto questo, e molto di più, in "Cevengur", il travolgente romanzo di Andrej Platonov (traduzione e cura di Ornella Discacciati, Einaudi, pp. 501, euro 26). Platonov, classe 1899, era uno scrittore che aderì al bolscevismo. Ma quando nel 1929 tentò di pubblicare "Cevengur", subì l'anatema di Stalin. Il dittatore non solo ne proibì la pubblicazione, ma mandò nel Gulag il figlio quindicenne di Platonov, che tornò a casa alcuni anni dopo, per morire di tubercolosi. L'opera, in forma parziale, venne stampata per la prima volta in Occidente negli anni Settanta: in Italia per i tipi di Mondadori nella traduzione di Maria Olsufieva. Ai tempi della perestrojka, il romanzo fu pubblicato in versione integrale a Mosca, ed è questa la versione riproposta da Einaudi. Al centro della narrazione ci sono due uomini, che pensano di aderire al bolscevismo e che assomigliano a Don Chisciotte e Sancho Panza. Uno di loro ha per ideale (una specie di Dulcinea) Rosa Luxemburg e il cavallo lo chiama Forza Proletaria. Oltre a quei due, protagonista del racconto è una città, Cevengur, appunto, dove il comunismo è stato realizzato. Ma attenzione, un'altra protagonista del libro è la lingua russa, di cui Platonov era un maestro assoluto (parola di Josif Brodskij), qui resa bene dalla traduttrice. Infine, il vero testo non sta nella progressione del racconto, ma nelle divagazioni: su vita, morte, amore, lavoro e ozio. In altre parole, sulla condizione umana. Un romanzo imprescindibile per capire il Novecento.

Trama. Una città dimenticata da Dio nel cuore della steppa, abitata da uomini inselvatichiti dalla miseria. Ma anche in questo luogo è passata la rivoluzione e ha lasciato sogni e sentimenti sulla nuova società da costruire. Il romanzo di Platonov è la cronaca emozionante, ora tragica, ora comica, di questo momento magico, quando gli ultimi del mondo sembrano diventare i protagonisti della Storia. Gli esiti della rifondazione utopica sono paradossali, bislacchi, votati al disastro, che puntualmente arriverà, ma i personaggi restano nella memoria del lettore con tutto il loro carico di umanità. Uno dei più grandi capolavori della letteratura russa del Novecento, scritto nella seconda metà degli anni Venti ma pubblicato in Russia solo nel 1988, in una nuova edizione integrale accuratamente tradotta.

Autore. Andrej Platonov (1899-1951) è stato, insieme a Bulgakov, il maggiore scrittore russo dell'epoca staliniana. Anch'egli subí continue censure a cui si aggiunsero, a differenza di quanto capitò a Bulgakov, l'arresto e un periodo di confino. A parte alcune opere giovanili, i suoi romanzi e racconti sono stati pubblicati dopo la morte e la riabilitazione, che ottenne in epoca krusceviana. La sua narrativa ha senz'altro un aspetto politico, di smascheramento della retorica del regime comunista, ma allo sgomento politico Platonov abbina «musicali passaggi e immagini di sgomento cosmico», come osservò Ripellino, che ne fanno un grande scrittore tout-court, slegato da ogni contingenza storica, un vero classico. Con il titolo Da un villaggio in memoria del futuro, Cevengur è stato pubblicato in Italia da Theoria, nel 1990, ed è esaurito da molti anni.

Note Editore. Nella nuova traduzione di Ornella Discacciati, torna in libreria il capolavoro di Platonov. Cevengur è una città immaginaria situata nelle steppe della Russia centrale. I suoi abitanti vogliono vivere seguendo i dettami e le regole di un comunismo integrale e puro, ma il risultato è una società bislacca, malriuscita e demenziale, destinata al disastro. Riflessione politica, meditazione sull'incapacità dell'uomo di conciliare desiderio e realtà, specchio paradossale di un sogno irrealizzabile, Cevengur è la cronaca irresistibile e acutissima di una catastrofe. Grazie a un grottesco capovolgimento di prospettiva, Platonov costruisce una vera e propria epica rovesciata della rivoluzione, rappresentando sapientemente un mondo in cui l'unico lavoro consentito è quello improduttivo. Scritto tra il 1926 e il 1929 – anno in cui fu bloccato dalla censura sovietica –, il romanzo racconta con spietata chiarezza i fallimenti del comunismo. Pubblicato postumo nel 1960, Cevengur è diventato un punto fermo nella letteratura dell'anti-utopia e ha definitivamente conquistato un posto d'onore tra i libri piú significativi del Novecento russo.

Il sogno del comunismo e il suo fallimento. Una cronaca «dall'interno», visionaria e dolorosa. Prefazione. Tra utopia, storia e catastrofe, la nuova edizione di un classico della letteratura russa del Novecento. Una città dimenticata da Dio nel cuore della steppa, abitata da uomini inselvatichiti dalla miseria. Ma anche in questo luogo è passata la rivoluzione e ha lasciato sogni e sentimenti sulla nuova società da costruire. Il romanzo di Platonov è la cronaca emozionante, ora tragica, ora comica, di questo momento magico, quando gli ultimi del mondo sembrano diventare i protagonisti della Storia. Gli esiti della rifondazione utopica sono paradossali, bislacchi, votati al disastro, che puntualmente arriverà, ma i personaggi restano nella memoria del lettore con tutto il loro carico di umanità. Uno dei più grandi capolavori della letteratura russa del Novecento, scritto nella seconda metà degli anni Venti ma pubblicato in Russia solo nel 1988, in una nuova edizione integrale accuratamente tradotta.

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Frutto di inquietudini moderniste, Cevengur di Andrej Platonov rientra a pieno titolo in quel filone della letteratura russa nel quale la fede incondizionata nelle teorie non godeva di largo credito. A quelle visioni del mondo preconfezionate, sostenute con forza dall'intelligencija radicale, scrittori come Turgenev, Dostoevskij e Tolstoj opposero, con pervicacia al limite dell'ostinazione, autentici capolavori. I più grandi romanzi dell'Ottocento russo sono, come è stato detto, «romanzi di idee nella misura in cui sono romanzi che lottano contro la supremazia delle idee»: si cimentano con la materia della realtà, con le scelte quotidiane del singolo, con l'imprevedibilità della vita e preferiscono instillare dubbi piuttosto che diffondere credo. Se in Cevengur il tessuto polifonico, la costruzione argomentativa, l'esposizione delle teorie coeve con una lucidità che già da sola ne smaschera la disumanità, rinviano ai grandi romanzi di Dostoevskij, come non ascrivere a Tolstoj, il «profeta della carne», l'assillo tutto platonoviano per la caducità del corpo umano e per le passioni carnali? Dalla prefazione di Ornella Discacciati.

Nella steppa dei soviet la discesa di Platonov al villaggio degli ultimi, scrive Montefoschi Domenica su "Il Corriere della Sera". Cevengur , il capolavoro di Andrej Platonov che oggi leggiamo nella splendida traduzione di Ornella Discacciati (Einaudi), fu scritto nella seconda metà degli anni Venti; ma in Russia venne pubblicato solo nel 1988. Comprensibilmente. Perché Platonov in questo sterminato libro corale davvero unico — un libro che alterna il passo lungo del racconto che vuole restituire la realtà in ogni suo dettaglio, a momenti lirici meravigliosi — non fa altro che raccontare, dal di dentro, da comunista che ci ha creduto (anche se la tessera del Partito la restituisce dopo un solo anno), la storia di una utopia fallita. Come poteva non essere odiato da Stalin? Non essere messo al bando? Infatti fu perseguitato; e morì in miseria. L’incipit di Cevengur è straziante. E contiene tutto. Siamo ancora in epoca zarista. Un pescatore che ha perso sua moglie, povero, ignorante e però curioso di sapere cosa c’è oltre la morte, affoga in un lago. Al funerale, suo figlio Sasha, un bambino, è davanti alla bara. Gli dicono di dire addio a suo padre perché per i secoli dei secoli non lo vedrà più. Lui si china, ma non sente l’odore di sudore, di pesce, di lago, che aveva la camicia di suo padre quando era vivo, perché gliene hanno messa un’altra. Allora si volta a guardare intorno. Vede degli estranei. Capisce che sarà solo per sempre. E, cominciando a piangere, si aggrappa ai lembi di quella camicia che non ha più nessun odore di vita, come se quella camicia potesse difenderlo. Sasha, dunque, è orfano. In un primo momento, è adottato da una numerosa famiglia, la famiglia Dvanov, che vive nella assoluta miseria e viene mandato in giro a elemosinare le croste di pane. Quindi fugge. Finché un vecchio del villaggio, un certo Zachar Pavlovic, pure lui solo, non lo rintraccia e lo prende con sé. Pavlovic è un personaggio che sarebbe piaciuto molto a Dickens. Il suo interesse è per gli oggetti: di qualsiasi materia. La sua capanna è piena di attrezzi con i quali è capace di riparare qualsiasi cosa. Ora, ha grande passione per i treni: quei vagoni neri stupendi, trainati dalle altere locomotive, che da così poco tempo solcano le immense distese della Russia, corrono sprizzando scintille sui binari, o procedono lentamente, e la notte fanno sentire il loro ululato. I treni — pensa Zachar, felice di poter lavorare ai treni — sono macchine impressionanti che celebrano la forza dell’uomo. Il cielo è un grande nodo ferroviario. Sasha Dvanov, invece, legge. E molto spesso contempla le stelle. Lo ritroviamo che ha 17 anni, il vuoto dentro e nessuna corazza sul cuore. Intanto è scoppiata la rivoluzione e c’è la guerra: dentro e fuori i confini. La morte è dietro a ogni scalpitare di zoccoli. Vengono istituiti i soviet, si compongono comitati esecutivi, si avviano ispezioni nei governatorati allo scopo di vedere in che modo vive la gente. E la gente è entusiasta, sgomenta, e come ebete in questo grande sommovimento che deve produrre l’uguaglianza, la felicità, la liberazione dallo sfruttamento. Però continua a morire di fame — brodo e buccia di patate — mentre passa il treno blindato dei Bianchi, e poi quello dei Rossi stipati di corpi ignari che non sanno dove vengono trasportati e perché, e si grattano i pidocchi nel sonno. I viandanti che attraversano i villaggi non sanno rispondere a chi domanda loro dove vanno, oppure dicono: dove capita, e disperdono la sofferenza nel cammino. I briganti tendono agguati. Il tifo uccide. I corpi bussano invano alle porte dell’anima. Il sapore della buona vodka, trasparente come l’aria di Dio o la lacrima di una donna, è un ricordo. Il pacifico odore della campagna: bruciaticcio di paglia e latte riscaldato, è inghiottito da quello della sporcizia e del sangue. E i treni vanno: «i trasporti sovietici sono i binari per la locomotiva della storia»; nelle comuni, alla luce di lampadine nude che ogni tanto si spengono, si svolgono discussioni estenuanti, al termine delle quali gli oratori mettono in guardia i bolscevichi perché devono sapere che la Russia sovietica è come una giovane betulla sulla quale da un momento all’altro può avventarsi la capra del capitalismo; le foreste sono abbattute per costruire le case e liberare il terreno per le semine; il bestiame è ammucchiato e diviso; le tenute dei nobili sono requisite; il pane e qualsiasi genere alimentare, piuttosto che essere accumulato, deve essere distrutto per il bene di tutti; l’esaltazione fa dire che i soviet sembra che esistano da sempre, fin dai tempi antichi e il cielo uniforme della Grande Russia è la loro copia esatta. Dov’è finito, nel frattempo, Sasha Dvanov? Ha amato Sonja, una ragazza pura come il pane fresco e come il mattino, ma per la rivoluzione ha rinunciato a questo amore; si è avventurato nelle regioni più lontane a verificare a che punto è la realizzazione del comunismo; ha condiviso con una quantità di personaggi il dubbio sulla reale esistenza di un qualcosa che non si sa mai bene fino in fondo cosa sia, eppure risponde a un bisogno di uguaglianza, di fratellanza, di movimento in avanti perché quella spinta a costruire un progetto universale, che tutti sentono, non si esaurisca; ha conosciuto uomini cattivi e buoni, innamorati (come un tale Kopenkin, che nella fodera del berretto ha cucito il ritratto di Rosa Luxemburg) e disperatamente infelici perché non sanno a chi abbracciarsi; quindi è approdato a Cevengur. Cevengur è un piccolo villaggio della steppa che, dopo esser stato attraversato dalla rivoluzione, adesso sembra dimenticato dal mondo. Lo abita un’esigua popolazione di miseri — superstiti di una tragedia, piuttosto che di un trionfo — simili a veri e propri fantasmi. Di giorno vagano oziando nelle strade che non riconoscono più perché le case sono state spostate, senza un motivo, e il paese ha cambiato la sua fisionomia; la notte, soprattutto durante le bufere invernali, dormono sul pavimento per essere più vicini alla terra e alla tomba. Certo, c’è un soviet anche a Cevengur, «il soviet della umanità sociale della regione liberata di Cevengur», ma i suoi abitanti continuamente si domandano: dov’è il socialismo? E Dvanov, che dopo anni ha rincontrato il fratellastro Prokofij, un tipo diverso da lui, assai meno spirituale, si arrovella, pensa che lì il comunismo, se davvero esiste, è da rifare da capo e forse, per sapere una volta per sempre qual è la verità, bisognerebbe scrivere al compagno Lenin al Cremlino. Siamo nel cuore del romanzo, a questo punto. La risposta che Dvanov vorrebbe avere da Lenin, i fantasmi di Cevengur la cercano e la trovano nel vuoto. Possono loro, dopo secoli di oppressione, sopravvivere in un vuoto che li opprime altrettanto crudelmente? O non devono suscitare in questo vuoto un nemico che, nell’odio, li faccia sentire di nuovo vivi? Il nemico sono i piccoli borghesi, niente altro che dei contadini, rimasti nel villaggio. La scena del loro massacro – costruita con una sapienza dei movimenti e delle emozioni che possiamo definire straordinaria – è terribile. Ma dopo, quando anche i piccoli borghesi sono stati cancellati dal mondo, a Cevengur ritorna il vuoto. E il vuoto universale è insostenibile: è come la «tristezza indifesa» che si respira nel cortile della casa del padre da cui è appena uscita la bara della madre e tutti piangono, e più di tutti piange un bambino che, allo steccato, accarezza le assi ruvide nel buio di un mondo spento. Così per avere ancora qualcuno da guardare in faccia, da Cevengur partono messaggeri nella steppa infinita a cercare i più poveri dei poveri: gli «ultimi». E loro arrivano: per essere fra le vittime del misterioso eccidio finale che rade al suolo Cevengur. Mentre Dvanov, che all’eccidio è sfuggito, torna sulla riva del lago in cui è annegato suo padre, ci entra dentro: lentamente, e va a cercarlo.  

“Cevengur”, torna in libreria un classico russo, scrive Michele Lupo. C’è questo personaggio, Zachar Pavlovič , “il volto attento ed esausto fino allo sconforto di chi sa riparare e attrezzare ogni cosa, ma non attrezzarsi alla vita”. Poiché pare estraneo a qualsiasi consesso umano, alle parole come agli affetti, non stupisce che sia il solo a restare nel villaggio afflitto dalla siccità e abbandonato dai suoi abitanti. Ma senza le persone anche le cose potrebbero perdere d’importanza: aggiustare cosa? per chi? Costretto a cercare qualcosa di utile da fare, Zachar – che pure ha avuto una moglie un tempo, ma gli era parsa una cosa senza senso – la trova in una stazione ferroviaria. Osservare la camera di combustione della locomotiva sostituisce abbondantemente il piacere dubbio dell’avere amici. Se ne innamora, persino. Con il suo capo condivide l’idea che le macchine siano più apprezzabili della natura e delle persone – che non si sa mai.  Il lettore non sa bene se sia più straniato lo sguardo sul mondo di Zachar o il mondo stesso che lo circonda, un semideserto della profonda steppa russa a un passo dalla rivoluzione del ’17 – villaggio desolato in cui è facile che appaiano umani liminari, come il gobbo, uno storpio infoiato che benedice la siccità, preludio alla fuga collettiva dei maschi e campo aperto per dare la caccia alle femmine residue. E straniante arriverà anche la rivoluzione. Zachar è ormai stanco, ha persino rinunciato alla solitudine, trova una compagna e adotta un ragazzino. Così lo perdiamo di vista quando comincia un’altra storia – vero snodo epocale del moderno. E con essa la turbinante vicenda del romanzo Cevengur, di Platonov, scrittore russo purtroppo poco noto dalle nostre parti. Il figlio adottivo di Zachar e altri curiosi personaggi si troveranno invischiati – volenti o no – in un passaggio drammatico della Storia con tutte le loro allucinate o meschine idiosincrasie. Inviati al fronte di una guerra civile di cui non sempre comprendono il senso, o raminghi contadini investiti da un ciclone di idee balzane, incontrano personaggi che quella rivoluzione incarnano chi da visionari chi da zelanti burocrati di partito. Se per Dvanov, il figlio di Zachar, il socialismo dovrebbe corrispondere al “tempo in cui l’acqua avrebbe zampillato sugli aridi e alti spartiacque”, il plenipotenziario del comitato rivoluzionario provinciale cambia il suo nome in quello di Fëdor Dostoevskij, ignorando certa incongruenza ideologica dell’omaggio ma mettendocela tutta per favorire la “felicità lavorativa quotidiana”, magari eliminando la notte per incrementare i raccolti (va da sé che le ragazze si innamorassero tutte di lui, nonostante fosse zoppo). Laddove altri trascorrono il tempo in adorazione del ritratto di Rosa Luxemburg e cercando un’altra versione del comunismo. Quando poi qualcuno annuncia che nella città di Cevengur esso è una realtà bell’e fatta, totale, in cui “vive l’uomo collettivo ed eccellente”, si apre uno scenario tutto da scoprire. Lì anche il bestiame verrà sottratto all’oppressione secolare dell’uomo, la natura trionfa e si manifesta una faccia inudita della rivoluzione: si attende il secondo avvento di dio e soprattutto, il lavoro è stato bandito. Si punta direttamente alla felicità senza farla troppo lunga. Chi vi arriva non sempre ne resta convinto: che fare a Cevengur? – Niente – gli si risponde – qui da noi vivrai una vita interiore”. Pensa a tutto il sole, “proletario universale”. I suoi abitanti non fanno che “riposarsi da secoli di oppressione”. Mangiano i crudi frutti della natura. Che li attenda una fine devastante o l’agognata palingenesi il lettore può immaginarlo da solo. Platonov (meglio: il suo romanzo) mantiene una felice ambiguità rispetto al tema. La satira colpisce gli slogan, il linguaggio stesso dei soloni di un certo assolutismo ideologico col suo carico di morte certa ma Cevengur adombra un sentimento tutt’altro che ostile per i poveri cristi bisognosi di un’utopia. Platonov comunista lo fu troppo a modo suo per piacere al regime e forse la difficoltà di etichettarlo non ha favorito la sua ricezione in Italia, paese in cui per decenni le preoccupazioni ideologiche hanno fatto gioco su quelle meramente estetiche (e/o esistenziali: Platonov sapeva bene che nella realtà vi è sempre un’eccedenza rispetto a qualsiasi teoria – e lo scriveva Adorno, non un epigono del pensiero debole). Il suo è un romanzo eroicomico, a tratti dilatato ma pieno di sorprese, di personaggi fantasiosi e viscerali, falotici in sé e poi investiti da eventi troppo più grandi di loro. Brodskij lo considera il maggior prosatore russo del ‘900 e fra i grandi scrittori tout court. Non saprei dire: che però Cevengur meriti fra un posto fra i classici del secolo passato è sicuro.

Il comunismo morto in culla nel "paradiso" dei proletari. "Cevengur" di Andrej Platonov. Dalla rivoluzione alla guerra civile. Un gruppo di spiantati nella Russia anni '20 alla ricerca dell'impossibile socialismo reale. E l'utopia diventa una tragica farsa, scrive Daniele Abbiati su “Il Giornale”. Il compagno redattore della «Direzione generale per gli affari letterari e artistici», terminata la lettura del libro, lo depone sul tavolo. Sulle sue labbra appare un risolino, forse compiaciuto, forse ironico. Poi il compagno redattore stende la breve recensione, in cui fa riferimento a Don Chisciotte e a Sancho Panza. Peccato che la sua non fosse una semplice recensione. Era una recensione molto speciale , perché la «Direzione generale per gli affari letterari e artistici», nella Russia degli anni Venti, si occupava di censurare qualunque cosa fosse destinata alla pubblicazione. Così quel libro intitolato Da un villaggio in memoria del futuro o Il villaggio della nuova vita finì in un cassetto. Ne uscirà, per i lettori dell'Unione Sovietica, sessant'anni dopo, nel 1988, sull'onda della perestrojka gorbacioviana. Dal suo punto di vista, il compagno redattore aveva ragione da vendere. Dopo una rivoluzione e la conseguente guerra civile, diffondere quella roba sarebbe stato come distribuire per tutto il Paese migliaia di mine in forma di copie. Il villaggio di cui scriveva l'ormai ex compagno Andrej Platonovic Klimentov (iscrittosi al Partito nel '20, già nel '21 aveva restituito la tessera), per la storia della letteratura Andrej Platonov, è infatti il luogo dove il comunismo muore in culla, dove la convivenza fra poche anime, più morte di quelle di Gogol', dopo la mattanza in piazza dei borghesi, rivela l'impossibilità antropologica del regime. Un'impossibilità non politica, a dispetto di Marx ed Engels, bensì psicologica, fisiologica, organica addirittura. Ogni uomo, sia il muzik sognatore o l'integerrimo soldato dell'Armata Rossa, il fabbro anarchicheggiante o il vecchio nostalgico, il bolscevico fedele alla linea o la mendicante con figlioletto malato, dice Platonov, è, appunto, un uomo o una donna: cioè un mondo a sé stante. E se le contingenze di una guerra mondiale, di una rivoluzione, di una guerra civile li portano a percorrere un tratto di strada insieme, non sarà obbligandoli alla fratellanza (universale, fra l'altro) che si farà il loro bene. Romanzo corale e rurale, Cevengur (questo il titolo con cui ora viene proposto da Einaudi per la prima volta in edizione integrale a cura di Ornella Discacciati, pagg. 501, euro 26) prende il nome proprio dall'immaginario paesello della steppa che nelle intenzioni di un manipolo di aspiranti compagni dovrebbe tramutarsi nel paradiso del proletariato. Un proletariato, peraltro, pressoché nullafacente, a partire da Cepurnyj, il boss locale, per proseguire con Kopënkin, comandante dei bolscevichi combattenti, e Aleksandr «Sasa» Dvanov. Sono loro il Sancho Panza e il Don Chisciotte intravisti dal compagno-redattore-recensore-censore dal quale siamo partiti. Da una parte il cinico uomo dell'apparato che s'intenerisce soltanto nel ricordo di Rosa Luxemburg, dall'altra il giovane disincantato orfano del padre pescatore suicida in un lago, poi adottato dal mite Prochor Abramovic e da sua moglie, quindi operaio delle ferrovie, studente del Politecnico e infine arruolato fra i presunti «buoni». La dimensione urbana è soltanto sfiorata, dall'affresco a tinte fosche e grottesche di Platonov, appena un cenno a Lenin che, nella reggia del Cremlino, pensa e scrive indefesso. Scelta ovviamente azzeccata, poiché l'anima russa resta abbarbicata alle monumentali stufe di campagna, scorre sulle rive dei fiumiciattoli, palpita nelle catapecchie polverose o ghiacciate. L' ouverture , affidata alle suggestioni paniche dell'artigiano Zachar Pavlovic, dà il tono a una narrazione in cui l'umanizzazione della natura è il contraltare alla disumanizzazione dei personaggi, attori di quella che Discacciati chiama, nella Prefazione, la «metautopia» dell'autore, «una riflessione originale sulla ricezione dell'utopia rivoluzionaria tra le masse, accompagnata da una personale concezione della storia che al meccanico susseguirsi di tappe giustificate dal progressivo avvicinamento alla liberazione rinfaccia il sacrificio delle sofferenze del singolo, svilite in nome di un radioso futuro». In una steppa simile al Far West di un'altra utopia, questa volta ruvidamente (e individualmente) meritocratica, nella micro società di Cevengur chiusa e resistente alle novità che pare una comunità di Amish, in dialoghi da teatro dell'assurdo alla Beckett dove il «signor Godot» è l'avvenire spersonalizzante del socialismo reale, Platonov allestisce una grande recita che ha per protagonisti soltanto comparse. Dicono che quando Stalin lesse il romanzo, a margine commentò con una sola parola: podonok , cioè «feccia», «miserabile». Era la condanna alla morte civile dello scrittore, il quale finì, dimenticato da tutti, a fare il portinaio dell'«Istituto di Letteratura Gor'kij», in attesa della morte fisica, avvenuta nel 1951, a 52 anni. Non gli era bastato (tutt'altro...) rivolgersi, per caldeggiarne la pubblicazione, proprio all'esimio collega Maksim Gor'kij. Ma il giudizio di Stalin era anche, letto a posteriori, la migliore delle recensioni.

PLATONOV COMUNISTA E VISIONARIO. Andrej Platonov non è soltanto uno scrittore russo, scrive Alfredo Giuliani su “La Repubblica”. E' in modo stupefacente uno scrittore sovietico, forse l' unico grande prosatore sovietico che illumina, si fa per dire, l'epoca del comunismo di guerra e della famosa Nuova Politica Economica. Ma allora, domanderà qualcuno giustamente, era uno scrittore di regime, un propagandista, un chierico della rivoluzione? Non era un autore di regime, tutt'altro. Fu perseguitato, gli si impedì di pubblicare, fu obbligato a umili lavori, e molti considerano un mezzo miracolo se finì di morte naturale (tubercolosi nel 1951) anziché in un lager o fucilato. Eppure, a modo suo, Platonov era un cantore epico della rivoluzione. Di estrazione operaia (chi dice che il padre era ferroviere, chi fabbro ferraio), militò nell' Armata Rossa tra il '19 e il '21 (era nato a Voronez nel 1899) e fece anche parte di corpi speciali costituiti per reprimere le rivolte contadine e nazionaliste, e il brigantaggio, in Ucraina e nel Caucaso. Laureato in ingegneria nel 1924, per alcuni anni si occupò di lavori di bonifica e di elettrificazione nel governatorato di Voronez. Ma presto si traferì a Mosca, pubblicò i suoi primi racconti e saggi di critica letteraria, ebbe un certo successo e decise di dedicarsi interamente alla letteratura. E qui cominciarono i suoi guai. Platonov era un sincero comunista, ma era appunto, perché un sincero comunista, un visionario. E in quanto scrittore visionario coltivava la più sincera libertà espressiva. Nei suoi anni più creativi, i geniali anni Venti, la visionarietà di Platonov era insieme epica, lirica e satirica. Per la sua natura satirica è stato accostato a Bulgakov, dal quale è diversissimo. In realtà è talmente diverso da tutti che un lettore occidentale fatica ad accorgersi che Platonov è un grande scrittore. L'opera maggiore di Platonov, il romanzo Cevengur scritto tra il 1926 e il 1929, pubblicato in Russia soltanto sessant'anni dopo, sarebbe improprio definirla un'epica della rivoluzione alla rovescia. Per l'autore questo libro lunatico e irresistibilmente catastrofico era allo stesso tempo una randagia celebrazione dell'utopia, un libro magico e veridico sul comunismo della vita. La devastante fiducia degli idioti che agiscono e parlano nel romanzo di Platonov ha la grandiosa, grottesca vitalità che sommuove i pensieri e le passioni dei Demoni e dell' Idiota di Dostoevskij. Si comprende come Gor'kij, quando lesse il manoscritto nel 1929, lo dichiarasse impubblicabile (inaccettabile per la nostra censura). Egli scrisse a Platonov: Lei è indubbiamente un uomo di talento, come è indubbio che possiede una lingua oltremodo originale... Il suo romanzo è interessantissimo.... Ma era altrettanto indubbio per Gor'kij che l' opera era prolissa, vi abbondavano i discorsi a scapito dell'azione, la visione delle cose era anarchica, deformata in senso lirico-satirico; i comunisti di Cevengur non sono tanto dei rivoluzionari quando dei bislacchi o semidementi. Ciò nonostante Gor' kij era rimasto assai colpito dalla lingua di Platonov. E di questa lingua, di cui oggi parlano con ammirazione il poeta Iosif Brodskij e l'eccellente critico Anninskij, noi lettori occidentali possiamo avere una percezione ridotta. Non è colpa dei traduttori, dice Brodskij, se mai colpevole è l'estremismo stilistico dell'autore. Sulla questione, per quanto posso azzardarmi, tornerò un poco più avanti. Una cosa buffa, e forse non tanto strana, è che il romanzo di Platonov fu pubblicato in Italia da Mondadori nel 1972 col titolo Il villaggio della nuova vita, tradotto da Maria Olsùfieva, e non ricordo che sollevasse grande attenzione. Sia prima, sia dopo il '72 erano usciti in Italia altri libri di Platonov. Ora Sellerio stampa una scelta di racconti, Il mondo è bello e feroce (pagg. 200, lire 20.000), due dei quali già compresi in un precedente volume di Einaudi (Ricerca di una terra felice), e presso Theoria ricompare Cevengur con un nuovo titolo, Da un villaggio in memoria del futuro (pagg. 382, lire 36.000), nella stessa traduzione mondadoriana della Olsùfieva. Insomma, altri editori ci riprovano, sperando di essere più fortunati. E che noi si sia meno distratti. Mi dichiaro toccato. In altra occasione la signora Olsùfieva spiegò perché il toponimo Cevengur (nome inventato di un villaggio sperduto nelle steppe della Russia centrale) sia pressoché intraducibile: si tratta di una parola composta, la cui prima parte designa un pezzo delle vecchie cioce dei mugichi, la seconda ha il senso di baccano, rumore. Chissà, forse si sarebbe potuto inventare Ciociarnazzo (pensando a Ciociaria e a schiamazzo); ma io non essendo un traduttore dal russo non ho voce in capitolo. Il nome veniamo a saperlo soltanto alla pagina 170, da una gustosa conversazione che si svolge in città all'uscita da una riunione di partito. C'è un tale Cepurnyj soprannominato il Giapponese che si avvicina ad altri due, Dvanov e Gopner; quest'ultimo gli domanda: Tu da dove salti fuori? Dal comunismo. Nei hai sentito parlare? Hanno chiamato così qualche villaggio in memoria del futuro? Macché villaggio. E' capoluogo d'un distretto che anticamente si chiamava Cevengur. Fino a ora sono stato presidente del comitato rivoluzionario. E adesso abbiamo posto fine a tutta la storia mondiale. A che serve? A Cevengur o Ciociarnazzo sono entrati direttamente nel comunismo senza tante lungaggini. Massacrati tutti i borghesi e i contadini ricchi, il comitato rivoluzionario ha abolito l'economia, i bilanci, la politica e ha fatto fiorire la preferenza proletaria per la vita felice e la fratellanza, senza perciò negare la precisione della verità e il dolore dell' esistenza. Tutto ciò che è accaduto nel libro fino a questo episodietto (fondamentale) non è che la preistoria di destini intrecciati che si ritroveranno a Cevengur nell' urgenza utopistico-demenziale di costruire lì la gloriosa memoria del futuro. Secondo Brodskij, e questo è il dato interessante che anche il lettore occidentale è in grado di cogliere, Platonov è uno scrittore millenarista, se non altro perché aggredisce il veicolo stesso della sensibilità millenaristica presente nella società russa: il linguaggio in sé o, per dirla in maniera più esplicita, l'escatologia rivoluzionaria radicata nel linguaggio. Da molti la rivoluzione fu scambiata per l'atteso secondo avvento, ma questo non è che un dato sociologico. Può darsi che Brodskij esageri nel formulare l'essenza del messaggio di Platonov (il linguaggio è un congegno millenaristico, la storia no), ma certamente dobbiamo ascoltarlo quando dice che l' autore di Cevengur, più che alla tradizione letteraria, si affida alla natura sintetizzatrice della lingua russa, una matrice che condiziona a volte attraverso allusioni puramente fonetiche l' affiorare di concetti totalmente privi di qualsiasi contenuto reale. Ma non so quanto sia pertinente ritenere Platonov il primo scrittore russo veramente surrealista. E' strano che Brodskij taccia della vena futurista che a noi sembra potente in Platonov, il quale più di una volta fa venire in mente il poeta Chlébnikov (acclimatato nella nostra lingua e ai limiti della possibilità dal bravissimo Angelo Maria Ripellino). Proprio Ripellino, nel lungo saggio introduttivo alle poesie di Chlébnikov, ricordò le due facce del futurismo russo; da un lato l'esaltazione della tecnica e delle macchine, dall' altro il fervore per i trogloditi, le spelonche, la vita selvatica. E così il millenarismo, comune a tutti i futuristi russi, si esprime con particolare insistenza nelle fantasticherie di Chlébnikov. Ciò che più conta per il futurista russo è ritrovare nell' avvenire l'incolumità dei primordi. Il primordiale e l' amore per le macchine si fondono in Platonov, ma non c'è davvero il sogno dell' incolumità. Tutto in Cevengur, il tenero e il raccapricciante, l'idiota e il sublime, la violenza e la magnanimità, tutto coincide in una micidiale indifferenza vigilata dalle stelle (la beatitudine controrivoluzionaria della natura). L'anelito stupidamente eroico alla fine del mondo e alla rigenerazione del mondo coincide con lo sforzo sovrumano dell'intelletto ingenuo e puro che vuole pensare la verità dell' esistenza. Le frasi di Platonov cominciano in un modo che fa prevedere un certo decorso logico, ma alla fine della frase, grazie a un epiteto, a un'intonazione, o alla posizione anomala di una parola nel contesto, vi trovate condotti da un'altra parte, o meglio in una tortuosità inestricabile, che può suscitare ilarità o sgomento. E' più o meno ciò che notano i critici russi e ciò che avverte, certo con minore vividezza, il lettore occidentale. Come osserva Anninskij in un saggio recente, la fucilazione della residua classe borghese in Cevengur provoca nel lettore un raccapriccio infernale, tuttavia non osate chiamarlo così, dato che per tutti coloro che partecipano all'evento questo inferno si identifica con l'apparizione del paradiso. E Stepan Kopenkin, castigatore errante, che compie le sue imprese assassine per la gloria della venerata Rosa Luxemburg in groppa alla cavalla Forza Proletaria, esce dalle pagine del romanzo non come un castigatore e assassino, ma come un pellegrino incantato e una cavaliere. Questa è la visione che le frasi di Platonov suscitano in noi. Quando scoppia la rivoluzione il vecchio Zachàr Pàvlovic dice al figlio adottivo Sasa: Gli imbecilli stanno prendendo il potere, è forse la volta che diventerà più intelligente la vita. Prochor Abràmovic era da tempo istupidito dalla miseria e dai troppi figli, non badava a nulla: né alle malattie dei bambini né alla nascita di quelli nuovi, neppure al raccolto cattivo o discreto, quindi pareva a tutti un brav' uomo. Kopenkin è perplesso di non vedere a Cevengur la gente lavorare. Il Giapponese gli spiega la situazione: La professione essenziale è l'anima dell' uomo. Il suo prodotto è l'amicizia e il cameratismo. Non è forse un'occupazione, secondo te? Kopenkin rifletté un poco sulla vita oppressa d' una volta. E' proprio bello da te a Cevengur, disse malinconicamente. Speriamo che non si debbano organizzare i guai: il comunismo deve essere aspro, uno zinzino di veleno fa bene al sapore. Il Giapponese sentì il sale fresco in bocca e capì subito. Forse hai ragione. Adesso dovremo organizzare apposta i guai. Vogliamo cominciare domani, compagno Kopenkin?. A dire il vero, lentamente, pacatamente, un lavoro collettivo si svolge a Cevengur: si spostano le case di legno e si trasferiscono i frutteti. Questo traffichìo avviene obbligatoriamente soltanto il sabato. E' un lavoro improduttivo e simbolico: si sciupa l' eredità piccolo-borghese e si confondono le vecchie strade. Non occorrono più: la gente è arrivata a destinazione. Cancellando le strade, spostando i cosiddetti beni immobili i deliranti utopisti di Cevengur sfigurano l'immagine e la sostanza della vecchia società oppressiva. La follia apocalittica è stata messa in moto, nelle anime semplici, ora miti, ora selvagge, dei millenaristi, dalle parole d' ordine e dalle formule della rivoluzione. Ho detto in principio, un po' per burla, che Platonov illumina l' epoca in cui concepì e scrisse il libro, gli euforici e spaventati anni Venti della Russia sovietica. Li illumina con un sinistro e lancinante e grottesco rovesciamento. Tutti sognano e tutti vengono trucidati (dalle guardie bianche). Un' immagine, che è insieme comica ed enigmatica, apre e chiude il libro. Nelle prime pagine il pescatore padre di Sasa, il fanciullo che sarà poi allevato da Zachàr Pàvlovic, si getta nel lago per vedere com' è la morte; poteva essere un' altra provincia situata sotto il cielo come sul fondo d' una fresca acqua. Dopo tante peripezie, Sasa che è sfuggito alla carneficina, alla fine del libro, si lascia andare nelle acque infantili dello stesso lago, in cerca di quella strada che suo padre aveva percorso nella curiosità della morte. Il romanzo è racchiuso tra questi due segni, che non appartengono al distretto rivoluzionario. A Ciociarnazzo si voleva organizzare la vita.

Il Duce governò col consenso. E De Felice lo ha dimostrato. Il monumentale studio del ricercatore risultò ben documentato e inaccettabile. Ma negli anni '70 era inaccettabile. Pansa e Pavone ne hanno seguito le orme, scrive Giordano Bruno Guerri Giovedì 05/11/2015 su "Il Giornale". Sono pochissimi i libri di storia diventati essi stessi un fatto storico. È il caso della biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice, uscita in otto volumi da Einaudi fra il 1965 e il 1997 (l'ultimo, postumo e incompleto). Più che una biografia è una storia del fascismo, e il grande merito di De Felice fu basare i suoi studi sui documenti e non su pregiudiziali ideologico/politiche, pro o contro. Sembra ovvio, trattandosi di storia, ma all'epoca non lo era. I primi tre tomi (Il rivoluzionario e Il fascista, dal 1883 al 1929) avevano semplicemente disturbato la dominante storiografia di sinistra. Il quarto ebbe un effetto dinamitardo: le quasi mille pagine di Mussolini il duce. Gli anni del consenso, 1929-1936 uscirono nel dicembre del 1974 e la loro tesi di fondo provocò polemiche a non finire. Vi si sosteneva, e vi si dimostrava, che il regime godette per un lungo periodo di una straordinaria partecipazione popolare. Oggi è un dato acquisito (malvolentieri) anche dalla storiografia più schierata a sinistra, però a quei tempi De Felice venne addirittura accusato di filofascismo: lui, ebreo liberale che fino a allora si era occupato soprattutto della Rivoluzione francese. Visto che non tutti potevano affrontare quelle mille pagine, nel 1975 De Felice volle pubblicare Intervista sul fascismo (Laterza, a cura di Michael Arthur Ledeen), dove spiegava in sintesi il proprio pensiero, a partire dall'inedita distinzione tra fascismo regime e fascismo movimento. Il primo ebbe sostanzialmente funzioni conservatrici, il secondo aveva forti aspirazioni di modernizzazione: «Il movimento è l'idea della realtà; il partito, il regime, è la realizzazione di questa realtà, con tutte le difficoltà obbiettive che ciò comporta». E continua: «Con tutti i suoi innumerevoli aspetti negativi, il fascismo ebbe però un aspetto che in qualche modo può essere considerato positivo: il fascismo movimento aveva sviluppato un primo gradino di una nuova classe dirigente». Fondamentale è anche l'individuazione dell'elemento che distingue il fascismo dai regimi reazionari e conservatori, ovvero la mobilitazione e la partecipazione delle classi: «Il principio è quello della partecipazione attiva, non dell'esclusione. Questo è uno dei punti cosiddetti rivoluzionari; un altro tentativo rivoluzionario è il tentativo del fascismo di trasformare la società e l'individuo in una direzione che non era mai stata sperimentata né realizzata». In più De Felice sostenne, per primo, che fascismo e comunismo erano entrambi figli della rivoluzione francese, e avevano quindi un codice genetico simile. Per la sinistra era (non lo è più così tanto) un'affermazione inaccettabile. Il Pci aveva da poco lanciato l'idea del «compromesso storico» con la Dc e si sentiva minacciato nella sua egemonia culturale da un libro che appena dieci anni prima avrebbe semplicemente ignorato. L'unico comunista che difese, in parte, le posizioni di De Felice fu Giorgio Amendola, uomo coraggioso e onesto. Riguardo agli effetti che ebbe il lavoro di De Felice, posso ricordare un episodio personale. Studiavo a Milano, quindi non ero un suo allievo quando nel 1974 mi laureai con una tesi su Giuseppe Bottai, un fascista critico: dove dimostravo appunto che Bottai era stato un modernizzatore e che erano esistiti una cultura fascista e intellettuali fascisti di valore. La tesi venne pubblicata nel 1976 addirittura da Feltrinelli, grazie a un direttore editoriale illuminato come Gian Piero Brega: non credo sarebbe stato possibile senza il varco aperto dal docente romano, ma l'accoglienza non fu diversa da quella del libro sul consenso. De Felice veniva cucinato a fuoco vivo e lento per avere sostenuto in sostanza che gli italiani erano stati fascisti. Nessuno riusciva a contestare seriamente le sue tesi, perché non si poteva, e però fioccavano allusioni e accuse sulla sua onestà intellettuale, sulle sue capacità storiografiche, sulle sue tendenze politiche: specialmente con quell'atroce sospetto di filofascismo. Fino a tutti gli Anni Settanta, infatti, fascista! era l'offesa più di moda e più violenta, tutto ciò che di male esisteva nell'universo era fascista, persino le prevaricazioni amorose e i comportamenti automobilistici. Dunque, per contrastare le tesi di De Felice si arrivò addirittura a sostenere che avrebbero finito per rafforzare il neofascismo italiano, ovvero il Movimento Sociale. I risultati delle elezioni politiche di quegli anni dimostrarono il contrario, per non dire che quasi vent'anni dopo il Movimento Sociale si autodissolse a Fiuggi e che il suo erede, Alleanza Nazionale, si sarebbe fuso con il liberale Popolo delle Libertà. Agli storici i loro studi dovrebbero servire non soltanto per capire il passato, ma anche per interpretare il presente e intuire il futuro. Per i contestatori di De Felice non fu così. Lontani dal capire il presente e dall'interpretare il futuro, lasciarono a bande di studenti il compito di dare del fascista a uno storico più bravo di loro e rispolverarono per lui e per chi la pensava come lui un termine da tempo fuori moda e fuori uso: «revisionista». La definizione fu appioppata per la prima volta al socialdemocratico tedesco Eduard Bernstein, che nel 1899 sostenne la necessità di rivedere alcune tesi di Marx (I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia). Dopo la Rivoluzione d'Ottobre, «revisionista» diventò sinonimo di eretico, nemico, e così furono bollati tutti i capi comunisti che accennarono a deviare dalla linea del Cremlino.Applicata agli studi è una definizione malsana, visto che uno storico, come ogni altro studioso, non può che essere revisionista. Qualsiasi scienza, qualsiasi attività umana progredisce in quanto non si accontenta dei risultati raggiunti. Cioè: se gli architetti non fossero revisionisti, staremmo ancora nelle grotte; se i medici non fossero revisionisti, saremmo ancora a farci operare dai barbieri. Gli storici devono essere revisionisti perché non si debbono accontentare di quello che è già acquisito. Sergio Romano nel 1998 pubblicò Confessioni di un revisionista (Ponte alle Grazie), con una definizione esemplare: i revisionisti sono semplicemente «coloro che mettono in discussione, con nuovi documenti e nuove prospettive, l'antica versione di un avvenimento». Senza questo continuo andare oltre, la storia sarebbe ridotta a leggenda, cronaca o propaganda politica. Purtroppo De Felice non fece in tempo a terminare i suoi studi, altrimenti avrebbe con ogni probabilità realizzato lui il nuovo filone di revisionismo sulla guerra civile 1943-45, inaugurato da Claudio Pavone (Una guerra civile, Bollati Boringhieri 1991) e proseguito da Giampaolo Pansa con Il sangue dei vinti (Sperling & Kupfer 2003). Due libri che hanno provocato le stesse polemiche del saggio sul consenso: a dimostrazione che De Felice vinse la sua battaglia, ma non la guerra contro chi guarda la storia con i paraocchi dell'ideologia.

E la chiamano democrazia…E’ solo una contrapposizione tra Comunisti di destra e di sinistra (ceppo comune del socialismo) ed i liberali. O meglio dire, dato l’atteggiamento violento adottato per l’imposizione della loro religione, Fascisti di destra e di sinistra contro i liberali. I fascisti comunisti per le loro nefandezze si nascondono dietro l’impunità della massa, pretendendo che tutto gli sia dovuto. I Liberali sono perseguitati perché isolati dal loro soggettivismo ignavo.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Ecco la nostra collana firmata Pansa. Da oggi il primo romanzo che rilegge le vicende del Paese, scrive Matteo Sacchi, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". Non è mai facile raccontare la storia recente, quella che dista da noi meno di un centinaio di anni. Si rischia sempre di incorrere nelle distorsioni da vicinanza, ci si sente toccati dai fatti. Meno che mai è facile farlo in un Paese come l'Italia. La Seconda guerra mondiale, spartiacque fondamentale della modernità, ha spaccato la nazione in due. Si è trasformata anche in guerra civile, con dei vincitori e con dei vinti. Un popolo che si sentiva vinto e sconfitto ha fatto tutto il possibile per scordarsi di essere stato fascista e per nascondersi dietro il mito della Resistenza. Che ci fu, ma fu un fenomeno militare di modesta portata, condotto da poche decine di migliaia di persone, ovviamente escludendo dal novero dei combattenti chi saltò sul carro del vincitore all'ultimo momento. E che fu un fenomeno non certo alieno da ideologie totalitarie, come quella comunista, quanto lo stesso fascismo. Questi concetti possono apparire come ovvi e banali, ma è stato necessario un enorme sforzo per renderli evidenti, rompendo il conformismo degli storici ufficiali. Gran parte del merito in questa impresa va riconosciuto a Giampaolo Pansa il quale, pur non essendo uno storico di professione, ha scandagliato quelle pieghe della storia che molti italiani avrebbero voluto dimenticare. Ora alcuni dei suoi volumi più significativi ritornano in abbinata con il Giornale, riuniti in una collana: «Controstoria d'Italia». Il primo volume sarà in edicola da oggi a 8,50 euro oltre al prezzo del quotidiano. Il titolo è Eia Eia Alalà. Controstoria del fascismo. Si tratta di un romanzo storico che attraverso la finzione letteraria racconta le vicende e gli amori della camicia nera della prima ora Edoardo Magni (personaggio inventato dall'autore). Magni incarna il fascista patriottico e in assoluta buona fede il quale, poco a poco, dovrà rendersi conto dei fatali errori commessi da Mussolini. Dalla scelta folle di aderire alle leggi razziali alla guerra rovinosa e disperata. Gli entusiasmi di Magni danno conto con grande onestà del consenso, quasi unanime, di cui godette il regime («erano tutti fascisti dice Pansa e poi hanno fatto finta di essere stati tutti antifascisti») e di come l'adesione di massa si tramutò in indifferenza e disillusione. Nel caso del protagonista del libro, anche in sincera autocritica (grazie all'incontro con la giovane ebrea Marianna). Pansa nella prefazione, e poi nel testo, dà anche conto con grande precisione di come le violenze iniziali del fascismo fossero strettamente legate alle violenze del «biennio rosso». E anche questo è un pezzo di storia su cui spesso si preferisce sorvolare. Il percorso che inizia con Eia Eia Alalà proseguirà poi con Bella ciao. Controstoria della Resistenza (dal 23 aprile); Sangue, sesso, soldi. Una controstoria d'Italia dal 1946 a oggi (dal 30 aprile); La destra siamo noi. Da Scelba a Salvini (dal 7 maggio); Tipi sinistri. I gironi infernali della casta rossa (dal 14 maggio) e infine Poco o niente. Eravamo poveri. Torneremo poveri (dal 21 maggio). E anche in questi volumi Pansa ci mette di fronte ad analisi non allineate e che costringono a riflettere e a uscire dai luoghi comuni. Qualche esempio: De Gasperi? Ha salvato la libertà dell'Italia e non era affatto un lacchè degli Usa. Il Sessantotto? Un tragico bluff. Andreotti un Belzebù che le ha sbagliate tutte? Assolutamente no.

Il fascismo fu la risposta alle minacce dei "rossi". Nel 1919-20 la sinistra evocò lo spettro della rivoluzione, ma provocò la nascita dello squadrismo. Come racconta Pansa in "Eia Eia Alalà". Scrive Giampaolo Pansa, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". "Tutti i nodi vennero sciolti con il colpo di spada dell'offensiva squadrista. È il calendario a ricordarci la velocità di quell'azione. Un blitz che ebbe inizio, si sviluppò e vinse in meno di due anni: dalla fine del 1920 all'ottobre del 1922. I rossi cianciavano di rivoluzione, i neri costruirono con i fatti la reazione a tante chiacchiere. Aveva ragione il mio edicolante: la colpa di aver messo in sella il fascismo, e di aver mandato al governo Mussolini, era soltanto dei socialisti. Chi comprese subito quanto era avvenuto fu uno scrittore anarchico, il bolognese Luigi Fabbri, autore di un libro stampato nel 1922 dall'editore Cappelli e intitolato: La controrivoluzione preventiva. La sua tesi era semplice. La rivoluzione tanto predicata dai socialisti non era arrivata e in un certo senso non era mai stata voluta per davvero. Ma le sinistre l'avevano fatta pesare come una minaccia per tutto il 1919 e il 1920. Questo fu sufficiente a provocare la controrivoluzione moderata, di cui il fascismo era il protagonista più impietoso e risolutore. Una bufera che si giovò soprattutto di due armi: la violenza illegale dello squadrismo e la repressione legale del governo liberale, attuata dalla polizia, dai carabinieri e dalla guardia regia, quasi sempre rivolte contro le sinistre. Il risultato fu simile ai giochi di guerra delle Play Station odierne. Le sinistre avevano gridato per due anni di voler fare come in Russia, ma senza saper passare dai proclami alla rivoluzione vera. E i fascisti andarono all'assalto per impedire a chiunque di trasformare in fatti le teorie del bolscevismo nostrano. Gli incauti parolai rossi si erano comportati come l'apprendista stregone: avevano creato il mostro che li avrebbe divorati. Infine le sinistre erano pronte a farsi sconfiggere. Dentro un corpo in apparenza molto solido celavano il virus della discordia e della divisione. Stavano insieme in un solo partito e in poco più di un anno si ritrovarono frantumate in tre segmenti. Nel gennaio 1921, a Livorno, la corrente guidata da Antonio Gramsci e Amadeo Bordiga lasciò il Psi e fondò il Partito comunista d'Italia. Allora accadde un fatto assurdo, che anticipava tutte le pazzie destinate nel futuro a corrodere la sinistra italiana. Mentre il nuovo partito iniziava subito l'attacco ai vecchi compagni, i socialisti rimasti nel Psi rinnovavano all'unanimità la fedeltà a Mosca che aveva voluto la scissione. Anni dopo, un Gramsci costretto all'autocritica avrebbe affermato che la scissione era stata «il più grande regalo fatto alla reazione». Ma in quel 1921, già carico di pericoli per la sinistra, pochi lo compresero. Fra questi c'era Nenni, che scrisse: «A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano». E un altro politico vicino al Psi sfornò un'immagine sempre attuale: «La scissione è il cacio sulla minestra della borghesia». Ma al socialismo italiano una sola frantumazione non bastava. Se ne costruirono una seconda all'inizio dell'ottobre 1922, ventiquattro giorni prima della marcia su Roma. Al diciannovesimo congresso del Psi, la corrente massimalista, sfruttando una lieve maggioranza di delegati, espulse i riformisti di Filippo Turati, Claudio Treves e Giacomo Matteotti. I compagni messi fuori dalla vecchia casa formarono un nuovo movimento politico: il Partito socialista unitario. Affidato alla guida di Matteotti, nominato segretario. Gramsci schernì subito il deputato di Fratta Polesine dicendo che era «un pellegrino del nulla». Mentre la sinistra si svenava in una guerra senza quartiere contro se stessa, lo squadrismo fascista cresceva a vista d'occhio e partoriva figure sempre nuove. Molti protagonisti della controrivoluzione in camicia nera il lettore li troverà effigiati in Eia eia alalà. Alcuni di loro emergevano da un'Italia sotterranea e sconosciuta, da mondi estranei alla politica, con un passato torbido, non privo di nefandezze. È il caso di una coppia di amanti, poi divenuti marito e moglie: i conti Carminati Brambilla che hanno un posto di rilievo in questo libro. Mentre scrivevo questo libro mi sono rivolto una domanda. Nell'Italia degli anni Duemila è possibile vedere emergere un regime autoritario non molto diverso dal regime fascista, anche se di colore differente, bianco invece che nero, oppure rosso o rosa? Non è un interrogativo privo di senso. La storia europea del Novecento ci ha insegnato che le dittature nascono in paesi che hanno tre caratteristiche. Sono deboli perché stremati da una guerra o da una crisi economica feroce. Hanno istituzioni democratiche screditate e che non funzionano più, in mano a partiti inefficienti e corrotti. Risultano dilaniati da contrasti sociali molto forti, tra una minoranza di presunti ricchi e una maggioranza di cittadini sempre più poveri. L'Italia del 2014 è così? Esiste un'affinità tra il paese di oggi e quello del 1919-1922? Qualche volta temo di sì".

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Vittorio Emanuele sul 2 giugno: "Il referendum 1946 fu incompleto". Il figlio di Re Umberto II attacca: "Molti italiani non poterono votare, ma mio padre dimostrò responsabilità nonostante De Gasperi si proclamò Capo dello Stato con un colpo di mano", scrive Ivan Francese, Giovedì 02/06/2016, su "Il Giornale". Secondo Vittorio Emanuele di Savoia il referendum del 2 giugno 1946, con cui l'Italia divenne una repubblica, non sarebbe stato "completo". Perché - e questa è verità storica - in alcuni territori dell'allora Regno d'Italia non fu possibile votare e perché a molti connazionali prigionieri all'estero non venne permesso l'accesso alle urne. Il primogenito di Re Umberto affida ad un messaggio rivolto "a tutti gli italiani" la sua amarezza in occasione del 70° anniversario della nascita della Repubblica italiana. Non si votò, ricorda il principe, "in alcuni territori italiani ancora non del tutto liberi ed al voto non poterono partecipare molti italiani che, per essersi rifiutati di collaborare con i tedeschi, si trovavano ancora in campi di prigionia all'estero." Inoltre Vittorio Emanuele elogia il senso di responsabilità del padre, quando "il consiglio dei ministri presieduto da Alcide De Gasperi, con un colpo di mano, nominò lo stesso Capo Provvisorio dello Stato". Il Re, "dopo un mese di regno, desiderando una piena legittimazione che gli permettesse di traghettare la Nazione in una rinascita al termine delle dolorose esperienze della guerra, prima della consultazione dichiarò che se la Monarchia non avesse raggiunto la maggioranza assoluta dei voti, avrebbe indetto un nuovo Referendum. In quei giorni ed in quelle ore di tensione Egli mantenne un alto senso di responsabilità per le sorti del Paese ed una terzietà che il mondo gli ha riconosciuto." Vittorio Emanuele, infine, vuole celebrare l'abnegazione del Re alla causa d'Italia, che lo portò a rinunciare alla Corona pur di salvare l'indipendenza della Patria: "Pur in assenza di alcuna imposizione, partì di propria volontà per un temporaneo esilio, al fine di smorzare le tensioni di un Paese diviso in due e con le truppe jugoslave di Tito, schierate sul confine orientale, decise ad intervenire in caso di vittoria monarchica. Un esilio durato, poi, per Lui tutta la vita, per me 56 anni e per mio figlio - nato 26 anni dopo il referendum - ben 30 anni".

«Sul Re Soldato c'è un pregiudizio antistorico», scrive Francesca Angeli, Venerdì 17/07/2015, su "Il Giornale". «Un divieto privo di senso». Ignazio La Russa quando era ministro della Difesa si era impegnato personalmente per favorire il ritorno della salma di Vittorio Emanuele III in Italia, in occasione del 150 anniversario dell'Unità d'Italia che cadeva nel 2011. Ma il tentativo si impantanò.

La Russa ritiene fondati i timori di Maria Gabriella di Savoia per la salma del Re Soldato?

«Si tratta di un rischio reale che forse finalmente riuscirà a smuovere le coscienze di chi ancora si oppone al ritorno delle salme dei Savoia, un veto antistorico che non ha più nessuna ragione di esistere».

Chi allora ebbe paura della sua proposta per il rientro delle spoglie?

«Prevalse la tipica pavidità italiana. La preoccupazione per eventuali polemiche da parte di chi non riesce a superare antichi pregiudizi ideologici che oggi suonano assurdi e ridicoli».

Perché ritiene sia doveroso riportare Vittorio Emanuele III in Italia?

«Vittorio Emanuele III è stato Re d'Italia, è una figura che appartiene alla nostra Storia, nella buona e nella cattiva sorte. Le disposizioni transitorie avevano allora un senso che oggi ovviamente non hanno più. Si temevano colpi di coda dopo le polemiche sull'esito del referendum. Ma ora non vedo ragioni plausibili per un simile veto. Certo non è criminalizzabile in sè l'istituto della monarchia e oggi tutti i risentimenti e le tensioni allora comprensibili dovrebbero essersi finalmente placati».

Sono molti i protagonisti del passato con i quali il nostro Paese fatica a chiudere i conti.

«Senza dubbio. A 70 anni dalla sua fine il fascismo è ancora un elemento centrale del dibattito politico. Io me ne stupisco sempre. C'è chi non perde l'occasione per paragonare il Pd attuale al partito fascista e il premier Renzi a Mussolini. Quando si apre questa polemica in Parlamento io intervengo e da “esperto della materia” tranquillizzò i timorosi: il Pd e Renzi non hanno nulla a che fare con Mussolini e il fascismo».

Quindi il nodo è quello? Il legame dei Savoia col fascismo?

«No. Lo stesso Benito Mussolini è stato seppellito in Italia. Posso capire si continui a a dibattere su un'ideologia ma francamente non capisco come si possa ancora dibattere una questione come il rientro di un uomo che fu Re d'Italia».

Se la salma fosse riportata in Italia pensa sarebbe giusto tumularla al Pantheon?

«Assolutamente sì. È quella la tomba della famiglia Savoia dove si trovano Vittorio Emanuele II e Umberto. Quando ero al ministero della Difesa feci questa promessa alla famiglia. Incontrai proprio davanti al Pantheon Vittorio Emanuele con la moglie, Marina Doria e il figlio Emanuele Filiberto e mi attivai per il ritorno della salma e la sua sepoltura. Mi sembrava giusto farla coincidere con i 150 anni ma purtroppo l'occasione andò persa».

Lancerebbe un nuovo appello?

«Potrei farlo soltanto se raccogliessi un consenso trasversale. Sono consapevole che una mia iniziativa in questa direzione altrimenti verrebbe subito strumentalizzata».

L’ITALIA DEGLI INVIDIOSI. (1901 - Luigi Capuana, Il Marchese di Roccaverdina, Vallecchi, Firenze, 1972) -  "E se c'era qualcuno che osava di fargli osservare che si era fatto sempre così, da Adamo in poi e che era meglio continuare a fare così, il marchese alzava la voce, lo investiva: - Per questo siete sempre miserabili! per questo la terra non frutta più! Avete paura di rompervi le braccia zappando a fondo il terreno? Gli fate un po' il solletico a fior di pelle, e poi pretendete che i raccolti corrispondano! Eh, sì! Corrispondono al poco lavoro. E sarà ancora peggio!" (p. 45) -  "Noi abbiamo quel che ci meritiamo. Non ci curiamo di associarci, di riunire le nostre forze. Io vorrei mettermi avanti, ma mi sento cascare le braccia! Diffidiamo l'uno dell'altro! Non vogliamo scomodarci per affrontare le difficoltà, nel correre i pericoli di una speculazione. Siamo tanti bambini che attendono di essere imboccati col cucchiaino... Vogliamo la pappa bell'e pronta!" (pp. 86-87)

(1913 - Grazia Deledda, Canne al vento, Mondadori, Milano, 1979) -  "Che posso fare, che posso io? Tu credi che siamo noi a fare la sorte? ... E tu, sei stato tu, a fare la sorte?" "Vero è! Non possiamo fare la sorte - ammise Efix." (p. 195) -  "Sì, - egli disse allora, - siamo proprio come le canne al vento, donna Ester mia. Ecco perché! Siamo canne, e la sorte è il vento." "Sì, va bene: ma perché questa sorte?" "E il vento, perché? Dio solo lo sa." (p. 240) 

(1915 - Norman Douglas, Vecchia Calabria, Giunti Martello, Firenze, 1978) -  "... qual è il più evidente vizio originario? L'invidia, senza il minimo dubbio." "D'invidia gli uomini patiscono e muoiono, per invidia si uccidono l'un l'altro. Produrre una razza più placida (con l'aggettivo 'placida' io intendo solida e riservata), diluire le invidie e le azioni da esse ispirate, è, in fin dei conti, un problema di nutrizione. Sarebbe interessante scoprire di quanto cupo arrovellarsi e di quanti gesti vendicativi è responsabile quel ditale di caffè nero mattutino." (p. 191)

(1930 - Corrado Alvaro, Gente in Aspromonte, Garzanti, Milano, 1981) -  "Glielo aveva detto tante volte di non menar vanto del figlio e di non gloriarsi dell'avvenire, perché l'invidia ha gli occhi e la fortuna è cieca. Signore Iddio, com'è fatta la gente! che non può vedere un po' di bene a nessuno, e anche se non hanno bisogno di nulla, invidiano il pane che si mangia e le speranze che vengono su." (pp. 68-69)

(1959 - Morris L. West, L'avvocato del diavolo, Mondadori, Milano, 1975) -  "Eccolo qui, il maledetto guaio di questo paese! La vedi bene anche tu la ragione per cui siamo di cinquant'anni più indietro che tutto il resto d'Europa. Non vogliamo organizzarci, non vogliamo neanche sentire la parola disciplina. Non vogliamo collaborare. Ma è impossibile costruire un mondo migliore con una zuppiera piena di pasta e un secchio d'acqua santa." (p. 111)

(1975 - Giuseppe Fava, Gente di rispetto, Bompiani, Milano, 1975) -  "Elena, hai mai pensato... quante volte, dinanzi alle cose che accadono, una sciagura, una malattia... l'essere umano ha un moto di disperazione e si chiede perché... la ragione delle cose voglio dire... nascere, poi soffrire o morire? Solo un attimo di ribellione, perché subito ognuno si rassegna all'idea che è Dio a muovere le cose e deve avere il suo segreto disegno. Così l'essere umano sopporta il suo destino; ma che altro può fare? Pensa che tutto deve necessariamente accadere, anche il dolore e la morte, e di questo fa la sua consolazione..." "E questo cosa c'entra con la miseria? Che c'entra con l'ingiustizia? Sono soltanto due cose umane: perché i poveri dovrebbero subirle?" "Perché quasi sempre il povero pensa che tutte le cose umane siano come la morte: la miseria, l'ignoranza fanno parte di questa fatalità. Altrimenti..." "Altrimenti cosa?" "Altrimenti da migliaia di anni gli uomini avrebbero già dovuto uccidere e sgozzare i potenti e i fortunati ... Di questo paese non ci dovrebbe essere più pietra su pietra." (pp. 163-164)

ITALIA, IL PAESE DOVE L’INVIDIA TRIONFA? Siamo davvero affetti da quella malattia chiamata invidia? Scrive “Plindo”. Perchè la tendenza degli italiani è quella di criticare sempre in negativo l’operato degli altri? Perchè spesso ci limitiamo a guardare solo con estrema superficialità le cose anziché approfondire e cercare di capire? In Italia davvero trionfa l’invidia? Oppure è diffusa in egual modo in tutto il mondo? La difficoltà delle persone ad andare oltre e cercare di capire qualcosa di diverso, è davvero grande. I più purtroppo si soffermano sull’aspetto più esposto dell’argomento senza scendere in profondità, arruolandosi il diritto di criticare e dare suggerimenti senza che nessuno li abbia richiesti. Tutto questo viene spesso si confonde con la libertà di pensiero. La libertà di pensiero non ha niente a che vedere l’invidia. Ed è giustissimo che ognuno di noi abbia la libertà di esprimere ciò che pensa come meglio crede, tuttavia è allo stesso tempo consigliabile informarsi, approfondire e cercare di capire altrimenti si corre il rischio che la nostra libertà di pensiero sia fraintesa per invidia. L’invidia nasce da un confronto tra noi e gli altri ed è sgradevole sia per chi la prova in prima persona che per chi la riceve. L’invidioso è una persona che desidera possedere ciò che altri hanno e che ritiene di non poter avere. Ci sono diverse tipologie di invidia. La prima è quella rabbiosa, la più pericolosa. Spesso chi ne è affetto non prova nemmeno a chiedersi se ha capito bene. Critica impulsivamente a spada tratta qualsiasi cosa, con quella rabbia (e talvolta ignoranza) tipica di colui che ha disperatamente cercato di farcela nella vita senza mai riuscirci realmente. La seconda tipologia di invidia è quella passiva, altrettanto pericolosa. Ne sono affetti quelli che provano un sentimento di invidia forte che però lo dimostrano con l’indifferenza più totale; quest’ultimi non muovono alcuna critica, semplicemente evitano di cooperare per non portare alcun tipo di vantaggio alla persona oggetto di invidia. Il terzo e ultimo tipo di invidia è quella che affligge coloro che inizialmente, per esempio, fanno concretamente parte di un determinato progetto, dopodichè, allontanandosi da questo per le più svariate vicissitudini, lo criticano in maniera feroce, tuttavia, in incognito. Pericolosissimi. E voi in quale tipologia di invidia vi ritrovate?

Se l’eguaglianza trasuda invidia. L’Italia paralizzata e la lezione americana sulla mobilità sociale, scrive Francesco Forte il 6 Maggio 2015 su “Il Foglio”. Wall Street Journal e Nbc News Poll hanno pubblicato un sondaggio dal quale risulta che la preoccupazione più grande per la maggioranza degli americani intervistati non è la diseguaglianza di reddito in sé, ma la mancanza di mobilità sociale, ossia chance uguali per tutti per andare avanti economicamente. Questa preferenza è molto più marcata tra i repubblicani che tra i filodemocratici: ma comunque solo il 37 per cento di questi ultimi si preoccupa della diseguaglianza più che della mobilità. Fra i filorepubblicani quelli che hanno a cuore la riduzione della diseguaglianza più della mobilità scendono al 15 per cento. Ma il dato che più colpisce è che solo il 34 per cento di coloro che stanno in classi di reddito inferiore ai 30 mila dollari (25 mila euro) annui assegna alla diseguaglianza un’importanza maggiore della mobilità. Le donne che si preoccupano più della diseguaglianza che delle opportunità di modificarla sono solo il 25 per cento contro il 32 degli uomini. Temo che i risultati in Italia siano diversi, data la facilità con cui incontrano più consenso quelli che sostengono la patrimoniale, il reddito minimo garantito, il posto fisso, le imposte progressive, rispetto a quelli che vorrebbero l’ascensore sociale più a portata di mano e la meritocrazia. Forse ciò dipende dal fatto che sino agli anni 50 quasi metà della nostra popolazione viveva di agricoltura e che la maggioranza agognava ad avere un pezzo di terra da coltivare, nel proprio paese, con la casa sopra. Erano stanziali, abitudinari. Invece gli americani avevano il carro dei pionieri, erano mobili; allevavano il bestiame, più che coltivare orti e poderi con la coltura intensiva. Ma c’è anche il fatto che da noi la sinistra politica dall’Ottocento in poi si è imbevuta della lotta di classe, della concezione marxista, per cui il ricco è generalmente uno sfruttatore del lavoro altrui. Va invidiato, tartassato o espropriato, non ammirato e imitato. Non credo che ciò abbia a che fare con l’etica cattolica, in confronto alla protestante, secondo la vulgata di Max Weber. Infatti nell’Italia del Rinascimento la ricchezza era oggetto di ammirazione, assieme alla bellezza. E ciò non solo nei vestiti, nelle carrozze e nelle case dei signori, ma anche nelle cattedrali e nelle vesti dei prelati. Del resto, c’è stata un’epoca, negli anni 80 dello scorso secolo, in cui è sembrato che, insieme al trionfo della televisione, ci fosse anche quello della mobilità sociale, con la riduzione delle diseguaglianze nelle opportunità e la dinamica della competizione al primo posto rispetto alla riduzione delle diseguaglianze nei redditi. Ora abbiamo i No Tav, i No Expo, i No all’abrogazione dell’articolo 18, i No al cambiamento di mansione, di sede, di incarico, di turnazione. La richiesta del reddito di cittadinanza, il bonus in rapporto inverso al reddito e non in proporzione alla produttività, la tutela dall’inflazione per le pensioni minime e in proporzione inversa all’aumento del loro livello, non in base ai contributi versati, e via elencando. A ciò consegue un tasso di crescita del paese che è solo dello 0,6 per cento del pil e un’elevata disoccupazione generale e giovanile. Tu l’as voulu, George Dandin.

Briatore: è l’Italia degli invidiosi. "Da questo Paese si deve fuggire". La scelta dell’imprenditore: "All’estero ammirano chi ce la fa", scrive Leo Turrini il 23 luglio 2016 su “Il Quotidiano.net”.

«Giù le mani da Bonolis! E comunque esiste soltanto una soluzione...».

Sarebbe a dire?

«Lasciarsi alle spalle l’Italia, diventata la patria dell’invidia sociale».

Flavio Briatore non capisce più il Paese delle origini. Lui, sette volte campione del mondo di Formula Uno con Michael Schumacher e Fernando Alonso, non si sottrae al ruolo di simbolo. Di una opulenza mai nascosta, per capirci.

«Io ormai ho rinunciato a comprendere i miei connazionali – sbotta il manager piemontese – Non vi capisco più».

Cosa abbiamo fatto di male?

«Vede, io non voglio scomodare Trump, il discorso nemmeno riguarda la politica. Qui parliamo di una cultura negativa impossibile da estirpare. C’è una differenza enorme tra gli italiani e gli americani, gli inglesi, eccetera».

Quale differenza?

«All’estero ammirano chi ce la fa, chi conquista il successo. Chi diventa ricco per meriti suoi si trasforma in un simbolo positivo».

Da noi invece...

«Ma prenda proprio il caso di Bonolis! A parte il fatto che immagino abbia preso un aereo privato per ragioni di famiglia, mica ha sperperato soldi pubblici. Uno sarà libero di usare il suo denaro come meglio crede o no?».

Beh, non fa una piega.

«Le dirò di più. Basta con questi moralismi da strapazzo. Bonolis è un grande professionista della televisione, uno showman che muove un cospicuo giro d’affari. Ogni sua produzione genera centinaia di posti di lavoro! Di cosa stiamo parlando, mi scusi?».

Forse di niente.

«Eh, bisognerebbe spiegare ai ragazzi che la ricchezza non va detestata. In Italia invece l’invidia sociale si trasforma addirittura in odio. Dovremmo augurarci di stare tutti meglio, ma prevale l’idea assurda che tutti dovremmo stare peggio».

Il trionfo del pauperismo.

«E infatti non se ne può più. Quando ho aperto il Billionaire in Sardegna, mi descrivevano come un nemico del popolo. Ma se spendo soldi miei e rispetto le leggi, di cosa dovrei sentirmi colpevole? Di avercela fatta?».

«Anche i ricchi piangano», recitava uno sfortunato slogan elettorale.

«Appunto. Non sono ottimista perché sradicare un sentimento così profondo non è impresa facile. Infatti io ho preso una decisione ormai venti anni fa e non mi sono mai pentito».

È andato a vivere all’estero.

«Sicuro. Potendo, dall’Italia bisogna andarsene».

Magari con l’aereo di Bonolis. Ma Briatore non tornerebbe nemmeno se lo chiamasse la Ferrari?

«Per carità! Io la Formula Uno non la seguo più da tempo. E comunque anche la Ferrari, per tornare a vincere, deve andare all’estero».

Addirittura.

«O Marchionne apre una base tecnica in Inghilterra o le vittorie se le scorda, si fidi».

L’invidia in Italia …il piccolo decalogo dell’invidioso cronico, scrive Beppe Servegnini (da Il Corriere della Sera, giovedì 16 febbraio 2012, pag. 45). Come attaccare chiunque abbia successo in un Paese di simpatici demagoghi. Una settimana senza Internet, terminata ieri a mezza­notte (questa rubrica è stata dettata). Una quaresima 2.0 che mi ha evitato di commentare due sconcertan­ti esibizioni dell’Intere una di Adriano Celentano: le prime, diciamo, non me le aspettavo. La quarta figuraccia – candidarci per un’Olimpiade che non possiamo permet­terci- è. stata evitata. L’Italia ha bisogno di manutenzione, non di un’altra (costosa) inaugurazione. Un altro tema che avrei volu­to discutere in settimana è l’assalto scomposto a Silvia Deaglio, giovane professoressa associata dì medicina presso l’Università di Torino, figlia dell’economista Mario Deaglio e del ministro El­sa Fornero. Non la conosco di persona; mentre, se non ricordo male, ho incontrato due volte il papà e una volta la mamma (che mi ha salutato con una domanda tremenda). Ma ho letto l’appun­to di Tito Boeri per lavoce.info - arrivato per fax, sempre a cau­sa del digiuno digitale. Leggo: Silvia Deaglio è quattro volte so­pra la media per l’indice H (che misura il numero di lavori scien­tifici in rapporto al numero di citazioni ricevute). In queste valu­tazioni internazionali – credetemi – mamma e papà non conta­no. Tutto lascia pensare che la connazionale sia una giovane don­na in gamba. L’astio delle reazioni, tuttavia, mi ha fatto pensare, Affinché sia più facile, in questo Paese di sim­patici demagoghi, attaccare indi­scriminatamente chi ha successo, ho pensato di stilare il piccolo de­calogo dell’invidioso cronico.

1. Chi ha successo ha certamen­te inlbrogIMo.Altr.ib1ehti avresti avuto successo pure tu. O no?

2. In Italia nulla è metodico, sal­vo il sospetto.

3. A pensar male si fa peccato, ma si indovina. Senza dimentica­re che per il peccato, poi, c’è l’assoluzione.

4· Chiunque ottenga apprezzamento pubblico, dimostra che il pubblico non capisce niente.

5· La mediocrità è un esempio di democrazia applicata. lI merito, una forma di arroganza.

6. Se esiste il minimo comune denominatore, scusate, perché insistere nel dare il massimo?

7· Nella conventicola dell’università italiana, è possibile solo il modello Frati (il rettore della Sapienza dov’è accademicamente sistemata tutta la sua famiglia). II resto è ipocrisia applicata.

8. I genitori di successo possono – anzi, devono – produrre soltanto figli infelici e frustrati. In caso contrario, l’onere della prova spetta a questi ultimi: dimostrate di non avere imbrogliato, marrani!

9· Bisogna diffidare del plauso internazionale. Come si per­mettono americani, inglesi e tedeschi di farci i complimenti? Co­sa contano le università di Columbia e Yale, che oltretutto si chia­mano come una casa cinematografica e una serratura?

1o, Quando si tratta di concorsi, incarichi, titoli e promozioni l’importante è fare di tutta l’erba un fascio. E se qualcuno vi accusa per questo, urlategli in faccia: «Fascista sarà lei!”.

Invidiosi o gufi, quando la politica non tollera i diversi. L’eterna abitudine a isolare chi ha opinioni diverse, scrive Mattia Feltri il 24/11/2014 su “La Stampa”. C’è una parte di sinistra, dice il sindaco di Firenze, Dario Nardella, che «sembra assecondare l’Italia invidiosa». Dunque chi è perplesso o apertamente contrario alle politiche di governo non è che la pensi in altro modo, semplicemente è invidioso: termine contenuto nel vocabolario renziano fra gufi e rosiconi, come il premier è abituato a definire gli avversari. Se è un peccato, lo è doppio. Primo perché non è un linguaggio nuovo: erano «invidiosi», secondo Silvio Berlusconi, quelli che lo attaccavano nei giorni tumultuosi delle olgettine; erano «invidiosi», secondo Roberto Formigoni, quelli che prevedevano sconfitte del centrodestra in Lombardia; erano «invidiosi», secondo l’allora leader dei giovani di Forza Italia, Simone Baldelli, i coetanei di sinistra che deridevano una loro iniziativa (e da cui erano chiamavano «piazzisti», tanto per sottolineare la profondità dell’analisi). Sui gufi c’è da star qui mezza giornata. Erano «gufi» e pure «cornacchie» appollaiati sulla Quercia, secondo il fondatore di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini, quelli che si aspettavano la crisi del primo governo Berlusconi, 1994; erano «gufi» (e di nuovo «cornacchie»), sempre secondo Fini, quelli che nel 2004 davano in discesa il suo partito; erano «gufi», secondo Dario Franceschini, quelli che nel 2009 vedevano il Pd in difficoltà nel posizionamento europeo (coi socialisti o coi popolari?); erano «gufi» e «veterocomunisti», secondo Berlusconi, i contendenti di centrosinistra. I gufi da queste parti svolazzano da molto prima che li avvistasse Renzi, e ora che li ha avvistati parlano tutti di «gufi»: Beatrice Lorenzin, Nunzia De Girolamo, Luigi De Magistris. È un peccato - secondo motivo - perché i rottamatori non hanno rottamato un metodo fastidioso, il metodo di attribuire a chi è in disaccordo secondi fini inconfessabili perché meschini o loschi. Il sostantivo più usato nel ventennio della Seconda repubblica è «malafede». Sono stati dichiarati in malafede Francesco Rutelli da Francesco Storace, l’intero Pds da Maurizio Gasparri, l’intera An da Luigi Manconi, l’intero centrodestra da Luciano Violante, Massimo D’Alema da Pier Ferdinando Casini, Walter Veltroni da Adolfo Urso, Umberto Bossi da Barbara Pollastrini, Giulio Tremonti da Vincenzo Visco, l’intera Forza Italia da tutta la Margherita, l’intero Ulivo da Renato Schifani, Piero Fassino da Giorgio Lainati, i fuoriusciti del M5S dai non fuoriusciti del M5S...Potremmo andare avanti fino all’ultima pagina di questo giornale, ma tocca segnalare che gufi, rosiconi, invidiosi e disonesti sono tutti figli dei coglioni - linguisticamente e psicologicamente parlando - con cui Berlusconi tratteggiò gli elettori di sinistra nella campagna elettorale del 2006. Se qualcuno non è convinto dalle tue ricette, è un coglione. E siccome la vita è un andirivieni da tergicristallo, a loro volta gli elettori di centrodestra erano irrimediabilmente «coglioni» (o, con le attenuanti, «fessi») secondo l’analisi di Dario Fo; Antonio Di Pietro, assecondando le sue attitudini, li iscrisse in un politico registro degli indagati in quanto «complici».  Un meraviglioso ribaltamento della logica spinge a escludere di essere un po’ tardo chi non capisce gli altri: sono gli altri a essere tardi. Ci abbiamo messo del nostro anche noi giornalisti, poiché negli anni si sono letti autorevoli commentatori parlare - per esempio - della «dabbenaggine» e della «complicità nella furbizia illegale» degli ostinati sostenitori di Forza Italia, che a sua volta - secondo esempio - prendeva i voti nella «zona grigia dell’illegalità fiscale» (per non parlare delle perpetue e reciproche accuse di servaggio fra star dei quotidiani). Gli evasori votano Berlusconi, in Sicilia chiunque vinca è perché lo ha votato la mafia, in Italia chiunque vada al governo è a ruota dei padroni e della finanza globale. Una così solida indisponibilità a prendere in considerazione le ragioni degli interlocutori non aveva bisogno dell’esplosivo sbarco sul pianeta della politica di Beppe Grillo (annunciato con un benaugurante vaffanculo). Lui ha riunito in una banda planetaria di farabutti, o in alternativa di imbecilli, chiunque non si inebri alle sue sentenze. A proposito, eccone una delle più rilassate: «Il vero gufo è Renzi».

Il secondo vizio capitale degli Italiani: l’invidia. Che si appunta più sui lontani che sui vicini, scrive Nico Valerio. “Essere stati onesti non ci è convenuto”, ragioneranno tra sé e sé i ministri italiani che una volta tanto hanno fatto gli americani dichiarando pubblicamente redditi, proprietà e perfino numero e modello di automobile posseduta. L’invidia generale, il secondo vizio capitale in Italia, dopo l’antipatia, si è appuntata su di loro. Ma è un falso bersaglio. E anche lo stesso tiro con l’arco in questo caso è uno sport sbagliato. E così, ancora una volta l’Italiano medio si rivela. I paesani, si sa (l'Italia è il classico Paese di provincia), sono invidiosi se un loro concittadino, ritenuto a torto o a ragione "uguale a loro", ha più successo o guadagna di più. Ma vista l’ipocrisia sociale del municipalismo e della meschina solidarietà di quartiere o borgo, di solito l’invidia si appunta meno sui vicini di casa, che un giorno potrebbero esserti utili, che sui personaggi lontani e inaccessibili. Come i governanti e i politici, appunto, ma anche gli attori, i presentatori della televisione, i calciatori e qualunque “personaggio pubblico”. Così anziché lodare l’autodenuncia all'anglosassone di redditi e proprietà da parte dei ministri del governo Monti, su internet e sui giornali i concittadini li stanno investendo di ironia, astio, critiche di ogni tipo. Eppure, sono sicuri questi invidiosi che davvero gli piacerebbe la vita che fanno (e hanno fatto, per arrivare a questo punto della loro carriera) quei ricchi ministri “tecnici” (finanzieri, economisti di grido, industriali o avvocatoni)? Conoscendo bene gli Italiani, rispondo di no. Gli Italiani, certo, vorrebbero la pappa già cotta, ma nessun sacrificio per ottenerla. Nessun italiano medio appena benestante resterebbe così a lungo con auto così vecchie come quelle denunciate dai ministri. Dunque è solo pura (in realtà non c’è nulla di più impuro dell’invidia) invidia sociale e personale. Impura, perché anziché impegnarsi a studiare o a fare comunque imprese geniali o cose creative in genere, cioè a misurarsi nella scala del merito individuale, gli Italiani invidiosi invidiano il risultato, fortuito o meno, di quelle altrui imprese: il successo economico. Ovvero, l’ultimo gradino. E’ come se uno scalatore invidiasse un altro soltanto per essere arrivato sul Monte Bianco, senza calcolare tutta la sua preparazione, magari ultradecennale, e comunque l’intera e difficoltosa salita. L’impiegato tipo, in particolare (categoria da cui solitamente vengono le critiche e le invidie maggiori), uomo o donna che sia, che spesso ha scelto o si è accontentato di questo lavoro proprio per la sua manifesta tranquillità, per il minimo potere decisionale e quindi per la quasi nulla responsabilità personale, non può invidiare chi da solo, rischiando e impegnando tutta la propria personalità, coi relativi alti rischi, persegue posizioni elevate in cui proprio le capacità personalissime di giudizio critico e decisionali sono gli elementi che procurano alti guadagni. Un grande errore, perciò, questo genere di invidia lavorativa. E poiché l’invidia ottunde la ragione anche dei pochi intelligenti, gli invidiosi non capiscono che l’autodenuncia dei ministri serve nei Paesi liberali a mettere in luce preventivamente eventuali interessi in conflitto, non a favorire invidie e moralismi da strapazzo. In un sistema liberale è lecito e perfino auspicabile che la gente guadagni e diventi ricca, se lo vuole e può, perché si presume, fino a prova contraria, che c’entri in qualche misura un particolare merito. Ecco perché le raccomandazioni o le cordate di “amici”, e i privilegi in genere sono o malvisti o addirittura puniti severamente. Come atti di “concorrenza sleale” o illecita. Benissimo, quindi, se un concittadino è diventato meritatamente ricco. A patto però che non solo paghi tutte le tasse, ma che abbia (come i liberali ricordano sempre alla borghesia) anche dei doveri, che insomma sia grato alla società per la possibilità insolita che ha avuto, e che quindi sia sempre attento ai bisogni delle classi meno abbienti e povere. E invece alcuni ministri “tecnici” ricchi, non provenendo dalla politica, e non avendo perciò quel minimo di frequentazione diretta dei ceti disagiati o poveri dell’elettorato, sono apparsi insensibili quando hanno scelto di tassare ancor più i ceti medi e bassi, anziché quelli alti (per es., operazioni di finanza, banche, assicurazioni) e di svendere inutili enti o proprietà di Stato. E sono apparsi odiosi quando hanno ironizzato sui “fannulloni” o sugli “impiegati pigri” o sugli “sfigati” che guadagnano 500 o 1000 euro al mese, come se tutti costoro fossero degli incapaci. In realtà la psicologia ci insegna che il vedersi sbarrata ogni strada elevata dal sistema della raccomandazione e delle “amicizie giuste”, spesso ereditate dalla famiglia, può far cadere in depressione e abulia individui anche di valore. Stiano attenti, perciò i neo-politici tecnici o i ministri ricchi a ostinarsi a frequentare solo i pari grado sociale, cioè i ricchi e potenti. Accade invece nei veri Paesi liberali che sono quelli anglosassoni, forse nello spirito antico del calvinismo e luteranesimo (religioni che a differenza del cattolicesimo non vogliono le sfacciate ostentazioni e ritengono successo e soldi una sorta di riconoscimento di Dio), i ricchi, politici o no, per farsi in qualche modo perdonare di aver ricevuto più di quanto hanno dato nella grande partita a poker che è la vita, non solo facciano beneficienza a larghe mani, non solo finanzino premi e fondazioni e istituti di ricerca scientifica, favoriti anche dall’esenzione fiscale, ma svolgano addirittura “lavori socialmente utili”. Come appunto, se ne sono capaci, quello quasi onorifico di aiutare a gestire la cosa pubblica. Ecco, dopo ricchissimi padroni delle ferriere che hanno depredato il Paese pensando egoisticamente solo ai propri interessi economici, fiscali e giudiziari, dopo ministrucoli senza arte né parte che privi di altre occupazioni (tanto meno studi, figuriamoci!) hanno preso la Politica come unica fonte delle loro ricchezze e dei loro privilegi, ci piace immaginare che i super-ricchi del governo Monti stiano svolgendo, pur con gli inevitabili errori e limiti (devono essere votati in Parlamento proprio dai Partiti che hanno combinato o sottovalutato dolosamente il disastro economico) una sorta di anno sabbatico a favore del Paese. E il fatto che qualcuno di loro abbia rinunciato almeno allo stipendio di ministro avvalora questa sensazione del tutto nuova, ma anche un po’ antica, che ci riporta ai tempi dell’800, quando fare politica era quasi un “servizio”, un “dovere civile”. E c’erano deputati ricchi che si impoverivano a causa della politica. “Ma perché i governanti devono per forza essere ricchi?” chiedono i cittadini comuni. E’ vero, ci sono stati parlamentari che al momento di entrare alla Camera o al Senato erano operai o disoccupati, e tuttora non pochi parlamentari italiani hanno come unico reddito lo stipendio. Ma, attenzione, questi sono proprio i famigerati “politici di professione”, quelli più malvisti dal pubblico. Ed anche l’avvocato che smette la professione per fare il deputato, alla lunga diventa un politico di professione. Però lo stipendio in Italia è tale da trasformare un povero in un benestante, e dopo un’intera legislatura, in un ricco. Per i governanti, poi, lo stipendio totale è ancora più alto, anche se di poco. E’ quindi impossibile che chi siede al Governo sia povero. Diversissimo, invece, il caso dei tanti dirigenti o managers di Stato (e anche privati) che dimostrano quotidianamente di non meritare affatto l’alto stipendio guadagnato, e ancor meno la pensione d’oro. In questo caso la critica popolare, pur manifestata con i colori sgradevoli dell’invidia, svolge un ruolo prezioso. Può aiutare a farli vergognare di se stessi.

Commentare le notizie senza leggerle, quando Facebook è lo specchio dell’Italia di oggi. Cosa succede quando un gesto di disperazione (non) è di un lavoratore italiano, scrive Emanuele Capone il 29/07/2016 su "La Stampa". Ripubblichiamo l’articolo comparso su Il Secolo XIX che ricostruisce la vicenda dei commenti all’articolo pubblicato il 28 luglio sull’edizione online. Ieri mattina abbiamo pubblicato sulla pagina Facebook del Secolo XIX la notizia dell’uomo di 38 anni che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana (foto) dopo avere perso casa e lavoro, ma senza specificare che si tratta di un cittadino marocchino. Abbiamo scritto semplicemente che «un uomo di 38 anni, sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti alla moglie e ai figli». Il primo commento è arrivato 4 minuti dopo la pubblicazione del post: «Diamo lavoro agli altri...», con tanto di “mi piace” di un’altra persona che evidentemente ha la medesima opinione; poi, un diluvio: «(con gli, ndr) immigrati non lo fanno», «aiutiamo gli italiani come il signore», o anche, in rapida sequenza, «per lui non esistono sussidi, alberghi e pranzi pagati, vero?» e «aiutiamo gli altri, noi carne da macello», «come mai non gli hanno dato un albergo a tre stelle come ai (suoi, ndr) fratelli migratori?», e i vari «ma noi... pensiamo a ‘sti maledetti immagrati (così nel testo, ndr)» e «invece agli immigrati... » o il più articolato «ma perché, perché... basta andare a Brindisi, imbarcarsi per l’Albania e fare ritorno a Brindisi il giorno dopo... vestito male... e il gioco è fatto!». È solo quasi 4 ore dopo la condivisione del post che qualcuno legge la notizia e si accorge che il 38enne è in effetti un cittadino straniero, e lo fa notare agli altri: «24 commenti e nessuno ha letto l’articolo, viste le risposte!». Proprio così: sino a quel punto, evidentemente, moltissimi avevano commentato basandosi solo sul titolo, senza nemmeno sapere su che cosa stavano esprimendo la loro opinione. Da quel momento, il tenore degli interventi cambia, c’è chi fa notare a molti dei primi commentatori che «guardate che è marocchino» e comunque il post perde rapidamente d’interesse: il 38enne non è italiano e quindi, come fa notare qualche irriducibile, «non avremo perso nulla...». Quel che è accaduto ieri dimostra innanzi tutto qual è il rapporto degli italiani (di una parte, almeno) con i cittadini stranieri: nessuna sorpresa qui, purtroppo. E nemmeno sorprende quel che è diventato il rapporto degli (stessi?) italiani con l’informazione: se prima si sfogliava velocemente il giornale al bar, si spiavano i titoli dalla spalla del vicino in autobus, adesso il bancone del bar è diventato il News Feed di Facebook e i titoli si scorrono ancora più velocemente, perché tempo da perdere per leggere non ce n’è. Per commentare quello che non si è letto, invece, sembra essercene in abbondanza. Ed è anche per questo, per la mancanza di attenzione di chi legge, che da tempo il rapporto dei siti d’informazione con commenti e commentatori è parecchio travagliato. E nell’ultimo anno non è migliorato: «Spegniamo i commenti per un po’», aveva annunciato The Verge a luglio 2015, più o meno nello stesso periodo in cui la Bbc si chiedeva se «è iniziata la fine dei commenti online». In realtà, almeno per il momento, i commenti sopravvivono, ma sempre più siti decidono di passare la “patata bollente” (di chi insulta, offende, minaccia di morte, si esprime in modo razzista e così via) a Facebook: sotto gli articoli non si può più commentare e si è “costretti” a farlo sui social network, dove chi scrive è identificabile con un nome e un cognome e soprattutto dove la responsabilità legale diventa personale (perché anche i giornali devono tutelarsi): se offendi, vieni chiamato tu a rispondere , non chi gestisce il sito. Pensateci, se siete fra le oltre 60mila persone che ieri si sono viste passare davanti su Facebook la notizia dell’uomo (sì, un marocchino) che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana e avete lasciato un commento basandovi solo sul titolo. Se a scuola vi hanno insegnato a leggere, prima che a scrivere, un motivo ci sarà. Abbiamo scelto di non pubblicare qui i nomi dei commentatori, ma il post è pubblico: se siete curiosi, potete trovare gli autori sulla nostra pagina su Facebook.

Filippo Facci censurato. Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano il 31 luglio 2016, la furia e lo sdegno: "Il popolo di fessi e cretini". I social network talvolta possono essere divertenti, ma sono quasi sempre dannosi. Amplificano i luoghi comuni, danno voce a chi di norma non ne ha e ciò ha un valore democratico almeno apparente. Non serve combatterli e chiederne l’abolizione. Chi non ha niente da dire di solito è molto ciarliero e si esprime con veemenza verbale nella speranza - vana - di farsi sentire e di avere udienza. La maggioranza dei fruitori dei social è costituita da gente isterica che si sfoga insultando chiunque abbia un ruolo più o meno importante, politici, uomini e donne sotto i riflettori, insomma i cosiddetti vip. I luoghi di incontro telematico sono la versione moderna e ingigantita del bar commercio, dove ciascuno dice la prima scemata che gli viene in testa, raramente verificando l’attendibilità delle proprie sparate. Su Twitter e su Facebook dominano il turpiloquio, l’invettiva e l’ingiuria. Persone anonime si divertono un mondo ad avere accesso alla piazza web che consente loro di sparacchiare giudizi anche temerari, comunque incauti, di sicuro poco ponderati. I social permettono a tutti di porsi in evidenza, anzi di illudersi di contare qualcosa e di orientare l’opinione pubblica. Però sul piano pratico non so fino a che punto le idee della folla che usa internet per farsi notare incidano sulle decisioni di chi ha in mano le leve del potere. Poco, suppongo. Anche perché l’uso del computer in Italia è ancora limitato alle persone giovani che hanno dimestichezza con le tecnologie avanzate. Osservando quanto avviene sui social si ha poi la sensazione che essi siano un moltiplicatore di banalità atte ad incrementare il conformismo. Chi esce dagli schemi più diffusi del pensiero unico, quello di moda, si trova a dover combattere con una massa di disinformati che però, essendo assai folta, si ritiene forte e invincibile. L’esempio più eclatante lo si è avuto in questi giorni. Il nostro ottimo inviato Filippo Facci, per aver scritto articoli documentati e vigorosi contro le violenze islamiste, è stato confinato all’indice da Facebook, escluso dalla community quale elemento indesiderabile. In altri termini, censurato, bocciato quale disturbatore intollerabile di coloro che sono al servizio della divulgazione convenzionale. Facci, giornalista eminente di Libero, come tutti può piacere o no, ma è indubbio che sia un uomo di rara intelligenza e capace di interpretare i fatti della vita in modo originale. Sull’islam egli ha scritto pagine che è da fessi sottovalutare in quanto offrono spunti di riflessione profonda. Ebbene, poiché le sue tesi non rientrano nel calderone delle insulsaggini correnti, i guardiani di Facebook le hanno disinvoltamente oscurate, quasi si trattasse di bestemmie. Ormai siamo a questo punto. Chi non sta con i musulmani, assassini o no, in Italia è sgradito, considerato un reietto, un fascista, peggio, un essere indegno di ospitalità. Fossi in Facci, mi vanterei di essere respinto dai cretini. Libero è suo e lo sarà sempre. Vittorio Feltri

E poi la pietra tombale...

«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli», scrive “La Stampa” il 10 giugno 2015. Attacca internet Umberto Eco nel breve incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, dopo aver ricevuto dal rettore Gianmaria Ajani la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” perché «ha arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, ha rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e della semiotica». È lo stesso ateneo in cui nel 1954 si era laureato in Filosofia: «la seconda volta nella stessa università, pare sia legittimo, anche se avrei preferito una laurea in fisica nucleare o in matematica», scherza Eco. La sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro `Numero zero´. In platea il sindaco di Torino, Piero Fassino e il rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi. Quando finisce di parlare scrosciano gli applausi. Eco sorride: «non c’è più religione, neanche una standing ovation». La risposta è immediata: tutti in piedi studenti, professori, autorità. «La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità», osserva Eco che invita i giornali «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno». 

Il professor Vittorino Andreoli: "L'Italia è un Paese malato di mente. Esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti", scrive Andrea Purgatori su L'Huffington Post il 06/08/2013. “L’Italia è un paziente malato di mente. Malato grave. Dal punto di vista psichiatrico, direi che è da ricovero. Però non ci sono più i manicomi”. Il professor Vittorino Andreoli, uno dei massimi esponenti della psichiatria contemporanea, ex direttore del Dipartimento di psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association ha messo idealmente sul lettino questo Paese che si dibatte tra crisi economica e caos politico e si è fatto un’idea precisa del malessere del suo popolo. Un’idea drammatica. Con una premessa: “Che io vedo gli italiani da italiano, in questo momento particolare. Quindi, sia chiaro che questa è una visione degli altri e nello stesso tempo di me. Come in uno specchio”.

Quali sono i sintomi della malattia mentale dell’Italia, professor Andreoli?

“Ne ho individuati quattro. Il primo lo definirei “masochismo nascosto”. Il piacere di trattarsi male e quasi goderne. Però, dietro la maschera dell’esibizionismo”.

Mi faccia capire questa storia della maschera.

“Beh, basta ascoltare gli italiani e i racconti meravigliosi delle loro vacanze, della loro famiglia. Ho fatto questo, ho fatto quello. Sono stato in quel ristorante, il più caro naturalmente. Mio figlio è straordinario, quello piccolo poi…”.

Esibizionisti.

“Ma certo, è questa la maschera che nasconde il masochismo. E poi tenga presente che generalmente l’esibizionismo è un disturbo della sessualità. Mostrare il proprio organo, ma non perché sia potente. Per compensare l’impotenza”.

Viene da pensare a certi politici. Anzi, a un politico in particolare.

“Pensi pure quello che vuole. Io faccio lo psichiatra e le parlo di questo sintomo degli italiani, di noi italiani. Del masochismo mascherato dall’esibizionismo. Tipo: non ho una lira ma mostro il portafoglio, anche se dentro non c’è niente. Oppure: sono vecchio, però metto un paio di jeans per sembrare più giovane e una conchiglia nel punto dove lei sa, così sembra che lì ci sia qualcosa e invece non c’è niente”.

Secondo sintomo.

“L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…”.

Cattivo.

“Sì, ma spietato è ancora di più. Immagini dieci persone su una scialuppa, col mare agitato e il rischio di andare sotto. Ecco, invece di dire “cosa possiamo fare insieme noi dieci per salvarci?”, scatta l’io. Io faccio così, io posso nuotare, io me la cavo in questo modo… individualismo spietato, che al massimo si estende a un piccolissimo clan. Magari alla ragazza che sta insieme a te sulla scialuppa. All’amante più che alla moglie, forse a un amico. Quindi, quando parliamo di gruppo, in realtà parliamo di individualismo allargato”.

Terzo sintomo della malattia mentale degli italiani?

“La recita”.

La recita?

“Aaaahhh, proprio così… noi non esistiamo se non parliamo. Noi esistiamo per quello che diciamo, non per quello che abbiamo fatto. Ecco la patologia della recita: l’italiano indossa la maschera e non sa più qual è il suo volto. Guarda uno spettacolo a teatro o un film, ma non gli basta. No, sta bene solo se recita, se diventa lui l’attore. Guarda il film e parla. Ah, che meraviglia: sto parlando, tutti mi dovete ascoltare. Ma li ha visti gli inglesi?”.

Che fanno gli inglesi?

“Non parlano mai. Invece noi parliamo anche quando ascoltiamo la musica, quando leggiamo il giornale. Mi permetta di ricordare uno che aveva capito benissimo gli italiani, che era Luigi Pirandello. Aveva capito la follia perché aveva una moglie malata di mente. Uno nessuno e centomila è una delle più grandi opere mai scritte ed è perfetta per comprendere la nostra malattia mentale”.

Torniamo ai sintomi, professore.

“No, no. Rimaniamo alla maschera. Pensi a quelli che vanno in vacanza. Dicono che sono stati fuori quindici giorni e invece è una settimana. Oppure raccontano che hanno una terrazza stupenda e invece vivono in un monolocale con un’unica finestra e un vaso di fiori secchi sul davanzale. Non è magnifico? E a forza di raccontarlo, quando vanno a casa si convincono di avere sul serio una terrazza piena di piante. E poi c’è il quarto sintomo, importantissimo. Riguarda la fede…”.

Con la fede non si scherza.

“Mica quella in dio, lasciamo perdere. Io parlo del credere. Pensare che domani, alle otto del mattino ci sarà il miracolo. Poi se li fa dio, San Gennaro o chiunque altro poco importa. Insomma, per capirci, noi viviamo in un disastro, in una cloaca ma crediamo che domattina alle otto ci sarà il miracolo che ci cambia la vita. Aspettiamo Godot, che non c’è. Ma vai a spiegarlo agli italiani. Che cazzo vuoi, ti rispondono. Domattina alle otto arriva Godot. Quindi, non vale la pena di fare niente. E’ una fede incredibile, anche se detta così sembra un paradosso. Chi se ne importa se ci governa uno o l’altro, se viene il padre eterno o Berlusconi, chi se ne importa dei conti e della Corte dei conti, tanto domattina alle otto c’è il miracolo”.

Masochismo nascosto, individualismo spietato, recita, fede nel miracolo. Siamo messi malissimo, professor Andreoli.

“Proprio così. Nessuno psichiatra può salvare questo paziente che è l’Italia. Non posso nemmeno toglierti questi sintomi, perché senza ti sentiresti morto. Se ti togliessi la maschera ti vergogneresti, perché abbiamo perso la faccia dappertutto. Se ti togliessi la fede, ti vedresti meschino. Insomma, se trattassimo questo paziente secondo la ragione, secondo la psichiatria, lo metteremmo in una condizione che lo aggraverebbe. In conclusione, senza questi sintomi il popolo italiano non potrebbe che andare verso un suicidio di massa”.

E allora?

“Allora ci vorrebbe il manicomio. Ma siccome siamo tanti, l’unica considerazione è che il manicomio è l’Italia. E l’unico sano, che potrebbe essere lo psichiatra, visto da tutti questi malati è considerato matto”.

Scherza o dice sul serio?

“Ho cercato di usare un tono realistico facendo dell’ironia, un tono italiano. Però adesso le dico che ogni criterio di buona economia o di buona politica su di noi non funziona, perché in questo momento la nostra malattia è vista come una salvezza. E’ come se dicessi a un credente che dio non esiste e che invece di pregare dovrebbe andare in piazza a fare la rivoluzione. Oppure, da psichiatra, dovrei dire a tutti quelli che stanno facendo le vacanze, ma in realtà non le fanno perché non hanno una lira, tornate a casa e andate in piazza, andate a votare, togliete il potere a quello che dice che bisogna abbattere la magistratura perché non fa quello che vuole lui. Ma non lo farebbero, perché si mettono la maschera e dicono che gli va tutto benissimo”.

Guardi, professore, che non sono tutti malati. Ci sono anche molti sani in circolazione. Secondo lei che fanno?

“Piangono, si lamentano. Ma non sono sani, sono malati anche loro. Sono vicini a una depressione che noi psichiatri chiamiamo anaclitica. Penso agli uomini di cultura, quelli veri. Che ormai leggono solo Ungaretti e magari quel verso stupendo che andrebbe benissimo per il paziente Italia che abbiamo visitato adesso e dice più o meno: l’uomo… attaccato nel vuoto al suo filo di ragno”.

E lei, perché non se ne va?

“Perché faccio lo psichiatra, e vedo persone molto più disperate di me”.

Grazie della seduta, professore.

“Prego”.

Italiani asociali con migliaia di amici su facebook. Psicologia: gli italiani non amano i vicini di casa, scrive il 18 aprile 2016 Grazia Musumeci. Gli italiani razzisti e asociali? In un certo senso sì, soprattutto se hanno a che fare con i vicini di casa. Sarebbe questo l’allarme lanciato da un video-denuncia italiano proposto dalla Nescafé che ha sottoposto alcune persone a un test mettendole a confronto con situazioni sociali diverse, tra cui anche i rapporti condominiali o in generale col vicino di casa. Si è visto che l’italiano medio tende a essere generoso, allegro, socievole e accogliente, ma quando viene messo a confronto con i vicini di casa o di pianerottolo diventa completamente asociale: non saluta, guarda altrove, evita il dialogo, risponde a monosillabi … altro che la torta di benvenuto per i nuovi arrivati, che tanto si vede nei film! E’ la diffidenza che domina nei confronti delle persone o delle famiglie che dovranno condividere una delle nostre pareti. Non ci si fida, se non dopo molti anni e molti tentativi. Il 61% risponde di non avere proprio alcun contatto col vicino di casa, il 57% dichiara di avere contatti solo in ascensore. Sono stati intervistate 1.800 persone di età compresa tra i 18 e i 65 anni e i più asociali in assoluto sono risultati, come sempre, gli abitanti delle grandi città con Milano, Torino, Venezia e Bologna tra le prime in classifica per “asocialità”. A Roma le cose già migliorano mentre al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se pure qui i vicini si evitano nel 50% dei casi. La diffidenza non ha a che fare con cultura o colore della pelle, la stessa lontananza che si riserva a un immigrato africano la si riserva all’ingegnere italiano del piano di sotto!

Italiani, popolo di «asociali», (ma solo con i vicini di casa). Avvertiti come fastidiosi, persone a cui mostrare distacco senza nemmeno scambiarsi un sorriso e una battuta: sei italiani su dieci li evitano e mostrano caratteristiche asociali nei loro confronti. Un video-esperimento racconta le abitudini sul pianerottolo, scrive Eva Perasso il 14 aprile 2016 su “Il Corriere della Sera”. Si chiama asocialità condominiale ed è un comportamento che in Italia è particolarmente diffuso. Non salutare i dirimpettai del proprio pianerottolo, guardare in basso quando si incrociano i condomini per strada, evitare il dialogo persino nello spazio angusto dell'ascensore, fino ad arrivare a non instaurare alcun rapporto - nemmeno il più banale di gentilezza reciproca - anche nel corso di diversi anni passati a condividere tetto, spese e faticose riunioni di amministrazione: ecco i tratti comuni per riconoscere il tipico “condomino asociale”. Accade in Italia: una curiosa ricerca e un video-esperimento commissionati da Nescafè hanno provato a misurare quanto gli italiani siano asociali nei confronti dei vicini di casa e i risultati sono stati poco gentili nei confronti di chi condivide il tetto con altri condomini. Il 61 per cento degli italiani ammette di non voler avere alcun rapporto con i vicini e anzi la diffidenza è alta in alcuni dei luoghi in cui questa relazione si instaura e si mantiene: l'ascensore (la diffidenza qui è pari al 57 per cento), pianerottolo e scale (66 per cento), fino alla chiacchiera dal balcone (evitata dal 41 per cento degli italiani) sono i luoghi più comuni per un incontro e uno scambio, ma anche i più temuti. Il sondaggio web ha coinvolto 1.800 italiani tra i 18 e i 65 anni e ha anche provato a capire le motivazioni di questa diffidenza, che porta all'asocialità condominiale, all'interno di strutture che invece sono (e sono state nei decenni passati nel nostro Paese) altamente sociali per via della condivisione di spazi comuni. Dalla ricerca emerge però chiaramente come la vicinanza fisica non si trasformi automaticamente in atti di solidarietà o in interazione tra le parti. I più diffidenti sono gli uomini (69 per cento, contro il 53 per cento delle donne) e la città dove si instaurano meno rapporti di buon vicinato è Milano, seguita da Torino, Venezia e Bologna. Al Sud i rapporti sembrano più cordiali, anche se un buon 50 per cento ammette di evitarli. Il professor Marco Costa, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, commenta i risultati: «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione come luogo di rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti. Quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy». Gli intervistati hanno messo in luce la mancanza di tempo per i rapporti sociali condominiali per via dei ritmi di vita frenetici e la paura della microcriminalità, ma anche un po' di timidezza: un italiano su due dichiara di temere di essere ignorato dal vicino, uno su tre non vorrebbe apparire troppo invadente, molti si giustificano mettendo in campo la loro timidezza. Curiose e divertenti le tattiche messe in atto per evitare di avere rapporti coi vicini, anche quando proprio il contatto sembra ormai irrimediabile: frasi di circostanza e di scuse per non fermarsi a chiacchierare vengono usate da oltre il 60 per cento dei vicini, mentre addirittura 8 persone su 10 ammettono di far finta di non vedere il vicino, chinando spesso il capo sul cellulare. Fino al rifiuto totale dell'interazione: aspettare di trovare l'ascensore vuoto o controllare che nessuno passi per le scale prima di uscire dal proprio uscio sono comportamenti confessati da molti.

Italiani asociali? 6 italiani su 10 non parlano coi vicini di casa, specie nei condomìni. Testa bassa o sguardo altrove: gli italiani sono asociali, specie con i vicini di casa. Un’indagine svela che il 61 per cento ammette di non aver alcun tipo di relazione coi propri vicini di casa e di aver difficoltà a relazionarvisi. Esperti sociologi e psicologi spiegano le ragioni di questa «asocialità condominiale», scrive mercoledì 13 aprile 2016 Luigi Mondo. Giornalista esperto in salute. Ha scritto quasi 50 libri tra saggistica, manualistica e narrativa, tradotti in diverse lingue.  Altro che buon vicinato o rapporti sociali ricchi e costruttivi, gli italiani quando si tratta di vicini di casa ci fanno una pessima figura. E poi, magari, sono gli stessi che si vantano di avere un sacco di ’’amici’’ su Facebook. Ben 6 italiani su dieci confessano infatti di non avere alcuna intenzione di approfondire alcun rapporto coi propri dirimpettai. Il capro espiatorio della mancanza di riguardo circa i rapporti tra vicinato sarebbero la frenesia della routine quotidiana (73 per cento) e il poco tempo per socializzare (68 per cento). Si è passati così dal cosiddetto ’’condominio famiglia’’ tipico degli anni ‘50, in cui la maggior parte dei vicini di casa si conoscevano e condividevano i momenti della quotidianità, si è passati ai ’’condomini asociali’’, dove si conosce a malapena il nome dei dirimpettai, evitati o salutati a fatica sui pianerottoli. La palma dei più asociali va agli abitanti delle grandi città del Nord, dove la mescolanza di etnie e provenienze regionali, unitamente ai ritmi lavorativi frenetici, hanno accentuato la diffidenza nei condomìni, che si manifesta principalmente sul pianerottolo di casa e le scale (66 per cento), in ascensore (57 per cento) e sul balcone (41 per cento). Lo sconsolante quadro è emerso da uno studio promosso da NESCAFÉ, che porta alla luce una problematica raccontata dal video-esperimento sociale ’’The Nextdoor Hello’’. L’indagine da cui si è preso spunto per l’esperimento è stata condotto con metodologia WOA (Web Opinion Analysis) su circa 1.800 italiani, uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 65 anni. Il monitoraggio è avvenuto online sui principali social network, blog e forum per capire come sono cambiati nel tempo i rapporti nei condomìni italiani tra vicini di casa. «L’esperimento sociale The Nextdoor Hello è nato grazie all’individuazione di un fenomeno sempre più forte nelle città italiane, ovvero la crescente difficoltà delle persone di comunicare con i propri vicini di casa – afferma Matteo Cattaneo, Marketing Manager NESCAFÉ – L’obiettivo che abbiamo raggiunto è stato quello di dimostrare empiricamente, attraverso un concreto esperimento ’’sul campo’’ raccontato da un video, che è possibile ridurre le distanze venutesi a creare tra dirimpettai anche con un semplice gesto, come offrire una tazza di caffè». Ma perché questa diffidenza per i vicini di casa è sempre più marcata? Secondo il campione di italiani, il motivo principale sta nella frenesia della routine quotidiana che impedisce di approfondire qualsiasi rapporto che non riguardi il nucleo famigliare, le amicizie più strette o l’ambito lavorativo. Di conseguenza si ha a disposizione poco tempo per la socializzazione, scoraggiata ancora di più dall’aumentata percezione di microcriminalità e terrorismo attraverso i media (39 per cento). Quasi un italiano su 2 (49 per cento) teme di essere ignorato dal vicino, mentre il 32 per cento dei monitorati ha paura di risultare invadente e il 29 per cento sostiene di essere troppo timido. «Gli impegni lavorativi possono far vivere la propria abitazione soprattutto come luogo di riposo e rifugio proprio perché l’attività sociale viene già coltivata in altri ambienti, come il luogo di lavoro ad esempio – spiega il dott. Marco Costa, professore del Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Bologna – Di conseguenza quando si è a casa, si cerca anzitutto un nido in cui vivere la privacy, la riservatezza e il riposo. In secondo luogo, nella società sta aumentando la mobilità e diminuisce il senso di attaccamento al luogo e anche al vicinato». Il problema è che spesso però il contatto con i vicini di casa è inevitabile fuori dalla porta di casa. Quando questo accade, come cercano di divincolarsi gli italiani che non amano il contatto coi condòmini? Ben 8 su 10 fanno proprio finta di niente (79 per cento), abbassando lo sguardo o facendo finta di scrivere un messaggio con lo smartphone. La seconda ’’via di fuga’’ cui si ricorre di più è la frase ’’Scusa ma sono di fretta’’ (68 per cento), seguita dalla variante ’’Sono in ritardo’’ (64 per cento). Il 45 per cento addirittura evita di utilizzare l’ascensore se già occupato da altri vicini, mentre il 39 per cento si assicura che sulle scale non ci sia nessuno quando esce di casa. «La prossimità spaziale tra vicini di casa è una potenzialità che non porta automaticamente all’interazione e alla solidarietà – spiega il dott. Giandomenico Amendola, professore di Sociologia Urbana nella Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze – Essa non determina una spinta all’interazione e, men che meno, alla costituzione di solidi rapporti interpersonali. A maggior ragione, in un palazzo abitato da lavoratori, le occasioni di incontro sono inevitabilmente sporadiche e in genere molto rapide e formali. Andando ad analizzare i fattori che agiscono sui rapporti di vicinato, i principali sono l’omogeneità sociale-culturale e il tempo di residenza». Qual è l’identikit del ’’coinquilino asociale’’? Da quanto emerso dall’indagine sono soprattutto gli uomini a essere diffidenti nei confronti dei vicini di casa (69 per cento), contro il 53 per cento delle donne. La fascia di età che raccoglie più persone diffidenti con i vicini di casa è quella tra i 31 e i 50 anni (71 per cento), mentre scende al 60 per cento tra gli over 50 e al 51 per cento tra gli under 30. Il fenomeno è molto più forte tra gli abitanti dei grandi centri urbani del Centro-Nord come Milano (69 per cento), Torino (68 per cento), Venezia (66 per cento) e Bologna (64 per cento). Al Centro si verifica con minore intensità, come a Roma (57 per cento), mentre al Sud abbiamo Napoli (55 per cento) e Palermo (52 per cento). Tra le categorie più ’’asociali col vicinato’’ ci sono i manager (68 per cento), i liberi professionisti (65 per cento), gli avvocati (64 per cento), i bancari (63 per cento) e gli impiegati (62 per cento). «Per abbattere questi muri la ricetta è molto semplice – conclude lo psicologo Marco Costa – Basta creare attività comuni come pulizia dei luoghi condivisi o feste di condominio, occorre cioè creare degli obiettivi comuni in cui i condomini possono riconoscersi. Piccoli gesti come l’offrire un caffè od offrire cibo costituiscono anche attività che permettono d’incontrare gli altri senza la preoccupazione di dover interagire in modo personale, mitigando l’ansia di un contatto personale». Il sociologo Giandomenico Amendola afferma invece che «Tra i principali simboli della socializzazione tra vicini, il caffè ne è un esempio e appartiene alla tradizione nordamericana: l’espressione ’’popping into neighbours for a coffee’’ è infatti tipica dei sobborghi statunitensi contrassegnati da una forte omogeneità sociale. Proprio per ridare forza a questa tradizione di vicinato è nato il movimento dei Coffee Parties». Quali dunque gli effetti positivi della socializzazione tra vicini di casa? Al primo posto la scomparsa dell’imbarazzo nei successivi incontri con i condòmini (61 per cento), fatto che rende le persone più serene e meno timorose di incrociare i dirimpettai negli spazi comuni. In seconda posizione la consapevolezza di avere un appoggio in caso di bisogno (53 per cento); questo si può verificare per esempio quando manca un ingrediente in cucina o in caso di lievi incidenti domestici. Infine, al terzo posto, la maggiore intraprendenza nell’invitare i vicini di casa per condividere un momento di relax (44 per cento), per esempio davanti a un buon caffè.

Claudio Martelli: “Giovanni Falcone? Era solo, i magistrati lo avevano isolato”. L’ex Ministro di giustizia che volle Falcone con sè al Ministero così racconta: “Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli. Venne a lavorare con me quando in Sicilia era delegittimato”, scrive Paola Sacchi. Claudio Martelli, già vicepresidente del Consiglio dei ministri e titolare del dicastero di Grazia e Giustizia, racconta a Il Dubbio chi era Giovanni Falcone e perché nel 1991 lo prese a lavorare con sé in Via Arenula. L’ex delfino di Bettino Craxi, l’autore della relazione “Meriti e bisogni”, racconta chi era “il giudice più famoso del mondo, che non usava gli avvisi di garanzia come una pugnalata”.

Onorevole Martelli, quando Falcone arrivò da lei si scatenarono molte polemiche. Perché?

«Le polemiche arrivarono dopo, quando soprattutto emerse il disegno di creare oltre alle Procure distrettuali anche una Procura nazionale Antimafia, che poi venne battezzata la Super-procura. Lì si infiammarono gli animi e in alcuni casi si intossicarono».

Gli animi di chi?

«Di chi dirigeva l’Associazione nazionale magistrati. Era Raffaele Bertoni che arrivò a dire letteralmente: di una Procura nazionale Antimafia, di un’altra cupola mafiosa non c’è alcun bisogno…»

Addirittura?

«Sì. E ci furono esponenti del Csm, in particolare il consigliere Caccia, il quale disse che Falcone non dava più garanzie di indipendenza di magistrato da quando lavorava per il ministero della Giustizia. Io dissi che questa era un’infamia. Lui mi querelò, ma alla fine vinsi. Venne indetto anche uno sciopero generale della Anm contro l’istituzione della Procura nazionale Antimafia. Uno sciopero generale, dico!»

Oggi suona come roba dell’altro mondo…

«Sì, ma questo era il clima. La tesi di fondo era che Martelli intendeva ottenere la subordinazione dei Pm al ministro della Giustizia. Questa era la più grande delle accuse. Poi c’erano quelle a Giovanni e al suo lavoro».

Il Pci e poi Pds non fu neppure tanto tenero. O no?

«Erano in prima linea i comunisti. E gli esponenti della magistratura che ho citato erano tutti di area comunista. L’Unità faceva grancassa, dopo aver osannato Falcone in passato, aveva cambiato atteggiamento già prima che Falcone venisse al ministero».

Quando?

«Quando si rompe il fronte anti-mafia e alcuni di quegli esponenti a cominciare dal sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, incominciano ad attaccare Giovanni».

Che successe?

«La polemica tra Orlando e Falcone sorge quando Giovanni indagando sulla base di un rapporto dei Carabinieri in merito a un appalto di Palermo osserva che con Orlando sindaco, Vito Ciancimino era tornato a imperare sugli appalti di Palermo. A quel punto il Sindaco perde la testa e come era nel suo stile temerario e sino ai limiti dell’oltraggio accusa Falcone di tenere nascosti nei cassetti i nomi dei mandanti politici degli assassini eccellenti di Palermo. Cioè quelli di Carlo Alberto Dalla Chiesa di Piersanti Mattarella».

Eravamo arrivati a questo punto?

«Sì, non contento Orlando fa un esposto firmato da lui, dall’avvocato Galasso e da altri, al Csm sostenendo che Falcone aveva spento le indagini sui più importanti delitti di mafia. Il Csm convoca Falcone nell’autunno del ’91 e lo sottopone a un interrogatorio umiliante, contestandogli di non aver mandato avvisi di garanzia a tizio, caio o sempronio. Giovanni pronuncia frasi che secondo me dovrebbero restare scolpite nella memoria di tutti i magistrati italiani».

Le più significative?

«Disse Giovanni: non si usano gli avvisi di garanzia per pugnalare alla schiena qualcuno. Si riferiva in particolare al caso del costruttore siciliano Costanzo. Falcone sostenne che si mandano quando si hanno elementi sufficienti. Ancora: non si rinviano a giudizio le persone se non si ha la ragionevole convinzione e probabilità di ottenere una sentenza di condanna. Le procedure penali per Giovanni non erano un taxi e quindi non vanno a taxametro».

Ritiene che l’insegnamento di Falcone sia stato poi seguito, in passato e nei nostri giorni?

«Sì, ci sono per fortuna magistrati che hanno seguito il suo metodo molto scrupoloso nelle indagini. E quando otteneva la collaborazione dei pentiti era molto attento a verificare le loro dichiarazioni».

Faccia un esempio.

«In un caso palermitano, un pentito, tal Pellegriti, dichiarò che il mandante degli assassini di Piersanti Mattarella era l’on. Salvo Lima. Falcone gli chiese da chi, come e quando l’avesse saputo. Fa i riscontri e scopre che in quella data Pellegriti era in galera. Dopodiché lo denuncia per calunnia. Ma siccome questo pentito era già diventato un eroe dei tromboni dell’anti-mafia, quelli delle tavole rotonde…»

Intende dire gli stessi che celebrano Falcone?

«Sì, dopo ci arriviamo…allora, stavo dicendo che questi si inviperirono contro Falcone perché aveva rovinato loro il giocattolo. E quindi dopo questo episodio e quanto ho raccontato prima, lo denunciano al Csm che “processa” Falcone. Il quale a un certo punto perde la pazienza e dice: se mi delegittimate, io ho le spalle larghe, ma cosa devono pensare tutti i giovani procuratori, ufficiali di polizia giudiziaria? Falcone in quel momento era il giudice più famoso al mondo».

Ci ricordi perché.

«Era quello che aveva fatto condannare in primo grado e in appello la cupola mafiosa dei Riina, Greco e Provenzano. Grazie a lui gli americani avevano condotto l’operazione Pizza connection…. Era così autorevole e famoso che una volta in Canada un giudice di tribunale volle che si sedesse in aula posto suo. Ma poi arrivò la stagione del corvo di Palermo: le lettere anonime nelle quali si infangavano Falcone e De Gennaro».

Un clima ostile, quasi da brivido con il senno di poi…

«Ora se a questo si aggiunge che Giovanni doveva diventare capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e invece il Csm gli preferì Antonino Meli, e che poi si candidò al Csm e venne bocciato, e infine a procuratore capo di Palermo gli preferirono Pietro Giammanco, si può ben capire il clima attorno a lui. Che giustifica una frase di Paolo Borsellino dopo la strage di Capaci: lo Stato e la magistratura che forse ha più responsabilità di tutti ha cominciato a far morire Falcone quando gli preferirono altri candidati. Venne a lavorare con me quando a Palermo era ormai isolato, delegittimato, messo sotto stato di accusa».

È vera la leggenda che per sdrammatizzare quando arrivava in ufficio dopo pranzo alle segretarie chiedesse scherzoso: neppure oggi Kim Basinger ha chiamato per me?

«Sì, l’ho sentito anche io. Lui aveva anche una grande ironia e la faceva anche su stesso, amava molto la vita. Credo che Giovanni a Roma visse uno dei periodo fu sereni della sua esistenza, perché era messo in condizioni di lavorare».

Come vede le polemiche di oggi tra magistratura e politica?

«Certe cose con Falcone non c’entrano niente. Lui sosteneva la necessità di separare le carriere dei magistrati tra Pm e giudici. Perché il giudice deve essere terzo, imparziale, come dice la Costituzione».

Cosa pensa delle accuse indiscriminate di Piercamillo Navigo, presidente della Anm, ai politici?

«Davigo veniva definito da Antonio Di Pietro il nostro “ragioniere”. Ma io gli riconosco il merito di aver sbaragliato nel congresso dell’Anm tutte le correnti. E poi non è vero che lui accusa indiscriminatamente i politici. Dice che i politici di oggi sono peggio di quelli di ieri». Intervista rilasciata al quotidiano Il Dubbio.

Siamo tutti mafiosi, ma additiamo gli altri di esserlo. La mafia che c’è in noi. Quando i delinquenti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i politici dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le istituzioni ed i magistrati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando caste, lobbies e massonerie dicono: “qua è cosa nostra!”; quando gli imprenditori dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i sindacati dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i professionisti dicono: “qua è cosa nostra!”; quando le associazioni antimafia dicono: “qua è cosa nostra!”; quando i cittadini, singoli od associati, dicono: “qua è cosa nostra!”. Quando quella “cosa nostra”, spesso, è il diritto degli altri, allora quella è mafia. L’art. 416 bis c.p. vale per tutti: “L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.

Se la religione è l’oppio dei popoli, il comunismo è il più grande spacciatore. Lo spaccio si svolge, sovente, presso i più poveri ed ignoranti con dazione di beni non dovuti e lavoro immeritato. Le loro non sono battaglie di civiltà, ma guerre ideologiche, demagogiche ed utopistiche. Quando il nemico non è alle porte, lo cercano nell’ambito intestino. Brandiscono l’arma della democrazia per asservire le masse e soggiogarle alle voglie di potere dei loro ipocriti leader. Lo Stato è asservito a loro e di loro sono i privilegi ed il sostentamento parassitario fiscale e contributivo. Come tutte quelle religioni con un dio cattivo, chi non è come loro è un’infedele da sgozzare. Odiano il progresso e la ricchezza degli altri. Ci vogliono tutti poveri ed al lume di candela. Non capiscono che la gente non va a votare perché questa politica ti distrugge la speranza.    

Quando il più importante sindaco di Roma, Ernesto Nathan, ai primi del ‘900 scoprì che tra le voci di spesa era stata inserita in bilancio, la TRIPPA, necessaria secondo alcuni addetti agli archivi del comune, per nutrire i gatti che dovevano provvedere a tenere lontani i topi dai documenti cartacei, prese una penna e barrò la voce di spesa, tuonando la celeberrima frase: NON C'È PIÙ TRIPPA PER GATTI, il che mise fine alla colonia felina del Comune di Roma. 

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Ogni tema trattato sinteticamente in quest'opera è oggetto di approfondimento analitico in un saggio dedicato.

Alcune puntualizzazioni sul Diritto di Cronaca, Diritto di Critica, Privacy e Copyright.

In seguito al ricevimento di minacce velate o addirittura palesi nascoste dietro disquisizioni giuridiche, al pari loro si palesa quanto segue. I riferimenti ad atti ed a persone ivi citate, non hanno alcuna valenza diffamatoria e sono solo corollario di prova per l'inchiesta. Le persone citate, in forza di norme di legge, non devono sentirsi danneggiate. Ogni minaccia di tutela arbitraria dei propri diritti da parte delle persone citate al fine di porre censura in tutto o in parte del contenuto del presente dossier o vogliano spiegare un velo di omertà sarà inteso come stalking o violenza privata, se non addirittura tentativo di estorsione mafiosa. In tal caso ci si costringe a rivolgerci alle autorità competenti.

Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza.

Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)".

La nuova normativa concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

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Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa.'''

Da quello che ho capito quello che si teme ancora non è avvenuto. Quindi, mai fasciarsi il capo prima di romperlo. Il credere di essere nei guai ed esserlo, ce ne corre. Quando sarà il momento di difendersi ci vorrà un buon avvocato. Prima nulla si può fare se non attendere gli eventi.

Comunque impara a cavartela da solo, perché quando sei nei guai non c’è nessuno che ti aiuti.

L’Egoismo e la Tirannia non consiste nel vivere come vogliamo noi, ma nel pretendere che gli altri vivano come pare a noi

Pur tuttavia il tempo corre a nostro sfavore.

Se il diritto all’oblio non cancella la storia. Il Garante della Privacy ha bocciato il ricorso di un ex terrorista italiano sulla rimozione da parte di Google dei contenuti sul suo passato, scrive Marta Serafini il 21 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il terrorismo non si cancella. Il Garante della Privacy ha bocciato il ricorso di un ex terrorista italiano sulla rimozione da parte di Google dei contenuti che riguardano il suo passato. Oggetto di discussione, il diritto all’oblio. Risvolto della questione, la lotta tra il diritto alla privacy e il diritto all’informazione. Già nel leggere le prime righe del provvedimento pubblicato ieri nella newsletter del Garante ci si scontra con la complessità del tema. «XY ha finito di scontare la pena nel 2009 per gravi di fatti di cronaca di cui è stato protagonista tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80», recita il testo. Si parla degli Anni di Piombo, di vicende che ci hanno segnato. Il Garante ha deciso di difendere la storia. Eppure non può divulgare il nome del protagonista. Secondo passaggio: XY ha chiesto la rimozione da Google di articoli e di suggerimenti di ricerca che lo associano alla parola terrorista. Ma sia Big G che il Garante gli hanno risposto picche. «Le informazioni di cui si chiede la “deindicizzazione” fanno riferimento a reati particolarmente gravi», recitano le motivazioni. Non importa dunque che dagli Anni di Piombo a oggi sia passato molto tempo. E non importa nemmeno che nel 2013 la Corte di Cassazione abbia dato ragione a un ex Prima linea che faceva una richiesta del tutto simile. Dal maggio 2014 alle richieste «tradizionali» si sono aggiunte quelle che riguardano Internet. Google, adeguandosi a una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea, consente l’esercizio del diritto all’oblio anche in Rete. Da allora 33.633 sono le richieste arrivate solo dall’Italia. E se nel 32,2 per cento dei casi Google le ha soddisfatte, in questo ultimo frangente ha deciso di rifiutare, supportato dal Garante. Però non è sempre andata così. Quando si aprì il contenzioso su Renato Vallanzasca, venne fuori che Wikipedia rischiava di dover far sparire centinaia di voci. Allora Jimmy Wales, cofondatore dell’enciclopedia digitale, tuonò: «La storia è un diritto umano. Nascondere la verità è profondamente immorale». Parole che viene difficile non condividere, soprattutto se si parla di terrorismo. Ma che nell’era di Internet hanno implicazioni da non sottovalutare.

DIRITTO ALL’OBLIO. FINE DELLA STORIA!

Per gente indegna. Umanità senza vergogna e con la memoria corta. Nata, ma per i posteri mai vissuta.

Voi umani, dimenticate il passato. Hitler, Stalin ed ogni piccolo e grande criminale innominabile dai giudici avrà la facoltà di essere innominato.

Intervista al dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Cosa c’entra Lei che non è giornalista con il Diritto all’Oblio?

«Io della Cronaca faccio Storia. Ciononostante personalmente sono destinatario degli strali ritorsivi dei magistrati. A loro non piace che si vada oltre la verità giudiziaria. La loro Verità. Oggi però sono intere categorie ad essere colpite: dai giornalisti ai saggisti. Dagli storici ai sociologi. Perché oggi in tema di Diritto all'Oblio e Libertà di espressione, la Cassazione tutela meno del Regolamento Privacy. Una recente sentenza della Cassazione colpisce un giornale (Prima Da Noi) con una interpretazione inedita e pericolosa del diritto all'oblio. Superando le previsioni dei Garanti Privacy e della Corte europea dei Diritti dell'Uomo».

Cosa dice la legge sulla Privacy?

«La nuova normativa, concernente il rapporto tra il diritto alla privacy ed il diritto di cronaca, è contenuta negli articoli 136 e seguenti del Codice privacy che hanno sostanzialmente recepito quanto già stabilito dal citato art. 25 della Legge 675 del 1996. In base a dette norme chiunque esegue la professione di giornalista indipendentemente dal fatto che sia iscritto all'elenco dei pubblicisti o dei praticanti, o che si limiti ad effettuare un trattamento temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli saggi o altre manifestazioni del pensiero:

può procedere al trattamento di dati sensibili anche in assenza dell'autorizzazione del Garante rilasciata ai sensi dell'art. 26 del D. Lgs. 196 del 2003;

può utilizzare dati giudiziari senza adottare le garanzie previste dall'art. 27 del Codice privacy;

può trasferire i dati all'estero senza dover rispettare le specifiche prescrizioni previste per questa tipologia di dati;

non è tenuto a richiedere il consenso né per il trattamento di dati comuni né per il trattamento di dati sensibili».

Cosa prevedeva la Legge e la Giurisprudenza?

«Come è noto, il diritto di manifestare il proprio pensiero ex art. 21 Cost. non può essere garantito in maniera indiscriminata e assoluta, ma è necessario porre dei limiti al fine di poter contemperare tale diritto con quelli dell’onore e della dignità, proteggendo ciascuno da aggressioni morali ingiustificate. La decisione si trova in completa armonia con altre numerose pronunce della Corte. La Cassazione, infatti, ha costantemente ribadito che il diritto di cronaca possa essere esercitato anche quando ne derivi una lesione dell’altrui reputazione, costituendo così causa di giustificazione della condotta a condizione che vengano rispettati i limiti della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Orbene, è fondamentale che la notizia pubblicata sia vera e che sussista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti. Il diritto di cronaca, infatti, giustifica intromissioni nella sfera privata laddove la notizia riportata possa contribuire alla formazione di una pubblica opinione su fatti oggettivamente rilevanti. Il principio di continenza, infine, richiede la correttezza dell’esposizione dei fatti e che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. A tal proposito, giova ricordare che la portata diffamatoria del titolo di un articolo di giornale deve essere valutata prendendo in esame l’intero contenuto dell’articolo, sia sotto il profilo letterale sia sotto il profilo delle modalità complessive con le quali la notizia viene data (Cass. sez. V n. 26531/2009). Tanto premesso si può concludere rilevando che pur essendo tutelato nel nostro ordinamento il diritto di manifestare il proprio pensiero, tale diritto deve, comunque, rispettare i tre limiti della verità, pertinenza e continenza. Diritto di Cronaca e gli estremi della verità, della pertinenza e della continenza della notizia. L'art. 51 codice penale (esimente dell'esercizio di un diritto o dell'adempimento di un dovere) opera a favore dell'articolista nel caso in cui sia indiscussa la verità dei fatti oggetto di pubblicazione e che la stessa sia di rilevante interesse pubblico. In merito all'esimente del Diritto di Cronaca ex art. 51 c.p., la Suprema Corte con Sentenza n 18174/14 afferma: "la cronaca ha per fine l'informazione e, perciò, consiste nella mera comunicazione delle notizie, mentre se il giornalista, sia pur nell'intento di dare compiuta rappresentazione, opera una propria ricostruzione di fatti già noti, ancorchè ne sottolinei dettagli, all'evidenza propone un'opinione". Il diritto ad esprimere delle proprie valutazioni, del resto non va represso qualora si possa fare riferimento al parametro della "veridicità della cronaca", necessario per stabilire se l'articolista abbia assunto una corretta premessa per le sue valutazioni. E la Corte afferma, in proposito: "Invero questa Corte è costante nel ritenere che l'esimente di cui all'art. 51 c.p., è riconoscibile sempre che sia indiscussa la verità dei fatti oggetto della pubblicazione, quindi il loro rilievo per l'interesse pubblico e, infine, la continenza nel darne notizia o commentarli ... In particolare il risarcimento dei danni da diffamazione è escluso dall'esimente dell'esercizio del diritto di critica quando i fatti narrati corrispondano a verità e l'autore, nell'esposizione degli stessi, seppur con terminologia aspra e di pungente disapprovazione, si sia limitato ad esprimere l'insieme delle proprie opinioni (Cass. 19 giugno 2012, n. 10031)"».

Con la novella di cosa si sta parlano?

«La sentenza 13161/16 del 24 giugno 2016 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) entrerà nella storia perché cancella la Storia. La Suprema Corte ha infatti allargato di parecchio la sfera del diritto all’oblio (right to be forgotten) secondo cui si può far valere il diritto ad essere dimenticati, ovvero a fare in modo che il nostro passato non ritorni a galla con una ricerca online anche dopo anni. La Cassazione, ha stabilito che “un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perché pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria”. Vicenda che, ai tempi della richiesta di rimozione dell’articolo, non si era ancora conclusa in giudizio. Spiega Vincenzo Tiani: “La Cassazione richiama la celebre sentenza Google Spain (C-131/12) che ha sancito per prima l’esistenza di un diritto ad essere dimenticati, e le linee guida dell’Art. 29 Data Protection Working Party (WP29) redatte dopo la sentenza (novembre 2014). Peccato che ciò che la Corte di Giustizia Europea (CJEU) ha sancito in quell’occasione è che ogni soggetto ha diritto sì alla de-indicizzazione dai motori di ricerca delle notizie che lo riguardano, qualora lesive della sua dignità, denigratorie, non più rilevanti per l’opinione pubblica, ma mai ha stabilito che tali informazioni dovessero essere rimosse dagli archivi dei giornali, soprattutto laddove tale pubblicazione fosse legale, come nel caso in specie. Ci si riferisce sempre alla lista di risultati che fornisce il motore di ricerca e mai alla notizia di per sé. Se poi andiamo a leggere le linee guida di WP29, al paragrafo 18 questo indirizzo viene confermato. Si dice infatti che la de-indicizzazione non riguarda i motori di ricerca di piccola portata come quelli dei giornali online. Ergo non vi è un obbligo per la testata non solo di rimuovere l’articolo ma neanche di de-indicizzarlo dal proprio motore di ricerca, cosa che avrebbe lo stesso effetto di rimuoverlo visto che lo renderebbe di fatto introvabile.”»

Cosa dice la sentenza Google Spain?

«La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea C-131/12 (Google Spain case, nda), del 13 maggio 2014, ha disposto che i singoli individui possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere specifici risultati che appaiono effettuando una ricerca con il proprio nome, qualora tali risultati siano relativi all’interessato e risultino obsoleti. Un risultato può essere considerato obsoleto quando la tutela dei dati personali dell’interessato prevale rispetto all’interesse pubblico alla conoscenza della notizia cui tale risultato rimanda. E su questo che si deve ragionare. I risultati della ricerca devono essere vagliati per verificare quale dei due diritti fondamentali, quello alla privacy e quello di cronaca, debba prevalere. Ciononostante con la nuova GDPR (General Data Protection Regulation, Reg. 2016/679), che entrerà in vigore nel 2018 sostituendo la ormai obsoleta direttiva 95/46/EC, il Diritto alla Cancellazione (o diritto all’Oblio) è stato introdotto dall’Art. 17. Secondo la nuova norma, qualora sussistano alcuni dei motivi previsti successivamente, l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali […] Tuttavia, al comma 3, si prevedono talune eccezioni. Chi detiene e fa uso dei dati dell’interessato (il titolare del trattamento, il giornale in questo caso) non dovrà dare seguito alla richiesta di cancellazione qualora tale uso sia stato lecitamente fatto:

a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione; 

d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento».

Quali sono stati gli effetti?

«Google rende noti i dati relativi al diritto all'oblio fino al 2015 introdotto da una sentenza della corte di Giustizia Ue nel maggio 2014, che garantisce il diritto dei cittadini europei a veder cancellati sui motori di ricerca i link a notizie personali "inadeguate o non più pertinenti". I link rimossi sono 580mila».

Allora sembra essere tutto risolto!

«Per nulla! Siamo in Italia e per gli ermellini nostrani l’interesse pubblico cessa dopo due anni. Spiega Vincenzo Tiani: “Quello che la Cassazione ha pensato invece è che, scaduti 2 anni e 6 mesi, tale eccezione venga meno. Non solo questa interpretazione mette a repentaglio il diritto alla libera informazione, lasciando spazio a una censura della stampa approvata dalla Corte stessa, ma viola il diritto di difesa (artt. 24 e 25 Cost.) poiché si basa su una legge non scritta e su una interpretazione totalmente libera e priva di solide basi che la possano rendere condivisibile. Il termine di 2 anni e 6 mesi è totalmente arbitrario oltre che ingiustificato. Forse che la stampa sia destinata, in un prossimo futuro, a sopravvivere giusto il tempo di un like su facebook?”»

Cosa ha detto la vittima azzannata degli ermellini?

«"Confesso che ci abbiamo messo più di un giorno per comprendere che si trattava di una sentenza reale ed ufficiale del massimo organo giudiziario – scrive il direttore Alessandro Biancardi il 30 Giugno 2016 su “Prima Da Noi”. La cosa ci ha colpito ulteriormente perchè dopo le pessime esperienze nel piccolo tribunale di provincia riponevamo una certa fiducia nella inappellabile Cassazione. Ci siamo sbagliati ma almeno ora sappiamo di che morte dovremo morire noi, la libertà di stampa e soprattutto la libertà di informarsi. Non spenderemo più parole per esprimere il nostro sdegno ed il nostro disgusto per aver raccolto solo umiliazioni in una guerra che abbiamo deciso di combattere da soli contro tutti per la libertà e la dignità di un Paese quando nessuno sapeva cosa fosse il diritto all’oblio, una invenzione che nella nostra esperienza permette a lobby e pregiudicati di tornare nell’ombra indisturbati. Siamo di fronte ad una situazione più che assurda generata dal giudice dei giudici che condanna un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere ma che ha provocato un danno violando una norma che non esiste e che stabilisce la scadenza di un articolo. Assurdo perchè siamo stati condannati una prima volta perchè non avevamo cancellato l’articolo e pure una seconda volta pur avendolo cancellato ma non abbastanza in fretta. Assurdo perchè gli ermellini dicono in sostanza che i due che si sono accoltellati nel loro ristorante hanno avuto un danno all’immagine (loro e del ristorante) non dalla violenza del gesto di cui si spera siano responsabili ma dal suo racconto rimasto fruibile sul web. Assurdo perchè si stabilisce che in venti anni il Garante della Privacy non ci ha capito niente. La domanda però è: ora ci dite come avremmo dovuto e potuto fare per non incorrere in questa violazione? Dove avremmo dovuto leggere la data di scadenza dell’articolo? Sul retro, sul tappo, sul codice civile, penale, deontologico? A proposito ma un giornalista che cancella articoli siamo sicuri che rispetta le leggi della categoria (l’autocensura è condannata, la post censura no)? Ma sappiamo bene il perchè dopo sei anni siamo i primi ad essere stati condannati per questo: perché la maggior parte dei siti preferisce cancellare per non ‘avere problemi’ nonostante non ci sia una legge che impone il dovere di farlo. Dal canto nostro non riusciremo a far fronte alla mole di danni che abbiamo provocato con 800mila articoli in archivio esercitando correttamente il nostro lavoro di onesti giornalisti e per questo molto difficilmente il quotidiano potrà sopravvivere, schiacciato da superficialità, poteri forti e sentenze impossibili da immaginare in un Paese davvero serio. Ma noi siamo l’ultimo dei problemi, cercheremo giustizia fuori dall'Italia e con il tempo anche la gente capirà, ci volessero anche 20 anni ma alla fine capirà…".»

Ed allora, quali gli effetti sul suo operato?

«Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi internazionali vigenti sul copyright. Le norme internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore di oltre un centinaio di libri con centinaia di pagine che raccontano l'Italia per argomento e per territorio. A tal fine posso assemblare le notizie afferenti lo stesso tema per fare storia o per fare una rassegna stampa. Questo da oggi lo potrò fare nel resto del mondo, ma non in Italia: la patria dell'Omertà. Perchè se non c’è cronaca, non c’è storia. Ed i posteri, che non hanno seguito la notizia sfuggente, saranno ignari di cosa sono stati capaci di fare di ignobile ed atroce i loro antenati senza vergogna».

Diritto all'oblio e libertà, la Cassazione tutela meno del Regolamento Privacy. Una recente sentenza della Cassazione colpisce un giornale con una interpretazione inedita e pericolosa del diritto all'oblio. Superando le previsioni dei Garanti Privacy e della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, scrive Vincenzo Tiani, Law & Digital Communication l'1 luglio 2016. La sentenza 13161/16 del 24 giugno 2016 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) entrerà nella storia, suo e nostro malgrado. La Suprema Corte ha infatti allargato di parecchio le maglie del diritto all’oblio (right to be forgotten) secondo cui si può far valere il diritto ad essere dimenticati, ovvero a fare in modo che il nostro passato non ritorni a galla con una ricerca online anche dopo anni. Il caso. La Cassazione, come riportato dalle parole del convenuto Giornale Online PrimaDaNoi.it, ha stabilito che “un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perché pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria”. Vicenda che, ai tempi della richiesta di rimozione dell’articolo, non si era ancora conclusa in giudizio. La sentenza ricalca l’analoga n. 3/2013 del Tribunale di Ortona. In quel precedente caso, due coniugi erano stati arrestati e poi giudicati innocenti. Il giornale aveva riportato legittimamente la vicenda e, dopo il decreto d’archiviazione per i coniugi, aveva proceduto ad aggiornare l’articolo. Nonostante questo, i coniugi ritenevano lesa la propria immagine in quanto da una ricerca su Google comparivano gli articoli del giornale con la notizia del loro arresto, ma anche quelli della loro innocenza. Anche dopo il parere del Garante della Privacy, favorevole per PrimaDaNoi.it, il giudice ha comunque ritenuto il diritto alla privacy dei coniugi predominante, una volta esaurita la prima necessità di dare la notizia. Anche in quel caso, un diritto di cronaca collegato ad un timer. Ma se ai tempi di quella sentenza il tema del diritto all’oblio era sorto da poco, in seguito al caso Google Spain ancora in corso, in quest’ultima occasione c’erano tutti gli elementi per discostarsi da quella prima sentenza, stando anche il fatto che la materia è delicatissima e in Italia non vige un sistema giuridico dove il precedente è vincolante. Da ultimo, fattore importante anche per la sola richiesta a Google per la de-indicizzazione dal motore di ricerca, in questo caso il processo era ancora in corso e non c’era stata archiviazione come nel precedente. Quali i diritti in gioco. I diritti che ogni giudice in questi casi è chiamato a bilanciare sono due diritti di pari rango come il diritto di cronaca e quello alla privacy. Due diritti riconosciuti anche dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (ECHR). Ciò che stupisce è come gli Ermellini non abbiano tenuto conto della Giurisprudenza, se non italiana almeno europea, che mai in passato ha chiesto la rimozione dei contenuti dall’archivio del giornale, ben sapendo come ciò avrebbe indebolito fortemente la libertà di stampa, fondamentale in una società democratica. Tale scelta della Corte Europea è stata confermata anche in quei casi, come quelli di diffamazione a mezzo stampa, in cui i fatti raccontati nell’articolo erano stati poi smentiti, pur se l’autore aveva sufficienti ragioni e fonti per procedere alla pubblicazione. Perché non appare condivisibile il principio usato dalla Cassazione. La Cassazione richiama la celebre sentenza Google Spain (C-131/12) che ha sancito per prima l’esistenza di un diritto ad essere dimenticati, e le linee guida dell’Art. 29 Data Protection Working Party (WP29) redatte dopo la sentenza (novembre 2014). Peccato che ciò che la Corte di Giustizia Europea (CJEU) ha sancito in quell’occasione è che ogni soggetto ha diritto sì alla de-indicizzazione dai motori di ricerca delle notizie che lo riguardano, qualora lesive della sua dignità, denigratorie, non più rilevanti per l’opinione pubblica, ma mai ha stabilito che tali informazioni dovessero essere rimosse dagli archivi dei giornali, soprattutto laddove tale pubblicazione fosse legale, come nel caso in specie. Ci si riferisce sempre alla lista di risultati che fornisce il motore di ricerca e mai alla notizia di per sé. Se poi andiamo a leggere le linee guida di WP29, al paragrafo 18 questo indirizzo viene confermato. Si dice infatti che la de-indicizzazione non riguarda i motori di ricerca di piccola portata come quelli dei giornali online. Ergo non vi è un obbligo per la testata non solo di rimuovere l’articolo ma neanche di de-indicizzarlo dal proprio motore di ricerca, cosa che avrebbe lo stesso effetto di rimuoverlo visto che lo renderebbe di fatto introvabile. Il diritto all’oblio e Google. Come dicevamo, di diritto all’oblio si è parlato molto negli ultimi 2 anni, da quando la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea C-131/12 (Google Spain case, nda), del 13 maggio 2014, ha disposto che i singoli individui possono chiedere ai motori di ricerca di rimuovere specifici risultati che appaiono effettuando una ricerca con il proprio nome, qualora tali risultati siano relativi all’interessato e risultino obsoleti. Un risultato può essere considerato obsoleto quando la tutela dei dati personali dell’interessato prevale rispetto all’interesse pubblico alla conoscenza della notizia cui tale risultato rimanda. Così Google, nella pagina dedicata alle richieste spiega come queste saranno vagliate per verificare quale dei due diritti fondamentali, quello alla privacy e quello di cronaca, debba prevalere. Questo è quanto avrebbe dovuto fare la parte attrice invece di chiedere al giornale e al giudice la rimozione dell’articolo al giornale. Sarebbe bastata una richiesta gratuita a Google. In caso di risposta negativa si sarebbe potuta rivolgere al Garante della Privacy. E invece, nulla di tutto questo. La conferma nelle eccezioni del nuovo Regolamento Europeo. Con la nuova GDPR (General Data Protection Regulation, Reg. 2016/679), che entrerà in vigore nel 2018 sostituendo la ormai obsoleta direttiva 95/46/EC, il Diritto alla Cancellazione (o diritto all’Oblio) è stato introdotto dall’Art. 17. Secondo la nuova norma, qualora sussistano alcuni dei motivi previsti successivamente, l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali […] Tuttavia, al comma 3, si prevedono talune eccezioni. Chi detiene e fa uso dei dati dell’interessato (il titolare del trattamento, il giornale in questo caso) non dovrà dare seguito alla richiesta di cancellazione qualora tale uso sia stato lecitamente fatto:

a) per l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione; 

d) a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all’articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento;

La lesione del diritto di difesa. Quello che la Cassazione ha pensato invece è che, scaduti 2 anni e 6 mesi, tale eccezione venga meno. Non solo questa interpretazione mette a repentaglio il diritto alla libera informazione, lasciando spazio a una censura della stampa approvata dalla Corte stessa, ma viola il diritto di difesa (artt. 24 e 25 Cost.) poiché si basa su una legge non scritta e su una interpretazione totalmente libera e priva di solide basi che la possano rendere condivisibile. Il termine di 2 anni e 6 mesi è totalmente arbitrario oltre che ingiustificato. Forse che la stampa sia destinata, in un prossimo futuro, a sopravvivere giusto il tempo di un like su facebook? Ci auguriamo di no e che PrimaDaNoi.it faccia ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per ottenere un ribaltamento della sentenza e ristabilire l’importanza del diritto di cronaca.

Diritto all’oblio. La Cassazione conferma: «cancellare sempre articoli anche se attuali». Le testate on line che rendono fruibile l’archivio violano la legge sulla privacy. L’interesse pubblico? Per un articolo finisce dopo due anni, scrive Alessandro Biancardi il 30 Giugno 2016 “Prima Da Noi”. Il giornale on line che ha in archivio articoli viola la legge sulla privacy perchè detiene dati sensibili senza il consenso dell’interessato. Alla fine è arrivata la sentenza della Cassazione che conferma la seconda sentenza del tribunale di Ortona del gennaio 2013 che per la seconda volta in Italia sanciva l’esistenza del diritto all’oblio applicandolo alla cancellazione integrale e totale degli articoli anche dagli archivi dei siti on line. La sentenza si rifaceva integralmente ad una precedente emessa nel 2011 sempre dal tribunale di Ortona che può essere considerata la prima in assoluto in Italia di quel genere. Entrambe le sentenze hanno visto soccombere PrimaDaNoi.it mentre da allora il dibattito su questo controverso diritto è montato fino ad invadere l’Europa e poi gli Stati Uniti. La stessa Cassazione più volte si è espressa in maniera non sempre univoca decidendo caso per caso ma mai si era arrivato ad una decisione tanto drastica. Ancora una volta questo quotidiano è il soggetto soccombente di una sentenza che entrerà nella storia e che apre uno squarcio inimmaginabile sulla fruizione delle notizie e dell’informazione sul web, che taglia di netto la libertà dei giornalisti, limita incredibilmente il diritto di cronaca ma soprattutto dà una mazzata al diritto ad essere informati dei cittadini e a ricercare informazioni.

CHE COSA DICE LA SENTENZA?

La sentenza della Cassazione 13161/16 (Presidente Salvatore Di Palma, relatore Maria Cristina Giancola) conferma di fatto la sentenza 3/2013 del tribunale di Ortona che aveva stabilito che un articolo di cronaca su un accoltellamento in un ristorante dovesse essere cancellato dall’archivio digitale perchè pur essendo corretto, raccontando la verità e non travalicando i limiti di legge, aveva prodotto un danno ai ricorrenti, cioè i soggetti attivi della vicenda di cronaca giudiziaria. A nulla era valsa l’eccezione relativa al diritto di cronaca per cui un fatto se è vero non può produrre un danno nè al fatto che la notizia di due anni prima era ancora attuale perchè il processo relativo non era nemmeno iniziato. In quell’occasione scattò una sanzione di 10mila euro e la parte già in primo grado azionò il pignoramento dell’unico mezzo di trasporto del direttore Alessandro Biancardi. Il fatto di cronaca era accaduto nel 2008 ma già il 6 settembre 2010 i titolari del ristorante chiedevano al giornale la cancellazione dell’articolo perchè ledeva l’immagine della loro attività commerciale. Cancellazione rifiutata. Nel frattempo il tribunale di Ortona emette la prima sentenza sull’oblio e ci condanna per un articolo non cancellato ed ancora presente nell’archivio. Il fatto ci induce a cancellare anche l’articolo oggetto del secondo contenzioso ancora in corso a scopo transattivo e per limitare i danni paventati. Il giudice di fatto non ne tiene conto e calcola comunque che il danno è stato procurato dalla data di pubblicazione (2008) a quella di cancellazione (2011) perchè il trattamento dei dati si era protratto oltre lo scopo necessario anche se con finalità giornalistiche. PrimaDaNoi.it, difesa dall’avvocato Massimo Franceschelli, ha proposto ricorso in Cassazione invocando la falsa applicazione della legge sulla privacy e chiedendo la nullità della sentenza perchè i dati sono stati trattati unicamente per finalità giornalistiche e per questo non c’è bisogno di alcuna autorizzazione. Inoltre il fatto del 2008 non poteva beneficiare dell’oblio perchè l’ultima udienza del processo penale sull’accoltellamento si è tenuta il mese scorso (maggio 2016). Si legge nella sentenza della Cassazione: «l’illecito trattamento dei dati personali è stato dal tribunale specificatamente ravvisato non già nel contenuto e nelle originarie modalità di pubblicazione e diffusione on line dell’articolo di cronaca sul fatto accaduto nel 2008 nè nella conservazione e archiviazione informatica di esso ma nel mantenimento del diretto ed agevole accesso a quel risalente servizio giornalistico del 29 marzo 2008 e della sua diffusione sul web quanto meno a fare tempo dal ricevimento della diffida in data 6 settembre 2010 per la rimozione di questa pubblicazione dalla rete (spontaneamente attuata solo nel corso del giudizio)». Dunque sarebbe corretto pubblicare e mantenere in archivio ma solo per un determinato periodo che nessuna legge prevede e che questa sentenza stabilisce “congruo” in due anni e mezzo. Trascorso questo tempo l’articolo non solo dovrebbe essere deindicizzato (sempre a carico della testata on line a differenza di quanto stabilito dalla Corte di giustizia Europea nel 2014) ma sparire dal web completamente. «La facile accessibilità e consultabilità dell’articolo giornalistico, superiore a quelle dei quotidiani cartacei, tenuto conto dell’ampia diffusione locale del giornale online consentiva di ritenere che dalla data di pubblicazione fino a quella della diffida stragiudiziale fosse trascorso sufficiente tempo perchè le notizie divulgate potessero avere soddisfatto gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistico». «Il persistere del trattamento dei dati personali aveva determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione e ciò in relazione alla peculiarità dell’operazione di trattamento, caratterizzata da sistematicità e capillarità della divulgazione dei dati trattati ed alla natura degli stessi, particolarmente sensibili attenendo a vicenda giudiziaria penale». «La Corte di Cassazione», ha puntualizzato l’avvocato Massimo Franceschelli, «ha deciso in senso contrario rispetto al procuratore generale il quale aveva chiesto l’accoglimento del nostro ricorso giudicandolo fondato e spiegando che non potesse applicarsi il diritto all’oblio perchè il processo penale era ancora in corso». In conclusione la Cassazione stabilisce che:

1) Dopo la pubblicazione dell’articolo l’interesse pubblico alla lettura di quella notizia viene meno (qui si dice che bastano due anni e mezzo).

2) Alla richiesta di cancellazione si doveva ottemperare subito perchè trascorso il tempo.

3) Il diritto di cronaca vale all’istante ma non si possono trattare dati sensibili e renderli fruibili al pubblico per sempre perchè dopo un pò prevale la privacy (per mantenerli ci vuole il consenso).

4) Si cancellano anche articoli recenti ed attuali.

Un articolo corretto produce un danno risarcibile per il solo fatto di essere fruibile

IL GOLPE OLTRE IL BAVAGLIO

Confesso che ci abbiamo messo più di un giorno per comprendere che si trattava di una sentenza reale ed ufficiale del massimo organo giudiziario. La cosa ci ha colpito ulteriormente perchè dopo le pessime esperienze nel piccolo tribunale di provincia riponevamo una certa fiducia nella inappellabile Cassazione. Ci siamo sbagliati ma almeno ora sappiamo di che morte dovremo morire noi, la libertà di stampa e soprattutto la libertà di informarsi. Non spenderemo più parole per esprimere il nostro sdegno ed il nostro disgusto per aver raccolto solo umiliazioni in una guerra che abbiamo deciso di combattere da soli contro tutti per la libertà e la dignità di un Paese quando nessuno sapeva cosa fosse il diritto all’oblio, una invenzione che nella nostra esperienza permette a lobby e pregiudicati di tornare nell’ombra indisturbati.

Siamo di fronte ad una situazione più che assurda generata dal giudice dei giudici che condanna un giornalista che ha fatto bene il proprio mestiere ma che ha provocato un danno violando una norma che non esiste e che stabilisce la scadenza di un articolo. Assurdo perchè siamo stati condannati una prima volta perchè non avevamo cancellato l’articolo e pure una seconda volta pur avendolo cancellato ma non abbastanza in fretta. Assurdo perchè gli ermellini dicono in sostanza che i due che si sono accoltellati nel loro ristorante hanno avuto un danno all’immagine (loro e del ristorante) non dalla violenza del gesto di cui si spera siano responsabili ma dal suo racconto rimasto fruibile sul web. Assurdo perchè si stabilisce che in venti anni il Garante della Privacy non ci ha capito niente. La domanda però è: ora ci dite come avremmo dovuto e potuto fare per non incorrere in questa violazione? Dove avremmo dovuto leggere la data di scadenza dell’articolo? Sul retro, sul tappo, sul codice civile, penale, deontologico? A proposito ma un giornalista che cancella articoli siamo sicuri che rispetta le leggi della categoria (l’autocensura è condannata, la post censura no)? Ma sappiamo bene il perchè dopo sei anni siamo i primi ad essere stati condannati per questo: perché la maggior parte dei siti preferisce cancellare per non avere problemi nonostante non ci sia una legge che impone il dovere di farlo. Dal canto nostro non riusciremo a far fronte alla mole di danni che abbiamo provocato con 800mila articoli in archivio esercitando correttamente il nostro lavoro di onesti giornalisti e per questo molto difficilmente il quotidiano potrà sopravvivere, schiacciato da superficialità, poteri forti e sentenze impossibili da immaginare in un Paese davvero serio. Ma noi siamo l’ultimo dei problemi, cercheremo giustizia fuori dall'Italia e con il tempo anche la gente capirà, ci volessero anche 20 anni ma alla fine capirà…. Una cosa la voglio dire chiara e forte: siamo fieri di quello che abbiamo fatto e ci stupiamo ancora oggi, dopo anni di sofferenze e umiliazioni, di come sia ancora forte il nostro senso per la libertà e la legalità. Che non cambia. Siamo fieri di combattere alla stregua dei partigiani di un tempo contro uno strapotere subculturale fascista e totalitario che avvantaggia dittature di ogni tipo e umilia il cittadino qualunque e lo svuota dei diritti fondamentali. Oggi anche il diritto alla conoscenza. Siamo fieri di essere migliori di tantissime persone che rappresentano le istituzioni e che avrebbero l’obbligo di far prosperare questo Paese, far rispettare le leggi, spiegare cosa sia la legalità e la libertà e colpire chi delinque. Tutti dovrebbero avere immenso rispetto per la Costituzione italiana, l’ultimo baluardo per le nostre libertà e diritti, e sulla attività giornalistica è chiara: «La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure». Questa sentenza invece dice che dopo un pò bisogna essere autorizzati per trattare i dati sensibili e di fatto con la deindicizzazione e la cancellazione degli articoli dal web si applica una censura. Postuma ma sempre censura è. Alessandro Biancardi 

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

In Questo Mondo Di Ladri di Antonello Venditti.

Eh, in questo mondo di ladri

C' ancora un gruppo di amici

Che non si arrendono mai.

Eh, in questo mondo di santi

Il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Non siamo molto importanti

Ma puoi venire con noi.

Eh, in questo mondo di debiti

Viviamo solo di scandali

E ci sposiamo le vergini.

Eh, e disprezziamo i politici,

E ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo,

Piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi.

Voi, vi divertite con noi

E vi rubate tra voi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Voi siete molto importanti

Ma questa festa per noi.

Eh, ma questo mondo di santi

Se il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri... 

 

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

"Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio. Bizzarro popolo gli italiani. Un giorno 45 milioni di fascisti. Il giorno successivo 45 milioni tra antifascisti e partigiani. Eppure questi 90 milioni di italiani non risultano dai censimenti. Il capitalismo è un'ingiusta ripartizione della ricchezza. Il comunismo è una giusta distribuzione della miseria. Il comunismo è la filosofia dei falliti, il credo degli ignoranti, il vangelo dell’invidia; la sua caratteristica intrinseca è la condivisione della povertà. (Lo diceva dei comunisti solo perchè a quel tempo non c'erano i grillini Ndr). Pensieri attribuiti dal web a Winston Churchill.

Quel bisogno primordiale del Capro espiatorio, scrive Daniele Zaccaria il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il giustizialismo è la traduzione politica di una pulsione profonda: tra sacrifici umani e letterari, le società espiano le proprie colpe individuando una vittima designata all'interno del gruppo, da Edipo a Dreyfus, da Gesù Cristo al signor Malaussène. E se questa cupa processione di forche, questa esultanza scomposta per un brillìo di manette, questo sangue che scorre sotto l'applauso ammorbante del "popolo", questo tutti contro uno (o contro pochi) non fosse altro che un rito catartico, un esorcismo collettivo per placare gli istinti violenti della comunità? Il giustizialismo non è soltanto una cultura propagandata e codificata dall'alto, non è solo cinica manutenzione degli spiriti indignati da parte delle élites o dei tribuni della plebe, ma anche una forza primordiale che delinea una precisa condizione psicologica, qualcosa che attiene alle pulsioni profonde degli esseri umani e alla loro vita collettiva. Individuare una vittima all'interno di un gruppo (popolo, etnia, scuola, squadra, famiglia, setta, confraternita) per poi spingerla ai margini di quel gruppo permette di convogliare la violenza endemica verso un obiettivo esterno, che sia esso un individuo o una minoranza di individui, un politico corrotto o un immigrato clandestino. E non importa se siano colpevoli o innocenti, poiché la logica tribale del sacrificio è estranea alle corrispondenze del diritto. La maggioranza ha bisogno di emettere una condanna per mondare se stessa da ogni colpa: è la regola aurea del capro espiatorio. Nelle società moderne la costruzione del capro espiatorio avviene nell'intreccio malsano tra la propaganda dei governi e i pregiudizi popolari, tra manipolazione ideologica e credenze striscianti. Il caso più famoso è l'Affaire Dreyfus, l'ebreo alsaziano ufficiale dell'esercito accusato ingiustamente di spionaggio e alto tradimento che ha rappresentato per la società francese di fine Ottocento il colpevole ideale; per dirla con le parole di Georges Clemenceau «Dreyfus è il capro espiatorio del giudaismo sul quale convergono e si accumulano tutti i presunti crimini precedentemente commessi dagli ebrei». Ebrei traditori, zingari, omosessuali, donne in burquini, kulaki, minoranze etniche, oppositori politici, ma anche sovrani decaduti, banchieri, massoni, re Mida globali, kasta, ciò che caratterizza il capro espiatorio sono le sue qualità estreme; estrema povertà, estrema ricchezza, estrema bellezza o bruttezza, estrema distanza o vicinanza dal gruppo che lo respinge o lo scaccia via. Come fa notare l'antropologo e filosofo francese Réné Girard autore del celebre Le bouc émissaire (1982), probabilmente lo studio più approfondito sul concetto di capro espiatorio, «il rito sacrificale non è altro che la replica del primo linciaggio spontaneo che riporta l'ordine all'interno di una collettività. Attorno alla vittima sacrificata la comunità trova pace, producendo una specie di solidarietà nel crimine». Il sacrificio è dunque violenza legalizzata e funzionale all'equilibrio sociale del gruppo, in particolare nei momenti di crisi (carestie, guerre, epidemie, conflitti sociali). Nella Bibbia (Levitico) il capro sacrificato deve placare l'ira di Dio, è un animale scelto a sorte su cui però converge il biasimo di tutta la comunità, in realtà, sottolinea Girard, la bestia viene uccisa affinché tutti possano mondarsi dei propri peccati e non per paura di una reale ritorsione divina. L'aspetto religioso non è altro che il contenitore simbolico, l'involucro di un espiazione tutta umana. Un tratto talmente interiorizzato e trasmesso nel corso della storia che spesso chi viene colpito dalla vendetta del gruppo accetta docilmente suo destino senza ribellarsi, giocando il ruolo della vittima consenziente. Le tecniche di manipolazione, la semplice prostrazione degli individui nei confronti del potere inquisitorio, la sproporzione di mezzi tra accusa e difesa rendono tutti noi dei potenziali Benjamin Malaussène, il surreale personaggio inventato dallo scrittore Daniel Pennac direttore tecnico di un grande magazzino nonché "capro espiatorio di professione". Nella mitologia classica la prima vittima consenziente è Edipo, l'incestuoso e parricida Edipo, che accetta senza battere ciglio il verdetto ottuso dei tebani i quali lo credono colpevole di aver portato in città un'epidemia di peste; vittima di una mistificazione, Edipo è un innocente perseguitato dal pregiudizio popolare. Le sue parole remissive, la sua stoica accettazione di una colpa che non ha commesso equivalgono a una confessione estorta sotto tortura nella cella buia di un commissariato. Questo tratto di vittima consenziente emerge ancora di più nel sacrificio di Cristo come è raccontato dal Nuovo Testamento: "l'agnello di Dio", letteralmente capro espiatorio umano-divino, afferma di sacrificarsi per salvare il genere umano ma allo stesso tempo si dichiara innocente, accetta il martirio non perché si ritiene colpevole di lesa maestà ma perché sa che c'è bisogno di un colpevole per interrompere il circolo vizioso della violenza. È uno schema ciclico, perché la società contemporanea sostituisce rapidamente i suoi idoli e i suoi bersagli, sempre alla ricerca di nuove vittime, di nuovo sangue da far scorrere per placare la rabbia repressa e alienata delle maggioranze. La rete da questo punto di vista è un formidabile moltiplicatore dell'indignazione popolare e della calunnia collettiva. Diffamare qualcuno senza prove, additare un comportamento non conforme alla volontà del gruppo, perché infedele, osceno, immorale, vedere ovunque complotti e cospirazioni da parte di misteriosi burattinai o di fantomatiche spectre del crimine planetario incarnate dai "signori" disincarnati dell'economia, del farmaco, della guerra, della droga, della religione, dell'informazione, dell'immigrazione testimonia questo bisogno corale di costruire sempre nuovi capri espiatori. Che poi uno lo faccia al grido di "onestà, onestà" o a quello di "fuori gli immigrati" poco cambia.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza, soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

Siamo un Paese in ostaggio degli scioperati. Se vogliono ci fanno tornare al Medioevo. Mario Cervi il 13 luglio 1979 tuona contro le serrate selvagge che cancellano luce, acqua e trasporti, (pubblicato su “Il Giornale” il 28/08/2016) per dimostrare che mai nulla cambia. Gli italiani possono ancora nutrirsi, dissetarsi, viaggiare sia pure irregolarmente in treno e in aereo, ricevere sporadicamente la posta, telefonare, solo perché gli scioperanti di questa o quella categoria, nella loro autonoma valutazione, decidono di consentirglielo: non perché esiste uno Stato che sappia o voglia garantire ai cittadini i beni e gli strumenti essenziali alla vita di ogni giorno. Quando i dipendenti degli acquedotti lo deliberassero mancherebbe l'acqua, così come è mancata l'energia elettrica perché l'hanno deliberato i dipendenti dell'Enel. II precedente delle luci tolte alle piste di Fiumicino ha fatto scuola. Non abbiamo più addetti ai servizi pubblici. Abbiamo i proprietari dei servizi pubblici, che possono disporne come di «cosa loro». Una categoria malcontenta si sente autorizzata a sequestrare il Paese, per ottenere soddisfazione. Quando non le pare sufficiente la sua pressione diretta sulla controparte - nella quale sta l'essenza dello sciopero - dilaga, blocca strade, ponti, stazioni: preannunciando queste azioni, che sono reati, con appositi comunicati, e facendole seguire da dichiarazioni sindacali che si assumono la «responsabilità politica» del sopruso. Se ancora non basta si ricorre al contagio, ossia agli scioperi di solidarietà, i lavoratori della Malpensa hanno interrotto il traffico per un'ora e mezzo, in segno di simpatia per i compagni metalmeccanici. Non hanno voluto infierire. Potevano interromperlo, se gli pareva, per un giorno o per una settimana. Questa tecnica schiude possibilità infinite. Il buio degli elettrici non metterà subito in ginocchio l'Enel? Potranno intervenire allora i dipendenti delle poste e dei telefoni, per aggiungere al buio l'isolamento totale, e costringerci a comunicare con messaggi recapitati magari a piedi o in bicicletta se per avventura si associassero al grande ricatto i ferrovieri e i benzinai. Una volta stabilito che l'Italia, priva di una legge che regolamenti lo sciopero, ha un codice penale caduto in desuetudine perché polizia e magistratura rinunciano ad applicarlo, senza il previo consenso dei sindacati; una volta stabilito che il governo, di fronte a questi avvenimenti, non vede (forse per il black-out) non sente e non parla, cos'altro resta da fare se non affidarsi alla benevolenza degli scioperanti? Siano magnanimi. Lascino un po' di energia elettrica e qualche strada transitabile a questo popolo di ostaggi. 13 luglio 1979

Dopo la maturità i figli non trovano lavoro? Cari genitori, mandateli a fare i politici. L'ironia di Marchi sul "mestiere migliore del mondo": l'unico senza responsabilità, scrive Cesare Marchi l'8 agosto 1981 (Pubblicato su “Il Giornale” il 26/08/2016). L'estate è tempo di vacanze ma anche di importanti decisioni familiari. II ragazzo ha finito le scuole, superato la maturità. Che mestiere gli faremo fare? Se mi è permesso dare un consiglio, suggerirei ai genitori incerti: carriera politica. È il più bel mestiere del mondo. L'unico dove non esista la responsabilità personale; dove, se le cose vanno bene, ci si impadronisce del merito, se vanno male, si scarica la colpa sugli altri. Il politico bocciato alle elezioni non resta disoccupato, non entra in cassa di integrazione, tutt'al più in una delle tante Casse di risparmio, come presidente o vice. Non viene mai silurato, bensì «promosso ad altro incarico», perché la politica è la sola branca dell'attività umana esente dalle ferree leggi della logica. Per esempio, in Francia i comunisti hanno preso una sonora batosta alle elezioni, perciò sono entrati nel governo con ben quattro ministri. In Italia i repubblicani, alle amministrative, non hanno guadagnato punti, perciò hanno ottenuto la presidenza del Consiglio. Il politico è sottratto alle leggi del tempo. Durante un incendio, un vigile del fuoco aziona immediatamente le pompe, un chirurgo, se gli presentano una gamba cancerosa, la amputa prima che sia troppo tardi. Un politico, davanti all'Italia che va in malora, chiede una «pausa di riflessione». In questo mestiere non esistono problemi di mobilità. I politici sono mobilissimi, pronti a balzare da un ministero all'altro, da un ente a una banca, spinti soltanto dal desiderio di impratichirsi nei molteplici e delicati settori dell'amministrazione pubblica. Grazie alla brevità dei governi e alla acrobatica rotazione dei portafogli, nessun Paese vanta dei politici specializzati, come i nostri, in tutto. Passando dalla Marina alle Poste, dai Trasporti ai Beni culturali, dall'Agricoltura alla Sanità, essi, in pochi mesi, sanno tutto sugli incrociatori e sulle raccomandate, sui Tir e sui bronzi di Riace, sui pomodori e sulle endovenose. Certo, per dare stabilità all'esecutivo, bisognerebbe creare dei governi composti di duecento ministri e ottocento sottosegretari, così tutti i mille parlamentari di Montecitorio e Palazzo Madama entrerebbero nel gabinetto ed avremmo non un governo di legislatura, bensì di vita natural durante, perché nessuno dei mille voterebbe la sfiducia contro se stesso. Sento l'obiezione di un genitore: mio figlio non sa parlare, come può tenere comizi? A parte il fatto che i comizi non usano più, per parlare in pubblico basta il foglietto preparato dallo zelante segretario. La stragrande maggioranza, senza foglietto, non arrischia due parole in croce. Meglio così, sarebbe una crocifissione straziante. Ad ogni modo, per fronteggiare qualunque emergenza orale, l'aspirante politico tenga presente questo prontuario di «ministrese» ottimo, come lo specifico di Dulcamara per tutti gli usi. Se non sa che cosa dire, tiri fuori il modello partecipativo che presuppone l'accorpamento delle funzioni e il decentramento decisionale, in una visione totalizzante, enucleando, nel quadro di una tematica differenziata, l'annullamento di ogni ghettizzazione stratificante. Oppure per risolvere i problemi prioritari, porti avanti un approccio programmatorio, in una impostazione organica delle strutture verticistiche che privilegi, non senza il consenso della base, un modello di sviluppo, a monte e a valle della situazione contingente, in un contesto, beninteso, di iniziative cogestite e, al limite, autogestite. Chiaro? Il politico gode anche l'impagabile beneficio dell'incoerenza. Vota l'istituzione delle Saub ma se ha bisogno di cure si fa ricoverare in clinica privata. Vota anche la liberalizzazione degli accessi universitari, ma appena si accorge di quanto sia declassata, anche per colpa sua, la scuola italiana, manda il figlio a studiare all'estero. Insomma egli può, legittimamente, predicar bene e razzolar male. Raramente rispetta le leggi approvate da lui. Un commerciante, se dice al fornitore, scadutogli un pagamento: non ho soldi, torna fra sei mesi, perde la faccia. Il governo può rinviare il pagamento degli arretrati già pattuiti con gli insegnanti e non perde la faccia. Forse perché non ne ha mai avuta una. Ultimo vantaggio. Per ottenere un diploma alla fine delle scuole medie superiori, 350mila studenti hanno sudato l'anima. I politici non sono sottoposti a nessun esame di maturità politica. E dove li troveremmo, del resto, adeguati esaminatori? L'aspirante geometra deve dimostrare alla commissione di saper disegnare il progetto di una casa, calcolare la resistenza di un pavimento. I politici, sanno calcolare la resistenza degli italiani? In sfiduciosa attesa di una risposta, mi piace immaginarli, per un attimo, seduti in aula, per la prova di italiano, si può scegliere fra alcuni temi. Uno di questi dice, pressappoco «esponete i maggiori avvenimenti politici e sociali che hanno caratterizzato il periodo fra le due guerre mondiali». Non so come lo svolgerebbero gli altri, ma quello di Giovanni Spadolini comincerebbe sicuramente così: «Tra le due guerre mondiali sono nato io». Cesare Marchi 8 agosto 1981

Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione.

La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile.

Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile.

Inchiesta del Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Nelle tv salottiere e sui giornali gli “Esperti” si cimentano a dare le loro opinioni. "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016 ad Amatrice e dintorni.

Scrive Maurizio Ribechini il 25 agosto 2016: “Un interessante studio su questo circa un anno e mezzo fa è stato effettuato dal "Consiglio Nazionale degli Ingegneri", il quale con una precisa valutazione dei costi economici, ha calcolato che, fino al novembre 2014, ammontavano a più di 120 miliardi di euro gli stanziamenti dello Stato per i terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 50 anni: da quello siciliano del Belice nel 1968, all’ultimo del maggio 2012 in Emilia Romagna, passando per quello del Friuli del 1976, quello dell'Irpinia del 1980, il primo avvenuto in Umbria e Marche del 1997, quello del Molise del 2002 e quello dell'Aquila nel 2009. Per una spesa media annua di circa 2,5 miliardi di euro. Cifre ancora più elevate sono quelle che fornivano, ormai quattro anni fa (quindi senza considerare i costi del sisma del 2012 in Emilia) Silvio Casucci e Paolo Liberatore nel saggio dal titolo "Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali", dove hanno stimato un costo di ben 147 miliardi di euro, per una spesa media annua di 3,6 miliardi. Tale stima arrivava da un dossier sul rischio sismico redatto dal Dipartimento della Protezione Civile che recitava "i terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale".  Attualizzando tale valore al 2012, si otteneva un totale complessivo pari a circa 147 miliardi. Ma appunto tale cifra non considerava i costi della ricostruzione in Emilia. Se vogliamo contare anche questi, possiamo prendere dei dati ufficiali diffusi dalla Regione Emilia Romagna nel maggio 2015, che parlavano di 1 miliardo e 770 mila euro di contributi concessi. Ecco pertanto che la somma complessiva dei costi per i terremoti lievita a circa 149 miliardi complessivi. Ma quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il territorio? L’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nei mesi scorsi aveva dichiarato che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Mentre proprio ieri, l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha dichiarato: "Nel 2012 presentai un piano da 40 miliardi per la prevenzione, oltre all'assicurazione obbligatoria per il rischio sismico. Non se ne fece nulla, ma quegli interventi sono la grande opera di cui abbiamo bisogno". Numerose altre stime tecniche ed economiche parlano tutte di cifre che oscillano appunto fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Ovvero fra circa 1/3 e 1/4 di quanto abbiamo speso in 50 anni per ricostruire dopo i terremoti.”

Detto questo gli esperti omettono di dire che il costo della prevenzione va quasi tutto a carico del privato, salvo quella minima parte a carico del pubblico, secondo la sua pertinenza, mentre la ricostruzione, con tutte le sue deficienze, è tutta a carico del pubblico. Bene. Si dimenticano i cosiddetti esperti che i cittadini italiani non sono come i profughi, ospitati negli alberghi a 5 stelle e con vitto gratis. I cittadini italiani hanno bisogno di un tetto sulla testa, anche abusivo e prevedibilmente pericolante. Abusivo, stante l’incapacità degli amministratori locali di prevedere un Piano Urbanistico Generale. I soldi son pochi e non ci sono per lussi, burocrati e prevenzione. L'alternativa al tetto insicuro sono le arcate dei ponti. Spesso i cittadini italiani, se non ci fossero i morti a corredo, sarebbero contenti dei terremoti, in quanto gioverebbero della ricostruzione delle loro vecchie case. Lo stesso vale per le alluvioni ed altri eventi naturali.

Ed ancora in tema di prevenzione non bisogna dimenticare poi gli esperti sanitari che ci propinano consigli sulla prevenzione delle malattie, specie tumori ed infarti. Impossibile da seguire. E non stiamo parlando delle vecchie ed annose liste di attesa o dell'impedimento al ricorso del pronto soccorso ormai solo aperto ai casi pre-morte.

Il 21 gennaio 2016 è entrato in vigore il cosiddetto “decreto Lorenzin” sull’appropriatezza delle prescrizioni approvato il 9 dicembre 2015. Il decreto che porterà alla stretta sulle prescrizioni di visite mediche ed esami a rischio di inappropriatezza ed il giro di vite riguarderà oltre 200 prestazioni di specialistica ambulatoriale, scrive Rai News. E' stato infatti pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 gennaio il decreto "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale". Si tratta di prestazioni di Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Il decreto Enti locali da cui scaturisce il DM appropriatezza, prevede che le 203 prestazioni se prescritte AL DI FUORI DELLE CONDIZIONI DI EROGABILITA' contemplate dal DM saranno poste A TOTALE CARICO DEL PAZIENTE. Esempio. "Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna.  Altro esempio. L'esame del colesterolo totale: le condizioni di erogabilità dell'esame a carico del Ssn prevedono che sia da eseguire come screening in tutti i soggetti di età superiore a 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci. Ma in assenza di valori elevati, modifiche dello stile di vita o interventi terapeutici, si precisa, l'esame è da ripete a distanza di 5 anni. Per quanto riguarda poi le condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche, si valuteranno le condizioni di "vulnerabilità sanitaria" (condizioni sanitarie che rendono indispensabili le cure odontoiatriche) o di "vulnerabilità sociale" (ovvero di svantaggio sociale ed economico). Anche per l'erogazione delle dentiere sono previsti gli stessi criteri. Secondo Costantino Troise, segretario del maggiore dei sindacati dei medici dirigenti, l'Anaao-Assomed, "da oggi, per sapere come curare, i medici dovranno leggere la gazzetta ufficiale e non più i testi scientifici".

E dulcis in fundo ci sono gli esperti dei sinistri stradali. Quelli che dicono è sempre colpa dell'insobrietà, della disattenzione e della velocità dell’autista. Questi signori probabilmente non conoscono le cause dei sinistri:

riconducibili al conduttore (inabilità alla guida permanente o temporanea);

riconducibili al mezzo (malfunzionamento delle componenti tecniche per tutti i veicoli o bloccaggio del motore per le moto);

riconducibili alla strada (sconnessione o ostacoli improvvisi o non segnalati);

riconducibili ad eventi atmosferici che limitano visibilità o aderenza.

In conclusione la prevenzione spesso e volentieri è impossibile attuarla per l’imprevedibilità degli eventi, ma ancor di più per i costi e per la burocrazia esosa ed assillante ed è inutile che in tv gli esperti ce la menano sulla prevenzione: la realtà la impedisce.

Figli di...La pancia della politica, scrive Cristina Cucciniello il 22 ago 2016 su “L’Espresso”. Da molti anni, trovo ridicola la reverenza del contro sinistra italiano verso uno sparuto gruppo di famiglie ritenute portatrici sane del gene dell'ortodossia sinistroide. Cognomi, famiglie, alberi genealogici che - per un motivo o l'altro - vengono ritenuti i capisaldi dell'aristocrazia della sinistra italiana, perché alla loro origine ci sono personaggi che - mi ripeto - per un motivo o l'altro hanno contribuito alla storia stessa della sinistra italiana: partigiani, intellettuali, giornalisti, scrittori, membri delle Camere durante le prime legislature repubblicane. Perché trovo ridicola la reverenza, perfino il sussiego, con i quali - tutt'oggi - vengono trattati i discendenti, gli eredi di cotanti pedigree? Beh, perché la sinistra in Europa nasce come un anelito all'eguaglianza - sociale, civile. Nasce come il superamento dei privilegi delle elite, che in altri secoli hanno coinciso con i privilegi di nascita: noi sappiamo che la nostra società, quella occidentale, ha vissuto secoli in cui nascere nobile o nascere figlio di contadino, servo della gleba, comportava un bel po' di differenze nel successivo svolgimento della propria esistenza. Sappiamo che, in altre epoche, nascere nobile - e benestante - significava poter accedere all'istruzione, alla cultura, alla possibilità di viaggiare ed ai diritti politici. Ma la sinistra nasce proprio dal bisogno, dal desiderio, dalla speranza di consentire a chiunque l'accesso ai diritti fondamentali della persona. Nasce come un atto rivoluzionario: dal riconoscimento che siamo eguali e che non importa il cognome che portiamo, la famiglia dalla quale proveniamo, il censo della nostra cerchia familiare. E questo spiega la profonda ridicolaggine - oggi, nel 2016, nel XXI secolo - del riverire totem, del provare reverenza verso l'aristocrazia che ha preso il posto di quella di origine feudale, nel pantheon dei riferimenti culturali della sinistra italiana. Abbattuti i troni, spodestati re, principi e principesse, la sinistra italiana ha ancora bisogno dei suoi aristocratici, probabilmente perché orfana di figure carismatiche contemporanee. Non mi provoca stupore vedere i vari fronti del Partito Democratico rincorrersi nella gara a chi ha in squadra il "figlio di" più famoso, nella battaglia referendaria. Posso soltanto ridere dei renziani che si appuntano sul petto la medaglia dell'endorsement della figlia di Palmiro Togliatti e dei componenti della minoranza del partito che cercano una papessa straniera nei molti rami della discendenza Berlinguer. Posso riderne perché io - che, se scorro il mio albero genealogico, posso vantare di discendere da Costanza di Chiaromonte, che da regina di Napoli si ritrovò dapprima a dover lavorare, perché ripudiata, e poi sposa, come nella migliore delle favole, di un vero principe azzurro - dicevo, io oggi, grazie alle rivoluzioni dei secoli scorsi, posso vantare di essere eguale fra gli eguali, cittadina di una repubblica democratica, parlamentare. Posso vantare di non aver privilegi di nascita e di essere elettore di uno schieramento che - in barba alla logica, al raziocinio, alla sua stessa origine e natura - ancora osanna chi, per banale casualità, porta un cognome particolare.

Berlinguer papessa del Pd? Soltanto un fuoco d'estate, scrive Francesco Damato il 21 ago 2016 su “Il Dubbio”. Bianca, il giornalismo è il suo mestiere. Prima di andare in ferie Bianca Berlinguer ha avuto la conferma del vecchio adagio popolare col quale siamo sempre stati invitati a guardarci più dagli amici che dai nemici, dai quali ultimi già cerca di proteggerci il Signore. Già difesa troppo pelosamente da giornali e giornalisti di area di centrodestra che da una parte ne hanno lamentata la sostituzione al vertice del Tg3 e dall'altra Le hanno praticamente rinfacciato il cognome che porta, come per dire che a suo tempo arrivò alla Rai perché figlia di un certo papà, si è trovata per un po' di giorni candidata addirittura a segretaria del Pd: per sostituire al prossimo congresso, ordinario o anticipato che sarà, l'odiato Matteo Renzi. Al quale si è attribuita, a torto o a ragione, la responsabilità politica della sua sostituzione alla direzione del telegiornale della terza rete della Rai. Una ritorsione alla grande, diciamo così. L'idea di una simile candidatura, per quanto Bianca Berlinguer fosse stata già prenotata pubblicamente dall'azienda per altri programmi d'impegno e di visibilità sulla stessa rete televisiva, è stata lanciata per primo da Il Fatto Quotidiano con un articolo di Fabrizio d'Esposito. Che si è spinto a prospettare una disponibilità dell'ex capogruppo della Camera Roberto Speranza, in verità mai esplicitata davvero, a non candidarsi più al congresso contro Renzi nel caso di una corsa dell'ex direttrice del Tg3. Poi sono arrivate interviste dell'ex presidente del Pd Gianni Cuperlo, a La Stampa e ad altri giornali, su una "Papessa straniera", con esplicito riferimento proprio a Bianca Berlinguer, capace di rivitalizzare il maggiore partito italiano. Dove la sinistra non sarebbe riuscita a trovare ancora la personalità giusta da contrapporre a Renzi. Contemporaneamente un incontenibile, come al solito, Carlo Freccero, consigliere d'amministrazione della Rai indicato dai grillini, in una intervista a Il Foglio ha teorizzato il diritto di "strumentalizzare" tutto nella lotta al segretario del Pd: anche la vicenda della "rimozione" della Berlinguer dalla direzione del Tg3, pur essendo - ha riconosciuto Freccero - l'avvicendamento previsto, e direi fisiologico dopo una direzione durata sette anni. Strumentalizzazione per strumentalizzazione - ha fatto capire Freccero - starebbe bene anche una candidatura, a questo punto, della Berlinguer alla guida del partito di cui probabilmente è elettrice, forse anche iscritta. L'interessata ha sapientemente resistito ad ogni tentazione di commentare le cose che si scrivevano e di dicevano di lei, limitandosi a ricordare a chi l'assillava di domande di avere sempre considerato il giornalismo "il suo mestiere". Il silenzio di Bianca Berlinguer ha probabilmente, e opportunamente, contribuito a spegnere il dibattito, spiaggiato sulle cronache ferragostane di tutt'altro segno e contenuto. Ne ha in qualche modo tratto le somme su la Repubblica Claudio Tito liquidando la discussione su Papi e Papesse "straniere" per il Pd come l'ennesimo diversivo di una sinistra interna al Pd in cerca d'autore e d'identità. Un modo come un altro - ha scritto forse non a torto Tito prendendosela, in particolare, con Gianni Cuperlo - per cercare di segare le gambe al povero Roberto Speranza. Che probabilmente è troppo amico di Pier Luigi Bersani per piacere alle altre componenti della minoranza antirenziana del partito. È stato insomma un fuoco d'estate. Estinto per fortuna da una giornalista che anche sotto questo aspetto non meritava e non merita di vedere strumentalizzati il proprio cognome e la propria vicenda professionale.

Capalbio e non solo, ex comunisti snobbano immigrati e metalmeccanici, scrive il 18 agosto 2016 Laura Naka Antonelli su “Wallstreetitalia”. Su Twitter viene lanciato anche un hashtag ad hoc per commentare il caso: l’hashtag è #capalbioforrefugees e l’ultimo caso tutto italiano, esploso qualche giorno fa, è quello di Capalbio. Un caso che coinvolge e travolge lasinistra italiana, e quella roccaforte della stessa, almeno fino a qualche tempo fa, che si chiama Regione Toscana. Le offese contro questa sinistra sempre più non pervenuta tra la gente comune si sprecano: si parla di ex comunisti radical chic che non vogliono gli immigrati. Tutto parte di fatto proprio dalla questione spinosa dell’immigrazione, dal momento che sono ben due i ricorsi che sono stati presentati al Tar dagli abitanti del centro storico di Capalbio, alla notizia dell’arrivo di 50 immigrati. “Non siamo affatto contro l’accoglienza”, precisa il sindaco del Pd Luigi Bellumori, dopo la bomba mediatica esplosa con le dichiarazioni rilasciate dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi (prima PCI, ora Pd) che, dal suo profilo Facebook, nel giorno di Ferragosto, ha stroncato la sinistra di Capalbio. “A Capalbio nobili ambientalisti, boiardi di Stato e intellettuali ex comunisti non vogliono i profughi, non vogliono la strada, non vogliono nulla, perché le loro vacanze non possono essere disturbate”. Esulta ovviamente la destra, con Matteo Salvini, leader della Lega, che usa le parole del governatore Rossi per perorare la propria causa: “Sono 50 profughi, ma la sinistra radical chic non li vuole vicino ai campi da golf, alle piscine, ai giardini, ai villini e ai villoni di questa sinistra che i campi rom li pensa sempre in periferia». E poi: «Non li metterete davvero qui, hanno detto in coro. Loro si sono ribellati. Ecco la sinistra”. Il sindaco di Capalbio Bellumori difende se stesso e la comunità di Capalbio: “Questa non è accoglienza, è ghettizzazione. Non è integrazione calare 50 migranti in un borgo di 130 residenti. Perché Capalbio è sì, molto più esteso perché ha frazioni e ville sparse, ma qui si parla del centro medievale”. E sulle accuse di razzismo: “Capalbio ha accolto i braccianti del Sud negli Anni ’50, e i migranti dell’Est negli Anni ’90”. Promettendo infine: “Convocheremo un tavolo con prefettura e Regione, sono convinto che troveremo una soluzione. Noi non diciamo no agli immigrati, diciamo no a 50 in quel posto, siamo disposti ad accoglierne una quindicina”. Certo il caso rimanda a quella intervista a IO Donna (Corriere della Sera) rilasciata ormai un bel po’ di anni fa, nel 2009, da Giovanna Nuvoletti, giornalista e fotografa, moglie di Claudio Petruccioli, ex presidente della Rai. Nel commentare il suo romanzo L’era del cinghiale rosso, Nuvoletti aveva parlato proprio della sua Capalbio. “L’unico ricco comunista che abbia mai conosciuto, Giangiacomo Feltrinelli, a Capalbio non ci veniva. I comunisti che negli anni Settanta andavano in Maremma erano squattrinati. Chi poteva se ne andava a Porto Ercole”. E’ una pessima estate, quella di quest’anno, per la sinistra italiana. Non si può dimenticare neanche l’altro grande triste protagonista dei cosiddetti ex comunisti, Arcangelo Sannicandro, 73 anni, avvocato e parlamentare “comunista”, che ha un reddito da 400mila euro l’anno (dato relativo al 2014) e che si è opposto in modo piuttosto plateale, lo scorso 4 agosto, alla Camera, alla proposta del M5S relativa alla riduzione delle indennità di carica da 10.000 a 5.000 euro (tra l’altro richiesta non passata). “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici! Da uno a dieci noi chi siamo?”. E lui, anche, viene da Pci e da Rifondazione.

Capalbio, arrivo dei migranti: gli spocchiosi radical chic tolleranti col sedere degli altri, scrive il 17 agosto 2016 Emanuele Ricucci su “Il Giornale”. Arrivo migranti. A Capalbio è dramma collettivo. Bruciati i tricolori, interrotte le proiezioni della Trilogia dei colori di Krzysztof Kieślowski e le serate di degustazione delle mandorle bio dell’Uzbekistan in tutta la città; per protesta, i vip locali chiedono più diritti. C’è già chi grida “Fascisti!”. In queste ore caldissime, l’ANSiA riporta le ultime dichiarazioni ed iniziative per fronteggiare il dramma: ANSiA: Emergenza migranti a Capalbio. Arrivati i viaggiatori del mare. Distribuite ai poveri fuggiaschi dalla disperazione, pashmine colorate, occhialetti tondi, copie di Pasolini e Saviano. Ristabilito l’ordine. Un gesto umanitario necessario dopo il lungo viaggio, dopo stress alto e paura. A Capalbio i migranti arrivati sono cinquanta e sono stati destinati solo profughi poeti che narrano delle danze tipiche del loro Paese e che sono emarginati dalla dittatura tribale a cui si sono ribellati non potendosi più barbaramente permettere un nuovo Mercedes o di non poter presentare il nuovo libro in giro per il mondo. Altrove in Italia, tutti gli altri. Il sindaco di Lampedusa, ex perla del mediterraneo, si unisce al coro dei colleghi di tutta Italia – che senza battere ciglio hanno ricevuto ordine dalla Prefettura di ospitare i poveri fuggiaschi dalle guerre -, dal centro al Sud, fino al Nord, dai paesini più poveri e isolati a quelli più espressivi a livello architettonico e storico, fino alle grandi città d’arte, in un appello: “Ha ragione il collega toscano. L’arrivo dei 50 (cinquanta) migranti nella sua città, potrebbe essere una “una catastrofe lesiva dell’appeal di Capalbio” – parola del sindaco PD Luigi Bellumori -. Fa bene a dirlo; fa bene a difendere la sua realtà e chi se ne frega delle nostre città, del nostro turismo, della nostra arte e della nostra capacità di fare cultura. Del decoro delle nostre comunità”. Proprio in seguito a quanto si apprende dall’agenzia ANSiA, abbiamo raccolto alcuni pareri. “Appena ricevuta la notizia dell’arrivo di questi poveri viaggiatori sono corso a casa, ho preso mia moglie per un braccio e mio figlio Ubaldo Jonah e gli ho detto: “dobbiamo lasciare casa. Dobbiamo andarcene ora!”. Non credevamo che questo problema potesse toccare anche a noi in Italia. Pensavamo fosse una cosa da Sud, da isole di prossimità, da paesini sperduti del centro o del nord Italia, quelli devastati dalle politiche governative; la nostra Capalbio e chi poteva immaginarlo. Che ne sarà dei nostri reading? E delle sedi delle nostre associazioni umanitarie, deserte? E delle degustazioni di Tofu, del teatro sperimentale? – ci racconta ancora atterrito Gian Maria Ipocriti, stimato medico del luogo -. “Abbiamo riflettuto sulle parole del sindaco. È da fascisti, suvvia, non accogliere, da figli del terzo Reich, quelli a cui toglierei il diritto di voto e di vita; ma noi qui non possiamo proprio permettercelo. Non possiamo!”, ci racconta Guidobaldo Pace. C’è anche chi, come Luigi Colpavostra, addossa le colpe di un simile problema alla politica e alla storia: “La colpa dell’arrivo di cinquanta migranti? Di Salvini, oggi, e delle politiche di Mussolini, ieri. Se non avesse bonificato le paludi pontine, con il conseguente arrivo di operai veneti, del nord Italia, di altre regioni, insomma, venuti a lavorare per vivere, tutto questo non ci sarebbe stato!”. Duilio Demo Crazia, conte capalbiese, dopo due aver dato due corpose boccate di pipa ci risponde: “Chi l’ha detto che immigrazione faccia rima con sicurezza, sostenibilità, assistenzialismo. Roba da fascisti! Prendete le parole (reali) del sindaco. La sicurezza? “Non potrà essere garantita dalla polizia municipale che conta un solo agente a tempo indeterminato e due vigili estivi con il sindaco che ha il ruolo di comandante”. Integrazione e sostenibilità? “Ho delle perplessità che una comunità possa accettare che per un cittadino di Capalbio vengono spesi 31,28 euro l’anno in spesa sociale e per i richiedenti asilo 32,50 euro al giorno”. Vedete? L’immigrazione non ha nulla a che fare con la sicurezza, la sostenibilità, non porta problemi! Prima gli italiani? Fascisti!”. “SulGiornale, quello dei nazimaoistiklingoniani, sì, proprio quello, addirittura si legge: “Tra i moventi del lamento capalbiese, c’è il fatto che i profughi siano sistemati in «ville di gran lusso» vicine «all’area più residenziale». «In 19mila ettari bisognava metterli proprio là?», ha chiosato il primo cittadino. Altra equazione «profughi-decoro». Morale: l’unico immigrato buono per Capalbio è la colf”. Ma vi rendete conto dove siamo arrivati?”, così Patrizio Pierre Libertà. Nel frattempo, il DCSAGdAdPC, il Dipartimento Centro Studi Associazione Gruppo di Amici del Politicamente Corretto, ente freschissimo, istituito nella notte tra il 14 e il 15 agosto, approfittando delle partenze intelligenti degli italiani, si esprime, in una nota, sull’annosa questione di Capalbio: “Quello dei migranti è un dramma. Eppure a Capalbio il mare è bello, le menti sono belle. Crediamo sia un peccato rovinare questa cartolina d’Italia con l’arrivo di un contingente di poveri viaggiatori del mare, ben 50, che pensiamo di destinare altrove, verso un’Italia più povera, in cui non ci saranno le principali basi strutturali per l’accoglienza ma ci sono maggiori spazi territoriali. Ribadiamo il nostro sdegno verso chi ritiene l’immigrazione un problema, verso quelle comunità che si lamentano di non riuscire ad integrare, di non averne gli strumenti per farlo. Una barbarie proprio nel corso del giubileo della Misericordia. Questi sono i nemici della modernità, della democrazia, del nuovo modo di stare al mondo e di essere più che fratelli: coinquilini”.

Brutti, sporchi e cattivi, scrive Giovedì 18 agosto 2016 Nino Spirlì su “Il Giornale”. Ebbene, ora che anche la sinistra radicale di Capalbio ha ricevuto la sgraditissima visita di questi clandestini puzzolenti, che scappano dalle loro bidonville, per venire a bivaccare in Italia, possiamo dire che la misura sia colma. Finché hanno rotto i coglioni ai poveracci italiani, quelli che non arrivano alla prima settimana, quelli che stanno duellando con equitalia da anni, quelli che stanno ancora pagando a rate di sangue il finto benessere post DriveIn e AsFidanken, quelli che hanno recuperato i nonni a casa e magnano con le loro pensioni sicure (per ora), quelli che non sanno più per chi votare dopo aver fatto tutto il giro delle setteliste, finché, dicevamo, i coglioni triturati erano i loro, c’era, ad ogni lamentela,  l’islamofobia, il razzismo, l’accoglienza necessaria, la fratellanza cattolica di parata di Francesco il gaucho, la xenofobia, il volemosebbenismo. I giornali addomesticati avevano scancellato (è italiano, è italiano: significa fare le cancella tipo ####### sulla parola sbagliata e si usava sulle pergamene. NdA) tutti i termini tipo negro, zingaro, beduino… Certo pretame da politburo, certo vescovame unto di compromesso massomafioso e grasso di soldi facili da finta fratellanza, certo papame da fotoromanzo l’hanno avuta facile. Perché il cuore del governo, non ancora in ferie, era dalla loro parte. “Seicento negri al 15! N’acqua minerale lisca al 23! 387 siriani al 19! Na pajiata ar 5! Na camionata de regazzini ar grand hotel! Ahò, portaje na cinquantina de mignotte nigeriane ar privé!…” Sembrava una comanda continua. Poi, il piede in fallo! Venti negretti, docciati, sanati e vestiti alla marinara vanno sistemati in un cinquestelle a Capalbio! Col Cazzo! Ma che stamo a scherzà??? Qua c’abbiamo in ferie milionarie tutta a nomenclatura der piddì!!!! Politisci, imprenditori, zozzone rifatte, gente che conta… Robba da villona de millemetriquadri! Che, fra l’altro, i loro stranieri ce l’hanno già: filippini per i tappeti e i mobili, moldave per i nonni, svizzere per i bambini, capoverdiani per le siepi, giamaicani per le signore (e i signori, diciamolo)… Che gli mandi, i negri d’Africa????? Quelli sdentati, che gli puzza il fiato di carie e hanno le pulci fra i ricci? Quelli che te ribartano i cassonetti e bruciano i materassi? Quelli che se credono sto par de ciufoli e parlano di uguaglianza e diritti umani????? Brutti sporchi e cattivi! Ecco cosa sono! Un ammasso di straccioni che non possono pretendere di venire ad abitare in un paradiso terrestre destinato solo a pochi, pochissimi, (non)eletti che hanno il diritto di rilassarsi prima delle fatiche autunnali: shopping stagionale, party referendari, riaperture di canottieri, palestre eterofrocie, discotroieche di vecchio conio e nuova stampa…No, ragazzi, non si può! Sti clandestini vanno freesbati da n’artra parte! Mò chiamo io a Roma… Pronto, ma che, state a scherzà??? … E viene fuori che, “Stai tranquillo: tutto sotto controllo! Mò basta lo diciamo noi, compagno! Mò bombardiamo pure noi! Non ve lo volevamo dire, per evitare il clamore, ma, sì ragazzi: in Libia je stamo a fa un culo così! Gli abbiamo mandato quelli dei Servizi. E pure qualche bombetta. E mica se fermamo! No, no. Mò li sterminiamo tutti. Intanto, abbiamo controllato i gommoni e, toh!, Ci abbiamo trovato un tunisino che voleva venire in Italia, diononvoglia a Capalbio, per fare l’attentato. Dunque, c’est fini! Che crociata sia! Questi pur di distruggere Capalbio, sarebbero capaci di venirci a pisciare pure davanti al portone del palazzo a Roma. Magari a defecare nel parchetto sotto casa. E senza raccogliere con la paletta e la bustina, come fanno i nostri filippini coi nostri bassotti… No, No, No! Vanno rimandati tutti a casaccia loro.” Ma pensa te: invadere Capalbio! Che idea malsana! Considerazioni agostane, a qualche metro dalla vergognosa tendopoli di San Ferdinando, Area Industriale Porto di Gioia Tauro, piena fino al vomito. Anzi, con la nuova, più accogliente, in fase di montaggio proprio di fronte…Puah! Tra me e me…

I profughi a Capalbio: l'ultima spiaggia della sinistra. Le villette destinate ai profughi a Capalbio. Il luogo simbolo dell'Italia radical chic doveva dare una risposta diversa, avrebbe dovuto aprire le porte, scrive Roberto Saviano il 19 agosto 2016 su "La Repubblica". Capalbio non è solo Capalbio. Ci sono luoghi che trascendono ciò che sono, smettono di essere definiti dalle piazze e dagli affreschi, non sono descritti nemmeno dai volti, dai palazzi o dalle scalinate ma diventano simbolo creato dall'immaginazione. Capalbio è uno di questi luoghi. Non è per la grazia del suo meraviglioso borgo, per la dolcezza della sua costa, o quantomeno non è più solo per la sua bellezza armoniosa che Capalbio campeggia nel nostro immaginario. Capalbio è la storia delle estati della nostra Repubblica: della prima, della seconda e adesso di questa indecifrabile terza. La piccola Atene - definizione romantica in cui Capalbio con un po' di civetteria si riconosce - dove nel tempo delle ferie si sono incontrati da sempre intellettuali, dirigenti di partito, imprenditori, giornalisti e artisti progressisti e di sinistra. Capalbio è divenuta - forse persino suo malgrado - il dolce ritrovo degli intellettuali. Parola che nel tempo della rabbia, che è il nostro tempo, sta subendo sui social network lo stesso destino semantico di "parlamentare" o "consigliere comunale" - per non parlare di "assessore": troppo spesso sinonimi, per le nuove generazioni, di élite. E quindi, immancabilmente, di corruzione. E che cosa ti combina l'"intellighenzia" di Capalbio? Che cosa si fa per spegnere la rabbia e il qualunquismo? I fatti sono noti. Profughi in fuga dalla guerra o semplici poveri cristi in cerca di un futuro migliore. Certo, come in ogni emigrazione da qualche parte si nasconderà anche qualche brutto ceffo (non siamo stati noi a regalare agli americani Al Capone e Lucky Luciano?). Certo, in questi giorni c'è l'allarme per le infiltrazioni jihadiste. Ma qui stiamo parlando di immigrati a cui è stato già riconosciuto appunto lo stato di profughi. A Capalbio, come a tanti altri comuni d'Italia, è stato chiesto di esserci, nel tentativo di arginare l'emergenza. Quindi ospitarne, nel caso, cinquanta. E che è successo? Capalbio ha fatto le barricate. Sì, il sindaco (per la cronaca, il piddino Luigi Bellumori) sarà anche stato inopportuno, comportandosi come qualsiasi sindaco di un piccolo centro turistico, protestando per la decisione del prefetto: terrorizzato magari che i migranti allontanino le famiglie, che i ristoranti si svuotino, che la spesa turistica diminuisca. Ma Capalbio non è solo Capalbio: non è un piccolo centro turistico come un altro. E proprio per questo la piccola Atene doveva rispondere diversamente: in nome della sua storia. Il flusso di migranti, ben poco a dire il vero, avrebbe dovuto essere al centro di una risposta intelligente come i suoi villeggianti. Di fronte all'emergenza, Capalbio avrebbe dovuto rispondere in tutt'altro modo: focalizzando la sua estate su questo tema, essendo questa terra di dibattiti e incontri. Il che non avrebbe voluto dire trasformare una legittima vacanza in penitenza. Né tanto meno ospitare i migranti nelle proprie case (richiesta subdolamente razzista che si diffonde come un morbo online a chiunque sostenga politiche d'accoglienza "portateli a casa tua"). Invece, col loro silenzio, gli intellettuali di Capalbio non hanno fatto che fornire munizioni ai soliti fustigatori dei Radical Chic. Ecco: Radical Chic l'espressione mutuata da Tom Wolfe è una accusa sempreverde al di là di qualsiasi riflessione seria sul caso. Si sa da dove deriva: ma è bene fare una veloce sintesi. Se potete, rifiondatevi su quel libro di Wolfe, Radical Chic, pubblicato in Italia da Castelvecchi (meraviglioso). È il reportage di una serata particolare. A New York. In casa di Leonard Bernstein: il grande direttore d'orchestra nonché autore di West Side Story. Tra gli ospiti, il regista da Oscar Otto Preminger e i leader dei Black Panthers. Il libro racconta come la moglie di Bernstein, in una casa lussuosissima, raccogliesse fondi per i combattenti delle Pantere Nere. Wolfe fa capire come in quella casa si respirasse quasi l'eccitazione per qualcosa di esotico, lontano e proibito. Il tutto sapeva di impostura: il gioco puramente intellettuale di chi, da lontano, prende parti che nella vita reale non è costretto a sostenere, di chi insomma nella propria posizione può permettersi di giocare con le idee, senza doverne pagare mai il prezzo. Questo e molto altro si conserva dunque in quelle pagine e nella definizione di Radical Chic. Ma da allora - era il 1970 - quel titolo viene ormai usato come uno slogan dispregiativo. Chiunque decida di vivere del proprio lavoro culturale e abbia posizioni progressiste e democratiche diventa "radical chic". Provare a ragionare su certi temi, provare a cercare la mediazione, subito viene etichettato come furbesco e ipocrita. Radical Chic oggi è uno slogan qualunquista. Un insulto generico. Il fatto è che questa volta Capalbio ha risposto esattamente come nelle pagine di Tom Wolfe si muovono gli intellettuali americani alle prese con i "pericolosi" ribelli: attraenti da lontano, disgustosi da vicino. Ora, i migranti destinati a Capalbio non saranno certo i nuovi Black Panters. E nelle villette sul mare in Toscana non svernano certo i nuovi Bernstein (o i nuovi Preminger). Ma non ci voleva neppure l'intelligenza di Tom Wolfe per comportarsi con più buonsenso. Non lo sanno, nella piccola Atene, che il disgusto più grande, nella gente, nasce proprio quando si vede il problema migrazione scaricato lontano dalle loro case e quindi piombato nelle periferie? I loro figli, nelle scuole che frequentano, forse non si imbattono in quelle classi formate per la maggior parte da bambini immigrati. Le spiagge che frequentano - come la ormai mitica "Ultima spiaggia" - non sono come le spiagge libere e popolari piene di famiglie d'ogni cultura. Molto più facile - dicono i delusi dalla risposta di Capalbio - parlare di integrazione quando i problemi sono lontani. Non la vivono, i sostenitori dell'integrazione, la difficoltà dell'integrazione. Ecco perché da Capalbio ci si sarebbe aspettati una reazione diversa. Avete presente l'immagine dei migranti che entrano nella stazione di Monaco accolti dalla gente? Ricordate il milione di euro raccolti, sempre a Monaco, non dai circoli intellettuali (che pure tanto si sono impegnati e schierati) ma dagli ultras del Bayern? Certo: Capalbio non è Monaco. Ma tanto più dopo questa brutta storia non è più solo Capalbio. La piccola Atene avrebbe potuto fare la differenza. Che delusione invece questo silenzio di tutti gli intellettuali - quasi tutti: Asor Rosa è stata una delle pochissime eccezioni. Che vergogna vedere non "l'intellighenzia" ma l'intelligenza andare in vacanza. E nascondersi.

Quel "poverino" del colonnello dell'Isis. Così i compagni italiani lo difendevano, scrive “Libero Quotidiano” il 19 agosto 2016. C'è un filo nero che collega l'estremismo islamico e i militanti anarchici e neobrigatisti italiani. Un collegamento raccontato anche dalle lettere che il colonnello dell'Isis arrestato in Libia, Fezzani Moez Ben Abdelkader, detto anche Abu Nassim, scriveva agli "amici", i compagni anarchici attivi a Milano. Abu Nassim era stato arrestato a maggio 2010 e detenuto nel carcere di Rossano Calabro, in provincia di Cosenza. Il destinatario delle sue lettere era l'associazione Ampi orizzonti, che ha inserito le carte nel dossier "è Ora di Liberarsi dalle Galere", con il quale gli anarchici milanese fanno controinformazione sullo stato delle carceri. I punti in comune tra le rinascenti Br e i terroristi islamici stanno tutti nella lotta all'imperialismo americano e contro la misura dell'isolamento nelle carceri. Per i compagni italiani, gli estremisti islamici sono "prigionieri di guerra arabi". Nel dossier "Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per araboislamici" del 2014 c'è la rappresentazione plastica del legame tra i due mondi, considerando che il dossier porta le firme dei principali "prigionieri politici" rossi come Alfredo Davanzo e Claudio Latino. Dal carcere di Siano, in provincia di Catanzaro, scrivono: "Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano". Per far breccia nei cuori dei compagni italiani, Abu Nassim aveva raccontato il suo curriculum carcerario. Quegli ultimi sette anni passati a Bagram, in Afghanistan, prigioniero dell'esercito americano, lo hanno reso praticamente un martire: "Ero legato al muro con i ferri - racconta in una lettera agli amici italiani - come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all'asilo politico, perché dopo 7 anni nell'inferno di Bagram sono stato considerato innocente". Quando è tornato in Italia, Abu Nassim è stato espulso nel 2013, prima della condanna. In Tunisia ha fatto carriera tra le fila dell'esercito del Califatto, fino a toccarne i vertici.

Quegli strani rapporti tra jihad, Br e criminalità. Una lettera di Abu Nassim su una rivista rossa. Solidarietà ai detenuti islamici dai brigatisti, scrive Luca Fazzo, Sabato 20/08/2016, su "Il Giornale". L'emersione del cosiddetto «fondamentalismo islamico è solo una spia della rinascita di una civiltà di antiche e inestirpabili radici, dove la religione è etica, diritto, prassi politica»: bisogna partire da questa analisi, ospitata da uno dei siti di punta della sinistra antagonista italiana, per capire dove appoggi uno dei fenomeni più inverosimili della emergenza terrorismo in Italia: la saldatura tra gli ambienti dell'integralismo islamico e l'universo antagonista e insurrezionalista. Nelle carceri e fuori dalle carceri, i fanatici della jihad intrecciano legami con i fanatici della lotta armata made in Italy, dagli ultimi avanzi delle Brigate Rosse al magma anarchico e autonomo. Una intesa saldata da alcune parole d'ordine comuni: la battaglia contro il capitalismo occidentale e l'odio verso Israele, spesso tracimante in antisemitismo. In nome della lotta ai nemici comuni, i rivoluzionari nostrani non disdegnano il dialogo con chi decapita omosessuali e adulteri. A rilanciare l'allarme su un fenomeno già noto alle forze di polizia sono le lettere pubblicate ieri sul Corriere della sera scambiate in carcere tra Moez Fezzani, il terrorista espulso dall'Italia dopo una assoluzione campata per aria e ora catturato in Libia, e ambienti estremisti italiani. In particolare il quotidiano milanese cita una missiva inviata da Fezzani (alias Abu Nassim) e pubblicata da Altri orizzonti, la rivista anarchica dedicata al mondo delle carceri. La lettera viene inviata dall'islamico alla rivista nel 2010, dopo che Fezzani - a lungo rinchiuso nel carcere americano di Bagram - era stato consegnato all'Italia. Interessante il luogo di provenienza: Fezzani scrive da Rossano, il carcere calabrese di alta sicurezza dove il ministero concentra tutti i detenuti islamici considerati a maggiore rischio di militanza jihadista. In teoria, la corrispondenza degli estremisti detenuti a Rossano dovrebbe essere soggetta a censura preventiva. Ma la lettera in cui Abu Nassim denuncia presunte torture riesce a superare i varchi di censura e viene ricevuta e pubblicata da Altri orizzonti insieme a quelle di altri detenuti politici. Di rimando, nel 2014 dal carcere di Siano dove sono detenuti i capi delle «nuove Br» arriva il documento di solidarietà ai detenuti islamici, un dossier intitolato Le Guantanamo italiane in cui i terroristi rossi denunciano le condizioni in cui sarebbero detenuti i terroristi islamici. Nel documento, i Br sentono il dovere di prendere in parte le distanze dagli aspetti più integralisti della ideologia islamica. Ma si tratta di dettagli su cui i rivoluzionari italiani sono pronti a sorvolare senza fatica in nome della comune battaglia antimperialista: come sintetizza un titolo di un documento della Organizzazione comunista internazionalista, Dalla bandiera rossa alla bandiera verde per stato di necessità. Ad approfondire le basi ideologiche di questa alleanza basta leggere quanto il leader dei «Comunisti-marxisti leninisti» Giovanni Scudieri: «Il nostro posto attuale è al fianco di chi combatte l'imperialismo che è il nemico comune di tutti i popoli del mondo. Lo Stato islamico non vuole che l'imperialismo sia il padrone dell'Irak, della Siria, del Medioriente. Nemmeno noi lo vogliamo, quindi non possiamo non appoggiarlo». E sul sito campoantimperialista.it troneggia il titolo Rivolta islamica: un 11 settembre di massa, sotto cui si legge addirittura: «Il salafismo combattente, ancorché sconfitto, come l'araba fenice risorgerà dalle sue ceneri. Sempre risorgerà, fino a quando l'imperialismo dominerà il mondo». Insomma: privi di prospettive, davanti alla disarmante sordità delle masse popolari italiane ai loro proclami, i rivoluzionari di casa nostra cercano interlocutori più attivi nella galassia islamica. E a quanto pare, come dimostrerebbe la lettera di Fezzani, trovano disponibilità al dialogo. Un'alleanza potenzialmente assai pericolosa, che lo diverrebbe ancora di più se dai messaggi da una cella all'altra e dai ponderosi documenti ideologici si passasse ad una contiguità operativa. Di questa per ora non c'è traccia. A differenza di quanto emerso in alcuni casi di dialogo tra organizzazioni islamiche e ambienti legati alla criminalità organizzata: ma questo è un altro film. 

Il detenuto Moez era il «povero amico» di anarchici e brigatisti. Lettere dal carcere italiano del reclutatore Abu Nassim. Islamisti e «compagni» uniti nella lotta antimperialista. «Mi sveglio sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite», scrive Gianni Santucci il 19 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Rivolgendosi ai nuovi «compagni», anarchici e neobrigatisti, si firma così: «Il vostro povero amico Moez, che si sveglia sempre alle 2 per parlare da solo come un pazzo a causa delle torture subite». La lettera viene spedita dal carcere di Rossano Calabro (Cosenza). È datata 30 maggio 2010 e arriva a Milano poco dopo. Il «povero amico» è Fezzani Moez Ben Abdelkader (detto Abu Nassim): oggi colonnello dell’Isis in fuga dalla Libia. Secondo alcune fonti, non confermate, Fezzani sarebbe stato arrestato qualche giorno fa, ma è interessante sapere chi sono gli «amici» a cui scriveva prima della condanna e l’espulsione dall’Italia (nel 2013). Abu Nassim indirizzò la sua lettera all’associazione «Ampi orizzonti», che l’ha inserita in un ampio dossier «OLGa» («è Ora di Liberarsi dalle Galere»): il bollettino anti carcerario degli anarchici milanesi. Quel fascicolo racconta l’abbraccio solidale che, da un decennio, lega i «neri» e le nuove Br ai terroristi islamisti (definiti «prigionieri di guerra arabi»). Si sono ritrovati «compagni di strada» su un terreno comune: contro «l’imperialismo americano» e i reparti di isolamento nei penitenziari italiani. La testimonianza più profonda di questo legame sta in un’altra lettera di solidarietà ai condannati islamisti, anch’essa contenuta nel dossier «Guantanamo italiane - Dalle sezioni speciali per arabo-islamici» (2014), che porta la firma dei maggiori «prigionieri politici» delle Nuove Brigate Rosse (tra cui Alfredo Davanzo e Claudio Latino). Pur chiarendo che «ci distingue la concezione del mondo», dal carcere di Siano (Catanzaro) affermano: «Siamo solidali con la loro lotta contro il carcere dello Stato imperialista italiano». L’isolamento dei condannati islamisti ha un obiettivo primario: contenere il reclutamento in carcere dei detenuti per reati «comuni». Abu Nassim si radicalizzò nella moschea di viale Jenner nel 1993. Partì come mujaheddin per la guerra in Bosnia. Tornato a Milano, divenne un reclutatore per l’invio di combattenti di Al Qaeda in Afghanistan. Poi si spostò a fare lo stesso «mestiere» in Pakistan, dove venne fermato dagli americani e tenuto per 7 anni a Bagram. Ai «compagni» anarchici e comunisti raccontava questa esperienza: «Ero legato al muro con i ferri, come i gladiatori romani, ricoperto dal suono della musica rock 24 ore su 24... Non dovrei trovarmi in carcere perché ho diritto all’asilo politico, perché dopo 7 anni nell’inferno di Bagram sono stato considerato innocente». Riconsegnato all’Italia ed espulso prima della condanna, dalla Tunisia Abu Nassim ha scalato le gerarchie dell’Isis. L’abbraccio con gli estremisti italiani è stato politico, mai «operativo». Nell’ambiente anarchico e neobrigatista c’è stato un duro dibattito interno sull’amicizia con i «compagni (islamisti) che sbagliano».

I centri sociali sono un cancro da estirpare con la forza, scrive il 19 agosto 2016 Andrea Pasini su “Il Giornale”. Centri sociali. Centri a-sociali, una piaga di questo paese figlia della borghesia dello status quo, sono da iscrivere al novero dei nemici della nazione. Quindici anni fa era la torrida estate del 2001, quando il 20 luglio morì, per mano del carabiniere ausiliario Mario Placanica, Carlo Giuliani. Il fondale Piazza Alimonda, protagonista la berretta del militare dell’Arma che esplose due colpi. Due colpi misero fine alla generazione “ingenua” dell’antifascismo scriteriato e intriso d’odio perorato da cobas, pacifisti, antagonisti, black bloc e c.s. assortiti. La Superba sconvolta dalla furia distruttiva di chi ha poco sale in zucca e come unico fine politico quello di spaccare vetrine ed incendiare auto, quelle di normali lavoratori, di cittadini italiani lontani anni luce dalle dinamiche del G8. Anch’essi vittime delle scelte dei pochi potenti che ci opprimono attraverso il loro cappio. Qual è il vero scopo di queste persone? Nei loro comunicati, nelle loro parole, nei loro gesti di fondo notiamo un astio viscerale verso l’Italia. Sputano sulle nostre città, si isolano in contesti lontani dalla legalità per tendere la mano agli extracomunitari a cui già l’UE e le Boldrini varie pensano in maniera ossessiva. Il brodo culturale da cui sono partoriti è un ammasso di Mtv e cantanti sbiaditi, in cerca di autore, che rispondono al nome di Banda Bassotti, Punkreas, 99 posse e Assalti Frontali. Si potrebbe citarne altri, ma sono spariti dai radar insieme alle loro battaglie di retroguardia. In quel luglio l’intento era di mostrare i muscoli contro le Forze dell’ordine, gettarsi in una battaglia per distruggere Genova, l’Italia e se stessi. La morte celebrale di individui che sputano sul seno della madre che li ha allevati. Serpi contro Roma. In quel contesto, tra i manifestanti, erano presenti alcuni dei governanti d’oggi, Alexis Tsipras, leader di Syriza e primo ministro greco, e Pablo Iglesias, segretario del partito spagnolo Podemos. Quelli che per una vita si sono dipinti come vittime del sistema, oggi sono i boia a guardia della struttura, a guardia dell’Europa di Bruxelles quella che schiaccia il loro tanto “amato” proletariato. Da Genova migriamo a Parma, anno 2010. Una giovane, allora ventenne, mantovana venne attratta nei locali della Rete Antifascista Parmigiana, centro sociale della città ducale, e dopo essere stata drogata venne ripetutamente violentata da più persone. Per questo fatto quattro persone sono agli arresti domiciliari, oltre a questo orrendo misfatto, molti antifascisti locali hanno cercato tramite sms e messaggi su Facebook di tappare la bocca alla ragazza. Tappargli la bocca per non far rilevare agli inquirenti nuovi dettagli arrivando, addirittura, a cercare di far ritrattare completamente la sua versione dei fatti. Il pm Giuseppe Amara ha aperto un nuovo corridoio all’interno dell’inchiesta facendo comparire in aula altre quattro persone con le accuse di estorsione e favoreggiamento. Una modalità d’azione cara a mafiosi, con pratiche di ricatto bieche e vergognose. Uno dei loro ispiratori Peppino Impastato, fondatore di Radio Aut, morto colpito dalla mano di Cosa Nostra per le sue denunce al sistema mafioso italiano, costretto a rigirarsi nella tomba. Come dimenticare la vile aggressione perorata ai danni di un banchetto elettorale di CasaPound, durante le scorse elezioni comunali tenutesi a Roma, quando un gruppo di cinquanta antifascisti armati di caschi e bastoni aggredì sei militanti del movimento della tartaruga frecciata. Nel corso dell’aggressione restarono feriti un invalido ed una donna. Il ragazzo disabile subì la rottura dello zigomo e venne operato d’urgenza. Il senso di fare politica dei centri sociali è quello di aggredire chi non la pensa come loro, coperti da certe istituzioni che li coccolano e ne chiedono i voti durante le campagne elettorali. Impossibile non citare il caso del sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, pappa e ciccia con i militanti di Controllo Popolare. Anche Roberto Saviano ha dovuto ammetterlo via mezzo stampa: “Nel suo comizio riferendosi alle scorse elezioni nel capoluogo campano ha addirittura utilizzato l’immaginario preunitario, ‘Napoli capitale, Gran Ducato di Toscana dietro’. A tutti è sembrata un’ingenuità. Invece de Magitris in questo modo ha parlato ai tifosi, agli ultrà, perché è questo che ha costruito intorno a sé: un appoggio strappato agli ultimi residuali centri sociali, sfruttati come cinghia di trasmissione per il consenso sui social e come perenne propaganda ideologica”. Per accompagnarvi facendovi immergere nell’ideologia della radicale di sinistra, quella distante mille miglia dai lavoratori, basta ascoltare le parole pronunciate in questi giorni dal deputato di Sel, Arcangelo Sannicandro, inerenti ai tagli degli stipendi dei politici. L’onorevole è arrivato ad affermare “non siamo mica metalmeccanici”. Questo è il quadro. Il loro specchio riflette l’immagine del capitalismo più sfrenato, dell’uomo come numero a difesa dei propri privilegi, capitanati da un individualismo completamente dissoluto. Del resto basta prendere Milano per capire. Un articolo, apparso lo scorso anno, su MilanoPost ci aiuta a farci un’idea su cosa siano realmente i centri sociali: “Frutta agli occupanti riferendosi al Leoncavallo un rispettabile introito, valutato circa 20.000 euro a week-end, rigorosamente in nero, tra pranzi, chupito, aperitivi, concerti, ristorazione e alloggio. Perché il giovane emarginato, il rappomane sfigato, il “ggiovane tatuatissimo”, il clandestino, lo studente fuori corso, il giramondo no global consumano. Niente Siae, niente biglietti, niente fatture: si entra con una “offerta libera”. Tutto è low cost, ma gli incassi sono da capogiro. Ne sanno qualcosa gli imprenditori della notte del Cantiere, la nave scuola del vandalismo e dell’antagonismo dei black bloc chic, che girano ormai in Mercedes e ostentano Rolex da Costa Smeralda”. In tutto questo quante attività commerciali distrutte, quanti beni di comuni cittadini dati alle fiamme, da Milano a Palermo, da Roma a Cremona, un via vai di inutilità atte solo alla rovina del patrimonio altrui. Ma alla fine questa gente paga i danni che combina? Quasi mai, le istituzioni soprassiedono, si voltano dall’altra parte chiudendo gli occhi. Chi rompe paga, mi hanno insegnato da bambino, eppure con queste persone non succede mai. Sono una sorta di ente sovranazionale che si muove con logiche astruse, il solo fine quello di punire quelli che i loro padri gli hanno indicato di difendere. Tra sfratti evitati ai clandestini, aggressioni, stile malavitoso nel modo di relazionarsi con il mondo, i centri sociali sono diventati teatranti nel gioco della parti. Non servono a nulla e ci ricordiamo di loro solo quando spaccato tutto, in preda all’isterismo. Per non parlare di quando affrontano incappucciati, come veri codardi, armati di caschi e bastoni le Forze dell’ordine. Quest’ultimi devono essere umiliati, presi a sputi e a botte da gli omuncoli dei centri sociali, nient’altro che figli viziati di papà senza attributi per affrontare una vita onesta e senza conoscere cosa sia il sacrificio. I veri eroi, in tutto questo, sono i carabinieri, i poliziotti e i finanzieri a cui lo Stato non dice nemmeno grazie. Anzi vuole cucirgli sulla divisa un numero identificativo, così da poter essere riconosciuti durante le spietate aggressioni che subiscono e qualora ferissero uno di questi delinquenti, dovrebbero essere riconosciuti e magari puniti o addirittura risarcire il criminale di turno ferito nella colluttazione. Ma vi rendete conto come siamo caduti in basso? Questa gente deve pagare quando viene arrestata, pagare i danni che ha combinato e deve marcire in galera, imparando in maniera dura ed irreprensibile cosa vuole dire distruggere i beni altrui. Qualcosa che con sacrificio e rinunce la gente per bene ha acquistato e che questi criminali da strapazzo, lo fanno solo per hobby, distruggono senza motivo. Offendono e sputano contro questo Stato che ai livelli più bassi cerca disperatamente di combatterli con le poche forze e i mezzi che ha a disposizione, per inciso Forze dell’ordine e magistratura. Ma ai livelli più alti, in Parlamento, esprime la precisa volontà di non punirli. Dunque mi chiedo perché nessuno ha mai, fino ad ora, varato delle leggi ad hoc per fermare, con il pugno di ferro, questi veri e propri criminali da strapazzo? In troppi sono collusi con gli antifascisti che si credono intoccabili.  

Quei tossici che hanno in mano la nostra vita. Medici, piloti e manager al lavoro sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o alcol. Ecco i pericoli che nessuno racconta, scrive Cristina Bassi, Lunedì 22/08/2016, su "Il Giornale". Un'operazione a cuore aperto, i comandi di un volo di linea, il futuro di centinaia di lavoratori: affidarli a una persona drogata o ubriaca equivale a un suicidio collettivo. Eppure ci sono categorie professionali più a rischio di altre per l'abuso di alcol e l'uso di sostanze stupefacenti. Sono medici, piloti, manager. Ma anche infermieri, controllori di volo, gruisti, conducenti di camion, autobus e treni. Cos'hanno in comune? Fanno lavori molto stressanti e hanno in mano la vita di altre persone. Non se ne parla. Si tratta di argomenti tabù, anche all'interno delle stesse categorie. E non ci sono, almeno in Italia, statistiche ufficiali sul fenomeno. Il velo sta appena cominciando ad alzarsi da ospedali e sale operatorie, rivelando che le professioni mediche sono tra quelle più colpite. Studi internazionali, negli Stati Uniti ma anche in Paesi europei come Spagna, Germania e Inghilterra, parlano del 12 per cento circa di operatori sanitari che hanno problemi - abuso oppure vere e proprie dipendenze - con alcol, droghe, farmaci, gioco d'azzardo. Nel nostro Paese una ricerca di Dianova International (del 2012) stima un dottore su dieci. Numeri, comunque, preoccupanti. Nasce da qui il Progetto Helper di Torino, un centro per la disintossicazione e la cura di medici affetti da dipendenze. L'idea è partita da don Paolo Fini, che da anni si occupa di recupero dei tossicodipendenti nel Centro torinese di solidarietà, e dal professor Augusto Consoli, capo del Dipartimento dipendenze della Asl Torino 2, in collaborazione con l'Ordine provinciale dei medici. Ma perché serve una clinica «speciale» per dottori? «Medici e infermieri - spiega la dottoressa Tiziana Borsatti, consigliera dell'Ordine e referente del progetto - sono pazienti difficili da gestire. Prima di tutto perché sono convinti di potersi autocurare. Poi perché hanno bisogno di un luogo dove isolarsi e dove ci sia privacy assoluta e l'anonimato sia garantito. Non possono permettersi che si sappia del loro problema o che qualcuno li riconosca al Sert. Diventerebbe uno stigma». La dottoressa, anestesista rianimatrice, ha incontrato colleghi che abusavano di sostanze. «Mi chiedevano aiuto - dice -, ma soprattutto di mantenere il segreto. È un fenomeno negato per anni. Helper oggi è un servizio indispensabile». I più colpiti sono chirurghi, anestesisti, psichiatri, medici di pronto soccorso, ginecologi. Con i cali di organico hanno turni sempre più duri. Non possono sbagliare nulla, sono sotto pressione continua, a contatto quotidiano con la sofferenza e la morte ma anche con le sostanze «proibite». Un dottore si prepara da solo la dose e crede di poterne gestire gli effetti. I veleni più utilizzati sono alcol, cocaina e psicofarmaci. Le conseguenze sono errori e conflittualità nelle équipe. I medici devono poi fare i conti con il rischio burn-out, la sindrome da «esaurimento emotivo» che colpisce chi lavora con il pubblico. Tra i dottori (il dato è nordamericano) c'è un tasso di suicidi doppio rispetto al resto della popolazione. Tra le donne medico, che spesso sopportano anche il peso della famiglia, il tasso è addirittura quadruplo se confrontato con la popolazione femminile. Aggiunge Borsatti: «Per il nostro centro, la cui apertura è prevista per il 2017, c'è già una lista d'attesa di persone interessate. Mi hanno contattato medici da altre regioni, sono gli stessi che oggi sarebbero costretti a farsi assistere all'estero». La struttura fornirà all'inizio un servizio ambulatoriale, poi anche di ricovero. Sono pronti la sede (l'indirizzo è segreto) e lo staff formato da medico internista, psichiatra, psicologo, infermieri. Mancano i fondi per partire. «La Regione Piemonte - conclude la consigliera dell'Ordine - è l'unica realtà a livello nazionale ad aver approvato un progetto come questo. Ed è pronta a creare le condizioni e le sinergie con le altre istituzioni per accompagnarlo e sostenerlo». Gabriele Gallone, medico del lavoro, ha l'incarico di svolgere i controlli tra i colleghi. «I professionisti della sanità - ammette - sono più esposti al bere problematico e all'assunzione di droghe. Il lavoro che fanno è uno dei fattori scatenanti dell'abuso di sostanze. Per questo occorre uno sforzo maggiore per aiutarli». La normativa che regola le verifiche sui dottori è diversa per ogni regione. «In alcune - continua Gallone -, come Veneto, Toscana, Lombardia, Piemonte i controlli sono frequenti. In Piemonte facciamo test anti alcol a campione direttamente nei reparti, a sorpresa. Ci presentiamo con l'etilometro e il tasso alcolemico deve risultare pari a zero. È quasi sempre così: gli accertamenti hanno un effetto deterrente. Alcuni medici segnalati subiscono anche esami del capello e del sangue». Se qualcuno risulta positivo, viene preso in cura dal Sert e ha diritto a sei mesi di astensione retribuita dal lavoro per curarsi. «Per le droghe - sottolinea l'esperto - è molto diverso. Non sono previsti controlli di questo tipo». Le legge elenca le categorie per cui i test anti droga sono obbligatori. Ci sono tra gli altri piloti, addetti a fabbriche di esplosivi, manovratori di muletti, conducenti di mezzi pubblici. «Non ci sono i sanitari - conclude il medico -. Si tratta di una lacuna da sanare. Anche se a mio avviso negli ospedali gli stupefacenti sono meno diffusi dell'alcol. In 12 anni di servizio non ho incontrato alcun caso di uso conclamato». Per i piloti, in Italia i test anti alcol e anti droga sono severi. Semmai c'è disparità tra le nostre regole e quelle degli altri Stati, pure europei. Anche se dopo il disastro Germanwings del marzo 2015 l'Agenzia europea per la sicurezza aerea lavora a un giro di vite. «La responsabilità dei controlli è della compagnia, che li affida a un medico competente spiega Antonello Furia, responsabile Funzione medica aeronautica dell'Enac. Vengono prelevati campioni di urine e rilevato il tasso alcolemico, con un preavviso molto breve, entro le 24 ore». Al pilota positivo l'Enac blocca l'idoneità al volo in attesa di accertamenti. Questo però avviene solo per le compagnie italiane, ogni Paese ha le proprie regole. Ma un pilota impiegato dove i test non si fanno può mettere a rischio passeggeri, scali e cieli italiani. «L'Agenzia europea continua Furia pensa di introdurre verifiche obbligatorie alla prima visita di idoneità e dopo ogni incidente grave o minore». Il lavoro di pilota comporta enormi carichi di stress e fatica. «Tuttavia sottolinea Ivan Viglietti, responsabile di categoria della Uil da noi la normativa è molto più severa che altrove, gli accertamenti sono rigidi e funzionano. Piuttosto mi preoccuperei della quantità e della qualità del riposo che oggi viene lasciato ai piloti». Non ci sono statistiche sui manager che fanno uso di droghe. Solo ricerche sulle sostanze più usate contro lo stress da chi guida un'azienda. In testa cocaina, alcol, antidepressivi, benzodiazepine come Tavor e Valium per la loro proprietà calmante, anfetamine e Ritalin, che aumentano le capacità cognitive. Tutte a elevato rischio di dipendenza e condannate dalle associazioni di categoria: «In particolare dichiara Isabella Covili Faggioli, presidente nazionale dell'Associazione per la direzione del personale chi si occupa di risorse umane è un punto di riferimento per gli altri manager. Da qui la condanna di tutte le dipendenze per chi deve gestire persone e tutelare il loro benessere sul posto di lavoro».

Poi, per questi addirittura, non è previsto il testo psico-attitudinale. (Adnkronos 1 dic. 1997) - ''Buon senso ed equilibrio sono per un magistrato qualità più importanti della preparazione giuridica, perchè quando alla preparazione si unisce la mancanza di equilibrio i guasti possono essere devastanti''. Così il giudice di Cassazione Ferdinando Imposimato a Torino per presentare il volume del presidente del deputati del Ccd Carlo Giovanardi ''Storie di straordinaria ingiustizia'', interviene sulla proposta di sottoporre i giudici a visita medica obbligatoria. ''Credo - ha aggiunto il giudice di Cassazione - che sia giusto, senza nessuna offesa per i magistrati, prevedere che l'ingresso in magistratura di una persona sia preceduto da un esame psico-attitudinale che del resto si fa per chi vuole entrare in Polizia, nei Carabinieri e nella Finanza. Poi -ha concluso Imposimato - c'è il problema della verifica ricorrente, poichè bisogna verificare le capacità di intendere e di volere di una persona che deve essere dotata di equilibrio prima ancora che di preparazione giuridica''. Di diversa opinione il procuratore aggiunto di Torino Marcello Maddalena che, a margine di un convegno organizzato dalla Sinistra giovanile torinese per discutere sulla bozza Boato, ha osservato: “il magistrato è un uomo, non un superuomo e io non sono dell'opinione che bisogna criminalizzare una categoria. Debbo dire che nell'ambito del pubblico impiego, dall'insegnamento alla sanità, è opportuno avere la sicurezza dell'equilibrio delle persone. Credo però che non si possa fare, all'interno del pubblico impiego, una differenziazione tra una categoria e l'altra anche se ci devono essere dei meccanismi che siano in grado di rimediare situazioni che si dovessero creare come per esempio maggiori tipi di controllo”.

Cossiga: «Test psichico per i magistrati». È polemica. Protesta Oscar Luigi Scalfaro: «Viviamo in un'epoca di continui attacchi ai giudici», scrive “Il Tempo” il 07/12/2003.  E si scontra con un altro presidente della Repubblica, il suo successore Oscar Luigi Scalfaro. Materia del contendere: i magistrati. Cossiga propone di sottoporre i candidati al concorso in magistratura ad un preventivo «esame psichiatrico e psico-attitudinale». Il senatore a vota ha anche presentato un disegno di legge in base al quale anche i magistrati già in servizio potrebbero essere sottoposti allo stesso tipo di esame medico. «L'esercizio delle funzioni di magistrato dell'ordine giudiziario, giudice e pubblico ministero - scrive il Cossiga nella relazione al ddl - incide così profondamente e talvolta irreversibilmente sui diritti della persona e sulla sua stessa vita psichico-fisica che particolare equilibrio mentale e specifiche attitudini psichiche debbono essere richieste per la assunzione della qualità di magistrato e per la permanenza nella carriera». Dunque, chi venga dichiarato inabile psichiatricamente o non idoneo psico-attitudinalmente non sarebbe ammesso al concorso. Inoltre, in qualunque momento il Csm, «di sua iniziativa o su richiesta del Ministro della Giustizia, del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Cassazione o di un Procuratore Generale della Repubblica presso una Corte d'Appello, può sottoporre qualunque magistrato all'esame psichiatrico e psico-attitudinale». Sarebbero nominato dal Csm i componenti di questa commissione medico-psicologica, il cui giudizio «deve esser valutato, e respinto o approvato, dallo stesso Consiglio Superiore della Magistratura». Chi venga giudicato inabile psichiatricamente o non idoneo psico-attitudinalmente è dichiarato decaduto e collocato in pensione o sospeso dall'esercizio delle funzioni e collocato in aspettativa, al termine della quale è di nuovo sottoposto a visita medico-psicologica». Un paio d'ore dopo aver presentato la proposta ha riferito di aver ricevuto una telefonata anonima da parte di un sedicente magistrato «dopo la trasmissione della relazione del testo del disegno di legge sul modo di risolvere i problemi della capacità mentale e dell'attitudine psichica di coloro che aspirano a diventare magistrati o di coloro che già fanno parte dell'ordine giudiziario». Arriva poi la la protesta di Scalfaro: «È un'epoca di attacchi continui a giudici e magistrati», afferma l'ex Capo dello stato anche lui magistrato. «È un'epoca di sortite con valutazioni antropologiche dissennate. E poi c'è un'ansia, servendosi della forza di una maggioranza che conosce sono l'ubbidienza cieca, una volontà ferrea di sottrarsi ad ogni costo al giudizio del magistrato, a cui un cittadino comune non può invece sottrarsi», dichiara ancora Scalfaro che, pur senza far riferimenti precisi, ha fatto chiare allusioni alle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi e di Cesare Previti. L'ex presidente della Repubblica ha parlato anche di «una maggioranza in certi momenti decisamente servile, che vota con entusiasmo una legge che serve a uno solo, non ad altri...». Scalfaro ha partecipato ad un convegno in ricordo dell'ex capo del pool di Palermo Antonino Caponnetto, morto un anno fa. Alla manifestazione c'erano anche altri magistrati tra i quali Gian Carlo Caselli, Piero Luigi Vigna, Gherardo Colombo, Piero Grasso.

Si drogava in tribunale. Per il magistrato solo una sospensione, scrive Qelsi Quotidiano il 12 novembre 2015. In qualsiasi altro luogo di lavoro, lo avrebbero licenziato. Lui, però, nonostante si drogasse in servizio, e all’interno di un Tribunale, ha avuto come pena un anno di collocamento fuori ruolo dalla magistratura. L’incredibile vicenda è stata raccontata dal sito Calabria Web Oggi: Si è concluso con la sanzione della sospensione per un anno, con collocamento fuori ruolo organico della magistratura, il processo disciplinare ad un magistrato finito davanti al tribunale delle toghe per aver assunto droga prima del servizio. Una delle sanzioni più gravi, comminata però come “chance” di recupero, considerato che il giovane magistrato, F.S., è stato riconosciuto responsabile delle pesanti accuse che gli venivano rivolte e per le quali la procura generale della Cassazione aveva chiesto la sanzione ben più grave delle rimozione. All’epoca dei fatti in servizio al tribunale di Palmi (Rc) e sospeso all’esito di un altro procedimento disciplinare per un fatto analogo, il magistrato era accusato di “aver violato l’obbligo di esercitare le proprie funzioni con correttezza ed equilibrio”, poiché nel 2012 dopo aver assunto cocaina e anfetamine aveva avuto una crisi ed era stato trovato dai colleghi nel bagno del palazzo di giustizia “riverso a terra in preda a convulsioni ed in evidente stato confusionale” al punto che, si legge nel capo d’incolpazione, “continuava a dimenarsi e a farneticare”, facendo anche resistenza al medico chiamato per soccorrerlo. Altra accusa rivoltagli riguarda le ripetute assenze che avrebbero compromesso il “regolare svolgimento del servizio”. Il sostituto pg di Cassazione Renato Finocchi Ghersi, nel sostenere l’accusa, ha sottolineato la necessità di valutare il caso a prescindere dal quadro medico del magistrato, che si è poi disintossicato, vista la “rilevante recidività” e l’esclation della gravità di comportamenti che mettono a rischio la funzione giudiziaria”.

Il caso del magistrato ubriaco in bici fa giurisprudenza. Scrive Manuela D’Alessandro su “Giustiziami” l'11 maggio 2015. Fa giurisprudenza la sentenza di condanna inflitta dalla Corte di Cassazione a un magistrato milanese sorpreso a guidare ubriaco la sua bicicletta. La Suprema Corte ha confermato a febbraio la pena a due mesi e venti giorni di arresto e a un’ammenda di 800 euro per il ciclista togato, verdetto che da giorni viene commentato sui principali siti specializzati in diritto. Il reato di guida in stato di ebbrezza – questo è il cuore della pronuncia – può essere commesso anche sulle due ruote.  Per la Corte “ciò che conta è l’effettiva idoneità del mezzo ad interferire con il regolare e sicuro andamento della circolazione stradale, con la conseguente creazione di un obiettivo e concreto pericolo per la sicurezza e l’integrità del pubblico degli utenti della strada”.  Fermato e sottoposto all’etilometro che aveva accertato un tasso alcolemico pari a 1,97 grammi per litro, il magistrato ha provato in tutti i modi a convincere i colleghi ad annullare le precedenti condanne che gli erano state inflitte a Brescia nei primi due gradi di giudizio. Implacabili gli ‘ermellini’: non solo hanno confermato le sentenze, ma si sono rivelati molto severi nel distruggere tutti i motivi d’appello, a cominciare dalla “pretesa inapplicabilità della disciplina penalistica della guida in stato di ebbrezza alla conduzione di veicoli non motorizzati (e segnatamente della bicicletta)”. L’imputato aveva sostenuto inoltre di essere montato in sella alla bici “spinto dalla “necessità di sottrarsi al pericolo di una danno grave alla persona” perché aveva fretta di tornare a casa per curare una fastidiosa “cefalea a grappolo”. Un argomento definito dalla Cassazione “congetturale”. Respinta, infine, la richiesta del ricorrente di riconoscere la tenuità del fatto. Non si può dire che al povero magistrato, cui va la nostra umana simpatia, sia stato riservato un trattamento di favore. Magistrato mangia magistrato, a volte.

La carriera serena dei pm, paghe alte e scatti automatici, scrive “Il Dubbio” il 17 ago 2016. Gli scatti di anzianità sono automatici per tutti, a parità di anni di servizio non c'è differenza tra un procuratore capo e un suo sostituto. Un primario non va oltre i 4.200 euro netti. «Non faccio beneficenza, sono un giudice, ho diritto a quei soldi. Chi critica il mio stipendio conduce una battaglia contro tutta la magistratura e dovrà vedersela con l'Anm!». Queste dichiarazioni di fuoco, rilasciate da Carla Romana Raineri, neo capo di gabinetto del sindaco di Roma, a proposito del suo compenso da 193mila euro l'anno, suscitano fra i comuni mortali la curiosità di conoscere quanto guadagnano effettivamente i magistrati italiani. Diciamo subito che lo stipendio di un giovane magistrato vincitore di concorso, quello che un tempo si chiamava uditore e adesso invece magistrato ordinario in tirocinio, è di circa 2.400 euro netti al mese. Per tredici mensilità. Gli aumenti sono ogni quattro anni, coincidenti con la valutazione di professionalità. Cioè il momento valutativo sull'operato del magistrato compiuto dal Csm. Dopo i primi quattro anni si raggiungono circa 3.600 euro. All'ultima valutazione di professionalità, la settima, quindi dopo 28 anni dalla nomina, si arriva a 6.900 euro netti. Il massimo si raggiunge dopo i 35 anni, con 7.500 euro. Discorso a parte per il primo presidente della Cassazione che ha un emolumento a sé. Cifre importanti, che dovrebbero garantire l'indipendenza del giudice dai condizionamenti esterni. Insomma, non farsi corrompere. Fra i dirigenti pubblici i magistrati sono, dunque, quelli con la busta paga più alta. Più dei prefetti o dei professori universitari, tanto per fare qualche esempio. Il problema, però, non è tanto l'importo in sé dell'emolumento delle toghe, che per i motivi sopra esposti è anche giustificato, ma il criterio con cui questo stipendio viene erogato. Come si è visto, il passaggio da una classe economica a un'altra avviene in maniera automatica. In forza del solo trascorrere del tempo. Le valutazioni di professionalità, infatti, sono positive per il 99,6 per cento delle toghe. Praticamente tutte. Lo stipendio del magistrato rappresenta dunque un importo fisso e invariabile. Non essendo legato in alcun modo alla quantità e qualità delle funzioni svolte o al tempo impiegato a svolgerle. Non contempla neppure lo straordinario, non avendo il magistrato vincoli di orario. Considerando, poi, che i magistrati si differenziano fra loro solo per funzioni, lo stipendio di un giudice del dibattimento è identico a quello del pm, sempre a parità di anzianità e valutazione di professionalità. Ma c'è di più. Lo stipendio, per citare un magistrato conosciuto, del procuratore di Roma Giuseppe Pignatone è uguale a quello di un suo sostituto con la sua stessa anzianità di servizio e la medesima valutazione di professionalità. Quindi il dirigente dell'ufficio non ha, come gli altri dirigenti della pubblica amministrazione, un riconoscimento per la particolare funzione svolta. E non ha neppure delle indennità legate al raggiungimento di determinati risultati, ad esempio se ha diminuito l'arretrato o ha pianificato una best practice che permetta un miglior funzionamento dell'ufficio. Trattandosi di un argomento assai delicato, ovviamente, nessuno ha pensato di mettere all'ordine del giorno una riforma di questo meccanismo retributivo. Che andava però bene il secolo scorso. Nell'attuale società, in cui con la riforma Madia del pubblico impiego è previsto anche il licenziamento per i dirigenti che non raggiungono gli obiettivi, una riflessione sul punto sarebbe opportuna. Anche per valorizzare concretamente chi merita. Può essere comunque utile un raffronto con i medici ospedalieri e la loro retribuzione. Che, per un camice bianco appena assunto, è di circa 2.200, di poco inferiore dunque a quella di un giudice fresco vincitore di concorso. Ma ai 3.600 euro spettanti a un magistrato già dopo i primi 4 anni, un medico Asl ci arriva a stento a metà carriera. E un primario non supererà mai i 4.200 euro netti al mese, neppure col massimo dell'anzianità. Si ferma dunque poco oltre la metà di una toga arrivata al top della retribuzione. Entrambi dipendenti pubblici, entrambi con enormi responsabilità, entrambi con una professionalità molto alta (forse quella di alcuni medici è la più alta professionalità tra tutte le possibili professionalità), ma con regimi stipendiali che sembrano appartenere a due Stati diversi. Forse dipende anche dal fatto che è diverso, molto diverso, il potere che possiedono.

"Io magistrato, le banche e i mutui concessi ai criminali". Nelle indagini sui patrimoni mafiosi, sempre ambiguo il ruolo degli Istituti di Credito, grandi e piccoli, scrive Marco Patarnello il 5 agosto 2016 su “La Repubblica”. In magistratura dal 1989, è stato vicesegretario del Csm. Ora si occupa al Tribunale di Roma di misure di prevenzione antimafia, sequestro e confisca di patrimoni illeciti. "Caro direttore, l'opinione pubblica sembra stanca di interventi in favore delle banche e ci chiediamo perché. La deflagrazione che il fallimento di una banca, magari dell'importanza di Mps, creerebbe nel tessuto economico costringe lo Stato ad un intervento. Ma quale? Faccio il magistrato al Tribunale di Roma e ho dedicato gli ultimi tre anni della mia vita professionale alle misure di prevenzione patrimoniali: sequestro e confisca di patrimoni mafiosi o costruiti illecitamente, un'attività svolta mettendo sotto la lente di ingrandimento gli ultimi venti o trent'anni di vita imprenditoriale, economica, lecita e illecita di malavitosi, corrotti e criminali. Patrimoni di decine o centinaia di milioni di euro accumulati illecitamente. In ognuno di questi processi abbiamo sempre trovato un grosso mutuo, un finanziamento o un prestito concesso da istituti bancari. Prestiti spesso concessi in evidente malafede, senza le garanzie minime, in situazioni in cui nessun cittadino "normale" avrebbe avuto accesso al credito. Con la conseguenza che spesso il Tribunale esclude tali crediti delle banche dal novero di quelli che devono essere soddisfatti con il denaro confiscato ai malavitosi. Una mole di attività bancaria svolta chiaramente facendo affari spregiudicati, prestando denaro a chi non dava nessuna garanzia, se non quella di entrate illecite. Negando, invece, i prestiti a chi non aveva garanzie fantasmagoriche, come ha potuto constatare chiunque, da persona comune, abbia chiesto un finanziamento o un mutuo in questi anni. E, si badi, questo non da parte delle sole banche di serie B o di provincia. Non sono in condizione di fare un'analisi statistica o completa, ma poche banche mi sono parse estranee a questo modo spregiudicato e rischioso di fare impresa. Ora che la situazione economica è più difficile si scopre che i crediti di molte banche sono in sofferenza, non sono garantiti e si prende in considerazione di risolvere il grave pericolo insito nel fallimento di queste imprese mettendo denaro pubblico. Quando si guadagna ci si ricorda di essere un'impresa, quando si perde si socializzano le perdite. Non può funzionare così. Il fallimento di una banca è senza dubbio un rischio grosso per l'economia di un territorio o anche dell'intero paese, se la banca è grande. È ragionevole impedire che ciò accada. Ma non a qualsiasi costo e non regalando, sostanzialmente, il denaro ad un'impresa, anche se si trattasse di denaro dell'Europa o parzialmente dello stesso sistema bancario. Perché il patto sociale regga, investire denaro pubblico non può essere un regalo. Se una banca non ce la fa con le sue forze si nazionalizza, si risana e si rivende. Questo ha un senso per la collettività. E non è una bestemmia anticapitalista e antimoderna più di quanto non lo sia regalare denaro pubblico ad un imprenditore, che per di più ha dimostrato di farne cattivo uso".

Crac bancari, giustizia non è fatta: quelle indagini fra sospetti e conflitti di interesse. I processi ai banchieri hanno tempi lunghi. E rischiano la prescrizione. Ma il problema non sono solo i tempi. Ci sono episodi più gravi. Negli atti spuntano infatti rapporti con magistrati che gettano ombre sulle attività giudiziarie. Assunzioni, favori, regali. Da Vicenza e Treviso, per arrivare a Palermo. Ecco i nomi, scrive Vittorio Malaguti il 17 agosto 2016 su "L'Espresso". Il processo? Non si può fare. Ad Ancona, i pm della Procura cittadina vagano da tre anni nel labirinto del crac di Banca Marche, un disastro da un miliardo di euro che ha travolto i risparmi di 50 mila famiglie. La lista degli indagati è lunga, 36 nomi, ma le accuse più pesanti riguardano l’ex direttore generale Massimo Bianconi, al vertice dell’istituto dal 2004 al 2012. È lui, secondo la ricostruzione dei commissari inviati da Bankitalia, l’uomo che ha dato le carte al tavolo di un poker affollato di bari e truffatori. Ebbene, poche settimane fa, per la prima volta dall’inizio delle indagini, un magistrato è stato chiamato a decidere se mandare alla sbarra Bianconi. Niente da fare. Il 9 giugno, l’udienza sul rinvio a giudizio del manager si è conclusa con un nulla di fatto. Motivo: nel fascicolo del procedimento depositato dalla Procura mancavano alcuni documenti. Il caso di Ancona non è un’eccezione. Nell’anno nero del risparmio, le polemiche sulla giustizia lenta si sommano a quelle sui controllori distratti, Bankitalia e Consob, capaci di intervenire solo per raccogliere i cocci. Nelle Marche come in Veneto, da Vicenza a Treviso, e poi ad Arezzo e a Genova, le indagini sui banchieri rischiano di affondare nelle sabbie mobili dei sospetti e dei veleni. I magistrati sono chiamati a esplorare una zona grigia di favori e complicità. Le inchieste delle procure tentano di smontare sistemi di potere consolidati nel tempo. Sistemi di cui spesso, come risulta dalle carte, gli stessi magistrati erano parte integrante. Ad Ancona il rinvio deciso a giugno riguarda un filone di indagine marginale. Una storia di presunte mazzette che l’ex direttore generale avrebbe incassato per dare via libera ai finanziamenti richiesti da due imprenditori, Vittorio Casale e Davide Degennaro, anche loro indagati. Il danno stimato si aggira sui 15 milioni: poca cosa nel calderone di Banca Marche, affondata in un mare di affari sballati. Se ne riparla a ottobre. Solo che, nel frattempo, i reati contestati a Bianconi rischiano di andare in prescrizione prima di approdare in tribunale. Intanto, il popolo degli sbancati, migliaia di famiglie che hanno perso i loro soldi nel tritacarne gestito da Bianconi, assiste rassegnato alla corsa a ostacoli della giustizia. Sono passati più di tre anni da quando, nella primavera del 2013, la Procura di Ancona aprì un fascicolo sulla disastrosa gestione dell’istituto marchigiano. A ben guardare, però, si scopre che già nel 2010 e nel 2011 gli ispettori della Vigilanza avevano segnalato ai magistrati irregolarità e omissioni nella gestione dell’istituto marchigiano. Nulla si mosse, all’epoca. Fino a quando, dopo il ribaltone al vertice e l’uscita di scena di Bianconi (con tanto di buonuscita milionaria e lettera di encomio), i pm scesero finalmente in campo. Ad Arezzo, epicentro del terremoto Banca Etruria, l’inchiesta della procura si è frantumata in cinque filoni. Quello principale per bancarotta, aperto dopo la formale dichiarazione d’insolvenza dell’istituto nel febbraio scorso, è alle prime battute. E gli altri riguardano aspetti secondari nella complicata vicenda di un crac da 1,1 miliardi di euro. A ottobre potrebbe arrivare il primo verdetto, ma solo perché Giuseppe Fornasari, ex presidente dell’istituto aretino, insieme a Luca Bronchi, già direttore generale, e all’ex dirigente Davide Canestri, saranno processati con il rito abbreviato per ostacolo alla Vigilanza su uno specifico affare immobiliare. Ben altri saranno i tempi dell’indagine che punta ad accertare le responsabilità del fallimento della banca. Un’indagine che vede tra gli indagati anche l’ex vicepresidente Pierluigi Boschi, padre del ministro Maria Elena. Proprio gli incroci pericolosi con il governo hanno finito per creare nuovi intralci in un’inchiesta già di per sé complicata. Nei mesi scorsi, Roberto Rossi, procuratore capo di Arezzo e titolare delle indagini sul dissesto della banca cittadina, è stato costretto a difendersi davanti al Csm (l’organo di autogoverno della magistratura) per gli incarichi di consulenza ricevuti dalla presidenza del Consiglio ai tempi di Enrico Letta e mantenuti anche quando a Palazzo Chigi è approdato Matteo Renzi. Il verdetto è di fine luglio. «Tutto regolare: non c’è incompatibilità». Il pm potrà continuare a indagare sul padre di un ministro del governo di cui è stato consulente. Intanto, sono trascorsi più di tre anni da quando, nel 2013, gli ispettori di Bankitalia avevano formulato i primi pesanti rilievi sulla gestione dell’istituto. Nel novembre scorso, con l’azzeramento di Banca Etruria deciso dal governo, migliaia di azionisti e obbligazionisti hanno perso per intero il loro investimento. Le proteste e le manifestazioni di quei giorni sono un ricordo. Quel che resta sono centinaia di esposti dei risparmiatori che attendono giustizia. A Treviso e dintorni invece, decine di cittadini sono tornati in piazza il 2 agosto per brindare all’arresto di Vincenzo Consoli, un tempo riverito gran capo di Veneto Banca. Sui social network è partito il tormentone: «Perché Consoli sì e Zonin no?». Una storia parallela, quella dei due banchieri, ex potenti finiti nella polvere. Anche Gianni Zonin, già presidente della Popolare di Vicenza, è sotto inchiesta per aggiotaggio e ostacolo alla Vigilanza, gli stessi reati che al suo ex collega di Veneto Banca sono costati un’ordinanza di custodia cautelare. Nella città del Palladio, il capo della locale Procura si è fatto scudo di un’ovvietà: «Ogni inchiesta fa storia a sé», ha scandito il magistrato Antonio Cappelleri. Difficile affermare il contrario, in effetti. Intanto però i pm di Vicenza si sono tenuti ben stretto il fascicolo che riguarda la Popolare. Treviso invece, competente per territorio su Veneto Banca, ha ceduto il passo a Roma, con la motivazione che il reato di ostacolo alla Vigilanza della Banca d’Italia si è consumato nella capitale. Una rinuncia, quella di Treviso, disseminata di imbarazzi. Soprattutto da quando, nei mesi scorsi, sono emersi i rapporti tra Consoli e il colonnello Giuseppe De Maio, comandante della Guardia di Finanza trevigiana fotografato in Brasile, all’epoca dei mondiali 2014, mentre brinda con il banchiere. Al vaglio del Csm è finita anche la posizione di Michele Dalla Costa, il magistrato che dal 2013 guida la procura di Treviso. Sua moglie si chiama Ippolita Ghedini e lavora nello studio di famiglia insieme al fratello Niccolò, parlamentare di Forza Italia e difensore di Silvio Berlusconi in tanti processi. Gli accertamenti su Dalla Costa riguardano incarichi professionali che la signora Ghedini avrebbe ottenuto dal gruppo Veneto Banca. Del resto anche Giuseppe Schiavon, fino al 2012 presidente del tribunale di Treviso, era in rapporti più che cordiali con Consoli. Amicizia a parte, nelle settimane scorse Schiavon si è trovato nella spiacevole situazione di dover giustificare i regali ricevuti nel 2009 e nel 2010 dall’istituto con base a Montebelluna. Regali da migliaia di euro: una mountain bike, un orologio in oro bianco. «Non ho mai chiesto o ricevuto alcun compenso da Veneto Banca», ha tagliato corso il magistrato quando gli è stato chiesto di questi omaggi. Polemiche, veleni, sospetti: questo è il clima che circonda l’inchiesta su Consoli. Non è una sorpresa, allora, che la procura di Treviso abbia deciso di farsi da parte. A Vicenza, invece, Zonin continua a giocare in casa. In passato, i procedimenti a suo carico si sono invariabilmente chiusi con un nulla di fatto, mentre il banchiere vignaiolo, forte di una rete impressionante di relazioni nel mondo della politica, dell’alta burocrazia, della finanza e dei giornali, si è costruito la fama dell’intoccabile. Solo ora che il suo regno è finito, qualcosa si muove. Il Csm ha aperto un’indagine per chiarire le motivazioni che hanno portato all’archiviazione di due inchieste giudiziarie, che risalgono al 2001 e al 2008, a carico dell’allora presidente della Popolare. Sono già stati chiamati a deporre il presidente del Tribunale di Vicenza, Alberto Rizzo, e il procuratore capo Cappelleri. Dei pm che all’epoca si occuparono di quei casi, solo uno, Stefano Furlani, è ancora al lavoro nella città berica e adesso rischia il trasferimento. Tutti gli altri hanno cambiato sede o sono andati in pensione. E qualcuno, chiusa la carriera in magistratura, ha trovato una sistemazione a libro paga della banca vicentina. “L’Espresso”, nel febbraio 2015, ha rivelato il caso dell’ex pm Antonio Fojadelli, che nel 2014 è entrato nel consiglio di amministrazione di Nordest sgr, una società di gestione del risparmio controllata dalla Popolare di Vicenza. Nel 2002 l’allora procuratore Fojadelli chiese, e alla fine ottenne, l’archiviazione di un’inchiesta su Zonin. A distanza di anni il magistrato, da tempo in pensione, si è accomodato su una poltrona offerta dal banchiere su cui aveva indagato. Caso vuole che lo stesso Fojadelli, una volta lasciato l’incarico a Vicenza, sia approdato nel 2003 a Treviso, dove all’epoca regnava Vincenzo Consoli, patron di Veneto Banca. Dopo otto anni nella nuova sede, arriva la pensione e, nel 2014, Fojadelli accetta l’offerta della Popolare di Vicenza. Si ignora quali siano le sue competenze in materia di risparmio. Sta di fatto che anche adesso che la stella di Zonin è tramontata, l’ex pm risulta ancora amministratore di Nordest sgr. Stesso discorso per un altro magistrato come Manuela Romei Pasetti, che nel 2012 è entrata nel consiglio di Banca Nuova, controllata palermitana della Popolare Vicenza. Pochi mesi prima della nomina, Romei Pasetti aveva lasciato la toga come presidente della corte d’Appello di Venezia, competente anche su Vicenza. In quegli anni l’istituto palermitano, all’epoca guidato dal direttore generale Francesco Maiolini, aveva arruolato una schiera di dipendenti dai cognomi eccellenti: parenti di politici e di alti burocrati locali. Una lista in cui non mancavano figli e consorti di magistrati. Tra questi anche il figlio di Francesco Messineo, fino al luglio 2014 capo della procura di Palermo. E poi Germana Cupido, moglie di Ignazio De Francisci, già procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano, e Margherita Milone, nuora di Leonardo Guarnotta, che nel 2015 ha lasciato l’incarico di presidente del tribunale palermitano. Nessun reato, salvo prova contraria, ma talvolta gli intrecci tra finanza e giustizia alimentano i peggiori sospetti. È successo a Genova, dove nel 2014 è stato arrestato Giovanni Berneschi, fino all’anno prima dominus assoluto di Carige, un’altra banca di provincia finita nei guai. Nelle carte dell’inchiesta sono emersi i rapporti tra Berneschi e alcuni magistrati, come l’ex procuratore capo Francesco Lalla e il giudice Roberto Fucigna. Entrambi, risulta dagli atti, avevano bussato alla porta del banchiere per ottenere favori di vario tipo. Proprio in quegli anni diverse indagini sul sistema Carige erano state archiviate. Una proprio da Fucigna. Solo nel 2013 comincia l’inchiesta che porterà alla caduta di Berneschi. A capo della procura però non c’era più Lalla, ma Michele Di Lecce, un magistrato venuto da fuori.

Popolare di Vicenza, Gianni Zonin arruola il pm che aveva indagato su di lui. Il magistrato in pensione Antonio Fojadelli è ora consigliere di una controllata dell'istituto, la Nordest sgr. E non è l'unica ex toga nel gruppo, scrive Vittorio Malaguti il 23 febbraio 2015 su "L'Espresso". All'epoca, correva l'anno 2002, la vicenda fece grande scalpore a Vicenza. L'uomo più potente della città, il banchiere Gianni Zonin, sotto inchiesta per falso in bilancio e conflitto d'interessi. E un giudice, il gip Cecilia Carreri, che ordina l'imputazione coatta dell'indagato eccellente sconfessando apertamente l'operato del pm Antonio Fojadelli, che invece aveva chiesto l'archiviazione. La vicenda giudiziaria, assai intricata, è arrivata al capolinea solo nel 2005 con una sentenza di non luogo a procedere nei confronti del presidente della Popolare di Vicenza. A distanza di un decennio, però, le strade di Zonin e del pm che indagò su di lui sono tornate a incrociarsi. Alcuni mesi fa, infatti, Fojadelli, classe 1939, è stato nominato amministratore di Nordest sgr, una società che gestisce alcuni fondi d'investimento controllata al 100 per cento dalla Popolare di Vicenza. Nel frattempo il magistrato è andato in pensione, chiudendo la carriera a fine 2011 con i gradi di procuratore capo a Treviso. L'anno successivo l'ex sostituto procuratore vicentino aveva tentato lo sbarco in politica candidandosi senza successo a sindaco di Conegliano Veneto in una lista di centro sinistra appoggiata dal Pd. Nel 2014 è arrivata la chiamata della banca presieduta da Zonin. Fojadelli, peraltro, non è l'unica toga arruolata dal gruppo creditizio veneto. Nel consiglio di Banca Nuova, l'istituto con base a Palermo controllato dalla Popolare di Vicenza, siede da più di due anni Manuela Romei Pasetti. Ovvero l'ex giudice, già presidente della Corte d'Appello di Venezia, coinvolta nell'inchiesta sulla gestione di Finmeccanica dell'ex amministratore delegato Giuseppe Orsi. Secondo l'accusa, Romei Pasetti, che era presidente dell'organo di vigilanza del gruppo pubblico, avrebbe fatto pressioni sul Csm per ostacolare le indagini del pm milanese Eugenio Fusco, distaccato a Busto Arsizio per condurre l'indagine su Finmeccanica. Da qui il coinvolgimento nell'inchiesta. Il nome di Romei Pasetti (questa volta non indagata) è tornato alla ribalta delle cronache l'anno scorso con l'inchiesta veneziana sul Mose, per le sue telefonate (intercettate dagli investigatori) con l'ex numero due della Guardia di Finanza, il generale Emilio Spaziante, che ha già patteggiato una pena di quattro anni.

GLI ITALIANI DI OGGI. TRA LADROCINIO E MALEDUCAZIONE. Galateo? Le buone maniere non sono più di moda. Oggi sei un cafone se non dici parolacce. Il galateo alla rovescia di Cesare Marchi irride i costumi scostumati del tempo, Scrive Cesare Marchi il 2 luglio 1980 (Pubblicato da "Il Giornale" il 10/08/2016). "Cambia il mondo e con esso il galateo. In tram non si cede più il posto alle signore, avendo esse ottenuto, assieme ai diritti dell'uomo, anche i doveri, compreso quello di stare in piedi. Nemmeno ai vecchi si cede più il posto, essendo per costoro ingiurioso affronto l'essere considerati tali, anzi ci sono dei vegliardi che vestono abiti giovanili, a tinte sgargianti, per camuffare l'inesorabile carta d'identità, mentre a loro volta i giovani, per distinguersi da questi pseudo coetanei, si invecchiano artificialmente con zazzere beethoveniane e barbe mosaiche. Ci si dà subito del tu. Chissà come esulterà nella tomba l'anima di Achille Starace apprendendo che è stato finalmente abolito il «lei», traguardo che una volta si raggiungeva solo dopo anni di guardinga, reciproca conoscenza, e reciproche, discrete indagini, presso i carabinieri o il parroco, l'uno all'insaputa dell'altro, per scoprire eventuali macchie del reciproco passato. E il fatto che dopo trent'anni di matrimonio i nostri nonni, i nostri genitori, usassero anche nell'intimità il lei, era la prova che quegli accertamenti non si erano ancora conclusi. Per abituare i ragazzi a mangiare composti, senza appoggiare i gomiti al tavolo, si infilavano sotto le loro ascelle due monetine. Se alla fine del pranzo non erano cadute, diventavano loro proprietà. I bambini parlavano solo se interrogati. I grandi avevano sempre ragione. Nei collegi-bene certi vocaboli erano proibiti, una educanda fu punita per aver scritto, nel tema, che il cavallo rinculò. Frequenti cartelli intimavano vietata la bestemmia e il turpiloquio, cose oggi tollerate se non addirittura incoraggiate. Un teologo ha scritto che la bestemmia è una, sia pur rabbiosa, invocazione al cielo, una sorta di «preghiera capovolta» (alla stessa stregua si potrebbe affermare che quel teologo è «ateo travestito»). Abbattuti i tabù puritani, il turpiloquio è entrato nella conversazione di tutti i giorni, e le signore nei salotti gli hanno spalancato le braccia, con l'entusiasmo dei neofiti, e le parolacce da trivio, fino allora costrette a rifugiarsi nei cessi, quasi non volevano credere ai loro occhi vedendo correre verso di sé, e accoglierle da pari a pari, letterati, intellettuali, poetesse, capintesta Cesare Zavattini, quello che si firma con due zeta. Una volta chi diceva le parolacce era un anticonformista, oggi lo è chi non le dice. Ma, ancora una volta, l'inflazione ha rovinato tutto. Pessimi amministratori del nostro patrimonio turpiloquente, lo abbiamo dilapidato col dissennato abuso; le parolacce che, ai tempi del proibizionismo, avevano lo stordente e raro profumo dei fiori del male, si sono svuotate di significato. Si sono, come dicono i semiologi, desemantizzati. Tornasse a vivere il grande Cambronne, visto lo spreco che si è fatto del suo vocabolo, al nemico che intima di arrendersi griderebbe «ciclamino». Queste considerazioni (stavo per dire preambolo, altro vocabolo inflazionato) mi sono state suggerite dalla lettura del libro di Giovanni Mosca «Il nuovo galateo», scritto dall'inesauribile umorista per colmare una lacuna, diventata negli ultimi tempi sempre più preoccupante. Infatti per quattro secoli funzionò quale indiscusso manuale di comportamento il famoso Galateo, trattato di buone maniere dedicato da monsignor Giovanni Della Casa all'amico Galeazzo Florimonte. Ma dopo l'ultimo dopoguerra le cose sono cambiate, la società ha subito tali mutazioni che quel codice non serve più. Anzi, è pericoloso seguirlo. Della Casa, per esempio, esorta ad evitare l'esagerata adulazione, la affettata umiltà, condanna il servilismo, il conformismo. Ma chi vuol fare carriera, difficilmente rinuncia a queste scorciatoie, tanto deplorevoli moralmente quanto redditizie professionalmente. A tempi nuovi, galateo nuovo. E qui la fantasia dell'umorista si scatena ondeggiando tra la satira graffiante, la serena ironia contemplativa e l'umorismo astratto, funambolico del vecchio Bertoldo. Ecco qualche perla. Il nudo, oggi tanto di moda, è espressione di libertà? «Niente di più falso. Abramo Lincoln, che della libertà fu uno dei più grandi campioni, abolì la schiavitù rimanendo sempre completamente vestito». Desiderate combinare qualche scherzo telefonico? «Mai telefonare a personaggi universalmente stimati probi e onesti, fingendosi carabinieri che li accusano di peculato e concussione: tali scherzi possono riuscire mortali, perché sono proprio gli uomini che reputiamo al di sopra di ogni sospetto, quelli che maggiormente si dedicano al peculato e alla concussione». In salotto non dite mai «non c'è denaro che possa comprarmi», «io dico pane al pane e vino al vino, sono un uomo tutto d'un pezzo», bensì «sono disposto a farmi corrompere anche per una modica somma», «quello che debbo dire mi guardo bene dal dirlo», «ho sempre cambiato idea», «se vado a testa alta è solo per l'artrosi». Così guadagnerete la stima e le fiducia da tutti, e tutto il mondo dirà «è uno dei nostri». Alle mostre di pittura, mai domandare che cosa il quadro rappresenti, e se per caso non sia stato appeso per il rovescio. Quanto agli omosessuali, non giudicateli anormali: «Sono semplicemente una minoranza che domani, diventando maggioranza, potrebbe capovolgere la situazione e gettare noi nel ghetto della minoranza, inducendoci a organizzare manifestazioni per ottenere la parità dei diritti». 2 luglio 1980".

Il bello è che gli ipocriti lestofanti sono i maestri del Politically correct. L'espressione angloamericana politically correct (in ital. politicamente corretto) designa un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone.

LA MANCANZA DEL POLITICAMENTE CORRETTO.

CAPITALE MORALE: PER LADY DENTIERA DIRE “TERRONI” NON È REATO. MA LA SECONDINA..., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016. «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Ormai, le retate delle forze dell'ordine portano in galera i moralisti meneghini a lotti di decine. E anche questa volta, è finito dentro il potente leghista Fabio Rizzi, “braccio destro” di Roberto Maroni, presidente della Regione. Regione Lombardia: il che spiega perché è ancora al suo posto e non si e dimesso, come i boati a mezzo stampa avrebbero preteso se presidente e Regione fossero stati da Roma in giù (mica si tratta di due chili di cozze pelose!). Già nell'altra retata di moralisti a mazzetta incorporata, appena qualche mese fa, finì in galera un altro “braccio destro” di Maroni, il suo vice alla Regione, e sempre per appalti nella Sanità. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita». Il che mostra che lady Dentiera cercava già una scusa per darsi latitante all'estero. Ci ha pensato troppo e ora ha tempo per continuare a pensarci in galera. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la secondina? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chini cazzu sugnu eu?». Glielo traduco, è calabrese, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». Vedrà che lei avvia un dialogo sull'etimo del termine, che favorirà la crescita culturale di entrambi. Toc, toc...! Milady... Indovini di dov'è la cuoca? Non lo sa, glielo ha detto e non lo capisce? Ha detto qualcosa, tipo: «Chi cazz song'ije?». Glielo traduco, non è proprio napoletano, ma siamo sempre in Campania, significa: «Chi cazzo sono io?». Quindi lei adesso le risponde, educatamente e civilmente: «Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia». E poi, buon appetito. Tanto, i denti o la dentiera, non le mancano.

Altro che disgrazia, Marcinelle fu un crimine! Scrive Ilario Ammendolia il 9 ago 2016 su “Il Dubbio”. Sessant'anni fa la strage dei minatori italiani emigrati in Belgio. I soccorsi furono ritardati: non si volevano far vedere l'inferno delle miniere e le baracche dei migranti. Nel mese di giugno del 1946 il governo italiano firmava con il Belgio l'accordo di scambio tra uomini e carbone. Per ogni italiano che scendeva in miniera, l'Italia riceveva 200 chili di carbone al giorno. In tutti gli uffici di collocamento furono affissi dei manifestini di color rosa pallido che invitavano gli aspiranti ed improvvisati minatori a trasferirsi in Belgio. Per ricevere il visto di ingresso in quel Paese, avrebbero dovuto però sottoporsi a visita medica e, a tal fine, fu creato un centro nei sotterranei della stazione centrale di Milano. Da paesi del Sud (ma anche dal Veneto) partirono in migliaia e molti fecero ritorno con i bronchi distrutti dalla silicosi. L'8 agosto di sessanta anni fa la tragedia di Marcinelle! La miniera si trasforma in un inferno e 262 uomini bruciano come torce umane. La maggioranza sono meridionali. Dalla fine della guerra al 1956 i paesi del Sud vedono ridursi la popolazione di oltre un terzo dei propri abitanti. Ho un nitido ricordo delle famiglie del mio paese che aspettavano con trepidante attesa notizie dei loro cari residenti in Belgio. Le lacrime silenziose di quanti con compostezza si recavano quotidianamente in caserma nella speranza di conoscere la sorte dei loro familiari. Il carbone è servito per alimentare le industrie del "triangolo" industriale. Le rimesse degli emigranti furono utilizzate dalle banche per finanziare il "miracolo economico" italiano. Era l'Italia del 1956! Marcinelle non fu una disgrazia, fu un crimine. I soccorsi furono ritardati per non mostrare al mondo le condizioni impossibili nei quali i minatori erano costretti a lavorare. Non si volevano far vedere le miniere dove tutto era inadeguato e neanche le baracche dei migranti privi di servizi igienici. I padroni delle miniere risparmiavano sulle attrezzature e finanche sui mezzi di prevenzione e di soccorso, puntando ad aumentare i profitti sullo sfruttamento inumano dei minatori costretti a scendere a mille metri di profondità senza tutela alcuna. La tragedia fu circondata da un muro di omertà e finanche di crudeltà. Si pensi che i familiari delle vittime e dei feriti furono fermati per giorni alle frontiera perché non avevano il visto di ingresso in Belgio. Tuttavia c'era anche una diversa sensibilità rispetto al mondo del lavoro, tanto in Italia che in Europa. Quando ancora si scavava nella miniera di Marcinelle per raggiungere quota 835 alla ricerca di impossibili sopravvissuti, ovunque, lavoratori del Nord e del Sud scendevano in lotta in un moto di spontanea solidarietà alle famiglie delle vittime. Manifestazioni di solidarietà ai minatori furono indetti dai sindacati del Belgio ed in Francia. Il governo italiano fu costretto a denunciare l'infame accordo "uomo- carbone". Sulla stampa, in Parlamento e nel Paese, la strage di Marcinelle venne interpretata come l'ennesimo tributo di sangue imposto ai lavoratori, soprattutto meridionali, per consentire alla industria "padana" di potersi sviluppare. Negli stessi giorni si rivendicò con forza la centralità dell'uomo rispetto alle leggi del mercato. Fu riproposta la necessità di un "piano nazionale", capace di incentivare insediamenti industriali nei luoghi di residenza dei lavoratori disoccupati piuttosto che sradicare la gente del Sud e farla dormire nelle soffitte di Torino e di Milano ed, ancor peggio, nelle baracche belghe costruite per i prigionieri di guerra. Oggi la solidarietà tra gli uomini è messa a dura prova. Mentre, la stessa industria "padana" cresciuta sul sangue dei lavoratori meridionali (e settentrionali) in nome della comune Patria trasferisce i propri impianti all'estero inseguendo la sola legge del massimo profitto. Altro che ndrangheta! Nessuno pagò per il crimine di Marcinelle quasi che provocare la morte di minatori non dovesse esser considerato un reato! A sessant'anni di distanza il tasso di disoccupazione giovanile al Sud è maggiore rispetto al 1956. La forbice si è allargata ed oggi la distanza tra Calabria e Lombardia è maggiore rispetto a quella tra Germania e Grecia. Gli ospedali calabresi sono molto più vicini a quelli dell'Egitto rispetto a quelli del Veneto! Nonostante ciò, la questione meridionale è stata ridotta a mera questione criminale. Nei giorni scorsi il Senato della Repubblica ha dedicato sette ore del suo tempo per decidere l'arresto del senatore Caridi, considerato un "invisibile" di una "cupola" occulta, secondo quanto ipotizzato nell'inchiesta della procura di Reggio Calabria denominata "Mammasantissima". E' stata l'unica occasione, in tutti questi anni, in cui in un'aula parlamentare si è speso così tanto tempo a parlare, sia pure di riflesso, di una vicenda calabrese. E' successo a sessanta anni esatti di Marcinelle. Un unico filo rosso collega e fa da sfondo ad avvenimenti così diversi e così distanti: la grande disperazione del Sud che le classi dirigenti nazionali non hanno mai affrontato e che ieri veniva camuffata come logica conseguenza di una «naturale depressione economica» mentre oggi viene derubricata a mera questione criminale.

GLI ECCESSI DEL POLITICAMENTE CORRETTO.

Cicciottelle non di può dire, ma panciuti sì, scrive Giordano Tedoldi su “Libero Quotidiano" il 9 agosto 2016. Che la faccenda del politicamente corretto sia del tutto fuori controllo, e abbia prodotto l' esatto opposto di ciò che voleva prevenire, e cioè livore, aggressività, pretesto per giudicare sommariamente il «nemico» e inchiodarlo a una parola diventata oscuramente impronunciabile, lo dice la furibonda polemica sulle tre azzurre del tiro con l' arco, bravissime, ma che non sono riuscite a guadagnare il podio alle Olimpiadi di Rio, cedendo alle russe, e le cui gesta il Resto del Carlino, nelle sue pagine sportive, ha raccontato con il titolo «il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo olimpico». Ora, poiché viviamo al tempo della pussy generation, come dice Clint Eastwood che ha coniato l' espressione in una sua recente intervista a Esquire (scandalizzando tutti perché, sai che scoperta, il vecchio Clint mostrava interesse per Donald Trump, ma dai, e noi che pensavamo fosse kennediano tendenza Veltroni…) cioè «la generazione delle femminucce» - e non staremo a spiegare o a difendere l' uso dell' espressione, attendendo pazientemente i soliti geni, che ci diranno che offende le donne anzi «il corpo delle donne» - allora ne consegue che «cicciottelle», riferito alle tiratrici olimpiche, è «una vergogna», e che i giornalisti che hanno così titolato sono responsabili della «morte di una professione», e che «sono da pestare» perché «fanno schifo». Questi commenti, così civili, indice di elevato pensiero e nobili sentimenti, sono alcuni nella nauseante marea di analoghi insulti, partoriti dagli indignati del politicamente corretto, presi a casaccio dalla rete, che ieri ne traboccava. E tutto perché l'anonimo giornalista - di cui ora la rete pretende il nome, ché si deve pubblicamente umiliarlo, e pretenderne scuse solenni, e casomai ottenerne anche la radiazione dall' ordine professionale, provvedimento che gli indignati del web sollecitano ogni ora per gli episodi più vari e contraddittori - ha detto che tre atlete sono «cicciottelle». Occorre rammentare alla scatenata pussy generation, quella per la quale, come dice Clint, «questo non si può fare, quello non si può dire, quell' altro nemmeno» (tutti divieti stabiliti da loro, beninteso) che quattro anni fa la rete non si scatenò affatto, per i «Robin Hood con la pancetta», come vennero chiamati dai giornali i tre arcieri italiani, non propriamente smilzi, che vinsero l'oro alle Olimpiadi di Londra. Allora, il fatto che i nostri tiratori fossero «cicciottelli», com' è del resto abbastanza normale in una disciplina dove non è richiesto il peso forma, semmai occhi di lince e grande capacità di concentrazione, non destò scandalo alcuno. Soprattutto non destò scandalo per gli arcieri, così come nulla hanno commentato, stavolta, le tiratrici italiane. Allora, nessun giornalista fece schifo, né venne indicato per essere pestato, né sotterrò la professione, né venne minacciato di radiazione, né se ne pretese con voce stentorea il nome come fosse un nazista imboscato da decenni. Come mai? Ma perché erano tre uomini. La pussy generation ha questa idea che esistano delle categorie di «diversi», più sensibili, più vulnerabili, che vanno curati come piantine stentate, anche malgrado i propositi e le volontà delle stesse presunte «vittime». Sappiamo quali siano tali categorie: gli omosessuali, i neri, i «migranti», le donne, in parte anche gli islamici. Di questi non si può che dire e scrivere ogni bene. Qualunque epiteto dal significato meno che esaltante, sia anche l'infantile «cicciottello» (ma seriamente: chi può dirsi offeso, essendo adulto, perché viene definito così?) mette subito colui che lo usa nei pasticci. E nel dire nei «pasticci» siamo politicamente corretti, perché ciò che in realtà accade è che viene coperto da una valanga di merda, escreta da loro, i buoni, i giusti, i politicamente corretti, la parte avanzata della società, insomma, la pussy generation, che si gonfia di boria grazie all' esibizionistica amplificazione e risonanza dei social. Fortunatamente, c' è ancora chi non ha perso il senno, e per criticare un titolo, criticabilissimo, ci mancherebbe, ricorre all' ironia, sottolineando che ci vuol coraggio a definire «cicciotelle» tre donne che sanno scoccare frecce con tanta precisione. Ma la media delle reazioni è l'insulto, la messa alla berlina, la gogna virale, tutte procedure che il politicamente corretto usa immancabilmente. E dunque ci chiediamo: come mai un esercizio critico così barbarico, che usa sempre questi metodi di aggressione, il vile tutti contro uno, viene tollerato? Perché accettiamo che il controllo sul linguaggio, nella discussione pubblica, venga affidato all' isteria del «popolo della rete» in quotidiana caccia di un capro espiatorio? Il quale popolo, altro che ricorrere a un «cicciottello», quando parte all' attacco, pretende la testa del nemico. Giordano Tedoldi.

Le "cicciottelle" divorano il direttore. Ecco come l'hanno rovinato, scrive “Libero Quotidiano” il 9 agosto 2016. Ha vinto il politicamente corretto, ha perso il buonsenso a favore della boria che tracimava dai profili Facebook per tutto ieri, dopo che era stato messo in giro il titolo del Quotidiano sportivo, supplemento sportivo del Resto del Carlino, sulle tre atlete italiane del tiro con l'arco, le "cicciottelle" che hanno portato a casa una medaglia di bronzo. Con una nota da parte dell'editore del quotidiano, Andrea Riffeser Monti, arriva il licenziamento in tronco del direttore del Qs, Giuseppe Tassi: "L'editore - si legge - si scusa con le atlete olimpiche del tiro con l'arco e con i lettori del Qs Quotidiano sportivo, per il titolo comparso sulle proprie testate relativo alla bellissima finale per il bronzo persa con Taipei. Lo stesso editore a seguito di tale episodio ha deciso di sollevare dall'incarico, con effetto immediato, il direttore del Qs Giuseppe Tassi". L'atteggiamento più dignitoso lo hanno avuto le tre atlete che non si sono volute intromettere nel carnaio di polemiche sterili. Da parte degli indignati di professione un coro di proteste sulla trita e ritrita questione del rispetto del corpo femminile, portata a bandiera quando conviene, dimenticata solo in casi di avversari politici da disintegrare. Chissà dove erano questi paladini del rispetto in quota rosa quando si faceva carne da macello delle ragazze coinvolte nei processi contro Silvio Berlusconi, giusto per citare un trascurabile caso fenomenologico degli ultimi anni. A poco è bastata la nota di scuse con la quale lo stesso direttore questa mattina aveva giustificato quel titolo, apparso tra le altre cose nell'edizione di prima battuta, poi corretto in un'altra forma nella successiva edizione. Ormai la palla di neve era diventata valanga, con un il carico da novanta aggiunto dal presidente della Federazione italiana Tiro con l'Arco, Mario Scarzella, che rivolgendosi proprio al direttore aveva drammatizzato fino all'inverosimile: "Dopo le lacrime che queste ragazze hanno versato per tutta la notte - aveva scritto Scarzella - questa mattina, invece di trovare il sostegno della stampa italiana per un'impresa sfiorata, hanno dovuto subire anche questa umiliazione". E l'umiliazione doveva essere lavata con un colpevole da lanciare alla folla assetata di sangue. Di sicuro quel licenziamento "con effetto immediato" avrà ridato dignità a tutto il genere femminile.

Le «cicciottelle» e noi ostaggi dell’ossessione dell’estetica, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera” il 9 agosto 2016. «Il trio delle cicciotelle sfiora il miracolo olimpico» era un titolo sbagliato. Anzi, peggio: era un brutto titolo. Ma se licenziassero tutti i giornalisti che hanno fatto un brutto titolo, o un commento inopportuno, le redazioni sarebbero deserte. Di certo, il sottoscritto non ci sarebbe. Anni fa, dopo averla incontrata, ho definito «cicciottina» Scarlett Johansson (su Sette): ai miei occhi era un complimento, la ragazza era uno splendido manifesto contro l’ossessione della magrezza. Oggi non lo scriverei. Anche per questo a Giuseppe Tassi, l’autore di quel titolo, rimosso dalla direzione del Quotidiano Sportivo, concederei l’attenuante della buona fede: l’impressione è che, in modo un po’ datato, volesse vezzeggiare le ragazze dell’arco dopo la bella prova di Rio. In fondo, molte testate hanno applaudito Teresa Almeida, portiere della squadra di pallamano dell’Angola, 170 centimetri per 98 kg («Fortissima, simpatica e portavoce dei “cicciottelli” di tutto il mondo», Huffington Post, 7 agosto 2016). Domanda: non sono più offensive le esternazioni di Matteo Salvini su Laura Boldrini, paragonata a una bambola gonfiabile? Non sono più indelicati i giudizi di Marco Travaglio su Maria Elena Boschi («Si occupi di cellulite, non di riforme»). Non sono più spiacevoli i commenti di Vincenzo De Luca su Virginia Raggi («Bambolina imbambolata»)? Eppure non risulta che sia partito il linciaggio virtuale. Meglio così, sia chiaro. I titoli giocati sull’aspetto fisico sono figli di questo clima. E di certe abitudini. Siamo onesti: dall’inizio delle Olimpiadi molte testate pubblicano, e molti tra noi guardano, le scollature delle atlete e gli addominali degli atleti. È un’estensione dell’insopportabile ossessione estetica che domina la pubblicità, i media e la società; e tiene in ostaggio le nostre vite. I social — gli stessi che oggi invocano la gogna per l’autore del titolo sulle «cicciottelle» — godono a umiliare ogni personaggio per qualsiasi imperfezione: dalla pelle di un’anziana cantante a Sanremo alla pancetta di Higuain all’esordio con la Juve. Riassumendo. È inopportuno giocare sull’aspetto: il collega Tassi ha sbagliato. Ma fra disapprovazione e linciaggio c’è un confine. E ogni giorno viene superato, con euforica ipocrisia.

MALEDUCAZIONE? COLPA DI QUESTA DISCULTURA. Scuola, proteste insegnanti. Rondolino: "Perché la polizia non li riempie di botte?". Il tweet del giornalista ed ex spin doctor di Massimo D'Alema attacca i docenti che il 24 giugno sono scesi in piazza contro l'approvazione del ddl Renzi-Giannini al Senato. E, visti i disagi alla circolazione, chiede che le forze dell'ordine, dopo averli colpiti, liberino "il centro storico di Roma". A ilfattoquotidiano.it dice: "E' una provocazione, ma la città non può essere ostaggio di ultragarantiti che lavorano poco e male", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 26 giugno 2015. Rivendica la “libertà d’espressione e il diritto di essere provocatorio”, anche se ammette che avrebbe “dovuto scrivere semplicemente che le strade andavano sgomberate”. Ma non si pente di quanto ha scritto, perché una città non può essere “ostaggio” dalla protesta di “ultragarantiti che lavorano poco e male e che accusano Renzi di avere ucciso la scuola pubblica, quando in realtà sono loro i responsabili”. Fabrizio Rondolino, ex spin doctor di Massimo D’Alema, contattato da ilfattoquotidiano.it, spiega il significato del suo tweet pubblicato il 25 giugno in occasione delle proteste di migliaia di docenti contro il ddl scuola, approvato con la fiducia al Senato.” Ma perché la polizia non riempie di botte sti insegnanti e libera il centro storico di Roma?”, ha scritto Rondolino online. Dalle 17 migliaia di manifestanti hanno attraversato la Capitale, partendo dalla Bocca della verità e si è fermato, bloccato dalla polizia, a piazza Sant’Andrea della Valle, poco prima del Senato. In corso Rinascimento, di fronte all’accesso principale del Senato, si sono verificati momenti di tensione e la strada per precauzione è stata chiusa al traffico. “Si può protestare – prosegue il giornalista – ma non è possibile che una città rimanga paralizzata come è successo ieri a Roma. Sono uscito di casa alle 21.30 e alle 22 Roma era ancora bloccata. Una situazione inaccettabile. Ora, non dico di mandare gli insegnanti a manifestare sul raccordo”. Ma suggerisce: “Bastano 10, 50 docenti che vanno fuori dal Senato, così possono dire le loro cose. Davanti alla città presa in ostaggio, però, mi aspetto che le forze dell’ordine reagiscano. Si sa, quando c’è una piazza da sgomberare, ci possono essere anche cariche di alleggerimento”. Quindi i docenti in piazza dovevano essere caricati dalla polizia? “No, è una provocazione. Ma sindaco e prefetto non possono consentire che la città sia totalmente paralizzata”. Tanti i commenti al tweet di Rondolino, che in passato aveva insultato anche il direttore della Stampa e suo ex datore di lavoro, Mario Calabresi, definendolo “orfanello”. “Deve essere evidentemente una battuta. Di pessimo gusto ma una battuta”, spera Cassandra. E c’è chi ironizza: “Perché non fucilarli o gettarli da un aereo?”, “un bel rogo in piazza e via?”, “Dov’è la candid camera Fabrizio?”. Poi c’è chi spera che Rondolino non fosse “capace di intendere e di volere” e chi si augura che dopo questo messaggio La7 lo escluda “definitivamente dai palinsensti”. E ancora: “Perché non vai a dirglielo di persona agli insegnanti quello che scrivi qua?”, “Non hai le palle per dire in faccia queste cose!”. Rondolino, però, replica anche ad un attacco che arriva nei commenti sulla piattaforma di microblogging. “Se questo è un uomo”, scrive la cronista della Stampa Antonella Rampino, riportando poi il tweet sugli insegnanti. “Beh, se tu sei una donna…”, è la risposta del giornalista che a ilfattoquotidiano.it minimizza: “E’ semplicemente una risposta speculare a quanto ha scritto lei. Piuttosto dovremmo chiederci per quale motivo abbia abusato del titolo di un libro di Primo Levi”. I motivi della protesta – Dopo l’approvazione del Senato, il sindacato Anief ha ricordato i motivi della protesta di piazza: “Si fa un bel passo indietro sulla libertà all’insegnamento, si trasformano gli istituti scolastici in prototipi di aziende, i presidi sceglieranno il personale pescando dagli albi territoriali, scegliendo i 50mila docenti e i vincitori del nuovo concorso – ha spiegato il presidente Marcello Pacifico – Gli altri 50mila immessi in ruolo saranno assunti ad anno scolastico iniziato, con almeno altri 70mila insegnanti non assunti che chiederanno risarcimenti al tribunale civile di Roma”. Inoltre, ha aggiunto, “a settembre nelle scuole si creerà un caos senza precedenti, per il ritorno in classe dei vicepresidi e migliaia di dirigenti sguarniti dell’organico dell’autonomia. Vengono poi beffati tutti gli abilitati laureati, che per i prossimi cinque anni non potranno fare concorsi, né insegnare. Arriva, infine, il comitato di valutazione dei docenti, con i fondi del merito distribuiti dal preside-manager, sulla base delle indicazioni fornite anche dagli studenti 15enni”.

La sinistra e i professori non si vogliono più bene, scrive Francesco Boezi l’8 agosto 2016 su “Il Giornale”. Si erano tanto amati, la sinistra ed i docenti. Incontratisi per la prima volta sulle scale dell’università, si fusero nell’enfasi marxista; quindi la sinistra con tono impositorio disse: “Ora, se vorrete guadagnare la vera libertà, leggerete Marcuse tre volte, sovvertirete il sistema borghese, brucerete jeep, appiccherete roghi, occuperete facoltà e predicherete la fine dei costumi dei padri. Solo così diverrete veramente liberi!” Fu colpo di fulmine. I docenti, che allora erano solo degli studentelli sbarbati, credettero. Era il 1968’. “Ricordi? Sbocciavan le molotov.” Lei seduceva con l’inchiostro. Loro, in fin dei conti, erano solo i figli di quella borghesia da distruggere: la leva ideologica di un ventennio. Pier Paolo Pasolini pensava fossero vittime di un gigantesco equivoco: non sono rivoluzioni quelle fatte con i soldi di papà. L’esito? Un po’ l’inconsistenza, la finzione e la disperazione del terrazzo radical chic di Jep Gambardella, un po’ la “spada de’ foco” di Carlo Verdone nel salotto di Mario Brega. Vennero i governi e le riforme, la fantasia al potere, in televisione ed in cattedra. Gad Lerner e Michele Santoro, Marco Boato e Massimo Cacciari. Il sentimento tenne. Dalle aule delle università, vennero occupati i conti correnti: dicono i grafici di Bankitalia che il reddito medio di quella generazione crebbe molto di più rispetto quello delle successive. Sinistra progressista e classe docente, unite per la vita. “Encore!”, dice Lacan, è la domanda dell’amore. Ancora! Senza soluzione di continuità. Dal 18 politico con l’eskimo, al modello 730 con la barca a vela. A braccetto, nella buona e nella buonissima sorte. Anche gli insegnanti malpagati gridarono: “Encore!” Nei momenti di crisi si sparò a zero contro l’avversario politico, fatto qualche girotondo, andati al cinema insieme. Una passione filtrata dai decenni e mai interrotta. Neppure “La Cosa” di Achille Occhetto poté farci nulla. Persino il Partito Democratico andò giù liscio come l’olio. Ci voleva un algoritmo impazzito per distruggere un amore. Un nemico difficile contro cui girotondare perché, alla fine, è solo un numeretto. Che rende la vita precaria ancor prima del lavoro. Che ti spara dal sud al nord come la pallina di un flipper: docenti con punteggi altissimi costretti a lasciare la famiglia per trasferirsi a 700 km di distanza, altri con punteggi minori che possono insegnare sotto casa. L’evoluzione neoliberista della sinistra governativa europea. In Italia lo hanno fatto quelli che dicevano di voler visitare una scuola ogni settimana ed aumentare gli stipendi dei professori. Ve la ricordate la prima Leopolda sì? Senza famiglia a due passi, però, diventano tutti irascibili. Persino le truppe dell’egemonia gramsciana. La voglia di instabilità relazionale millantata nel 68’ era pura propaganda. L’idea di Marx per cui la borghesia avrebbe ridotto tutte le libertà a quella della mercificazione, meno. La sinistra e i professori no, non si vogliono più bene. 

L’80 per cento dei nuovi prof del Sud. Perché trasferirli non è un complotto. I dati di «Tuttoscuola»: nel Meridione c’è soltanto un terzo delle cattedre disponibili. Non potendo muovere scuole e studenti sono i docenti a doversi spostare al Nord, scrive Gian Antonio Stella il 10 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". Allora: spostiamo gli studenti al Sud? A leggere certi strilli sulla «deportazione» dei docenti meridionali al Nord cadono le braccia. Certo, è possibile che il famigerato «algoritmo» che ha smistato maestri e professori abbia commesso errori. E vanno corretti. Ma i numeri sono implacabili: 8 insegnanti su 10 sono del Mezzogiorno però lì c’è solo un terzo delle cattedre disponibili. Non per un oscuro complotto anti meridionalista: perché gli alunni delle «primarie» e delle scuole di I° grado sono oggi mezzo milione in meno di vent’anni fa. Lo studio capillare che spazza via certi slogan urlati in questi giorni è di Tuttoscuola. Che grazie a un monitoraggio capillare, nome per nome, regione per regione, dimostra: «Solo il 37% degli studenti italiani risiede al Sud, Isole incluse (18 anni fa era il 47%); mentre ben il 78% dei docenti coinvolti in questa tornata di trasferimenti è nato nel Meridione». Risultato: la scuola italiana è come una «grande nave con un carico molto più pesante a prua (il Nord del Paese), che fa scivolare gradualmente verso quella prua una quota crescente del personale, collocato in misura preponderante a poppa (al Sud)». E non c’è algoritmo che, quella nave, possa raddrizzarla. Almeno in tempi brevi. Il guaio è che, prima ancora della frana 2013/2015, con più morti che nascite come non accadeva dalla influenza spagnola del 1918, il Sud subisce da tempo un’emorragia demografica. Conseguenza: «Meno studenti, meno classi attivate, meno personale docente. Confrontando i dati degli alunni iscritti nelle scuole del primo ciclo nel 1997-98 con quelli degli anni successivi, risulta una flessione costante». Nel ‘97-‘98, ad esempio, gli iscritti meridionali alle materne, alle elementari e alle medie erano 2.032.338 cioè il 46,6% del totale nazionale. Quest’anno 1.586.589, pari al 37,5%. Quasi mezzo milione, come dicevamo, in meno. Contro un aumento parallelo di 320.809 alunni al Nord. Di qua +14%, di là -22%. Va da sé che l’equilibrio domanda e offerta ne è uscito stravolto. E questo «squilibrio», prevede la rivista diretta da Giovanni Vinciguerra, sarà registrato «per altre migliaia di professori della secondaria di II grado». È la conferma che «il Mezzogiorno, da decenni avaro di posti di lavoro, privilegia come valvola di sfogo occupazionale l’insegnamento, mentre i giovani delle altre aree territoriali sembrano non prioritariamente interessati a questa professione, grazie forse a più favorevoli offerte di lavoro locali». Problema: non c’è bicchiere capace di contenere un litro d’acqua. I docenti meridionali sono 30.692 ma i posti a disposizione al Sud sono 14.192: «Come possono 14.192 sedi accogliere 30.692 insegnanti? Neanche Einstein avrebbe potuto inventare un algoritmo in grado di risolvere un’equazione simile». Maestri e professori «in eccedenza» nel Mezzogiorno sono complessivamente 16.500, quelli che mancano al Centro-Nord 17.628. Di qua quasi il 67% in meno, di là quasi il 54% di troppo. Con addirittura un picco del 64,3% di insegnanti in eccesso in Sicilia. La quale copre da sola oltre un terzo dei docenti costretti ad andarsene dalla propria regione. Capiamoci: come dicevamo, e come sono stati costretti ad ammettere la stessa Stefania Giannini o Davide Faraone, l’algoritmo usato per distribuir le cattedre in base a vari parametri (anzianità di servizio, titoli, specifiche esigenze familiari...) «incrociati» con l’ordine delle province preferite (ogni docente poteva metterne in fila cento, dalla propria a quella più lontana o più scomoda da raggiungere) può aver commesso errori. Anzi, vere e proprie ingiustizie che hanno premiato qualcuno a danni di altri. E quelle ingiustizie, come dicevamo, vanno riparate. Partendo dalla massima trasparenza chiesta a gran voce da chi contesta le graduatorie. Mediamente, spiega Tuttoscuola, «soltanto il 38% di docenti meridionali ha trovato sede nella propria regione, mentre il 62% è rimasto fuori. Al contrario, il 74% dei docenti nati nel Centro-Nord è rimasto nella propria regione». Colpa di quella nave sbilanciata a prua. Ma se un pugliese finisce in Sicilia e un siciliano in Puglia, dato che non pesava il merito professionale ma solo l’algoritmo, poteva probabilmente esser fatto di meglio. Ed è vero che, in cambio del posto fisso, viene chiesto a molte persone non più giovani, dopo anni di supplenza, con figli e famiglie radicate, un sacrificio pesante. A volte pesantissimo. Detto questo, le urla contro «la deportazione coatta», i lamenti per «una misura indecente e inaccettabile», le denunce degli «esiti nefasti della mobilità nella scuola», gli appelli contro «l’esodo biblico», sono esasperazioni che si rifiutano di tener conto di un dato di fatto: non potendo spostare scuole e studenti, devono spostarsi i docenti. Come accettò di andare a insegnare in un liceo dell’allora lontanissima Matera Giovanni Pascoli. O dell’ancor più lontana Nuoro Sestilio Montanelli, che si portò dietro tutta la famiglia, a partire dal nostro Indro. E centinaia di migliaia di altri docenti. Consapevole oggi dei disagi, dei problemi, dei drammi familiari, però, il governo potrebbe cogliere l’occasione, come invita Tuttoscuola, per dare una svolta alla scuola meridionale, marcata dall’altissima dispersione e da «scadenti risultati nei test Invalsi e Pisa». Alla larga dall’assistenzialismo, ma vale davvero la pena di tener aperte le scuole meridionali, incentivare il tempo pieno, puntare sull’istruzione. Soprattutto nelle aree a rischio.

LADROCINIO? COLPA DI QUESTA DISCULTURA. Politica e manette: numeri da record. In Parlamento una richiesta d'arresto ogni 5 mesi. In tre anni e mezzo sono arrivate otto istanze di custodia cautelare nei confronti di onorevoli. Di questo passo potrebbe essere eguagliato il massimo della Seconda Repubblica. Con accuse che vanno dalla mafia al riciclaggio, dalla corruzione alla bancarotta, scrive Paolo Fantauzzi il 10 agosto 2016 su “L’Espresso”. Non sarà il “tintinnare” evocato nel 1997 da Oscar Luigi Scalfaro nel suo messaggio di fine anno, di certo le manette continuano a essere una presenza costante nella vita politica. E la legislatura in corso non fa eccezione. Anzi. Con Antonio Caridi, accusato di essere organico alla 'ndrangheta , sale a otto il numero di onorevoli per i quali è stato chiesto l’arresto. In media, uno ogni cinque mesi. E il parlamentare calabrese è il terzo a finire dietro le sbarre come è già capitato a due deputati: il democratico e adesso forzista Francantonio Genovese e l'ex ministro Giancarlo Galan, pure lui berlusconiano. Nella Seconda Repubblica solo la scorsa legislatura (2008-2013) ha fatto di “meglio”, con 12 richieste: anche in quel caso, in media una ogni cinque mesi. Continuando di questo passo e salvo elezioni anticipate, insomma, l'attuale legislatura rischia seriamente di eguagliare il record. Dimostrando che lo slogan "cambia verso" non sembra affatto riguardare tutti gli aspetti della vita pubblica. Va detto che degli arresti piovuti nell’ultimo triennio in Parlamento, tre sono stati in seguito annullati dal Riesame o dalla Cassazione. Altrettanti sono stati invece negati col voto segreto da deputati e senatori, convinti che dietro le richieste di custodia cautelare avanzate dai magistrati ci fosse il fumo della persecuzione. Anche senza autorizzazione a procedere gli onorevoli restano comunque indagati e a scorrere i capi d'imputazione vengono i brividi: 'ndrangheta, concorso esterno in associazione mafiosa, bancarotta, corruzione, riciclaggio, truffa aggravata, solo per citare i più gravi. Galan, ad esempio, accusato di aver ricevuto tangenti da un milione l’anno per circa un decennio, dopo aver passato appena 78 giorni in carcere è stato mandato ai domiciliari. Poi ha già patteggiato una pena a 2 anni e 10 mesi con l’impegno a restituire 2,6 milioni. Intanto fino a tre mesi fa, quando è decaduto dalla carica, ha continuato a ricevere l'indennità parlamentare e la maggiorazione quale presidente della commissione Cultura: circa 13 mila euro lordi al mese. Poco più di quanto percepisce tuttora Genovese, che è ancora in carica essendo un “semplice” imputato: per lui la Procura di Messina ha appena chiesto una condanna a 11 anni di carcere per una presunta frode alla Regione Sicilia sulla formazione professionale (associazione per delinquere, riciclaggio, peculato, false fatturazioni e truffa, i reati contestati). Niente carcere invece per il forzista Luigi Cesaro: prima che Montecitorio si pronunciasse, il tribunale del Riesame ha detto che non c’erano i gravi indizi di colpevolezza necessari. Ma l’ex presidente della Provincia di Napoli resta indagato per concorso esterno in associazione mafiosa con l’accusa di aver favorito alcune a ditte legate a clan della camorra. Mentre un’altra inchiesta sull’affidamento della raccolta dei rifiuti nell’isola d’Ischia lo vede inquisito per turbativa d’asta e corruzione: la Camera ha appena negato l’uso di alcune sue intercettazioni indirette, sostenendo non fossero affatto casuali. La stessa indagine è valsa una richiesta d’arresto pure per un altro deputato, anche lui forzista e partenopeo: Domenico De Siano, accusato di concorso in corruzione. Mail Senato lo ha salvato appigliandosi a un cavillo, malgrado il Tribunale della libertà avesse respinto il ricorso dell'onorevole e confermato che meritasse i domiciliari. Turbativa d’asta è l’accusa rivolta a Carlo Sarro, pure lui di Forza Italia, per un appalto riguardante alcuni lavori in reti fognarie e idriche nella zona vesuviana: avrebbe fatto in modo da farli ottenere a una ditta vicina alla camorra. Riesame e Cassazione hanno annullato i domiciliari disposti dal gip ma l’indagine va avanti e la posizione del deputato azzurro non risulta essere stata archiviata. Infine ci sono i due senatori alfaniani che tanto hanno dato da fare, soprattutto all’alleato di governo del Pd, per evitarne l’arresto: Giovanni Bilardi e Antonio Azzollini. Quest’ultimo ha prima beneficiato del generoso “no” all’uso di alcune sue intercettazioni captate casualmente nell’inchiesta sui lavori al porto di Molfetta (truffa, l’addebito nei suoi confronti) e tre settimane dopo è stato salvato dai domiciliari coi voti determinanti e l’apparente pentimento del Pd: era accusato di associazione a delinquere e concorso in bancarotta fraudolenta per il crac di una casa di cura. Per la cronaca, l’arresto è stato annullato dal tribunale del Riesame, che però ha confermato la sussistenza di due episodi di bancarotta. Ancora più complessa la figura di Bilardi: accusato di peculato per la Rimborsopoli in Calabria (si sarebbe appropriato illecitamente di oltre 350 mila euro di fondi consiliari), il Senato ci ha messo così tanto prima di votare che alla fine, essendo passati quattro anni dai fatti contestati, il Riesame ha revocato il provvedimento, dopo che la Cassazione aveva annullato con rinvio la richiesta di arresto. Salvato dai domiciliari, adesso il nome di Bilardi è spuntato pure dalle carte dell'inchiesta Mammasantissima, nell’ambito della quale è stato chiesto il carcere per Caridi. Benché non indagato, secondo i magistrati anche il senatore alfaniano risulta essersi speso a favore della ‘ndrangheta.

I nostri politici? Erano già ridicoli nell'800. Burocrati incapaci, politici imbroglioni, intellettuali ignoranti. Carlo Dossi raccontò le miserie del Regno. Peggior delle nostre, scrive Vittorio Feltri, Giovedì 15/10/2015, su "Il Giornale". Il suo nome era Carlo Alberto Pisani Dossi. Troppo lungo per tenerlo a mente. Abbondante anche la sua produzione letteraria: poemi, romanzi, riflessioni eccetera. Poi i taccuini, una moltitudine, riempiti di appunti, e sono questi di cui discettiamo. Adelphi ha provveduto a pubblicarne a chili nelle Note azzurre. Ora a selezionare i passi più significativi allo scopo di dimostrare che l'Italia ottocentesca era identica a quella di oggi, ci si è messo anche Giorgio Dell'Arti, giornalista di spessore e ricercatore indefesso di curiosità culturali. Ha compilato una raccolta di note caustiche del suddetto Dossi (accorcio per semplificare) e le ha pubblicate per Edizioni Clichy in un volume dal titolo esplicito: Corruzioni. Chi comincia a leggerle non cessa più: rimane sbalordito nel verificare che i bei tempi andati sono rimpianti perché esistono solo nella fantasia dei contemporanei. I quali pensano erroneamente di essere peggiori degli antenati mentre, probabilmente, sono addirittura migliori. Non molto, però. L'epoca raccontata a spizzichi e bocconi dallo scapigliato milanese in quaranta anni di attività va dalla fine dell'Ottocento all'inizio del Novecento. È passato un secolo e sostanzialmente nulla è cambiato: gli italiani erano italianucci e tali sono rimasti. Credo che nessuno abbia fotografato i personaggi di quel periodo con la stessa bravura e raffinatezza di Dossi, dotato di un talento sorprendente per chi, come me, lo ha scoperto da poco. La prosa scorre liscia e dilettevole e, talvolta, incanta per la sua modernità. Si ha l'impressione di essere alle prese con cronache della scorsa settimana. Tanto è attuale la materia che le ispira, cioè un Paese la cui prerogativa è la sciatteria più deprimente. Fornisco una prova pescando un brano. «Secondo i bigotti ignoranti la letteratura così detta invereconda od immonda sarebbe un'invenzione dei nostri giorni... Eppure è tutto il contrario. A paragone della letteratura de' tempi passati non ce n'è una più casta, più corretta della presente. Leggete i greci, i latini, i cinquecentisti... quale sconcezza nelle espressioni, che turpiloquio!». È vero. Dossi ha ragione da vendere. È radicata la convinzione che il linguaggio odierno si sia involgarito, zeppo di parolacce ed espressioni da trivio. Sciocchezze. Il lessico semmai si è addolcito, essendo stato tra l'altro introdotto l'obbligo di osservare il «politicamente corretto», che ha reso il nostro frasario abbastanza ridicolo. Alcuni esempi. Lo spazzino siamo costretti, per rispettare la moda, a definirlo operatore ecologico; il sordo, audioleso; l'orbo, ipovedente; il cieco, non vedente. Mi domando come dovremmo chiamare, per coerenza, lo stitico. A parte questa freddura, va da sé che l'umanità non è mai stata elegante. E gli scrittori, anche i più lodati, hanno attinto a piene mani dal vocabolario grassoccio delle bettole. Lo stile triviale ha caratterizzato la storia di alcuni millenni e non è un dato precipuo di quella degli ultimi anni.

Trascurando le questioni estetiche, importanti ma non decisive, affrontiamo un tema che per l'Italia è una costante: il malgoverno e quanto ne consegue. Annota Dossi: «Quando Luigi Luzzatti - altra fama usurpata - è incaricato di missioni dal governo per l'estero, usa farsele pagare da due o tre ministeri. Approfitta della missione per rimontare di vesti e d'oggetti sé e tutta la sua famiglia. Ogni volta, compera nuove sacche e bauli, sempre a conto dello Stato, poi, giunto sul luogo della missione, acquista parapioggia, orologi, abiti ecc. per tutti quelli di casa, sempre a conto, come sopra. Gode di forti diarie e con tutto ciò lascia la nota dell'albergo a carico dello Stato. Il Luzzatti, inoltre, è vanitosissimo. Per un articolo di giornale leccherebbe le scarpe del giornalista laudatore. Ed è per gli articoli di gazzetta, che nonostante la sua avarizia giudaica, cede a ricatti d'ogni genere». Giova rammentare che costui fu ministro di vari esecutivi e perfino presidente del Consiglio. Se ciò che gli è stato attribuito dallo scapigliato risponde a verità, bisogna concludere che la casta imperante nel Terzo Millennio non è figlia di nessuno, ma discende da illustri genitori e anche da nonni che si impegnarono per campare a sbafo. In sintesi, nulla di nuovo sotto il cielo romano nell'anno corrente. Si dice e si ripete che il personale politico precedente a quello in carica fosse culturalmente più provveduto di quello che ci tocca. Ne eravamo persuasi. Ma Dossi ci apre gli occhi. Ecco la sua opinione sul punto: «La Sinistra monarchica al potere (1876-1881) è un partito quasi illetterato. Né Cairoli, né Depretis, né Crispi, né Zanardelli, né Nicotera lasciano alcun libro nel quale il pubblico possa leggere come la pensino. I soli in tutto il partito che sappiano tanto leggere quanto scrivere sono De Sanctis e Marselli... Al contrario, la Destra ha una letteratura, Minghetti, Maiani, Bonghi...». L'accusa di analfabetismo, oggidì è stata rovesciata: i nostri progressisti si autoproclamano intellettualmente più evoluti dell'opposizione. Forse non è così. È un fatto che nella classe dirigente pullulano numerosi cretini dinamici che menano il torrone provocando danni irreparabili. Anche la vituperata burocrazia che ci affligge con la dittatura del timbro ha origini antiche. Un secolo e mezzo fa, sottolinea Dossi, tutti i giovani, «sieno di zappa o di penna, ambiscono un impiego governativo. Basta che un impiegato dello Stato non assassini, non assalti una diligenza... è sicuro di non essere mai licenziato e di arrivare pacificamente alla pensione». Come il decreto di ammissione in carriera viene firmato, il giovine burocrate va sul liscio. E la scena muta. «Cominciano le pretese del nuovo impiegato. Egli ha genitori vecchi, madre inferma, padre imbecille eccetera che vogliono la sua assistenza, quindi chiede un cambiamento di residenza... Lavora meno che può». Più chiaro di così... È una testimonianza profetica, giacché siamo tutti in grado di confermare che, a distanza di tanti decenni, non si è alterata una virgola nel comportamento dei funzionari (di varia levatura) ai quali ci rivolgiamo per il disbrigo di pratiche amministrative. Gli appetiti sessuali dei potenti (e non solo) contemporanei non sono superiori a quelli dei loro avi. Lo garantisce l'autore di cui trattiamo, che ci narra le prodezze sul materasso di Vittorio Emanuele II, «che fu uno dei più instancabili chiavatori. Il suo budget segnava nella rubrica donne circa un milione e mezzo di lire all'anno (una fortuna)» mentre alla voce cibo risultano «non più di 600 lirette al mese». La sproporzione è enorme. Non entro nei dettagli delle regali performance che, comunque, meriterebbero di figurare nel Guinness dei primati. Qualcosa di sconvolgente a confronto del quale il bunga bunga è un esercizio spirituale. Tutto questo, converrà il lettore, è utile per comprendere che gli italiani, a prescindere dalla data in cui sono venuti alla luce, sono ciò che sono sempre stati, gli stessi vizi e le stesse debolezze. Se è consolante apprendere che non siamo caduti più in basso dei nostri padri, non lo è affatto supporre (ragionevolmente) che non guariremo mai. Rassegniamoci a constatare la realtà in cui non ci troviamo poi tanto male, altrimenti l'avremmo modificata.

Indagati, rovinati e assolti. La crociata dei pm contro la politica, scrive Simona Musco il 27 luglio 2016 su "Il Dubbio". L'archivio degli errori giudiziari è in costante aggiornamento. E tra comuni cittadini, abbandonati al proprio destino, ci sono molti politici che devono subire il peso della gogna mediatica. E il caso di Graziano, ex presidente campano del Pd, è solo l'ultimo. Lo diceva perfino la pm di ferro Ilda Boccassini: alcuni magistrati «hanno usato le inchieste per "altro", per scopi diversi dalla giustizia». Una giustizia "politicizzata", che a volte colpisce e annichilisce chi, alla fine, riesce ad uscirne pulito. Ma solo alla fine. Certo, non sempre l'errore è strumentale. Ma a volte, lo ammette tra le righe anche la pm più agguerrita d'Italia, è così. L'archivio degli errori giudiziari è in costante aggiornamento. E tra comuni cittadini, abbandonati al proprio destino, ci sono molti politici. Che, seppure hanno forze diverse, devono subire il peso della gogna mediatica e politica. E Stefano Graziano, ex presidente campano del Pd, è solo l'ultimo della lista. Certo, sulla sua testa rimane ancora un'accusa pesante dalla quale difendersi: voto di scambio. Ma per i pm non c'è più agevolazione della camorra, non c'è, cioè, il patto scellerato con la malavita, accusa che ad aprile lo aveva portato ad autosospendersi dalla carica di presidente, uscendo dal gruppo e mandando in crisi il Pd in Campania, che alle amministrative di Napoli ha fatto cilecca. Ma Graziano è solo l'ultimo caso in ordine di tempo. Il caso Emilia - «C'è da chiedersi: che la golosità della preda abbia alterato le regole della caccia?», diceva al Dubbio, a giugno, Alessandro Gamberini, difensore dell'ex governatore dell'Emilia, Vasco Errani, assolto perché il fatto non sussiste, dopo un calvario lungo 7 anni, dallo scandalo "Terremerse". Uno scandalo che aveva trascinato l'Emilia-Romagna alle elezioni anticipate, con le dimissioni dell'ex governatore dopo la condanna nel primo appello del processo. Subito dopo, nel 2014, alla vigilia delle regionali, un altro scandalo: il deputato Pd Matteo Richetti, accusato di peculato, rinunciò alle primarie, diversamente dal suo sfidante, Stefano Bonaccini, in seguito prosciolto dalle accuse e poi eletto presidente della Regione. Primarie ed elezioni indette a causa di dimissioni evitabili. Così come la gogna, che invece fu implacabile. "Why not" - Dieci anni e tutti assolti per non aver commesso il fatto. Si è concluso così un troncone dell'inchiesta dell'allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris sui politici calabresi imputati in un processo per associazione a delinquere nell'ambito di un'inchiesta sui presunti illeciti nella gestione dei fondi pubblici in Calabria aperta nel 2006. Un'indagine molto più ampia, che coinvolse circa 150 persone e che portò alle dimissioni dell'allora Guardasigilli Clemente Mastella, alla caduta del governo Prodi e allo scontro fra le procure di Salerno e Catanzaro. Significative, però, sono le parole scritte dal gup Abigail Mellace nelle motivazioni della sentenza in abbreviato: quell'indagine, secondo il giudice, era il risultato di «un'operazione dal grande risalto mediatico». Per i politici e i manager coinvolti la condanna fu immediata: gogna mediatica e pubblico ludibrio. L'impresentabile De Luca - Un passo indietro di qualche mese ci porta a Vincenzo De Luca, governatore Pd della Campania. Su di lui si era scatenata la falce della presidente della commissione parlamentare antimafia, Rosy Bindi, che lo aveva inserito nella lista degli "impresentabili" alle scorse regionali per la vicenda "Sea Park", il parco acquatico mai realizzato nell'area industriale di Salerno, dove aveva da poco chiuso l'Ideal Standard, che lasciò a casa 200 lavoratori. De Luca, all'epoca deputato, intervenne per accelerare i tempi per la cassa integrazione di quei lavoratori. L'inchiesta è partita ben 18 anni fa e il pm, dopo otto anni di dibattimento, ha chiesto l'assoluzione dall'accusa di associazione per delinquere, abuso d'ufficio e falso perché «i fatti non sono sussistiti e non sussistono». Per lui, però, ci furono «anni di pesante aggressione politica e mediatica». Il "Sistema Sesto" - Altra vicenda clamorosa è quella che ha visto coinvolto l'ex presidente della provincia di Milano ed ex sindaco di Sesto San Giovanni, Filippo Penati, assolto in primo grado dal tribunale di Monza perché il fatto non sussiste dalle accuse di corruzione sulla gestione dell'ex Area Falck di Sesto San Giovanni e finanziamento illecito dei partiti. Ma quando il suo nome finì su tutti i giornali, riempiendo pagine e pagine con parole altisonanti, rimase solo. «A suo tempo il Pd mi cancellò in fretta e furia - dichiarò dopo l'assoluzione -. Ma è sbagliato cedere alla gogna invocata dalla pubblica piazza. È ora che la politica si riprenda il suo primato, e stabilisca regole certe contro i furori di chi strumentalizza le inchieste». Tre anni di processi che hanno portato alla fine della sua carriera politica, terminati con un'assoluzione. Che non gli ha ridato ciò che gli è stato tolto. I grillini contro Venafro - Nell'inchiesta "Mafia Capitale" era comparso anche il suo nome. Maurizio Venafro, capo di gabinetto di Nicola Zingaretti, governatore del Lazio, era stato accusato di turbativa d'asta e rivelazione di segreto d'ufficio per aver favorito un imprenditore per la gara Recup (centralino unico prenotazioni). Lui si era subito dimesso dall'incarico, dichiarando la sua totale estraneità ai fatti. Ma il M5S ne aveva approfittato subito per lanciare la propria invettiva, ipotizzando un coinvolgimento della Regione Lazio nell'inchiesta. Qualche giorno fa, però, il tribunale penale di Roma ha assolto Venafro con formula piena. Il Pm aveva chiesto 2 anni e 6 mesi di carcere. «Ha combattuto nel processo, non ha mai concesso nulla alla polemica. Abbiamo avuto fiducia nella magistratura, meno nel mix tra una certa cattiva stampa e molta cattiva politica», ha commentato Zingaretti. Che per circa un anno si è sentito chiedere le dimissioni da tutti, dal M5S alla destra di Storace, passando per il Fatto Quotidiano. Oggi, però, quel castello di insinuazioni sulla corruzione all'interno del palazzo crolla. E anche le ricostruzioni fantasiose. Ma la gogna, nel frattempo, ha fatto il suo corso. Lo sceriffo Cioni - Hanno provato a chiedergli scusa. Ma non basta. Graziano Cioni, ex assessore Pd al Comune di Firenze, è stato assolto definitivamente dall'accusa di corruzione sulla trasformazione urbanistica dell'area di Castello. Il suo nome era stato inserito nel grafico della "piovra" che campeggia sul blog di Beppe Grillo. Un grafico preventivo, per il quale non vale il principio del "fino a prova contraria". Che ora c'è. Cioni «esce a testa alta da questi processi dopo otto anni di sofferenza», ha commentato l'avvocato Pasquale De Luca. Ma tre giorni dopo la sentenza del 6 maggio scorso, quel nome era ancora lì, alle spalle del deputato Alessandro Di Battista, intervenuto nel corso di una trasmissione su La7. Da qui la denuncia per diffamazione e la richiesta di un risarcimento di un milione. E le scuse. Tardive.

Mafia Capitale, l'arma persa per sempre dai grillini, scrive Errico Novi il 9 ago 2016 su "Il Dubbio". Il caso Muraro cambia lo schema del malaffare tutto in capo ai dem. Il direttorio M5S resta a difesa dell'assessora finita nella bufera, ma il maxiprocesso non potrà più essere bandito come una clava. Non sarà mai più la stessa Mafia Capitale. Non per i cinquestelle, che non solo governano Roma e sono dunque destinati a "sporcarsi le mani" per destino istituzionale, ma hanno anche un'assessora, Paola Muraro, in odore di rapporti con Salvatore Buzzi. La donna scelta da Virginia Raggi per occuparsi di Ambiente e per farsi carico, nell'amministrazione a cinque stelle, della grana rifiuti, è nel mirino dei media e soprattutto dei pm. In uno dei quattro filone d'indagine aperti da sostituto della Procura di Roma Alberto Galanti, Muraro rischia di entrare con tutti e due i piedi come figura coinvolta nelle commesse fuorilegge assegnate da Ama, la municipalizzata al centro del maxi processo a Buzzi e compagni. Al momento Muraro non rischia l'avviso di garanzia solo perché siamo nel pieno della sospensione dei termini feriali. Il dottor Galanti non si muoverebbe in ogni caso sotto Ferragosto, né il procuratore aggiunto Paolo Ieolo e il capo dell'ufficio Giuseppe Pignatone lo solleciteranno ad accelerare i tempi. Eppure l'iscrizione della Muraro al registro degli indagati pare inevitabile. Intanto perché l'ex amministratore delegato dell'Ama Daniele Forini ha presentato a piazzale Clodio una vera e propria collezione di esposti sull'epopea della gestione dei rifiuti a Roma, e nei dossier Muraro è chiamata più o meno direttamente in causa. Inoltre le carte sulla presunta cupola romana relative all'ex ad di Ama Franco Panzironi riferiscono del ruolo di Muraro in una commessa su un impianto di rifiuti a Trento. Nell'ordinanza ripresa ieri da Repubblica si profila addirittura un impegno preso da Panzironi con Muraro per assumerla come «tecnico» nella società che avrebbe dovuto gestire lo stabilimento. Panzironi è un imputato "top" del maxiprocesso: nelle carte, certo, non emerge alcunché di penalmente rilevante a carico della Muraro, ma basta la parola stessa, "Mafia Capitale", per determinare il contagio. Contagio mediatico, ovvio: fatto sta che d'ora in poi i cinquestelle faranno grande fatica a scaraventare la maxi inchiesta contro chi li ha preceduti in Campidiglio, ovvero il Pd. La situazione è di vera emergenza per il Movimento di Beppe Grillo. Ieri Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e altri esponenti di primo piano hanno riferito a Casaleggio junior sullo stato dei fatti. Ferma la linea di fare quadrato contro gli attacchi all'assessora. Ma c'è anche consapevolezza che il caso cambia per sempre il valore simbolico del processo su Mafia Capitale: non avrà mai più lo stesso significato proprio perché "una di loro", un'assessora di Virginia Raggi, è lambita da quelle vicende. E anzi, la materia sarà suscettibilissima di manipolazioni a danno dei grillini. Che la vedranno usata per dimostrare la loro "omogeneità" al resto della politica. Una macchia forse indelebile. Lo sanno bene gli altri assessori della giunta Raggi, che domani probabilmente neppure si presenteranno al Consiglio comunale. La seduta è convocata in via straordinaria per consentire a sindaca e assessora di rispondere a una raffica di interrogazioni su rifiuti e consulenze pagate più o meno a peso d'oro. Di sostanza, almeno in termini penali, praticamente non ce n'è. Ma del bommerang mediatico si vedono tutti i segni.

«Scusi lei è garantista?» «Oggi no: forse domani sera...», scrive Piero Sansonetti il 5 ago 2016 su "Il Dubbio".  Scusi, ma le oggi è garantista? «No, mi spiace, oggi son forcaiolo, ripassi domani, per favore». E’ esattamente così, nella politica italiana. Se escludiamo un minuscolo drappello di garantisti veri (in Parlamento saranno quattro o cinque tra destra e sinistra...) tutti gli altri vanno “a ore”. Garantisti granitici a favore dei propri amici, distributori di manette e gogne per gli avversari. Il cambio di casacca può avvenire anche nel giro di 24 ore e in casi eccezionali persino nella stessa giornata. Non solo l’aula del parlamento pullula di parlamentari pronti a votare a favore dell’arresto di qualunque collega dello schieramento opposto - senza neppure un briciolo di senso dell’umanità, né, naturalmente, della legalità - non solo trovi centinaia di esponenti politici che tuonano contro la giustizia spettacolo e poi chiedono abbondanti retate di piccoli spacciatori o immigrati illegali, o ladruncoli; ma ormai succede anche il contrario: forcaioli d’acciaio scattano come un sol uomo a difesa dei politici forcaioli, e gridano al complotto. L’altro ieri persino l’integerrimo Marco Travaglio ha speso un intero, lungo editoriale, furioso col “Corriere della Sera”, il quale aveva osato parlare di conflitto di interessi per l’assessora romana a 5 Stelle (la Muraro) che ha un contenzioso di svariate decine di miglia di euro (che lei vorrebbe riscuotere) con l’Ama, e cioè con l’azienda che ora entra sotto il suo controllo politico. Travaglio ha abbandonato anche lui la tradizionale intransigenza, e ha iniziato a chiedere “prove”. Un colpo di fulmine: la odiata e vituperata presunzione di innocenza - negata a tutti, specialmente a quelli del Pd - è tornata con baldanza alla ribalta a difesa della Muraro, oggetto del complotto della sinistra. Qualche settimana fa il dottor Graziano, segretario del Pd campano, per “il Fatto” era un camorrista (è stato prosciolto recentemente, con tante scuse: giusto il tempo di far tenere le elezioni regionali e mettere il Pd fuorigioco). Oggi invece il conflitto della Muraro non esiste e chi dice il contrario è un farabutto. Un tempo Travaglio scriveva che un politico deve dimettersi dinnanzi anche al più esile sospetto; oggi - intendiamoci: giustamente - chiede rispetto dell’innocenza presunta dell’assessora Muraro, anche in presenza delle registrazioni delle sue telefonate con Salvatore Buzzi, che fin qui i giornali hanno descritto come il capo della mafia romana. Bene: Travaglio ha ragione. E’ chiaro che ha ragione: la Muraro, a quanto ne sappiamo, è chiaramente in conflitto di interessi (ma questo si sapeva prima che fosse nominata) ma non ha commesso nessun reato, o almeno non risulta, e non è un reato aver parlato al telefono con Buzzi, che era semplicemente il capo di una cooperativa, e non risultava imputato di niente, tantomeno di associazione mafiosa (peraltro va detto che questa accusa è chiaramente assurda, anche se non bisogna dirlo). Travaglio ha ragione, e hanno ragione i grillini a difendere il diritto della Muraro a non dimettersi. Hanno torto quelli del Pd a chiederne le dimissioni. Così come ebbero torto i giornali romani, il “Corriere”, i grillini, Travaglio e tutta la santa alleanza che cacciò Marino dal Campidoglio per ragioni che non avevano nulla a che fare né con l’etica, né col diritto. Però questa splendida alternanza tra garantismo e forche - che dimostra la fragilità, o forse l’inesistenza dei principi, e la strumentalità di tutte le battaglie - mette una grande tristezza. La stessa tristezza che ci ha colto l’altra sera, quando abbiamo visto e sentito manipoli di mazzieri accanirsi contro Antonio Caridi in lacrime.

Giustizialisti, curatevi col cinema! Scrive Andrea Camaiora il 09/08/2016 su "Il Giornale". Moderati alla ricerca dell’unità. Si tormentano da mesi alla ricerca di una ricetta in grado di rimettere un’area politica in competizione con una sinistra resa forte dall’effetto Renzi. Ebbene, l’unità dei moderati passa attraverso la riscoperta del proprio dna. Prendete il garantismo, bandiera storica di Forza Italia e del centro destra in generale, finito prima col perdere smalto ed essere addirittura da qualcuno rinnegato, emulando una certa  sinistra a cinque stelle. Alla classe politica italiana servirebbe insomma un corso di cineforum di quelli che fino a qualche tempo fa organizzavano con successo le parrocchie.  Primo suggerimento: il film “Le vite degli altri” (2006), scritto e diretto da Florian Henckel von Donnersmarck, vincitore del Premio Oscar per il miglior film straniero. Il grande attore tedesco oggi scomparso¸ Ulrich Mühe, interpreta il capitano della Stasi Gerd Wiesler che viene incaricato di spiare Georg Dreyman, famoso scrittore teatrale ed intellettuale della Germania orientale. Una grande lezione: attraverso un sistema di intercettazioni si poteva (e si può) giungere a devastare la vita anche di cittadini comuni.  Il secondo consiglio è “Tutti dentro”, dimenticato film del 1984 con Alberto Sordi, Joe Pesci e Dalila Di Lazzaro. Il nostro amato Albertone è Annibale Salvemini, magistrato noto per il proprio carattere “zelante”. All’inizio del film Salvemini è vice di un collega anziano che sta indagando su fatti di corruzione relativi a personaggi dello spettacolo, della finanza e della politica. Il consigliere Vanzetti, collega ormai prossimo alla pensione, non è certo della piena fondatezza delle proprie indagini, dell’effettivo coinvolgimento di molti indagati e dunque della responsabilità di tutte le persone coinvolte nell’inchiesta e pertanto non se la sente di spiccare un considerevole numero di mandati di cattura e decide così di affidare il fascicolo a Salvemini, raccomandandogli di esaminare tutta la documentazione e le varie informative con la massima cura e attenzione e di non agire avventatamente. Salvemini agirà con assai poca attenzione e firmerà centinaia di ordini di cattura, tra gli altri ai danni di un apprezzato (e poi innocente) conduttore del Tg2, Enrico Patellaro, nella cui storia e nelle cui sembianze non è difficile rinvenire la volontà di Sordi di spezzare una lancia in favore di Enzo Tortora (il cui caso risale al 1983). Terza pellicola, emblematica, è “In nome del popolo italiano” (1971), diretta da Dino Risi, nella quale il giudice istruttore Mariano Bonifazi (Ugo Tognazzi), indagando sulla morte di una giovane prostituta, prende di mira l’imprenditore Renzo Santenocito (Vittorio Gassmann), imprenditore spregiudicato, che gode di influenti amicizie e che fa soldi corrompendo funzionari pubblici, inquinando e deturpando il paesaggio con veri e propri scempi edilizi. Il film di Risi – pietra miliare della cinematografia italiana – con disarmante lungimiranza, vede Santenocito che viene prelevato dalla polizia giudiziaria mentre partecipa a una festa vestito da antico romano. Immagini che riportano alla festa in maschera “Olympus”, organizzata da esponenti del Pdl di Roma nel 2010. In un crescendo drammatico, Bonifazi, quando pensa ormai di dover incriminare per omicidio Santenocito, entra in possesso del diario della giovane morta che annuncia il suicidio. Caso risolto? Non proprio. Bonifazi si trova a leggere il diario per strada proprio nel momento in cui l’Italia vince ai mondiali contro il Regno Unito. Tra le urla e gli atti di teppismo dei tifosi festanti, Bonifazi intravede i peggiori vizi comportamentali dell’italiano cialtrone e poco di buono da lui identificato in Santenocito. Disgustato proprio da quel «popolo italiano», il magistrato getta tra le fiamme di un’automobile inglese incendiatasi dopo essere stata ribaltata dai tifosi italiani la prova dell’innocenza dell’avversario. Quarto, indimenticabile prodotto del cinema italiano sulla malagiustizia, sugli effetti della carcerazione preventiva e le lentezze del nostro sistema giudiziario, infine, un capolavoro di Nanni Loy, “Detenuto in attesa di giudizio” (1971), che ha ancora una volta per protagonista il nostro amato Sordi. Il povero geometra romano Giuseppe Di Noi, accusato della mirabolante (e infondata) accusa di «omicidio colposo preterintenzionale», verrà arrestato non appena giunto alla frontiera italiana. Il lungo periodo in carcere, appunto “in attesa di giudizio”, lo vedrà vittima di umiliazioni e brutalità che lo segneranno irrimediabilmente sul piano fisico e psicologico. La “Cinecittà moderata” che ha reso grande il nostro cinema aveva le idee più chiare di giornalisti, politici e registi del giorno d’oggi. Garantismo, giustizia giusta e tempestiva, condizioni carcerarie umane, certezza della pena, indipendenza della magistratura e terzietà del giudice devono ancora passare dal grande schermo alla vita reale. * autore de “Il brutto anatroccolo. Moderati: senza identità non c’è futuro” (ed. Lindau).

Quelle vite spezzate dagli errori giudiziari, scrive Agostina Di Mare il 09/08/2016 su "Il Giornale". Avete mai pensato che una notte potrebbe suonare il campanello e che la vostra vita possa essere segnata per sempre? Detta così risulterebbe surreale; assistendo alla visione di “Non voltarti indietro” di Francesco Del Grosso, invece, quest’ipotesi diventa concreta e palpabile. Si avverte sulla propria pelle quella sensazione di comunanza con i cinque casi scelti e l’angoscia che lo spettatore prova sta proprio nella percezione tangibile che possa capitare a chiunque e in qualsiasi momento. La macchina da presa del documentarista cattura i volti e le parole di tre uomini e due donne: una commercialista, un impiegato delle Poste, un designer di moda, un assessore comunale e una dipendente pubblica. Persone accusate ingiustamente di reati ma i commessi. «Il docu-film si articola in tre macro blocchi, ciascuno chiamato a rappresentare i punti cardine tipici dell’architettura narrativa della tragedia classica. Passaggi che segnano e simboleggiano a loro volta le tappe fondamentali nel destino del personaggio che solitamente la anima: ascesa, caduta e rinascita. […] Questa esperienza che li ha segnati nel profondo passa proprio attraverso le tre fasi: arresto, detenzione, riconoscimento dell’innocenza» (dalle note di regia). Man mano che l’opera si dipana, si entra con loro al di là di quelle sbarre che di lì a poco si chiuderanno senza comprendere il motivo di quella reclusione. Del Grosso non cerca la lacrima facile, anzi la rifugge, ma siamo sicuri che, in modo particolare le spettatrici, saranno toccate dalla rievocazione delle fasi che precedono l’ingresso in cella (ci si deve denudare e viene chiesto di fare delle flessioni per i controlli anali). Si prova, con loro, la claustrofobia di essere in una gabbia 2×3, dormendo con estranei. Innegabilmente, per chi non l’ha provato direttamente, non è semplice immedesimarsi, eppure “Non voltarti indietro” riesce a traghettare la platea in un vortice di emozioni che va dallo spaesamento alla rabbia, dall’aggrapparsi al barlume di speranza alla paura di non vedere più la luce. Il merito va non solo alla sincerità e al trasporto dei racconti, ma anche all’intuizione registica di avvalersi dei disegni, foto realistici e in bianco e nero (realizzati a mano, a matita, dal giovane Luca Esposito), che aiutano a visualizzare ciò che i protagonisti narrano. A corollario, nota di merito va alle musiche di Emanuele Arnone e al montaggio del suono curato da Daniele Guarnera. Durante tutti i 75′ del docu-film si coglie costantemente il lavoro certosino fatto sul sonoro e non ci riferiamo soltanto alle chiavi del carcere, ma è un mix che avvolge lo spettatore continuando a farsi sentire anche a visione conclusa. Risuonano le gocce delle docce così come un eco (per fortuna lontano) delle voci nell’ora d’aria. Del Grosso, dopo diversi documentari tra cui “Negli occhi” dedicato a Vittorio Mezzogiorno, “11 metri” su Agostino Di Bartolomei e “Fuoco amico – La storia di Davide Cervia”, decide con quest’ultimo di puntare l’obiettivo su vite ferite per errori giudiziari. L’intento è quello di dar loro spazio, parola e dignità in un percorso di cicatrizzazione del dolore provocato dall’ingiusta detenzione. Si entra in empatia con i calvari di questi uomini e donne, restando attoniti di fronte all’idea che la realtà possa superare la fantasia. A partire dal 1992 ci sono stati 1000 casi di errori giudiziari e quindi 24.000 casi in 24 anni, per una spesa complessiva di 630 milioni di euro. Ovviamente vale il detto “errare humanum est” e, come in altre storie, sarebbe scorretto prendersela con il singolo giudice. Se i numeri sono così elevati c’è qualcosa che non va e questa considerazione non può che sorgere spontanea. Per fortuna il cinema, in questo caso reale, sceglie di non chiudere gli occhi. Non voltarti indietro nasce da un’idea, sposata dal regista, di due giornalisti, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone (i quali hanno dato vita a “Errorigiudiziari.com”, il primo archivio italiano sugli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni), e un avvocato, Stefano Oliva. I tre hanno voluto produrre con le proprie risorse, con il supporto della produzione esecutiva di Own Air, il documentario pensando anche che la Settima Arte possa arrivare in meandri impensabili. Il regista ha già ricevuto dei riconoscimenti importanti per questo lavoro: il Premio Speciale “Gold Elephant World Festival” e il Premio SAFITER alla 14esima edizione del Salento Finibus Terrae. Recentemente, all’“Ariano International Film Festival”, “Non voltarti indietro” è stato decretato il vincitore della sezione Documentari. Post visione e prendendo atto dell’impegno civile e artistico di regista, produttori e troupe, non possiamo che dirci: non voltiamoci dall’altra parte.

Enzo Tortora, una ferita italiana, scrive Edoardo Sylos Labini il 09/08/2016 su "Il Giornale". A 30 anni dall’arresto di Enzo Tortora e dall’infame passerella mediatica che fu costretto a subire, questo film, come dice il titolo, riapre una ferita su un tema che in Italia non si affronta mai in modo adeguato: la malagiustizia. Con la politica in mezzo sempre pronta a strumentalizzare questa o quella battaglia, sembra non si riesca a fare una riforma che riequilibri quello che è diventato, nel nostro Paese, un problema molto serio. Chi risarcisce la vita e la reputazione di tutti quegli innocenti che ancora prima di subire un processo vengono puniti con feroce cinismo dalla gogna mediatica? Che fine fanno le famiglie di tutti questi presunti colpevoli’, che futuro hanno e come vengono visti in questa sempre più superficiale società dell’apparire? L’arte, il cinema servono anche a questo, a denunciare le ingiustizie, ad essere opere civili, oltre che di intrattenimento. E se il direttore del Festival di Roma ha reputato questo prodotto non interessante per il programma di una kermesse così prestigiosa, al contrario ilgiornaleoff.it – che nasce con l’intento di dare visibilità a chi viene oscurato o escluso dai grandi circuiti – vi offre in anteprima, grazie al regista Ambrogio Crespi, le prime immagini del film. Enzo Tortora, una ferita italiana andrebbe proiettato non solo nei Festival, ma in tutte le sale d’Italia, affinché insegni a ognuno di noi dove può arrivare l’ingiustizia italiana. Dunque, dove eravamo rimasti? Buona visione.

Ballata della giustizia ingiusta, scrive Andrea Piersanti il 09/08/2016 su "Il Giornale". “Prigioniero della mia libertà”, un film racconta gli innocenti vittime di errori giudiziari. “Ogni tanto me lo domando ancora: ma non poteva uccidermi e basta”. Si conclude così una dellesette testimonianze delle vittime degli errori giudiziari che sono raccolte nel libro “Prigioniero della mia libertà” di Rosario Errico, Stefano Pomilia e Michela Turchetta. Il volume è curato da Gabriele Magno (avvocato, fondatore e presidente dell’Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari) e da Luisa Badolato. Nella prima parte è stata pubblicata la sceneggiatura integrale del film omonimo diretto da Errico e interpretato, fra gli altri, anche da Giancarlo Giannini. La storia di fantasia raccontata nel film (la cui uscita è prevista per il prossimo autunno) prende spunto dalla realtà. Sono infatti quasi cinquantamila gli italiani innocenti che, dal 1989 ad oggi, sono finiti in carcere per errori giudiziari. Il caso di Enzo Tortora è solo la punta di un iceberg immenso. “Ogni anno vengono riconosciute dai tribunali, con l’assoluzione, circa 2.500 ingiuste detenzioni frutto in parte di errori giudiziari – ha spiegato l’avvocato Magno -. Ma solo un terzo, circa 800 vengono risarcite. Spesso, infatti, anche se riconosciuto innocente, l’ex detenuto viene considerato responsabile, per colpa grave o dolo, di aver indotto la pubblica accusa a ritenerlo colpevole. Un’altra causa delle celle strapiene è la lentezza dei processi, poiché molti detenuti sono in attesa di giudizio. Qualche mese fa il 40 per cento aspettava il primo grado”. Un fenomeno impressionante che ha spinto il regista (e attore) Rosario Errico ad impegnarsi in prima persona nella realizzazione del film. “Comincio dalla fine di “Detenuto in attesa di giudizio”, ha detto Errico. Il protagonista del film è un architetto che cade nella trappola di un sedicente amico. E’ la vittima di una truffa ma si ritrova ad essere accusato di estorsione. Un apologo dell’orrore che stravolge completamente la serenità personale e familiare del protagonista.

Quando Garibaldi rubò i soldi al Banco di Sicilia e al Banco di Napoli, scrive su "Time Sicilia" Ignazio Coppola. Sulla gloriosa spedizione dei Mille in Sicilia ci hanno raccontato un sacco di menzogne. Non solo non ci fu nulla di eroico, ma Garibaldi svuotò le casse del Banco di Sicilia (depredando 5 milioni di ducati corrispondente a 82 milioni di Euro dei nostri giorni) e poi le casse del Banco di Napoli (depredando 6 milioni di ducati equivalenti a 90 milioni degli attuali Euro). Tutti soldi portati ai Savoia. E noi ancora oggi ricordiamo questo bandito di passo! 11 Maggio 1860, esattamente 156 anni fa, con lo sbarco di Garibaldi a Marsala inizia la invasione del Sud e la sistematica colonizzazione della Sicilia. Uno sbarco che come tutto il resto della spedizione dei Mille, da Calatafimi alla presa di Palermo, sarà un’indegna sceneggiata caratterizzata da squallidi episodi che in termini militari si usano definire di “intelligenza con il nemico”. E di intelligenza con il nemico, a differenza di quanto da sempre ci è stato propinato dalla storiografia ufficiale, è macchiato ed inficiato lo sbarco dei garibaldini a Marsala. Basta rivisitare obbiettivamente le cronache dello sbarco indisturbato della camice rosse di quel lontano giorno alle ore 13,00 del 11 maggio 1861 per rendersi conto dell’accordo sottobanco tra Garibaldini e gli ufficiali della marina borbonica che avrebbero dovuto ostacolare e non lo fecero, se non in ritardo ed a sbarco avvenuto, e tutto questo con la complicità degli inglesi che avevano un forte radicamento economico a Marsala con una notevole presenza di loro bastimenti ancorati in quel porto. Non a caso, da parte di Garibaldi, essendo tutto, con chiare complicità, preparato a dovere, si scelse di sbarcare a Marsala. Le due navi il Piemonte ed il Lombardo – precedentemente prese a Genova non requisendole manu militari (come falsamente viene raccontato dalla storiografia ufficiale), ma pagate attraverso una fidejussione di 500 mila lire (una somma enorme per quei tempi) dagli industriali fratelli Antongini alla società Rubattino – entrano senza colpo ferire nel porto di Marsala, come anzidetto, alle ore 13,00 iniziando, indisturbate, a sbarcare il loro contingentamento mentre le navi della marina borbonica, la corvetta a vapore Stromboli e la fregata a vela Partenope, al comando del capitano Guglielmo Acton che si erano lanciate, con colpevole e sospetto ritardo, all’inseguimento del Piemonte e del Lombardo giungendo in vista del porto di Marsala alle ore 14 pomeridiane rimanevano, restando a guardare, inattive ed assistendo allo sbarco. Restare a guardare Un bel modo davvero per impedire un ‘aggressione armata al territorio sovrano delle Due Sicilie Tutto andava svolgendosi secondo il programma da parte del comandante Acton ossia di dichiarata e manifesta complicità ed “intelligenza con il nemico”. Guglielmo Acton, successivamente ricompensato da tale vergognoso comportamento e tradimento, diverrà ufficiale di grado superiore della marina-italo piemontese. Il tradimento alla fine paga. Ecco quanto scrive al proposito il capitano Marryat, ufficiale della marina inglese, presente e testimone degli avvenimenti di quel giorno, in un suo rapporto che lo si può considerare un vero e proprio atto di accusa nei confronti dell’incomprensibile atteggiamento di Acton: “L’altro vapore era però arenato (si tratta del Lombardo che Bixio aveva mandato a schiantarsi contro il molo) quando i legni napoletani furono a portata con i loro cannoni. I parapetti erano già calati ed i legni a posto. Noi aspettavamo e seguivamo – prosegue Marryat nel suo rapporto – con ansietà per vedere il risultato della prima scarica (che ovviamente non ci fu). Invece di cominciare il fuoco, abbassarono un battello e lo mandarono verso i vapori sardi, ma – a nostra sorpresa – ecco che il vapore napoletano spinge la sua macchina verso l’Intrepido (una nave inglese), anziché impedire più oltre lo sbarco della spedizione”. Di una chiarezza disarmante il rapporto di Murryat sulla espressa volontà di Acton – che ritardò il suo intervento – di non volere ostacolare lo sbarco dei garibaldini giunti sani e salvi a terra e senza un graffio. Solo alcune ore dopo, a sbarco avvenuto e dopo che l’ultimo garibaldino avrà messo piede sul molo di Marsala ed assicuratosi che non vi fossero più ostacoli di sorta allo sbarco degli invasori, Guglielmo Acton si deciderà – troppo tardi, bontà sua – a fare fuoco. Risultato, molti dei colpi finirono in mare, uno uccise un cane che fu l’unica e sola povera vittima di quella giornata e altri ferirono di striscio due garibaldini. A dimostrazione della sua intelligenza e complicità con il nemico dopo il finto cannoneggiamento, il comandante Acton non si preoccupò minimamente di fare sbarcare gli equipaggi delle sue navi per combattere ed inseguire i garibaldini che poterono così entrare a Marsala indisturbati. Con questo atto di ignavia e di tradimento iniziava in Sicilia l’impresa dei Mille. Le battaglie-farsa caratterizzate da tradimenti e corruzioni si ripeteranno poi a Calatafimi e più avanti nella presa di Palermo. Protagonisti, i generali Landi a Calatafimi e Lanza a Palermo. Entrato a Marsala, Garibaldi troverà, tranne il console inglese Collins e qualche rappresentante della stessa colonia inglese presente in quella città, una popolazione ostile ed avversa alla sua venuta. Altro che accoglienze trionfali che falsamente riportano i testi della storiografia ufficiale e scolastica. Ecco quanto scrive Giuseppe Bandi, uno dei maggiori protagonisti dell’impresa garibaldina nel suo libro I Mille a proposito della fredda accoglienza ricevuta dalle camice rosse a Marsala da parte della popolazione locale: “Appena entrato in città, qualche curioso mi si fè incontro, che udendomi gridare: ‘Viva l’Italia e Vittorio Emanuele’, spalancò tanto d’occhi e tanto di bocca e poi tirò di lungo. Le strade erano quasi deserte. Finestre ed usci cominciavano a serrarsi in gran fretta, come suole nei momenti di scompiglio, quando la gente perde la tramontana. Tre o quattro poveracci mi si accostarono stendendo la mano e chiamandomi eccellenza, non altrimenti che io fossi giunto in città, per mio diporto, ed avessi la borsa piena per le opere di misericordia. Si sarebbe detto che quella gente, colta così di sorpresa, non avesse capito un’acca del grande avvenimento che si compiva in quel giorno”. (Purtroppo i siciliani e i meridionali lo capiranno molto bene sulla loro pelle negli anni a venire e sino ai nostri giorni). Questa l’autorevole è testimonianza dello scrittore e ufficiale dell’esercito garibaldino, Giuseppe Bandi, sulle “entusiastiche” accoglienze dei cittadini di Marsala all’ingresso di Garibaldi nella loro città. Garibaldi, nella sua breve sosta a Marsala, incontrandosi poi con il Sindaco ed i decurioni della città non perderà tempo a pretendere che gli consegnassero il denaro contenuto nelle casse comunali. La stessa cosa farà poi depredando ed appropriandosi indebitamente del denaro contenuto nelle casse del Banco di Sicilia a Palermo: 5 milioni di ducati (corrispondente a 82 milioni di Euro dei nostri giorni). Giunto a Napoli fece altrettanto con il Banco di Napoli, impossessandosi di 6 milioni di ducati (equivalenti a 90 milioni degli attuali Euro) depositati nella capitale del Regno delle Due Sicilie. Così, con questi atti di pirateria e con il saccheggio e la spoliazione sistematica del Sud iniziava la predatoria spedizione dei Mille tanta cara e tanto celebrata dalle menzogne dei nostri storiografi e dai nostri risorgimentalisti.

Quando Garibaldi, i garibaldini e l’Unità d’Italia legittimarono mafia e camorra, scrive il 26 agosto 2016 Ignazio Coppola su "Time Sicilia". Ieri, nella quarta puntata della Controstoria dell’impresa dei Mille, abbiamo sottolineato il ruolo di Garibaldi e dei garibaldini in quella che, alla fine, è stata la prima trattativa tra Stato italiano allora nascente e mafia. Oggi approfondiamo l’argomento avvalendoci della testimonianza di storici e valenti magistrati che si sono occupati di mafia e di rapporti tra la stessa mafia e lo Stato. Quando oggi parliamo di trattativa “Stato-mafia”, non possiamo non andare indietro nel tempo e riferire questo vituperato ed aborrito binomio alle origini del nostro Paese inteso nella sua accezione unitaria. In parole povere, questo sodale rapporto tra la mafia e lo Stato nasce con l’Unità d’Italia o, peggio ancora, con la mala unità d’Italia e sin dai tempi dell’invasione garibaldina che si servì per le sue discusse e dubbie vittorie del contributo determinante della mafia in Sicilia e della camorra a Napoli. In Sicilia in quel lontano maggio del 1860 infatti accorsero, con i loro “famosi picciotti” in soccorso di Garibaldi i più autorevoli capi-mafia dell’epoca come Giuseppe Coppola, di Erice; i fratelli Sant’Anna di Alcamo; i Miceli di Monreale; il famigerato Santo Mele così bene descritto da Cesare Abba, Giovanni Corrao, referente delle consorterie mafiose che operavano a Palermo nel quartiere del Borgo vecchio e che poi addirittura diverrà generale garibaldino e che verrà ucciso 3 anni dopo nell’agosto del 1863 nelle campagne di Brancaccio in un misterioso ed enigmatico agguato a fosche tinte mafiose. Un apporto determinante degli “uomini d’onore” di allora che farà dire allo storico Giuseppe Carlo Marino, nel suo libro” Storia della mafia”, che Garibaldi senza l’aiuto determinante dei mafiosi in Sicilia non avrebbe potuto assolutamente fare molta strada. Come, del resto, lo stesso Garibaldi sarebbe incorso in grandi difficoltà logistiche se, quando giunto Napoli, nel settembre del 1860, non avesse avuto l’aiuto determinante dei camorristi in divisa e la coccarda tricolore che, schierandosi apertamente al suo fianco, gli assicurarono il mantenimento dell’ordine pubblico con i loro capi bastone Tore De Crescenzo, Michele “o chiazziere”, Nicola Jossa, Ferdinando Mele, Nicola Capuano e tanti altri. Aiuti determinanti e fondamentali che, a ragion veduta, piaccia o no, a Giorgio Napolitano in testa e ai risorgimentalisti di maniera, ci autorizzerebbero a dire che la mafia e la camorra diedero, per loro convenienze, il proprio peculiare e determinante contributo all’Unità d’Italia. Un vergognoso e riprovevole contributo puntualmente e volutamente ignorato, per amor di patria, dai libri di scuola e dalla storiografia ufficiale. Che la mafia ebbe convenienza a schierarsi con Garibaldi ce ne dà significativa ed ampia testimonianza il mafioso italo-americano originario di Castellammare del Golfo,  Giuseppe Bonanno, meglio conosciuto in gergo come Joeph Banana, che nel suo libro autobiografico Uomo d’onore, a cura di Sergio Lalli a proposito della storia della sua famiglia, a pagina 35 del libro in questione, così testualmente descrive l’apporto dato dalla mafia all’impresa garibaldina: “Mi raccontava mio nonno che quando Garibaldi venne in Sicilia gli uomini della nostra “tradizione” (= mafia) si schierarono con  le camicie rosse perché erano funzionali ai nostri obbiettivi e ai nostri interessi”. Più esplicito di così, a proposito dell’aiuto determinante dato dalla mafia a Garibaldi, il vecchio boss non poteva essere. Con l’Unità d’Italia e con il determinante contributo dato all’impresa dei Mille la mafia esce dall’anonimato e dallo stato embrionale cui era stata relegata nella Sicilia dell’Italia pre-unitaria e si legittima a tutti gli effetti, effettuando un notevole salto di qualità. Da quel momento diverrà, di fatto, una macchia nera indelebile e un cancro inestirpabile nella travagliata storia della Sicilia e del nostro Paese.  E di questa metamorfosi della mafia, dall’Italia pre-unitaria a quella unitaria, ne era profondamente convinto Rocco Chinnici, l’ideatore del pool antimafia dei primi anni ’80 del secolo passato, una delle più alte e prestigiose figure della magistratura siciliana, ucciso il 29 luglio 1983 davanti la sua abitazione in un sanguinoso attentato in via Pipitone Federico a Palermo. Rocco Chinnici, oltre che valente magistrato, in qualità di capo dell’ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo – ed ideatore come anzidetto del pool antimafia di cui allora fecero parte, tra gli altri, gli allora giovani magistrati come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello – fu anche un profondo studioso e conoscitore del fenomeno mafioso e delle sue criminali dinamiche storiche. Da studioso fu relatore e partecipò a numerosi convegni organizzati in materia di mafia. In uno di questi, promosso a Grottaferrata il 3 luglio 1978 dal Consiglio Superiore della Magistratura così, a proposito dell’evolversi della mafia in Sicilia, ebbe testualmente a pronunciarsi: “Riprendendo le fila del nostro discorso prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, non era mai esistita in Sicilia. La mafia nasce e si sviluppa in Sicilia – affermò Chinnici in quell’occasione, a conforto da quanto da noi sostenuto – non prima, ma subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”. Ed ancora, in una successiva intervista rilasciata ad alcuni organi di stampa a proposito della mafia legittimatasi con la venuta e con l’aiuto determinante dato a Garibaldi e, successivamente, con l’Unità d’Italia, Rocco Chinnici ebbe a dire: “La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione di risorse con la sua tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, un’alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere”. Ed è questo “patto scellerato” tra mafia, potere politico e istituzioni, tenuto a battesimo prima dall’impresa garibaldina e poi, come sosteneva Rocco Chinnici, dall’Unità d’Italia che dura, tra trattative, connivenze e papelli di ogni genere, senza soluzione di continuità, sino ai nostri giorni. Una lunga sequela di tragici avvenimenti che, sin dagli albori dell’Unità d’Italia, ha insanguinato la nostra terra per iniziare con  la stessa uccisione del generale Giovanni Corrao a Brancaccio, poi i tragici e misteriosi avvenimenti dei pugnalatori di Palermo, il delitto Notarbartolo e il caso Palazzolo, la sanguinosa repressione dei Fasci Siciliani in cui la mafia recitò il proprio ruolo, la strage di Portella della Ginestra, le stragi di Ciaculli e di Via Lazio, le uccisioni di Carlo Alberto Dalla Chiesa e di tanti servitori dello Stato e di tanti magistrati che della lotta alla mafia ne hanno fatto una ragione di vita e, purtroppo, anche di estremo sacrificio, sino alla morte. Per arrivare alle stragi di Capaci e di Via D’Amelio dove persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli uomini e le donne delle rispettive scorte. Su Paolo Borsellino le nuove risultanze processuali hanno fatto giustizia di ignobili e criminali depistaggi. Così abbiamo appreso che si era opposto con tutte le sue forze ad ogni ipotesi di trattativa tra “Stato e mafia”. Per essersi opposto alle connivenze tra mafia, servizi segreti deviati e omertà di Stato ha pagato con la vita il suo atto di coraggio. Una lunga scia di sangue e di turpitudini che ha visto da sempre protagonisti, in una sconvolgente continuità storica, un mix di soggetti: Stato, mafia, banditismo (nel caso di Salvatore Giuliano), potere politico, servizi segreti, massoneria deviata e quant’altro. Connivenze criminali che hanno ammorbato e continuano ad ammorbare, da 153 anni a questa parte, in un percorso caratterizzato, troppo spesso, da una criminale politica eversiva, la vita dei siciliani onesti. Quando ce ne potremo liberare? Con l’aria che tira sarà difficile.

LA PIU' FORTE DELLE MAFIE. Rapporti tra 'ndrangheta e altre organizzazioni criminali. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «La 'ndrangheta è un'organizzazione che non ha problemi a fare affari con gente di ogni razza e nazione.» (Saverio Morabito, pentito.) La 'ndrangheta rispetto alle altre realtà criminali si è sviluppata più tardi, ma nonostante ciò con le altre mafie si è avuto in generale un rapporto di reciproco rispetto e di parità, anche ora che viene considerata una delle più potenti organizzazioni criminali in Europa e nel mondo e la più potente in Italia. Non si è mai schierata nelle guerre di altre organizzazioni. Vi è stato nel corso della storia invece una forte collaborazione per i traffici di sigarette, droga e tutte le varie attività illecite.

Il rapporto con Cosa Nostra è stato molto stretto tanto che capibastone di spicco come Antonio Macrì, Giuseppe Piromalli, Mico Tripodo (compare d'anello di Totò Riina) si affiliarono a Cosa Nostra e viceversa, capi della mafia siciliana si affiliano alle ndrine. Quindi vi erano persone che possedevano due affiliazioni come per esempio il messinese Rosario Saporito, personaggio di spicco della cosca dei Mazzaferro o Calogero Marcenò, capo locale della cosca calabrese Zagari. La mafia messinese inoltre nacque con l'appoggio della 'ndrangheta, dalla quale apprese i riti e le usanze. Vennero sottomesse tutte le cosche messinesi grazie all'operato di un certo Gaetano Costa. A Messina inoltre la cosca di Mangialupi che opererebbe in città quasi completamente da sola ha strettissimi rapporti con le cosche dell'area jonica, tale da custodire loro arsenali.

La 'ndrangheta e la Camorra. Si è a conoscenza di doppie affiliazioni anche con la Camorra napoletana: per esempio i calabresi De Stefano e Raffaele Cutolo. I Cutolo uccisero addirittura Mico Tripodo per piacere dei De Stefano. Ci sono esempi di camorristi come Antonio Schettini affiliato ai Flachi e viceversa lo 'ndranghetista Trovato Coco affiliato alla famiglia di Carmine Alfieri.

La 'ndrangheta e la mafia lucana. I Basilischi sono una organizzazione criminale nata nel 1994 a Potenza, e poi estesasi nel resto della Basilicata. Questa organizzazione ha assunto un ruolo di controllo delle attività illecite della Regione. I Basilischi nascono come una 'ndrina della 'ndrangheta calabrese e da essa dipendono, sono protetti e aiutati. Per nascere ha ottenuto il nulla osta dalla 'ndrina dei Pesce di Rosarno. La criminalità organizzata delle zone del materano, la Val d'Agri e del Melfese è controllata, dunque dalle cosche che fanno capo alla 'ndrangheta di Rosarno[8]. Sembra abbiano avuto contatti con essa anche con i Morabito.

La 'ndrangheta e la mafia pugliese. La 'ndrangheta con la mafia pugliese e nella fattispecie con la Sacra Corona Unita ha un rapporto ancora più influente e fondamentale che con Cosa Nostra o la Camorra, poiché né è addirittura l'artefice in parte della sua nascita. Dal rapporto del ROS dei carabinieri. Dal 1993 si è a conoscenza che la Sacra Corona Unita fu fondata da Giuseppe Rogoli, per volere di Umberto Bellocco (capobastone dell'omonima 'ndrina di Rosarno), e che inoltre all'interno della SCU vi fossero altri elementi appartenenti alla cosca calabresi come: Giuseppe Iannelli, Giosuè Rizzi, Cosio Cappellari,Antonio e Riccardo Modeo. La 'ndrangheta fu d'aiuto anche alla creazione della Rosa dei Venti, altra organizzazione criminale mafiosa che opera nel territorio pugliese, e precisamente aLecce. Fu fondata da Giovanni De Tomasi e Vincenzo Stranieri col volere e il permesso delle cosche calabresi. Praticamente Bari, Brindisi e Lecce erano sotto il controllo ndranghetista, e Taranto, tramite un accordo, fu lasciata alla Camorra.  Il 18 ottobre 2012 si conclude l'operazione Revolution che porta all'arresto 29 persone affiliate alle cosche di Bovalino, Africo e San Luca accusate di associazione mafiosa e traffico internazionale di cocaina e altri reati tra cui l'introduzione di un titolo di stato statunitense falso del valore di 500.000.000 di dollari. Da questa operazioni, oltre ad essere evidenziati i legami con narcotrafficanti sudamericano si registrano contatti con esponenti della Sacra Corona Unita sin dal 2010. Le basi logistiche europee per il traffico internazionale erano: Anversa in Belgio, Amsterdam nei Paesi Bassi, Duisburg, Oberhausen e Düsseldorf in Germania.

La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali sarde. Dall'indagine Santa Barbara del 2005[11] si è scoperta un'alleanza fra la potente ndrina dei Nirta di San Luca e la criminalità sarda di Cagliari, Nuoro e Oristano per il traffico di cocaina ed eroina. I carabinieri sospettano anche che i proventi della droga potessero servire per investire nel settore immobiliare turistico sardo.

La 'ndrangheta e la Banda della Magliana. Durante l'operatività della Banda della Magliana alcune 'ndrine hanno avuto contatti con essa. In particolare i De Stefano di Reggio Calabria e i Facchineri di Cittanova.

La 'ndrangheta e il clan dei Casamonica. Il 25 marzo 2010 viene scoperto un sodalizio tra Pietro D'Ardes, Rocco Casamonica e affiliati alla 'ndrangheta dei Piromalli-Molè e Alvaro per il riciclaggio dei proventi illeciti e costituzione di società (15 sequestrate) per la partecipazione ad appalti pubblici.

La 'ndrangheta e le organizzazioni criminali internazionali.

'ndrangheta e mafia albanese. La Ndrangheta con le organizzazioni criminali albanesi ha rapporti basati sul traffico di esseri umani, prostituzioni e armi da come si evince dall'ANSA del 13 dicembre del 2005 e dall'operazione Harem. Con il beneplacito della mafia calabrese gli albanesi potevano agire in varie regioni d'Italia portando prostitute albanesi, moldave, ucraine e romene in cambio di droga ed armi. Sono state arrestate nell'operazione 80 persone di cui la metà albanesi le altre italiane legate alle 'ndrine dei paesi di Corigliano Calabro e di Cassano all'Ionio. In Lombardia commerciano anche in droga, durante l'operazione Crimine 3 sono stati scoperti in alleanza con il Locale di Erba, capeggiato da Pasquale Varca, e legato ai Nicoscia-Arena in un traffico di cocaina con i colombiani e dove i Pesce-Oppedisano che dovevano recuperarla al porto di Gioia Tauro se ne impossessarono mettendo nei guai il locale con gli stessi albanesi (i cui capi risiedono in Nord Europa) e i colombiani da cui era stata comprata. Nei Paesi Bassi per il controllo del porto di Rotterdam. Il 9 luglio 2015 si conclude l'operazione Overting, iniziata nel 2005 ha portato all'arresto di 44 persone tra cui persone legate ai Mancuso, in collaborazione con un gruppo criminale albanese di Fiano Romano per traffico internazionale di cocaina. La droga proveniva dal Cile, Venezuela e Colombia e grazie anche al broker ndranghetista Domenico Trimboli pentito dal 19 marzo 2015. L'incontro con i narcos per l'accordo sullo scambio avveniva invece in Spagna. In Calabria, a Spilinga c'era la raffineria per recupera la cocaina liquida impregnata in partite di vestiti o allo stato solido in piastrelle per pavimenti. Gli albanesi almeno una volta hanno tenuto in ostaggio un vibonese come garanzia del traffico.

'ndrangheta narcos colombiani e Autodefensas Unidas de Colombia. La collaborazione con i narcos colombiani nasce dal crescente mercato della cocaina che soprattutto in anni recenti si è sostituita all'eroina proveniente dall'Asia per i continui conflitti presenti nell'area. Portando così questa droga dei "ricchi" a diventare droga comune e diffusa. Uno dei tanti protagonisti di spicco in questi traffici è Roberto Pannunzi, un broker di origine calabrese internazionale che faceva da mediatore fra i cartelli e i gruppi calabresi dei: Morabito, Coluccio-Aquino, Romeo, Bruzzaniti, Sergi, Trimboli e Papalia. Hanno avuto contatti anche col movimento paramilitare Autodefensas Unidas de Colombia tramite uno dei capi Salvatore Mancuso Gómez sempre per motivi legati al traffico di droga. Il 29 aprile 2013 viene arrestato in Colombia dal ROS dei Carabinieri e dalla Policia Nacional Grupo Siu il latitante, dal 2006, Santo Scipione (1933) detto papi accusato di gestire un vasto traffico di cocaina tra la Autodefensas Unidas de Colombia e i Mancuso per cui è stato condannato nel 2012 a 15 anni di carcere. Grazie alla stretta collaborazione con i colombiani la ndrangheta dal 2000 in poi è riuscita a ottenere il monopolio della cocaina in Europa raggiungendo cifre da capogiro. A poco a poco si è sostituita a Cosa Nostra tanto che succede a volte che per i clan siciliani e camorristici faccia da garante in caso di mancati pagamenti e addirittura convenga alle altre mafia italiane comprare la cocaina direttamente in Italia dai calabresi.

'ndrangheta e FARC. Il 17 giugno 2015 si conclude un'operazione della Dda di Reggio Calabria e del Gico di Catanzaro con il contributo della DEA statunitense e della Guardia Civilspagnola che blocca un traffico internazionale di droga tra gli Alvaro, i Pesce e i Coluccio-Aquino insieme ad un comandante delle FARC colombiane. L'organizzazione aveva basi in Brasile, Argentina, Repubblica Dominicana, Colombia, Spagna e Montenegro. Durante l'operazione è stato sequestrato un carico di cocaina presente nell'imbarcazione Pandora Lys a largo di Viana do Castelo tra Spagna e Portogallo.

'ndrangheta e Cartello del Golfo. Il 14 luglio 2011 vengono arrestate oltre 40 persone nell'ambito dell'operazione internazionale dei carabinieri Crimine 3. Le persone sono accusate di traffico di droga internazionale e associazione mafiosa e sono state arrestate per lo più in Italia, alcune in Spagna, Paesi Bassi e negli Stati Uniti. Il traffico veniva gestito insieme al Cartello del Golfo e ai cartelli colombiani, per la 'ndrangheta c'erano presunti affiliati agli Ierinò, Commisso, Coluccio, Aquino e Pesce. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.

'ndrangheta e Los Zetas. Il 17 settembre 2008 in un'operazione dell'FBI e della DEA americana, dell'ICE messicana a cui hanno partecipato anche i carabinieri del ROS sono state arrestate 200 persone appartenenti al cartello messicano dei Los Zetas e ad altre organizzazioni criminali a cui vendevano la droga, tra cui la 'Ndrangheta, nella fattispecie sono stati arrestati Vincenzo e Giulio Schirripa appartenenti all'omonima 'ndrina,la quale faceva parte di un'alleanza con i Coluccio, gli Aquino e i Macrì e con i quali avrebbero importato ogni volta 1000 chili di cocaina. I contatti fra le due organizzazioni venivano prese tramite elementi del cartello messicano a New York. Sono stati arrestati anche 16 esponenti dei Coluccio e degli Aquino tra New York e la Calabria. L'accordo con i Los Zetas è avvenuto dopo l'arresto dell'ecuadoriano Luis Calderon, principale fornitore per queste 'ndrine. Durante l'operazione Crimine 3, si scopre che il trafficante di droga calabrese Vincenzo Roccisano faceva da tramite con i Los Zetas e le 'ndrine calabresi e le cosche siciliane. A ottobre 2013 viene arrestato a Roma il venezuelano Edmundo Josè Salazar Cermeno detto Il chimico, latitante dal 2011 (conclusione dell'operazione Solare 2) e presunto broker tra le cosche Aquino-Coluccio e il cartello del Golfo e i Los Zetas per traffici di cocaina, metanfetamine e cannabis proveniente dall'America del Sud. Era incaricato di gestire tutta la logistica del traffico che coinvolgeva anche criminali dei cartelli presenti a New York, la droga in Europa invece approdava in Spagna che giungeva anche attraverso idrovolanti.

'ndrangheta e Mafia serba e criminalità montenegrina. Secondo Michele Altamura dell'Osservatorio Italiano la mafia serba con l'aiuto della 'ndrangheta la mafia serba è riuscita ad entrare nei traffici internazionali di stupefacenti. Negli anni '90, dai serbi acquistò armi (tra cui bazooka ed esplosivi) costruite in Serbia.

'ndrangheta e mafia russa. Dagli anni '90 la 'ndrangheta è in relazione con la mafia russa per quanto riguarda il traffico di droga e di armi.

'ndrangheta e Big Circle Boys. Sempre negli anni '90 questa organizzazione criminale era alleata anche con i Big Circle Boys per la gestione del traffico di droga in Canada.

'ndrangheta e Cosa Nostra americana. L'11 febbraio 2014 termina un'operazione della Polizia e dell'FBI statunitense contro elementi presunti affiliati agli Ursino e ai Simonetta e ed esponenti vicino ai Gambino di Cosa nostra statunitense, accusati di traffico internazionale di droga. Tra gli arrestati anche Francesco Ursino, presunto attuale capo della cosca e figlio di Antonio (in carcere) e Giovanni Morabito, nipote di Giuseppe Morabito. Il 7 maggio 2015 durante l'operazione Columbus vengono arrestate 16 persone per traffico internazionale di droga proveniente dal Costa Rica. Fu coinvolto anche il titolare della pizzeria "Cucino a modo mio" nel Queens a New York. Il proprietario della pizzera Gregorio Gigliotti, originario di Pianopoli (CZ) ma residente da 30 anni a Whitestone (New York) sarebbe stato in contatto anche con Anthony Federici, vicecapo della famiglia Genovese di cosa nostra statunitense. In Calabria era invece in contatto a Francesco e Carmine Violi vicini agli Alvaro di Sinopoli. Gigliotti avrebbe occupato nel narcotraffico il posto di Giulio Schirripa dopo il suo arresto nel 2008, il quale già doveva dei soldi allo stesso Gigliotti.

'ndrangheta e Primeiro Comando da Capital. Nel 2016 una denuncia del Ministero pubblico federale del Brasile afferma dell'esistenza di relazioni tra il gruppo criminale brasiliano del Primeiro Comando da Capital con l'organizzazione calabrese, e viene citata nel 2014 nell'operazione Oversea, la più grande operazione contro il traffico di droga in Brasile. La droga veniva importata dalla Bolivia, passava per il Brasile per giungere in Italia nel porto di Napoli...

GUERRA DEI BOSS, VINCE LA 'NDRANGHETA. Da New York all'Australia, le inchieste delle polizie di mezzo mondo ci dicono che i clan calabresi hanno sconfitto Cosa Nostra nella lotta per il controllo delle rotte mondiali del narcotraffico. Ecco come i nuovi padroni del crimine hanno messo fuori gioco i vecchi padrini, scrivono Giuliano Foschini, Marco Mensurati e Fabio Tonacci l'8 agosto 2016 su “La Repubblica”. Laval, sobborgo a nord di Montreal, Canada. Primo marzo. Lorenzo Giordano ferma il Suv Kia blu sull’asfalto innevato del parcheggio del Carrefour Multisport, vicino alla highway 440. Spegne il motore, il crocifisso legato allo specchietto retrovisore sta dondolando. Sono le 8.45, la mattinata è gelida. Un killer sbuca a lato della macchina e gli spara alla testa e alla gola, frantumando il vetro del finestrino. Lorenzo “Skunk” Giordano, 52 anni, muore poco dopo, in ospedale. Carlton, quartiere italiano di Melbourne, Australia. 15 marzo. Un signore abbronzato con i capelli ben pettinati esce dal Gelobar, la sua gelateria. Sta camminando, è da poco passata la mezzanotte. È solo, e la strada è buia. Lo freddano alle spalle sparandogli da un’auto in corsa, senza neanche fermarsi. Tre ore dopo un netturbino scende dal camioncino e si avvicina al cassonetto. Accanto c’è il cadavere di Joseph “Pino” Acquaro, 50 anni, famoso avvocato. Ancora Laval, 27 maggio. Alla fermata dell’autobus su boulevard St. Elzéar è seduto un uomo, sui trent’anni, vestito completamente di nero. Scarpe nere, pantaloni neri, giacca nera, occhiali neri. Sono le 8.30. La Bmw bianca di Rocco Sollecito, come previsto, passa sul boulevard. Il semaforo è rosso, si ferma. L’uomo nero si alza, e punta la pistola contro il finestrino della macchina. Rocco “Sauce” Sollecito, 62 anni, scivola sul sedile imbrattato del suo sangue, colpito a morte. Italiani che parlano inglese e sparano. Altri italiani che parlano inglese e muoiono. Canada, Australia, Stati Uniti. Reggio Calabria. Il terremoto di sangue ha un epicentro silente, New York. E nuovi clan emergenti che hanno preso troppo potere, come gli Ursino, ‘ndranghetisti di Gioiosa Ionica. L’onda d’urto si è propagata su tutto il pianeta. Le vite affogate nel piombo di “Skunk”, “Pino” e “Sauce” sono scosse di assestamento. La chiamano la "guerra mondiale della mafia". New York, quindi. Niente è come prima. Le cinque grandi famiglie di Cosa Nostra, Gambino, Bonanno, Lucchese, Genovese e Colombo non sono più quelle che erano. Lo documentano le ultime inchieste del Federal bureau of investigation (Fbi), condotte insieme agli investigatori del Servizio centrale operativo (Sco) della polizia italiana. Giovedì scorso l’Fbi ne ha catturati altri 46, tra la Florida, il Massachusetts, il New Jersey, New York e il Connecticut: capi, mezzi capi e paranza dei Gambino, dei Genovese, dei Bonanno. È finito dentro anche il 23enne John Gotti jr, nipote dell’ultimo grande boss di Cosa Nostra americana. Assediati dalle indagini e indebolite da un ricambio generazionale difficoltoso, i siciliani stanno cedendo spazio, in maniera apparentemente quasi del tutto incruenta, alla mafia calabrese. Nella Grande Mela i clan dei Commisso e degli Aquino-Coluccio si sono insediati da anni, ma chi sta rivendicando per sé il ruolo di “sesta famiglia” sono gli Ursino di Gioiosa Ionica. E questo è un problema, per tutti. Una sesta famiglia, infatti, c’è già. Pur non ammessa nel gotha criminale di New York, i Rizzuto di Montreal, in Canada, hanno storicamente un legame stretto con i Bonanno. Se c’è da mettere in piedi un affare di un certo peso - partite di cocaina, armi clandestine, riciclaggio - i referenti sono loro. Un rapporto che da un po’ di tempo non è più così solido. Tra il 2012 e il 2013 una fonte confidenziale dell’Fbi rivela che Francesco Ursino, il boss della omonima cosca storica alleata dei Cataldo di Locri, ha chiesto ai Gambino di poter lavorare sulla piazza di New York "proprio come una sesta famiglia". Chiesto per modo di dire. A questo giro sono i siciliani di Cosa Nostra a trovarsi di fronte a un’offerta che non si può rifiutare, perché quando ha bussato alla porta dei Gambino, Francesco Ursino in realtà si era già preso tutto: le rotte del narcotraffico, i contatti con i cartelli messicani e colombiani, il controllo dei porti e dei cargo. Il boss parlava a nome non di una famiglia sola, ma di quello che gli investigatori nell’indagine New Bridge (che porterà alla cattura del capoclan) definiscono "un consorzio" di clan della Locride. Rifiutare avrebbe voluto dire per i Gambino ingaggiare una guerra senza senso, e dall’esito incerto. Meglio mettersi d’accordo e accettare il dato di fatto. Sul mercato mondiale della cocaina, ‘ndrangheta rules, comanda. Da anni i calabresi lavorano nell’ombra a New York, negli scantinati delle loro pizzerie e nei retrobottega dei loro “italian restaurant”. Volano a Bogotà e San José nel weekend, fingendosi turisti. "Se volete sapere cosa succede a New York, cercate in Centro America; se volete sapere cosa succede tra i Cartelli del Golfo guardate chi comanda a New York", spiega Anna Sergi, criminologa dell’Università dell’Essex, studiosa delle proiezioni dell’’ndrangheta all’estero. E in Centro-Sud America succede che i calabresi comandano. Marcano il territorio. Agganciano intermediari. Sparano il meno possibile. Più finanza meno casini. La gola profonda che ha spiegato alla Dea e all’Fbi cosa si stava muovendo nel ventre criminale della Grande Mela si chiama Cristopher Castellano. È proprietario di una discoteca nel Queens, il Kristal’s, che usa per nascondere quello che in realtà è: un broker dei Los Zetas, il pericolosissimo cartello messicano paramilitare dei disertori dell’esercito che si avvale di lui per commerciare stupefacenti negli States e in Europa. Con i narcotrafficanti, Cristopher ha fatto una montagna di soldi. La festa dura poco, però. Lo arrestano nel 2008, e lui, pur di uscire dalla galera, canta. Si vende ai poliziotti due calabresi: Giulio Schirripa e tale “Greg”. Racconta di questi due italiani che, usando le pizzerie come copertura e i soldi della ‘ndrangheta come garanzia, stanno muovendo tonnellate di cocaina nascosta nei barattoli di frutta trasportati dalle navi portacontainer. "Hanno una pipeline attraverso gli oceani", sostiene Castellano. Se girano grosse partite di polvere bianca che dal Costarica raggiungono gli Usa, il Canada, il Vecchio Continente e l’Australia, è roba loro. Distribuiscono, smistano, organizzano i viaggi delle navi, aprono società fittizie di import-export, corrompono doganieri. A New York vanno a cena con i Genovese. A San José si incontrano con gli uomini di Arnoldo de Jesus Guzman Rojas, il capo del cartello di Alajuela. A Reggio Calabria riferiscono al clan Alvaro. Sono dei “facilitatori”, insospettabili perché incensurati: creano le condizioni per portare la polvere bianca dai laboratori nella giungla del Costarica al naso dei consumatori. Schirripa, arrestato insieme a Castellano, è l’archetipo dell’emigrato calabrese alla conquista di New York. Gregorio “Greg” Gigliotti, l’epigono. Cristopher Castellano è diventato carne morta nel momento stesso in cui ha aperto bocca con gli agenti federali. Quattro luglio del 2010, negli Stati Uniti si festeggia il giorno dell’Indipendenza. Ad Howard Beach, nel Queens, lo spettacolo di fuochi d’artificio è iniziato poco prima di mezzanotte. Castellano però non ha gli occhi al cielo, sta frugandosi le tasche per cercare le chiavi della macchina. Un colpo solo, alla nuca. Nessuno si accorge di niente. Castellano non soffierà più all’orecchio dell’Fbi. Intanto, però, gli investigatori hanno messo sotto controllo i telefonini e riempito di cimici i ristoranti di Gigliotti nel Queens, tra cui il famoso 'Cucino a modo mio' citato nelle riviste specializzate di tendenza. "Non c’è un grammo di cocaina in Europa che non sia passata tra le mani di Gregorio", ripetono spesso i complici dell’italiano, terrorizzati dalle escandescenze di Gigliotti. Quando si arrabbia, col suo dialetto calabrese impastato di slang americano può dire cose terribili: "Una volta mi sono mangiato un pezzo di rene e un pezzo di cuore", sbraita con la moglie, irritato da un altro calabrese che sta provando a inserirsi nel suo business. Il centro dei suoi affari è il Costa Rica, dove ha contatti diretti con i narcotrafficanti grazie a una fitta rete di broker e fiduciari. "E digli che non facciano troppo i furbi…", ripete loro, quando li spedisce a trattare in Sudamerica. Lui accumula denaro, i poliziotti dello Sco e dell’Fbi ascoltano e anticipano qualcuna delle sue mosse. Porto di Anversa, 16 chili di cocaina sequestrati. Porto di Valencia 40 chili, Wilmington 44 chili. Porto di Rotterdam 3 tonnellate. Poi l’8 maggio scorso lo arrestano. Finisce dentro anche suo figlio, Angelo. Ma poche settimane dopo torna in libertà grazie a una cauzione da cinque milioni di dollari. Pagata in contanti. Fuori gioco i referenti degli Alvaro, New York se la sono presa gli Ursino. Compresi i contatti con i sudamericani. Le scosse del terremoto si riverberano in Canada, dove le gerarchie si sgretolano. E con esse la pax mafiosa. Dagli anni Ottanta i criminali italiani emigrati lì si erano divisi gli affari, tra Toronto e Montreal. Ai siciliani del clan Rizzuto la droga, ai calabresi arrivati da Siderno il gambling, il gioco d’azzardo, e l’usura. La mappa l’hanno disegnata nel 2010 gli investigatori italiani che hanno lavorato alla maxi inchiesta ‘Crimine’ (che per la prima volta individuò i vertici dell’’ndrangheta) ed è ancora valida. Tre anni fa Vito Rizzuto, il capo, muore di tumore. Nei mesi successivi, in coincidenza con l’ascesa degli Ursino nel quadrante nordamericano, quattro dei sei membri del “Consiglio” dei Rizzuto vengono uccisi. Gli altri due si salvano soltanto perché sono in galera. L’ultimo a cadere è stato Rocco “Sauce” Sollecito. Poche settimane fa a Montreal stava per finire in una bara Marco Pizzi, 46 anni, importatore di cocaina per il clan secondo la polizia, sfuggito per un soffio ai suoi sicari che lo avevano tamponato con una macchina rubata. Erano mascherati e armati. "I calabresi hanno attaccato i vecchi poteri", ragiona un investigatore. "È ‘ndrangheta contro mafia". La guerra mondiale, quindi. La scia di sangue si allunga fino all’Australia, dove il golpe calabrese sulle rotte della cocaina ha destabilizzato equilibri che si reggevano dalla fine degli anni Settanta. La famiglia Barbaro sembra aver perso il passo, e i contatti con i nuovi importatori sarebbero passati nelle mani di Tony e Frank Madafferi. A Melbourne i calabresi combattono contro i calabresi. Frank Madafferi e Pasquale “Pat” Barbaro furono indagati nel 2008 nel processo per il più grande carico di metanfetamine mai intercettato nella storia della lotta al narcotraffico: 4,4 tonnellate di ecstasy, per un controvalore di 500 milioni di dollari australiani (340 milioni di euro) in pasticche stivate in una nave che trasportava lattine di pomodori pelati. Ma quel processo non è l’unica cosa che Tony Madafferi e Pat Barbaro, poi condannato all’ergastolo, hanno in comune. A unirli, come spesso accade, anche la scelta dell’avvocato: il professionista italo- americano Joseph Acquaro. L’uomo trovato morto dal netturbino davanti alla gelateria, lo scorso marzo. Le indagini sono ferme al palo anche se un paio di elementi hanno attirato l’attenzione su Madafferi: in particolare alcune intercettazioni in cui si dichiara proprietario di Melbourne ("È mia, non di Pasquale") e si dice pronto ad uccidere il rivale ("gli mangio la gola"). Ma soprattutto il racconto di un pentito che ha spiegato alla polizia come nel sottobosco malavitoso di Melbourne tutti sapessero della taglia che Tony aveva da poco messo sulla testa dell’avvocato, colpevole a quanto pare di aver cominciato a parlare un po’ troppo con giornalisti e investigatori: 200mila dollari australiani. Chi li abbia incassati non si sa. Quello che si sa è che pochi giorni prima di quell’omicidio, all’aeroporto di Fiumicino i carabinieri di Locri avevano arrestato Antonio Vottari, 31 anni, accusato di gestire i traffici di droga tra il Sudamerica e l’Europa per conto delle cosche di San Luca. Rientrava da Melbourne, dove da anni trascorreva la sua latitanza, con un visto da studente. Le sorti della guerra mondiale della mafia le decidono in Calabria. Tutto parte da là. E tutto, prima o poi, là ritorna.

Inchiesta: i boss di Cosa nostra al servizio della ‘ndrangheta, scrive Alberto Di Pisa su “Sicilia Informazioni” il 28 giugno 2016. Intervenendo qualche giorno fa ad un convegno organizzato “In memoria di Cesare Terranova” il Procuratore della Repubblica di Roma, Giuseppe Pignatone ha affermato che la mafia siciliana è in crisi e in difficoltà ed è subalterna alla mafia campana e calabrese. Ed ha aggiunto: “Dal mio osservatorio di Roma, quando sento di tentativi di ricostruzione di mandamenti o della vecchia Cupola, penso subito che, comunque, si tratta di tentativi non riusciti e che la situazione rispetto al passato è molto diversa, rispetto ai tempi degli omicidi eccellenti”. Questa supremazia di altre organizzazione criminali quali la Ndrangheta o la camorra, sulla mafia siciliana, sembra trovare un riscontro in quanto dichiarato dal Procuratore aggiunto di Palermo, Teresa Principato la quale ha detto: “Possiamo affermare dalle nostre indagini che la ‘ndrangheta ha sostenuto la latitanza di Matteo Messina Denaro….Ed ancora: “I rapporti tra malavita organizzata calabrese e Matteo Messina Denaro sono basati su punti incontrovertibili, contatti con la ‘ndrangheta ci sono dai tempi di Riina, non c’è niente di nuovo”. Ed ha spiegato che “la leadership della ‘ndrangheta è dovuta al fatto che non c’è stato obiettivamente lo stesso lavoro se non da cinque sei anni, da quando è arrivato a Reggio Calabria il dottor Pignatone e adesso De Raho. Ma prima c’erano molto pochi risultati”. Lo stesso Nicola Gratteri, ex Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, oggi Procuratore della Repubblica di Catanzaro, aveva già in passato sottolineato come si fossero ormai invertiti i rapporti di forza tra calabresi e siciliani. Aveva infatti detto: “Ora è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti (….) Adesso la mafia americana si affida ai calabresi per spaccio e traffico soprattutto di cocaina”. E’ proprio quindi in virtù della potenza economica e criminale che deriva alla ‘ndrangheta dal traffico di droga a livello mondiale che Matteo Messina Denaro ha deciso di affidarsi, per la propria latitanza, agli esponenti di tale organizzazione criminale. Va poi sottolineato che fin dagli anni settanta la ‘ndrangheta è riuscita a favorire l’ingresso di propri uomini nei partiti di governo, nelle istituzioni in occasione delle competizioni elettorali. Ma a parte questa caratteristica, la ‘ndrangheta ha assunto un vero e proprio ruolo imprenditoriale per ciò che riguarda il traffico di armi e di droga, attività che, come evidenziato da Gratteri, si è estesa al di fuori dell’ambito della propria regione, così soppiantando quelle che era state alcune delle principali attività criminali della mafia siciliana che oggi ha finito con l’assumere un ruolo subalterno rispetto alla ’ndrangheta e alla camorra. Va ricordato, per quanto riguarda l’infiltrazione della ‘ndrangheta nelle istituzioni, come, in conseguenza della elezione di ‘ndranghetisti negli organi rappresentativi comunali si verificò, negli anni 80-90 lo scioglimento di diversi consigli comunali calabresi tra cui quelli di Taurianova e Lamezia Terme. Si legge in proposito nella relazione Cabras: “L’ex sindaco di Reggio Calabria, Agatino Licandro, che ha svolto davanti al Procuratore della Repubblica una dettagliata confessione sulla corruzione politico-amministrativa della città, già nel luglio del 1991 affermava: “(….) a proposito dei consiglieri comunali: ce ne sono almeno 10-15 per cento eletti consapevolmente con voti della mafia” (relazione cit., pag. 34). Per quanto riguarda il narcotraffico, mentre negli anni 60 la ‘ndrangheta era legata da un rapporto organico con la mafia siciliana per cui trafficanti calabresi e siciliani operavano su un piano di parità, oggi, proprio grazie al notevole potere economico e criminale raggiunto dalla ‘ndrangheta insieme alla situazione di difficoltà in cui versa la mafia siciliana, è quest’ultima che è costretta a rivolgersi, per rifornirsi di droga, alla ‘ndrangheta che ormai detiene il monopolio delle sostanze stupefacenti. È appena il caso di ricordare che negli anni 70- 80 il traffico di droga era monopolio della mafia palermitana che aveva realizzato, proprio a Palermo, dei laboratori dove, con l’intervento di esperti chimici francesi, veniva raffinata e trasformata in eroina la morfina base proveniente dal medio oriente, eroina che poi veniva inviata negli USA dove, attraverso le pizzerie facenti capo a mafiosi siciliani, veniva spacciata al minuto. La mafia americana, quale pagamento della droga ricevuta, inviava in Italia valige contenenti migliaia di dollari. Un pagamento di droga fu certamente il rinvenimento, da parte del Dirigente della Squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, all’aeroporto di Punta Raisi, di una valigia proveniente dagli Usa e contenente 500mila dollari. Una dimostrazione del ruolo determinante della ‘ndrangeta nel traffico di stupefacenti è dato dalla maxi operazione che, nel settembre del 2015, portò all’arresto di 48 persone con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico internazionale di stupefacenti. In questa operazione vennero colpite le famiglie potenti della fascia jonica-reggina. In occasione di tale operazione Nicola Gratteri ebbe a dichiarare: “Oggi è Cosa Nostra che chiede alla ‘ndrangheta la droga, si rifornisce dalla criminalità calabrese, che ha preso le redini di questo traffico a tutti gli effetti”. Questa operazione ha inoltre accertato come la ‘ndrangheta abbia estromesso Cosa Nostra dai contatti con la mafia americana nel traffico di droga indebolendo il legame che tradizionalmente esisteva, come si è visto, con quest’ultima. In occasione di altra operazione antidroga relativa ad un traffico internazionale di stupefacenti che ha visto coinvolti esponenti di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta, il comandante dei ROS ha affermato: “Il ruolo centrale ce l’hanno le cosche della ‘ndrangheta che hanno confermato ancora una volta lo straordinario livello raggiunto nel traffico internazionale di cocaina, grazie anche alla solidità di rapporti instaurata nel tempo con i broker sudamericani”. Si trattò di una operazione condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano che nell ‘ottobre del 2012 portò all’arresto di più di 50 persone. L’indagine accertò che gli esponenti delle cosche calabresi avevano creato “un cartello” con la mafia siciliana per il commercio della cocaina che avrebbe dovuto essere smistata tra Italia, Belgio, Germania, Olanda e Austria. La droga arrivava dall’Ecuador e dalla Colombia ed entrava in aereo o nei container della navi commerciali, occultata tra gamberi e banane. Ma la potenza acquisita dalla ‘ndrangheta non deriva soltanto dal traffico di droga ma anche dal fatto che ha raggiunto, in vaste aree, il controllo militare del territorio, eliminando dal mercato numerose imprese, e, come è stato scritto “ha conquistato quasi il monopolio del movimento terra, negli inerti, nell’edilizia e ha costruito un fisco parallelo a quello dello Stato imponendo un pizzo generalizzato”. La ‘ndrangheta dispone poi di killer altamente professionali e temuti che uccidono le persone designate in qualunque luogo esse si trovino anche nelle piazze dei paesi o delle città, sia di giorno che di notte. Basta ricordare l’omicidio di Francesco Fortugno, consigliere comunale e vice presidente della Regione, ucciso a Locri il 16 ottobre 2005 nel giorno delle primarie dell’Unione, all’interno del seggio, da un killer a volto coperto con cinque colpi di pistola. La DIA ha inoltre evidenziato come la ‘ndrangheta abbia parzialmente ma visibilmente, messo da parte i metodi criminali aggressivi per creare “vere e proprie Holding imprenditoriali”. Ciò, sempre secondo la DIA, avrebbe determinato una vera e propria fusione con l’economia regionale grazie alla quale i clan sono “in grado di aggiudicarsi gli appalti ed acquisire le concessioni”. La Dia ha inoltre segnalato come sia stata accertata la presenza di esponenti delle ‘ndrine in Liguria, Piemonte, Veneto, Lombardia, Toscana Lazio, Molise, esponenti attraverso i quali i clan calabresi gestiscono le loro attività illecite. In particolare, per quanto riguarda il Piemonte la DIA ha evidenziato come la ‘ndrangheta “interagisce con gli ambienti imprenditoriali lombardi (…..) e c’è il coinvolgimento di alcuni personaggi rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore (…) che hanno agevolato l’assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative” La stessa DIA aveva chiesto un razionale programma di prevenzione al fine di bloccare le possibili infiltrazioni della ‘ndrangheta in previsione delle opere previste per l’Expo 2015. Dal rapporto della DIA emerge poi come la ‘ndrangheta sia tra le organizzazioni criminali quella “meno visibile sul territorio ma la meglio strutturata e la più diffusa sia a livello nazionale che internazionale”. E si trae sempre dalla relazione della DIA come la “ndrangheta si caratterizzi, più delle altre organizzazioni criminali, per la sua straordinaria rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del cambiamento tanto che le sue ‘ndrine hanno dimostrato una elevata abilità nell’utilizzare gli strumenti delle innovazioni tecnologiche”. Gli investigatori della Direzione Investigativa Antimafia non trascurano poi di evidenziare la crescente pericolosità della ‘ndrangheta “nel panorama criminale nazionale ed internazionale” nonché la sua “grande determinazione nel volere accreditare maggiormente la propria influenza nell’area del grande crimine mafioso”. Le indagini quindi ci presentano una organizzazione criminale particolarmente viva ed attiva nel circuito della finanza internazionale e per questo estremamente pericolosa. La relazione della Commissione parlamentare antimafia parla di rapporti tra la mafia calabrese ed “esponenti del mondo bancario ed istituzionale di Milano” che è risultata essere la città di riferimento più importante per la ‘ndrangheta e la più inquinata. E sempre la suddetta Commissione, parla di “sistematica omissione di controlli da parte degli amministratori pubblici”. Si diceva dell’utilizzo, da parte della ‘ndrangheta degli strumenti delle innovazioni tecnologiche. Ebbene la ‘ndrangheta ha tentato, fortunatamente senza successo, di inserirsi nella posta elettronica della Deutsche Bank di Milano per clonare i titoli al portatore e rinegoziarli presso altre banche, tentando quindi di attuare un sofisticato sistema di riciclaggio. Per dare un idea del salto di qualità compiuto dalla ‘ndrangheta e di come la stessa si sia, a differenza di Cosa nostra, adeguata ai tempi, basta leggere quanto dichiarato da un ufficiale della Guardia di finanza il quale ha detto di avere accertato l’esistenza di 120 tonnellate metriche di oro o diamanti, o valuta libica, oppure dollari kuwaitiani scambiati contro dollari e tutto con procedure bancarie telematiche che consentono di spostare milioni di dollari senza che materialmente un euro esca dalle tasche. La Guardia di Finanza ha anche individuato conti correnti all’estero, nella Bahamas, in Russia, nella ex Jugoslavia, in Austria. Sono state inoltre accertate presenze, in alcune logge massoniche, di personaggi collegati alla ‘ndrangheta in rapporto e connivenza con uomini delle istituzioni, professionisti, avvocati, notai, imprenditori, magistrati. La ‘ndragheta ha inoltre adottato un diverso sistema di impiego degli enormi profitti che provengono dal traffico di cocaina. Questi proventi infatti non vengono più impiegati, come avveniva tradizionalmente, ripartendo il denaro tra i diversi prestanome ma inviandolo direttamente all’estero. Alcuni anni fa infatti, un commercialista milanese trasferì il capitale di 26 società della ‘ndranheta con una triangolazione Milano-Lussemburgo-Lugano avvenuta in soli 15 giorni. Le mani della ‘ndrangheta arrivarono anche al palazzo di giustizia di Milano come testimoniato dall’arresto per mafia, qualche anno fa, di un alto magistrato in pensione che era riuscito a pilotare sentenze anche dopo il pensionamento e di un legale che dopo l’omicidio del collega Raffaele Ponzio sarebbe diventato il nuovo collettore delle mazzette giudiziarie. Entrambi sono stati accusati di corruzione e di associazione mafiosa. Secondo l’accusa sarebbero stati complici esterni ma anche organici di due potenti famiglie della ‘ndrangheta. In cambio di mazzette (da un milione a un miliardo) avrebbero aggiustato processi, garantendo assoluzioni, irrogando condanne tenui, assicurando scarcerazioni. Una pentita della ’ndrangheta, Rita Di Giovine ha parlato dell’ingresso del giudice di cui sopra in una camera di consiglio tenuta da altri giudici con una bustarella consegnatagli dal boss Emilio. Ha riferito anche della scarcerazione di Antonio Morabito per la quale il giudice avrebbe ricevuto un assegno di venti milioni e dell’annullamento, in appello, delle condanne di Francesco Sergi, Antonio Parisi e Saverio Morabito, tutti affiliati alla ‘ndrangheta, che nel 1993 erano stati condannati per traffico di droga. Diverso il comportamento della ‘ndrangheta nei confronti dei magistrati incorruttibili. In questo caso si fa ricorso alle intimidazioni, agli attentati, alle bombe in ufficio. Alla luce di quanto fin qui detto la ‘ndrangheta che è sempre stata considerata la parente povera e rozza di Cosa Nostra ha compiuto un salto di qualità che ha fatto si di ridurre Cosa Nostra ad una posizione subalterna non più in posizione di preminenza tra le associazioni criminali mafiose. Nessuno oggi potrebbe più dire che la ‘ndrangheta è un residuo arcaico. Alberto Di Pisa

La 'Ndrangheta si aprì la strada al primato, dicendo no al terrorismo anti Stato di Riina, scrive Giuseppe Baldessarro su “La Repubblica” il 13 gennaio 2013. Già nel 1993 le 'ndrine si potevano permettere di rifiutare gli inviti dei corleonesi. Poi in vent'anni sono cresciute, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. Che con i soldi della cocaina possono comprare tutto, soprattutto in un periodo di crisi economica. Quando gli emissari di Totò Riina chiesero alla 'Ndrangheta di entrare in guerra contro lo Stato, i calabresi risposero che loro i magistrati "non li ammazzano", ma che "se li comprano, o li distruggono minandone la credibilità". Era il 1993 e già allora la 'ndrangheta poteva dire di no ai corleonesi.  Erano potenti e avevano capito tutto. Loro avevano i soldi della cocaina e lo Stato era concentrato sulla Sicilia. Con Cosa nostra fuori gioco, per i clan dell'Aspromonte si apriva una prateria sterminata.  Territori criminali da conquistare. E in vent'anni i boss reggini hanno occupato militarmente il mercato di mezza Europa, arrivando a vantare il primato di essere l'unica mafia al mondo presente in tutti e cinque i continenti. L'episodio chiave dell'ascesa dei calabresi è stato raccontato anche di recente. A luglio scorso, durante il maxi processo "Meta" che si sta celebrando nell'aula bunker di Reggio Calabria, in aula c'era Nino Fiume, killer di fiducia della famiglia De Stefano del quartiere Archi, pentitosi all'inizio degli anni 2000. Fiume racconta dell'assassinio del giudice Antonino Scopelliti, ucciso a Campo Calabro (pochi chilometri da Reggio), su commissione dei siciliani. Era il giudice di Cassazione che doveva gestire il Maxi processo di Palermo e Riina lo voleva morto. Un favore in nome della vecchia amicizia tra siciliani e calabresi. Non è un caso che don Mico Tripodo, capo indiscusso della 'Ndrangheta reggina (assassinato a Poggioreale, su ordine di Raffaele Cutolo e richiesta dei De Stefano), qualche anno prima era stato ospite d'onore al matrimonio di Totò u curtu e compare d'anello degli sposi. Nel '91 gli "amici" furono accontentati. Due anni dopo no. Cosa Nostra tentò di coinvolgere la 'Ndrangheta calabrese nella strategia della tensione che Fiume definisce di "attacco allo Stato".  Furono anche convocate diverse riunioni, una a Milano e due in Calabria. "Era il periodo delle stragi di Roma, Firenze, Falcone e Borsellino erano stati uccisi", ha spiegato Fiume. La prima riunione, quella di Rosarno, avvenne all'hotel Vittoria. "In quella occasione -  ricorda - c'erano i siciliani. Per i calabresi c'erano Carmine e Giuseppe De Stefano, Franco Coco, il suo braccio destro, Nino Pesce. Forse qualcuno dei Bellocco. Pietro Cacciola, che frequentava Coco Trovato a Milano". La seconda riunione, di poco successiva: "Eravamo al residence Blue Paradise di Parghelia (in provincia di Vibo Valentia). Franco Coco voleva stringere il cerchio attorno a Pasquale Condello, bisognava chiarire il progetto dei siciliani e c'era anche un traffico di droga da definire. C'erano presenti Luigi Mancuso, Peppe De Stefano, Peppe Piromalli, Pino Pesce, e Coco Trovato. Tenete presente -  spiega Fiume - che a queste riunioni si partecipa non come famiglia, ma come rappresentanti di un territorio più vasto". Ai siciliani, all'epoca, fu detto di no. Solo Franco Coco Trovato era possibilista.  Per Peppe De Stefano invece, la strategia dei siciliani era controproducente. Diceva - riferisce Fiume -che era più facile avvicinare un magistrato o al massimo distruggerlo con campagne denigratorie". Quella scelta fece la fortuna della 'Ndrangheta. Con i siciliani impegnati a fare la guerra con lo Stato, le 'ndrine si consolidarono al nord Italia e all'estero, dove furono creati dei "locali" di mafia identici, per struttura e regole, a quelli della casa madre. I broker si stabilirono direttamente in Colombia a trattare con i cartelli della "coca" che iniziò ad arrivare in Europa a tonnellate. La "droga dei ricchi non uccide", dicevano. "E noi la facciamo diventare la droga di tutti". I calabresi sono affidabili, non hanno pentiti e pagano puntuali. Per questo ottengono il monopolio. Oggi sono in grado di mettere sul mercato un grammo di cocaina tagliata a meno di 40 euro. Robaccia, ma i "poveri non guardano alla qualità". Gestendo il 70% dei carichi che arrivano in Europa, secondo la Commissione parlamentare antimafia, contano su capitali spaventosi. Con la droga sono arrivati i soldi e i soldi vanno reinvestiti. Comprano tutto e comprano da tempo. C'è un'intercettazione tra un boss della 'Ndrangheta e un suo contatto al nord, cui impartisce ordini negli anni dopo la caduta del Muro di Berlino: "Vai all'Est e compra tutto, non mi interessa cosa, compra case, ristoranti, negozi, compra quello che vuoi basta che compri". Ed è così ovunque. Tanto più con la crisi di liquidità degli ultimi anni. Sono gli unici ad avere contante, utile ad entrare nelle aziende con partecipazioni, per fare prestiti o per rilevare aziende decotte. Secondo la recente relazione della Dia che fa riferimento ai primi sei mesi del 2012, se da un lato c'è Cosa Nostra che, forse per la prima volta, "inizia a confrontarsi con un'apprezzabile perdita di consenso", dall'altro si registra un'ulteriore salto in avanti della 'Ndrangheta, che consolida la sua "evoluzione affaristico imprenditoriale". I calabresi si stanno allargando in un contesto "in cui la crisi economica e la contrazione del credito producono un effetto moltiplicatore dei fattori di rischio".  Entra nell'economia la 'ndrangheta calabrese, ma dilaga anche nella politica. "La corruzione -  scrive la Dia -  rappresenta un punto di forza delle mafie. I gruppi criminali sono adusi a coltivare cointeressenze con la cosiddetta "zona grigia" dell'imprenditoria, della pubblica amministrazione e della politica, al fine di ottenere agevolazioni e condividere gli illeciti profitti". I numeri sono solo una spia. In sei mesi le persone denunciate per scambio elettorale politico mafioso sono solo sette, ma ciò "non corrisponde alla diffusione dei fenomeni corruttivi e concussivi". Soldi amicizie importanti sono la chiave della 'ndrangheta. Gli emissari dei boss entrano dalla porta principale della politica e dell'economia. E, quando è possibile, lo fanno senza mettere bombe.

E ora la ’ndrangheta supera cosa nostra.  Intervista a cura di Sebastiano Gulisano del dicembre 2007. La struttura familiare e “orizzontale” dell’organizzazione criminale calabrese la rende meno vulnerabile, consentendole un più stretto controllo del territorio e l’espansione di traffici e affari in altre Regioni italiane, in Europa, Stati Uniti, Canada, Australia, America Latina. La strage di Duisburg, il suicidio del pentito del caso Fortugno, Bruno Piccolo, le inchieste del pm di Catazaro Luigi De Magistris e, infine, il pentimento di Angela Donato, la prima donna a tradire la ’ndrangheta, hanno, anche se a intermittenza, riacceso i riflettori su quella che viene ormai considerata la più potente organizzazione criminale italiana, con radici in Calabria e diramazioni in tutta Europa e in buona parte del mondo. Una holding criminale con un giro d’affari illegali da 30 miliardi di euro l’anno, che diventano quasi il doppio se si considerano le attività legali. La ’ndrangheta è stata a lungo la meno indagata, la più sottovalutata delle mafie italiane, anche se non meno pericolosa della camorra o di cosa nostra. A differenza delle altre organizzazioni criminali meridionali, è fortemente incentrata sulla famiglia di sangue, e ciò, da sempre, favorisce la segretezza e provoca pochissimi pentimenti. Un controllo del territorio ferreo, asfissiante, l’imposizione del pizzo a commercianti e imprenditori con una pervasività simile a quella di cosa nostra a Palermo e Catania, il controllo dei grandi lavori pubblici, come la Salerno-Reggio Calabria, “l’autostrada della ’ndrangheta”. Il recente rapporto annuale di Sos Impresa, l’associazione della Confesercenti che si occupa di racket e usura, a tal proposito, riporta una frase di Nicola Gratteri, pm della Direzione distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, che non lascia dubbi: “Qui né le imprese né la politica hanno la forza di imporsi, perché la ’ndrangheta ha un potere più asfissiante di cosa nostra. Controllano le loro zone come i cani quando fanno pipì e da lì non si passa”. La Commissione parlamentare Antimafia, presieduta da Francesco Forgiane, calabrese di Rifondazione comunista, ha deciso di concentrarsi sulla ’ndrangheta, con l’obiettivo di arrivare alla prima relazione su questa potentissima organizzazione criminale. (Sempre che la legislatura non finisca prima.) Sarebbe un fatto storico. In passato, la Commissione ha fatto relazioni sulla Calabria, ma mai sull’organizzazione in quanto tale e, dunque, su tutte le sue ramificazioni anche fuori dalla regione originaria. Per capire cos’è ’ndrangheta, quale evoluzione storica ha avuto, in cosa differisce dalle altre mafie italiane, abbiamo intervistato Enzo Ciconte, storico della ’Ndrangheta, docente presso l’Università di Roma Tre, autore di numerosi saggi sull’organizzazione criminale calabrese, sulle altre mafie, sul traffico di esseri umani. E’ consulente della Commissione Antimafia.

Dottor Ciconte, don Masino Buscetta, storico pentito di mafia, raccontò al giudice Falcone che i boss di ’ndrangheta e camorra erano affiliati a Cosa Nostra, aggiungendo che non esistevano tre organizzazioni mafiose, ma una sola, quella siciliana. Tanto che quando c’era guerra in Sicilia, questa si propagava nelle altre regioni. Cos’è cambiato da allora?

«Si dà per scontato che Buscetta dicesse il vero, invece non lo diceva o non sapeva. È vero, all’epoca c’era la pratica di affiliare a cosa nostra i boss delle altre organizzazioni criminali del sud. Ma era una pratica reciproca. Il discorso di Buscetta può valere per la camorra, che allora era pulviscolare e viveva di contrabbando, dopo che all’inizio del Novecento era stata sbriciolata dal procuratore Cuoco. E ciò fino all’avvento di Cutolo…»

Dopo il terremoto dell’80 e gli affari conseguenti.

«Cutolo fonda la nuova camorra organizzata, federando i clan, e apre una polemica politica con coloro che non ci stanno, che definisce “asserviti ai siciliani”. Politica criminale, ovviamente. Il rapporto di cosa nostra con la ’ndrangheta, che ha un pedigree più solido della camorra, era invece paritario. E ci sono fatti che lo dimostrano. Negli anni Cinquanta, il dottor Michele Navarra, capomafia di Corleone, viene confinato a Gioiosa Marina dove, come racconta il collaboratore Giacomo Lauro, aveva “rapporti di affetto, amicizia e ‘rispetto’ con don Antonio Macrì”. Mico Tripodo, all’epoca capobastone di Reggio Calabria, è compare d’anello di Totò Riina: ciò non sarebbe stato possibile senza un rapporto paritario. In realtà, c’era la doppia affiliazione, una pratica che durante gli anni Novanta è andata diffondendosi fra mafiosi siciliani, calabresi, campani e pugliesi».

La pratica della doppia affiliazione ricorda la leggenda dei tre fratelli spagnoli che, nel Seicento, si stabilirono in Sicilia, Calabria e Campania dove avrebbero fondato le tre organizzazioni mafiose.

«Osso, Mastrosso e Scarcagnosso: una leggenda che ha un suo fondamento. Non dimentichiamo che, dopo le stragi, il pentito siciliano Leonardo Messina venne in Commissione Antimafia e parlò di una “mafia mondiale”. E, a proposito delle stragi, ricordiamoci che, prima, Riina e gli altri boss convocarono i capibastone della ’ndrangheta chiedendo un sostegno che non ebbero. Le organizzazioni di base sono uguali, mentre è diversa quella dei vertici; tutte hanno relazioni con la politica, la Chiesa, il padronato. I luoghi degli incontri, degli accordi, storicamente sono le carceri, le fiere e il Parlamento, ché i diversi referenti politici delle mafie si conoscono, si parlano».

Oggi è ancora così?

«Il rapporto è cambiato, oggi la ’ndrangheta è più forte: cosa nostra ha subito la forte repressione dello Stato successiva alle stragi, è stata scompaginata da tantissimi collaboratori di giustizia; la ’ndrangheta, invece, è stata meno investigata, la sua struttura familiare la rende meno vulnerabile, rende più difficile il pentitismo e, sotto l’aspetto criminale, la fa essere più affidabile di cosa nostra».

In cosa consiste l’“orizzontalità” della ’ndrangheta? Come funziona un’organizzazione criminale non verticistica?

«Nel ’91, con la “pace di Reggio Calabria”, che chiude la sanguinosa guerra degli anni precedenti, si crea una federazione tra le famiglie della Piana, della Locride e di Reggio i cui rappresentanti si riuniscono per decidere la spartizione degli affari e, quando questi riguardano l’intera regione, partecipano anche i rappresentanti delle famiglie delle altre province. A differenza di cosa nostra, dove la Cupola decideva tutto, qui ci si riunisce solo per gli interessi comuni e i grandi affari. La pace di Reggio, fra l’altro, sancisce la chiusura di tutte le faide. Per i figli di Giuseppe Grimaldi la pace è dura da digerire, il padre era stato ucciso, decapitato e la testa presa a fucilate e fatta rotolare in strada. I Grimaldi preferiscono emigrare a Genova e, dopo qualche anno, si pentono e mandano in galera i propri nemici»

La strage di Duisburg farebbe pensare alla fine della pace. O una strage all’estero – con quell’impatto mediatico – è ammissibile?

«Duisburg non è poi così lontana, “confina” con S. Luca. È a nordest di S. Luca. No, la pace non è finita. Però è vero che la Locride è il punto di maggiore sofferenza, dimostra l’incapacità della famiglia di S. Luca di governare il territorio, ed è un problema per tutta la ’ndrangheta.  Negli ultimi anni, abbiamo assistito a due fatti clamorosi che riguardano la Locride: l’omicidio di Francesco Fortugno e la strage di Duisburg. In entrambi i casi, una scelta diversa avrebbe dato significato diverso ai delitti: la strage di Duisburg non è frutto di necessità, potevano ucciderli uno alla volta, in momenti diversi; Fortugno, invece, se l’avessero ucciso un giorno prima o un giorno dopo, non sarebbe stata la stessa cosa. Assassinarlo il giorno delle primarie dell’Unione è una scelta politica. L’omicidio non è stato deciso a Locri, ma dalla cupola, saldando gli interessi della ’ndrangheta con quelli di ambienti della sanità, pubblica e privata, ma anche con ambienti e legami storici della “Santa”».

Cos’è la Santa?

«A metà degli anni Settanta la ’ndrangheta decise il suo ingresso nella massoneria. O meglio, lo decise in modo organizzato poiché pare che alcuni capibastone fossero già massoni. La decisione si accompagnò a una modificazione nella struttura di comando delle varie ’ndrine, utilizzata per creare una nuova denominazione, nuovi capi, nuove gerarchie: chi raggiungeva il grado di dantista era autorizzato a entrare nelle leggi massoniche. La ’ndrangheta, che prima era subalterna alla massoneria, decise di affrancarsi e di entrare in contatto diretto col mondo delle professioni e con gli interessi che erano direttamente rappresentati dalle logge. Per tre motivi: gli affari economici, la rappresentanza politica diretta, il rapporto coi magistrati».

Ovviamente, parliamo di logge massoniche riservate, coperte, non quelle ufficiali. Logge come la P2 di Licio Gelli.

«Un vero e proprio cambio di pelle, insomma; un cambio di ragione sociale che porta l’organizzazione ad avere rapporti diretti con la politica. E, storicamente, la ’ndrangheta ha una “colorazione” diversa da cosa nostra. La ’ndrangheta è sempre stata vicina alla destra, specie alla destra eversiva. Basti pensare ai moti di Reggio, alla partecipazione al golpe Borghese, alla protezione di Franco Freda, fuggito dopo il processo di Catanzaro per la strage di piazza Fontana; ma anche al coinvolgimento nel caso Moro o ai rapporti con la banda della Magliana. Nella Locride, dove la povertà era maggiore e forte il senso di abbandono da parte dello Stato, c’era una vicinanza al Pci, che però finì durante secondo dopoguerra. Da allora, i referenti politici della ’ndrangheta sono stati nella Dc e nel Psi e, dopo, in Forza Italia».

Facciamo un passo indietro. Che vuol dire che Duisburg confina con S. Luca?

«Semplice, vuol dire che dagli anni Sessanta in poi, oltre alla normale emigrazione, la ’ndrangheta ha spostato pezzi di cosche dalla Calabria alle città italiane e all’estero. E ormai le più importanti famiglie hanno due sedi».

Come Cutro e “Cutro due”, cioè Reggio Emilia?

«Esatto. Ma ciò accade in tante altre città, in Italia e all’estero. In tal senso Duisburg confina con S. Luca.»

Si spiega così il fatto che i due soli Consigli comunali sciolti per infiltrazioni mafiose, fuori dalle cosiddette aree tradizionali – Bardonecchia, in Piemonte, nel ’95; Nettuno, nel basso Lazio, nel 2005 – è coinvolta la ’ndrangheta?

«È la riprova della capacità di infiltrazione e di condizionamento dell’organizzazione».

E le sue proiezioni internazionali? Oggi la ’ndrangheta viene riconosciuta come l’organizzazione leader in Europa nel traffico di cocaina. In quali nazioni è radicata?

«La ’ndrangheta è presente in tutti i Paesi europei. Ma anche in Australia, Stati Uniti, Canada, America Latina».

E con le altre mafie, con quelle non italiane, che tipo di rapporti intrattiene?

«Solo rapporti finalizzati al traffico di droga. Niente che possa lontanamente somigliare a quello con cosa nostra di cui si parlava prima».

Nel ’93 un rapporto della Dia sosteneva che il 27 per cento della popolazione calabrese sarebbe in qualche modo coinvolta con la ’ndrangheta. Una percentuale abnorme, più di un quarto della popolazione. E poi c’è il fatto che la Calabria, per la sua conformazione, è fatta di Comuni piccoli e piccolissimi, molti dei quali sotto i mille abitanti. Ciò facilita la capacità di condizionamento?

«Che significa “coinvolta”? E poi, come si fa a quantizzare? A me sembra una percentuale spropositata. Però, al di là delle dispute numeriche, c’è l’altro aspetto che è fondamentale: la più grande città calabrese è Cosenza, 120mila abitanti, cioè quanto un quartiere di Palermo. Nei piccoli centri, cioè nella maggior parte dei Comuni calabresi, basta una decina di mafiosi per esercitare un controllo fisico, visivo delle persone, per condizionargli la vita».

Come succedeva a Calanna, mille abitanti, dove il boss locale, Giuseppe Greco, imponeva una sorta di jus primae noctis, prendendosi tutte le donne che gli piacevano. Greco, in una telefonata intercettata, si vantava anche di potere controllare come votava ogni cittadino, di potere “mettere le mani nelle urne”. Avviene così in ogni Comune?

«Be’, il controllo del voto non è una sua prerogativa e nemmeno della sola ’ndrangheta. Con la preferenza multipla lo facevano anche i partiti. Ma anche con la singola preferenza lo si può fare, trovando altri tipi di combinazioni: Mario Rossi, dottor Mario Rossi, Rossi dottor Mario e così via. E poi c’è la “scheda matta”. Ci si impossessa di una scheda elettorale, si esprime il voto di preferenza, la si dà all’elettore, che la deposita nell’urna e riporta la scheda cianca che gli è stata consegnata nel seggio, in modo che il mafioso possa votarla e consegnarla a un altro elettore…»

I PROFESSIONISTI DELL'ANTIMAFIA

Una polemica scatenata dallo scrittore Leonardo Sciascia, scrive Giulia Grassi. Qualche anno prima di morire Paolo Borsellino, e tutto il pool antimafia di Palermo, sono stati coinvolti in una polemica nata da un articolo pubblicato sul "Corriere della Sera" del 10 gennaio 1987. L'articolo era intitolato "I professionisti dell'antimafia" e questa era la sua tesi di fondo: in Sicilia il modo migliore per fare carriera in politica e in magistratura è dichiararsi antimafioso, usare l'"antimafia come strumento di potere", come mezzo per diventare potenti ed intoccabili. Era firmato da Leonardo Sciascia, uno scrittore molto famoso per i suoi libri nei quali aveva parlato della violenza del potere mafioso, come il bellissimo "Il giorno della civetta". Tra gli esempi di professionisti dell'antimafia Sciascia citava proprio Paolo Borsellino, che qualche mese prima era diventato capo della Procura di Marsala al posto di un collega più anziano di età (evidentemente per la sua maggiore conoscenza del fenomeno mafioso). Probabilmente Sciascia voleva solo mettere in guardia contro il pericolo che qualche magistrato o politico disonesto potesse sfruttare la lotta alla mafia per i suoi interessi personali. Sicuramente lo scrittore era in buona fede ... ma citare Borsellino come "esempio attuale ed effettuale" di professionismo mafioso, insinuare il dubbio che il magistrato avesse fatto carriera grazie alla lotta alla mafia, è stato un errore, sfruttato abilmente dai nemici del pool. Anche i grandi intellettuali possono sbagliare. Per i 15 giorni successivi i giornali sono stati occupati da articoli contrari (pochi) e favorevoli (la maggior parte) allo scritto di Sciascia, che a sua volta ribadiva il suo pensiero in alcune interviste: "Ieri c'erano vantaggi a fingere d'ignorare che la mafia esistesse; oggi ci sono vantaggi a proclamare che la mafia esiste e che bisogna combatterla con tutti i mezzi" (Il Messaggero); il potere fondato sulla lotta alla mafia "è molto simile, tutto sommato, al potere mafioso e al potere fascista" (Il Giornale di Sicilia); "In nome dell'antimafia si esercita una specie di terrorismo, perché chi dissente da certi metodi o da certe cose è subito accusato di essere un mafioso o un simpatizzante" (Intervista al Tg2 - secondo canale TV). E Borsellino? Non ha mai replicato a Sciascia, mai. Giuseppe Ayala, un ex magistrato che ha lavorato con Falcone e Borsellino nel pool di Palermo, nel suo libro "La guerra dei giusti" (1993) cita una frase di Borsellino: "La risposta sarà il silenzio. Ho sempre ammirato Sciascia, e continuerò a farlo". Ma l'amarezza deve essere stata profonda. Un mese dopo l'assassinio di Falcone, e 23 giorni prima del proprio assassinio, Borsellino dichiarava: "Giovanni ha cominciato a morire tanto tempo fa. Questo paese, questo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a farlo morire nel gennaio 1988, quando gli fu negata la guida dell'Ufficio Istruzione di Palermo. Anzi, forse cominciò a morire l'anno prima: quando Sciascia sul "Corriere" bollò me e l'amico Leoluca Orlando come professionisti dell'antimafia" (Palermo, 26 giugno 1992).

“Contro l’Antimafia”. Matteo Messina Denaro, l’invisibile, è il più potente boss di Cosa nostra ancora in libertà. È a lui che dalla radio della sua città, Marsala, si rivolge ogni giorno Giacomo Di Girolamo nella trasmissione Dove sei, Matteo?, ed è a lui che si rivolge in questo libro: stavolta, però, con un’agguerrita lettera di resa. Di Girolamo non ha mai avuto paura di schierarsi dalla parte di chi si oppone alla mafia. Ma adesso è proprio quella parte che gli fa paura. Ha ancora senso l’antimafia, per come è oggi? Ha avuto grandi meriti, ma a un certo punto è accaduto qualcosa. Si è ridotta alla reiterazione di riti e mitologie, di gesti e simboli svuotati di significato. In questo circuito autoreferenziale, che mette in mostra le sue icone – il prete coraggioso, il giornalista minacciato, il magistrato scortato – e non aiuta a cogliere le complesse trasformazioni del fenomeno mafioso, si insinuano impostori e speculatori. Intorno all’antimafia ci sono piccoli e grandi affari, dai finanziamenti pubblici ai «progetti per la legalità» alla gestione dei beni confiscati, e accanto ai tanti in buona fede c’è chi ne approfitta per arricchirsi, per fare carriera o per consolidare il proprio potere, in nome di un bene supremo che assolve tutto e tutti. Non è più questione di «professionisti dell’antimafia»: oggi comanda un’oligarchia dell’antimafia, e chiunque osi metterla in discussione viene accusato di complicità. Di Girolamo scrive allora a Matteo Messina Denaro. Scrivere al grande antagonista, al più cattivo dei cattivi, è come guardarsi allo specchio: ne emerge, riflessa, l’immagine di una generazione disorientata, che assiste inerme alla sconfitta di un intero movimento, alla banalità seriosa e inconcludente delle lezioni di legalità a scuola, alle derive di un giornalismo più impegnato a frequentare le stanze del potere, politico o giudiziario, che a raccontare il territorio. Contro l’antimafia è un libro iconoclasta, amaro, che coltiva l’atrocità del dubbio e giunge a una conclusione: per resistere alle mafie serve ripartire da zero, abbandonando la militanza settaria per abbracciare gli strumenti della cultura, della complessità, dell’onestà intellettuale, dell’impegno e della fatica.

Giacomo Di Girolamo, giornalista, si occupa di criminalità organizzata e corruzione per il portaleTp24.it e per la radio Rmc 101. Collabora con Il Mattino di Sicilia, la Repubblica e Il Sole 24 Ore. È autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro L’invisibile (2010), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella) e Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014). Per le sue inchieste ha vinto nel 2014 il Premiolino.

L’atto d’accusa contro l’antimafia di Di Girolamo, scrive Antonino Cangemi il 23 febbraio 2016. La babele dell’antimafia –folta, eterogenea, ambigua, la carovana degli antimafiosi, e legata a centri di potere talvolta di per sé non cristallini, tal’altra insospettabili– impone riflessione e indignazione. Una riflessione indignata ce la offre Giacomo Di Girolamo nel suo ultimo libro, “Contro l’antimafia”, edito da Il Saggiatore. Giacomo Di Girolamo non è uno qualsiasi. E’ un giornalista che, da un’emittente del Trapanese, conduce da tempo, senza tanti compagni di ventura, un monologo dedicato a Matteo Messina Denaro, tuttora primula rossa di Cosa nostra, di cui pare essere divenuto il numero uno. Lo segue in tutti i suoi passi, ossessivamente, dalla sua radio. Lo interroga, gli chiede spiegazioni, lo tallona, lo incalza, ricordandogli le tappe della sua escalation criminale. D’altra parte, pochi, nel mondo della carta stampata, conoscono Messina Denaro come Giacomo Di Girolamo, che al boss di Castelvetrano ha dedicato una biografia, oggi, chissà perché, introvabile, ricca di dettagli e di particolari, “L’invisibile” (Editori Riuniti, 2010). In quella biografia, Di Girolamo si rivolgeva al capomafia dandogli del tu, senza alcuna remora. In “Contro l’antimafia” –che segue altri interessanti saggi, anch’essi editi da Il Saggiatore, “Cosa grigia”, “Dormono sulla collina, 1969-2014” – Di Girolamo continua a rivolgersi all’interlocutore di sempre, Matteo Messina Denaro, e ancora dandogli del tu. Ma questa volta il giornalista spavaldo, aggressivo, sprezzante, cede il passo –apparentemente- al cronista, vinto dalla malinconia, che ammette la propria sconfitta. Il cronista che, come tantissimi della sua generazione, dalle stragi di Falcone e Borsellino, aveva individuato un nemico terribile, malefico, diabolico –la mafia- e contro di esso aveva speso ogni energia, e che ora si rende conto che – Matteo Messina Denaro ancora libero e professionisti dell’antimafia, giorno dopo giorno, smascherati nelle loro pantomime- Cosa nostra è sempre più salda e il fronte antimafia sempre più contraddittorio e fumoso. “Contro l’antimafia” è un libro scomodo, dissacratorio, impertinente – come nello stile di Di Girolamo -, non fa sconti a nessuno, rivela verità palesi e occulte, punta i riflettori sul panorama, variegato e non di rado sinistro, dell’antimafia in doppiopetto, col piglio del giornalismo investigativo e con le lenti di un sociologismo accorto. Le denunce di Di Girolamo, tuttavia, per quanto accompagnate da un’accorata e dolorosa autocritica – che rinvia alle osservazioni profetiche di Sciascia- e da un lancinante e sofferto pessimismo, hanno in sé quella potenza reattiva che, lungi dall’invitare a demordere, esorta implicitamente, pur nella consapevolezza delle tante zone grigie dell’antimafia, a duplicare il proprio impegno. Esorta quelli che ci credono davvero, naturalmente; non altri.

CONTRO L’ANTIMAFIA. Recensione di Nino Fricano. Un libro rischioso, che provocherà durissime reazioni. Ci saranno tonnellate di mugugni “privati” contro questo libro, ci saranno incazzature, indignazioni, imprecazioni. Ci sarà poi una bolgia “pubblica” sui social network, ci saranno interventi sui giornali, probabilmente fioccheranno querele, e chissà cos’altro ancora. Ma il rischio maggiore è un altro, argomentano quelli che già hanno cominciato a scagliarsi contro questo libro (almeno quelli che argomentano, molti altri insultano e basta). Il rischio maggiore è quello di contribuire a delegittimare l’antimafia “per principio”, “a prescindere”, “fare di tutta l’erba un fascio”, “buttare via il bambino con l’acqua sporca”, “il cesto di mele e le mele marce”, “alimentare la macchina del fango”, e così via di luoghi comuni.

Non puoi denunciare così, senza concedere attenuanti, le tante piccole grandi magagne dell’antimafia. Le tante piccole grandi cose-che-non-vanno nell’antimafia, le sue vanità, i suoi egoismi, le sue idiozie, le sue vigliaccate, le sue furberie, le sue prese in giro, le sue arrampicate, i suoi affarismi, i suoi personaggi turpi e disonesti, le sue truffe allucinanti, incredibili. Roba che cadono le braccia a terra, che c’è da strapparsi i capelli, sbattersi la testa contro il muro. Non puoi farlo, dicevamo, perché la gente rischia di generalizzare. Non puoi attaccare così duramente l’antimafia perché questa rischia di perdere la sua credibilità e quindi la sua efficacia. Il problema però è che l’antimafia – o forse è meglio dire “il movimento antimafia”, o meglio ancora “la parte maggioritaria e più visibile e più arrivista del movimento antimafia” – ci è riuscita da sola, a perdere la propria credibilità e la propria efficacia. E l’autore lo dimostra offrendoci lo scorcio giusto, mettendo a fuoco il panorama, riunendo e collegando – cioè – le ultime notizie, gli ultimi scandali, le ultime oscenità, le ultime nostre amarissime sconfitte. È un tunnel dell’orrore. Ci sono dirigenti regionali che gestiscono beni sequestrati con logiche privatistiche e affaristiche, di sfruttamento e arricchimento personale. Ci sono amministratori delle aziende sequestrate che se ne fregano della buona gestione, che affamano il territorio, che fanno fallire le aziende sequestrate, che lasciano in mezzo alla strada 72mila lavoratori in tutta Italia. Ci sono sindaci e imprenditori che fanno proclami antimafia e poi vengono beccati a braccetto con i mafiosi. Ci sono soggetti che cavalcano le intimidazioni subite, vere o presunte, per fare affari spudoratamente, arrivando perfino a truffare sui finanziamenti ricevuti. C’è il business del progetto per la legalità. C’è il business del terreno confiscato. C’è il business della costituzione di parte civile. Ci sono i professionisti di questo grottesco business: presidi, insegnanti, ragionieri, avvocati, azzeccagarbugli, faccendieri, traffichini, intrallazzatori. E poi ci sono le cooperative antimafia, le associazioni antimafia, le manifestazioni antimafia, i comitati antimafia, i politici antimafia, i giornalisti antimafia, gli artisti antimafia. C’è l’utilizzo dell’etichetta di antimafia per portare avanti operazioni poco pulite e senza nessun controllo. C’è l’utilizzo dell’antimafia come un qualunque altro strumento della lotta politica e affaristica, e dunque una cosa come un’altra, una cosa qualunque, che può servire – come tutte le cose qualunque, in questa irrimediabile e irredimibile terra – a perseguire interessi più o meno leciti. E questi sono i furbi, i profittatori, che possono essere di grosso calibro e di piccolo calibro, spostandosi lungo l’asse che va dal semplice accattonaggio da miserabili fino alla delinquenza vera e propria, la delinquenza da delinquenti, il tutto condito da una evidente dose di sciacallaggio. Poi però ci sono i cretini, gli utili idioti. Ci sono anche loro, non mancano mai di questi tempi. Sono quelli che portano avanti un’antimafia fatta di vuote celebrazioni, manicheismo ottuso, cori da stadio, retorica, slogan. Nessuno spirito critico, nessun ragionamento, nessuna intelligenza, nessuna voglia di abbracciare la complessità del reale, nessun interrogarsi sul reale, nessuna voglia di comprendere il reale. Soltanto un insieme di dogmi, santini e ritualità. Un campo dove tutto diventa idolo, icona. E le icone, si sa, sono entità cristallizzate e iperuraniche, astrazioni incapaci di dialogare con il presente e con il concreto. Le icone sono soprammobili che si mettono su un ripiano che non dà fastidio a nessuno e sono destinate a riempirsi di polvere. Le icone sono inutili, e nel campo dell’antimafia ridurre a icone Falcone e Borsellino, Peppino Impastato e Libero Grassi, ad esempio, è più che inutile, è dannoso. Dunque, i profittatori e i cretini. Due facce della medaglia. E la medaglia è il fallimento dell’antimafia. Una cosa buona avevamo in Italia, verrebbe da dire, e abbiamo rovinato pure quella. Perché è avvenuto come uno sfasamento tra mafia e antimafia. Un processo che adesso è giunto a una fase cruciale. Se la mafia, dopo le stragi del ’92/’93 ha cambiato pelle (per l’ennesima volta nella sua storia), si è resa invisibile, liquida, meno radicata nel territorio, globalizzata e finanziaria, l’antimafia si è invece istituzionalizzata, è diventata tronfia, vuota e retorica, si è incancrenita, e molti suoi settori sono finiti in mano alla sconfortante fauna umana descritta in precedenza: sciacalli, furbi, profittatori, accattoni, delinquenti, cretini e utili idioti. Una fauna così ingombrante, chiacchierona, rumorosa – per motivi di interesse o per semplice idiozia – che rischia di seppellire definitivamente tutti i soggetti e le realtà associative che nell’antimafia avrebbero invece qualcosa di buono da dire e da fare, energie da spendere in modo utile, innovazioni e speranza da donare. Questo processo di sfasamento, di traiettorie inverse e intrecciate tra mafia e antimafia, conduce al paradosso di un’antimafia che lotta, o meglio finge di lottare, contro una mafia che non esiste più, con mille distorsioni di conseguenza. Questa la portata storica di questo libro qui. Un libro amarissimo, terribile. Un libro personalissimo, uno sfogo di uno che “c’è dentro”, una critica all’antimafia da parte di uno che fa antimafia e quindi, in qualche modo, anche una sorta di autocritica, ma anche un documento di rilevanza storica, che fotografa un ben preciso fenomeno collettivo.

Un libro che non è solo un’inchiesta giornalistica, però, che non parla soltanto di mafia, politica ed economia, ma che analizza anche un fenomeno “culturale” con passione e autorevolezza, un fenomeno che riguarda la semantica e la narrazione dell’antimafia, e più in generale la violenza e la disonestà intellettuale, la faziosità e l’intolleranza, la pigrizia e il dilettantismo che cova sotto i dibattiti pubblici dei giorni nostri. Un libro inoltre che presenta alcune tra le suggestioni più potenti in cui mi sia imbattuto negli ultimi anni (i Moai dell’Isola di Pasqua), racconti efficacissimi e strazianti (i dipendenti licenziati dal gruppo 6Gdo che emergono dal silenzio come fantasmi), pagine – insomma – di altissima letteratura. L’autore è Giacomo Di Girolamo, classe 1977, credo il migliore giornalista che ci sia in Sicilia. È uno che da vent’anni, tutti i giorni, si sporca le mani con l’informazione locale. Ha fondato e diretto un notiziario online in provincia di Trapani, conduce una trasmissione in radio (“Dove sei Matteo?”, sulle tracce di Messina Denaro), collabora con numerose testate tra cui Repubblica e Il Sole 24 Ore, ha scritto libri magnifici tra cui la prima autobiografia di (di nuovo) Matteo Messina Denaro. È un giornalista di provincia che non è mai provinciale, ha una visione chiara e luminosa delle cose, frutto di quasi vent’anni di informazione attenta, quotidiana, sul territorio. Cronache, interviste, opinioni, inchieste. Il suo “essere” antimafia è un “fare” antimafia. Il suo fare antimafia, il suo essere molto probabilmente il più grande esperto di Matteo Messina Denaro in Italia, è la logica conseguenza della sua quotidiana attività di informazione. È un giornalista che racconta la mafia e che quindi fa antimafia. E per questo può permettersi un libro come questo, sull’antimafia, contro l’antimafia. Un libro rischioso ma anche tremendamente coraggioso. E onesto. E importante. Di Girolamo, infine, è secondo me un personaggio emblematico anche per altre ragioni. È uno che vive sulla sua pelle i prezzi da pagare che ci sono per chi vuole raccontare la realtà che lo circonda in un contesto come quello della Sicilia e della provincia siciliana. E cioè, come ha scritto una volta su Facebook: “Ex amici che non ti salutano più, persone che ti odiano, tifosi di questo o quel politico che ti insultano; querele e citazioni ad ogni piè sospinto, via via sempre più pretestuose; minacce che arrivano a me, alla redazione, alle persone a me vicine, telefonate anonime, biglietti con le croci, incontri ravvicinati”. D’altronde Sciascia lo diceva tanti decenni fa, e le cose almeno da questo punto di vista non sono cambiate di tanto: “Lo scrittore in Sicilia è un delatore, un traditore, che racconta cose che l’opinione comune preferisce restino sotto un silenzio carico di commiserazione”.

Giacomo Di Girolamo il 20 maggio 2014 su “Facebook". Sono stanco di chi usa l'antimafia per conservare potere o per fare carriera. Non abbiamo bisogno di un'antimafia un tanto al chilo, fatta di simboli, di gestione di grandi e piccoli affari in nome del bene supremo che tutto assolve. Abbiamo bisogno di un'antimafia che semini dubbi, che ponga ragionamenti, dia contenuti. E siccome mi sono stancato davvero, ho deciso da un po' di tempo a questa parte che questa cosa l'andrò ripetendo ovunque ci sarà l'occasione, anche a costo di apparire più stronzo o più pazzo di quello che già sembro di mio. Non serve a cambiare le teste quadrate, perché le truppe dell'antimafia sono ben istruite dai leader di turno come una setta di Mamma Ebe e tutto assorbono senza colpo ferire e rispondendo a tono con qualche frase del vangelo di Falcone e Borsellino appena c'è un minimo di dissenso rispetto all'antimafioso pensiero dominante. Però serve, da giornalista e cittadino libero, ancora una volta, per dare un senso ad un mestiere. Parlate di mafia, parlatene ovunque, diceva lo stracitato Borsellino (del quale si conoscono i versetti principali, come Maometto...). Siccome tutti, dalle parti dell'antimafia, si divertono a completare l'assioma: ah, se Falcone fosse vivo, oggi..., ah, se Borsellino fosse vivo, oggi...Mi ci metto anch'io. Se Borsellino fosse vivo oggi, direbbe anche: parlate di antimafia, parlatene ovunque. Ecco perché lo faccio. E lo ripeto ancora una volta: oggi l'antimafia ha ragione d'essere se è antimafia di cultura, di saperi, di formazione, di studio, di analisi, di tutto ciò che richiede attenzione, tempo, fatica.

"Contro l’antimafia". Il nuovo libro di Giacomo Di Girolamo. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Pubblichiamo il prologo del nuovo libro di Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia, edito dal Saggiatore. Qui l’autore ne parla con Attilio Bolzoni.

Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Sia maledetto Goethe. Sia maledetto tutto, di quel suo viaggio in Sicilia, dalla nave che lo portò a Palermo al taccuino su cui prese appunti: «il posto più stupendo del mondo», «l’unità armonica del cielo con il mare», «la purezza dei contorni». Siano maledetti tutti i viaggiatori d’Occidente, che hanno parlato di «capolavoro della natura», «divino museo d’architettura», «nuvola di rosa sorta dal mare». Siano maledetti i paesaggi da cartolina. Le cartoline, no. Quelle non c’è bisogno di maledirle, già non esistono più. Siano maledette, però, tutte le immagini sui social, i paesaggi su Instagram, i gruppi su Facebook del tipo «Noi viviamo in paradiso». Siano maledetti i tramonti sul mare. Sia maledetta la bellezza. Sia maledetta la luce nella quale siamo immersi, che sembra una condanna. Sia maledetta questa luce derisoria, che si prende gioco di noi: non ve lo meritate tutto questo – sembra dire – non ve lo meritate. Sia maledetto tu, Matteo Messina Denaro. Ancora una volta: che tu sia maledetto. Perché tu e i mafiosi come te ci avete condannati a non poter godere di tutto questo, a non meritare davvero il paradiso nel quale viviamo. Troppa violenza, sotto questo cielo. Troppo dolore. A che serve avere il paradiso, se ogni giorno va in scena l’inferno? Sia maledetto Goethe. Non avrebbe dovuto scriverci il diario di viaggio, in Sicilia, ma ambientare la tragica storia del Dottor Faust, in questo proscenio di nebbie e di vapori invisibili. Tu sei il diavolo, Matteo, a te abbiamo venduto l’anima. Sia maledetta la mafia, che tu rappresenti come ultimo padrino ancora in circolazione, latitante dal 1993. Sia maledetta Cosa nostra, Totò Riina e chi ne ha eseguito gli ordini di morte, i Corleonesi e la tua famiglia, che dal piccolo borgo di Castelvetrano ha costruito un impero fondato sul sangue, che mi fa vergognare di essere tuo conterraneo. Io non ho paura di te, Matteo. Ti conosco ormai come un fratello maggiore. So tutto di te, tranne dove sei. Non mi ha mai fatto paura raccontare la tua violenza, gli omicidi, quelli commessi dalla tua gente, i vostri affari sporchi, dalle estorsioni agli appalti truccati… Questo di mestiere faccio: raccontare quello che vedo, e anche se sei invisibile ti vedo e ti vedo sempre, Matteo. Mi guardo intorno e scrivo. Guardo le persone negli occhi e poi racconto il loro sguardo alla radio. Seguo i tuoi passi e scrivo. E sorrido. Sorrido per prendermi gioco della luce che non mi merito, sorrido perché penso di essere anche io un tassello della tua storia; anche io faccio parte del tuo indotto. Come le famiglie dei carcerati: senza la distribuzione dei soldi delle estorsioni, come camperebbero? Per me vale un po’ la stessa cosa: senza di te, Matteo, di cosa mi occuperei? Io non ho mai avuto paura. Adesso sì. Senti, mi dicono, perché non fai una nuova edizione di quel tuo libro su Matteo Messina Denaro? Va ancora alla grande, lo leggono i ragazzini, lo adottano nelle scuole. Che coraggio che hai avuto, a scrivere quel libro, tu che ti rivolgi al boss, questa conversazione senza peli sulla lingua. Tanta ferocia messa nero su bianco. E allora perché non lo riprendi, questo bel libro, lo aggiorni, ci aggiungi altre quattro-cinque cose? Già, perché non lo faccio, Matteo? Quante cose so di te che ancora non ho scritto? Io sono quello che ti chiama ogni giorno, per nome, alla radio. C’è il jingle che fa «Dove sei, Matteo?», e poi la mia voce che dà un indizio, a volte un fatto di cronaca, a volte uno scoop, a volte un modo un po’ paraculo di arrivare comunque a te («Oggi comincia la scuola, e allora perché non ricordiamo gli studi di Matteo Messina Denaro…»). La nostra conversazione non si è mai interrotta, Matteo, continua ogni giorno. Solo che non ha più senso parlare di te, della tua stramaledettissima vita criminale. Qui voglio parlare d’altro. Della mia paura. E ho bisogno di capire. Ho bisogno di parlarti di quello che succede su un fronte che non è il tuo, in quella che chiamano antimafia. Di cosa è diventata la lotta alla mafia oggi, quali mostri ha generato, quali storture si nascondono sotto l’ombrello della legalità. Ti scrivo per raccontarti questa mia paura: che la parte che ho sempre creduto giusta alla fine si sia trasformata in qualcos’altro, un luogo di compromessi al ribasso, di piccole e grandi miserie, di accordi nell’ombra per spartirsi soldi e potere. E a volte mi sembra come una piccola mafia. Ho sempre lottato da una parte. Sono nato un sabato di maggio del 1992. Da allora ho sempre lottato da una parte. E adesso è proprio quella parte che mi fa paura. Ti scrivo per sapere magari da te, che sei il male, chi sono i buoni, dove sono i buoni. E per capire come mai, in questa fogna del potere che è la mia terra, quelli che dovrebbero essere i buoni, perché tali si proclamano, perché mi hanno insegnato così, perché da qualche parte sta scritto che è così, alla fine, sembrano assomigliarti davvero tanto, Matteo. Che differenza c’è tra la legalità e questa pantomima della legalità che abbiamo messo in scena? Devo rifare i conti con tutto. Prima di tutto con me stesso. I dannati siamo noi. Mi sento come un vampiro. Scappo dalla luce, evito gli specchi. Ho paura di vedermi, di non riconoscermi più. E allora questa è una lettera di resa. Tu hai vinto, Matteo. E non solo per la sfrontatezza della tua latitanza o per il nuovo patto criminale che hai orchestrato, e che oggi coinvolge interi settori della classe dirigente e della borghesia «impegnata» del nostro paese. Hai vinto perché, più o meno inconsapevolmente, hai fatto in modo che nasca un senso di nausea ogni volta che si parla di antimafia, il tarlo del sospetto: dov’è la fottuta? Dove i tradimenti, i rospi da ingoiare, in nome di «supreme ragioni»? Hai vinto per questo, Matteo, perché abbiamo fatto dell’Italia-Sicilia, e della Sicilia, un pantano. Perché in tanti ti hanno venduto l’anima, pur di ottenere un brandello di potere; ma ne conosco molti – più bestie di qualunque bestia – che te l’hanno addirittura regalata. E sempre più spesso non me li trovo di fronte, me li trovo accanto. Sia maledetta la mafia. Sia maledetta l’antimafia. Sia maledetto anche io.

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 giugno 2016. Caro Dago, sarà perché non ho una grande opinione di tutto quanto attiene alla produzione editoriale fatta all’insegna dell’ “antimafia”, una vera e propria industria con le sue star e i suoi professionisti e i suoi occupati a pieno tempo, fatto è che appena l’ho visto citato su “Il”, il supplemento mensile de “Il Sole 24 ore” diretto da Christian Rocca, mi sono precipitato a leggere questo ultimo libro di Giacomo Di Girolamo (edito dal Saggiatore) che ha per titolo “Contro l’antimafia”. Un titolo leccornia per le mie orecchie. Un libro che sto leggendo con molto piacere e curiosità. Non conosco di persona Di Girolamo, che ha poco meno di quarant’anni, vive a Marsala e di mestiere fa il giornalista, il mestiere di chi va a vedere di persona, e cerca i dati e li mette assieme, e incontra le persone e le interroga con le domande giuste. A Marsala, in Sicilia, dove la mafia non è un’astrazione letteraria ed è di mafia che Di Girolamo si occupa da free lance. Lavora alla radio Rmc101, collabora ad alcuni quotidiani. Se capisco bene è uno che lavora alla maniera di Giancarlo Siani, il giornalista napoletano che si suicidò da quanto si reputava inerme nella sua lotta solitaria contro la camorra; alla maniera di Alessandro Bozzo, un giovane giornalista calabrese che si occupava di criminalità e che si suicidò nel 2013; alla maniera di Giuseppe Impastato macellato dalla mafia siciliana come ormai tutti voi sapete. Da quel che leggo Di Girolamo ne sa benissimo di mafia, e soprattutto di Matteo Messina Denaro, l’imprendibile primula rossa della mafia siciliana. Su di lui aveva scritto nel 2010 un libro pubblicato dagli Editori Riuniti che venne ristampato più volte e di cui non gli hanno mai pagato una sola copia. Per dire della sua vita a Marsala, i portinai del palazzo dove abita non lo salutano più da quando hanno saputo che Di Girolamo riceve continuamente minacce epistolari dai mafiosi. Non essendo una star dell’“antimafia” mi pare di capire che la vita professionale dell’ottimo Di Girolamo sia grama. A un quotidiano a tiratura nazionale cui aveva offerto la sua collaborazione, gli hanno risposto che gli avrebbero pagato un articolo lungo 11 euro e un articolo breve 6 euro. Da quanto leggo nella redazione di Rmc 101 dove Di Girolamo va tutti i giorni non c’è protezione alcuna, e chiunque potrebbe salir su in qualsiasi momento del giorno a fare quello che hanno fatto a “Charlie Hebdo”. Non mi pare, a meno che non abbia letto male, che Di Girolamo abbia la benché minima scorta. E perché mai del resto? Mica è una star, un’icona, un celebrato eroe televisivo dell’ “antimafia” 24 ore su 24? E adesso continuo a leggere il suo bel libro. Giampiero Mughini.

Senza dimenticare i misteri d'Italia.

27 GIUGNO 1980. Ustica. «Quella notte c’era una guerra. Chiedete alla Nato», scrive Giulia Merlo il 30 luglio 2016 su "Il Dubbio”. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo rischierebbero 23 anni di carcere. Sono passati 36 anni dalla notte di venerdì 27 giugno 1980, in cui l’aereo di linea DC-9 della compagnia italiana Itavia esplose e si inabissò nel braccio di mare tra le isole di Ustica e Ponza, nel mar Tirreno. Nel disastro persero la vita tutti e 81 i passeggeri, sulle cause della strage, invece, nessun tribunale ha ancora accertato la verità. Nel corso degli anni, le teorie più dibattute sono quella di un missile stranieri, contrapposta a quella dell’attentato terroristico, con un ordigno esplosivo piazzato nella toilette. Secondo la prima tesi, ad abbattere il DC-9 sarebbe stata una testata francese, destinata ad abbattere un aereo libico con a bordo Gheddafi. La seconda ricostruzione, invece, è quella avvalorata dai fantomatici documenti cui il senatore Carlo Giovanardi ha fatto più volte riferimento. Il giornalista Andrea Purgatori, che in quegli anni era inviato per il Corriere della Sera e che ha pubblicato numerose inchieste sulla strage, smentisce in modo secco la decisività di questo dossier».

Proviamo a fare chiarezza su queste carte coperte dal segreto di Stato?

«Partiamo da un dato incontrovertibile: sulla strage di Ustica non c’è mai stato il segreto di Stato. Quei fatti sono coperti dal segreto militare e ciò significa che, se gli ufficiali rivelassero ciò che è successo quella notte, rischierebbero 23 anni di carcere. Nei documenti che ha visto Giovanardi non c’è nulla che possa davvero chiarire cosa è successo».

E quindi lei cosa pensa che contengono?

«Probabilmente si tratta di dossier che ricostruiscono i rapporti opachi intercorsi in quegli anni tra l’Italia e la Libia, ma non sarebbe certo di una novità. Io penso che quelle carte siano più importanti per capire cosa è successo alla stazione di Bologna poco più di un mese dopo, sempre nel 1980».

Lei ha sempre sconfessato la tesi della bomba nella toilette. Come mai?

«Non sono io a sconfessarla, l’ordinanza di rinvio a giudizio del 1999 parla di aereo «esploso in scenario di guerra aerea». Inoltre le perizie a sostegno dell’ipotesi della bomba sono state scartate perchè i periti sono stati dichiarati infedeli dal tribunale, per connivenze con i periti dei generali coinvolti».

La pista della presenza di caccia stranieri, invece?

«Che quella notte nei cieli italiani volassero aerei non identificati è stato confermato dalla Nato. Attualmente non esiste una sentenza su quella strage, perchè l’inchiesta è ancora in corso. In sede civile, invece, la Cassazione ha condannato nel 2015 i ministeri dei Trasporti e della Difesa al risarcimento dei danni, per responsabilità nell’«abbattimento» del DC-9 e - cito testualmente - ha definito l’ipotesi del missile come causa «congruamente provata»».

C’è chi obietta che gli alti ufficiali coinvolti sono stati tutti assolti nel 2006...

«Attenzione, sono stati assolti in Cassazione dalla condanna per depistaggio, non nel processo sulle cause della strage, tuttora in corso».

2 AGOSTO 1980. Bologna, il buco nero della strage alla stazione. 36 anni dopo, Bologna si prepara ad accogliere i famigliari delle vittime e le commemorazioni. Per non dimenticare l'atto terroristico che provocò 85 vittime. La dinamica e i mandanti, nonostante i processi e le condanne, non sono mai stati chiariti, scrive Michele Sasso l'1 agosto 2016 su “L’Espresso”. La più grande strage italiana in tempo di pace. Ottantacinque morti, più di duecento feriti. Il 2 agosto 1980, un giorno d’estate di un Paese che esiste solo nella memoria, è diventato un tutt’uno con la strage di Bologna. È un sabato quel 2 agosto di 36 anni fa. Le ferie estive che svuotano le città del Nord sono appena iniziate. Chi ha scelto il treno deve passare necessariamente per Bologna, scalo-cerniera per raggiungere l’Adriatico o puntare verso Roma. La stazione è affollatissima dalle prime ore del mattino. I voli low cost arriveranno sono trent’anni dopo. Dopo la bomba alla stazione, che provocò 85 morti, il nostro settimanale preparò un numero speciale e mise in copertina la riproduzione di un quadro di Renato Guttuso, realizzato apposta per l'occasione. Guttuso dette all'opera lo stesso titolo dell'incisione di Francisco Goya Il sonno della ragione genera mostri ed aggiunse la data della strage, 2 agosto 1980, unico riferimento al fatto specifico, vicino alla firma dell'autore. La tavola originale è esposta nel Museo Guttuso. Raffigura un mostro con sembianze da uccello e corpo di uomo, denti aguzzi, occhi sbarrati e di fuoco, che tiene un pugnale nella mano destra e una bomba a mano nella sinistra, e colpisce alcuni corpi morti o morenti, sopra i quali sta a cavalcioni Alle 10 e 25 però il tempo si ferma: 23 chili di tritolo esplodono nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria. Le lancette del grande orologio, ancora oggi, segnano quel tempo e quella stagione di morte e misteri. Un boato, sentito in ogni angolo della la città, squarcia l'aria. Crolla l'ala sinistra dell'edificio: della sala d'aspetto di seconda classe, del ristorante, degli uffici del primo piano non resta più nulla. Una valanga di macerie si abbatte anche sul treno Ancona-Basilea, fermo sul primo binario. Pochi interminabili istanti: uomini, donne e bambini restano schiacciati. La polvere e il sangue si mischiano allo stupore, alla disperazione e alla rabbia. Tanta rabbia per quell’attentato così mostruoso e vile che prende di mira turisti, pendolari, ferrovieri. Perché nessuno anche in quei primi istanti ha mai dubitato sulla matrice terroristica della strage: l'odore dell'esplosivo era inconfondibile. Cominciò quel giorno una delle indagini più difficili della storia giudiziaria italiana. Un iter che ha portato a cinque gradi di giudizio, alla condanna all'ergastolo degli ex Nar Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, e a quella a trent'anni di Luigi Ciavardini. Con un corollario di smentite, depistaggi e disinformazione. Resta la verità giudiziaria della pista neofascista e la strategia della tensione ma rimangono senza nomi i mandanti. I responsabili dei depistaggi, invece, come stabilito dai processi, sono Licio Gelli, P2, e gli ex 007 del Sismi Francesco Pazienza, Pietro Musumeci, Giuseppe Belmonte. Il giorno dei funerali, il 6 agosto, «non era possibile determinare quante persone fossero presenti», come scrisse Torquato Secci, che quel giorno perse il figlio e poi diventò il presidente dell’associazione tra i familiari delle vittime della strage. Non tutte le vittime ebbero, però, il funerale di Stato: solo sette le bare presenti in chiesa in mezzo alle quali camminò il presidente della Repubblica Sandro Pertini, giunto insieme a Francesco Cossiga, presidente del Consiglio dei ministri. Fuori dalla chiesa, la gente in piazza iniziava a contestare le autorità. Solo Pertini e il sindaco di Bologna, Zangheri, ricevettero degli applausi. Ancora prima dei funerali si svolsero manifestazioni in Piazza Maggiore a testimonianza delle immediate reazioni della città. Un moto di indignazione e dolore scosse l’intero Paese. L'Espresso uscì la settimana successiva con un numero speciale: in copertina un quadro a cui Renato Guttuso ha dato lo stesso titolo che Francisco Goya aveva scelto per uno dei suoi 16 Capricci: «Il sonno della ragione genera mostri». Trentasei anni dopo, con l’eredità di ombre, depistaggi e la strategia della tensione per controllare il Paese, si rinnova il ricordo collettivo e personale della strage. Bologna si prepara a rinnovare l’impegno con la “giornata in memoria delle vittime di tutte le stragi”, organizzata dall’associazione dei familiari delle vittime del 2 agosto che tenne viva la memoria e la spinta civile durante l’intero processo.

Il grande vecchio, scrive Gianni Barbacetto il 15 novembre 2009. Sono passati 20 dalla caduta del muro di Berlino. A breve saranno 40 anni dalla bomba alla Banca dell'Agricoltura, a Piazza Fontana a Milano. In questi giorni dove si è celebrata la caduta del muro (e del regime comunista), mi chiedo quanti siano ancora interessati a conoscere la storia oscura del nostro paese. A dare una risposta ai tanti perché degli anni della strategia della tensione. Perché quelle morti, perché quelle bombe. Quale era la strategia che perseguivano, queste persone? Il libro di Barbacetto, che usa la metafora ancora attuale del "Grande vecchio" dà una risposta, a queste domande. “Ci avete sconfitto, ma oggi sappiamo chi siete” dice l'ex giudice che indagò sulla strage alla Stazione di Bologna Libero Mancuso “e andremo in giro a dire i vostri nomi a chiunque ce li chieda”. Compito degli storici o di quelli come me, con la passione per la storia, col vizio di voler coltivare la memoria di ciò che è stato è ricordare. E le pagine del libro, che mettono insieme i fatti di questa guerra che si è consumata, senza che nessuno (o quasi) se ne sia preso la colpa, storicamente e giuridicamente, hanno appunto questo fine: dare la parola ai magistrati che si sono occupati di queste inchieste. Sono loro, una volta tanto, a raccontare una storia di di attentati, stragi e bombe, e delle difficoltà che hanno dovuto affrontare: omertà, depistaggi e veri e propri attacchi sia da parte degli imputati (direttamente o tramite giornali “amici”), sia all'interno dello stato (come nel caso dell'ex presidente Cossiga, nella sua guerra personale contro il CSM). Per la strage di Piazza Fontana, i ricordi del giudice istruttore Giancarlo Stiz e del pm Pietro Calogero, che seguirono il filone Veneto delle indagini: i neofascisti di Ordine Nuovo Franco Freda, Giavanni Ventura, Carlo Maria Maggi, e Pino Rauti (esponente del MSI, tirato in ballo nell'inchiesta dalle confessioni del bidello Marco Pozzan) e Delfo Zorzi. Indagini riprese poi a Milano dal giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio e dal pm Emilio Alessandrini: i primi a intravedere la pista nera sulla strage, mentre in Italia si sbatteva il mostro in prima pagina (l'anarchico Pietro Valpreda e il "suicida reo confesso" Giuseppe Pinelli). E in mezzo i servizi che invece che aiutare l'indagine, si occupavano di esfiltrare dei testimoni: Pozzam, lo stesso agente Guido Giannettini. Processo scippato ai giudici (una costante in tante altre inchieste sull'eversione nera, in Italia) e spostata dalla Cassazione a Palermo. La strage di Piazza della Loggia a Brescia: la bomba esplosa durante il comizio antifascista il 28 maggio 1974. Raccontata attraverso il lavoro dei primi giudici: Domenico Vino e Francesco Trovato; inchiesta riaperta poi dal g.i. Francesco Zorzi, sulle confessioni del pentito Sergio Latini e Guido Izzo. Fra tutti gli episodi raccontati, è l'unico ad avere un procedimento ancora aperto: il processo a Brescia iniziato nel novembre 2008 ha portato a giudizio tra gli altri, un ex politico come Pino Rauti e un generale dei carabinieri, Francesco Delfino. L'inchiesta di Padova sulla Rosa dei venti del giudice istruttore Giovanni Tamburino, che portò alla scoperta di questa organizzazione con finalità eversive che coinvolgeva industriali, ex fascisti, vertici militari (il colonnello dell'esercito Amos Spiazzi) e vertici dei servizi (il generale del Sid Vito Miceli). L'ultimo filone di indagini su Piazza Fontana, portato avanti dal giudice istruttore Guido Salvini a fine anni 80, che si è basato sugli archivi ritrovati in via Bligny (gli archivi di Avanguardia Operaia che contenevano dossier anche sul terrorismo nero, oltre che dossier sulle Br), le rivelazioni del pentito Nico Azzi e dell'artificiere di Ordine Nuovo Carlo Digilio, sul lavoro del capitano dei Ros Massimo Giraudo. Un lavoro che ha permesso una rilettura degli anni del golpe, sempre ventilato, mai attuato, "il golpe permanente". Il golpe Borghese della notte della Madonna del 1970, al golpe bianco di Edgardo Sogno nella primavera del 1974. E prima ancora il “tintinnar di sciabole" del Piano Solo. Un lavoro che permise di rileggere episodi di cronaca, attentati dell'anno nero che fu il 1973. "Alla fine e malgrado tutto, ribadisce Salvini, «un preciso giudizio si è radicato comunque nelle carte dei processi. La strage di piazza Fontana non è un mistero senza padri, paradigma dell’insondabile o, peggio, evento attribuibile a piacimento a chiunque, che può essere dipinto con qualsiasi colore se ciò serve per qualche contingente polemica politica. La strage fu opera della destra eversiva, anello finale di una serie di cerchi concentrici uniti – come disse nel 1995 alla Commissione stragi Corrado Guerzoni, stretto collaboratore di Aldo Moro – se non da un progetto, almeno da un clima comune». «La giustizia vuole più dolore che collera» scriveva Hannah Arendt nel 1961, all’apertura del processo al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme. Alla chiusura dei processi per le stragi, la banalità del male si presenta sotto forma di tentazione a dimenticare per sempre una vicenda con tanti morti, un’insanabile ferita alla democrazia che ha colpevoli, ma non condannati. La verità, nella sua interezza, è affidata ora agli storici. O consegnata ai capricci della memoria: che custodisce i ricordi nel tempo dell’indignazione, e poi li abbandona nel tempo della smemoratezza."

La bomba alla Questura nel 1973. L'inchiesta portata avanti dal giudice istruttore Antonio Lombardi sulla bomba alla Questura di Milano: in particolare, è questa vicenda svela bene quale fosse il disegno dietro tutti gli episodi stragistici. Ovvero addossare tutta la colpa della strage sulla sinistra: Gianfranco Bertoli, con un passato da informatore del Sifar e poi del Sid, doveva recitare la parte dell'anarchico solitario che uccide persone inermi (e il ministro Rumor, reo secondo Ordine Nuovo che aveva organizzato il teatro, di aver avviato l'iter per il loro scioglimento).

Le bombe sui treni in Italia centrale: l'Italicus (4 agosto 1974) e gli altri attentati (il fallito attentato a Vaiano, ad es.), avvenuti nella primavera estate del 1974, per mano dei neofascisti di Ordine Nero: i quattro colpi grossi (assieme alla bomba a Brescia) che avrebbero dovuto preparare il terreno l'ennesima reazione forte dello stato. Reazione che, come nel 1969, non avvenne, come non ci fu nemmeno il golpe solo minacciato dell'ex partigiano bianco Edgardo Sogno, su cui indagò il giudice Violante a Torino. Per l'Italicus, il giudice che ha indagato sulla strage si chiama Claudio Nunziata, che lavorò assieme a Rosario Minna. Ma stesso è lo scenario che si scopre, come per le precedenti inchieste: un organizzazione neofascista (Ordine Nero, di Mario Tuti e Augusto Cauchi), con coperture da parte dei carabinieri e finanziata da un imprenditore di Arezzo, tale Licio Gelli. Nunziata fu definito come un Torquemada dei treni, dai giornali della destra (come Il giornale di Indro Montanelli e di Guido Paglia, esponente di Avanguardia Nazionale). Perché era un magistrato zelante che non guardava in faccia a nessuno: nemmeno nella ricca Bologna massonica. Nunziata non si trattenne nemmeno dal criticare il comportamento della sua procura, per come venivano gestiti i carichi di lavoro e per come non venivano seguite le indagini che riguardavano l'eversione. Su di lui si concentrò un fuoco amico da parte del CSM e anche da parte dell'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga: fu sospeso e lasciato senza stipendio, fino alla sua riabilitazione, avvenuta anni dopo. "in fondo mi è andata bene, altri hanno pagato con la vita" il suo amaro commento.

La strage alla stazione di Bologna. Libero Mancuso iniziò la sua carriera a Napoli: seguì il rapimento da parte delle Br di Ciro Cirillo e assistì alla trattativa di esponenti dello stato con la Camorra di Cutolo per la liberazione dell'assessore. Nauseato, alla fine della vicenda, chiese il trasferimento a Bologna, in cerca di una maggiore tranquillità. Ma il 2 agosto 1980 scoppiò la bomba alla stazione. E il suo capo alla procura gli assegnò un'indagine sull'ex colonnello Amos Spiazzi (un personaggio già emerso nell'inchiesta di Tamburino sulla Rosa dei Venti). Da qui l'inizio dell'inchiesta che lo portò fino alla strage, in cui emerse il ruolo di depistaggio dei vertici del Sismi e della Loggia P2 (nonostante questo l'avvocatura di Stato chiese l'archiviazione del reato di eversione per quanto riguarda la Loggia P2 e Gelli, al processo di Appello). I processo fu, uno tra pochi, ad arrivare a giudizio con una condanna per i responsabili della strage, individuati negli estremisti dei Nar (Fioravanti, Mambro e Ciavardini). Come per altri giudici, anche per Mancuso non mancarono polemiche, diffamazioni, attacchi da parte dei Giornali (Il giornale, Il sabato ..) e persino dal capo dello stato, allora Francesco Cossiga.

La loggia P2: lo stato nello stato. Di questa storia, ne ha parlato Blu Notte recentemente: a partire dai giudici istruttori Gherardo Colombo e Giuliano Turone che, nella primavera del 1983, seguendo una indagine sul finto rapimento di Michele Sindona, si imbattono in questo strano, all'apparenza sconosciuto ma potente imprenditore. Licio Gelli da Arezzo. Dalla perquisizione in uno dei suoi uffici emerge una struttura che comprende i vertici dei servizi, politici, magistrati, giornalisti, politici, industriali (tra cui l'attuale presidente del Consiglio) ... Uno stato dello stato: dalla storia della P2 si capisce meglio l'evoluzione della politica filoatlantica italiana, la guerra non ortodossa compiuta sugli italiani: se nella prima metà degli anni 70 si parlava di golpe e si usavano le bombe per destabilizzare, a partire dal 1974 si usò questa loggia massonica segreta, come camera di compensazione per i poteri forti del paese. Come struttura in qui selezionare la classe dirigente del paese: l'obbiettivo non era più abbattere o sostituire le istituzioni, ma occuparle. Silenziosamente. Nella politica, nei posti chiave della magistratura, nell'informazione, nell'industria. Con l'attuazione del piano di rinascita democratica: un disegno politico quanto mai attuale.

Gladio. L'inchiesta del giovane giudice Felice Casson, a Venezia, che partendo dalla strage di Peteano e dalle confessioni del pentito (con ritardo e con ancora tanti punti aperti sulla sua sincerità), arriva a scoprire Gladio, la struttura italiana dell'organizzazione Stay Behind. Una struttura misto civile militare, addirittura fuori dall'organizzazione Nato e di cui nemmeno tutti i presidenti del Consiglio ne furono a conoscenza (come ad esempio Amintore Fanfani). Una struttura di cui l'opinione pubblica non fu informata: fino all'ammissione della sua esistenza da parte del primo ministro Giulio Andreotti nel 1990, quando ormai l'inchiesta veneziana stava arrivando al termine. Casson partì da qui partì, dai legami tra Gladio e i gruppi della destra eversiva che negli anni 70 compirono attentati in Italia. Una indagine con gli stessi protagonisti delle altre: gli ordinovisti veneti (il medico Carlo Maria Maggi, Franco Freda, Carlo Digilio, l'artificiere-confidente dei servizi); i vertici dei servizi come l'ammiraglio Fulvio Martini, legato anche al Conto Protezione di Craxi/Martelli, che avrebbe portato fino a Gelli. Cosa è Gladio? Solo una storia di arsenali nascosti sui monti del Friuli e forse qualche campo di concentramento in Sardegna, che si sarebbe dovuto usare per gli enuclenandi del Piano Solo? O forse, come in una struttura a scatole cinesi, una dentro l'altra, Gladio era solo il guscio esterno, quelle più presentabile, di altre strutture (come il Noto Servizio o Anello), più nascoste, dalle finalità più ambigue, ai limiti (se non oltre) del codice. Campagne stampa diffamatorie contro esponenti politici o sindacali da togliere di mezzo; l'utilizzo della corruzione come normale sistema di trattativa politica; l'utilizzo della malavita (come la Banda della Magliana, per l'individuazione della prigionia di Aldo Moro da parte della BR) in funzione di braccio armato, che può essere sempre reciso alla bisogna, allo stragismo e terrorismo della cui incredibile durata e virulenza nel nostro paese non è stata data ancora una plausibile spiegazione. E soprattutto, la domanda più importante: siamo sicuri che queste siano solo storie del passato? Se qualcuno, nel passato, ha pensato di mettere una bomba per spostare il baricentro della politica italiana, depistando le indagini della polizia, insabbiandone altre grazie a Procure compiacenti (vi ricordate come veniva chiamata la Procura di Roma? Il porto delle nebbie), cosa sarebbe disposto a fare oggi, per evitare tutti cambiamenti in ambito sociale e politico? Siamo sicuri che i servizi deviati (che poi non è nemmeno giusto chiamarli così, essendo stati solo al servizio di quei poteri forti già attivi nei anni 70) oggi non siano più operativi?

Ma esiste un’altra verità che i sinistroidi tacciono.

L’ultimo segreto nelle carte di Moro: “La Libia dietro Ustica e Bologna”. Da Beirut i servizi segreti avvisarono: “Tripoli controlla i terroristi palestinesi”. I parlamentari della Commissione d’inchiesta: “Renzi renda pubblici i documenti”, scrive il 05/05/2016 Francesco Grignetti su “La Stampa”. Tutto nasce da una direttiva di Matteo Renzi, che ha fatto togliere il segreto a decine di migliaia di documenti sulle stragi italiane. Nel mucchio, i consulenti della commissione d’inchiesta sul caso Moro hanno trovato una pepita d’oro: un cablo del Sismi, da Beirut, che risale al febbraio 1978, ossia un mese prima della strage di via Fani, in cui si mettono per iscritto le modalità del Lodo Moro. Il Lodo Moro è quell’accordo informale tra italiani e palestinesi che risale al 1973 per cui noi sostenemmo in molti modi la loro lotta e in cambio l’Olp ma anche l’Fplp, i guerriglieri marxisti di George Habbash, avrebbero tenuto l’Italia al riparo da atti di terrorismo. Ebbene, partendo da quel cablo cifrato, alcuni parlamentari della commissione Moro hanno continuato a scavare. Loro e soltanto loro, che hanno i poteri dell’autorità giudiziaria, hanno potuto visionare l’intero carteggio di Beirut relativamente agli anni ’79 e ’80, ancora coperto dal timbro «segreto» o «segretissimo». E ora sono convinti di avere trovato qualcosa di esplosivo. Ma non lo possono raccontare perché c’è un assoluto divieto di divulgazione. Chi ha potuto leggere quei documenti, spera ardentemente che Renzi faccia un passo più in là e liberalizzi il resto del carteggio. Hanno presentato una prima interpellanza. «È davvero incomprensibile e scandaloso - scrivono i senatori Carlo Giovanardi, Luigi Compagna e Aldo Di Biagio - che, mentre continuano in Italia polemiche e dibattiti, con accuse pesantissime agli alleati francesi e statunitensi di essere responsabili dell’abbattimento del DC9 Itavia a Ustica nel giugno del 1980, l’opinione pubblica non sia messa a conoscenza di quanto chiaramente emerge dai documenti secretati in ordine a quella tragedia e più in generale degli attentati che insanguinarono l’Italia nel 1980, ivi compresa la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980». Ecco il messaggio destinato al ministro degli Interni, ai servizi italiani e a quelli alleati in cui si segnala che George Habbash, capo dei guerriglieri palestinesi del Fplp, indica l’Italia come possibile obiettivo di un’«operazione terroristica». Va raccontato innanzitutto l’antefatto: nelle settimane scorse, dopo un certo tira-e-molla con Palazzo Chigi, i commissari parlamentari sono stati ammessi tra mille cautele in una sede dei servizi segreti nel centro di Roma. Dagli archivi della sede centrale, a Forte Braschi, erano stati prelevati alcuni faldoni con il marchio «segretissimo» e portati, con adeguata scorta, in un ufficio attrezzato per l’occasione. Lì, finalmente, attorniati da 007, con divieto di fotocopiare, senza cellulari al seguito, ma solo una penna e qualche foglio di carta, hanno potuto prendere visione del carteggio tra Roma e Beirut che riporta al famoso colonnello Stefano Giovannone, il migliore uomo della nostra intelligence mai schierato in Medio Oriente. Il punto è che i commissari parlamentari hanno trovato molto di più di quello che cercavano. Volevano verificare se nel dossier ci fossero state notizie di fonte palestinese per il caso Moro, cioè documenti sul 1978. Sono incappati invece in documenti che sorreggono - non comprovano, ovvio - la cosiddetta pista araba per le stragi di Ustica e di Bologna. O meglio, a giudicare da quel che ormai è noto (si veda il recente libro «La strage dimenticata. Fiumicino 17 dicembre 1973» di Gabriele Paradisi e Rosario Priore) si dovrebbe parlare di una pista libico-araba, ché per molti anni c’è stato Gheddafi dietro alcune sigle del terrore. C’era la Libia dietro Abu Nidal, per dire, come dietro Carlos, o i terroristi dell’Armata rossa giapponese. Giovanardi e altri cinque senatori hanno presentato ieri una nuova interpellanza. Ricordando le fasi buie di quel periodo, in un crescendo che va dall’arresto di Daniele Pifano a Ortona con due lanciamissili dei palestinesi dell’Fplp, agli omicidi di dissidenti libici ad opera di sicari di Gheddafi, alla firma dell’accordo italo-maltese che subentrava a un precedente accordo tra Libia e Malta sia per l’assistenza militare che per lo sfruttamento di giacimenti di petrolio, concludono: «I membri della Commissione di inchiesta sulla morte dell’on. Aldo Moro hanno potuto consultare il carteggio di quel periodo tra la nostra ambasciata a Beirut e i servizi segreti a Roma, materiale non più coperto dal segreto di Stato ma che, essendo stato classificato come segreto e segretissimo, non può essere divulgato; il terribile e drammatico conflitto fra l’Italia e alcune organizzazioni palestinesi controllate dai libici registra il suo apice la mattina del 27 giugno 1980». Dice ora il senatore Giovanardi, che è fuoriuscito dal gruppo di Alfano e ha seguito Gaetano Quagliariello all’opposizione, ed è da sempre sostenitore della tesi di una bomba dietro la strage di Ustica: «Io capisco che ci debbano essere degli omissis sui rapporti con Paesi stranieri, ma spero che il governo renda immediatamente pubblici quei documenti».

Stragi, i palestinesi dietro Ustica e Bologna? Il centrodestra: fuori le carte, scrive giovedì 5 maggio 2016 “Il Secolo D’Italia”. Reazioni, polemiche ma anche approvazione dopo che in una interpellanza presentata in vista della celebrazione solenne il 9 maggio a Montecitorio della Giornata della memoria delle vittime delle stragi e del terrorismo, i senatori Giovanardi, Quagliariello, Compagna, Augello, Di Biagio e Gasparri, hanno chiesto al Presidente del Consiglio di rendere pubbliche le carte relative alle stragi di Ustica e della stazione di Bologna. Gli interpellanti – si legge in una nota – citano gli autorevoli interventi del 2014 e 2015, in occasione della giornata della memoria e dell’anniversario di Ustica, dei Presidenti della Repubblica Napolitano e Mattarella e dei presidenti di Camera e Senato nei quali si chiede di arrivare alla verità «pretendendo chiarezza oltre ogni convenienza» e l’intervista del 3 maggio ultimo scorso del Ministro degli esteri Gentiloni sul caso Regeni, dove afferma testualmente: «La nostra ricerca della verità è al primo posto, e non può essere cancellata da interessi e preoccupazioni geopolitiche». Gli interpellanti ricordano poi di aver potuto consultare il carteggio dell’epoca tra la nostra Ambasciata a Beirut e i Servizi segreti a Roma, relativo ai drammatici avvenimenti del 1979 e 1980, quando si sviluppò un drammatico confronto fra l’Italia da una parte e dall’altra le frange più estreme del Movimento per la liberazione della Palestina con dietro la Libia di Gheddafi ed ambienti dell’autonomia, materiale non più coperto dal segreto di Stato, ma che, essendo stato classificato come segretissimo, rende penalmente perseguibile anche dopo 36 anni la sua divulgazione. La figlia di una vittima chiede chiarezza sulle stragi: «Sconcertata, come figlia di una vittima dell’esplosione del DC9 Itavia, e come Presidente onorario dell’Associazione per la Verità sul disastro aereo di Ustica, nell’apprendere che dopo 36 anni da quella tragedia non sono ancora divulgabili documenti che potrebbero contribuire in maniera decisiva a far piena luce su quella strage», scrive Giuliana Cavazza, presidente onorario dell’associazione citata. «Lunedì sarà celebrata a Montecitorio la giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi: aggiungo la mia modesta voce a quella dei vertici istituzionali che hanno più volte sottolineato la necessità di cercare la verità al di là di ogni convenienza o calcolo politico. Mi auguro pertanto che per quella data il Presidente del Consiglio abbia già assunto la decisione di rendere noto il contenuto dei documenti che solo i membri della Commissione di inchiesta sulla morte di Aldo Moro hanno già potuto consultare». Di diverso avviso Bolognesi: «Ho letto le carte contenute nei faldoni messi a disposizione della Commissione Moro e posso affermare che su Ustica e Bologna non ci sono né segreti, né rivelazioni, né novità. I decenni passano ma i depistaggi sembrano resistere», ha detto infatti Paolo Bolognesi, deputato Pd, presidente dell’Associazione 2 agosto 1980, commentando le recenti notizie di possibili nuovi elementi sulle stragi di Ustica e Bologna contenuti nei documenti consultati dai componenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro di cui Bolognesi fa parte. C’è poi la tesi di Zamberletti: «Torniamo indietro al 2 agosto 1980, data della strage di Bologna. Era il giorno in cui io, da sottosegretario, avrei firmato un accordo italo-maltese. L’accordo, che fu poi firmato regolarmente, prevedeva da parte italiana la garanzia militare sulla sovranità aerea e marittima di Malta. La notizia della bomba alla stazione di Bologna, che ci arrivò quando eravamo a La Valletta, mi diede subito la sensazione della vendetta contro l’Italia». È questa la verità sulle stragi di Bologna e Ustica secondo Giuseppe Zamberletti, all’epoca sottosegretario agli Esteri nel governo Cossiga, in un’intervista a La Stampa. «I libici – dice – esercitavano fino a quel momento un protettorato di fatto su Malta». Zamberletti afferma di essere stato avvertito anche dall’allora direttore del Sismi, il generale Santovito, che gli chiese di soprassedere, poiché Gheddafi considerava Malta “una cosa sua”, «il governo Cossiga però decise di andare avanti. E se oggi Malta è nella Unione europea e non in Africa, tutto cominciò quel giorno. Questi documenti che sono stati desecretati sono un punto di inizio e non di arrivo. È proprio il caso di andare avanti», dice in riferimenti all’interrogazione con cui alcuni parlamentari chiedono di rendere pubblici tutti i documenti: «Nel febbraio 1978 c’era dunque questo accordo tra italiani e palestinesi, ma che ci fossero rapporti tra Gheddafi e certe schegge palestinesi è una grande novità, di cui all’epoca non avevamo assolutamente contezza».

«Vi dico la verità su Ustica: è stata una bomba e veniva da Beirut», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. «Smettetela di chiedere a me di rivelare questi documenti: mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore. È il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier». «Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha il dovere di togliere la dizione "segretissimo" da quelle carte in modo da poterle divulgare, solo così le verità nascoste per trentasei anni verranno finalmente svelate». Non ha dubbi, il senatore Carlo Giovanardi. In qualità di membro della commissione Moro, ha avuto modo di visionare dei documenti che getterebbero nuova luce sulla tragica vicenda del volo Itavia DC-9, inabissatosi nel braccio di Mar Tirreno tra Ustica e Ponza con a bordo 81 persone, il 27 giugno del 1980.

Cominciamo dal principio: cosa è successo a bordo di quell'aereo?

«Nella toilette è esplosa una bomba, che ha provocato la caduta del velivolo e la morte di tutti i passeggeri».

Eppure molte voci sostengono che, quella notte, nei cieli italiani fosse in corso una guerriglia aerea in cui erano coinvolti caccia da guerra francesi e libici e che il volo Itavia sia stato abbattuto da un missile.

«Io mi sono interessato della questione quando ero ministro e su questi fatti ho risposto in Parlamento, sulla base delle fonti ufficiali provenienti dalla Nato e dei dossier dei nostri servizi di intelligence. Ciò che sostengo è suffragato non solo da questo, ma anche da 4000 pagine di perizie, svolte dai maggiori esperti internazionali di aereonautica. Aggiungo anche che ho letto in aula le missive personali indirizzate all'allora premier Giuliano Amato dal presidente americano Bill Clinton e da quello francese Jaques Chirac, in cui entrambi giurano sul loro onore che, durante la notte della strage, nei cieli di Ustica non volavano né aerei americani né francesi».

Gli scettici hanno sostenuto che la bomba nella toilette sia smentita dal fatto che il lavandino è stato ritrovato intatto nel relitto.

«Gli americani, in un documentario prodotto dal National Geographic, hanno preso un vecchio DC-9 e riprodotto l'esplosione, verificando che è ben possibile che il lavello non si sia rotto».

E quindi il mistero riguarda quale mano abbia piazzato la bomba. La risposta sta nelle carte da lei visionate?

«Esattamente. Si tratta di documenti che nessun magistrato ha mai potuto esaminare, su cui da due anni è caduto il segreto di Stato ma che rimangono bollati come "segretissimi" e dunque sono non divulgabili. Il carteggio fa riferimento ai rapporti tra il governo italiano e la nostra ambasciata a Beirut negli anni 1979 e 1980. Io ho potuto esaminarlo in presenza dei membri dei servizi e con la possibilità di prendere appunti, ma quei dossier contengono messaggi dalla capitale libica, alcuni datati anche 27 giugno, che annunciano vittime innocenti e parlano anche di un aereo come obiettivo del Fronte nazionale per la liberazione della Palestina, organizzazione controllata dai libici».

In questi dossier ritorna la teoria del cosiddetto "lodo Moro", ovvero il patto segreto tra Italia e filopalestinesi, che permetteva ai gruppi palestinesi di trasportare e stoccare armi nel nostro territorio a patto di non commettere attentati?

«Certo che quei documenti riguardano il "lodo Moro". E' chiaro che quell'accordo non era stato siglato in carta bollata, ma la sua esistenza è chiara e dalle carte emerge anche come Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina lo considerasse violato nel 1979, quando il governo italiano sequestrò i missili trovati a Ortona e arrestò il militante del Fplp Abu Anzeh Saleh, poi detenuto nel carcere di Trani. Per questo minacciavano ritorsioni contro l'Italia. Tornando a Ustica, ricordo che l'unico governo a non rispondere alle rogatorie italiane è stato quello di Gheddafi».

Ustica è stata una rappresaglia libica, dunque?

«E' stato l'allora ministro Zamberletti a definirla così. Lo stesso che, proprio il 2 agosto (data della strage alla stazione di Bologna) firmava un accordo italo-maltese di assistenza militare e di estrazione petrolifera, che di fatto subentrava a quello tra Malta e la Libia. Secondo Zamberletti, Bologna e Ustica sono state entrambe un avvertimento dei libici al governo italiano e le due stragi sono legate da un filo rosso arabo-palestinese».

Rivelare questi documenti, dunque, fugherebbe qualsiasi ulteriore dubbio sull'ipotesi del missile sul volo Itavia?

«Certo. Eppure faccio notare che, ora che queste carte sono state lette e che io ne chiedo la desecretazione, la presidente dell'associazione delle vittime di Ustica, durante le commemorazioni delle stragi di quest'anno, non ha più chiesto che i dossier vengano pubblicati».

E questo che cosa significa?

«La senatrice Daria Bonfietti (che ha perso un fratello nella strage di Ustica ndr) sostiene che io abbia in mano un due di picche, invece io credo di avere un poker d'assi. I dossier che ho letto svelano la verità su quegli attentati ma, evidentemente, renderli pubblici potrebbe in qualche modo mettere in discussione i risarcimenti che si aggiungono ai 62 milioni di euro già percepiti. La Cassazione in sede civile, infatti, ha riconosciuto un risarcimento del danno di centinaia di milioni di euro all'Itavia, agli eredi Davanzali (ex presidente dell'Itavia) e alle famiglie delle vittime. Ciò nasce da una sciagurata sentenza civile di primo grado, scritta dal giudice onorario aggiunto Francesco Betticani, che teorizza appunto che ad abbattere l'aereo sia stato un missile non meglio identificato. L'appello viene vinto dall'Avvocatura di Stato che, però, commette un errore procedurale. La Cassazione allora annulla la sentenza di appello e rinvia alla Corte, la quale, però, può conoscere solo gli elementi portati dalle parti e non aggiungerne di nuovi. In questo modo è stata confermata in Cassazione civile l'assurda ipotesi del missile, definita "più probabile che no", totalmente smentita invece in sede penale».

In che modo l'ipotesi della bomba cambierebbe le carte in tavola per i familiari delle vittime?

«La risposta è semplice: se si fosse trattato di una bomba, come hanno stabilito le perizie tecniche, la responsabilità di non aver vigilato a Bologna avrebbe coinvolto anche la società Itavia e dunque il Ministero non dovrebbe risarcire le centinaia di milioni di danni. Aggiungo che a ogni famiglia delle persone decedute sono stati assegnati 200 mila euro e i 141 familiari superstiti godono dal 2004 di un assegno vitalizio mensile di 1.864 euro netti, rivalutabili nel tempo».

Che fare dunque ora?

«Innanzitutto smetterla di chiedere a me di rivelare questi documenti, cosa che mi costerebbe 3 anni di carcere e la decadenza da senatore per indegnità morale. E' il governo Renzi ad avere il dovere morale di togliere il segreto sui dossier per amore di verità, così forse - almeno - ripuliremo una volta per tutte l'immaginario collettivo su Ustica, inquinato da sceneggiati e depistaggi».

La colpevolezza dei Nar è un dogma ideologico. Le strane relazioni che intercorrevano tra l'Italia e gli arabi del Fplp, scrive il 02/08/2016 Dimitri Buffa su “Il Tempo”. Anche oggi come da 36 anni a questa parte alle 10 e 25 in punto la città di Bologna si fermerà per qualche minuto. Per commemorare gli 85 morti e i 200 feriti di un attentato che, al di là delle sentenze definitive e della colpevolezza come esecutori materiali ormai appiccicata addosso in maniera indelebile ai tre ex Nar Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Francesca Mambro, rimane ancora avvolto nel mistero. Un po’ di luce però, almeno sul movente lo può fare il libro «I segreti di Bologna», di Valerio Cutonilli e Rosario Priore, rispettivamente un avvocato e un magistrato, entrambi coraggiosi nell’andare contro corrente rispetto alla vulgata che ha voluto che questa strage fosse fascista sin dai primi istanti. Il Tempo già si era occupato di uno dei misteri di questa indagine, ossia la mancata identificazione di un cadavere e la scomparsa di un corpo di una delle vittime. Ma l’indicibile segreto di Stato che forse non sarà mai tolto, perchè è servito all’Italia a non subire più attentati da parte di terroristi palestinesi e medio orientali in genere, compresi quelli dell’Isis (toccando ferro), non è negoziabile nè rivelabile. E dopo gli anni ’70 che avevano lasciato una lunga scia di oltre sessanta morti del tutto rimossi dall’inconscio collettivo ad opera di settembre nero e altre formazioni dell’epoca, oggi se ne conosce il nome: «Lodo Moro». E colui che gli diede il nome non sapeva che un giorno, il 16 marzo 1978 ne sarebbe diventato vittima. Molte indagini infatti hanno acclarato, e il libro le elenca tutte in maniera che anche un bambino di sette anni potrebbe capire, che le armi alle Br in Italia le portarono anche i palestinesi del Fplp di George Habbash. Quel fronte popolare di resistenza palestinese di matrice marx leninista che invano nel febbraio 1978 tramite gli informatori del colonnello Stefano Giovannone, vero e proprio sacerdote della liturgia del «Lodo Moro», soffiò al Viminale della preparazione di un attentato con rapimento di un’alta personalità politica in Italia sul modello del sequestro di Hans Martin Schleyer, il presidente della Confindustria della ex Germania Ovest sequestrato nel settembre 1977 dalla Raf. Insomma se tutte le rivoluzioni finiscono per mangiarsi i propri figli il «lodo Moro» si mangiò suo padre, Aldo Moro. Il libro in questione, quindi, rivela e mette in fila tutti i segreti di Stato legati al «Lodo Moro» a cominciare dal ruolo di Carlos e di Thomas Khram e dei suoi accoliti dell’Ori, organizzazione rivoluzionaria internazionale, nella strage di Bologna, che potrebbe anche essere avvenuta per errore, cioè esplosivo in transito, cosa che spiegherebbe la mancata identificazione di almeno una delle vittime. Per non parlare degli omissis legati alle minacce di ritorsione sempre segnalate dal Sismi di Santovito, che venivano fino a tutto il luglio 1980 da parte dell’Fplp, legate alla vicenda dei missili Strela Sam 7 sequestrati qualche mese prima all’autonomo Daniele Pifano e destinati ai palestinesi. Con annessi arresto di Abu Anzeh Saleh e trattativa per farlo rilasciare dai giudici di Chieti e L’Aquila. Poi c’è la storia del trattato segreto tra Italia e Malta siglato dall’allora sottosegretario Giuseppe Zamberletti a La Valletta proprio un’ora prima della deflagrazione di Bologna. O quella dell’appoggio italiano, sottobanco, al tentato golpe contro Gheddafi fomentato dall’Egitto di Sadat, senza contare la vicenda di Ustica e via dicendo. Verità mai cercate anzi sacrificate da alcuni magistrati sull’altare della ragion di Stato. Moventi precisi, quasi certi, conosciuti da Francesco Cossiga, Giulio Andreotti, Giuseppe Zamberletti, Bettino Craxi, Lelio Lagorio e Giuseppe Santovito. Tragici segreti di Stato e insieme di Pulcinella. Ma che, per evitare che venissero fuori i nostri accordi sottobanco con i palestinesi dell’Olp e del Fplp, nonchè quelli con Gheddafi che includevano l’aiuto a scovare e uccidere i dissidenti libici in Italia, si preferì seppellire sotto i depistaggi ai danni dei Nar. Che in fondo, essendo tutti già condannati per altri omicidi e atti di terrorismo, erano dei capri espiatori perfetti, Ma oggi quando si chiede di togliere i segreti di Stato su Bologna, magari sperando di trovarci dietro chissà quale appoggio occulto della P2 di Licio Gelli, con quale onestà intellettuale si fanno questi appelli? Il «Lodo Moro» e il doppiogiochismo dell’Italia tra «la moglie americana e l’amante libica, e magari l’amichetta palestinese», per citare una felice battuta di Giovanni Pellegrino presidente della Stragi, rimarranno sempre segreti. L’Italia deve accontentarsi dei colpevoli di repertorio. Dimitri Buffa.

Come a sinistra si racconta sempre un'altra storia.

La strage di Bologna: l’intervista di Gianni Barbacetto al giudice Mastelloni. Ad ogni anniversario della strage di Bologna spuntano le rivelazioni su nuove piste e nuovi responsabili per la bomba. Piste e responsabili che spesso si sono rivelati sbagliati o, peggio, dei depistaggi. L'ultimo libro sulla bomba alla stazione: il saggio uscito per Chiarelettere di Rosario Priore e Valerio Cutonilli "I misteri di Bologna". L’1 agosto 2016 sul Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto (autore tra gli altri del libro "Il grande vecchio" sulle stragi e sui segreti italiani) intervista il giudice Carlo Mastelloni, che nel passato aveva indagato sul disastro di Argo 16 e sui contatti tra Br e Olp per lo scambio d'armi. Diversamente da Priore, Mastelloni ha pochi dubbi sull'origine della bomba e sui responsabili: sono stati i neofascisti dei Nar, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. Quest'intervista cancella la tesi dei due autori del libro. E' la più grave delle stragi italiane: 85 morti, 200 feriti. È anche l’unica con responsabili accertati, condannati da sentenze definitive: Valerio Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini. Esecutori materiali appartenenti ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari. La strage di Bologna del 2 agosto 1980, ore 10.25, è anche l’unica per cui sono state emesse sentenze per depistaggio: condannati due uomini dei servizi segreti, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte, e due faccendieri della P2, Licio Gelli e Francesco Pazienza. I depistaggi: fanno parte della storia delle indagini sull’attentato di Bologna (come di tutte le stragi italiane, a partire da piazza Fontana) e arrivano fino a oggi, dopo che sono passati 36 anni. Malgrado le sentenze definitive che attribuiscono la responsabilità dell’attentato ai fascisti nutriti dalla P2, sono continuamente riproposte altre spiegazioni, fantasmagoriche “piste internazionali”. La pista palestinese, più volte presentata in passato, anche da Francesco Cossiga, torna alla ribalta oggi aggiornata dal magistrato che ha indagato sulla strage di Ustica, Rosario Priore. Continua a resistere la pervicace volontà di non guardare le prove raccolte in anni d’indagini e allineate in migliaia di pagine di atti processuali, per inseguire le suggestioni evocate da personaggi pittoreschi e depistatori di professione. Del resto Fioravanti e Mambro, che pure hanno confessato decine di omicidi feroci, continuano a proclamare la loro innocenza per la strage della stazione: non possono e non vogliono accettare di passare alla storia come i “killer della P2”. La definizione è di Vincenzo Vinciguerra, protagonista dell’altra strage italiana per cui c’è un responsabile condannato, quella di Peteano. Ma Vinciguerra ha denunciato se stesso e ha orgogliosamente rivendicato l’azione di Peteano come atto “di guerra politica rivoluzionaria” contro uomini dello Stato in divisa. Su Bologna, sulle 85 incolpevoli vittime, sui 200 feriti, invece, 36 anni dopo restano ancora all’opera i dubbi, le menzogne, i depistaggi. Non ha dubbi: “Cominciamo a mettere le cose al loro posto: la matrice neofascista della strage di Bologna è chiara”. Carlo Mastelloni è dal febbraio 2014 procuratore della Repubblica a Trieste. Non dà credito alla pista internazionale per l’attentato: il giudice Rosario Priore, in un libro scritto con l’avvocato Valerio Cutonilli, spiega la strage con una pista palestinese. “Non l’ho mai condivisa”, dice Mastelloni. In estrema sintesi, secondo i sostenitori di questa ipotesi, la Resistenza palestinese avrebbe compiuto la strage come ritorsione per l’arresto nel novembre 1979 di Abu Saleh, uomo del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), componente radicale dell’Olp di Yasser Arafat, fermato in Italia con tre missili terra-aria tipo Strela insieme a Daniele Pifano e altri due esponenti dell’Autonomia romana. La strage come vendetta per la rottura da parte italiana del cosiddetto “Lodo Moro”, cioè dell’accordo di libero transito in Italia dei guerriglieri palestinesi, in cambio della garanzia che sul territorio italiano non avrebbero compiuto attentati. “Quella pista”, ricorda Mastelloni, “si basa sul fatto che a Bologna la notte prima della strage era presente Thomas Kram; tuttavia, all’elemento certo di quella presenza si è aggiunto il nulla indiziario”. Kram è un tedesco legato al gruppo del terrorista Carlos, lo Sciacallo. Nuovi documenti, ancora secretati perché coinvolgono Stati esteri, sono stati di recente acquisiti dall’attuale Commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro: proverebbero che gli accordi con la Resistenza palestinese hanno tenuto almeno fino all’ottobre dell’80, assicura lo storico Paolo Corsini, che ha potuto leggere quelle carte in qualità di componente dell’organismo parlamentare. Racconta Mastelloni: “Quando il vertice del Sismi (il servizio segreto militare erede del Sid) dopo l’arresto di Pifano e degli altri fu costretto a rivelare la persistenza del Lodo Moro a Francesco Cossiga – che già ne era stato sommariamente informato attraverso le lettere inviate da Moro prigioniero nella primavera 1978 – questi andò su tutte le furie. Soprattutto dopo aver appreso che il transito dei missili era stato accordato al capo dell’Fplp George Habbash dal colonnello del Sid Stefano Giovannone”. La furia di Cossiga, i contatti di Giovannone. In quei mesi Cossiga era presidente del Consiglio. “Appunto. E si arrabbiò moltissimo. Di qui l’atteggiamento furioso di Habbash che rivendicò i missili e la copertura datogli “dal governo italiano” che lui evidentemente identificava in Giovannone, capocentro Sismi a Beirut. Conosco un po’ la personalità di Cossiga: gli piacevano assai certi intrighi internazionali e poi credeva di avere le stesse capacità strategiche di Moro. Per questo è assai facile che il Lodo abbia tenuto fino a tutto il 1980, almeno fino alla conclusione del mandato di Cossiga. È però da escludere che di fronte a una strage come quella di Bologna il Lodo Moro potesse essere idoneo a coprire il fatto. Mi si deve poi spiegare quale utilità avrebbe mai conseguito il Kgb – che aveva avuto alle sue dipendenze Wadi Haddad fino al 1978, così come nella sua orbita si trovava Habbash e lo stesso Arafat capo dell’Olp – colpendo la rossa Bologna”. Cossiga arrivò a dire, in un’intervista al Corriere del giugno 2008, che la strage fu la conseguenza un transito di esplosivo finito male. “Non è assolutamente plausibile. L’esplosivo usato per l’attentato poteva esplodere solo se innescato, non per altri fattori accidentali. La strage fu causata dalla deflagrazione di una valigia riempita con circa 20 chili di Compound B, esplosivo di fabbricazione militare in dotazione a istituzioni come la Nato”. Priore sostiene che l’Fplp di Habbash aveva una così forte influenza su Giovannone e, tramite questi, sul governo italiano, da pretendere che le nostre autorità rifiutassero a statunitensi e israeliani di esaminare i missili Strela sequestrati. “Il dottor Habbash è stato un capo carismatico ma, francamente, penso che i nostri alleati non avessero bisogno di analizzare gli Strela che già conoscevano. Le rivelo che spesi ogni energia –tante missive di richiesta allo Stato maggiore dell’esercito – per avere notizia dei missili sequestrati e poi inviati agli organi tecnici dell’Esercito. Dove si trovavano? Silenzio. Mi fu poi detto nel 1986, dal generale Vito Miceli, che erano stati spediti agli americani per le analisi”. L’ipotesi è che il destinatario ultimo dei missili sequestrati fosse niente di meno che il terrorista Carlos, che stava progettando un’azione clamorosa, un attentato contro i leader egiziano Sadat. “Lo escludo. Nel 1979, Carlos già da anni era stato espulso dal circuito di Fplp. Penso che quei missili fossero in transito e che gli autonomi arrestati si sarebbero dovuti limitare a trasportarli, probabilmente fino al confine svizzero. Si trovava infatti in Svizzera quella che io chiamo la testa del motore, e cioè la centrale del terrorismo palestinese. Mi pare che proprio in quel periodo a Ginevra fosse in programma un’importante conferenza internazionale cui doveva partecipare Henry Kissinger, da anni obbiettivo del Fplp. Carlos aveva assunto il comando dell’organizzazione poi chiamata Separat, vicina ai siriani, e quindi all’Unione Sovietica. Escludo perciò che Carlos avesse bisogno proprio dei due missili di Habbash così come escludo che quest’ultimo si mettesse nelle mani di Carlos per compiere un attentato eclatante nella rossa Bologna”. È dunque solida, da un punto di vista giudiziario, la matrice fascista della strage di Bologna. “Sì. Ricordiamoci innanzitutto il luogo e il contesto: agli inizi degli anni Ottanta, Bologna era ancora la capitale simbolica del Pci. Finiti gli anni del compromesso storico e degli accordi con la Dc, Enrico Berlinguer riposizionò il Partito comunista all’opposizione”. Tanti i testimoni che parlano di Giusva. Responsabile della strage, per la giustizia italiana, è il gruppo dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari di Valerio Giusva Fioravanti. “Lo provano le testimonianze di militanti di primo piano dei Nar: da Cristiano Fioravanti a Walter Sordi, da Stefano Soderini a Luigi Ciavardini. Ma decisiva appare nel contesto della strage la vicenda dell’omicidio Mangiameli. Francesco Ciccio Mangiameli, leader nazionale di Terza Posizione, fu indicato dal colonnello Amos Spiazzi nell’agosto del 1980 come coinvolto nell’attentato. Nel settembre dello stesso anno, Mangiameli venne eliminato dai fratelli Fioravanti, Francesca Mambro e Giorgio Vale a Roma, dopo essere stato attirato in una trappola. Omicidio inspiegabile, se non con il pericolo che ‘Ciccio’ rivelasse quello che sapeva sulla strage di Bologna”.  Giusva Fioravanti e Francesca Mambro erano stati a Palermo, da Mangiameli, nel mese di luglio 1980, per pianificare l’evasione di Pierluigi Concutelli, capo militare di Ordine nuovo. “Sì. Ed è proprio per paura di quanto avevano appreso durante quel viaggio in Sicilia che Giusva era deciso a eliminare anche la moglie e la bambina di Mangiameli. Questo lo ha raccontato il pentito Cristiano Fioravanti, fratello di Giusva”. Cristiano Fioravanti è un personaggio drammatico, grande accusatore del fratello Giusva. È un personaggio credibile? “Certamente sì. In diverse confidenze fatte nel carcere di Palianolo si evince dalle dichiarazioni di Sergio Calore e Raffaella Furiozzi – e in parziali confessioni rese alla Corte d’assise di Bologna, poi ritrattate ma solo su fortissime pressioni del padre dei fratelli Fioravanti, Cristiano ha additato il fratello come responsabile della strage che, nelle intenzioni, non avrebbe dovuto assumere dimensioni così devastanti”. In aggiunta c’è la testimonianza di Massimo Sparti. “Ed è molto importante. Sparti parla di una richiesta urgente di documenti falsi per Francesca Mambro avanzata da un Valerio Fioravanti molto preoccupato che la ragazza fosse stata riconosciuta alla stazione di Bologna. Inoltre, è assolutamente certo che Giusva e Francesca volevano eliminare Ciavardini per aver fatto incaute rivelazioni il 1° agosto alla fidanzata. Stefano Soderini era già stato mobilitato per l’eliminazione del giovane, allora minorenne e ferito in uno scontro a fuoco durante un’azione dei Nar. Non le pare abbastanza per considerare definitiva la matrice fascista della strage?”. Alcuni ritengono però che in tutta la vicenda processuale sia apparsa indeterminata, se non assente, la figura dei mandanti e la motivazione profonda per la strage. “Resta un buco di ricostruzione storica. Ma nessuno può levarmi dalla testa che le continue e pervicaci campagne volte ad accreditare l’innocenza degli attentatori materiali neofascisti non hanno avuto altro esito – anche dopo la sentenza definitiva della Cassazione – che allontanare ancora di più la ricerca dei mandanti e dei loro scopi”. Oggi resta intoccabile quella grande lapide (“Vittime del terrorismo fascista”) all’interno della stazione, con i nomi degli 85morti di Bologna. “Sì, e aggiungo una cosa: quella lapide è tuttora scomoda per parecchi ambienti”.

«Le stragi di Ustica e Bologna? Cercate in medioriente», scrive Giulia Merlo il 2 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il 2 agosto di 36 anni fa, la stazione di Bologna venne devastata da un'esplosione che provocò 85 morti e oltre 200 feriti. Il giudice Rosario Priore racconta la sua verità e spiega il “Lodo Moro”. Che cosa è successo alla stazione Bologna, quel 2 agosto del 1980? A 36 anni dalla strage più sanguinosa del secondo dopoguerra - in cui persero la vita in un’esplosione 85 persone e ne rimasero ferite 200 - la verità processuale è stata stabilita in via definitiva e ha riconosciuto colpevoli i militanti neofascisti dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Giusva Foravanti e Francesca Mambro. Secondo l’ex magistrato Rosario Priore, titolare delle inchieste sulla strage di Ustica e autore con Valerio Cutonilli del libro I segreti di Bologna, la verità storica apre scenari completamente diversi.

Partiamo dall’inizio, perchè lei scarta la pista neofascista?

«Da magistrato rispetto la cosa giudicata, ma sul piano storico la ricostruzione presenta numerose falle, dovute probabilmente al fatto che l’istruttoria del processo è stata molto lunga, il che spesso si presta a inquinamenti di ogni genere. Gli elementi che rimandano alla pista mediorientale, invece, sono molto evidenti e in alcuni di questi mi sono imbattuto in prima persona nei processi da me istruiti».

A che cosa si riferisce?

«Principalmente alle dichiarazioni di Carlos, detto lo Sciacallo e membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Non solo, però, io credo che il primo a raccontare le cose per come andarono fu il presidente Francesco Cossiga, quando parlò di esplosione prematura».

Non si trattò di una strage voluta?

«Io credo non sia stato un atto doloso per colpire deliberatamente Bologna. La mia ipotesi è che l’esplosivo si trovasse lì perchè doveva essere trasportato dai membri del Fronte Popolare fino al carcere speciale di Trani, in cui era detenuto il militante filopalestinese Abu Anzeh Saleh».

A che cosa serviva quell’esplosivo?

«Il quantitativo fa pensare alla necessità di abbattere mura robuste, come quelle del carcere di Trani. Io credo servisse a far evadere Saleh e che sia esploso per errore a Bologna».

Era così facile per forze straniere trasportare armi ed esplosivi in territorio italiano?

«In quel periodo vigeva ancora il cosiddetto “lodo Moro”, che concedeva alle organizzazioni palestinesi il libero passaggio sul suolo italiano con armi, al fine di stoccarle e usarle successivamente, a patto che non agissero in territorio italiano. Di questo patto esistono le prove, come i depositi di armi in Sardegna e in Trentino».

Possiamo parlare di una sorta di disegno internazionale?

«In quegli anni gli attori in gioco erano molti e molto complessi. Da un lato i filopalestinesi, dall’altro gli americani e la Nato. Noi ci trovavamo nel mezzo e Aldo Moro, da politico raffinato quale è stato fino alla sua morte (nel 1978) sapeva che le regole della partita andavano capite e interpretate».

Lei ha indagato anche sulla strage di Ustica, che avvenne il 27 giugno, un mese prima della strage alla stazione, e in cui persero la vita gli 81 passeggeri del volo Itavia, che viaggiava da Bologna a Palermo. In questo caso una verità processuale chiara manca e le ipotesi rimangono molte. Lei vede un legame con la strage di Bologna?

«Io credo esista un legame generale tra i due eventi, come in tutti i fatti di quegli anni. Anche in quella situazione si riverbera il “lodo Moro”, a cui ancora si ispirava la nostra politica estera. In volo quella notte c’erano velivoli stranieri non Nato, che sorvolavano i nostri cieli con il nostro benestare, sfruttando i buchi sul controllo aereo del patto Atlantico».

Quindi lei scarta decisamente la teoria della bomba a bordo dell’aereo?

«L’ipotesi della bomba non regge. Non posso dire cosa sia successo quella notte, è possibile che si sia trattato di una cosiddetta near-collision tra il volo di linea e un altro aereo militare. Anche i radar indicano questa strada, così come il ritrovamento sui monti calabresi di un aereo da guerra libico».

Tornando ai fatti di Bologna, il suo libro ha scatenato molte polemiche e il presidente dell’associazione delle vittime Paolo Bolognesi l’ha messa in guardia dal commettere il reato di depistaggio.

«Non voglio alimentare polemiche ma trovo strane queste sue affermazioni. Lui si è battuto una vita per capire cosa sia successo a Bologna, ma io ho fatto lo stesso, con intento cronachistico. Entrambi abbiamo lo stesso obiettivo, trovare la verità».  

E' nel 2014 quando Luigi Bisignani, uno degli uomini più influenti della storia italiana, decise insieme al giornalista Paolo Madron - ex firma de Il Foglio, Il Giornale, Panorama, Sole24ore e ora direttore di Lettera43 - di svelare le verità più occulte che per moltissimo tempo mossero l'Italia. Politici, industriali, papi, ministri protagonisti di un libro senza precedenti che assume i toni di un romanzo. Il titolo "L'uomo che sussurra ai potenti" è evocativo di un personaggio capo indiscusso del network che guida le nomine più importanti del Belpaese dai ministri a quelle della Rai, dalle banche all'esercito. Un capolavoro da decine di migliaia di copie, edito da Chiarelettere, "L' uomo che sussurra ai potenti. Trent'anni di potere in Italia tra miserie, splendori e trame mai confessate". Descrizione: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è unanimemente riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c'è operazione in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell'esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In questo libro, per la prima volta, Bisignani decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti. Da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. Lui che non appare mai in tv, non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza da questo punto di vista è unica. Ecco come funziona il potere, quello vero, che non ha bisogno di parole e agisce nell'ombra.

Chi è veramente Luigi Bisignani, uomo del mistero? Un identikit dell'uomo che sussurra ai potenti, scrive "Wuz". Un libro Chiarelettere che va esaurito nel giorno stesso in cui arriva nelle librerie. Al centro della curiosità vorace dei lettori, la figura di Luigi Bisignani, affarista conosciuto e temuto da moltissimi politici. Di lui, Berlusconi ha avuto a dire che era "l'uomo più potente d'Italia"... ma quali sono le cose che sappiamo con certezza, su questo Richelieu in sedicesimo la cui discrezione è direttamente proporzionale al potere che è in grado di esercitare? Ecco un breve estratto dal libro-intervista pubblicato da Chiarelettere, e firmato dal giornalista Paolo Madron. Sono solo poche righe, per tratteggiare un carattere che vedremmo bene portato sul grande schermo da Sorrentino, magari sulla falsariga di quella grottesca commedia del potere ammirata ne Il divo (che raccontava dell'esempio cui massimamente Bisignani si è ispirato nella sua quarantennale carriera dietro le quinte, e cioè Giulio Andreotti). Quello di Bisignani è un libro la cui lettura consigliamo; ci permettiamo però di consigliare qualche cautela nel prendere per buono tutto ciò che in esso viene raccontato. Se è vero che l'uomo è arrivato dove è arrivato grazie alle sue capacità strategiche e alla sua grande cautela, infatti, è difficile pensare che all'improvviso Bisignani abbia deciso di mettere sul piatto i segreti di cui è geloso custode (e al cui mantenimento è probabilmente legato l'ascendente di cui gode presso i politici). Più facile invece che Mister B. abbia deciso, anche in seguito alle sue recenti, travagliate vicende giudiziarie, di offrire a (tutti) i suoi potenziali lettori l'assaggio di una cena che sarebbero in pochi ad aver voglia di gustare fino in fondo. Diciamo che in queste pagine si respira il fumo (saporito, non c'è che dire) di un arrosto che il nostro cuoco tiene ben caldo in forno, portata principale che immaginiamo non arriverà a tavola tanto presto. Sul libro: Ministri, onorevoli e boiardi di Stato fanno la fila nel suo ufficio per chiedergli consigli, disegnare strategie e discutere di affari. Luigi Bisignani è riconosciuto come il capo indiscusso di un network che condiziona la vita del paese. Non c’è operazione - si dice - in cui non ci sia il suo zampino, dalle nomine dei ministri a quelle in Rai, nei giornali, nelle banche e nell’esercito. La sua influenza arriva persino in Vaticano. In "L'uomo che sussurra ai potenti", per la prima volta, Bisignani "vuota il sacco" e decide di raccontarsi attraverso aneddoti ed episodi inediti: da Andreotti e la P2 a Berlusconi e Bergoglio. L'uomo che sussurra ai potenti non appare mai in tv, naturalmente. Non scrive sui giornali e disdegna la mondanità. La sua testimonianza - da questo punto di vista - è realmente unica. Quindi questo libro ci offre un cannocchiale privilegiato per gettare uno sguardo da vicino sul potere più forte e inossidabile: il potere vero, che fa economia di parole e si muove con assoluta efficacia fra le stanze di Palazzo.

IDENTIKIT – cosa il signor B. dice di sé stesso:

1. Inguaribile ottimista, amo il sole e il mare;

2. Le mie conversazioni sono rapide, in genere non superano i 15 minuti;

3. Il mio segreto è che resto sempre a disposizione dei miei amici;

4. Non cerco ritorni;

5. So come va il mondo;

6. Non mi piace apparire;

7. Non partecipo a cene con più di sei persone;

8. Gianni Barbacetto mi ha definito L’uomo dei collegamenti;

9. Maurizio Crozza dice che ho più amici di facebook;

10. Qualcuno dice che sono un battitore libero senza padroni né padrini;

11. Io direi che sono uno stimolatore d’intelligenze: quando una persona valida mi piace immagino quale ruolo potrebbe ricoprire.

L'uomo che sussurrava ai potenti. Alter ego di Letta. Regista di mezzo governo. Ispiratore dei manager pubblici. Bisignani è l'uomo ombra della seconda Repubblica. E ora fa tremare il sistema Berlusconi, scrive Marco Damilano su “L’Espresso” il 23 giugno 2011. Al suo successo avevano contribuito una congerie di potentati difficilmente collegabili tra loro, ma che lui era sempre riuscito a usare, manovrandoli come pedine su un'immaginaria scacchiera del potere...". Martedì 21 giugno, solstizio d'estate, il calendario segna san Luigi Gonzaga, ma il san Luigi di piazza di Spagna, confessore di ministre e di boiardi di Stato, non può più rispondere: è agli arresti domiciliari. E qualcuno nei palazzi romani rilegge l'incipit di un romanzo anni Ottanta denso di spioni, cardinali, belle donne, in cui l'autore sembrava volersi descrivere, consegnare la verità più profonda su di sé. "Il sigillo della porpora", si intitolava quella spy-story all'italiana che fu presentata al teatro Eliseo, e peccato che non ci fosse ancora "Cafonal" a immortalare la scena: il ministro degli Esteri Giulio Andreotti recensore entusiasta ("Il gelido protagonista si commuove solo quando gli uccidono la figlia: una pagina di toccante ed eloquente umanità"), il giovane e rampante Giuliano Ferrara, il re dei critici Enzo Siciliano, e in mezzo a loro lo scrittore, il 35enne Luigi Bisignani. Di quella serata indimenticabile resta qualche scatto, null'altro. Dalla condanna per la tangente Enimont a due anni e sei mesi (1994) Bisignani è scomparso dalle cronache: un'ombra che ha attraversato l'intera Seconda Repubblica. E ora l'Ombra torna alla luce, con l'inchiesta di Napoli dei pm Curcio e Woodcock, nel pieno di una nuova traumatica transizione politica. Spiega un notabile a Montecitorio: "Siamo come all'8 settembre: una corte in fuga, un governo che si dissolve, eserciti in rotta. Pezzi di Stato contro pezzi di Stato, apparati contro apparati. Una guerra di tutti contro tutti, che si può concludere solo con un ricambio di classe dirigente. O che soffocherà tutti nei suoi miasmi". Nei palazzi rileggono i verbali dell'inchiesta e riconoscono in controluce nella storia di Bisignani la parabola della politica di questi vent'anni. "Ai tempi di Andreotti, Bisignani era un piglia e porta. Stava in anticamera ed eseguiva. Su uno come Geronzi, Giulio ironizzava: "È come un taxi, anche se conserva la ricevuta"", spiega un ex democristiano di rango. "Dirigenti pubblici, banchieri, consiglieri di Stato, i De Lise, i Calabrò, i Catricalà, erano guidati dai politici. Svaniti i partiti con la bufera Tangentopoli hanno dovuto trovarsi altri referenti". Interessi senza volto. Comunanze e affinità che sostituiscono le sedi visibili. Filiere trasversali. Come quella, ad esempio, personificata da Cesare Previti: in apparenza dormiente e condannato, ma ancora abbastanza influente da far inserire nelle liste per la Camera del Pdl Alfonso Papa, il magistrato distaccato nel ministero di via Arenula e oggi deputato Pdl amante di Rolex e di Jaguar di cui i pm napoletani hanno richiesto l'arresto. La filiera che più si sente minacciata e desiderosa di protezione, però, è un'altra: bastava vedere il balletto improvvisato da Berlusconi nell'aula del Senato, un inconsueto giro di strette di mano tra i banchi del governo per arrivare a stringere davanti a tutti quella del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il dottor Gianni Letta. A legare il sodalizio tra i due, un quarto di secolo fa, fu Bisignani. All'imprenditore di Arcore serviva un presidio a Roma. E Bisignani non ebbe esitazioni, indicò a Silvio l'uomo giusto: il dottor Letta, appunto. Letta da direttore del "Tempo" diventa il decoder di Berlusconi nella capitale, e poi il gran ciambellano di Palazzo Chigi, il governante che nessuno ha votato e di cui nessuno conosce le idee politiche e che pure viene candidato alle più alte cariche. L'inchiesta Bisignani lo fulmina alla vigilia della possibile consacrazione istituzionale, la nomina a senatore a vita e perfino il Quirinale. E se Letta risolve i problemi di Berlusconi, l'Ombra Bisignani è il personaggio che spiccia le faccende di mezzo governo, dei vertici degli enti pubblici, del Gotha dell'impresa privata e dei servizi segreti, da Cesare Geronzi a Fabrizio Palenzona. A lui si affidano i ministri e le ministre di Berlusconi: a Gigi si rivolge con familiarità il titolare della Farnesina Franco Frattini, a lui ricorre il trio rosa Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini. Più confidenziale Stefania ("Se escono le intercettazioni sono rovinata"), più prudente Mara, più ambiziosa Mariastella. Ruota attorno all'ufficio di piazza Mignanelli lo stato maggiore della corrente del Pdl Liberamente ("Forse avrebbero dovuto chiamarsi Bisignanamente", maligna un deputato). Vicino a Bisignani è il titolare delle Infrastrutture Altero Matteoli, tramite il braccio destro Erasmo Cinque. Mentre tra i finiani di Futuro e libertà, capolavoro, si abbeverano ai consigli di Gigi entrambe le anime: il falco Italo Bocchino e la colomba Andrea Ronchi, ministro nel 2008 per grazia ricevuta, forse non solo di Gianfranco Fini. A Palazzo Grazioli l'Ombra può contare sulla vecchia conoscenza Daniela Santanchè: fu lui il regista dell'operazione Destra, quando la Sarah Palin di Cuneo si candidò premier con il partito di Francesco Storace, fu ancora lui a spingerla a fondare l'agenzia Visibilia, per raccogliere pubblicità per "Libero" degli Angelucci. E c'è il sindaco di Roma Gianni Alemanno, che a leggere la testimonianza del suo ex capo di gabinetto Maurizio Basile, usava cenare a casa della mamma di Bisignani, la signora Vincenzina, per discutere del Gran premio a Roma e chiedere a san Luigi di intercedere presso Flavio Briatore. L'aggancio giusto per la F1, manco a dirlo: il figlio di Bisignani lavora in Ferrari e con il presidente del Cavallino Rampante c'è una vecchia simpatia. "Di casa a New York come a Parigi, amante delle lunghe gita in bicicletta e della scultura moderna, Luca Cordero di Montezemolo è diventato un manager tenace con un notevole carisma che, a sentire i sondaggi, l'ha imposto come uno degli italiani più conosciuti", magnificava l'allora redattore ordinario dell'Ansa Bisignani in un sobrio lancio del 15 novembre 1991. Ma c'era da capirlo: emarginato nell'agenzia dopo lo scandalo P2, costretto a occuparsi di camionisti o di poco eccitanti convegni come quello su "Etica e professione" ("Il giornalista deve liberarsi dai cordoni ombelicali del potere economico e politico", tuonava), era stato salvato da Montezemolo: "Nell'89, in occasione dei Mondiali di calcio, noi dell'organizzazione ottenemmo il suo distacco dall'Ansa", ha dichiarato l'ex presidente di Confindustria interrogato dai pm sulle richieste di raccomandazione per l'amico Gianni Punzo e per l'ex compagna Edwige Fenech. Naturale un po' di gratitudine, anche se sono trascorsi vent'anni. Come appare del tutto normale, nel Bisi-mondo, la rete ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie. E la pubblicità di 100 mila euro arrivata dall'Eni a Dagospia per interessamento di san Luigi. Più complicato da spiegare, perfino per un professionista del potere come Bisignani, perché il direttore generale della Rai Mauro Masi si rivolgesse a lui per farsi scrivere la lettera con cui puntava a licenziare Michele Santoro, lo chiamasse con l'assiduità del molestatore e con toni non certo da grand commis: "Je stamo a spaccà er culo". "Mi occupavo di Rai perché ero convinto che Masi non fosse all'altezza", ha provato a giustificarsi il povero Bisignani. E sì che Gigi ha fatto con Mauro coppia fissa: entrambi legati a Lamberto Dini e a Letta, senza trascurare la rive gauche. Tra il 2006 e il 2008 Masi è stato capo di gabinetto di Massimo D'Alema vice-premier del governo Prodi. E anche Bisignani poteva vantare ottima accoglienza dalle parti dell'ex leader Ds: fu lui a portare il direttore dell'Aise, il generale Adriano Santini, dal presidente del Copasir. "Il generale mi chiese una mano per la sua carriera e mi chiese di parlare bene di lui con Letta. Chiesi a D'Alema se potevo portargli Santini, lui mi disse di sì", ha raccontato a Curcio e Woodcock. Anche in questo caso, giurano i protagonisti, nulla di strano: "Conosco Bisignani da 35 anni", ha testimoniato D'Alema. "Lui conosceva mio padre, era presidente della commissione Finanze della Camera, Bisignani era il portavoce del ministro". Nel '77 D'Alema aveva 28 anni ed era il capo dei giovani comunisti, Bisignani ne aveva appena 23 ed era il più giovane piduista. Vite parallele, in un'Italia in cui tutti si conoscono. E in cui, nonostante l'alternanza dei diversi schieramenti al governo, certi nomi non tramontano mai. Ora siamo alla vigilia di un nuovo cambio. Se n'è discusso tre mesi fa, sussurra chi sa, in un incontro a porte chiuse all'Aspen sul tema della riforma dei servizi segreti. Pochi gli invitati, c'erano D'Alema e Giuliano Amato, c'era il prefetto Gianni De Gennaro, incrollabile punto di riferimento di questi anni travagliati anche oltre Atlantico, c'era il presidente dell'Istituto Giulio Tremonti, da molti indicato come il vero beneficiario di un terremoto che fa vacillare i suoi avversari nel governo. Assente il procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco, che indagò su Bisignani ai tempi Enimont e alle cui analisi il ministro dell'Economia è molto attento. In questi ambienti c'è preoccupazione per le conseguenze dell'inchiesta e si discute già della fase successiva: un governo del Presidente. "Berlusconi doveva avere il coraggio di voltare pagina. All'Italia serve un governo forte e credibile e il Cavaliere non ha più carte da giocare", ripetono. Il premier non ci sente, prova a blindarsi nel bunker di Palazzo Chigi tra un voto di fiducia e l'altro, aggrappato a una maggioranza nel caos e a un Letta vistosamente indebolito. Tremonti al Senato per il dibattito sulla verifica non si è fatto neppure vedere. E l'Ombra, intanto, continuerà a far tremare con le sue rivelazioni. Il più consapevole che il game is over, la storia è finita, è proprio lui, Bisignani. "Ora che dalla cima si poteva guardare indietro, gli capitava spesso di chiedersi, rabbrividendo, se avrebbe sfidato ancora l'azzardo come gli era capitato tante volte durante l'ascesa", aveva scritto Bisignani nel suo primo romanzo. Ma adesso il suo azzardo coinvolge un intero Sistema.

“Avrei voluto un amico come lui” – David Gramiccioli omaggia Rino Gaetano, scrive il 14 settembre 2015 "lastella". Riceviamo & pubblichiamo da David Gramiccioli. Dagli anni 70 a oggi non è cambiato niente. Ieri il braccio armato di quel potere occulto e deviato (oggi sempre meno occulto e sempre più deviato) era Franco Giuseppucci detto Er Negro, primo, indiscusso capo della banda della Magliana. Oggi Massimo Carminati, forse non è un caso che il secondo rappresenti l’ideale contiguità con quell’esperienza criminale. Negli anni 70 il fronte criminale romano si arricchì con il commercio della droga, successivamente con il business immobiliare. Oggi, che la droga sembra non essere più il filone aureo di una volta e con la profonda crisi che sta vivendo l’edilizia, si “investe” sulla disperazione umana (immigrati e zingari). Tangentopoli produsse, colossale bluff, una nuova legge elettorale per l’elezione dei sindaci, in molti esultarono all’idea che finalmente sarebbero stati i cittadini, per la prima volta nella storia repubblicana e democratica del paese, a eleggere direttamente un sindaco. In realtà si rafforzò ancora di più il potere politico di alcuni leader che avevano a cuore tutto tranne che il bene e la ripresa del paese. La televisione, il riscontro mediatico fissavano sempre di più i parametri del successo in ogni campo della nostra società. Quando parliamo del nostro paese, della nostra amata Italia, non dobbiamo dimenticarci mai cosa è accaduto dall’8 di settembre 1943 a oggi. Legge truffa subito dopo la morte di Stalin, Capocotta. Tragedia del Vajont, Giorgiana Masi…i rapporti tra massoneria-politica-criminalità. Nessuno come lui ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava: “ma chi me sente”, era consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio, ma nel profondo del suo animo Rino nutriva, lo disse pubblicamente una sera, una grande speranza; quella che un giorno grazie alla comunicazione di massa la gente potesse finalmente comprendere il significato dei testi delle sue canzoni.

Recensione di Giada Ferri dello spettacolo teatrale “Avrei voluto un amico come lui. Omaggio a Rino Gaetano” di David Gramiccioli. Finalmente uno spettacolo teatrale dai contenuti ben scelti e approfonditi che tocca con estrema professionalità e non meno stile una sequenza di vicissitudini italiane per lo più rimaste impunite. Spettacolo che dà il giusto lustro alla figura del diretto ispiratore, il cantautore Rino Gaetano, menzionato con intelligenza e garbo, non tentando di snaturarne la criptica essenza con convinzioni pregiudizievoli nei suoi confronti, ma evidenziando il suo genio nel trattare eventi, di diverse collocazioni spazio-temporali, che gli stanno a cuore. Ci si immerge infatti in un viaggio nella Memoria, condotto magistralmente da David Gramiccioli (giornalista e speaker radiofonico), attraverso alcuni dei più rilevanti fatti di cronaca nera e scandali della storia italiana, dal secondo dopoguerra agli anni ’70, per mezzo della chiave di lettura che il cantautore dà a quei fatti, trasformandoli in frasi cardine delle sue canzoni. Si pensi a “Spendi per opere assistenziali e per sciagure nazionali” (in Fabbricando case) e a “Il numero 5 sta in panchina, s’è alzato male stamattina” (in Nuntereggae più) riferite a personaggi coinvolti nella strage annunciata del Vajont oppure a “Il nostro è un partito serio” (sempre in Nuntereggae più) con tanto di imitazione dell’inflessione dell’allora dirigente del PCI Berlinguer, all’indomani del “Governo delle astensioni”, nel 1976. La stessa frase viene pronunciata anche da Cossiga, sardo pure lui e al tempo Ministro dell’Interno, quando è chiamato a rispondere degli incresciosi fatti dell’anno successivo, che vedono cadere Giorgiana Masi raggiunta da un misterioso proiettile durante una manifestazione. Ancora, ai nomi fatti in Standard, ricordandoci dello scandalo Lockheed e ai nomi censurati alla stessa Nuntereggae più, brano cardine della pièce poiché, come si vedrà, racchiude in sé allusioni anche al delitto Montesi nella sua frase ormai nota “…sulla spiaggia di Capocotta”. Ma questa non è che una modesta anticipazione di quelli che sono gli argomenti toccati dall’autore. David Gramiccioli ha conosciuto la grande forza di Rino Gaetano leggendo i suoi testi. Non ha preteso di interpretarlo ed etichettarlo, ma affronta le vicende contenute nelle sue parole senza preconcetti e infondati collegamenti, come a volte, pur di dare un senso alla sua prematura scomparsa, si sia spinti a fare, costruendone un lato oscuro invece di ammirare le sue doti straordinarie legate alla sua dedizione a tenere sempre gli occhi aperti, nella scelta coraggiosa di smascherare gli intrighi del Potere anziché farne parte. È così quindi che l’autore scrive questa sceneggiatura, con estrema lucidità e oggettività, senza attingere a dietrologie non provate e senza farcire di orpelli e convinzioni personali quegli intrecci nefasti tutti italiani, bensì lasciando lo spettatore alle proprie deduzioni, stimolandone tuttavia l’interesse a saperne di più e favorendone l’utile ragionamento circa i casi trattati. Gramiccioli, oltre ad aver creato uno spettacolo a scopo benefico, ha veramente reso “Omaggio a Rino Gaetano”. I contenuti della sceneggiatura sono fedeli al titolo. Giada Ferri.

“Avrei voluto un amico come lui”, tour itinerante della Compagnia Teatro Artistico d’Inchiesta guidata dal giornalista performer David Gramiccioli. «Nessuno come Rino Gaetano – si legge nelle note di regia – ha cantato la nostra storia, nessuno come lui, cantava “ma chi me sente”, consapevole della solitudine artistica e umana alla quale è condannato il genio. Ma nel profondo del suo animo Rino nutriva – e lo disse pubblicamente una sera – la speranza che un giorno, grazie alla comunicazione di massa, gli italiani potessero finalmente comprendere il significato vero dei testi delle sue canzoni».

Nemmeno al mare si può stare tranquilli.

Cazzotti, toilette da incubo e sesso sfrenato Le spiagge diventano gironi infernali. I vigili di Follonica aggrediti dagli ambulanti ultimo capitolo del degrado estivo, scrive Michela Giachetta, Martedì 02/08/2016, su "Il Giornale". Agenti aggrediti da venditori abusivi in Toscana, centinaia di immigrati che, prima ancora del sorgere del sole, invadono il bagnasciuga in Liguria. Ma anche coppie che fanno sesso in riva al mare, in pieno giorno, senza curarsi dei bambini, che sono lì, a pochi metri, a giocare con la sabbia. E poi la sporcizia, le bottiglie di plastica o di vetro abbandonate, i cumuli di rifiuti che incorniciano panorami che sarebbero solo da ammirare, se non ci fosse quel degrado. Da Nord a Sud, le spiagge italiane sono in preda a incuria, trascuratezza, trattate malissimo in alcuni casi, come se non fossero uno dei nostri patrimoni da tutelare. Gli esempi negativi non mancano. A Castel Porziano, a due passi da Roma, dove c'è anche la tenuta presidenziale, prima ancora di arrivare in spiaggia si è accolti dai parcheggiatori abusivi. La situazione poi si complica se durante la giornata bisogna andare in bagno: le toilette o mancano o sono inavvicinabili per odore e sporcizia. Una situazione di degrado che si può trovare anche in altri posti. A giugno Legambiente Arcipelago ha denunciato le pessime condizioni in cui versa la spiaggia della Cala, a Marciana Marina, nella splendida isola d'Elba: quello che resta di vecchie imbarcazioni giace completamente abbandonato, così come sono abbandonate e fatiscenti le strutture che le ospitano. «Per non parlare della tettoia, ormai ridotta a pochi e pericolosi elementi di copertura». Rimanendo in Toscana, qualche giorno fa, a Follonica (Grosseto), tre agenti della polizia municipale, che stavano effettuando controlli di routine sulle spiagge, sono stati aggrediti da una decina di venditori ambulanti, che si sono opposti a quei controlli, reagendo con calci e pugni contro i vigili. Gli agenti sono riusciti a fermare solo una persona, gli altri sono tutti scappati, creando il parapiglia in spiaggia. Nella stessa località un episodio simile si era già verificato una decina di giorni prima. Scene che hanno a che fare poco col degrado, ma molto con quella serenità che dovrebbe regnare sulle spiagge. In Liguria, invece, ha raccontato La Stampa, centinaia di immigrati, per lo più del Sud America, prima dell'alba, arrivano sulla spiaggia libera di Laigueglia (Savona), per passare una giornata al mare. Partono col buio da Milano o da Torino, spesso in pullman. Quando il sole si sveglia, lì trova già tutti lì, con i loro teli, i giochi per i bambini, i frigoriferi portatili che contengono i loro pranzi fai da te. Le lamentele non mancano: perché la spiaggia a fine giornata bisogna pulirla, ma gli immigrati non hanno speso nulla nelle strutture circostanti, i bagni inoltre sono pochi e comunque insufficienti, così come i controlli. L'assenza di controlli è un leitmotiv che accompagna tutta la penisola: già a maggio, i giornali locali calabresi raccontavano il degrado e l'incuria di alcune spiagge a Vibo Marina, frazione di Vibo Valentia. A giugno a Salerno le proteste dei comitati di zona non sono mancate: nella parte orientale della città gli arenili erano ostaggio di topi scorrazzanti fra i bagnati e blatte volanti, una situazione disastrosa. Anche a Villasimius, in Sardegna, alcune spiagge sono state lasciate al più completo abbandono e piene di rifiuti. Così come a Brindisi, dove a maggio, alcune persone hanno preso il sole circondate non solo dal rumore del mare, ma anche da un cumulo di sporcizia. Non ci sono però solo l'immondizia e i rifiuti con cui fare i conti: che l'estate sia la stagione degli amori, si sa, ma capita che alcuni quel detto lo prendano fin troppo alla lettera: accade che, presi dalla passioni, si spoglino anche di quel poco che hanno indosso per fare sesso in spiaggia, in pieno giorno, sono gli occhi dei bimbi (che forse non capiscono) e sotto gli sguardi degli adulti che capiscono bene e spesso sono costretti a chiamare le autorità competenti per far cessare l'amplesso. È capitato a maggio nelle Marche, a Civitanova: due italiani sono stati denunciati. Stessa sorte di una coppia di tedeschi: in una spiaggia vicino a Venezia un uomo e una donna, completamente nudi, hanno scelto di fare sesso, completamente nudi. Spiaggia che vai, degrado che trovi. E se non è degrado, è trascuratezza. Da nord a sud. Per fortuna però le eccezioni esistono.

Come conoscere gli altri?

Chiedendogli se puoi accendere il climatizzatore in auto o in casa. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da passeggera (anche se posteriore) fa spegnere il climatizzatore in auto, accusando mal di gola, mentre all’esterno ci sono 40°, costringendo gli altri passeggeri ed il proprietario dell’auto a fare bagni di sudore. E la stessa cosa costringerà a fare negli uffici e nelle case altrui. La mancanza di rispetto per gli altri, specialmente verso i familiari, sarà costante ed alla fine, quando l’orlo è colmo e lo farai notare, lo rinnegherà esaltando le sue virtù ed, anzi, ti accuserà di intolleranza e per ritorsione ti affibbierà qualsiasi difetto innominabile.

Chiedendogli come programma le cose da fare.  Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando pretende e dà per scontato l’ausilio altrui, anche quando gli altri hanno programmi alternativi ai suoi.

Chiedendogli cosa pensa delle persone che dalla vita e dal lavoro hanno avuto soddisfazione. Una persona si dimostra veramente quello che è nella vita ed il rispetto che questa non ha in confronto agli altri, quando da nullafacente e nullatenente sparlerà di chi ha successo nella vita e lo accuserà di aver rubato per ottenere quello che egli stesso non ha.

Salvo eccezioni.

"Fiat brava gente": così gli Agnelli hanno rapinato l'Italia lungo un intero secolo, scrive “L’Antidiplomatico il 27 luglio 2016. Hanno deciso di abbandonarla definitivamente anche come sede legale e fiscale, dopo che, scrive correttamente Giorgio Cremaschi oggi, non resta più nulla da spolpare e poi è sempre meglio essere lontano (tra Stati Uniti e Olanda) quando si tratta di chiudere i prossimi stabilimenti o licenziare i prossimi dipendenti. "Come le peggiori classi parassitarie che hanno saccheggiato questo paese nei lunghi secoli della sua spesso triste storia, gli Agnelli lasciano l'Italia dopo aver usato ed abusato del sacrificio di milioni di persone e di una montagna di soldi pubblici. Migrano come cavallette, cavallette europeiste", scrive Cremaschi. Ma la Fiat e la famiglia Agnelli hanno una storia molto lunga legata al nostro paese. In un lungo e dettagliato articolo del 2011 Maria Rosa Calderoni su Liberazione (ripreso anche da Marx 21) la ripercorreva tutto. Il 2011 è un anno importante, l'inizio della rivoluzione di Marchionne di cui subiamo ancora oggi tutti i drammatici effetti nell'Italia di Renzi.  "Mani in alto, Marchionne! Questa è una rapina", concludeva l'articolo di Calderoni. E' giunto il momento che come contribuenti e cittadini derubati ci si mobilitasse per chiedere la restituzione dei nostri soldi. Di Maria Rosa Calderoni su Liberazione. Gioanin lamiera, come scherzosamente gli operai chiamavano l'Avvocato, ha succhiato di brutto; ma prima di lui ha succhiato suo padre; e prima di suo padre, suo nonno Giovanni. Giovanni Agnelli Il Fondatore. Hanno succhiato dallo Stato, cioè da tutti noi. E' una storia della Fiat a suo modo spettacolare e violenta, tipo rapina del secolo, questa che si può raccontare - alla luce dell'ultimo blitz di Marchionne - tutta e completamente proprio in chiave di scandaloso salasso di denaro pubblico. Un salasso che dura da cent'anni. Partiamo dai giorni che corrono. Per esempio da Termini Imerese, lo stabilimento ormai giunto al drammatico epilogo (fabbrica chiusa e operai sul lastrico fuori dai cancelli). Costruito su terreni regalati dalla Regione Sicilia, nel 1970 inizia con 350 dipendenti e 700 miliardi di investimento. Dei quali almeno il 40 per cento è denaro pubblico graziosamente trasferito al signor Agnelli, a vario titolo. La fabbrica di Termini Imerese arriva a superare i 4000 posti di lavoro, ma ancora per grazia ricevuta: non meno di 7 miliardi di euro sborsati pro Fiat dal solito Stato magnanimo nel giro degli anni. Agnelli costa caro. Calcoli che non peccano per eccesso, parlano di 220 mila miliardi di lire, insomma 100 miliardi di euro (a tutt'oggi), transitati dalle casse pubbliche alla creatura di Agnelli. Nel suo libro - "Licenziare i padroni?", Feltrinelli - Massimo Mucchetti fa alcuni conti aggiornati: «Nell'ultimo decennio il sostegno pubblico alla Fiat è stato ingente. L'aiuto più cospicuo, pari a 6059 miliardi di lire, deriva dal contributo in conto capitale e in conto interessi ricevuti a titolo di incentivo per gli investimenti nel Mezzogiorno in base al contratto di programma stipulato col governo nel 1988». Nero su bianco, tutto "regolare". Tutto alla luce del sole. «Sono gli aiuti ricevuti per gli stabilimenti di Melfi, in Basilicata, e di Pratola Serra, in Campania». A concorrere alla favolosa cifra di 100 miliardi, entrano in gioco varie voci, sotto forma di decreti, leggi, "piani di sviluppo" così chiamati. Per esempio, appunto a Melfi e in Campania, il gruppo Agnelli ha potuto godere di graziosissima nonché decennale esenzione dell'imposta sul reddito prevista ad hoc per le imprese del Meridione. E una provvidenziale legge n.488 (sempre in chiave "meridionalistica") in soli quattro anni, 1996-2000, ha convogliato nelle casse Fiat altri 328 miliardi di lire, questa volta sotto la voce "conto capitale". Un bel regalino, almeno 800 miliardi, è anche quello fatto da tal Prodi nel 1997 con la legge - allestita a misura di casa Agnelli, detentrice all'epoca del 40% del mercato - sulla rottamazione delle auto. Per non parlare dell'Alfa Romeo, fatta recapitare direttamente all'indirizzo dell'Avvocato come pacco-dono, omaggio sempre di tal Prodi. Sempre secondo i calcoli di Mucchetti, solo negli anni Novanta lo Stato ha versato al gruppo Fiat 10 mila miliardi di lire. Un costo altissimo è poi quello che va sotto la voce "ammortizzatori sociali", un frutto della oculata politica aziendale (il collaudato stile "privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite"): cassa integrazione, pre-pensionamenti, indennità di mobilità sia breve che lunga, incentivi di vario tipo. «Negli ultimi dieci anni le principali società italiane del gruppo Fiat hanno fatto 147,4 milioni di ore di cassa integrazione - scrive sempre Mucchetti nel libro citato - Se assumiamo un orario annuo per dipendente di 1.920 ore, l'uso della cassa integrazione equivale a un anno di lavoro di 76.770 dipendenti. E se calcoliamo in 16 milioni annui la quota dell'integrazione salariale a carico dello Stato nel periodo 1991-2000, l'onere complessivo per le casse pubbliche risulta di 1228 miliardi». Grazie, non è abbastanza. Infatti, «di altri 700 miliardi è il costo del prepensionamento di 6.600 dipendenti avvenuto nel 1994: e atri 300 miliardi se ne sono andati per le indennità di 5.200 lavoratori messi in mobilità nel periodo». Non sono che esempi. Ma il conto tra chi ha dato e chi ha preso si chiude sempre a favore della casa torinese. Ab initio. In un lungo studio pubblicato su "Proteo", Vladimiro Giacché traccia un illuminante profilo della storia (rapina) Fiat, dagli esordi ad oggi, sotto l'appropriato titolo "Cent'anni di improntitudine. Ascesa e caduta della Fiat". Nel 1911, la appena avviata industria di Giovanni Agnelli è già balzata, con la tempestiva costruzione di motori per navi e soprattutto di autocarri, «a lucrare buone commesse da parte dello Stato in occasione della guerra di Libia». Non senza aver introdotto, già l'anno dopo, 1912, «il primo utilizzo della catena di montaggio», sulle orme del redditizio taylorismo. E non senza aver subito imposto un contratto di lavoro fortemente peggiorativo; messo al bando gli "scioperi impulsivi"; e tentato di annullare le competenze delle Commissioni interne. «Soltanto a seguito di uno sciopero durato 93 giorni, la Fiom otterrà il diritto di rappresentanza e il riconoscimento della contrattazione collettiva» (anno 1913). Anche il gran macello umano meglio noto come Prima guerra mondiale è un fantastico affare per l'industria di Giovanni Agnelli, volenterosamente schierata sul fronte dell'interventismo. I profitti (anzi, i "sovraprofitti di guerra", come si disse all'epoca) furono altissimi: i suoi utili di bilancio aumentarono dell'80 per cento, il suo capitale passò dai 17 milioni del 1914 ai 200 del 1919 e il numero degli operai raddoppiò, arrivando a 40 mila. «Alla loro disciplina, ci pensavano le autorità militari, con la sospensione degli scioperi, l'invio al fronte in caso di infrazioni disciplinari e l'applicazione della legge marziale». E quando viene Mussolini, la Fiat (come gli altri gruppi industriali del resto) fa la sua parte. Nel maggio del '22 un collaborativo Agnelli batte le mani al "Programma economico del Partito Fascista"; nel '23 è nominato senatore da Mussolini medesimo; nel '24 approva il "listone" e non lesina finanziamenti agli squadristi. Ma non certo gratis. In cambio, anzi, riceve moltissimo. «Le politiche protezionistiche costituirono uno scudo efficace contro l'importazione di auto straniere, in particolare americane». Per dire, il regime doganale, tutto pro Fiat, nel 1926 prevedeva un dazio del 62% sul valore delle automobili straniere; nel '31 arrivò ad essere del 100%; «e infine si giunse a vietare l'importazione e l'uso in Italia di automobili di fabbricazione estera». Autarchia patriottica tutta ed esclusivamente in nome dei profitti Fiat. Nel frattempo, beninteso, si scioglievano le Commissioni interne, si diminuivano per legge i salari e in Fiat entrava il "sistema Bedaux", cioè il "controllo cronometrico del lavoro": ottimo per l'intensificazione dei ritmi e la congrua riduzione dei cottimi. Mussolini, per la Fiat, fu un vero uomo della Provvidenza. E' infatti sempre grazie alla aggressione fascista contro l'Etiopia, che la nuova guerra porta commesse e gran soldi nelle sue casse: il fatturato in un solo anno passa da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni, mentre la manodopera sale a 50 mila. «Una parte dei profitti derivanti dalla guerra d'Etiopia - scrive Giacché - fu impiegata (anche per eludere il fisco) per comprare i terreni dove sarebbe stato costruito il nuovo stabilimento di Mirafiori». Quello che il Duce poi definirà «la fabbrica perfetta del regime fascista». Cospicuo aumento di fatturato e di utili anche in occasione della Seconda guerra mondiale. Nel proclamarsi del tutto a disposizione, sarà Vittorio Valletta, nella sua veste di amministratore delegato, a dare subito «le migliori assicurazioni. Ponendo una sola condizione: che le autorità garantissero la disciplina nelle fabbriche attraverso la militarizzazione dei dipendenti». L'Italia esce distrutta dalla guerra, tra fame e macerie, ma la casa torinese è già al suo "posto". Nel '47 risulta essere praticamente l'unica destinataria dell'appena nato "Fondo per l'industria meccanica"; e l'anno dopo, il fatidico '48, si mette in tasca ben il 26,4% dei fondi elargiti al settore meccanico e siderurgico dal famoso Piano Marshall. E poi venne la guerra fredda, e per esempio quel grosso business delle commesse Usa per la fabbricazione dei caccia da impiegare nel conflitto con la Corea. E poi vennero tutte quelle autostrade costruite per i suoi begli occhi dalla fidata Iri. E poi venne il nuovo dazio protezionistico, un ineguagliabile 45% del valore sulle vetture straniere... E poi eccetera eccetera. Mani in alto, Marchionne! Questa è una rapina.

Terrorismo, qualcosa non torna…scrive Diego Fusaro su "Il Fatto Quotidiano" il 26 luglio 2016. Stragi su stragi. Senza tregua. Quasi una al giorno, ormai. Chissà perché, poi, questi orrendi attentati si abbattono sempre nei luoghi pubblici facendo strage di povera gente, di persone comuni, lavoratori e disoccupati, ragazzi e studenti. Mai una volta – avete notato? – che l’ira delirante dei terroristi si abbatta nei luoghi del potere e della finanza. Mai. Mai un signore della finanza colpito, mai uno statista, mai un “pezzo grosso” dell’Occidente. Strano, davvero, che i pazzi alfieri del terrorismo, che in teoria – si dice – avrebbero dichiarato guerra all’Occidente non prendano di mira chi l’Occidente davvero lo governa. Se non ci dicessero un giorno sì e l’altro pure che il terrorismo islamico ha dichiarato guerra all’Occidente si avrebbe quasi l’impressione che si tratti di una guerra di classe – gestita poi da chi? – contro lavoratori, disoccupati, classi disagiate: una lotta di classe tremenda, ordita per tenere a bada i dominati, per tenerli sotto tensione, proprio ora che, mentre stanno perdendo tutto, iniziano a sollevarsi (è il caso della Francia della “loi travail”, uno dei Paesi più colpiti dal terrorismo). E intanto, a reti unificate, ci fanno credere che il nostro nemico sia l’Islam e non il terrorismo quotidiano permanente dell’economia di mercato. Ci fanno credere che il nemico, per il giovane disoccupato cristiano, sia il giovane disoccupato islamico e non il delocalizzatore, il magnate della finanza, il fautore delle “riforme” che uccidono il mondo del lavoro: il conflitto Servo-Signore è, ancora una volta, frammentato alla base. Nell’ennesima guerra tra poveri, della quale a beneficiare sono coloro che poveri non sono. Il terrorismo, quali ne siano gli agenti, è un’arma nelle mani dei potenti: fa il loro interesse. E lo fa per più ragioni. Intanto, perché frammenta il conflitto di classe e mette i servi in lotta tra loro (Islamici vs Cristiani, Orientali vs Occidentali): lo “scontro di civiltà” di Huntington va a occultare la “lotta di classe di Marx”. Il tutto condito con le tirate à la Fallaci. In secondo luogo perché attiva il paradigma securitario, modello “Patriot Act” Usa: per garantire sicurezza, si toglie libertà. Et voilà, il gioco è fatto. In terzo luogo, si crea adesione al partito unico della produzione capitalistica anche in chi avrebbe solo motivi per contestarla: l’Occidente “buono” contro l’Oriente cattivo e terrorista. In quarto luogo, si prepara il terreno – prepariamoci – per nuove guerre: guerre in nome del terrore, come fu in Afghanistan (2001) e non molto fa con i bombardamenti in Siria. Il terrorismo diventa una “opportunità” - sit venia verbo – per guerre di aggressione imperialistiche. Questo lo scenario. V’è poco da stare allegri. Ma è meglio essere informati, se non altro.

La faida dei Ricchi, scrive Piero Sansonetti il 26 luglio 2016 su "Il Dubbio". È logico, è ragionevole che un signore che guadagna circa 18 mila euro al mese (per non fare molto: cioè, per fare il deputato...) si incazzi come un diavolo perché un direttore di telegiornale guadagna troppo, sebbene questo direttore (o questa direttrice) di telegiornale, guadagna circa la metà di lui? Vediamo prima i fatti, e poi proviamo a ragionare, giusto per poche righe. Nel fine settimana è scoppiato lo scandalo Rai. Perché l’azienda - unica in tutt’Italia - ha deciso di rendere noti gli stipendi alti dei propri dipendenti. Cioè tutti gli stipendi superiori ai 200 mila euro lordi all’anno (che, all’ingrosso, equivalgono a un po’ meno di 7000 euro al mese). L’elenco è piuttosto lungo, ma i nomi innalzati sulla croce sono una quindicina. Prima di tutti quello del direttore generale (che è colui che ha dato via libera all’operazione trasparenza) e cioè il famigerato Campo Dall’Orto che prende uno stipendio lordo di 650 mila euro. Poi il presidente, Monica Maggioni, con uno stipendio un po’ superiore ai 300 mila. Poi un gruppetto di direttori di rete o di telegiornale, tutti oscillanti, come la presidente, sui 300 mila. Infine un certo numero di presunti nullafacenti, i quali negli anni scorsi sono stati emarginati e privati dei loro incarichi (per motivi politici, o professionali, o talvolta, magari, di scarsa obbedienza) ma non licenziati in tronco. La pubblicazione di queste cifre ha scatenato un putiferio. I giornali che le hanno riportate (dal “Fatto” al “Corriere della Sera” a “Repubblica” a tutti gli altri), hanno gridato allo scandalo, al tradimento, all’estorsione. E poi hanno gridato allo scandalo i politici, a cominciare da Matteo Orfini, presidente moralizzatore del Pd, e -naturalmente – Fico e tutti i cinque stelle d’Italia. E hanno chiesto innanzitutto che tutti gli stipendi siano tagliati e riportati sotto i 240 mila euro, e poi che siano cacciati via, o comunque privati dello stipendio, i giornalisti superpagati e emarginati, compresi fior di professionisti come, ad esempio, Carmen Lasorella. E’ giusta questa levata di scudi? Il problema – credo – non sono tanto gli scudi, ma chi li leva. Nel senso che la maggior parte degli indignati prende stipendi più alti di quelli per i quali si indigna. I parlamentari, innanzitutto, ma anche i giornalisti. Voglio confessarvi un segreto: so per certo che le grandi firme dei giornali italiani, quasi tutte, guadagnano più di 20 mila euro al mese (cioè, circa mezzo milione lordo all’anno), qualcuno di loro guadagna anche di più. Voi pensate che ogni volta che vanno a ritirare la busta paga si auto-indignano? No. E se glielo fai notare, ti dicono: ma io lavoro per una azienda privata. Embe? Richiede più talento, più merito, e impone più responsabilità dirigere un telegiornale della Rai o dirigere un quotidiano privato, o scrivere un servizio per il tal giornale? E allora da dove nasce questa indignazione? Nasce da una spinta popolare. Alla quale tutti si adeguano. E strillano, strillano, per mettersi in vista. La spinta è anche giusta, intendiamoci, perché – lo ho scritto altre volte – l’eccesso di ricchezze secondo me non è una bella cosa. Il problema è che quelli che si incazzano come api sono gli stessi che urlano plaudenti e ammirati se parlano Santoro, o Floris, o Belpietro, o Giannini o – soprattutto – Crozza o Benigni. E’ questo cortocircuito che mi fa paura: l’indignazione usata come carburante del proprio potere da chi dovrebbe esserne l’oggetto. P. S. Ho una proposta: vietare il diritto all’indignazione a chiunque guadagni più di 100 mila euro all’anno. Immaginate voi che silenzio, nei giornali e in tv...

Non si spende per fare le opere, si fanno le opere per spendere, scrive Giuseppe De Tomaso il 17 luglio 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Duole dirlo in circostanze come questa. Ma la tragedia ferroviaria sulla linea Andria-Corato ha tragicamente messo in risalto l’inadeguatezza delle classi dirigenti meridionali (politiche e burocratiche). Se queste terre del Sud sono ancora le «periferie» dell’Italia, per ripetere la locuzione del Papa ripresa da monsignor Luigi Mansi, vescovo di Andria, davanti al presidente Sergio Mattarella, nell’omelia ai funerali per le vittime della strage del 12 luglio, la responsabilità non va attribuita solo allo Stato centrale, solitamente poco attento al Sud, ma anche o soprattutto alle sue diramazioni territoriali, che non possono certo ritenersi risparmiate da un altro brano dell’omelia vescovile: «Le nostre coscienze sono state addormentate da prassi che ci sembrano normali, ma non lo sono: quelle prassi dell’economia in cui non si pensa alla vita delle persone, ma alla convenienza e all’interesse, senza scrupoli e con piccole e grandi inadempienze del proprio dovere». Il disastro ferroviario di Andria è il paradigma più completo del deficit culturale dei gruppi dirigenti del Sud, un deficit, per molti versi, persino più grave di quello economico-infrastrutturale. Più grave perché stronca la fiducia, l’ottimismo. Se, anche quando i finanziamenti ci sono, si allungano spirali di ritardi, contenziosi, blocchi, da mandare in tilt un computer, figurarsi quando i soldi non ci sono, quando cioè bisogna mettersi in coda sperando in un Babbo Natale romano o europeo. Purtroppo, non si vede via d’uscita. Nel Sud, ma l’andazzo riguarda ormai l’intera nazione, spesso non si spende per fare le opere, ma si fanno le opere per spendere. L’obiettivo non è realizzare migliori servizi pubblici per i cittadini, ma utilizzare i progetti per mungere altra spesa pubblica, da destinare ad apparati privati, come possono essere i cenacoli clientelari ed elettorali in cui si danno di gomito politici di radicamento, burocrati di riferimento e (im) prenditori di sostentamento. La spesa per la spesa. Le opere al servizio della nomenklatura. Non la nomenklatura al servizio delle opere. L’istituto della concessione è istruttivo, a cominciare dalla parola stessa. In diritto amministrativo, la concessione è un atto con cui la Pubblica Amministrazione consente al concessionario l’uso di risorse e/o l’esercizio di attività non disponibili da parte dei privati, e riservate ai pubblici poteri. Traduzione: il Principe «concede» di fatto a un suo devoto il rango di feudatario, con tutti i benefìci e i privilegi che l’elargizione comporta. Oggi, quasi sempre, la concessione consente al concessionario - non solo nel settore ferroviario - di incidere, decidere lui, sui tempi di realizzazione delle opere. Più si rallentano i lavori, più ci si avvicina inadempienti alla data di consegna dell’opera, più crescono le probabilità, anzi la certezza, che alla scadenza dei termini, la concessione venga rinnovata per un altro periodo. E così all’infinito, o quasi. Nell’indifferenza generale e nella capillare complicità tra i protagonisti della vicenda. Ma siccome al peggio non c’è mai fine e a volte non si tocca mai il fondo, dal momento che dopo averlo toccato si può continuare a scavare ancora, prepariamoci nei prossimi mesi a prendere atto di una realtà vieppiù allarmante e frustrante. Da quando, nell’aprile 2016, è entrato in vigore il nuovo codice degli appalti, il numero delle gare è crollato dell’85%. Praticamente è tutto fermo. Il dato lo ha illustrato sabato 16 luglio 2016 a Bari, nel convegno organizzato dalla Guardia di Finanza, il dottor Michele Corradino, componente dell’Anac presieduta da Raffaele Cantone. Ma c’è di più, cioè di peggio. Già a partire da novembre 2015 si era registrata una flessione del 30% delle gare, dovuta all’obbligo per i Comuni di comprare attraverso centrali di committenza, non più da soli. Risultato: il binomio centralizzazione degli acquisti e nuovo codice degli appalti sta devitalizzando, paralizzando il sistema. Le burocrazie comunali temono di sbagliare, le formazioni politiche stanno a guardare. Insieme forse stanno facendo resistenza alle due riforme. Ora. È vero che l’Italia è il paradiso del positivismo giuridico (una legge per qualsiasi inezia). È vero che il ricorso alla giustizia amministrativa (Tar, Consiglio di Stato) spesso assume forme patologiche, ossessionanti e paralizzanti. È vero che il normativismo sfrenato e il proceduralismo bizantino oggi manderebbero in depressione gli antichi giuristi di Costantinopoli. È vero che ciascun comitato rionale si sente investito di un potere d’interdizione che non si sognerebbe nemmeno un taglieggiatore piazzatosi su un sentiero obbligato. Ma lo strabiliante ostruzionismo delle Caste politico-burocratiche nell’applicazione delle leggi dello Stato suscita più di un (angosciante) interrogativo. Qual è il livello di preparazione delle classi dirigenti? E qual è il loro livello di moralità? Possibile che nessuno, o quasi, sappia orientarsi fra i nuovi codici? Cosa c’è dietro lo sciopero bianco, dietro il sabotaggio di ogni novità? Non è semplice rispondere, anche se a pensar male si fa peccato, ma s’indovina. Gira e rigira, la questione non cambia. Il Sud (ma non solo il Sud) è vittima delle sue classi dirigenti, dei loro intrecci, dei loro affari, dei loro conflitti di interesse. Questo ceto dominante, che prima era agrario, poi urbano, e oggi post-industriale, è più spregiudicato di un capitano di ventura cinquecentesco. Bussa a denari non in nome delle opere da realizzare, bensì dei lavori da cominciare e mai terminare. Progettare per spendere, anziché spendere per realizzare. C’è soprattutto questa filosofia perversa dietro la stagnazione-corruzione meridionale e dietro le tragedie umane che si susseguono con una frequenza vertiginosa. Giuseppe De Tomaso.

Il nuovo Codice degli appalti? Un capolavoro: 181 errori. Imprecisioni, sviste e incongruenze di un funzionario sciatto (e anonimo) stravolgono una norma fondamentale. In Gazzetta Ufficiale è stato pubblicato un comunicato di rettifica: 181 errori nei 220 articoli del nuovo Codice degli appalti, scrive Gian Antonio Stella il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Centottantuno errori! Finisse sottomano ai maestri d’una volta, il dirigente di Palazzo Chigi che ha vistato il «Codice degli appalti», quello famoso che doveva «far ripartire l’Italia», sarebbe spedito dietro la lavagna col berretto a punta da somaro. Come si può incasinare una legge fondamentale con 181 errori su 220 articoli? C’è poi da stupirsi se il valore delle gare bandite, in questo caos, è crollato secondo l’Ance del 75%? «Voglio la testa dell’asino», dirà probabilmente Matteo Renzi nella scia del celeberrimo «Voglio la testa di Garcia» di Sam Peckinpah. Anche noi. Nome, cognome, ruolo. Per sapere se magari ha avuto lui pure il premio di «performance» come l’89% (ultimo dato disponibile) degli alti burocrati della presidenza del consiglio. Tutti bravissimi, tutti intelligentissimi, tutti preparatissimi. Sul «somarismo» non ci sono dubbi. La sentenza è della Gazzetta Ufficiale che ha appena pubblicato un umiliante «avviso di rettifica» (che vergogna…) con tutte le correzioni al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 recante: «Attuazione delle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE sull’aggiudicazione dei contratti di concessione, sugli appalti pubblici e sulle procedure d’appalto…». Cinquecentoventisei righe per mettere in fila, come dicevamo, le correzioni a centottantuno errori. Alcune frutto di demenza burocratica. Come l’introduzione di un punto e il trasloco di un punto e virgola: «alla pagina 110, all’art. 97, comma 4, lettera c), dove è scritto: “...proposti dall’offerente;” leggasi: “...proposti dall’offerente.”;» Altre dovute alla negligenza: «Alla pagina 1, nelle premesse, al settimo visto, dove è scritto: “per l’attuazione delle direttive” leggasi: “per l’attuazione delle direttive”;» Altre causate da sciatterie sfuggite alla rilettura: «servizi di ingegnera». Altre ancora generate da evidenti difficoltà grammaticali: «alla pagina 18, all’art. 16, comma 1, al secondo rigo, dove è scritto: “è tenuto ad aggiudicare”, leggasi: “...sono tenute ad aggiudicare...”». Per non dire di spropositi vari: «alla pagina 28, all’art. 25, comma 6, al quinto rigo, dove è scritto: «... in sito dire periti archeologici.” leggasi: “... in sito di reperti archeologici.”» Oppure: «alla pagina 23, all’art. 23, comma 4, al secondo rigo, dove è scritto: “... i requisitigli elaborati ...” leggasi: “... i requisiti e gli elaborati ...”». Fino alle varianti pecorecce: «alla pagina 123, all’art. 105, comma 21, all’ultimo rigo, dove è scritto “...casi di pagamento di retto dei subappaltatori” leggasi “... casi di pagamento diretto dei subappaltatori”». E via così: dov’è scritto «infrastrutture strategiche» va letto «infrastrutture prioritarie», dove «...di cui al presente Titolo...» va letto «di cui al presente capo», dove «“il progetto di base indica ...” leggasi: “Il progetto a base di gara indica”». Dove «la seconda fase, avente ad oggetto» leggasi «il secondo grado, avente ad oggetto». Un delirio, con l’aggiunta di parole rococò: «alla pagina 61, all’art. 53, il comma 7 è da intendersi espunto». Sic. Nella galleria degli orrori, tuttavia, i più mostruosi sono altri. «Alla pagina 30, all’art. 26, comma 6, lettera b), dove è scritto: “... e di cui all’articolo 24, comma 1, lettere d), e), f), g), h) ed i),” leggasi: “... e di cui all’articolo 46, comma 1”». Per capirci: perfino un genio in materie tributarie o contrattualistiche, se i riferimenti sono sbagliati, si schianta. Sbagliare su queste cose, le pietre miliari delle leggi, significa far deragliare anche i fuoriclasse del settore. E il «Codice degli appalti» è pieno di strafalcioni così. «Il “comma 28” leggasi “comma 26”». «Dove è scritto: “... articoli 152, 153, 154, 155, 156 e 157.” leggasi: “... articoli 152, 153, 154, 155 e 156”». «Dove è scritto: “...di cui all’articolo 24, comma 1, lettere d), e), f), g), h) ed i),” leggasi: “... di cui all’articolo 46, comma 1”». Al che verrebbe da urlare: ne avessi almeno indovinato uno! Ora, non c’è al mondo piastrellista che possa posare 181 piastrelle sbagliate su 220, cuoco che possa carbonizzare 181 bistecche su 220, bomber che possa sbagliare 181 rigori su 220... Sarebbero tutti buttati fuori. Tutti. Giuliano Cazzola, sul blog formiche.net ironizza: «Nel Belpaese esiste una presunzione assoluta di corruzione a carico di tutte le opere pubbliche. Il che porta, in primo luogo, a fare delle leggi assurde e inapplicabili, vero e proprio tormentone per le imprese del settore. Ecco un esempio illuminante». Ancora più sferzante il giudizio di LavoriPubblici.it che per primo ha dato la notizia denunciando, al di là degli errori grammaticali o degli svarioni nella punteggiatura, la sostanziale modifica del «44% dell’articolato». «Ciò significa che per quasi tre mesi gli operatori hanno avuto a che fare con un codice difficilmente leggibile, con conseguenze che sono sotto gli occhi di chi ha voglia di fare un’analisi libera da legacci politici», accusa durissimo il sito, «ci chiediamo, e vi chiediamo, se questo è il modo di legiferare e perché il testo originario sia stato predisposto dal dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio dei ministri espropriando il ministero delle Infrastrutture della responsabilità e competenza della predisposizione di una legge che riguarda le infrastrutture ed i trasporti». Rileggiamo il verbo: «espropriando». Segno di uno scontro termonucleare tra due burocrazie. Di qua il ministero, di là Palazzo Chigi. Ma scusate: sarebbero questi i dirigenti pubblici che, stando al dossier del commissario alla spending review Carlo Cottarelli, vengono pagati ai livelli apicali 12,63 volte più del reddito pro capite italiano cioè quasi il triplo, in proporzione, dei colleghi tedeschi? Questi i burocrati che mediamente prendono molto più che i vertici della Casa Bianca? Queste le «eccellenze» che per bocca di una sindacalista sostengono che il loro lavoro «richiede una elevata professionalità» e che «come tutte le cose pregiate, come una Porsche, ha un costo» e che «nessuno si stupisce se costa di più un diamante di una pietra di scarso pregio»? Ci si dirà: non facciamo d’ogni erba un fascio. Giusto. Per evitare generalizzazioni inique occorre però che chi aveva confezionato quello sconclusionato codice degli appalti, che secondo i costruttori ha fatto precipitare del 27% le gare bandite e del 75% il loro valore, venga subito rimosso. Anzi, per dirla a modo suo: espunto.

Mazzette nello spumante. Così pilotavano i processi. Sequestrato un elenco di sentenze a casa di Mazzocchi. Alcune riguardano Berlusconi, scrive Fiorenza Sarzanini il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Interventi al Consiglio di Stato per «aggiustare» i processi. È il nuovo e clamoroso filone di indagine avviato dai magistrati romani dopo la perquisizione effettuata a casa di Renato Mazzocchi, il funzionario di Palazzo Chigi indagato per riciclaggio perché nascondeva in casa oltre 230mila euro in contanti, bustarelle e fascicoli giudiziari. In particolare, alcune decisioni che riguardano Silvio Berlusconi. Gli accertamenti disposti dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Stefano Fava — titolari dell’inchiesta sul gruppo di faccendieri guidati da Raffaele Pizza che avrebbe truccato appalti e orientato nomine e assunzioni in enti pubblici — si concentrano sulle sentenze emesse negli ultimi due anni. E si intrecciano con quelli che hanno portato in carcere Stefano Ricucci. Anello di congiunzione sembra essere il giudice Nicola Russo, indagato e perquisito dalla Guardia di Finanza proprio perché sospettato di aver ottenuto soldi e favori, compreso il pagamento di notti in albergo con una donna, per «pilotare» l’esito dei provvedimenti. Ma i controlli riguardano adesso tutti i giudici componenti dei collegi. Il 4 luglio scorso — quando vengono arrestati Pizza, il suo presunto complice Alberto Orsini e numerosi imprenditori, mentre viene indagato il parlamentare di Ncd Antonio Marotta — gli investigatori del Nucleo Valutario coordinati dal generale Giuseppe Bottillo perquisiscono l’appartamento di Mazzocchi. Si tratta del capo della segreteria dell’allora ministro per l’Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, funzionario del governo per la ricostruzione in Abruzzo. Le intercettazioni telefoniche e ambientali dimostrano che l’uomo è molto legato a Marotta, dunque si cercano eventuali elementi utili all’indagine. E la sorpresa non manca. Come viene specificato nel decreto di sequestro «all’interno di una confezione di vino “Ferrari”, di una confezione di vino “Cavelleri”, di una scatola recante il logo “Frittyna”, tutte chiuse con nastro adesivo, sono occultati 247.350 euro». Una parte del denaro è già chiuso in alcune buste e tanto basta per avvalorare il sospetto che si tratti di tangenti. Anche perché nell’appartamento c’è molto altro: lettere di raccomandazioni e un pacco di sentenze emesse dal Tar e dal Consiglio di Stato. I pubblici ministeri chiedono la convalida del sequestro. Il giudice Pina Guglielmi accoglie l’istanza e nel provvedimento elenca i documenti trovati da Mazzocchi. Ma evidenzia anche il sospetto della Procura sui processi «aggiustati», sottolineando proprio il ruolo del funzionario all’interno delle istituzioni. E tanto basta per dare corpo al sospetto sull’esistenza di una «rete» in grado di orientare le scelte di alcuni giudici amministrativi e delle commissioni tributarie. Scrive la gip: «Circa la somma sequestrata al Mazzocchi, deve osservarsi che depongono nel senso della illecita provenienza l’importo rilevante, le modalità di occultamento, i contenuti della documentazione sequestrata (curriculum vitae di alcune persone, domanda di partecipazione del concorso di tale De Stefano Damiano, ordinanze e sentenze del Tar e del Consiglio di Stato relative a contenziosi nei quali è parte Silvio Berlusconi). Detti elementi, complessivamente valutati, inducono a ritenere che Mazzocchi, grazie al lavoro che svolge (dipendente della Presidenza del Consiglio) sia il referente di persone interessate a concorsi pubblici o a giudizi amministrativi e che abbia ricevuto quel denaro di tali opachi contatti. A ciò si aggiunge che l’unica ragionevole spiegazione al fatto che Mazzocchi abbia scelto di occultare in casa una somma così rilevante, esponendosi in tal modo a tutti i gravi rischi conseguenti, può essere rappresentata solo dalla consapevolezza di non poterne dimostrare di averne acquisito la disponibilità in maniera lecita, a conferma, almeno in termini di fumus, che la somma proviene da un delitto che potrebbe essere il millantato credito o la corruzione». Nelle conversazioni di Pizza e di Marotta si parla spesso del Consiglio di Stato. Entrambi mostrano dimestichezza con i giudici. In un colloquio del 9 gennaio 2015 con Davide Tedesco, stretto collaboratore del ministro dell’Interno Angelino Alfano, Pizza dichiara: «Tanto per essere chiari io ho bloccato il sistema elettorale, se non era per me non si votava... perché vedi i miei rapporti, la dimostrazione è questa, io sono riuscito con i miei rapporti... nonostante c’erano il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio, il Ministero degli Interni... con i miei rapporti sono riuscito a bloccare il sistema... il Consiglio di Stato ha dato ragione a me...». In questo «sistema» emerge il ruolo Nicola Russo, il giudice accusato di aver favorito Ricucci. Molti indagati ne parlano e le verifiche svolte sul suo conto hanno fatto emergere i regali e i favori ottenuti. Come le due notti presso l’hotel Valadier di Roma «insieme all’amante Zaineb Dridi, dove Ricucci lo ha accompagnato nel marzo scorso e lo ha contatto il giorno successivo». E dove, questo è il sospetto dei magistrati, ha pagato il conto.

Un giudice tarantino nello scandalo Ricucci. Si tratta di Nicola Russo, magistrato del Consiglio di Stato: è indagato, scrive Taranto Buona Sera il 23 luglio 2016.  È tarantino il giudice coinvolto nello scandalo che ha portato agli arresti l’immobiliarista Stefano Ricucci e l’imprenditore Mirko Coppola. Il magistrato è Nicola Russo, cinquantenne, in servizio al Consiglio di Stato e componente della Commissione tributaria regionale del Lazio. L’inchiesta riguarda un giro di fatture false per un milione di euro e un presunto aggiustamento di sentenze grazie alle quali Ricucci avrebbe ottenuto enormi vantaggi economici. Il caso, come è noto, è esploso con gli arresti eseguiti dal nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza su disposizione del Gip di Roma, nell’ambito di una inchiesta sul fallimento di una delle società del Gruppo Magiste, riconducibile a Ricucci. Veniamo al ruolo che avrebbe avuto il magistrato tarantino. Da quanto emerso dagli accertamenti disposti dal procuratore Paolo Ielo, il magistrato avrebbe ottenuto favori per pilotare alcune sentenze. Ma quali favori avrebbe ottenuto da Ricucci? Soldi, innanzitutto. Secondo quanto scrive Repubblica, per gli inquirenti «è altamente probabile» che Russo «sia stato indebitamente retribuito da Stefano Ricucci in cambio della indebita rivelazione e/o anche dello sviamento della decisione in favore della società del gruppo Magiste». A questa presunta indebita retribuzione, gli inquirenti fanno risalire l’acquisto da parte del giudice Russo di una Porsche Cayenne e di un immobile. Acquisti, sempre secondo l’ipotesi accusatoria, effettuati dopo il deposito di una sentenza della Commissione Tributaria che avrebbe fatto maturare a Ricucci un credito da 20 milioni di euro. Nelle carte dell’inchiesta si fa riferimento allo «smodato tenore di vita» del magistrato. Nella storia c’è anche un particolare piuttosto piccante: Ricucci avrebbe pagato il soggiorno del magistrato in compagnia di una donna, tale Zaineb Dridi, all’hotel Valadier di Roma. Tutte circostanze che Ricucci, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera, smentisce: «Non ho mai pagato il giudice Russo e nemmeno gli ho pagato l’albergo. Russo l’avrò visto una volta in vita mia e di sicuro dopo che era già uscita la sentenza». C’è da dire che la Procura della Repubblica di Roma aveva chiesto per il magistrato l’interdizione dalla professione, richiesta non accolta dal gip. Il giudice Russo resta comunque indagato.

La verità di Zaineb Dridi, con una lettera inviata alla stampa che ha fatto il suo nome accostandolo alla vicenda Ricucci-Russo e pubblicata solo su "Affari Italiani" il 14 agosto 2016. "Spett.li redazioni in indirizzo, con la presente e-mail, io sottoscritta Zaineb Dridi, intendo chiarire il macroscopico travisamento dei fatti in base al quale sono stata assurta addirittura a prova dei legami tra Stefano Ricucci e il giudice Nicola Russo, nonché falsamente e ingiustamente apostrofata all’interno di atti giudiziari quale “amante/meretrice” di quest’ultimo, con mio grande stupore e sgomento: e io che pensavo che le indagini e la giustizia fossero una cosa seria! Non conosco assolutamente il loro grado di conoscenza - come apparirà chiaro da quanto di seguito narrato -  ma conosco ovviamente la verità dei fatti che mi riguardano e che diverge totalmente da quanto riportato da alcuni di Voi negli articoli pubblicati dal 20 al 25 luglio scorso. Anzitutto desidero precisare che solo ora, a distanza di 20 giorni, sto trovando quel minimo di forza per contattarvi e affrontare questa vicenda per me drammatica: vi posso garantire che mi avete distrutto la vita e violentata nell’animo. Vi spiego ora come stanno le cose. Io non ho nessunissima relazione con Nicola Russo se non in quanto padre della mia migliore amica: io e la figlia siamo amiche intime da ormai due anni e di conseguenza è del tutto naturale che io ne conosca anche il padre, il quale diverse volte ha accompagnato la figlia intrattenendosi con noi in alcune delle numerosissime nostre serate trascorse insieme, da padre moderno e premuroso. Dunque io non ho mai passato un istante da sola con il giudice Russo, ma sempre alla presenza della figlia! Questo che vi sto dicendo lo posso provare con centinaia di foto e video (meno male che ho questa mania) fatti con il mio telefonino, con tanto di indicazione di data, ora e luogo, compreso un video fatto nella fatidica sera dell’8 marzo (nonché fiumi di conversazioni e messaggi vocali su WhatsApp sempre con la figlia). Quella sera eravamo una grossa tavolata a cena al “Bolognese” (tra cui Nicola Russo e la figlia) e verso fine cena abbiamo incontrato, ritengo per caso, un’altra comitiva con diverse amicizie in comune con la mia e nella quale c’era anche Stefano Ricucci. Quest’ultimo è una persona che ho incontrato pochissime volte per caso nei locali romani, si contano a stento sulle dita di una mano: in due anni che frequento Roma saranno state tre o quattro volte al massimo e con lui non ho alcun grado di conoscenza, benché mi abbia chiesto il numero di telefono io non glielo ho mai dato. Tornando a quella sera, si è deciso poi di continuare la serata andando a ballare tutti insieme all’hotel “Valadier”, dove come noto si svolgono tra le più belle feste serali romane. Ci siamo dunque spostati in gruppo con diverse macchine di proprietà e taxi tutti quanti pieni e insieme. Quindi non risponde minimamente al vero che Ricucci abbia accompagnato me e Russo al predetto hotel per avere un rapporto sessuale a pagamento. Continuando la narrazione della vicenda, siamo arrivati al Valadier dove abbiamo trascorso la serata ballando tutti quanti in comitiva e come vi dicevo ho anche un video di questo. In particolare, ricordo che Nicola Russo è rimasto pochissimo lì, forse mezz’ora e poi è andato via, presumo a casa da sua moglie. Io, invece, sono rimasta a ballare insieme alla figlia e ad un’altra mia amica intima e durante la serata Ricucci ha cercato di parlare, approcciare credo con me, ma io non gli ho dato alcuna particolare confidenza se non due chiacchiere di cortesia. A fine serata, siccome si era fatto molto tardi ed eravamo stanchissime, abbiamo deciso (io, la figlia di Russo e la mia suddetta amica, pronta a testimoniare) di rimanere a dormire lì al Valadier e a quanto so il conto della camera l’ha pagato il padre della mia amica, Nicola Russo. Preciso peraltro che non è la prima volta che io e la figlia Russo o l’altra mia amica dormivamo insieme in quell’hotel (circostanze documentate con numerose foto, selfie e video fatti nelle camere dell’hotel insieme) dove sono da tempo registrata. La mattina seguente, in camera è arrivata una telefonata da parte di Ricucci, da quanto ho capito sotto intercettazione, alla quale purtroppo ho risposto io. Ed in base a questa telefonata, intercettata dalla Guardia di Finanza, e nella quale Ricucci parlando con la reception faceva il mio nome e quello di Russo, non sapendo a che nome era prenotata la stanza (ma sapendo che ero lì a dormire con la figlia), facendosi transitare l’interno con il fine di parlare con me per invitarmi a pranzo e chiedere il mio numero di cellulare, richieste che ovviamente declinavo. Ebbene, da questa telefonata hanno costruito un castello: quanto si legge nei miei riguardi negli atti giudiziari è frutto del desiderio degli investigatori di far quadrare il cerchio e provare, in qualche modo o in qualsiasi modo, che Ricucci abbia pagato Russo e con lui avesse un’amicizia intima. Sono cose che io non so assolutamente e sono stata tirata in mezzo senza neanche uno straccio di prova. Hanno costruito un castello, ripeto, su base meramente indiziaria e sono stata usata, triturata come persona per una banale telefonata: …forse perché sono di origine straniera e dunque non valgo niente, non ho una dignità di persona… o forse perché l’equivalenza straniera-prostituta viene facile…ma così non è giusto, ne ho versate di lacrime nelle notti insonni per questo…Nessun’altra prova, neanche indizio! Se fossi stata l’amante di Russo avrebbero dovuto intercettare almeno qualche nostra telefonata intima, qualche messaggino amoroso, e invece niente! O se fossi stata una “meretrice” al soldo di Ricucci doveva avere almeno il mio numero di telefono, non credete??? E invece anche qui nulla di tutto questo, neanche una telefonata intercettata tra noi! Mi chiedo allora perché farmi tutto questo…distruggere chiunque pur di provare un reato…Questa storia, da quel 20 luglio, mi ha veramente rovinato la vita. Nonostante tutta la sofferenza che sto patendo ho trovato la forza per ribellarmi a questa brutale violenza subita: ora ho capito che le parole unite alla superficialità di chi indaga possono fare più male di qualsiasi altra cosa. Non sono un’esperta, ma basta vedere un qualsiasi film poliziesco per sapere che sarebbe bastato controllare le celle telefoniche agganciate quella notte dai nostri telefoni per verificare che in quell’hotel Nicola Russo non c’era ma c’eravamo io, sua figlia e un’altra mia amica. Quanto vi sto dicendo, l’ho anche dichiarato alla Guardia di Finanza il giorno 20 pomeriggio, quando sono stata ascoltata come persona informata sui fatti dopo l’arresto di Ricucci e dopo che quell’ordinanza riportata nei quotidiani, per me fatidica, era purtroppo già stata scritta. Sperando, questa volta, che sia chiara la verità, perché questa è la verità dei fatti! Per quanto sopra esposto, confido nella pubblicazione della mie dichiarazioni, oltre che per dovere di cronaca, anche a parziale ristoro della mia reputazione e onore, gravemente lesi, e per migliorare il mio stato di salute. Distinti saluti. Zaineb Dridi"

La “casta” dei giudici sui colleghi che sbagliano. Dal caso Ricucci al caso Saguto e a quello Esposito. Il guanto di velluto sui magistrati indagati, la sanzione è un trasferimento, scrive Luciano Capone il 22 Luglio 2016 su "Il Foglio". “Che fate, m’arrestate pe’ due carte?”, avrebbe detto Stefano Ricucci ai finanzieri che l’hanno portato in carcere. Le due carte in realtà sarebbero servite al rampante odontotecnico di Zagarolo a recuperare un credito da 20 milioni di euro che la sua società in liquidazione, la Magiste, vanterebbe con l’Agenzia delle Entrate. Almeno queste sono le accuse e più specificamente: fatture false, evasione fiscale, corruzione e rivelazione del segreto d’ufficio. Per riuscire in quest’operazione però si è servito, sempre secondo l’accusa, dell’aiuto dell’imprenditore Mirko Coppola, anch’egli arrestato, e del magistrato Nicola Russo che invece è solo denunciato a piede libero. Eppure il giudice del Consiglio di stato è una figura centrale in questa vicenda. Russo era infatti anche giudice relatore della commissione tributaria regionale che ha giudicato il credito vantato da Ricucci, dopo che la commissione provinciale aveva bocciato la richiesta dell’imprenditore. Secondo la procura, Russo sarebbe stato corrotto da Ricucci con donne e soldi per ribaltare la sentenza e comunicarne in anticipo l’esito per permettere a Ricucci, tramite un complice, di ricomprare per pochi soldi il credito da 20 milioni, che dopo la prima sentenza valeva poco o nulla. La sentenza favorevole viene fatta filtrare a Ricucci, che può raggranellare i soldi, e nel testo contiene “interi passaggi della memoria Ricucci, errori di battitura inclusi”. Le prove della corruzione sarebbero l’acquisto da parte del giudice di un’auto e di una casa dopo la sentenza e la presentazione da parte di Ricucci di una signorina con cui il giudice soggiorna in hotel. Per il gip però non c’è corruzione: a Russo viene attribuita “solo” la rivelazione del segreto d’ufficio, ma viene comunque respinta la sospensione interdittiva chiesta dai pm. Il processo deve fare il suo corso. Intanto Ricucci viene arrestato perché può ancora delinquere, mentre il giudice accusato di rivelare segreti d’ufficio resta a fare il suo lavoro. Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, intervistato dal Fatto all’epoca delle dichiarazioni del presidente dell’Anm Piercamillo Davigo sui politici ladri, diceva: “Anche tra noi ci sono corrotti e collusi, ma noi non aspettiamo che un magistrato venga condannato in Cassazione per rimuoverlo”. E invece pare che la “casta” dei magistrati riservi a sé criteri molto più laschi di quelli richiesti alla “casta” dei politici. Un esempio è quello dell’ex pm di Milano Ferdinando Esposito – nipote dell’ex procuratore generale di Cassazione Vitaliano e figlio del giudice Antonio, presidente del collegio che ha condannato Silvio Berlusconi nel processo Mediaset – condannato pochi giorni fa a 2 anni e 4 mesi per aver indotto una persona a pagargli l’affitto. Esposito era salito agli onori delle cronache perché, prima che il padre condannasse Berlusconi, si era presentato più volte ad Arcore dal Cavaliere per ottenere (senza successo) una candidatura e quando emersero le gravi accuse e il fatto che avesse vissuto per anni in un appartamento nel centro di Milano pagatogli da un imprenditore, venne punito dal Csm con un trasferimento al tribunale di Torino, dove ora fa il giudice. E lo stesso “pugno di ferro” è stato usato in quello che probabilmente è uno dei principali scandali che ha colpito la magistratura italiana, il cosiddetto “caso Saguto”, l’inchiesta in cui l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo Silvana Saguto è indagata per aver amministrato l’immenso patrimonio sequestrato alla mafia come una proprietà privata, assegnando profitti e consulenze a parenti, amici e amici degli amici. In quella vicenda è finito indagato anche il giudice Tommaso Virga, padre di Walter, il giovane avvocato a cui la Saguto ha affidato incarichi milionari. Di fronte a condotte ritenute gravi e ricorrenti il Csm ha punito la Saguto con la sospensione e la riduzione di un terzo dello stipendio, mentre Virga padre è stato trasferito alla Corte d’Appello di Roma, quasi un premio. Invece al giornalista Pino Maniaci, grande accusatore della Saguto e di Virga dalla sua Telejato, è stato imposto il divieto di dimora per una presunta estorsione da qualche centinaio di euro. “Te lo dico per esperienza, da figlio di magistrato – diceva in un’intercettazione Walter Virga – pure se non fossero falsità, e lo sono, fino al terzo grado di giudizio 8 mila magistrati ne difendono uno”. Sicuramente esagerava, ma non più del procuratore Roberti.

Corruzione, le carte dell'inchiesta Tangenti in cassette di sicurezza e a casa le sentenze da ricopiare. Tra i documenti sequestrati, il ricorso di Berlusconi contro Bankitalia. Per i pm, i giudici del Consiglio di Stato avrebbero accontentato le richieste di politici e manager, scrive Fiorenza Sarzanini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Sentenza di accoglimento del ricorso di Silvio Berlusconi contro il provvedimento di Bankitalia che imponeva la cessione delle quote di Mediolanum. È uno dei documenti sequestrati per ordine dei magistrati romani a casa del funzionario di Palazzo Chigi Renato Mazzocchi, indagato per riciclaggio e corruzione. E tanto basta per capire quale direzione abbia imboccato l’inchiesta sulla «rete» di faccendieri e politici sospettati di aver «aggiustato» numerosi processi. Ma anche di aver pilotato appalti, assunzioni e nomine. Altre mazzette sono state trovate nella cassaforte di uno degli imprenditori arrestati il 4 luglio scorso durante il blitz del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza. Secondo il giudice sono i «fondi neri» accantonati per pagare le tangenti necessarie ad ottenere le proroghe di un appalto dell’Inps. Sono svariati i filoni di indagine aperti dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal sostituto Stefano Fava. E tutti si concentrano sui contatti e i legami di Raffaele Pizza e Alberto Orsini, ritenuti le «menti» dell’organizzazione che poteva contare sulla disponibilità di politici, manager e magistrati che avrebbero accontentato le loro richieste in cambio di soldi. L’ultimo riguarda proprio l’operato dei giudici del Consiglio di Stato. Oltre ai 247 mila euro conservati nelle confezioni di spumante, Mazzocchi aveva nella propria abitazione numerose sentenze del Consiglio di Stato. Alcune sono «segnate» con appunti e «post it». Ma il sospetto maggiore riguarda il fatto che oltre agli originali (che potrebbero anche essere state scaricati dal sito internet) nei fascicoli custoditi dal funzionario c’erano anche le «minute», cioè le bozze. E dunque bisognerà scoprire in che modo si sia procurato i documenti, quali contatti abbia con i giudici di palazzo Spada e soprattutto quali compiti gli siano stati affidati dal parlamentare Ncd Antonio Marotta (indagato per associazione per delinquere, corruzione e traffico d’influenza) al quale era legato da un rapporto stretto. Anche tenendo conto che un paio di anni fa Mazzocchi avrebbe collaborato, seppur saltuariamente, proprio con uno dei magistrati amministrativi di secondo grado. Alcune sentenze non contengono l’indicazione delle parti, altre sono invece complete. La più importante è certamente quella emessa nel marzo scorso per rispondere al ricorso di Silvio Berlusconi. Dopo la condanna definitiva a quattro anni nel processo per i diritti Tv, Bankitalia impose al Cavaliere di cedere «la propria quota in Mediolanum oltre il 9,9 per cento, ovvero il 20 circa, che valeva circa 1 miliardo di euro». Era il 7 ottobre 2014. Secondo Palazzo Koch Berlusconi non era più in possesso dei «requisiti di onorabilità» necessari per essere soci al 10 per cento in un gruppo bancario e dunque doveva cedere una parte del proprio patrimonio che Fininvest poteva conferire in un trust per poi vendere. Il leader di Forza Italia decise di ricorrere al Tar, ma gli fu dato torto. Non si arrese e presentò una nuova istanza al Consiglio di Stato. Quattro mesi fa i giudici (presidente Francesco Caringella, estensore Roberto Giovagnoli) gli danno ragione, accogliendo la tesi secondo cui le quote erano già detenute prima del passaggio dal sistema assicurativo a quello bancario. Adesso sarà Mazzocchi a dover chiarire come mai custodiva tutta la documentazione — anche riservata — relativa a quel pronunciamento, da chi l’abbia avuto e soprattutto a quale scopo. E diverse spiegazioni dovrà fornirle Roberto Boggio, l’imprenditore titolare della «Transcom WorldWide» che ha ottenuto l’appalto per la gestione del call center dell’Inps nel maggio 2010 ed è indagato per emissione di fatture false per oltre 210 mila euro. Nella sua cassetta di sicurezza «presso la Banca di Credito Bergamasco, Agenzia 1, sono stati trovati contati pari a 77.880 euro». Secondo le indagini Boggio ha «subappaltato fittiziamente una parte del lavoro alla “Dacom Service”». Scrive il giudice nella convalida del sequestro dei soldi: «Dagli accertamenti bancari è risultato che il beneficiario finale delle rimesse provenienti dalle società è Raffaele Pizza per l’interessamento da questi manifestato per assicurare a Boggio le proroghe dell’appalto, sino all’ultima, in scadenza a giugno 2016». Adesso si sta cercando di scoprire con chi — all’interno dell’Inps — Pizza abbia diviso le «mazzette».

Guardia di Finanza, gli hotel pagati al generale Toschi: omaggio del socio di Verdini. Spuntano prove della sua rete di relazioni con personaggi come Riccardo Fusi, regista del sistema Grandi Appalti, poi condannato per corruzione e bancarotta fraudolenta, scrive Carlo Bonini il 22 luglio 2016 su "La Repubblica". Nel passato del Comandante Generale della Guardia di Finanza, il generale Giorgio Toschi, c'è una scatola di cartone che dice qualcosa dell'uomo, quanto basta dell'ufficiale, molto della sua rete di rapporti che ne avrebbe sconsigliato la nomina il 29 aprile scorso e che forse, e al contrario, a questo punto la spiega. In quella scatola, custodita nell'ufficio corpi di reato del Tribunale di Firenze, ci sono due fatture per altrettanti soggiorni alberghieri.  Soggiorni del luglio e del settembre del 2008 che il generale non ha mai saldato, perché qualcun altro lo faceva per lui. Un costruttore e corruttore che di nome fa Riccardo Fusi, un "pratese" che in quegli anni, a Firenze, dove Toschi era Comandante regionale, contava. Perché tasca e "socio occulto" di Denis Verdini. Perché Grande Elemosiniere toscano e perno del Sistema trasversale che presiedeva agli assetti politici e imprenditoriali lungo l'Arno. Almeno fino a quando le inchieste giudiziarie sui Grandi Appalti (2010) non lo hanno travolto insieme al suo gruppo (la BF holding e la BTP), schiantato sotto il peso dei debiti e per il cui crac Fusi risponde ora di bancarotta fraudolenta. Ultimo, ma non unico, dei processi che lo hanno visto e lo vedono imputato. Da quello che sta celebrando il suo primo grado a Firenze per la bancarotta del Credito Cooperativo Fiorentino (dove Fusi è imputato con Verdini), a quello chiuso nel febbraio scorso in Cassazione con una sentenza di condanna a 2 anni per la corruzione nell'appalto per la scuola dei Marescialli di Firenze. La scatola e il Generale, dunque. Sepolta negli atti del processo per il crack del Credito Cooperativo Fiorentino di Denis Verdini, l'evidenza è numerata "B14". E, nel 2010, è parte delle migliaia di carte che il Ros dei Carabinieri acquisisce durante le perquisizioni negli uffici del Gruppo Fusi. All'interno, una messe di fatture, molte delle quali intestate "UNA hotel", la catena alberghiera di cui Fusi è proprietario. La scatola appare da subito un formidabile strumento di lettura della rete di relazioni di Riccardo Fusi, oltre che prova del suo rapporto "a catena" con Denis Verdini. Ma non solo. Tanto è vero che, con una decisione inedita e che la dice lunga sul grado di condizionamento ambientale che Verdini e Fusi erano riusciti a imporre, l'analisi del suo contenuto "contabile" viene delegata non alla Finanza, evidentemente ritenuta non affidabile, ma alla direzione generale dell'Agenzia delle Entrate della Toscana che, il 24 maggio di quell'anno, ne redige un rapporto di una quarantina di pagine. Le ultime delle quali di particolare interesse. "Nella stessa scatola B14 - scrive l'Agenzia delle Entrate - sono stati reperiti documenti di spesa emessi da UNA spa, addebito spese alberghiere non pagate dai relativi beneficiari e addebitate alla società BF servizi srl. (altra società del Gruppo Fusi ndr.)". E di quei beneficiari a scrocco viene allegato un elenco di 50 nomi. Alcuni decisamente più importanti di altri. Accanto al figlio di Denis Verdini, Tommaso, e ai suoi amici che, di volta in volta, decideva di portare con sé all'Una hotel del Lido di Camaiore, figurano infatti due ufficiali della Guardia di Finanza. Giorgio Toschi (laconicamente indicato dall'Agenzia come "generale della Gdf") e Marco De Fila (neppure indicato come appartenente alla Finanza). Il primo, Comandante regionale in Toscana dal 2006 al 2010. Il secondo, comandante provinciale nel 2009 della Finanza di Prato, quella competente per i controlli sul Gruppo Fusi (la cui sede legale era a Calenzano). E del resto che Fusi avesse un occhio attento a Prato lo dimostra la presenza nell'elenco degli ospiti anche di Costanza Palazzo, figlia di Salvatore, Presidente del Tribunale di Prato fino all'ottobre 2013, quando si dimise dalla magistratura per far cadere al Csm l'azione disciplinare cui era stato sottoposto per avere "omesso consapevolmente di astenersi dalla trattazione e dall'emissione di numerosi decreti ingiuntivi in favore di società che, pur in concordato preventivo, erano collegate a Riccardo Fusi, cui era legato da amicizia e assidua frequentazione". Fusi, insomma, sa scegliere i suoi ospiti. E il generale Giorgio Toschi, lo è almeno due volte come documentano le fatture XRF 310520/07 e XRF453092/07. Entrambe nello stesso albergo: il quattro stelle UNA hotel di Bergamo, in via Borgo Palazzo, una costruzione in vetro e acciaio che chiuderà i battenti alla fine del 2013. La prima fattura è relativa a un soggiorno di due notti il 5 e 6 luglio 2008, un sabato e una domenica. La seconda, ancora due notti, il 9 e 10 settembre, un martedì e mercoledì, di quello stesso anno. Sempre la stessa camera. Una "matrimoniale classic" con "free upgrade in executive junior suite". Per una spesa che, in luglio, è pari a 199 euro e 50 centesimi, e in settembre a 188 euro. E in cui, perché l'ospite non abbia a rimanerne a male, tutto è compreso. Oltre al lettone, una mezza minerale e un pacchetto di patatine in luglio. Due mezze minerali e un succo di frutta in settembre. Del resto, l'ospite è così di riguardo che il lunedì 30 giugno del 2008, alla vigilia del primo soggiorno del Generale, una mail inviata dall'ufficio prenotazioni UNA all'hotel di Bergamo e allegata alla fattura trovata nella scatola "B14", raccomanda di "far trovare in camera al sig. Toschi un cesto di frutta". Non è dato sapere, né ha importanza, per quale motivo l'allora Comandante della Regione Toscana della Guardia di Finanza fosse a Bergamo e avesse bisogno di una matrimoniale con free upgrade a junior suite. Né se fossero improrogabili ragioni di servizio a spingerlo in Lombardia in un week-end estivo. Certo, si potrebbe osservare che se fossero state ragioni di ufficio a muoverlo da Firenze, non una ma due volte, il Generale avrebbe sicuramente potuto usufruire della foresteria dell'Accademia che a Bergamo ha la sua sede e che lo stesso Toschi ha comandato. In ogni caso, è singolare che un generale di divisione quale allora era Toschi, con uno stipendio netto mensile di circa 4mila e 500 euro, dovesse scroccare una camera di albergo, un pacchetto di patatine, due succhi di frutta a Riccardo Fusi e al suo Gruppo sui quali, come Comandante regionale, aveva "giurisdizione", senza che questo gli apparisse sconveniente. Non fosse altro per la formula linguistica con cui, riferendosi al Generale Toschi, la direzione della UNA Hotel di Bergamo chiede alla "Bf servizi srl" (società infragruppo di Fusi) di liquidare le fatture in sospeso dei suoi due soggiorni ("Con riferimento al soggiorno dei vostri clienti presso il nostro hotel siamo lieti di inviarvi le fatture per il relativo saldo"). Non fosse altro, perché - "cliente" o meno che fosse considerato dal Gruppo Fusi - i fatti hanno documentato come, fino al 2010 e alle indagini della Procura di Firenze e del Ros dei carabinieri, la Guardia di Finanza, che aveva in Toschi il suo ufficiale più alto in grado in Toscana, non si sia accorta di quale grumo di corruzione si fosse saldato nel rapporto tra Fusi e Verdini, tra il Gruppo BF-BTP e il Credito Cooperativo Fiorentino. È un fatto che le notti a Bergamo in carico a Fusi non sembrano uno sfortunato inciampo nella storia di Toschi. L'ufficiale era già finito in una vicenda non edificante in quel di Pisa nel 2002, dove era stato comandante Provinciale e dove una generosa archiviazione (come ha documentato il "il Fatto" il 3 maggio) lo aveva salvato da un processo per concussione. Accusato di aver chiesto e ottenuto denaro contante dalle concerie della zona per evitare verifiche (e per questo indagato), Toschi aveva dovuto spiegare per quale misteriosa ragione fosse riuscito a cambiare in cinque anni tre Mercedes nuove di pacca con formidabili sconti. Perché fosse per lui abitudine cenare con imprenditori della zona. Soprattutto, per quale ragione, non facesse altro che cambiare banconote vecchie con banconote nuove o perché, nell'arco di anni solari successivi, il suo conto corrente personale avesse registrato prelievi tra i 4 e i 10 milioni di lire. Come se l'uomo potessero campare di aria. "Ho ricevuto denaro contante dalla mia famiglia di origine", aveva sostenuto Toschi in un drammatico interrogatorio con l'allora procuratore Enzo Iannelli. In quel 2002, la spiegazione bastò. La scatola "B14" meriterà altre risposte.

Consob, il caso della funzionaria che vigila su stessa. La storia di Paola Deriu, dipendente Consob che è riuscita a vendere le azioni di Veneto Banca prima del tracollo, scrivono Milena Gabanelli e Giovanna Boursier il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Lei è Paola Deriu, promossa da Vegas nel 2013 a responsabile dell’ufficio «Vigilanza operatività mercati a pronti e derivati» della Consob. Prima era condirettore dello stesso ufficio, e prima ancora, funzionaria all’Ufficio insider trading. Il suo ufficio garantisce la correttezza delle negoziazioni, l’integrità dei mercati, vigila sui soggetti che li gestiscono. Una posizione che dovrebbe ricordarle di essere un dirigente dell’Autorità chiamata ad assicurare che i mercati e i risparmiatori sappiano quel che comprano. Nel caso della Popolare di Vicenza e di Veneto Banca l’informazione che la Consob avrebbe dovuto far arrivare ai mercati era che queste banche, per far fronte alle loro difficoltà dovute a mala gestione e malaffare, gonfiavano il prezzo delle loro azioni, o le collocavano presso i loro clienti in modo non regolare. Ma a partire da quando Consob ha queste informazioni? Ci focalizziamo su Veneto banca perché è qui che la dirigente Consob ha un personale interesse. Da un’ispezione di Bankitalia del 2013 emergono gravi irregolarità, e infine una maximulta ai vertici della banca nel 2014. La voce circola, molti clienti chiedono di vendere, ma solo pochi ci riescono. Seguono le ispezioni della Bce e la richiesta di dimissioni di tutto il cda, su cui indaga la magistratura: la banca per anni ha movimentato compravendite di azioni, finanziandone l’acquisto anche per milioni di euro, o appioppandole anche ai piccoli risparmiatori che chiedevano fidi e prestiti, «datevi una mossa, avete una media troppo bassa», scrivevano le dirigenze ai dipendenti. Le stesse dirigenze, contemporaneamente, si attivavano per salvare il salvabile di amici e clienti «influenti», aiutandoli a vendere il loro pacchetto azionario prima del tracollo. Tra gli amici è noto il caso di Bruno Vespa, che con il direttore della banca Consoli condivideva una masseria in Puglia. Il giornalista a settembre 2014, 3 mesi prima che il titolo cominci a crollare rovinosamente, riesce a farsi rimborsare 8 milioni di euro quando le azioni valgono ancora 39 euro. Un mese dopo riesce a vendere anche Paola Deriu. L’operazione emerge proprio da un’ispezione Consob del 2015, notificata ai vertici e al vecchio Cda nell’ultima assemblea della banca il 5 maggio scorso, ma tenuta nel massimo riserbo. Gli ispettori esaminano in particolare 10 casi critici nella relazione con la clientela, in cui «gli addetti della banca hanno provveduto a soddisfare l’istanza di liquidazione di alcuni clienti». Tra questi c’è anche la responsabile dell’ufficio vigilanza dell’Autorità. I documenti spiegano quasi tutta la storia: la dirigente Consob l’8 maggio 2014 chiede di vendere il suo pacchetto di 585 azioni acquistate tra fine 2006 e inizio 2007 a 32 euro ciascuna, per un importo di circa 18 mila euro. Il 26 giugno sollecita, ha fretta di vendere e la banca tarda; dal suo account Consob scrive al responsabile Veneto banca area Milano Brianza: «Ribadisco che sono sempre stata rassicurata del fatto che è la banca stessa a porsi in contropartita dei clienti quando chiedono di vendere, e che ciò avviene sempre in tempi rapidi... la vendita è dettata da ragioni di urgenza, e nel caso avvenga dopo il 1° luglio incorrerò in un aggravio di tassazione dovuto alla recente modifica di fiscalità sui capital gain». Per evitarlo, intanto, il 30 giugno chiede anche la rideterminazione del valore secondo perizia appena effettuata a 39,50 euro (il valore medio era di 32 euro), e tempestivamente paga la tassa del 2%. Tassa che il giorno dopo raddoppia. L’ufficio affari legali e reclami di Veneto banca però risponde 10 giorni dopo confermando che la ricerca di un acquirente è in corso, giustifica il ritardo con la particolare natura dell’operazione, mentre specifica che il valore dell’azione è stato rideterminato entro giugno come richiesto. Così la dirigente Consob è a posto, poiché il dovuto lo ha pagato il giorno prima dell’aumento, inoltre non dovrà pagare tasse sulle plusvalenze (passate dal 20 al 26%) perché il valore dell’azione è stato aggiornato a quello di vendita, e quindi di plusvalenze non ne avrà. L’effettiva cessione avviene a fine ottobre 2014, e nella nota di Veneto banca c’è scritto: «Tra conoscenti». Di chi? Della Deriu o della banca? Gli acquirenti desiderosi di prendersi l’intero pacchetto per 23.108 euro, mentre le azioni stanno crollando, sono i cugini Francesco e Giuseppe Zinghini, due trentenni che cercano di scrollarsi di dosso una parentela ‘ndranghetista ingombrante, con l’avvio di attività di giardinaggio e pulizie nell’hinterland milanese. Giuseppe Zinghini la racconta così: «Con mio cugino siamo andati alla filiale di Veneto Banca di Corsico, dove abbiamo il conto, a chiedere un prestito di 80 mila euro a nome della società Zeta Servizi, ma la condizione era l’acquisto di quelle azioni a 39,50 euro da una di Roma. Non avevamo scelta, qualche mese dopo abbiamo provato a rivenderle ma non è stato possibile». I dubbi restano perché nella documentazione i dipendenti della banca si comunicano internamente che la cessione è stata revocata e trasformata in «trasferimento fra conoscenti». Sta di fatto che oggi quelle azioni valgono 10 centesimi, e la loro società è in liquidazione. Ha qualche colpa la signora Deriu in questa operazione? Apparentemente nessuna, se ha rispettato l’obbligo previsto per i dirigenti di un’Autorità di vigilanza di comunicare le loro operazioni di Borsa. Certo sarebbe stato più opportuno se si fosse liberata del suo pacchetto nel 2013, appena ricevuto l’incarico, perché vendere un anno dopo la pesante ispezione di Bankitalia fa venire brutti pensieri. Ancor più brutti se si considera che Consob già a febbraio del 2013 sanziona Veneto Banca per le «diffuse e reiterate condotte irregolari» nella «valutazione di adeguatezza delle operazioni disposte dalle clientela», in particolare su obbligazioni e azioni emesse dalla stessa banca. Il dirigenti della vigilanza quindi sapevano, e avrebbero dovuto approfondire per allertare i risparmiatori. Invece hanno aspettato. Nell’attesa, chi aveva il problema, grazie al privilegio della posizione (a cui la banca ha dimostrato sensibilità), lo ha rifilato al malcapitato di turno. Un peccato veniale rispetto alle responsabilità del presidente Vegas verso quelle decine di migliaia di risparmiatori delle popolari che hanno perso tutto.

Quei giornalisti svelti a trovare il “fascista”, ma lenti a vedere l’islamista, scrive Adriano Scianca il 19 luglio 2016. Proviamo per un attimo a mettere insieme due fatti di sangue molto, molto, molto diversi. Non ci interessa confondere i piani, ma solo ragionare sul meccanismo mediatico e i suoi trabocchetti.

Primo caso: al termine di una scazzottata la cui dinamica è ancora da chiarire, a Fermo un nigeriano cade a terra, morto. Per questo fatto tragico, viene arrestato un ragazzo locale, tale Amedeo Mancini. Chi è? Di lui si sa che frequenta la curva della Fermana, ma non risulta alcuna militanza politica. Ci sono sue foto a un banchetto di destra radicale, ma anche alla raccolta firme del M5S. Il sindaco di Fermo, ex Pd, lo conosce bene, pare sia stato un suo sostenitore. “Qualche anno fa diceva di essere comunista”, afferma il primo cittadino. Qualcuno dice di averlo visto anche in alcuni centri sociali della zona. Insomma, un profilo che ha molto della figura “paesana” e poco del militante, di qualsiasi schieramento. Ma per i media, Amedeo Mancini è di estrema destra. È un fascista, lo hanno capito subito e lo hanno scritto ovunque, forti anche della versione della vedova nigeriana, smentita dagli esami autoptici e da tutte le testimonianze. Eppure loro lo sanno: l’uomo è un fascista. E se gli fai notare le incongruenze di tale affermazione, ti rispondono che poco importano le idee o le frequentazioni, chi si comporta in un certo modo è fascista, punto.

Caso numero due, cambiamo completamente scenario. A Nizza, durante i festeggiamenti del 14 luglio, un uomo falcia la folla con un tir e fa 84 vittime. Chi è? Un tunisino, con tutta una serie di problemi personali legati all’instabilità psichica, familiare ed economica. È uno jihadista? Qui gli stessi media di prima diventano improvvisamente cauti. Non si sa, chi può dirlo. Alcuni sono pronti a giurare che l’islamismo non c’entri proprio niente e che si tratti di un classico delitto della follia, un raptus maturato in una mente disturbata. L’illusione tiene, incredibilmente, anche di fronte alle prime evidenze: l’uomo aveva il padre che era un noto estremista islamico tunisino. Aveva il pc pieno di video di attentati e decapitazioni, mentre nella rubrica del suo telefonino è stato trovato il numero di uno dei maggiori reclutatori di jihadisti in Francia, un senegalese legato ad Al Nusra. Spunta uno zio che riferisce di come suo nipote fosse stato “radicalizzato” da circa “due settimane” da un reclutatore algerino membro dell’Isis a Nizza. E all’improvviso si trovano testimoni che ricordano, ultimamente, di averlo sentito elogiare lo Stato islamico. Eppure molti giornalisti sono ancora in attesa del documento in triplice copia firmato dal Califfo con le dovute marche da bollo in cui si attesti formalmente che l’uomo è un soldato dell’Isis. Si obietta che non osservava il Ramadan, che mangiava maiale e pare facesse uso di cocaina. Ma la coerenza militante e ideologica di un soldato è cosa che riguarda i suoi ufficiali o, al limite, il suo dio, non certo gli osservatori che dovrebbero prendere atto dell’evidenza.

Insomma, il quadro è chiaro: da una parte abbiamo un atto terroristico la cui matrice è chiara, limpida, cristallina (si potrà poi discutere sul grado di spontaneismo o meno dell’azione). Eppure si fa un’enorme fatica a riconoscerlo per quello che è. Se uscisse fuori che c’è una parte di mondo che ci ha dichiarato guerra si farebbe un favore alle destre populiste e xenofobe, capite? Dall’altra ci sono altre etichette, come per esempio quella di “fascista”, che i padroni delle parole dispensano a piene mani, senza troppi riguardi, decidendo loro chi lo è e chi non lo è, anche a prescindere dalle idee dell’interessato. Perché avere un fascista in più fa molto comodo a lorsignori, mentre avere un immigrato terrorista in più è una vera tragedia. E non a causa dei morti che ha fatto.

Buonisti: i morti di Nizza sono sulla vostra coscienza! Scrive Giampaolo Rossi il 16 luglio 2016 su "Il Giornale". Basta prenderci per il culo! Questa mostruosità l’avete creata voi e ha un nome preciso: si chiama multiculturalismo, la più evidente stortura ideologica del nostro tempo. Questa bestia che si annida nel cuore dell’Europa e che esplode periodicamente con una violenza cieca e disumana rappresenta il vero fallimento di tutto ciò che potevamo essere e che non saremo per vostra responsabilità. Non è importante sapere se il “franco-tunisino” che ha ammazzato 84 persone come stesse su una pista di bowling, fosse un terrorista addestrato dall’Isis, gli amici di quei sauditi che Hollande riceve con tutti gli onori all’Eliseo e che poi tornati in patria finanziano quelli che ammazzano i francesi (tutto questo è solo la resa ignobile di una classe politica europea corrotta e imbelle). Non è importante neppure sapere se l’assassino fosse un islamico praticante o saltuario, depresso o lucido; se abbia gridato “Allah Akbar” oppure nulla; se abbia sperato fino all’ultimo di raggiungere il suo Paradiso scatenando un inferno o semplicemente abbia regalato il suo inferno all’eternità. Quello che è importante è riconoscere la verità che voi continuerete a negare; e cioè che anche lui era figlio di quel pezzo di Europa che odia l’Europa; di quell’esperimento folle e suicida che la vostra ottusità ha prodotto. Siete voi che avete generato tutto questo: politici di sinistra, intellettuali ipocriti, giornalisti bugiardi e preti sconfessati. Questi mostri li avete creati voi con il vostro buonismo irreale, con i vostri gessetti colorati, con il vostro mito dell’accoglienza; voi che avete confuso l’uguaglianza dei diritti con la dittatura di un egualitarismo astratto. Voi che negate l’identità europea perché non avete il coraggio di difenderla: vigliacchi e stolti. Siete voi che continuate a non vedere che loro odiano ciò che noi siamo: odiano la nostra libertà, il nostro senso della vita, la nostra idea di uomo e di donna. Odiano i nostri diritti e la nostra cultura. Siete voi i responsabili di questa paura che ora viaggia nel cuore dell’Europa; voi che avete permesso le banlieue a Parigi, i “quartieri della sharia” in Belgio e Olanda (dove scuole e moschee sono finanziate dall’integralismo salafita), i tribunali islamici in Germania e Gran Bretagna, Husby e i laboratori di orrore sociale a Stoccolma dove travestite da integrazione ghetti di emarginazione. Siete voi che continuate a non leggere le ricerche che raccontano che il 30% dei giovani musulmani francesi tifa Isis, e che quasi la metà dei turchi tedeschi preferisce rispettare la legge islamica a quella vigente in Germania. Questi mostri li avete creati voi, tecnocrati di Bruxelles che state distruggendo le identità sovrane e nazionali per costruire un assurdo melting pot dove, da veri razzisti, pianificate i progetti di migrazione sostitutiva che trasformeranno l’Europa in Eurabia molto prima di quanto immaginasse Oriana Fallaci. Questi mostri li avete creati voi guerrafondai, con le vostre bombe umanitarie e le guerre illuminate; voi che avete pianificato il caos Mediorientale, che avete benedetto il disastro in Libia, quello in Siria che hanno aperto la strada all’esodo di disperati (pochi) e furbi (tanti) che si riversano nei nostri paesi e al dilagare dell’islamismo; voi che avete alimentato le primavere arabe che a loro volta hanno alimentato il terrorismo; voi che dite di combattere l’Isis e Al Qaeda e poi li finanziate e li addestrate per i vostri disegni strategici. Dai, forza buonisti, ora regalateci ancora un po’ del vostro sdegno. Continuate a scandalizzarvi e a bollarci come demagoghi, xenofobi e oscurantisti; scatenate i vostri giullari di corte sui giornali e in tv. Concedete ai menestrelli stonati di continuare a raccontare la favola del multiculturalismo, magari con i soldi pubblici della Rai e al solito Gad Lerner. Troverete ancora qualcuno che vi darà retta sperando che il mondo irreale della vostra ipocrisia non getti definitivamente l’Europa nel baratro. Ma questi morti sono sulla vostra coscienza. Fatemi capire.

La Boldrini vuole punire chi parla male dell'islam. La presidente della Camera insiste sul reato di "islamofobia" per censurare le critiche sulla religione di Allah. Ma si dimentica dei cristiani perseguitati, scrive Magdi Cristiano Allam, Domenica 22/05/2016, su "Il Giornale. La minaccia principale alla nostra civiltà laica e liberale risiede nel divieto assoluto di criticare e di condannare l'islam come religione, perché i suoi contenuti sono in totale contrasto con le leggi dello Stato, le regole della civile convivenza, i valori non negoziabili della sacralità della vita, della pari dignità tra uomo e donna, della libertà di scelta. Mentre il terrorismo islamico dei tagliagole, coloro che sgozzano, decapitano, massacrano e si fanno esplodere, noi lo sconfiggeremo sui campi di battaglia dentro e fuori di casa nostra, di fatto ci siamo già arresi al terrorismo islamico dei «taglialingue», coloro che sono riusciti a imporci la legittimazione dell'islam a prescindere dai suoi contenuti ed ora sono mobilitati per codificare il reato di «islamofobia», un'autocensura nei confronti dell'islam. Le Nazioni Unite, l'Unione Europea e il Consiglio d'Europa hanno già accreditato, sul piano politico, il reato di islamofobia, assecondando la strategia dell'Organizzazione per la Cooperazione Islamica. Ebbene ora in Italia il presidente della Camera, Laura Boldrini, ha fatto un ulteriore passo in avanti finalizzato a codificare per legge il reato di islamofobia, che comporterà sanzioni penali e civili per chiunque criticherà e condannerà l'islam come religione. È ciò che emerge dall'iniziativa della Boldrini di dar vita alla Commissione di studio sull'intolleranza, la xenofobia, il razzismo e i fenomeni di odio, nelle varie forme che possono assumere, xenofobia, antisemitismo, islamofobia, antigitanismo, sessismo, omofobia. Secondo la Boldrini sarebbero nuove forme di razzismo, che si manifestano soprattutto nella rete, catalogate in inglese come «hate speech», da intendersi come «incitazione all'odio». È singolare che siamo in un'Italia e in un'Europa dove chiunque può dire di tutto e di più sul cristianesimo, su Gesù, sulla Chiesa e sul Papa, senza che succeda nulla perché viene ascritto alla libertà d'espressione, mentre ci siamo auto imposti di non dire nulla sull'islam, su Allah, su Maometto e sul Corano perché urta la suscettibilità dei musulmani, perché abbiamo paura della loro reazione violenta che si ritorce indiscriminatamente contro tutti i cristiani nel mondo. A proposito, dal momento che i cristiani sono in assoluto i più perseguitati al mondo per la loro fede, perché mai tra le categorie che sostanzierebbero il reato di «incitazione all'odio» non compare la «cristianofobia»? L'errore fondamentale che viene commesso è di sovrapporre la dimensione della persona con quella della religione, ritenendo che per rispettare i musulmani come persone si debba automaticamente e acriticamente legittimare l'islam come religione. Noi invece dobbiamo rispettare i musulmani come persone, ma al tempo stesso dobbiamo usare la ragione per entrare nel merito dei contenuti di una religione e poter esprimere in libertà la verità sull'islam. La Boldrini, la terza carica dello Stato che dovrebbe lealtà e fedeltà all'Italia, si esibisce in pubblico con al petto una spilletta su cui c'è scritto «Stati Uniti d'Europa», una entità inesistente ma che si tradurrebbe nella scomparsa dell'Italia come Stato sovrano e indipendente, così come promuove l'invasione di milioni di clandestini musulmani che a suo avviso rigenererebbero la vita e la civiltà dell'Italia. In questo contesto il reato di islamofobia si rivelerebbe il colpo di grazia all'Italia e agli italiani.

Le bugie di Fermo e il razzismo degli anti-razzisti contro la verità, scrive Salvatore Tramontano, Venerdì 15/07/2016, su "Il Giornale". E ora Boldrini e Boschi cosa fate? Se si guarda solo il colore si perdono di vista i fatti. Questo vale per il sesso, il genere, la lingua, la nazionalità, il reddito, perfino la religione. Non è razzismo. È il contrario. Quando un uomo uccide un uomo il colore della pelle non può essere l'unica variabile. Altrimenti si finisce davvero per peccare di razzismo, anche senza volerlo. Oppure la morte di una persona si sfrutta come strumento politico. Nella brutta e drammatica storia di Fermo sappiamo che ci sono una vittima e un assassino. Quello che bisogna valutare e raccontare con onestà sono i fatti. Per capire. Amedeo Mancini si è comportato da razzista. Ha insultato un uomo e quell'uomo ha reagito. Su questo non ci sono dubbi. Emmanuel era con sua moglie e probabilmente si è spaventato. Ha preso un cartello stradale e ha aggredito Mancini. Anche su questo ormai non ci sono dubbi. Solo che a lungo si è faticato a credere a questa versione, nonostante ci fossero sei testimoni. Qui entrano in gioco la politica e l'ideologia e una sorta di razzismo involontario o antirazzismo strumentale. Ci sono sospese ancora le parole di Laura Boldrini e Maria Elena Boschi. La prima testimone mente. È inattendibile. E anche gli altri cinque nascondono (...) (...) qualcosa. Questo perché conta più il colore della pelle di chi parla che la verità. Non per bontà, ma per vantaggio politico. Ma non è così che si sta dalla parte dei deboli e dei discriminati, perché se si mente o si preferisce non vedere per antirazzismo si finisce col fare il gioco dei razzisti. Si creano alibi e invece in storie maledette come questa nessuno deve averne, di alibi. Non è infatti in discussione la colpevolezza di Mancini, ma perfino lui ha il diritto processuale alle attenuanti. Non si contrastano le discriminazioni razziali cancellando il diritto, compreso quello alla difesa. Ora la moglie di Emmanuel, Chinyere, ha ammesso di essersi spiegata male. È vero, il marito ha reagito alle accuse disgustose con rabbia, aggredendo con un'asta di ferro. I testimoni avevano detto il vero. È bene subito dire che la precisazione di Chinyere non è un alibi per Mancini. Ma quello che deve far riflettere è la facilità con cui il politicamente corretto cancella ogni dubbio se deve scegliere tra un nero e un bianco. E questo danneggia soprattutto i neri. Perché comunque è una discriminazione. Quello che conta è l'uomo, l'uomo ucciso, non il suo colore. Boldrini e Boschi hanno voluto credere alla versione della vedova, sbugiardando i testimoni solo perché non rientravano nella narrazione che strappa applausi al loro elettorato. Applausi sulla morte. Tutta questa retorica purtroppo puzza di opportunismo e finisce per rendere poco credibili le battaglie di libertà di chi davvero si batte contro il razzismo, con i fatti, non con la retorica. Non c'è bisogno di caricare una storia già eloquente. In Italia c'è un razzismo di offese, di ignoranza, da bar e di cori da stadio. Emmanuel è stato offeso da un razzista, ma la sua morte non è un pestaggio. C'è una dose di fatalità, che non assolve affatto Mancini, ma di cui non si può non tener conto. Ma c'è da spazzare via anche tutto l'apparato ideologico che ha voluto trasformare una brutta storia in una fotografia dell'Italia razzista. Razzista sì, ma in questo caso nei confronti della verità.

Maometto vs Gesù. Riflessioni di Jerry Rassamni. La differenza tra Gesù, quindi il Cristianesimo, e Maometto, quindi l'Islam.

Nessuna profezia preannunciò la venuta di Maometto. Numerose e precise e antiche profezie si sono avverate con la nascita di Gesù.

Il concepimento di Maometto fu umano e naturale. Gesù fu concepito in modo soprannaturale e nacque da una vergine.

Numerose rivelazioni di Maometto servivano a soddisfare i suoi interessi personali, come ad esempio la legalizzazione del matrimonio con la sua nuora. Le rivelazioni e la vita di Gesù erano «sacrificali», come la sua crocifissione per i peccati del mondo.

Maometto non ha fatto alcun miracolo. Gesù ha guarito lebbrosi, dato la vista ai ciechi, camminato sulle acque, risuscitato i morti.

Maometto ha instaurato un regno terreno. Gesù ha detto «il mio regno non è di questo mondo».

Maometto ha ammesso che le sue più grandi passioni erano le donne, gli aromi e il cibo. La passione principale di Gesù era di glorificare il nome del suo Padre celeste.

Maometto era un re terreno che accumulava ricchezze, divenendo il più ricco possidente in Arabia. Gesù non aveva un posto dove appoggiare il suo capo.

La vita di Maometto era contrassegnata dalla spada. La vita di Gesù era contrassegnata da misericordia e amore.

Maometto incitava alla jihad, la guerra santa. Gesù ha detto che «coloro che feriscono di spada, periscono di spada». Uno dei suoi titoli è «Principe della pace».

Se una carovana era debole, Maometto l’attaccava, la saccheggiava e la massacrava; se era forte, fuggiva. Gesù disse: «Splenda la vostra luce davanti agli uomini, affinché vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli.» «Amate i vostri nemici e benedite coloro che vi odiano.»

Maometto fece lapidare un’adultera. Gesù perdonò un’adultera.

Maometto sposò quattordici donne, compresa una bambina di sette anni. Gesù non ebbe relazioni sessuali.

Maometto riconosceva di essere un peccatore. Gesù fu senza peccato, perfino secondo il Corano.

Maometto non predisse la sua morte. Gesù predisse esattamente la sua crocifissione, morte e risurrezione.

Maometto non nominò né istruì un successore. Gesù nominò, istruì e Gesù nominò, istruì e preparò i suoi successori.

Maometto era così incerto riguardo alla sua salvezza che pregava settanta volte al giorno per ricevere perdono. Gesù era l’essenza della salvezza, egli disse: «Io sono la via, la verità e la vita! Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.»

Maometto massacrò i suoi nemici. Gesù perdonò i suoi nemici.

Maometto morì e le sue spoglie sono sepolte sulla Terra. Gesù risuscitò dai morti e salì al Cielo!

Il multiculturalismo imperante esige che si eviti di fare qualsiasi associazione tra terrorismo e fondamentalismo islamico, malgrado siano gli stessi terroristi a invocare il Corano. Abbiamo visto le assurde – e anche ridicole – conseguenze di questa censura “politicamente corretta” nella notizia pubblicata il 19 febbraio. Ora, ha ben ragione Benedetto XVI a insistere sul fatto che non è lecito uccidere in nome di Dio e che Dio non può volere la violenza, ma l’insistenza – che ha assunto il tono di una sfida alla ragione – si spiega proprio con il fatto che, in campo islamico, c’è chi teorizza il contrario. Sarebbe anche sbagliata un’equazione del tipo islam=terrorismo o islam=violenza, però allo stesso modo non si possono negare certi fenomeni inquietanti, che ripropongono la domanda sulle radici della violenza fondamentalista. Uno spunto originale ce lo offre il lavoro di William J. Federer, uno studioso americano esperto di rapporti tra religione e società, il cui ultimo libro esamina il rapporto tra islam e Stati Uniti. In un articolo scritto per WorldDailyNet, Federer smentisce sia gli apologeti islamici che accusano anche i cristiani di aver commesso violenze nella loro storia, sia i laicisti che credono sia la religione la prima causa della violenza – dimenticando gli stermini “atei” della Rivoluzione Francese, dello stalinismo, del maoismo -. Lo fa mettendo a confronto la vita e gli insegnamenti di Gesù con la vita e gli insegnamenti di Maometto: i quattro vangeli sono la fonte usata per Gesù, mentre per Maometto usa il Corano, l’Hadith (le storie sul Profeta trasmesse oralmente e poi raccolte dal califfo Omar II nell'VIII secolo) e il Sirat Rasul Allah (La vita del Profeta di Allah), anche questo scritto nell'VIII secolo. Il confronto tra le due figure, ben dettagliato da Federer e che potete leggere nell’articolo integrale, non necessita di alcun commento. Citiamo solo alcuni punti:

– Gesù è stato un leader religioso.

– Maometto è stato un leader religioso e militare.

– Gesù non ha mai ucciso nessuno.

– Maometto si stima abbia ucciso 3mila persone, compresi 700 ebrei a Medina nel 627.

– Gesù non ha mai posseduto schiavi.

– Maometto ne riceveva un quinto dei prigionieri catturati in battaglia, comprese le donne (Sura 8,41).

– Gesù non ha mai forzato i suoi discepoli a continuare a credere in Lui.

– Maometto ha forzato i suoi discepoli a continuare a credere in lui (pena la morte).

– Gesù ha insegnato a perdonare le offese ricevute.

– Maometto ha insegnato a vendicare le offese contro l’onore, la famiglia o la religione.

– Gesù non ha mai torturato nessuno.

– Maometto ha torturato il capo di una tribù ebrea.

– Gesù non ha vendicato la violenza contro di lui, affermando addirittura “Padre, perdona loro” (Lc 23,24).

– Maometto ha vendicato le violenze contro di lui ordinando la morte dei suoi nemici.

– Per cristiani ed ebrei martire è colui che muore per la propria fede.

– Per l’islam martire è chi muore per la propria fede mentre combatte (e uccide) gli infedeli.

– Nessuno dei discepoli di Gesù ha mai guidato eserciti.

– Tutti i califfi discepoli di Maometto sono stati anche generali.

– Nei primi 300 anni di cristianesimo ci sono state 10 importanti persecuzioni contro i cristiani (senza che ci fossero resistenze armate).

– Nei primi 300 anni di islam, gli eserciti islamici hanno conquistato Arabia, Persia, la Terra Santa, Nord Africa, Africa centrale, Spagna, Francia meridionale e vaste aree di Asia minore e Asia.

“Morendo, Gesù lascia quattro chiodi, Maometto sette spade”. Victor-Marie Hugo (Besançon, 26 febbraio 1802 – Parigi, 22 maggio 1885). Sulla base di questa citazione mettiamo a confronto i principali personaggi delle due più diffuse religioni al mondo, troppo spesso equiparati ma mai per ragioni di verbo.

“Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” – Matteo 5,44

“Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere] e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce” – Corano VIII, 60

Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno vi perquote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra”. – Matteo 5,39

“Non combatterete contro gente che ha violato i giuramenti e cercato di scacciare il Messaggero? Sono loro che vi hanno attaccato per primi”. – Corano IX, 13

“Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” – Matteo 5,11-12

“Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell’omicidio” – Corano II, 191

“Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avra ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con ii proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna.” – Matteo 5,21-22

“Quando [in combattimento] incontrate i miscredenti, colpiteli al collo finché non li abbiate soggiogati, poi legateli strettamente. In seguito liberateli graziosamente o in cambio di un riscatto, finché la guerra non abbia fine. Questo è [l'ordine di Allah]. Se Allah avesse voluto, li avrebbe sconfitti, ma ha voluto mettervi alla prova, gli uni contro gli altri. E farà sì che non vadano perdute le opere di coloro che saranno stati uccisi sulla via di Allah.” – Corano XLVII, 4

“Nessuno è buono, se non Dio solo.” – Marco 10,18

“I giudei dicono: ‘La mano di Allah si è incatenata!’. Siano incatenate le mani loro e siano maledetti per quel che hanno detto. Le Sue mani sono invece ben aperte: Egli dà a chi vuole.” – Corano V, 64

“Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna e stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più.” – Giovanni 8,3-11

“Una donna di Ghamid si reco da lui (il Santo Profeta [Maometto]) e disse: “Messaggero di Allah, purificami poiché ho commesso adulterio”. Egli (il Santo Profeta) la mandò via. Il giorno seguente ella disse: Messaggero di Allah, perche ml scacci? […] In nome di Allah, sono rimasta incinta”. Egli disse: “Bene, se proprio insisti, allora vattene e non tornare prima di avere dato alla luce il bambino”. Dopo avere partorito la donna tornò con il neonato avvolto in un pezzo di stoffa e disse: “Questo e il figlio che ho dato alla luce”. E Maometto: “Vattene e allattalo fin quando non l’avrai svezzato”. Una volta svezzato il bambino, ella tornò da lui […] e disse: “Apostolo di Allah, ecco mio figlio. L’ho svezzato e ora è in grado di mangiare”. A quel punto il Santo Profeta affidò il bambino a uno dei musulmani e pronunciò la condanna. La donna fu messa in una fossa che le arrivava al petto e Maometto ordinò al suoi uomini di lapidarla. Halid ‘Ibn Walid si fece avanti e le tiro una pietra sulla testa. Il sangue schizzo sul volto di Halid cd egli allora abusò di lei. L’apostolo di Allah sentì la maledizione scagliata su di lei da Halid e disse: “Halid, sii gentile. In nome di Colui che ha nelle Sue Mani la mia vita, il pentimento di questa donna è tale che sarebbe stata perdonata persino se fosse un esattore della tasse disonesto”. Date quindi istruzioni su cosa fare di lei, si mise a pregare e la donna venne seppellita.” Hadith – Sahih Muslim, vol. 3, libro 17, n. 4206

“Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in Lui non muoia, ma abbia la vita eterna.” – Giovanni 3,16

“Allah ha comprato dai credenti le loro persone e i loro beni [dando] in cambio il Giardino, [poiché] combattono sul sentiero di Allah, uccidono e sono uccisi. Promessa autentica per Lui vincolante.” – Corano IX, 111

“Tutti quelli che mettono mano alla spada periranno.” – Matteo 26,52

“Sappiate che il Paradiso è all’ombra delle spade (jihad in nome di Allah).” – Hadith – al-Bukari, Sahih al-Bukhari cit., vol. 4, libro 56, n. 2818

“Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perche saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.” – Matteo 5,8-10

“Coiui che partecipi (alle guerre sante) in nome di Allah, e che non lo faccia per nessun’altra ragione che non sia la fede in Allah e nei suoi messaggeri, sarà ricompensato da Allah o con un ricco bottino (qualora sopravviva) o con l’ingresso in Paradiso (nel caso muoia da martire in battaglia).” – Hadith – Al-Bukhari, Sahih al-Bukhari cit., vol. 1, libro 2, n. 36.

“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. […] Infatti se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?” – Matteo 5,7; 46-47

“Maometto è il Messaggero di Allah e quanti sono con lui sono duri con i miscredenti e compassionevoli fra loro.” – Corano XLVIII, 29

Verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio.” – Giovanni 16,2

“Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati.” – Corano IX, 29

“Voi sarete odiati da tutti a causa del mio nome, ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato” – Marco 13,13

“Avete avuto un bell’esempio in Abramo e in coloro che erano con lui, quando dissero alla loro gente: “Noi ci dissociamo da voi e da quel che adorate all’infuori di Allah: vi rinneghiamo. Tra noi e voi è sorta inimicizia e odio [che continueranno] ininterrotti, finché non crederete in Allah” – Corano LX, 4

“Allora quelli che eran con lui, vedendo cio che stava per accadere, dissero: “Signore, dobbiamo colpire con la spada?”. E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: “Lasciate, basta così!”. E toccandogli l’orecchio, lo guarì.” – Luca 22,49-51

“Secondo ‘Abù Qilaba, Anan disse: “Alcuni uomini di ‘Ukl e di ‘Uraina vennero a Medina, ma poiché il clima della regione non si confaceva loro essi si ammalarono. Allora uccisero il pastore che accudiva le bestie del Profeta e portarono via tutti i cammelli. Quando al mattino presto la notizia giunse alle orecchie di Maometto egli ordinò ai suoi [uomini] di inseguire i ladri, che a mezzogiorno erano già stati catturati e riportati indietro. Allora il Profeta diede disposizioni di amputare loro le mani e i piedi (e questo fu fatto). Quindi gli vennero bruciati gli occhi con dei pezzi di ferro incandescente. Dopodiché furono portati ad Al-Harra e quando chiesero dell’acqua non gli venne concessa”. ‘Abu Qilaba aggiunse: “Questi uomini rubarono, uccisero, tornarono a essere infedeli dopo avere abbracciato l’lslam e si opposero al volere di Allah e del Suo Messaggero”.  – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation pf the Meaning. vol. 1, libro 4, n. 234

“Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto.” – Giovanni 18,36

“Ho ricevuto (da Allah) l’ordine di combattere contro gli infedeli finché non testimonieranno che non vi è altro dio al di fuori di Allah e che Maometto è il Suo Messaggero.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation pf the Meaning. Vol. 1, libro 2, n. 25

Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi.” – Luca 6,35

“I credenti non si alleino con i miscredenti, preferendoli ai fedeli. Chi fa ciò contraddice la religione di Allah, a meno che temiate qualche male da parte loro. Allah vi mette in guardia nei loro confronti.” – Corano III, 28

“Se qualcuno poi non vi accoglierà e non darà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dai vostri piedi”. – Matteo 10,14

“Chiunque lasci il credo islamico per convertirsi a un’altra religione merita la morte.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation of the Meaning. vol. 4, libro 52, n. 260.

“Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro [tutti gli uomini]: questa infatti è la Legge ed i Profeti.” – Matteo 7, 12

“Nessuno di voi avrà fede finché non farà per il suo fratello (musulmano) ciò che fa per se stesso.” – Muhammed Ibn Isma’il al-Bukhari, Sahih al-Bukhari: The Traslation of the Meaning. vol. 1, libro 2, n. 13 

Nostradamus: “La Guerra inizierà in Francia e poi tutta l’Europa sarà colpita, Italia compresa”. Nostradamus, veggente e visionario, nel suo libro pubblicato nel 1555 “Le Profezie” ha predetto tantissimi eventi che sono avvenuti nei secoli successivi come l’avvento di Adolph Hitler, la Rivoluzione Francese, la bomba atomica, gli attacchi del 11 Settembre 2001 ed una terza guerra mondiale. E anche quello che è accaduto in questi giorni in Francia e nel mondo sarebbe determinante per grandi sconvolgimenti in arrivo. Secondo molti esegeti, ovvero coloro che hanno interpretato e cercato di comprendere il messaggio criptico contenuto nelle quartine e sestine del famoso profeta, gli avvenimenti descritti nel libro arrivano fino al 2025 dove un nuovo mondo di pace sorgerà dalle ceneri della distruzione del mondo come lo conosciamo oggi. Nel libro ci sono almeno 20 profezie che parlano dell’invasione araba dell’Europa (Italia compresa) e dell’Occidente con la distruzione di Parigi, Roma e altre città. Vediamone alcune che sono molto chiare: “LA GRANDE GUERRA INIZIERÀ IN FRANCIA E POI TUTTA L’EUROPA SARÀ COLPITA, LUNGA E TERRIBILE ESSA SARÀ PER TUTTI….POI FINALMENTE VERRÀ LA PACE MA IN POCHI NE POTRANNO GODERE“. “PER LA DISCORDE NEGLIGENZA FRANCESE SARÀ APERTO PASSAGGIO A MAOMETTO: DI SANGUE INTRISO LA TERRA ED IL MARE, IL PORTO DI MARSIGLIA DI VELE E NAVI COPERTO.” Secondo il profeta la tendenza a favorire a tutti i costi l’Islam rinunciando alle tradizioni è stato determinante per l’attacco arabo alla nostra cultura. Poiché la Francia è la nazione dove questo è avvenuto di più sarebbe il luogo dove inizierebbe la terza guerra mondiale. Ma la preoccupazione cresce se si considera anche cosa abbia scritto di Roma: CI SARANNO TANTI CAVALLI DEI COSACCHI CHE BERRANNO NELLE FONTANE DI ROMA […] CHE SPARIRÀ E IL FUOCO CADRÀ DAL CIELO E DISTRUGGERÀ TRE CITTÀ. E in questo caso, in relazione a una profezia retroattiva, si potrebbe pensare al racconto dei sopravvissuti del Bataclan, prima i colpi come se facessero parte della scenografia, poi le parole pronunciate dai terroristi. Nostradamus ha sempre affermato di basare le proprie profezie sull’astrologia giudiziaria, ma fu duramente criticato dagli astrologi dell’epoca, considerandolo incompetente in materia. Gli studi recenti hanno rilevato come egli stendesse la parafrasi di elementi escatologici derivati dalla Bibbia, integrandoli con fatti storici e testi antologici in cui erano raccontati presagi e predizioni. Si pensi per esempio al finale della città di Roma, con l’avvento della terza guerra mondiale: ROMA PERDERÀ LA FEDE E DIVENTERÀ IL SEGGIO DELL’ANTICRISTO […] I DEMONI DELL’ARIA, CON L’ANTICRISTO, FARANNO DEI GRANDI PRODIGI SULLA TERRA E NELL’ARIA E GLI UOMINI SI PERVERTIRANNO SEMPRE DI PIÙ. Un destino per la città eterna che non si addice al suo nome, in considerazione anche delle minacce dell’Isis, annoverata come prossimo bersaglio, generando non poche polemiche sull’eventualità della cancellazione del Giubileo. Il Papa però non ha intenzione di fare marcia indietro. Prepariamoci quindi alle prossime profezie, presenti fino al 3797, considerando anche che alcune predizioni non si sono avverate. Fonte: AttivoTV

L'islam vuole sostituirsi al cristianesimo. Radio Maria lancia il monito "L'islam punta a farci fuori". Padre Fanzaga sulla strage di Nizza: "Pericolo grave: più che politico è un problema soprattutto religioso", scrive Fabio Marchese Ragona, Domenica 24/07/2016, su "Il Giornale". Non usa mezzi termini e non sembra avere alcun dubbio Padre Livio Fanzaga, storico direttore di Radio Maria, finito spesso al centro delle polemiche per le sue esternazioni radiofoniche da molti considerate troppo «spinte» per un uomo di Chiesa. Contro ogni coro islamofilo, il religioso bergamasco questa volta ha affidato i suoi pensieri senza filtri a un breve messaggio scritto sul sito web della radio cattolica: parlando della recente strage di Nizza, il padre scolopio ha infatti detto: «È doveroso chiedersi che cosa i musulmani pensino di noi e della religione cristiana; l'obbiettivo dell'islam di qualsiasi tendenza è quello di sostituirsi al cristianesimo e ad ogni altra espressione religiosa. I mezzi per farlo dipendono dalle circostanze storiche». Un messaggio chiaro, un sasso lanciato nello stagno che apre di certo un dibattito sulla questione islam, considerato anche che a pronunciare queste parole non è stato un sacerdote sconosciuto nel corso di un'omelia in una chiesetta di campagna, ma l'ormai celebre Padre Livio, seguito ogni giorno da milioni di ascoltatori e di cybernauti che visitano il suo sito. «Il terrorismo di matrice islamica - scrive Don Fanzaga - rappresenta uno dei pericoli più gravi che incombono sulla nostra società. Il problema non è soltanto politico, ma anche e soprattutto religioso. Non vi è dubbio che la grande maggioranza di musulmani che vive in Occidente sia gente che vuole fare una vita tranquilla, ma l'obiettivo dell'Islam è di sostituirsi al cristianesimo». A sostegno di queste parole, il religioso ha pubblicato a seguire un breve estratto del suo volume «Non praevalebunt. Manuale di resistenza cristiana», in cui il direttore di Radio Maria, riporta alla luce una vecchia pubblicazione di Stefano Nitoglia secondo cui, nonostante le differenze tra Islam moderato, radicale e di matrice terrorista, i fini appaiono sempre gli stessi: «La soggezione di tutto il mondo all'islam, considerato il sigillo e il compimento di tutte le rivelazioni, con il mondo (secondo la dottrina classica dell'islam, accettata da tutti i musulmani) suddiviso in due parti, il territorio dell'islam, dove vige la legge dell'islam e il territorio di guerra dove sono gli infedeli. Quest'ultimo territorio dev'essere conquistato e assoggettato all'Islam». Parole che Padre Livio ha fatto sue, ritenendo peraltro inutile un ipotetico dialogo interreligioso con l'Islam in cui i cristiani proporrebbero la visione della fede cristiana ai musulmani «perché per essi il cristianesimo è quello che viene interpretato dal Corano e nessun argomento umano potrebbe cambiare quella che per loro è una rivelazione divina». Una posizione, quella espressa da don Fanzaga, secondo cui l'islam vuole sostituirsi al cristianesimo, in netto contrasto con quella ufficiale del Vaticano, con il cammino intrapreso da Papa Francesco, impegnato sin dall'inizio del suo pontificato in un dialogo con l'islam sunnita e con quello sciita, convinto che «con i musulmani si può convivere». Proprio qualche giorno fa, ad esempio, uno stretto collaboratore del Papa, il vescovo spagnolo Miguel Angel Ayuso Guixot, segretario del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso ed esperto di Islam, è volato al Cairo per un incontro all'Università di Al-Azhar, uno dei maggiori centri d'insegnamento dell'Islam sunnita, retto dalla guida suprema, lo sceicco Muhammad Ahmad al-Tayyib. Nell'incontro, l'inviato papale ha discusso i termini e le modalità per un prossimo incontro che «segna la ripresa del dialogo tra Santa Sede e Al-Azhar per rafforzare i legami tra cristiani e musulmani». Nonostante ciò, Radio Maria e il suo direttore rimangono di un altro avviso: l'islam è un pericolo per i cristiani e in un altro editoriale intitolato «La donna e il drago» pubblicato qualche giorno fa, Fanzaga, parlando di terrorismo islamico ha ribadito: «Per quanto gli Stati si diano da fare, difficilmente verranno a capo di questo scatenamento infernale dell'impero delle tenebre. Per uscire vincitori di questo tremendo passaggio storico non bastano i mezzi umani, per quanto necessari».

La legittimità delle Crociate, un atto di difesa, scrive Massimo Viglione il 23 novembre 2015. Dal VII all’XI secolo l’Islam ha sistematicamente attaccato e invaso manu militari gran parte delle terre di quello che era l’Impero Romano d’Occidente (premendo nel contempo senza sosta alle porte di quello d’Oriente), conquistando gran parte del Medio Oriente, l’Africa del Nord, la Penisola Iberica, tentando di varcare i Pirenei, poi occupando la Sicilia, la Sardegna e la Corsica, risalendo con scorrerie fino a Lione e poi in Svizzera e alle Alpi, ponendo delle enclave fisse vicino Roma (le basiliche di San Pietro e San Paolo e l’abbazia di Montecassino furono distrutte), ma soprattutto terrorizzando per secoli le popolazioni cristiane mediterranee, specialmente quelle italiane. Quattro secoli di invasioni militari (massacri di uomini, deportazioni di donne negli harem, conversione forzata dei bambini) e razzie, di cui nessuno mai potrà fare il calcolo non tanto dei danni materiali, quanto del numero dei massacrati e del dolore immenso causato a intere generazioni di cristiani, senza che questi potessero in alcun modo contrattaccare. Gli stessi pellegrini che andavano in Terra Santa venivano spesso massacrati, specie a partire dall’XI secolo, con l’arrivo del dominio dei turchi selgiuchidi. Tutto quanto detto deve essere tenuto presente prima di emettere qualsivoglia giudizio storico e morale sulla crociate: non si può infatti presentare i crociati come una “banda di matti fanatici” e ladri che calò improvvisamente in Palestina per rubare tutto a tutti e uccidere i poveri musulmani indifesi. Ciò è solo ridicolo, evidentemente sostenuto da chi non cerca la verità storica ma è mosso solo dal suo odio anticristiano (o dalla sua simpatia filoislamica). Come sempre ufficialmente dichiarato dalla Chiesa tramite la voce dei Papi e dai teorici del movimento crociato (fra questi, san Bernardo di Chiaravalle) e dai teologi medievali (fra gli altri, san Tommaso d’Aquino e anche santa Caterina da Siena), lo scopo e la legittimità delle crociate risiedono nei seguenti princìpi fondamentali:

Il diritto/dovere assoluto della Cristianità a rientrare in possesso dei Luoghi Santi;

La difesa dei pellegrini (e a tal fine nacquero gli Ordini monastico-cavallereschi);

La legittima difesa dai secolari assalti della Jahad islamica.

Come si può notare, tutti e tre i princìpi indicati si fondano pienamente sul diritto naturale: quello del recupero della legittima proprietà privata lesa, quella della difesa del più debole dalla violenza ingiustificata, quello della legittima difesa da un nemico ingiustamente invasore. È interessante notare a riguardo che le fonti islamiche sulle crociate, pur accusando i crociati di atti barbarici e stragisti di ogni genere, mai mettono però idealmente in dubbio il loro diritto alla riconquista dei Luoghi della Redenzione di Cristo. Da conquistatori, essi sanno che il diritto del più forte, su cui essi si fondano, prevede anche il contrattacco. A questi tre princìpi poi, santa Caterina da Siena ne aggiunge un altro: il doveroso tentativo di conversione degli infedeli alla vera Fede, per la loro salvezza eterna, bene supremo di ogni uomo. Per necessaria completezza, occorre tener presente poi che il movimento crociato non si esaurì nell’ambito dei due secoli (1096-1291) in cui avvennero la conquista e la perdita della Terra Santa da parte cristiana (crociate tradizionali); infatti, a partire dal XIV secolo, e fino agli inizi del XVIII, con l’avanzata inarrestabile dei turchi ottomani, di crociate se ne dovettero fare in continuazione; questa volta però non per riprendere i Luoghi Santi, ma per difendere l’Europa stessa (l’Impero Romano d’Oriente cadde in mano islamica nel 1453) dalla conquista musulmana. I soli nomi di Cipro, Malta, Lepanto, Vienna (ancora nel 1683) ci dicono quale immane tragedia per secoli si è consumata anche dopo le stesse crociate “tradizionali” e ci testimoniano un fatto incontrovertibile e di importanza capitale: per quattro secoli prima e per altri quattro secoli dopo le crociate “tradizionali”, il mondo cristiano è stato messo sotto attacco militare dall’Islam (prima arabo, poi turco), subendo quella che può definirsi la più grande e lunga guerra d’assalto mai condotta nella storia, in obbedienza ai dettami della Jihad (Guerra Santa) voluta e iniziata da Maometto stesso. Mille anni di guerre. Per questo, occorre essere sereni, preparati e giusti nei giudizi. Le crociate furono insomma anzitutto guerre di legittima difesa e di riconquista di quanto illegittimamente preso da un nemico invasore. Pertanto, ebbero piena legittimità storica e ideale (ciò non giustifica, ovviamente, tutte le violenze gratuite commesse da parte cristiana nel corso dei secoli). Ancor più ciò è valido a partire dal XIV secolo, quando l’unico scopo del movimento crociato divenne la difesa della Cristianità intera aggredita dai turchi.

Con la Rivoluzione Francese abbiamo diviso lo Stato dalla Chiesa e questi ci vogliono imporre un nuovo tipo di regime teocratico ideologico?

«Siamo allo Stato etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili», scrive "Tempi" il 19 Luglio 2016. È questo il commento di Gandolfini a un nuovo ddl che propone di punire con due anni di carcere i professionisti medici che si impegnano, anche su richiesta, a modificare l’orientamento sessuale di una persona. «La strategia contro l’umano – ma anche contro il buon senso – non si ferma. Il 14 luglio scorso è stato depositato al Senato il ddl 2402 con il titolo “Norme di contrasto alle terapie di conversione dell’orientamento sessuale dei minori”. Primo firmatario il Sen. Sergio Lo giudice (Pd) – che ha contratto matrimonio gay ad Oslo e oggi è “padre” di un bimbo avuto con utero in affitto. Fra i firmatari anche la Sen. Monica Cirinnà (Pd)». Spiega Massimo Gandolfini, presidente del Comitato promotore degli ultimi due Family Day. «In buona sostanza il ddl chiede la galera fino a due anni e una multa da 10mila a 50mila euro – prosegue Gandolfini – per “chiunque esercitando la pratica di psicologo, medico psichiatra, psicoterapeuta, terapeuta, consulente clinico, counsellor, consulente psicologico, assistente sociale, educatore o pedagogista faccia uso su soggetti minorenni di pratiche rivolte alla conversione dell’orientamento sessuale” (art.2). Va, quindi, sanzionata “ogni pratica finalizzata a modificare l’orientamento sessuale, eliminare o ridurre l’attrazione emotiva, affettiva o sessuale verso individui delle stesso sesso, di sesso diverso o di entrambe i sessi” (Art.1, comma 1)». «Ciò significa – afferma ancora il portavoce del Family Day – che un minore che vive con disagio il suo orientamento sessuale, con l’aiuto e l’approvazione dei genitori, non può e non deve trovare alcun professionista che lo aiuti, salvo solo confermarlo nell’orientamento vissuto con sofferenza. Siamo allo Stato Etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili a anche difronte alle valutazioni che può fare un esperto medico psichiatra. Che ne è della libertà? La libertà di scelta, la libertà di ricerca, la libertà di educazione dei genitori? Senza contare quanto instabili ed insicure sono le scelte emotivo-affettive che caratterizzano gli anni dell’adolescenza!». «La solita schizofrenia tipica delle menti che si credono illuminate e che si alimentano solo di insensate ideologie: da un lato la pretesa di libertà assoluta di scegliere l’orientamento e l’identità di genere che si vuole fin dalle scuole dell’infanzia, dall’altro la negazione di essere liberi di scegliere il percorso di assistenza psicologica che meglio si addice alla propria condizione di disagio emotivo, sempre qualora esso si manifesti. Un appello a tutte le persone di buon senso: uniamo le nostre forze per fermare, con tutti gli strumenti democratici a disposizione, questo folle treno in corsa». Conclude Gandolfini.

Essere i paladini dell’antirazzismo. Le radici del razzismo del ‘900? Marx ed Engels, scrive Riccardo Ghezzi, l'11 settembre 2011 su “Quelsi”. C’è qualcosa di strano negli “anti-razzisti” in bandiera rossa con falce e martello dei giorni nostri. Qualcosa che non torna. Come al solito, quel qualcosa che non torna è la scarsa conoscenza della storia dei compagni. Già, perché gli “anti-razzisti” di oggi, che ideologicamente si rifanno al comunismo e ai teorici Marx ed Engels, ignorano che il razzismo del ‘900 ha dei padri che sono vissuti un secolo prima: Marx ed Engels, per l’appunto. Due pensatori razzisti, neppure troppo velatamente. Basterebbe studiarli per saperlo, ma certo non si può pretendere che marxisti o engelsiani leggano opere e aforismi dei loro beniamini. Lo studio dei testi di Marx ed Engels ci mostra che il genocidio, razziale o di classe, è una teoria propria al socialismo. L’ha scritto il filosofo e politico francese Jean-François Revel nella sua prefazione al libro «La littérature oubliée du socialisme» di George Watson. Aveva ragione. Engels, nel 1849, invocava lo sterminio degli ungheresi che si erano ribellati all’Austria. Lo scriveva in un articolo pubblicato sulla rivista diretta proprio dal suo amico Karl Marx, la «Neue Rheinische Zeitung». Lo stesso articolo sarà riportato da Stalin, nel 1924, in «Fondamenti del Leninismo», in realtà spudoratamente copiato da un saggio del segretario Ksenofontov, al quale è stata vietata la pubblicazione della sua opera (troppo simile a quella che Stalin aveva spacciato per farina del proprio sacco) prima di essere fatto fucilare negli anni ’30. Ma non andiamo fuori tema. Engels desiderava candidamente l’estinzione di ungheresi, serbi e altri popoli slavi, e poi ancora baschi, bretoni e scozzesi. In «Rivoluzione e controrivoluzione in Germania», pubblicato nel 1852 sulla stessa rivista, era Marx in persona a chiedersi come fare per sbarazzarsi di “queste tribù moribonde, i boemi, i corinzi, i dalmati, ecc…”. Il concetto di autodeterminazione dei popoli non era proprio ben visto da Marx ed Engels, per usare un eufemismo. Ma Engels ha rincarato la dose nel 1894. In una lettera ad uno dei suoi corrispondenti, W. Borgius, l’intellettuale comunista tedesco scriveva: Per noi, le condizioni economiche determinano tutti i fenomeni storici, ma la razza è anch’essa un dato economico. La “razza”. Chi l’avrebbe detto. Cosa Engels volesse intendere, l’ha chiarito meglio nel suo Anti-Duhring: Se, per esempio, nel nostro paese gli assiomi matematici sono perfettamente evidenti per un bambino di otto anni, senza nessun bisogno di ricorrere alla sperimentazione, non è che la conseguenza dell’eredità accumulata. Sarà al contrario molto difficile insegnarli a un boscimane o a un negro d’Australia. Parole che farebbero impallidire persino il tanto vituperato (dai compagni) Mario Borghezio. La superiorità razziale dei bianchi era una verità scientifica per i fondatori del socialismo, ed anche per i loro adepti. H. G. Wells e Bernard Shaw, intellettuali socialisti del ‘900 e grandi ammiratori dell’Unione Sovietica, per esempio rivendicavano il diritto di liquidare fisicamente le classi sociali che ostacolavano o ritardavano la Rivoluzione socialista. Stupiscono soprattutto le parole di Bernard Shaw riportate sul periodico The listener nel 1933, con le quali invitava scienziati e chimici a “scoprire un gas umanitario che causa la morte istantanea e senza dolore, insomma un gas «civile» mortale ma umano, sprovvisto di crudeltà”. Anche il nazista Adolf Eichmann, durante il processo a Gerusalemme nel 1962, ha invocato in sua difesa il carattere umanitario dello zyklon B, usato per uccidere le vittime della Shoah. Torniamo a Marx. Egli, ebreo auto-rinnegato, definiva il suo rivale e critico Ferdinand Lassalle con queste parole: Vedo ora chiaramente che egli discende, come mostrano la forma della sua testa e la sua capigliatura, dai Negri che si sono congiunti agli Ebrei al tempo della fuga dall’Egitto, a meno che non siano sua madre o sua nonna paterna che si sono incrociate con un negro. L’importunità di quell’uomo è altresì negroide. E poi ancora: Il negro ebreo, un ebreo untuoso che si dissimula impomatandosi e agghindandosi di paccottiglia dozzinale. Ora questa mescolanza di giudaismo e germanesimo con un fondo negro debbono dare un bizzarro prodotto. Léon Poliakov, storico e filosofo francese di origine russa vissuto nel ‘900, così ha definito Marx: Marx restava influenzato dalle gerarchie germanomani, si rifaceva all’idea dell’influenza del suolo di Trémaux, un determinismo geo-razziale che fondava agli occhi di Marx l’inferiorità dei negri. Lo stesso si potrebbe dire per Engels. Impossibile pretendere che gli scalmanati dei centri sociali, armati di spranghe e bandiera rossa, sappiano queste cose. Ma che almeno coloro che si rifanno alle idee di Marx ed Engels abbiano il buon gusto di non definirsi “anti-razzisti”. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Illudere gli operai, distruggere la Chiesa, aggregare l’Italia all’Urss: i piani del PCI in due documenti esclusivi. È il 1948, all’orizzonte si profila l’appuntamento con il 18 aprile, giorno delle elezioni politiche che potrebbero rivelarsi decisive per le sorti dell’Italia. PCI e PSI si sono riuniti nel Fronte Democratico Popolare, con lo scopo dichiarato di assumere la guida del Paese battendo la Dc, già uscita vincitrice dalle precedenti elezioni del 1946. Al fine di raggiungere l’obiettivo, i militanti sono disposti a tutto: una vera e propria “macchina da guerra”, nemmeno troppo “gioiosa”, per parafrasare la famosa uscita di Achille Occhetto molti anni dopo. La propaganda del Fronte Democratico Popolare è feroce, tanto che i “compagni propagandisti” rivestiranno un ruolo importante durante la campagna elettorale. I due documenti che vi mostriamo sono particolarmente significativi: una lettera segreta contenente un vero e proprio vademecum per i propagandisti ed un decalogo inoltrato ai militanti più fedeli e considerati affidabili. Entrambi stupiscono per il tono enfatico e ancor di più per i contenuti, talvolta davvero stucchevoli. Ci sono stati forniti da un lettore del blog, che li ha avuti originali da una persona nata del 1932 che all’epoca risiedeva in un paesino vicino a Ravenna. Essendo famiglia di area cattolica, hanno ricevuto tale missiva per errore, ma l’hanno gelosamente custodita per tutti questi anni. Nel vademecum sono elencati i 9 punti che il Partito intendeva inculcare ai propagandisti: dai nemici del Fronte Popolare, individuati anche nei mancati alleati del PSLI (futuro PSDI) e PRI, agli obiettivi da ottenere in ambito morale, economico e religioso. Ossia estirpare la Chiesa, distruggere la moralità, abolire la proprietà privata. E poi, trasformare l’Italia in una Repubblica Socialista, vassalla dell’URSS di Stalin, favorendo l’egemonia comunista nel mondo. Oltre alla raccomandazione finale di non divulgare la lettera, che deve restare segreta. Abbiamo scelto di riportare integralmente il documento, senza correggere errori pacchiani come “appariscano”.

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Compagno mezzadro!

1) Il giorno 18 aprile si combatterà la battaglia decisiva tra le forze progressiste e le forze reazionarie. Le forze progressiste sono tutte quelle raggruppate nel Fronte, la forze reazionarie sono tutte le altre. Il Partito Comunista integrale che è l’anima del P.C.I. denuncia come forze reazionarie sia il P.S.L.I. sia il P.R.I., perché il P.C.I. sa perfettamente che se fosse stato costituito, in Italia, un Fronte Popolare comprendente anche le forze socialiste e repubblicane, come fu fatto dodici anni fa in Ispagna, il P.C.I. avrebbe senz’altro vinto le elezioni. Mentre invece il partito si trova a dover lottare contro la reazione, che diventa ogni giorno sempre più pericolosa ed aggressiva, insieme al solo P.S.I. del compagno Nenni, in una lotta che diventa sempre più dura e preoccupante.

2) Il Partito, ti considera maturo e degno di conoscere i suoi più immediati obiettivi, per convincerti della necessità di lottare duramente. Il Partito sa che gli avversari, grazie a forme spietate della loro propaganda capillare, sono riusciti a provocare il disordine nelle nostre file, che fino a dieci giorni fa, sembravano pugnaci e compatte. Il Partito sa che, purtroppo, moltissimi compagni non hanno resistito al tremendo attacco. Ricorda sempre che il Partito ti rivela i suoi immediati obiettivi, considerandoti maturo, perché tu possa incoraggiare i compagni impauriti ed ammonire i compagni titubanti.

3) Il Partito mira a questi obiettivi grandiosi la cui conquista darà nome alla nostra epoca:

Primo: nel piano religioso il Partito mira e estirpare radicalmente l’idea di dio, la dottrina di Cristo, la influenza della chiesa sulle masse, il potere dei preti. Non si vedranno più madonne che andranno in giro da un comune all’altro, né madonne che appariscano o statue di madonne che si muovano.

Secondo: nel piano morale, il partito tende a liquidare, una volta per tutte, la morale borghese, la famiglia cristiana, l’indissolubilità del matrimonio. Il Partito vuole rivendicare, a favore di tutti, uomini e donne, la libera iniziativa nell’amore, fuori da ogni controllo religioso, perché per noi bolscevichi la religione è l’oppio del popolo e droga che ubriaca. La sola morale del Partito è quella affermata dal grande Lenin: quella che serve agli sviluppi della nostra lotta, non quella che si riallaccia all’idea di dio e dei suoi pretesi comandamenti.

Terzo: nel piano economico il Partito abolirà la proprietà privata di tutti i mezzi di produzione, ed in modo particolare abolirà la proprietà privata della terra, delle industrie, dei mezzi di comunicazione -ferroviari, marittimi, aerei, automobilistici – di tutte le aziende, agricole, industriali, artigiane, di caccia e di pesca. Tutto sarà confiscato a favore dello Stato, il quale sarà il solo produttore ed il solo distributore di merci e prodotti, il solo che avrà in mano il commercio sia interno che estero.

4) Compagno! Quando tutto sarà confiscato a favore dello Stato, tu sarai finalmente libero da qualunque privato padrone. Lo Stato tutelerà i tuoi diritti, se tu osserverai onestamente i tuoi doveri. I diritti e i doveri del cittadino saranno determinati in una nuova Carta Costituzionale, che sarà immediatamente fatta sulla guida di quella del compagno Stalin.

5) Quando il partito avrà conquistato il potere, allora vedrai cosa saprà fare contro la chiesa cattolica, contro i suoi ministri, i suoi simboli, i suoi santi, le sue madonne, le sue chiese, le sue organizzazioni. Il Partito ti libererà per sempre dai preti e dalla loro dottrina.

6) Quando il Partito avrà conquistato il potere allora finalmente si realizzerà il sogno di ogni vero comunista bolscevico italiano: l’Italia diventerà una REPUBBLICA SOCIALISTA e domanderà l’onore di essere aggregata all’URSS, con a capo il compagno Stalin. Così dichiarò a Mosca il compagno Togliatti. Allora l’URSS penetrerà, attraverso l’Italia, nel mare mediterraneo, e sarà in grado di resistere alle prepotenze degli Stati Uniti d’America; allora il compagno Stalin accetterà la sfida che gli Stati Uniti d’America gli hanno lanciato. La vittorie del Fronte significherà perciò guerra agli Stati Uniti d’America; e la guerra finirà nella vittoria del Comunismo nel mondo.

7) La vittoria del Fronte aprirà immediatamente le porte alla emigrazione di milioni di lavoratori italiani in Russia, grande Patria del Socialismo, senza formalità alcuna. Così milioni di lavoratori italiani riempiranno gli spaventosi vuoti causati dalla infame guerra fascista nei ranghi della gioventù maschile sovietica. E migliaia di donne sovietiche saranno felici di accogliere i lavoratori italiani, e creare con essi una vera famiglia comunista.

8 ) Compagno! Il Partito ha insistito presso il compagno Stalin di fare all’ultimo momento il gran gesto verso l’Italia, di rinunciare alle riparazioni e alle navi italiani e almeno di promettere all’Italia il grano necessario per arrivare al raccolto. Ciò sarà utilissimo alla nostra propaganda. E’ chiaro, del resto, che se il Partito vincerà le elezioni, il compagno Stalin sarà ricompensato ad usura del suo gesto, ed avrà il centuplo di ciò che darà o prometterà all’italia prima delle elezioni.

9) Compagno! Questa è lettera è segreta. Appunto per questo è stata spedita in busta non intestata, come lettera privata. Il Partito ti raccomanda quindi di non farla leggere a nessuno, ma tutt’al più, ad un solo compagno di tua piena fiducia, purché non sia un contadino. Nel caso però che questa lettera capitasse in mano agli avversari, il Partito la smentirà sollecitamente, a voce e sulla stampa, nelle sue Sedi e fuori. E’ certo doloroso per il Partito dovere smentire i suoi veri programmi; ma talvolta ciò è necessario. Sii dunque avvertito che se il Partito smentirà, ciò vuol dire che qualche compagno immaturo ha parlato.

Per il P.C.I. nel M.S.R. (Compagno Filiberto S.) W IL FRONTE DEMOCRATICO POPOLARE!

Ancor più allarmante, per certi versi, il decalogo. Traspare, oltre ad un linguaggio particolarmente violento, un odio pericoloso nei confronti di chiesa cattolica e istituzioni come la famiglia. Significative anche le parti in cui si invita a “mentire” e “calunniare” i “preti” o i nemici, addirittura a “illudere” gli operai. Attenzione: non aiutare o difendere, ma illudere. Quindi strumentalizzarli. LETTERA SEGRETA AI COMPAGNI MILITANTI. MESSAGGIO CHE CHIARAMENTE INCITA ALL’ODIO E ALL’ANTI-CATTOLICESIMO. La seguente lettera è stata consegnata dal Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano, diretto da Palmiro Togliatti (1893-1964), ai quadri propagandisti rivoluzionari nel 1947. Rileggendola è facile capire l’odio che ha guidato la mano omicida di tanti partigiani durante la guerra e nell’immediato dopoguerra.

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Compagno,

il Partito vuole che anche tu conosca il contenuto di questa circolare segreta, che fu diramata già ai compagni propagandisti dell’Italia del nord, dopo la liberazione, e che fu spedita, nelle rispettive lingue a migliaia di compagni, nei Paesi dell’Europa centrale che dovevano essere bolscevizzati.

Compagno propagandista, Tu sei uno dei più validi strumenti. Perché l’opera tua sia efficace, eccoti una breve guida per il tuo lavoro. Ricorda sempre che il nostro compito è bolscevizzare l’Europa tutta a qualunque costo, in qualunque modo. Tuo compito è bolscevizzare il tuo ambiente. Bolscevizzare significa, come tu sai, liberare l’umanità dalla schiavitù che secoli di barbarie cristiana hanno creato. Liberare l’umanità dal concetto di religione, di autorità nazionale, di proprietà privata.

Per ora il tuo compito è più limitato. Ecco un decalogo:

1) Non manifestare ai compagni non maturi lo scopo del nostro lavoro: comprometteresti tutto.

2) Lottare contro quanto, specie gli ipocriti preti, vanno dicendo di meno vero sui nostri scopi: negare recisamente quanto essi affermano, negare recisamente che noi non vogliamo la religione, la patria, la famiglia.

3) Mostrare con scherzi, sarcasmi e con condotta piacevole che tu sei più libero senza le pastoie della religione, anzi si vive meglio e si è più liberi.

4) Specialmente è tuo compito distruggere la morale insegnando agli inesperti, creando un ambiente saturo di quello che i pudichi chiamano immoralità. Questo è tuo supremo dovere, distruggere la moralità.

5) Allontana sempre dalla Chiesa i tuoi compagni con tutti i mezzi, specialmente mettendo in cattiva luce i preti, i vescovi ecc. Calunniare, falsare: sarà opportuno prendere qualche scandalo antico o recente e buttarlo in faccia ai tuoi compagni.

6) Altro grande ostacolo al nostro lavoro: la famiglia cristiana. Distruggerla seminando idee di libertà di matrimonio, eccitare i giovani e le ragazze quanto più si può; creare l’indifferenza nelle famiglie, nello stabilimento, nello Stato; staccare i giovani dalla famiglia.

7) Portare l’operaio ad amare il disordine, la forza brutale, la vendetta: e non avere paura del sangue.

8 ) Battere molto sul concetto che l’operaio è vittima del capitalismo e dei suoi amici: autorità e preti.

9) Sii all’avanguardia nel fare piccoli servizi ai tuoi compagni, parla molto forte, fatti sentire. Il bene che fanno i cattolici nascondilo e fallo tuo. Sii all’avanguardia di tutti i movimenti.

10) Lotta, lotta, lotta contro i preti e la morale cattolica. Dà all’operaio l’illusione che solo noi siamo liberi e solo noi li possiamo liberare. Non avere paura, quando anche dovessimo rimanere nascosti tre o cinque anni. L’opera nostra continua, sempre perché i cattolici sono ignoranti, paurosi e inattivi.

Vinceremo noi! Sii una cellula comunista! Domina il tuo ambiente! Questo foglio non darlo in mano ai preti, né a gente non matura alla nostra idea”.

Le elezioni del 1948 non sono andate secondo i piani dei compagni. Ha vinto la Dc, conquistando il 48% dei voti, maggioranza relativa dei voti e maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Il Fronte Popolare si è fermato al 31%, perdendo persino alcuni voti conquistati da PCI e PSI nel 1946. La catastrofe di un’Italia sovietica è stata evitata. Nonostante ciò, è giusto che queste lettere siano conosciute e inoltrate, per far capire quali fossero i piani dei comunisti per l’Italia e che da allora loro non sono cambiati, rendendo il contenuto di quelle lettere sempre attuali, rappresentando per certo e per vero il loro modo di essere e di pensare. E che finché ci saranno bandiere rosse nelle piazze, nessuno si deve vergognare di essere anti-comunista, anche oggi e negli anni a seguire.

Medioevo: miti ed errori contenuti nei libri di liceo, scrive Vittorio Nigrelli l’8 maggio 2014. La prima lezione di Storia medievale del professor Giuseppe Sergi, all’Università di Torino, è scioccante. Scoprire che la maggior parte delle conoscenze che si possiedono sul Medioevo è falsa è un colpo al cuore che non miete vittime solo grazie alla giovane età delle matricole. Il Medioevo è, in effetti, un contenitore di luoghi comuni talmente forti e radicati che nessuno si meraviglia se, in un articolo di giornale, si legge che il potere nel Medioevo era trasmesso tramite un’investitura feudale, o che il 31 dicembre 999 il mondo era terrorizzato e sùbito dopo la mancata apocalisse s’ebbe una sfolgorante crescita dovuta alla rinnovata fiducia nel futuro. Quando si parla di Medioevo, tornano alla mente parole come servi della gleba, vassalli, valvassini, valvassori, vescovo-conte, ius primae noctis, feudalesimo e altre ancora. Come dimostrato dai medievisti nel corso dell’ultimo secolo, queste parole indicano perlopiù ricostruzioni sbagliate, traslazioni temporali di fenomeni avvenuti in epoche diverse, o semplici bugie. Uno dei luoghi comuni più ferocemente confutati ma estremamente resistenti a qualunque dichiarazione da parte degli specialisti è lo ius primae noctis. Grazie a Braveheart di Mel Gibson, l’intero globo conosce l’odiosa regola secondo la quale il signore feudale aveva il diritto di «sostituire» il marito durante la prima notte di nozze. Le radicali smentite di Felix Liebrecht e Karl Schmidt, risalenti alla seconda metà dell’Ottocento (!), sembrano non avere risvegliato alcun interesse presso la cultura di massa. Lo ius primae noctis fu in realtà ideato da alcuni giuristi del Cinquecento. Costoro pensarono, studiando una forma di pagamento in moneta d’una tassa (il formariage) riguardante i matrimoni di persone di condizione non libera, che tale forma evoluta di pagamento costituisse l’esito d’una civilizzazione progressiva d’un’usanza ben più barbara e tremenda; un’usanza che tuttavia non è mai stata documentata. Una delle cause più frequenti d’errori è la «deformazione prospettica», reazione spontanea di chi non è specialista di fronte alla storia. Si guarda il passato come un paesaggio: gli elementi più vicini sono grandi e nitidi; quelli lontani, molto più piccoli e sfocati. Si finisce per guardare gli oggetti più grandi e assimilare a questi i più piccoli. Un esempio sono le convinzioni in fatto di dieta: se sulle tavole dei contadini della prima età moderna c’erano zuppe di cereali, è altrettanto vero che nell’Alto Medioevo il consumo di carne era diffusissimo. Un altro caso è quello dei castelli: difficile convincere le scolaresche in gita che i castelli tardo-medievali (quelli rimasti in piedi) sono molto diversi dai tipici villaggi fortificati in legno e pietra dei secoli precedenti. O, ancora, le famiglie — immaginate come grandi gruppi parentali organizzati su base patriarcale, simili a quelle ottocentesche — erano in realtà nucleari e molto più «vicine» a quelle d’oggi. La servitù della gleba è una categoria storiografica ottocentesca dall’enorme fortuna; tuttavia va decisamente ridimensionata. Rare attestazioni riguardanti adscriptus glebae hanno stuzzicato l’immaginazione dei primi studiosi d’epoca moderna. A parte pochi casi (ad esempio nelle campagne intorno a Bologna e Vercelli), la massa di contadini non è certamente ascrivibile alla categoria «servitù della gleba». Esistevano servi la cui libertà era limitata del tutto (e non solo legata alla terra), coloni liberi, piccoli allodieri (proprietari). Il fatto che alcuni di questi venissero perseguiti se abbandonavano i campi non era collegato a un qualche servaggio, bensì al mancato rispetto di contratti ventinovennali o vitalizi col proprietario della terra. Spesso al Medioevo è imposta l’etichetta d’età feudale. Nei libri del liceo, è facile trovare la famosa piramide vassallatica, ovverosia l’immagine che rende i medievisti comprensivi nei confronti degl’iconoclasti. Feudale è una parola di straordinario successo, molto più esotica, lontana e quindi affascinante di signoria. Marx usa questa parola per definire un tipo d’organizzazione fondiaria, un sistema di rapporti di produzione, una fase antecedente al capitalismo. Spesso sembra che feudale sia usato perfino come sinonimo di medievale. Eppure è difficile — o, meglio, impossibile — trovare alla base d’ogni frazionamento territoriale un’investitura di tipo feudale. Marc Bloch riuscì a definire con chiarezza i rapporti vassallatico-beneficiari, e il suo allievo Robert Boutruche compì un passo fondamentale: individuò la peculiare struttura di potere del Medioevo nei poteri signorili formatisi dal basso, e non delegati feudalmente dall’alto. Vi sono diverse ragioni per cui questi errori rimangono e non vengono spazzati via dalle pagine dei libri di liceo. Il primo ordine di motivi è la semplicità di comunicazione. È facile spiegare il magma di rapporti di potere e contratti tramite una delega tutta feudale del potere. È ancor più semplice parlare d’una sola Chiesa, potente e oppressiva, tralasciando il fatto che si può parlare di papato monarchico solo dopo il XII secolo e non prima, quando il papa era il vescovo di Roma in possesso tuttalpiù d’un primato d’onore in fatto di teologia. Il secondo ordine è quello della distanza: colpisce di più un Medioevo molto diverso dall’oggi, in cui signori crudeli deflorano novelle spose, in cui i contadini scambiano senza bisogno di moneta e l’economia è solo di sussistenza, in cui cavalieri affascinanti partono alla ricerca del Graal…In questa sede è possibile mostrare solo una parte dei luoghi comuni sul Medioevo. Per chi volesse approfondire il tema, esiste un ottimo nonché brevissimo libro: L’idea di Medioevo. Fra storia e senso comune, di Giuseppe Sergi, edito da Donzelli. Centundici pagine di sano buonsenso storico.

Così il Medioevo cristiano ha posto le basi della scienza, scrive Antonio Giuliano il 10 luglio 2015 su "Avvenire”. «Mille anni vissuti dall’uomo senza che abbia espresso niente di bello? A chi si vuole darlo a credere?». Così Régine Pernoud già nella prima metà del Novecento attaccava la leggenda nera che da secoli squalifica il Medioevo. La storica francese fu tra le prime voci a firmare libri controcorrente (come Luce del Medioevo, ripubblicato da Gribaudi). Ma mai come in questo caso il pregiudizio è duro a morire. Basta oggi sbirciare la cronaca per riscontrare come 'medievale' sia tra gli aggettivi più gettonati per denigrare qualcuno. Per non parlare poi di certi manuali scolastici. Eppure un testo da poco tradotto anche in italiano La genesi della scienza di James Hannam (a cura di Maurizio Brunetti) smonta uno per uno i luoghi comuni più diffusi. Fisico, storico e filosofo della scienza a Cambridge, Hannam sfodera un volume poderoso e scorrevole, scritto con punte di ironia britannica. «Il Medioevo è stato un periodo di enormi progressi in ambito scientifico, tecnologico e culturale», scrive. I mille anni che vanno dalla caduta dell’impero romano (476) al 1500 sono stati decisivi in ogni campo. Ma soprattutto «il Medioevo ha posto le basi per la scienza moderna». In barba alla condanna illuminista, il fisico britannico ricorda come la Chiesa non abbia mai appoggiato l’idea che la Terra fosse piatta, né abbia mai bandito la dissezione umana o l’introduzione del numero zero. Hannam con sarcasmo non si stanca di ripetere: «I Pontefici non hanno vietato nulla, né hanno scomunicato qualcuno per la cometa di Halley. Nessuno è stato mai bruciato sul rogo per le sue idee scientifiche. Eppure, tutte queste storie sono ancora tirate fuori come esempio di intransigenza clericale verso il progresso scientifico». Ma anzi la Chiesa cattolica, argomenta Hannam dati e fonti alla mano, è stata il principale sponsor della ricerca scientifica. L’ha fatto proprio in virtù di quell’approccio che distingue il cristianesimo dalle altre tradizioni culturali e religiose. Se la scintilla del progresso scientifico si accese nell’Europa cristiana medievale è proprio perché «attraverso la natura l’uomo poteva imparare qualcosa del suo Creatore», il quale era «coerente e non capriccioso». Del resto, fa notare l’autore, il termine 'scienziato' nacque nel 1833 alla British Association for the Advancement of Science: «Prima d’allora nessuno ne aveva avvertito la necessità. Solo nel secolo XIX la scienza era diventata una disciplina autonoma, separata dalla filosofia e dalla teologia». È venuto il momento di chiedersi se il vero 'Rinascimento' non sia stato nel XII secolo, quando ad esempio nacquero le università. Scoprire nella natura l’impronta del creatore fu poi anche il convincimento dei religiosissimi Copernico, Keplero, Newton e Galilei, il cui contrasto con le autorità ecclesiastiche, spiega Hannam, fu dettato più da motivi politici. La stessa rivoluzione scientifica del XVII secolo è fondata su scoperte dei secoli precedenti: la bussola, la carta, la stampa, la staffa, la polvere da sparo... Invenzioni provenienti dall’Estremo Oriente, ma gli europei le perfezionarono a livelli «incomparabilmente superiori». E gli occhiali, gli orologi meccanici, i mulini a vento, gli altiforni? «Obiettivi e apparecchiature fotografiche, quasi ogni tipo di macchinario, la stessa rivoluzione industriale devono tutto a inventori del Medioevo. Non conosciamo i loro nomi, ma non è un buon motivo per ignorare le loro conquiste». 

7 Luglio 1647, i potenti tremano: Masaniello è il Re di Napoli, scrive il 7 luglio 2015 Francesco Pipitone su “Vesuvio Live”. Masaniello è un nome che a Napoli viaggia ancora nell’aria, uno spirito che aleggia nella città, in particolare nella zona di Piazza Mercato, luogo dove la persona con una buona predisposizione dell’animo può allungare le mani e afferrare l’umile pescatore, Re senza corona che ha governato per pochi giorni e facendo tremare i potenti, fin quando la pazzia e le basse mire non hanno, brutalmente e fatalmente, ucciso il corpo, e solamente il corpo, del rivoltoso. Quella buona predisposizione d’animo in altro non consiste se non nel desiderio fermo, puro e forse un po’ ingenuo, di libertà, una libertà bella e semplice che vuol dire amare e rispettare la propria Terra, la propria gente. Tommaso Aniello d’Amalfi, luogo di origine del padre di Masaniello, nacque in Vico Rotto a Napoli il 29 Giugno 1620, da Cicco e Antonia Gargano. Nella metà del Seicento la popolazione partenopea all’interno delle mura ammonta a circa mezzo milione, del quale solo una piccola parte ha un’occupazione stabile: il resto vive alla giornata, mentre le classi più alte e agiate vivono di usura, speculando sulle gabelle (imposte indirette sulle merci), vendita di voti e rendita, mentre tra i nobili i soli che esercitano con onore la propria funzione erano quelli dei più antichi Sedili cittadini. Le gabelle gravano in particolar modo sui beni di prima necessità, come il grano, il pane, frutta, verdura, carne, pesce, in modo da costringere il popolo alla fame. Il pretesto per la rivolta popolare nasce da lontano, il giorno di Santo Stefano del 1646, quando il viceré don Rodrigo de Leon, Duca d’Arcos, viene contestato mentre si reca alla Santa Messa dopo la notizia di nuove gabelle sulla frutta. Il 3 Gennaio 1647 vengono pubblicate le tariffe, tuttavia è solo il 20 Maggio dello stesso anno che qualcosa si muove: in città spuntano manifesti che parlano di tumulti sorti a Palermo ed esortanti a fare lo stesso a Napoli; diciassette giorni dopo, il 6 Giugno, viene incendiata di notte la bottega nella quale avviene la riscossione della gabella sulla frutta, gesto che, come si seppe in seguito, fu compiuto da Masaniello. Come mai, però, costui si decise ad agire? Masaniello è un lazzaro, un giovane plebeo ca votta a campà, ossia tira a campare come può, che col tempo però si è “specializzato” nell’attività di pescivendolo. Molto furbo e con grande carisma, fedele alla sua gente, alla religione e al Re, come ogni lazzaro aveva avuto a che fare praticamente con tutti, dai poveracci ai signori, dai mariuoli agli intellettuali e agli artisti, specialmente quando era finito in galera per essersi opposto ai sequestri di pesce. In prigione ebbe modo di conoscere dei prigionieri politici, che lo portarono ad incontrare don Giulio Genoino, eletto del popolo destituito perché fastidioso e fervente nel difendere la plebe contro la nobiltà, fattosi prete a più di 70 anni perché stanco di entrare e uscire dalle carceri e il quale, con la sua cultura, affascinò Masaniello e lo rese cosciente della corruzione che soffocava la popolazione, pur senza mai arrivare a manovrarlo: se ci fosse riuscito, d’altra parte, il ragazzo non avrebbe fatto una triste fine. Spaventato dall’incendio, il viceré tenta di calmare la situazione scarcerando due guappi affinché l’eletto Naclerio potesse contrattarvi, Peppe Palumbo e l’abate Perrone, amici di Naclerio stesso oltre che di don Genoino. Nel frattempo Masaniello addestra qualche centinaio di alarbi, i lazzari che dovevano sfilare alla festa per la Madonna del Carmine curata da fra’ Savino, cuciniere del Carmine e amico di Genoino, in modo da indurli sì a protestare contro il mal governo, ma allo stesso tempo sottolineando la fedeltà al Re Filippo IV, detto El Rey Planeta perché con lui la Spagna portò alla massima espansione il suo impero dove non tramontava mai il Sole. La tappa successiva fu il 30 Giugno, quando Masaniello e più di duecento alarbi con un tamburo e vestiti di stracci, urlano “Mora lo mal governo, viva ‘o Rre”, oltre a vari altri gridi contro le gabelle e le soverchierie. Giunti sotto Palazzo Reale ai pezzenti non viene vietato di protestare, probabilmente per ordine dello stesso viceré che voleva evitare pericolose tensioni. Un chiaro segno di debolezza che incoraggia Masaniello, suo cognato Mase Carrese (padrone abbastanza benestante di una bottega di frutta, verdura e carbone) e Ciommo Donnarumma (ortolano, anch’egli abbastanza benestante) a organizzare una protesta ben più dura giusto una settimana dopo, domenica 7 Luglio, la vera e propria rivoluzione. Quella mattina gli alarbi sono circa trecento ed armati di canne, stanno dietro Sant’Eligio. Ad essi si aggiungono contadini, pescatori e commercianti che davanti alla bottega per la riscossione della gabella manifestano l’intenzione di non pagare. Coloro che ricorrono a Naclerio, che fa il doppio gioco insieme ai due camorristi (categoria fatta di venduti geneticamente traditori del popolo, dunque), si sentono dire che è meglio che paghino; una delegazione di negozianti riesce a farsi ricevere da Don Rodrigo d’Arcos, il quale li manda da un commissario, ma alla fine nulla cambia e perciò Carrese, dopo aver preso uno schiaffone sul volto al Mercato, rovescia a terra la sua merce e se la mette a vendere 4 soldi al rotolo senza alcuna tassa. D’ora in poi non si potrà più tornare indietro. A quel segnale, Masaniello e alcuni dei suoi lasciano Sant’Eligio e si catapultano nel mezzo del mercato, gli scugnizzi portano l’Inferno a Napoli e non vogliono conoscere alcuna ragione, buttando dei fichi in faccia a un Naclerio che come al suo solito voleva dimostrare alla polizia di essere il padrone della folla. Gli alarbi scappano e seminano i poliziotti, arrivano altri lazzari che di fichi non sanno cosa farsene, se non mangiarli, allora tirano grossi sassi colpendo in petto Naclerio, salvato e condotto svenuto al Palazzo Reale da Perrone. A questo punto la folla si fa davvero consistente e Masaniello la arringa dalla fontana con i delfini, lo stesso punto, più o meno, dove trovò la morte per decapitazione Corradino di Svevia: non si sa di preciso cosa abbia detto, secondo alcuni semplicemente di ribellarsi e incendiare le botteghe dei dazi, secondo altri un discorso da capo con la promessa che, grazie alla Madonna del Carmine e il patrono San Gennaro, la sofferenza sarebbe ora finita. Masaniello, a capo di quasi mille persone, distrusse i locali del dazio e si diresse a Palazzo Reale per prendere Naclerio, rifugiato nelle stanze della moglie di don Rodrigo. Quello scappa, ma la rivolta si sta propagando in tutta la città e i soldati vengono man mano disarmati. Il viceré prepara la fuga e si rifugia al convento di San Luigi, da dove, sotto suggerimento del conte genovese Sauli, scrive dei bigliettini dove annuncia la soppressione della gabella e li lancia alla gente. Non è sufficiente per don Giulio Genoino, che vuole la reintroduzione di un discusso privilegio concesso al Regno di Napoli dall’imperatore Carlo V, con cui si stabiliva uguale rappresentanza per patrizi e plebei, oltre a una giusta redistribuzione dell’onere delle gabelle. Contemporaneamente in città venivano aperte le carceri e compiuti saccheggi, con i camorristi Perrone e Palumbo stavolta a capo di alcuni insorti – chissà se il viceré lo sapeva. Alla sera Masaniello fa suonare le campane del Carmine per adunare la gente, dando appuntamento per il giorno successivo: bisognava far abbassare anche la tassa sulla farina; don Rodrigo d’Arcos si è rifugiato al Maschio Angioino e ci resterà tre giorni. Masaniello ora è consapevole di quanto potere abbia nelle proprie mani; Genoino lo lascia fare, i due guappi pure. Il caporivolta dà i primi ordini, primo tra tutti abbassare il prezzo del pane, girando per gli esercizi, controllando di persone e minacciando di tagliare la testa agli imbroglioni. Inevitabilmente si concede qualche vendetta: per esempio, dà al fratello un elenco di case da bruciare, tutte appartenenti a uomini corrotti, con l’ordine puntualmente rispettato di non rubare neanche la cosa più insignificante: tutto alle fiamme. I consensi attorno a Masaniello crescono, a un certo punto medita una rottura con la Spagna, dato che può facilmente conquistare i castelli, ma Giulio Genoino lo fa desistere perché non vuole rinunciare alla protezione del Re, bensì solo le riforme: è la scelta, forse, che condanna Masaniello a morte. Don Rodrigo era convinto, in fondo, che si trattasse solo di un po’ di caos, il capriccio di un pescivendolo che presto sarebbe stato abbandonato, o si sarebbe scocciato. Un pescivendolo facilmente ammansibile, magari con un vitalizio consistente, da signore, ma il tentativo di corruzione non sortisce effetto. Altri individui bisogna dunque comprare, e allora gli avvocati Mastellone e De Palma fanno spuntare un documento che somiglia al privilegio di cui parla Genoino, che provvede personalmente a integrare e renderlo uguale all’originale, che secondo lui, evidentemente, si trova in Spagna. Genoino crede di non aver più bisogno di Masaniello, del quale il viceré può fare ciò che vuole: la notte tra mercoledì e giovedì, la vita di Masaniello è attentata due volte, prima con un coltello e poi con cinque colpi di archibugio, ma la colonna di nemici viene afferrata dal popolo devoto e giustiziata per essersi ribella al Re e al popolo: decapitati, teste infilzate sui pali in mostra al mercato e circa 30 corpi trascinati in città. Il privilegio viene letto finalmente nella Chiesa del Carmine e approvato dal popolo, ora Masaniello può andare dal viceré, insieme a Genoino e al mediatore cardinale Filomarino, affinché fosse firmato; per l’occasione don Rodrigo gli ha fatto consegnare un veste d’argento. Durante il tragitto Masaniello ripete più volte alla gente di incendiare tutta Napoli se non dovesse tornare dal palazzo, però tutto va liscio e dal balcone saluta la folla, oltre a baciare i piedi al viceré tra le acclamazioni della plebe, ricevendo in cambio il titolo di capitano del popolo e una collana d’oro, accettata solo una volta ricevuta l’autorizzazione dei popolani. Sono i primi segnali del suo crollo nervoso. I giorni seguenti prosegue a governare con i soliti buoni propositi, distribuisce le vivande, fa saccheggiare i tesori dei disonesti e le case dei nobili scappati per le opere utili al popolo, ristabilisce l’ordine pubblico. Con don Giulio e il nuovo eletto Francesco Arpaja però è sprezzante e irrispettoso, il suo comportamento si fa stravagante, anche nel Duomo in occasione del giuramento sul privilegio. Masaniello ha vinto la sua lotta, anche i suoi manovratori, i quali ora meditano la sua morte. Prima di tutto bisogna fargli mancare un favore così incondizionato della gente, dunque viene sparsa la falsa voce della pederastia di Masaniello, oltre a insinuare che non sia giusto che un semplice pescivendolo comandi sui suoi pari. La domenica annuncia di non voler più comandare e fa smantellare le milizie popolari, la gente festeggia e lui se ne va a Posillipo con il viceré che lo ha invitato, per distrarlo mentre si forma in segreto il nuovo assetto: d’ora in poi gli ordini di Masaniello sono considerati senza valore. Lunedì si sveglia dopo una notte febbricitante e comincia dare ordini, a pretendere esecuzioni, il suo fisico è debolissimo e la gente non lo segue più, essendogli anzi ostile per la sua pazzia. Di sera viene legato e sorvegliato in casa sua, il 16, giorno di celebrazione della Madonna del Carmine, viene destituito e se ne ordina l’incarcerazione fino alla guarigione. Masaniello, però, riesce a fuggire e si reca nella Chiesa, dove tiene sul pulpito l’ultimo amaro discorso in preda alla follia, in cui ricorda i risultati della lotta, ammonisce i concittadini che lo hanno tradito e annuncia la sua morte imminente, poi scese e si denudò in mezzo alla navata. Portato in cella, fu ucciso con alcuni colpi di archibugio da alcuni capitani corrotti e decapitato, il copro ai rifiuti e la testa al viceré come prova. I corrotti sono premiati con cariche di potere e somme di denaro. Il 17 Giugno il popolo si accorge che il pane costa di nuovo come prima e le gabelle reintrodotte, così va a recuperare il corpo disfatto di Tommaso Aniello e lo porta in processione, dopo averlo lavato e ricucito, il 18 Luglio al funerale celebrato dal cardinale Filomarino, forse l’unica persona che ha davvero apprezzato Masaniello, pur allontanandosene dopo le prime stravaganze. Con il feretro davanti al Palazzo Reale, don Rodrigo in segno di lutto fa abbassare le bandiere. Di lui il cardinale Filomarino scrisse, in una lettera al papa: Questo Masaniello è pervenuto a segno tale di autorità, di comando, di rispetto e di ubbidienza, in questi pochi giorni, che ha fatto tremare tutta la città con li suoi ordini, li quali sono stati eseguiti da’ suoi seguaci con ogni puntualità e rigore: ha dimostrato prudenza, giudizio e moderazione; insomma era divenuto un re in questa città, e il più glorioso e trionfante che abbia avuto il mondo. Chi non l’ha veduto, non può figurarselo nell’idea; e chi l’ha veduto non può essere sufficiente a rappresentarlo perfettamente ad altri. Non vestiva altro abito che una camicia e calzoni di tela bianca ad uso di pescatore, scalzo e senza alcuna cosa in testa; né ha voluto mutar vestito, se non nella gita dal Viceré.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA. 

Così l'Italia vinse la guerra perdendo tutte le battaglie. Grazie alla Prussia ottenemmo il Veneto e parte del Friuli. Ma il disastro militare ci segnò per sempre, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 20/07/2016 su "Il Giornale". Si può vincere una guerra perdendone quasi tutte le battaglie. Si può anche scatenare, a cose fatte, uno psicodramma che trasformi due scontri finiti male, ma senza reali conseguenze, in un dramma nazionale con tanto di processi eccellenti, e privi di qualunque equità. Poi si può continuare a sentirsi defraudati per anni della dignità nazionale e mascherare il tutto sotto un'enorme dose di retorica che esalti il sacrificio, senza però prendersi la briga di indagare sulle magagne della propria macchina bellica. Andò così nella Terza guerra di indipendenza italiana (durata dal giugno all'ottobre 1866) di cui ricorrono i 150 anni. Una bella e approfondita analisi di quel conflitto la compie Hubert Heyriès (storico militare dell'università Montpellier III) nel suo Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta (Il Mulino, pagg. 348, euro 25). Il saggio racconta come l'Italia fu abile diplomaticamente a intuire le potenzialità della montante tensione tra l'Austria e la Prussia del cancelliere Bismarck (1815-98). Era l'occasione giusta per liberarsi della presenza asburgica nella Penisola. Con i buoni uffici di Napoleone III, il conte Giulio Cesare di Barral e il generale Giuseppe Govone apposero la loro firma, in nome dell'Italia, su un trattato offensivo valido unicamente per 3 mesi. Era l'8 aprile 1866. L'Austria si sarebbe trovata chiusa in mezzo a una tenaglia di ferro. Combattere su due fronti l'avrebbe quasi di sicuro costretta alla sconfitta. Sin qui la parte logica del piano, a prescindere delle immediate diffidenze tra Firenze (allora era la capitale) e Berlino. Così il 20 giugno Vittorio Emanuele II diede ottimisticamente il via alle ostilità: «Voi potete confidare nelle vostre forze, italiani, guardando orgogliosi il florido esercito e la formidabile marina...». E su questo ottimismo si allineò subito tutta la nazione. L'entusiasmo portò con sé - come spiega Heyriès - due ulteriori buoni risultati. La mobilitazione fu rapidissima e Garibaldi si vide piombare addosso un gran numero di volontari che usò nel modo che gli era più consono: attaccare verso in Trentino in un territorio frastagliato e montagnoso. Per un genio indiscusso della guerriglia era l'ideale. Ma fuori dalle montagne trentine la macchina bellica italiana iniziò a mostrare tutti i suoi limiti. La Prussia premeva per un attacco rapido. Per colpire efficacemente a nord le serviva che le truppe austriache fossero impegnate a sud. Ma gli italiani si trovavano di fronte le fortezze del Quadrilatero e nessuno aveva sviluppato un vero piano per superarle. Un attacco dal mare con sbarco, a partire dalla netta superiorità navale italiana, era un qualcosa di cui si era solo fantasticato. Le nostre navi erano eterogenee (quanto gli equipaggi nati fondendo tre marine) e non certo adatte a un attacco di questo tipo. Così l'enorme esercito italiano (per la prima volta il Paese aveva un esercito di massa) nel dubbio e senza un chiaro piano d'attacco fu schierato in due tronconi. Centoventimila fanti e 7mila cavalieri sul Mincio comandati dal generale La Marmora. Altri 64mila fanti e 3500 cavalieri affidati invece al generale Enrico Cialdini sulla linea del Po. Gli Austriaci erano in netta minoranza numerica ma ebbero così la possibilità di giocare sulla velocità per colpire uno dei due tronconi. A questo si sommò la deficienza logistica degli italiani. Risultò un problema persino fornire le coperte. Oltre il fatto che molti soldati non avevano mai combattuto, o soltanto contro i «briganti». In più, la litigiosità degli alti ufficiali...Le truppe di La Marmora, mentre cercavano di sorprendere gli austriaci oltre l'Adige, si fecero sorprendere dal nemico appena passato il Mincio. Ne nacque uno scontro disordinato: la seconda battaglia di Custoza. Nonostante tutto gli italiani si batterono bene. Gli Ulani del battaglione «Conte di Trani» e la brigata di Cavalleria di Ludwig von Pulz vennero massacrati a Villafranca dal quadrato di fucilieri comandato dal principe Umberto. I granatieri sul Monte Torre e sul Monte Croce fecero pagare agli austriaci ogni palmo di terra. Ma nel momento più critico alcuni ufficiali, come il generale Della Rocca, non inviarono rinforzi, seppur richiesti nella zona più a rischio, Custoza. Il risultato fu che le truppe italiane dovettero ritirarsi. Gli austriaci non le inseguirono: avevano subito colpi altrettanto gravi. Gli italiani avevano perso tra morti, feriti, e prigionieri 7.403 uomini. Gli austriaci 7.956. Ma era il morale degli italiani a essere crollato. E le cose peggiorarono ancora quando i Prussiani travolsero gli austriaci a Sadowa, il 3 luglio. Ne nacque una sorta di psicosi: bisognava vincere «qualcosa» al più presto. E così ci si rivolse alla Marina. Gli italiani cercarono di attirare la flotta del contrammiraglio Tegetthoff verso Ancona. L'austriaco sapeva fare il suo mestiere e non uscì dal porto. Allora il ministro Depretis piombò ad Ancona e «sobillò» contro l'ammiraglio Carlo Pellion di Persano i suoi diretti e gelosissimi sottoposti, l'ammiraglio Vacca e l'ammiraglio Albini. Il risultato fu che venne allestito in fretta e furia l'attacco all'isola di Lissa che era ben fortificata e per di più collegata via telegrafo. Fu lì che la flotta austriaca subito allertata piombò sulle navi italiane. Anche in questo caso lo scontro (l'anniversario è oggi, 20 luglio) non era perduto a priori, anzi, alcune navi austriache come la «S.M.S. Kaiser» se la videro brutta. Ma se i rapporti tra Persano, Albini e Vacca erano pessimi in condizioni normali, si rivelarono tragici in battaglia. Le reazioni di Persano furono confuse, ma anche quando diede ordini chiari i suoi sottoposti si sforzarono di eluderli. Bilancio di 37 minuti di battaglia: l'affondamento della «Re d'Italia» e della «Palestro» e la morte di 638 marinai. Se Custoza era una quasi sconfitta trasformata in disfatta dalla stampa, Lissa fu una sconfitta senza se senza ma. Lo choc fu fortissimo e non bastarono i successi di Garibaldi in Trentino ad anestetizzarlo. Men che meno l'annessione del Veneto e del Friuli sprezzantemente ceduti dall'Austria alla Francia e dalla Francia a noi (a mezzo plebiscito) che pure fu indubitabilmente un grandissimo passo verso la completa unificazione del Paese. Gli italiani incorporarono un senso di fragilità militare che non hanno mai smesso di portarsi dietro. E per colmarlo misero sotto processo l'ammiraglio Persano che fu radiato dalla Marina. Ma quale fosse la differenza tra lui e gli altri ammiragli che gli avevano messo i bastoni tra le ruote nel bel mezzo dello scontro non fu mai chiarito. Sulle responsabilità degli ufficiali del Regio esercito invece ci si limitò alle polemiche velenose. Anche questo lavacro di coscienza collettivo a mezzo capro espiatorio si trasformò in una brutta prassi nazionale. Anzi forse è il cascame, sociologico, più grave di questa guerra vinta senza vincere.

La truffa dell’Unità d’Italia. La propaganda è sempre esistita ogni qual volta c'è stato un potere organizzato che ha operato su una massa di popolazione relativamente concentrata. Poteva trattarsi o d'integrare maggiormente i gruppi e gli individui nella società, o di stabilire la legittimità del potere politico, o di ottenere un determinato numero di comportamenti e di adesioni, o infine di lottare contro le influenze esterne. La propaganda delle società tradizionali, tuttavia, non presentava gli stessi caratteri della propaganda moderna. Si trattava allora di una propaganda generalmente legata a una persona, un capo carismatico, un propagandista che agiva per intuizione, per abilità personale. Era dunque un fenomeno occasionale e limitato, che appariva e scompariva a seconda delle circostanze. Si trattava sempre d'interventi circoscritti, fondati spesso su sentimenti religiosi, e che non presentavano nessun carattere di razionalità o, ancora meno, di tecnicità. (Enciclopedia Traccani)

Si dice che Mazzini sia stato anti monarchico e anti Savoia, scrive Giovanni Greco, su questo nutro dubbi in quanto lo reputo un massone per conto della Regina in Gran Bretagna! Un paradosso tutto Repubblicano; comunque Mazzini, ad esempio, appoggiò moralmente la spedizione dei Mille di Giuseppe Garibaldi, che egli considerava una valida opposizione a Cavour. Quindi si giungerà all'Unità d'Italia. In seguito numerosi repubblicani confluiranno nei Fasci di combattimento di epoca ormai Mussoliniana. E se ho ricostruito bene i fatti - mi auguro di non sbagliare - il progetto mazziniano era teso a favorire gli interessi inglesi nei traffici commerciali del tempo, che erano legati ai cavalli, alle carrozze, alle mongolfiere, alle navi e ai treni. Infatti il predominio nelle comunicazioni era di fondamentale importanza per l'epoca oltre ad essere stata una decisione iniziale delle famiglie di banchieri ebreo/tedesche/americane dei Rothschild e dei Rockefeller, i quali avevano finanziato la Regina inglese per l'invasione del Regno dei Borbone. Bene Mazzini, dopo la conquistata del Regno delle Due Sicilie, potè favorire i commerci della famosa "Valigia delle Indie"; e il re Borbone e le sue terre infatti erano l'unico impedimento al progetto originario dei Rothschild. Gli stessi Rothschild che con il gruppo Bilderberg regnano tutt'ora le pagine della real politik e delle primavere arabe e degli autunni italiani del III millennio.

Ciò che la storia ha sempre cercato di insabbiare. Tutti noi siamo soliti considerare l’Unità d’Italia una grande impresa e Giuseppe Garibaldi un grande eroe. Ma è davvero così? Scrive Enrico Novissimo per Collana Exoterica. Il processo che portò all’Unità d’Italia vide come protagonisti una lunga fila di uomini più o meno celebri, i cosiddetti padri del Risorgimento. Ancora oggi infatti, se si va dal nord al sud dell’’Italia, troviamo piazze o vie principali che si fregiano di nomi illustri come Garibaldi, Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele ecc … Consideriamo infatti questi personaggi dei veri eroi, raffigurati dagli artisti che ne esaltano il loro valore in maniera da rafforzare il mito che li circonda; innumerevoli sono infatti le opere d’arte che ritraggono l’eroe dei due Mondi ora a cavallo, ora in piedi che impugna alta la sua spada, alcune volte indossando la celebre camicia rossa, altre volte reggendosi su un paio di stampelle come un martire. Tuttavia un ritratto che di certo non vedremo mai vorrebbe il Gran Maestro massone, Giuseppe Garibaldi (ebbene sì, che lo crediate o no era massone, così come Cavour e forse Mazzini), privo dei lobi delle orecchie. Sembra incredibile eppure la vicenda sembra vera. Al nostro “falso” eroe furono davvero mozzate le orecchie; la mutilazione avvenne esattamente in Sud America, dove l’intrepido Garibaldi fu punito per furto di bestiame. Dunque il grande Garibaldi, icona della spedizione dei Mille e dell’’Unità italiana sarebbe stato un ladro di cavalli? Difficile crederlo. Naturalmente nessuna fonte ufficiale racconta questa vicenda. È dunque lecito chiedersi quante altre accuse infanghino le gesta degli eroi risorgimentali? Quante altre macchie vennero lavate a colpi d’inchiostro da una storiografia corrotta e pilotata? Ma soprattutto, quale fu il ruolo dei banchieri Rothschild nel processo di Unità d’Italia? La Banca Nazionale degli Stati Sardi era sotto il controllo di Camillo Benso conte di Cavour, grazie alle cui pressioni divenne una autentica Tesoreria di Stato; difatti era l’unica banca ad emettere una moneta fatta di semplice carta straccia. Inizialmente la riserva aurea ammontava ad appena 20 milioni di lire, ma questa somma ben presto sfumò perché reinvestita nella politica guerrafondaia dei Savoia. Il Banco delle Due Sicilie, sotto il controllo dei Borbone, possedeva invece un capitale enormemente più alto e costituito di solo oro e argento: una riserva tale da poter emettere moneta per 1.200 milioni ed assumere così il controllo dei mercati. Cavour e gli stessi Savoia avevano ormai messo in ginocchio l’economia piemontese, si erano indebitati verso i Rothschild per svariati milioni e divennero in breve due burattini nelle loro mani. Fu così che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo mascherato però come un movimento patriottico. L’intero progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni. La storia ufficiale racconta che i Mille guidati da Giuseppe Garibaldi, benché disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi riuscì solo grazie ai finanziamenti dei banchieri Rothschild; attraverso i soldi dei Rothschild, infatti, i Savoia corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo. Dunque non ci fu mai una vera battaglia. Neppure la storiografia ufficiale ha potuto insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico furono condannati per alto tradimento alla corona. Il Sud fu presto invaso e depredato di ogni ricchezza: in questa situazione gli stupri, le esecuzioni di massa e le violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno. L’unica alternativa per scampare a questo fu l’emigrazione. Il popolo cominciò così a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga. Ben presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti; si trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale soppressione. A 150 anni di distanza si parla ancora di “questione meridionale”. Enrico Novissimo per Collana Exoterica

Cavour e gli stessi Savoia avevano messo in ginocchio l’economia piemontese, indebitata verso i Rothschild per svariati milioni, scrive Enrico Novissimo. Divennero due burattini nelle loro mani. Fu così che i Savoia presero di mira il bottino dei Borbone. La rinascita economica piemontese avvenne mediante un operazione militare espansionistica a cui fu dato il nome in codice di Unità d’Italia, un classico esempio di colonialismo sotto mentite spoglie. L’intero progetto fu diretto dalla massoneria britannica, vero collante del Risorgimento. Non a caso i suddetti eroi furono tutti rigorosamente massoni. "I Mille" guidati da Giuseppe Garibaldi, benché disorganizzati e privi di alcuna esperienza in campo militare, avrebbero prevalso su un esercito di settanta mila soldati ben addestrati e ben equipaggiati quale era l’esercito borbonico. In realtà l’impresa di Garibaldi riuscì solo grazie ai finanziamenti dei Rothschild, con i loro soldi i Savoia corruppero gli alti ufficiali dell’esercito borbonico che alla vista dei Mille batterono in ritirata, consentendo così la disfatta sul campo. Dunque non ci fu mai una vera battaglia, neppure la storiografia ufficiale ha potuto insabbiare le prove del fatto che molti ufficiali dell’esercito borbonico furono condannati per alto tradimento alla corona. Il sud fu presto invaso e depredato di ogni ricchezza, l’oro dei Borbone scomparve per sempre. Stupri, esecuzioni di massa, crimini di guerra e violenze di ogni genere erano all’ordine del giorno. L’unica alternativa alla morte fu l’emigrazione. Il popolo cominciò a lasciare le campagne per trovare altrove una via di fuga. Ben presto il malcontento generale fomentò la ribellione dei sopravvissuti, si trattava di poveri contadini e gente di fatica che la propaganda savoiarda bollò con il dispregiativo di “briganti”, così da giustificarne la brutale soppressione.

La spedizione dei Mille è stato uno degli eventi cruciali per l’unificazione d’Italia. Ai tempi non c'era internet ma il telegrafo, Parigi era la Borsa di riferimento e i prestiti erano erogati dalle grandi famiglie dei banchieri e non dall’Fmi. Eppure mercati finanziari e debito pubblico ebbero un ruolo nello sgretolamento del regno borbonico e nel successo dei garibaldini. E, col senno di poi, è un po’ come se Garibaldi avesse detto obbedisco! non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild, scrive Luciano Canova. Studiando la serie storica delle quotazioni del debito pubblico borbonico, durante il 1860, è possibile rispondere a una domanda assai interessante, anche per i suoi riflessi attuali: i mercati finanziari dell’epoca avevano scontato la spedizione dei Mille? Indubbiamente, i mercati anticipano accadimenti incerti, che valutano attraverso la lente deformante delle aspettative. Se, però, nell’era di Internet, i mezzi di comunicazione consentono un aggiornamento immediato di quello che avviene ai piani alti, è lecito chiedersi se le cose funzionassero in modo simile anche in passato, in particolare per un evento che ha segnato la storia di questa penisola. Un’analisi è possibile andando a recuperare le quotazioni giornaliere della rendita di Sicilia del 1860, pubblicate sulla pagina commerciale del quotidiano dei Borbone, Il Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, conservate presso l’Archivio storico municipale del comune di Napoli e presso l’Archivio storico della Fondazione Banco di Napoli. Come riportato dal lavoro La borsa di Napoli di Maria Carmela Schisani, anche nel diciannovesimo secolo esisteva una borsa valori in cui venivano negoziati titoli, prevalentemente del debito pubblico, dei vari stati. La borsa venne istituita a Napoli nel 1788 da Ferdinando I di Borbone e attraversò la storia del regno delle Due Sicilie fino al 1860, con la caduta di Francesco II. Il titolo del debito pubblico era emesso in ducati, la moneta del regno, e aveva una rendita fissa del 5 per cento alla scadenza. Parigi costituiva la Wall Street dell’epoca e sui suoi valori risultavano agganciate le quotazioni dei titoli napoletani. Come a dire che lo spread si sarebbe misurato sui titoli francesi. La finanza, allora, era organizzata attorno a grandi famiglie: un ruolo di primo piano, in particolare, fu esercitato dai Rothschild, che erogarono ai Borbone diversi prestiti nel corso della loro storia. In sostanza, la famiglia di banchieri agiva come una sorta di Fondo monetario internazionale ante litteram, che garantiva prestiti onerosi dietro l’impegno ad approvare riforme politiche e fiscali rigorose da parte dei beneficiari. Non è un caso se Ferdinando II, re di Napoli dal 1830, iniziò un programma radicale di modernizzazione del regno proprio in concomitanza con uno di questi prestiti. E non è un caso che, dopo il 1848, il regno cominciò a sfaldarsi, anche per via del disimpegno dei Rothschild stessi dalle finanze partenopee. Tornando all’avventura garibaldina, poco prima dell’inizio della spedizione, il titolo del debito pubblico borbonico raggiunse il suo massimo: 120,06 ducati nel 1857. Si tratta di una fase che potremmo considerare come una sorta di bolla speculativa. Prima dell’inizio della spedizione dei Mille, l’Europa guardava al Regno delle Due Sicilie come a una monarchia in crisi irreversibile. Si trattava soltanto di capire di che morte il regno dovesse morire, un po’ come capitato con la fine del governo Berlusconi. Il grafico in alto (visibile qui) mostra l’andamento della serie delle quotazioni giornaliere del debito pubblico borbonico durante il 1860. La retta verticale segna l’inizio della spedizione. Come è possibile evincere, le quotazioni del debito crollano con l’avanzare dei garibaldini. La spedizione di Garibaldi è un’impresa decisamente non lineare, che procede per salti discreti. Indubbiamente, da un punto di vista numerico, lo scontro appariva impari: un migliaio di volontari, male armati e peggio equipaggiati, contro le 100mila unità di cui contava, almeno sulla carta, l’esercito regolare di Francesco II. Seguire la spedizione attraverso le contrattazioni sul mercato ci consente di fare luce, in un modo assai originale, sull’evento... Dallo sbarco avvenuto a Marsala l11 maggio alla battaglia di Calatafimi, quattro giorni dopo (il primo grosso smacco per l’armata borbonica) il titolo perse 4,4 punti percentuali. Dopo Calatafimi, i Mille puntarono verso Palermo, dove, a protezione della città, stava il grosso del contingente borbonico sull’isola (25 mila unità). In pratica, Garibaldi conquistò la città senza combattere, sfruttando insieme la sua abilità tattica e la disorganizzazione delle truppe regie, guidate da Ferdinando Lanza. Al 19 giugno, data di caduta della città, il titolo aveva perso 10 punti percentuali, fermo a 103 ducati. Luglio fu sostanzialmente un mese di stasi: i garibaldini si organizzarono in Sicilia mentre, allo stesso tempo, pianificavano lo sbarco in continente; i borbonici, a Napoli, preparavano invece la controffensiva. Questa incertezza si concretizzò, non casualmente, in un periodo di immobilismo delle contrattazioni, con il titolo che reagisce, sì, alla battaglia di Milazzo (19 luglio) perdendo altri 5,5 punti percentuali (96 ducati), ma rimane, poi, sostanzialmente stabile, un po’ come lo spread italiano oggi, fermo da giorni sulla soglia dei 500 punti. Dallo sbarco in Calabria e fino alla caduta di Napoli e del Regno, con la battaglia del Volturno che si conclude il 1° ottobre 1860, e l'incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano il 26 ottobre, il valore del titolo scese a 87 ducati, con una perdita di altri 9,2 punti percentuali. Il crollo si arrestò nel momento in cui i Savoia proclamarono ufficialmente che, con l'istituzione del Gran Libro del Debito Pubblico, avrebbero onorato il pagamento del debito anche degli Stati pre-unitari annessi, da vero e proprio last resort lender. Il titolo borbonico, da quel momento, andò assestandosi sui valori della rendita sabauda. La scaltrezza di Cavour e della casa regnante di Torino, dapprima informalmente ostili all'avventura garibaldina e, successivamente, pronti a sfruttare l'opportunità politica offerta dal successo della spedizione, si riflesse nei corsi del debito, che fotografano come in un elettrocardiogramma le pulsazioni della finanza dell'epoca, pronta a sintonizzarsi sui ritmi di un cuore Savoia. A nulla valsero le promesse di riforma costituzionale di Francesco II, dopo il 25 giugno 1860. A nulla servì la controinformazione del regno, ben evidenziata dal Giornale Ufficiale del Regno delle Due Sicilie, che parlava di brillanti successi dell'esercito regio contro una masnada di filibustieri, proprio mentre i buoni del tesoro, inesorabili, cadevano sotto gli occhi della casa regnante in crisi. Uno degli aspetti più interessanti di questa straordinaria vicenda è appunto l'informazione, che aumentò l'incertezza attorno all'evento e, con essa, le fibrillazioni del mercato internazionale. I bookies dell'epoca avrebbero avuto le loro difficoltà a scommettere sugli eventi. Era chiara, da un lato, la decadenza del regno borbonico; meno chiara, la via d'uscita: un trionfo elettorale della coalizione Garibaldi-Mazzini o un governo tecnico Cavour, per rassicurare i mercati? Col senno di poi, è un po come se Garibaldi avesse detto obbedisco! non solo al re Vittorio Emanuele, ma anche ai Rothschild.

LUCIANO CANOVA. Docente e ricercatore alla Scuola Enrico Mattei, dove insegna i corsi di Economia Sperimentale e di Comunicazione Scientifica al Master MEDEA (Management dell’Economia dell’Ambiente e dell’Energia). Ha studiato Economia a Milano, laureandosi al DES in Bocconi nel 2002. Ha conseguito un master in Development Economics alla University of Sussex e il dottorato in Economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore. Per due anni, è stato post-doc alla Paris School of Economics. iProf di Economia della felicità su Oilproject.org, collabora con diverse testate di divulgazione scientifica.  

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. "Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni". Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

LADRI ED ASSASSINI. MAFIOSI E MASSONI.

Giovanni Falcone: «La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l'eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni...La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Spero solo che la fine della mafia non coincida con la fine dell'uomo. Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia. A questa città vorrei dire: gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini...L'importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza...Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi. Ho l'impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che hanno spinto qualcuno ad...Se poni una questione di sostanza, senza dare troppa importanza alla forma, ti fottono nella sostanza e nella forma...Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto. Contano le azioni non le parole. Se dovessimo dar credito ai discorsi, saremmo tutti bravi e irreprensibili...Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno...Chiunque è in grado di esprimere qualcosa deve esprimerlo al meglio. Questo è tutto quello che si può dire, non si può chiedere perché. Non si può chiedere ad un alpinista perché lo fa. Lo fa e basta. A scuola avevo un professore di filosofia che voleva sapere se, secondo noi, si era felici quando si è ricchi o quando si soddisfano gli ideali....Tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia...Temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro dall'altro, e alla resa dei conti, palpabile, l'inefficienza dello Stato...Se un pentito rivela che un candidato è stato aiutato dalla mafia per interessamento di un alto esponente del suo partito, che invece risulterebbe un suo avversario, la rivelazione batte la logica, e si va avanti lo stesso... La certezza è che così non si fa un passo avanti nella dura lotta alla mafia...Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell'esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell'amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere...L'impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata è emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dall'impressione suscitata da un dato crimine o dall'effetto che una particolare iniziativa governativa può suscitare sull'opinione pubblica...Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere...Come evitare di parlare di Stato quando si parla di mafia?...Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo, l'Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba...Il P.M. non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come invece oggi è, una specie di paragiudice. Chi, come me, richiede che (giudice e P.M.) siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell'indipendenza del Magistrato, un nostalgico della...La magistratura ha sempre rivendicato la propria indipendenza, lasciandosi in realtà troppo spesso irretire surrettiziamente dalle lusinghe del potere politico. Sotto la maschera di un'autonomia formale, il potere ci ha fatto dimenticare la mancanza di un'autonomia reale. Abbiamo sostenuto con passione la tesi del pubblico ministero indipendente...Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale..Nei momenti di malinconia mi lascio andare a pensare al destino degli uomini d’onore: perché mai degli uomini come gli altri, alcuni dotati di autentiche qualità intellettuali, sono costretti a inventarsi un’attività criminale per sopravvivere con dignità?... La mescolanza tra società sana e società mafiosa a Palermo è sotto gli occhi di tutti e l'infiltrazione di Cosa Nostra costituisce la realtà di ogni giorno...Ci si dimentica che il successo delle mafie è dovuto al loro essere dei modelli vincenti per la gente. E che lo Stato non ce la farà fin quando non sarà diventato esso stesso un «modello vincente»...Entrare a far parte della mafia equivale a convertirsi a una religione. Non si cessa mai di essere preti. Né mafiosi...La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell'adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l'uso dell'intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa...“Il dialogo Stato/mafia, con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela...»

Paolo Borsellino: «La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità...Se la gioventù le negherà il consenso, anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo...Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno...Non sono né un eroe né un Kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell'aldilà. Ma l'importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento... Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno...È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola...La paura è umana, ma combattetela con il coraggio...Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell'amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare...Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene...A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l'esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato...Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: "Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano"... È normale che esista la paura, in ogni uomo, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti...L’impegno contro la mafia, non può concedersi pausa alcuna, il rischio è quello di ritrovarsi subito al punto di partenza...I pentiti sono merce delicata, delicatissima, sono loro che scelgono il giudice a cui confessare, non viceversa, sono degli sconfitti che abbandonano un padrone per servirne un altro, ma vogliono che sia affidabile».

Le parole. Le sue, con quella cadenza ellittica della lingua siciliana, davanti a un gruppo di studenti dall’accento vicentino. «Volevo sapere, giudice, se si sente protetto dallo Stato e ha fiducia nello Stato stesso», chiede un ragazzo. «No, io non mi sento protetto dallo Stato», risponde Paolo Borsellino. È il 26 gennaio del 1989, il video è in Rete grazie all’Archivio Antimafia. 

La ricostruzione dei giornalisti del Fatto, Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, mette i brividi: Borsellino è stato ucciso perché stava indagando, formalmente, sulla trattativa Stato-Mafia, scrive "L'Infiltrato" il 19 luglio 2016. La conferma arriva dal ritrovamento di un fascicolo assegnato a Borsellino in data 8 luglio 1992 (11 giorni prima di essere ucciso…) in cui viene fuori l’ufficialità dell’indagine e i nomi delle persone coinvolte. Nomi pesanti. Nomi di capimafia. Nomi di politici. Nomi di esponenti dei servizi segreti. In piena stagione stragista, a metà giugno del ‘92, un anonimo di otto pagine scatenò fibrillazione e panico nei palazzi del potere politico-giudiziario: sosteneva che l’ex ministro dc Calogero Mannino aveva incontrato Totò Riina in una sacrestia di San Giuseppe Jato (Palermo). Una sorta di prologo della trattativa. Ricordiamo che Mannino è stato assolto per “non aver commesso il fatto”. Su quell’anonimo, si scopre dai documenti prodotti dal pm Nino Di Matteo nell’aula del processo Mori, stava indagando formalmente Paolo Borsellino. Con un’indagine che il generale del Ros Antonio Subranni chiese ufficialmente di archiviare perché non meritava “l’attivazione della giustizia”. Il documento dell’assegnazione del fascicolo a Borsellino e a Vittorio Aliquò, datato 8 luglio 1992, insieme alle altre note inviate tra luglio e ottobre di quell’anno, non è stato acquisito al fascicolo processuale perché il presidente del Tribunale Mario Fontana non vi ha riconosciuto una “valenza decisiva” ai fini della sentenza sulla mancata cattura di Provenzano nel ‘95, quando si è deciso di assolvere Mori e Obinu, anche in appello nel 2016. Ma le note sono state trasmesse alla Procura nissena impegnata nella ricostruzione dello scenario che fa da sfondo al movente della strage di via D’Amelio. In aula a Caltanissetta, infatti, Carmelo Canale ha raccontato che il 25 giugno 1992, Borsellino, “incuriosito dall’anonimo” volle incontrare il capitano del Ros Beppe De Donno, in un colloquio riservato alla caserma Carini, proprio per conoscere quel carabiniere che voci ricorrenti tra i suoi colleghi indicavano come il “Corvo due”, ovvero l’autore della missiva di otto pagine. Quale fu il reale contenuto di quell’incontro? Per il pm, gli ufficiali del Ros, raccontando che con Borsellino quel giorno discussero solo della pista mafia-appalti, hanno sempre mentito: una bugia per negare l’esistenza della trattativa, come ha ribadito Di Matteo in aula, nell’ultima replica. Tre giorni dopo, il 28 giugno, a Liliana Ferraro che gli parla dell’iniziativa avviata dal Ros con don Vito, Borsellino fa capire di sapere già tutto e dice: “Ci penso io”. Il primo luglio ‘92, a Palermo il procuratore Pietro Giammanco firma una delega al dirigente dello Sco di Roma e al comandante del Ros dei Carabinieri per l’individuazione dell’anonimo. Il 2 luglio, Subranni gli risponde con un biglietto informale: “Caro Piero, ho piacere di darti copia del comunicato dell’Ansa sull’anonimo. La valutazione collima con quella espressa da altri organi qualificati. Buon lavoro, affettuosi saluti”. Nel lancio Ansa, le “soffiate” del Corvo sono definite dai vertici investigativi “illazioni ed insinuazioni che possono solo favorire lo sviluppo di stagioni velenose e disgreganti”. Come ha spiegato in aula Di Matteo, “il comandante del Ros, il giorno stesso in cui avrebbe dovuto cominciare ad indagare, dice al procuratore della Repubblica: guardate che stanno infangando Mannino”. Perché Subranni tiene a far sapere subito a Giammanco che l’indagine sul Corvo 2 va stoppata? Venerdì 10 luglio ‘92 Borsellino è a Roma e incontra proprio Subranni, che il giorno dopo lo accompagna in elicottero a Salerno. Borsellino (lo riferisce il collega Diego Cavaliero) quel giorno ha l’aria “assente”. Decisivo, per i pm, è proprio quell’incontro con Subranni, indicato come l’interlocutore diretto di Mannino. È a Subranni che, dopo l’uccisione di Salvo Lima, l’ex ministro Dc terrorizzato chiede aiuto per aprire un “contatto” con i boss. È allo stesso Subranni che Borsellino chiede conto e ragione di quella trattativa avviata con i capi mafiosi? No, secondo Basilio Milio, il difensore di Mori, che in aula ha rilanciato: “Quell’incontro romano con Subranni è la prova che Borsellino certamente non aveva alcun sospetto sul Ros”. Il 17 luglio, però, Borsellino dice alla moglie Agnese che “Subranni è punciuto”. Poche ore dopo, in via D’Amelio, viene messo a tacere per sempre. Nell’autunno successivo, il 3 ottobre, il comandante del Ros torna a scrivere all’aggiunto Aliquò, rimasto solo ad indagare sull’anonimo: “Mi permetto di proporre – lo dico responsabilmente – che la signoria vostra archivi immediatamente il tutto ai sensi della normativa vigente”.

Trattativa, ecco i documenti sul presunto patto fra lo Stato e Cosa nostra. La lettera a Scalfaro scritta nel 1993 dai familiari dei boss detenuti al 41bis. L'appunto in cui il direttore del Dap Nicolò Amato suggerisce l'alleggerimento del carcere duro. E l'elenco completo dei mafiosi che ne beneficiarono. Ilfattoquotidiano.it pubblica le carte al centro dell'inchiesta di Palermo sui presunti accordi segreti per fare cessare la stagione delle stragi, scrive Marco Lillo il 26 giugno 2012 su "Il Fatto Quotidiano". Questa è la storia di una trattativa iniziata con una lettera dei familiari dei boss in cui si parla di mutande e biancheria per far calare le braghe allo Stato. Una trattativa che la pubblicistica in voga vorrebbe sia stata chiusa dall’allora ministro Giovanni Conso con il rilascio di 334 mafiosi, usciti dal regime dell’isolamento nel novembre del 1993 e che invece potrebbe essere ancora aperta, come dimostra la storia di una strage mancata durante una partita di calcio: Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Oggi pubblichiamo i documenti che dovrebbero aprire e chiudere le danze della partita a scacchi tra istituzioni e corleonesi, cioè la lettera dei familiari dei detenuti nelle supercarceri spedita nel febbraio 1993 e l’elenco dei graziati di Conso del novembre 1993 più altri documenti disponibili sul sito internet di ilfattoquotidiano.it (guarda in fondo all’articolo) che scandiscono i momenti cruciali di quel periodo in cui la storia della mafia e quella della Repubblica si sono intrecciate inscindibilmente. Il punto di rottura degli equilibri decennali tra Stato e mafia è il 31 gennaio del 1992, quando la Cassazione infligge migliaia di anni di carcere ai boss mafiosi imputati al maxi-processo. Il 12 marzo Cosa Nostra uccide Salvo Lima. Il 23 maggio salta in aria la staffetta della scorta di Giovanni Falcone e l’onda d’urto travolge anche l’auto blindata che ospita il giudice e la sua compagna. I boss fanno circolare un elenco di vittime possibili, tra queste spiccano gli ex ministri Salvo Andò e Calogero Mannino. I Carabinieri del Ros, guidati dal generale Angelo Subranni, avviano i contatti con il Consigliori dei corleonesi, Vito Ciancimino. Paolo Borsellino, secondo le testimonianze più recenti in qualche modo è informato. Di certo, dicono tutti i suoi colleghi e amici, si sarebbe opposto con tutta la sua forza a qualsiasi forma di cedimento alla mafia. Secondo i giudici di Caltanissetta, Borsellino sapeva che lo Stato stava scendendo a patti con Cosa Nostra e anche per questa ragione, in quanto si sarebbe opposto, è stato ucciso il 19 luglio del 1992 a via D’Amelio. Cosa Nostra però non si ferma e porta il suo attacco nel “continente”. Il 14 maggio del 1993 c’è l’attentato a Maurizio Costanzo a Roma. Il 27 maggio le stragi di Firenze e Milano e il 28 luglio l’attentato contro le chiese a Roma.

Prima dell’avvio di questa seconda ondata di bombe però era arrivato un segnale che solo recentemente è stato valorizzato grazie al libro di Sebastiano Ardita, magistrato di grande esperienza, oggi procuratore aggiunto a Messina e per molti anni al Dipartimento amministrazione penitenziaria, il Dap. Nel libro Ricatto allo Stato, Ardita racconta che nel febbraio 1993 arriva una strana lettera al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: “Siamo un gruppo di familiari di detenuti che sdegnati e amareggiati da tante disavventure” è l’incipit (leggi il documento integrale). I familiari chiedono al presidente: “Quante volte in una settimana Lei cambia la biancheria intima? Quante volte cambia le lenzuola? Lo sa quanta biancheria in un mese noi possiamo portare al nostro congiunto? Soli cinque kg”. Poi si lamentano dei secondini di Pianosa, definiti “sciacalli” e chiedono di “togliere gli squadristi del dittatore Amato”, Nicolò Amato, direttore del Dap allora (leggi l’appunto di Amato sul 41 bis). A impressionare sono gli indirizzi a cui la lettera al presidente, che non si trova negli archivi del Quirinale secondo quello che dice al telefono mentre è intercettato, il consigliere del Capo di Stato, Loris D’Ambrosio, è spedita: il Papa, il Vescovo di Firenze e, tra gli altri, Maurizio Costanzo, oltre a Vittorio Sgarbi e ad altre istituzioni. L’elenco impressiona perché i destinatari sembrano altrettanti messaggi in codice decrittati poi dalle bombe contro Costanzo prima, a Firenze poi e infine davanti al Vicariato di Roma. Lo Stato cede: già nel giugno del 1992 il nuovo capo del Dap Adalberto Capriotti (Amato è sostituito come chiedevano implicitamente i familiari) chiede al capo di gabinetto del ministro della Giustizia di non prorogare i decreti per il 41 bis a centinaia di detenuti per i quali il trattamento di isolamento era in scadenza. A novembre del 1993, con una scelta della quale si è assunto la responsabilità davanti ai magistrati, l’allora ministro Giovanni Conso lascia decadere il 41 bis per ben 334 detenuti (leggi l’elenco completo). Tra questi boss del calibro di Vito Vitale di Partinico e Giuseppe Farinella che poi insieme ad altri 50 detenuti torneranno negli anni successivi al regime che gli spettava. Queste carte mostrano un segmento importante della sequenza, ma da sole non bastano a spiegare quello che è successo nel braccio di ferro tra mafia e Stato. Non è un caso se nella contestazione del reato di minacce a corpo dello Stato contro il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri (stessa accusa contestata anche per Calogero Mannino, all’ex capo del Ros dei Carabinieri Antonio Subranni, al suo vice dell’epoca Mario Mori e all’allora capitano Giuseppe De Donno) non sia definito dalla Procura di Palermo il momento in cui sarebbe terminata la cosiddetta trattativa, che sarebbe meglio definire minaccia allo Stato. Che la partita a scacchi sia rimasta aperta anche dopo la resa di Conso nel novembre 1993, lo dimostra proprio un’altra partita, stavolta di calcio, ignorata dai giornali di destra e dai politici del Pdl che vorrebbero attribuire la responsabilità del cedimento scellerato dello Stato (che pure per la Procura di Palermo ci fu) solo e soltanto all’ex ministro Conso, governo Ciampi, quindi uomo del centrosinistra. La partita che fa saltare questo schema è Roma-Udinese del 23 gennaio 1994. Quel giorno, come ha raccontato Gaspare Spatuzza al processo Dell’Utri, dovevano saltare in aria un centinaio di carabinieri. Per fortuna il telecomando non funzionò, ma quel tentativo di strage dimostra che la mafia non era affatto soddisfatta dei 334 detenuti liberati dal 41 bis. La trattativa non si chiude a novembre del 1993 e forse non si è chiusa ancora oggi. Da Il Fatto Quotidiano del 26 giugno 2012.

Borsellino, ecco perché ci vergogniamo. Ventiquattro anni dopo la strage il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare, scrive Lirio Abbate il 18 luglio 2016 su “L’Espresso”. Siamo arrivati a 24 anni dalla strage di via D'Amelio alla celebrazione del quarto processo per esecutori e depistatori, dopo aver avuto quello per i mandanti ed organizzatori di questo attentato avvenuto il 19 luglio 1992, in cui sono stati uccisi il procuratore aggiunto di Palermo, Paolo Borsellino e gli agenti di polizia Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli. Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. La verità però ancora non emerge su molti aspetti di questa strage. Non emergono i motivi dei depistaggi, i motivi che hanno spinto piccoli pregiudicati a diventare falsi collaboratori di giustizia, perché ci sarebbero stati "suggerimenti" investigativi che hanno spostato l'asse delle indagini lontano da quelle reali. Sono interrogativi a cui si deve dare ancora una risposta, ma che hanno portato nei giorni scorsi Lucia Borsellino, figlia del magistrato ucciso, a sostenere davanti alla Commissione antimafia presieduta da Rosi Bindi che "quello che sta emergendo in questa fase processuale (è in corso a Caltanissetta il quarto procedimento sulla strage, ndr) ci si deve interrogare sul fatto se veramente ci si possa fidare in toto delle istituzioni". Parole pesanti, che sembrano essere scivolate nel silenzio mediatico e politico. Il processo sta facendo emergere molti punti oscuri che riguardano investigatori e uomini delle istituzioni che non avrebbero fatto bene il proprio dovere e molti di loro, chiamati a testimoniare, hanno ripetuto ai giudici di non ricordare. "Il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato e lo dico da figlia, mi fa vergognare", ha detto Lucia Borsellino ai commissari antimafia, ai quali ha precisato: «Nel caso della strage che ha tolto la vita a mio padre e agli uomini della scorta non è stato fatto ciò che era giusto si facesse, se siamo arrivati a questo punto vuol dire che qualcosa non è andata. Ci sono vicende che gridano vendetta anche se il termine non mi piace». Per poi concludere: «Mi auguro questa fase processuale tenti di fare chiarezza sull’accaduto, pensare ci si possa affidare ancora a ricordi di un figlio o una figlia che lottavano per ottenere un diploma di laurea è un po’ crudele, anche perché papà non riferiva a due giovani quello che stava vivendo. Non sapevo determinati fatti, è una dolenza che vivo anche da figlia e una difficoltà all’elaborazione del lutto». Oggi le indagini della procura di Caltanissetta hanno svelato che a premere il pulsante che ha fatto esplodere l'auto carica di esplosivo è stato Giuseppe Graviano, ma non si conosce il motivo che ha portato ad accelerare la strage. Si è scoperto che nei 57 giorni che separano gli attentati di Capaci e via d'Amelio uomini delle istituzioni hanno parlato con i mafiosi, ma non si sa a cosa abbia portato questo "dialogo". Si è scoperto che le indagini dopo l'attentato del 19 luglio 1992 sono state depistate, ma non è stato individuato il movente. Nemmeno quello che ha portato tre pregiudicati a raccontare bugie ai giudici, ad autoaccusarsi della strage e rischiare il carcere a vita, a diventare falsi collaboratori di giustizia. I magistrati, grazie alla collaborazione di Gaspare Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta dopo le sentenze definitive sulla strage) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano, sono riusciti a trovare alcune tessere del mosaico che dal '92 avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Un attentato che a 24 anni di distanza ci continua a far star male, come dice Lucia Borsellino, "per il semplice sospetto che uomini dello Stato abbiamo potuto tradire un altro uomo dello Stato" e questo ci fa vergognare. 

Un giorno chiesi a Borsellino, un altro che conosceva la lingua siciliana, scrive Giorgio Bocca il 22 maggio 2002 su “La Repubblica”: "Che rapporto c'è tra politica e mafia?". Mi rispose: "Sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo. Il terreno su cui possono accordarsi è la spartizione del denaro pubblico, il profitto illegale sui pubblici lavori". La frase detta da Paolo Borsellino  “Mafia e Stato sono due poteri su uno stesso territorio, o si combattono o si mettono d’accordo.” Racchiude un’amara verità e riassume bene la storia del nostro Paese. Storicamente si può dire che di trattative Stato-mafia ce ne sono state varie. Sono iniziate dal 1861, con la nascita della Stato. Le indagini a ritroso della Procura di Palermo sono arrivate fino ai torbidi intrecci degli alleati con il bandito Salvatore Giuliano, che dopo la liberazione nazi-fascista è stato anche utilizzato dalle correnti filo-americane contro il “pericolo comunista”. La prima strage stato-mafia fu a Portella della Ginestra e rientrava in questi piani.

SCADUTO IL SEGRETO DI STATO SU PORTELLA E SULLA MORTE DI GIULIANO. Scrive Pino Sciumé il 5 luglio 2016 su “Siciliaonpress”. Mattina del 5 luglio 1950. A Castelvetrano, in provincia di Trapani, in un cortile ubicato nella via Mannone, un corpo senza vita, riverso bocconi e circondato da carabinieri, magistrati, giornalisti, abitanti del posto, fu mostrato all’opinione pubblica come un trofeo di guerra, la vittoria dello Stato contro il ricercato più pericoloso che per sette anni lo aveva tenuto in pugno. Quel corpo era del “bandito” Salvatore Giuliano. Autori della brillante operazione furono il Colonnello Ugo Luca e il Capitano Antonio Perenze, quest’ultimo dichiaratosi autore materiale dell’eliminazione fisica dell’imprendibile “re di Montelepre”. L’operazione militare, ordinata direttamente dall’allora ministro degli Interni Mario Scelba, siciliano di Caltagirone e inventore del famoso corpo di polizia denominato “La Celere”, sembrò mettere a tacere per sempre la questione del banditismo siciliano che, secondo le fonti governative, aveva provocato centinaia di morti nei sette anni precedenti, culminati con la strage di Portella delle Ginestre in cui la banda Giuliano provocò la morte di undici contadini e il ferimento di altre trenta persone. Poco prima della morte di Giuliano era cominciato a Viterbo il processo per la strage di Portella, definita da Scelba, opera di criminali comuni che nulla avevano a che fare con i politici, gli agrari e la mafia. La Corte non si preoccupò pertanto di ricercare eventuali mandanti, ma di accertare la responsabilità personale degli esecutori comminando loro la giusta condanna. Due anni dopo, dodici componenti della c.d. banda Giuliano furono condannati alla pena dell’ergastolo, dodici e non undici, quanti erano effettivamente presenti sul monte Pizzuta assieme a Giuliano. Ma uno in più, uno in meno… Le cronache di quei tempi riferiscono che nessun siciliano credeva alla colpevolezza di Giuliano perché quello di Portella era il suo popolo, la gente per cui aveva lottato contro uno Stato da lui considerato nemico e da cui voleva che la Sicilia si distaccasse. Umberto Santino, giornalista e attento osservatore, come lo fu il coraggioso Tommaso Besozzi (autore dell’articolo: “Di sicuro c’è solo che è morto” scritto all’indomani del 5 luglio 1950) così scrive in uno dei suoi pezzi “La verità giudiziaria sulla strage si è limitata agli esecutori individuati nei banditi della banda Giuliano. Nell’ottobre del 1951 Giuseppe Montalbano, ex sottosegretario, deputato regionale e dirigente comunista, presentava al Procuratore generale di Palermo una denuncia contro i monarchici Gianfranco Alliata, Tommaso Leone Marchesano e Giacomo Cusumano Geloso come mandanti della strage e contro l’ispettore Messana come correo. Il Procuratore e la sezione istruttoria del Tribunale di Palermo decidevano l’archiviazione. Successivamente i nomi dei mandanti circoleranno solo sulla stampa e nelle audizioni della Commissione parlamentare antimafia che comincia i suoi lavori nel 1963”. Ancora Umberto Santino, nei suoi articoli che fanno parte dell’Archivio del compianto Professor Giuseppe Casarrubea, scrive: “Nel novembre del 1969 il figlio dell’appena defunto deputato Antonio Ramirez si presenta nello studio di Giuseppe Montalbano per recapitargli una lettera riservata del padre, datata 9 dicembre 1951. Nella lettera si dice che l’esponente monarchico Leone Marchesano aveva dato mandato a Giuliano di sparare a Portella, ma solo a scopo intimidatorio, che erano costantemente in contatto con Giuliano i monarchici Alliata e Cusumano Geloso, che quanto aveva detto, nel corso degli interrogatori, il bandito Pisciotta su di loro e su Bernardo Mattarella era vero, che Giuliano aveva avuto l’assicurazione che sarebbe stato amnistiato”. E ancora: “Montalbano presenta il documento alla Commissione antimafia nel marzo del 1970, la Commissione raccoglierà altre testimonianze e nel febbraio del 1972 approverà all’unanimità una relazione sui rapporti tra mafia e banditismo, accompagnata da 25 allegati, ma verranno secretati parecchi documenti raccolti durante il suo lavoro. La relazione a proposito della strage scriveva: “Le ragioni per le quali Giuliano ordinò la strage di Portella della Ginestra rimarranno a lungo, forse per sempre, avvolte nel mistero”. La Commissione Parlamentare Antimafia istituì nel 1971 una sotto commissione sui fatti Portella presieduta da Marzio Berardinetti che tra l’altro affermò: “Il lavoro, cui il comitato di indagine sui rapporti fra mafia e banditismo si è sobbarcato in così difficili condizioni, avrebbe approdato a ben altri risultati di certezza e di giudizio se tutte le autorità, che assolsero allora a quelli che ritennero essere i propri compiti, avessero fornito documentate informazioni e giustificazioni del proprio comportamento nonché un responsabile contributo all’approfondimento delle cause che resero così lungo e travagliato il fenomeno del banditismo”. Per tali motivi, nell’intento di non andare oltre in interrogatori che potevano portare a verità scomode fu apposto il Segreto di Stato fino al 2016, fino a questo 5 luglio 2016, 66° anniversario della messinscena della morte di Salvatore Giuliano. Abbiamo sentito il nipote Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio di Mariannina e sorella di Salvatore. “Noi della famiglia siamo sicuri dell’estraneità di mio zio sui fatti di Portella. Quella fu una Strage di Stato addossata ad arte a Giuliano. Le Autorizzo a scrivere che noi conosciamo la verità fin dal 1965. Ora se lo Stato vuole aprire quegli archivi che ben venga, anche se non credo ci possa essere ormai qualcosa che non conosciamo. Ma dalla fine del prossimo settembre sarà in distribuzione in tutta Italia prima e successivamente negli Stati Uniti, un Docufilm di circa tre ore in formato DVD che farà conoscere al mondo intero la verità su mio zio Salvatore Giuliano, eroe siciliano, colonnello dell’Evis, punto fermo dell’ottenimento del mai attuato Statuto Siciliano, anche se lui ha sempre lottato per l’Indipendenza della Sicilia”. Una pagina dell’Unità del 7 luglio 1950 mostra la cronaca della morte di Salvatore Giuliano. Potrà essere risolto nel 2016, allorché cadrà il segreto di stato sulle carte conservate negli archivi dei ministeri dell’interno e della difesa, il giallo sulla morte del bandito Giuliano, uno dei tanti misteri della storia italiana sui quali recentemente la magistratura è tornata ad indagare. Ne è convinto Giuseppe Sciortino Giuliano, nipote di Salatore Giuliano, che ha appena pubblicato un libro (“Vita d’inferno. Cause ed affetti”) che si chiude con una ricostruzione secondo la quale il cadavere mostrato all’epoca alla stampa non sarebbe stato quello del celebre bandito, bensì di un sosia.

Montelepre: una “Vita D’inferno”. Ricordato Salvatore Giuliano, nel 60° anniversario della morte, con una pubblicazione del nipote Pino Sciortino Giuliano. La vicenda di Salvatore Giuliano ci riporta ad anni particolarmente “inquieti”, complessi, della storia della Sicilia e, nonostante gli innumerevoli fiumi d’inchiostro versati, su quei fatti permangono ancora molte zone d’ombra. Sono gli anni dello sbarco degli Alleati, del separatismo, della ribellione civile frettolosamente etichettata come bieco “banditismo”. Un groviglio di rapporti nebulosi – tra americani e mafia, tra patiti politici e mafia, tra Giuliano e politici senza scrupoli –, pose le basi della nascente Repubblica Italiana. Allora tutti si incontrarono, dialogarono e si accordarono: aristocratici, politici, intellettuali, operai, contadini, servizi segreti internazionali, forze di polizia e banditi. Il “caso” Giuliano servì a ognuno fino a quando considerarono conveniente l’accordo, poi… la mattina fatidica del 5 Luglio del 1950, in un cortile di Castelvetrano, il “presunto” corpo di Turiddu venne trovato crivellato di colpi, in seguito, ad un falso conflitto a fuoco sostenuto dagli agenti del Cfrb, e nell’arco di appena un decennio tanti possibili testimoni uscirono di scena con morti alquanto misteriose. In pochi si salvarono affrontando il carcere duro e solo pochissimi resistettero e tornarono a casa a fine pena. Seguì l’inevitabile volontario silenzio degli esigui superstiti. A 60 anni dalla morte del leggendario colonnello dell’Evis, il nipote di Salvatore Giuliano, Giuseppe Sciortino Giuliano, figlio della sorella del bandito, Mariannina, ha presentato lo scorso 5 luglio (data ufficiale della morte di Turiddu), ad un folto pubblico proveniente da tutta la Sicilia ed anche dall’estero, l’ultimo suo libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”. Un’opera che racconta la vita degli abitanti di Montelepre, paese natale di Giuliano, dal 1943 al 1950, periodo di forti tensioni politiche e civili, caratterizzato da arresti ingiustificati, false accuse e vessazioni da parte dello Stato nei confronti della popolazione contadina dell’area monteleprina, posta in continuo stato d’assedio ed ingiustamente colpevolizzata. «Un pregevole recupero della verità storica, troppo spesso mistificata dalla storiografia ufficiale (figlia faziosa dei poteri imperanti) – ha evidenziato il relatore, prof. Salvatore Musumeci, giornalista ed esperto di storia della Sicilia, tra l’altro presidente nazionale del Mis –, che malgrado tutto si è mantenuta, pur rimanendo per parecchio tempo in uno stato di oblio. Su Salvatore Giuliano molto è stato scritto con lo scopo di intorpidire le acque. Oggi più che mai, mentre si celebrano i falsi miti dei 150 di Stato unitario, Montelepre, e non tanto la sola figura di Turiddu, ha bisogno di conoscere e di riappropriarsi della verità storica, perché per quegli eventi è stata colpevolizzata un’intera cittadina che nulla aveva a che fare con gli accadimenti che travolsero Giuliano. Ai monteleprini è successo ciò che accadde ai meridionali all’indomani della forzata annessione piemontese e per spiegarlo cito un pensiero di Pino Aprile (dal suo recente Terroni): “È accaduto che i (monteleprini) abbiano fatto propri i pregiudizi di cui erano oggetto. E che, per un processo d’inversione della colpa, la vittima si sia addossata quella del carnefice. Succede quando il dolore della colpa che ci si attribuisce è più tollerabile del male subìto. Così, la resistenza all’oppressore, agli stupri, alla perdita dei beni, della vita, dell’identità, del proprio paese, è divenuta vergogna”». Fatti analoghi sono stati vissuti da Ciccu Peppi, il protagonista del libro “Vita d’Inferno - Cause ed effetti”, e da tre quarti della popolazione monteleprina continuamente vessata dal famigerato “don Pasquale”, il brigadiere Nicola Sganga, e dallo “Sceriffo”, il maresciallo Giovanni Lo Bianco (ambedue appartenenti alla Benemerita). Sciortino, inoltre, descrive le ipotesi più attendibili sull’uccisione di Giuliano e una ricostruzione delle circostanze in cui morì Gaspare Pisciotta, braccio destro del bandito, avvelenato in cella il 9 febbraio 1954. Parla anche della strage di Portella della Ginestra e di come la banda Giuliano sarebbe stata oculatamente coinvolta al fine di giustificare il massacro. In appendice, il volume contiene una poesia scritta da un componente della Banda Giuliano, Giuseppe Cucinella che ha ispirato l’opera di Giuseppe Sciortino Giuliano. «La poesia – ha sottolineato l’autore –, è stata in qualche modo ispiratrice della stesura del libro. Devo molta riconoscenza alla figlia di Giuseppe Cucinella (la signora Giusi Cucinella, ndr), che me l’ha messa a disposizione ed io ho voluto farle il regalo di inserirla all’interno del libro. Proprio, perché dalla lettura di questa poesia si vede il patriottismo di quest’uomo, che era comune anche a tutti gli altri, e ciò per dimostrare che gli uomini di mio zio non erano volgari delinquenti ma gente che aveva un ideale e combatteva per questo ideale. All’interno della mia famiglia mi sono dovuto caricare di una responsabilità enorme, perché dovevo in qualche modo rimuovere la macchia nera di Portella delle Ginestre che aveva colpevolizzato un’intera comunità. Per cui io stesso sono diventato ricercatore della verità e man mano che gli uomini di mio zio uscivano dal carcere li avvicinavo, chiedevo, li intervistavo perché volevo capire, io per primo, quello che veramente era successo in quegli anni. Questo mi ha permesso di avere una cognizione di causa sull’argomento e sulla vita in generale di mio zio e di tutto il periodo storico e, quindi, ho potuto scrivere diversi volumi (Mio fratello Salvatore Giuliano, scritto assieme alla madre Mariannina, e Ai Siciliani non fatelo sapere, ndr)». Allo storico monteleprino, prof. Pippo Mazzola, abbiamo chiesto: quali nuove verità apprenderemo nel 2016 quando verranno desecretati i faldoni del fondo Giuliano? «Sicuramente nessuna – sorride ironico il Mazzola –. Sappiamo da fonti attendibilissime che nel corso degli anni, via via, sono spariti tutti i documenti compromettenti, tra cui il fascicolo 29 C contenente il memoriale di Gaspare Pisciotta e i suoi quattordici quaderni. Pare che siano scomparsi durante il governo D’Alema. Oggi non possiamo provarlo, ma chi vivrà vedrà». Prima di lasciare Montelepre ci fermiamo per qualche attimo al Cimitero. Incontriamo una comitiva ed una graziosa ragazza ci chiede: «Excuse me, here is the tomb of Salvatore Giuliano?». Rispondiamo: «Yes, in the chapel on the left most». Ci ringrazia e l’ascoltiamo spiegare: «Giuliano was a hero who fought for the Sicily against the abuses of the Italian State. For the Sicily’s independence. Too bad that Sicilians like him there are not more!». Lasciamo ai lettori il piacere della traduzione. Giuseppe Musumeci. Pubblicato su “Gazzettino”, settimanale regionale, Anno XXX, n. 25, Giarre sabato 10 luglio 2010 

Magistrati & storie di corna non accadono solo a Taranto: a Roma un membro del Csm simula il furto dell’Iphone! Dopo il “gossip” di un magistrato tarantino che sarebbe diventato l’amante dell’ex-moglie del suo avvocato che lo assisteva, questa volta i tradimenti arrivano al Csm a Roma, scrive il 28 giugno 2016 Frank Cimini e Manuela D’ Alessandro su “Giustiziami”. Aveva scritto via whatsapp un messaggio all’amante inviandolo per errore alla moglie che s’infuriava e chiedeva spiegazioni e lui replicava che l’apparecchio gli era stato rubato. Il nostro nel tentativo di dimostrare di essere estraneo al fatto presentava una denuncia formale alla polizia affermando di aver subito un furto. Protagonista della vicenda un componente togato del Consiglio Superiore della Magistratura che ora è nei guai, indagato dalla procura di Roma per simulazione di reato e sotto procedimento disciplinare. Perché la denuncia si è rivelata priva di riscontri con la realtà. I controlli e gli accertamenti in un caso del genere sono molto più accurati e soprattutto più veloci rispetto a quando una denuncia del genere viene presentata da un comune mortale. Per cui emergeva immediatamente che l’apparecchio, peraltro intestato al Csm, era sempre stato nella disponibilità del consigliere e mai oggetto di un furto. Il nostro magistrato è indagato dalla procura di Roma per aver simulato un reato e sotto inchiesta disciplinare da parte del Csm. Tutto è accaduto perché il consigliere non ha avuto la forza di far fronte alla rabbia di sua moglie per quel messaggio all’amante dal contenuto diciamo “inequivocabile” e ha finito per imboccare una strada senza ritorno. La vicenda è clamorosa, considerando l’importante incarico ricoperto dall’interessato che è tuttora al suo posto a giudicare i colleghi in attesa dello sviluppo delle indagini. L’episodio avvenuto alcuni mesi fa è coperto dal massimo riserbo anche se risulta essere a conoscenza di un numero non certo piccolo di persone. Con tutti i problemi che ha il Csm mancava solo una storia di corna gestita molto male (peggio non si poteva insomma) dal protagonista principale. Adesso si tratta di stare a vedere come sarà gestita dai colleghi del nostro, a Perugia e a Roma. Mettere tutto a tacere appare francamente difficile anche se recentemente in più occasioni il cosiddetto organo di autogoverno dei giudici ha dimostrato di avere l’omertà nel suo dna. Giovanni Legnini prova a smentire la vicenda del magistrato fedifrago svelata da giustiziami.it inviando una nota ai consiglieri dell’organo di autogoverno della magistratura: “Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Csm”. Nessuno sembra però credergli e anzi molti deridono i toni ambigui del comunicato. Legnini ha dovuto emergere dal silenzio pressato dalle centinaia di magistrati che chiedono da giorni chiarezza nelle mailing list di corrente. “Se davvero è andata così, questo signore non può continuare a sedere nel Csm”, scrivono in molti. Altri manifestano livore contro la stampa: “Quando si vuole eliminare un concorrente si prega un giornalista (è un termine improprio) e si dà origine alla notizia”.  Nei bar attorno al Tribunale di Milano all’ora di pranzo capannelli di toghe si confrontano sul nome (lo sanno tutti) e sui risvolti della vicenda.  E lo stesso accade a Roma, da dove stamattina il vicepresidente del Csm Legnini si è sentito in dovere di riportare “un clima sereno e proficuo” tra i magistrati. Ma la sua difesa non ha convinto stando alla mailing list di Anm. “E’ uno scialbo comunicato parasovietico del tipo in Urss non ci sono furti”, azzarda uno. “Legnini scrive ‘non è pendente alcun procedimento’ – osservano altri – parlando al presente. Questo significa che in passato lo era e magari è stato definito con un patteggiamento?”. E ancora: “Se non fosse per lo sputtanamento, ci sarebbe da ridere”; “Chiediamo a Signorini come sono andate le cose”. Chissà se il giornalista re del gossip sa se il Csm ha mai aperto un’inchiesta sul magistrato fedifrago, esercitando quell’azione penale che dovrebbe essere il pane della magistratura, oppure se ora sta insabbiando un’indagine conclusa con un patteggiamento o in altro modo che avrebbe dovuto portare alla rimozione dall’incarico, peraltro importante, rivestito dal magistrato.

Csm: Legnini, nessuna indagine su componente Consiglio. (Agenzia Italia – AGI) “Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Consiglio in relazione ai fatti riportati nei citati articoli di stampa”. Cosi” il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini, in una lettera inviata oggi a tutti i consiglieri dell’organo di autogoverno della magistratura, fornisce chiarimenti in merito alla vicenda, riportata da alcuni organi di stampa, che riguarderebbe un componente del Consiglio.  “Gentili consiglieri – scrive Legnini – a seguito di richieste di chiarimento formulate da diversi colleghi, vi scrivo con riferimento alla vicenda riportata dai mezzi di stampa oggi e nei giorni scorsi che ha destato in noi apprensione. Secondo ipotesi formulate da alcuni quotidiani e da talune testate giornalistiche in rete, penderebbero un procedimento penale e uno disciplinare a carico di un componente di questo Consiglio Superiore; tali procedimenti asseritamente discenderebbero da una sua denuncia concernente l’impiego abusivo di un telefono cellulare per imprecisate comunicazioni effettuate da terzi. Secondo quanto riportato sui siti e sui quotidiani, tale denuncia avrebbe dato luogo ad un’ipotesi di responsabilità” per simulazione di reato. All’esito di verifiche effettuate, posso riferirvi che non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Consiglio in relazione ai fatti riportati nei citati articoli di stampa”. Il numero due di Palazzo dei Marescialli aggiunge quindi che “alla luce di tali rilievi, non può” nascondersi il disagio per le ricostruzioni adombrate dalle suddette testate giornalistiche, le quali hanno finito con l’esporre il Consiglio e i suoi componenti a spiacevoli commenti basati su elementi privi di conferma in atti giudiziari”. Legnini, infine, auspica il “mantenimento di un clima sereno e proficuo in vista dell'impegnativo lavoro” delle prossime settimane.

Un sms agita il Csm, Legnini smonta il caso. Cimini conferma: «Storia vera». L’ex cronista giudiziario del “Mattino” a Milano: “il vicepresidente smentisce l’indagine sul consigliere? Ma la finta denuncia di furto del cellulare c’è stata, i pm hanno paura di indagare così in alto”. A proposito….ma la Legge non è uguale per tutti ?, scrive il 29 giugno 2016 Giovanni M. Jacobazzi su "Il Dubbio". Frank Cimini è uno dei cronisti che nel giornalismo italiano degli ultimi quarant’anni hanno fatto la storia della “giudiziaria”. Ex ferroviere, poi praticante al Manifesto, è stato per oltre un quarto di secolo l’inviato del Mattino al Palazzo di Giustizia di Milano. Ha vissuto gli anni ruggenti di “Tangentopoli”, gli anni del trionfo delle manette e della rivoluzione togata. In pensione dalla fine del 2013, cura un seguitissimo blog, Giustiziami.it, pieno di retroscena su quanto accade nelle austere stanze del Tribunale milanese. La testata rende bene l’essenza del Cimini pensiero, maturato dopo aver vissuto per decenni a contatto con i magistrati: “Beato chi ha fiducia nella giustizia perché sarà giustiziato”. È stato lui lo scorso fine settimana a scatenare il panico nella magistratura italiana con un articolo dal titolo eloquente: “Storia di corna, membro del Csm simula furto dell’iPhone”. In questi giorni Cimini è a Ginostra. Lo raggiungiamo telefonicamente per un’intervista dopo che il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini ha inviato a tutti i membri dell’organo di autogoverno una nota che smentisce le rivelazioni di Giustiziami.it: “A seguito di richieste di chiarimento formulate da diversi colleghi, Vi scrivo con riferimento alla vicenda riportata dai mezzi di stampa”, si legge nella comunicazione di Legnini. Il quale ricorda come, secondo “alcuni quotidiani” e “talune testate giornalistiche in rete”, penderebbero “un procedimento penale e uno disciplinare a carico di un componente di questo Consiglio superiore“. Procedimenti che “discenderebbero da una sua denuncia” sull’“impiego abusivo di un cellulare per imprecisate comunicazioni effettuate da terzi”. Si tratterebbe di un messaggio WhatsApp inviato per errore alla moglie del consigliere del Csm ed evidentissimamente destinato a un’altra donna, che avrebbe spinto il membro del Consiglio a denunciare l’uso abusivo del telefonino, rimasto in realtà sempre in suo possesso. Legnini scrive ai consiglieri che “non risulta pendente alcun procedimento”.

Cimini, hai visto che caos hai scatenato? Il tuo pezzo ripreso anche da Dagospia è stato tra i più letti del weekend. Ma la storia è vera?

«Confermo pienamente il fatto storico. Un magistrato membro del Csm, con il cellulare di servizio, ha scritto via whatsapp un messaggio all’amante inviandolo per errore alla moglie. Per tentare di placare la furia della moglie tradita si è inventato la storia che gli era stato rubato il telefonino. E, nel tentativo di dimostrare di essere estraneo al fatto presentava pure una denuncia affermando di aver subito un furto. Gli accertamenti svolti, però, hanno appurato che il cellulare era sempre rimasto nella disponibilità del consigliere togato e mai oggetto di un furto».

Quando sarebbe avvenuto l’episodio?

«Alcuni mesi fa. È coperto dal massimo riserbo anche se risulta essere a conoscenza di un numero non piccolo di persone».

Che provvedimenti hanno preso i colleghi dell’incauto consigliere?

«Questo non so dirlo. Non so quali siano le decisioni della Procura di Roma. Ma dubito seriamente che possano e vogliano procedere contro di lui».

E perché?

«Le carriere dei magistrati dipendono totalmente dal Csm. Il consigliere in questione è un potentissimo presidente di Commissione. Mi spieghi quale pm ha il coraggio di indagarlo a costo di vedere la sua carriera stroncata per sempre».

Legnini scrive che “non risulta pendente alcun procedimento penale”.

«Appunto, non risulta “pendente”. La smentita si limita a escludere attuali procedimenti penali. Non dice se il fatto è successo o meno. Se è stato archiviato oppure se è stato già definito».

Legnini ricorda anche che questa vicenda ha suscitato “apprensione” e “disagio” in tutto il Csm.

«Sarò prevenuto, ma questo Csm fu quello che, al culmine dello scontro che andava avanti da mesi fra Bruti Liberati e il suo aggiunto Robledo, annunciò il procedimento disciplinare solo quattro giorni dopo il comunicato con cui l’allora procuratore disse che di lì a poco sarebbe andato in pensione. I magistrati la devono smettere con la favola dell’indipendenza e dell’autonomia. E basta anche con questa farsa dell’obbligatorietà dell’azione penale».

Su una cosa si può convenire, Cimini: se fosse stato un politico a mandare messaggi all’amante col telefonino di servizio e poi a simularne il furto, sarebbe stato crocifisso a testa in giù.

«Sì, sarebbe stato colpito e affondato a colpi di legalità».

IL PM, LE CORNA E IL FINTO FURTO. STORIA DEL GRANDE INTRIGO CHE SCUOTE IL CSM. Di Annalisa Chirico, il Foglio, 30 giugno 2016. Il Grande Intrigo del Csm. Come in un giallo di Raymond Chandler, si mescolano il presunto colpevole, il corpo del reato, l’amante e il poliziotto, in un’ondata di sospetti, pettegolezzi e veleni che infestano i corridoi di Palazzo dei Marescialli. Nelle mailing list dei magistrati non si parla d’altro (“chiediamo a Signorini come sono andate le cose”, suggerisce qualcuno), i giornalisti si consultano tra loro, nessuno sa come uscirne, siamo tutti in fibrillazione, dateci il fedifrago, qui e ora. Tuttavia la trama piccante di amori penalmente rilevanti s’infrange contro lo scoglio abruzzese, lui, Giovanni Legnini. Dopo giorni di tam tam ambiguo, di detti e non detti, di nomi sussurrati e frasi mozzate, il vicepresidente del Csm spedisce una lettera ai consiglieri. “Non risulta pendente alcun procedimento penale o disciplinare a carico di componenti del Consiglio in relazione ai fatti riportati nei citati articoli di stampa”, chiarisce la nota. Quali sarebbero codesti fatti? Lo scorso 24 giugno Frank Cimini, storico cronista giudiziario, innesca la miccia con un post sul sito Giustiziami.it: “Storia di corna, membro del Csm simula furto iPhone”. Il racconto ha dell’incredibile: un consigliere togato avrebbe indirizzato un messaggio via WhatsApp, “dal contenuto inequivocabile”, all’amante. La moglie non la prende bene, anzi s’infuria, pretende spiegazioni e il magistrato replica che l’apparecchio gli sarebbe stato rubato. Per dare consistenza all’autodifesa sporge denuncia sostenendo che il telefono, per giunta intestato al Csm, gli sarebbe stato sottratto da un ladro. La polizia avvia le indagini e scopre che, colpo di scena, lo smartphone è sempre rimasto nelle disponibilità del consigliere. Preso atto del furto immaginario, i funzionari sono costretti a presentare un esposto alla procura di Roma per simulazione di reato con il risultato che, racconta Cimini, lo stesso si ritroverebbe sotto una duplice inchiesta, penale e disciplinare. Il racconto supera la più fervida fantasia. Dagospia lo rilancia, e la storia di corna, vere o presunte, infiamma le linee telefoniche di cronisti e magistrati. Tra togati e laici non si chiacchiera d’altro, il weekend precede la settimana “bianca” in cui i consiglieri non si riuniscono. E’ tutto un vortice di telefonate, il nome che circola è sempre lo stesso, ma nessuno capisce che cosa ci sia di vero e d’inventato, eppure qualcosa c’è. Il Tempo pubblica un pezzo garbato, senza far nomi; il Giornale non è da meno, e per l’occasione rispolvera il nom de plume Diana Alfieri, già “autrice” della patacca del caso Boffo. Il 28 giugno Legnini spedisce la nota chiarificatrice: “All’esito di verifiche effettuate, posso riferirvi che non risulta pendente alcun procedimento a carico di componenti del Consiglio”, inoltre “alla luce di tali rilievi non può nascondersi il disagio per le ricostruzioni adombrate dalle suddette testate giornalistiche le quali hanno finito con l’esporre il Consiglio e i suoi componenti a spiacevoli commenti privi di conferma in atti giudiziari”.

Dura quattro giorni l’attesa per una presa di posizione ufficiale, in quel lasso di tempo l’ombra del fedifrago si allunga minacciosa su ciascun componente maschio del Csm. “Per fortuna Legnini ha smentito – commenta il consigliere Pierantonio Zanettin al Foglio – Io sono fuori con la famiglia, mi chiamano decine di suoi colleghi ma io non so nulla di questa storia. Si figuri quanta voglia ho di disquisire di corna altrui”. Ma le corna in questa storia tengono banco. E’ possibile che la trama boccaccesca sia stata inventata di sana pianta? Cimini non ha la reputazione del pataccaro, la sua è la carriera di un uomo di trincea, per venticinque anni al Mattino, inviato al Palazzo di giustizia di Milano; nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolano dietro Antonio di Pietro, è tra i pochi a tenersi fuori dal coro. “La notizia – dichiara Cimini al Foglio – proviene da ambienti giudiziari, non è una patacca e si regge a dispetto della smentita burocratica di Legnini. La nota riferisce che non è pendente alcun procedimento, al tempo presente. La vicenda risale ad alcuni mesi fa, nulla esclude che il togato sia stato iscritto e poi archiviato, o che sia tuttora indagato riservatamente o che possa esserlo in futuro”. M’è dolce naufragar nell’incertezza. “Quella nota è un modo per tamponare e prendere tempo – prosegue Cimini – Che il magistrato abbia mandato per errore alla moglie il messaggio indirizzato all’amica del cuore è un fatto storicamente accaduto. La moglie ha deciso tuttavia di restare al suo fianco”. Il rapporto di coppia è faccenda privata, il punto è se un togato del Csm abbia simulato un furto. “I contorni della vicenda giudiziaria si chiariranno solo tra qualche tempo. Il fatto che la smentita giunga al termine di quattro giorni in cui i magistrati d’Italia hanno sproloquiato di corna e telefoni rubati la dice lunga”. Il vicepresidente Legnini è maestro di prudenza, difficilmente si sarebbe esposto senza un’accurata valutazione dei rischi. “Se tra qualche mese venisse fuori che il tal magistrato era effettivamente sotto indagine, basterebbe spiegare che all’epoca della smentita l’indagine era secretata”, chiosa Cimini. Intanto i pettegolezzi si rincorrono, il nome che circola è sempre lo stesso ma nessun giornale lo riporta. Le notizie sono centellinate perché a bruciarsi le fonti s’impiega un attimo. Ieri la Stampa riporta la smentita del numero due del Csm condita, per la prima volta, dal nome che tutti sanno ma nessuno pronuncia. L’Innominabile si chiama Lucio Aschettino, è lui il protagonista, suo malgrado, del Grande Intrigo. E’ lui a sperimentare sulla propria pelle i guasti di un processo mediatico. Su Facebook, della serie “colleghi serpenti”, il giudice Clementina Forleo traccia l’identikit: “La commissione che presiede è quella che decide gli incarichi direttivi”, la quinta. Nelle mailing list togate c’è chi lo difende (“Quando si vuole eliminare un concorrente si prega un giornalista – termine improprio – e si dà origine alla notizia”) e c’è pure chi lo attacca (“Getta discredito su tutto il consiglio”, “è fonte d’imbarazzo per l’intera magistratura”). Aschettino non è un quisque de populo. Già presidente della Sezione penale del Tribunale di Nola, presiede la quinta commissione del Csm, quella che presenta relazioni e proposte per il conferimento e la conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi. Non c’è nomina che non passi da lui. Dopo una carriera di provincia alle prese con la criminalità mafiosa e in perenne sottorganico, Aschettino viene eletto al Csm, due anni or sono, insieme al compagno di corrente Piergiorgio Morosini, entrambi in quota Md, confluiti in Area (il cartello elettorale nato dalla fusione con il Movimento per la giustizia). Lo spiffero di un suo eventuale coinvolgimento in una vicenda dai contorni foschi desta non pochi malumori tra gli avversari interni. Non manca chi solleva una questione di opportunità: può un alto magistrato, con un ruolo di responsabilità e prestigio, restare saldamente dov’è? Chi sa far di conto evidenzia che, se Aschettino si dimettesse, subentrerebbe al suo posto Francesco D’Alessandro, Unicost, presidente di sezione della Corte d’appello di Catania, che alle ultime elezioni del Csm raccolse 454 suffragi (contro i 467 di Nicola Clivio, Area, ultimo degli eletti). D’Alessandro, già presidente della sezione catanese dell’Anm, rappresenta la fazione interna di Unicost che osteggia il gruppo dirigente nazionale. Per questo il suo arrivo a Roma non sarebbe gradito all’area che fa riferimento al consigliere togato Luca Palamara. Inoltre, la fuoriuscita di Aschettino – ragione per cui qualche suo avversario interno potrebbe aver amplificato la portata del piccolo giallo – muterebbe gli equilibri interni alla componente togata del Csm dove attualmente la sinistra giudiziaria detiene la maggioranza. In seguito a un suo eventuale passo indietro i membri di Area passerebbero dagli attuali sette a sei e quelli di Unicost da cinque a sei, siglando un sostanziale pareggio tra le correnti. Com’è noto, i rapporti di forza contano. Che le nomine seguano una meccanica spartitoria e non un principio meritocratico è un fatto assodato. Al di là dei buoni propositi, il nuovo testo unico sulla dirigenza non ha neutralizzato il potere correntizio. La riprova si è avuta attorno alla nomina del procuratore capo di Milano: dopo essersi sapientemente astenuta in occasione della votazione in quinta commissione lo scorso 14 aprile, Unicost è divenuta l’ago della bilancia e in plenum ha votato per Greco soltanto dopo aver ottenuto la nomina di un proprio capocorrente, Giuseppe Amato, al vertice della procura di Bologna. Scambio di toghe e favori, di ciò sembra consapevole pure il numero uno dell’Anm, Piercamillo Davigo, che recentemente ha definito “prassi orribile” quella delle “nomine a pacchetto: uno a me, uno a te, uno a lui”. La questione della spartizione correntizia emerge periodicamente, ogni volta che qualcuno rilascia dichiarazioni choc (vedi Raffaele Cantone) o scoppia il caso eclatante (nel 2012 l’allora consigliere del Csm Francesco Vigorito, Md, rese pubblica, per errore, una email indirizzata ai colleghi in cui lamentava “qualche pressione interna” che li aveva indotti a convergere sulla “giovane candidata napoletana di Area” ai danni del candidato concorrente). Adesso il “caso Aschettino” precipita su piazza dell’Indipendenza. Il magistrato, con una nota interna, ieri ha dichiarato: “non sono stato mai indagato né archiviato, dalla Autorità giudiziaria competente, per simulazione di reato o per ogni altra ipotesi delittuosa o contravvenzionale che anche la più fervida delle fantasie possa immaginare. Rilevo invece, che su di un mio esposto riguardante un accesso abusivo al mio cellulare, mirante a tutelare la funzione che svolgo, si è innestato un totale rovesciamento della realtà con l’effetto di rappresentarmi come l’accusato di un grave reato”. La storia andrà avanti. Per Legnini è l’ennesima matassa da sbrogliare. Per i cittadini, patacca o non patacca che sia, è l’ennesima riprova che qualcosa, nel sistema di autogoverno della magistratura, forse non va. Annalisa Chirico, il Foglio, 30 giugno 2016.

E poi ancora. Magistrati: papponi ed evasori?

“Un’alcova nei pressi di Piazza Mazzini a Lecce mascherata per un Bed end Breakfast e trasformata in una casa per appuntamenti. Uno scandalo a luci rosse travolge una coppia di insospettabili professionisti leccesi: lui, Giuseppe Caracciolo, 59 anni, magistrato originario di Lecce e in servizio a Roma presso la Corte di Cassazione Civile; la compagna, una poliziotta in pensione, in servizio per anni fuori dal Salento”. Così riporta il sito de “Il Corriere Salentino” dell’1 luglio 2016. Unico giornale ad aver avuto il coraggio di dare il nome del magistrato. I colleghi pavidi se fosse stato un povero cristo l’avrebbero messo immediatamente alla gogna.

«Bed & breakfast» di un magistrato trasformato in casa d’appuntamento. Il titolare dell’immobile sapeva e pubblicizzava l’abitazione anche come «casa vacanze» dopo le segnalazioni dei vicini è scattata la trappola dei poliziotti che si sono finti clienti, scrive Antonio Della Rocca l’1 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un magistrato ordinario di origini leccesi, ma in servizio a Roma presso la Corte di Cassazione, e la sua compagna sono indagati dalla Procura della Repubblica di Lecce per favoreggiamento della prostituzione. L’uomo, secondo gli investigatori della Squadra mobile del capoluogo salentino, coordinati dal sostituto procuratore Maria Vallefuoco, avrebbe affittato un’abitazione di sua proprietà situata nella zona di piazza Mazzini, nel pieno centro di Lecce, a giovani donne rumene che lì si prostituivano. Lo stesso proprietario avrebbe preteso un canone di locazione ben superiore a quello di mercato, del quale richiedeva l’immediato pagamento in contanti, senza rilascio di alcuna ricevuta e senza inoltrare le comunicazioni previste all’autorità di pubblica sicurezza. Nelle scorse ore i poliziotti della Squadra mobile hanno eseguito il sequestro preventivo dell’abitazione, come disposto dal gip Vincenzo Brancato, su richiesta del pm Vallefuoco. Nel corso degli ultimi mesi erano pervenute alla Squadra mobile numerose segnalazioni riguardanti il presunto esercizio della prostituzione all’interno di uno stabile del centro cittadino pubblicizzato su numerosi siti internet come casa vacanze. Gli autori delle denunce lamentavano un continuo viavai di persone di sesso maschile che, a tutte le ore del giorno, dopo avere sostato dinanzi all’immobile e avere fatto alcune telefonate, vi entravano per uscirne dopo poche decine di minuti. La polizia, durante una serie di appostamenti, ha appurato la veridicità delle segnalazioni, rilevando un continuo avvicendarsi di visitatori. Due di questi, bloccati in tempi diversi e sentiti per sommarie informazioni, hanno detto di avere ottenuto una prestazione sessuale a pagamento da una ragazza contattata dopo averne visto la foto e rilevato il numero di telefono sul sito internet «bakekaincontri». Fingendosi clienti, i poliziotti sono riusciti ad entrare nell’appartamento situato al primo piano dell’edificio, dove hanno trovato una ragazza che indossava solo reggiseno e tanga, la quale li ha invitati a seguirla all’interno, dove gli agenti si sono qualificati come ufficiali di polizia giudiziaria. Nell’appartamento sono state identificate tre giovani di nazionalità rumena, una delle quali stava consumando una prestazione sessuale con un cliente. Quest’ultimo ha riferito di avere contattato la donna attraverso lo stesso sito internet indicato dai clienti sentiti in precedenza. L’appartamento era composto, oltre che da una zona soggiorno, da due camere all’interno delle quali sono stati rinvenuti numerosi profilattici, confezioni di lubrificante intimo, salviette e rotoli di carta assorbente. L’appartamento era, peraltro, collegato attraverso una porta interna all’abitazione del proprietario indagato. Secondo quanto riferito dalle ragazze straniere, il proprietario e la compagna erano soliti accedere liberamente nell’alloggio confinante nel quale veniva esercitata la prostituzione, per raggiungere la terrazza comune dove stendevano i panni. All’interno di una stanza adibita a lavanderia, anche questa comune ai due appartamenti, era presente la collaboratrice domestica del proprietario e della sua convivente. Ciò, secondo la polizia, fa presumere che i due non potessero non essere informati dell’attività di prostituzione. Tale convincimento degli inquirenti sarebbe peraltro corroborato dalle dichiarazioni rese a verbale dalle ragazze ascoltate. Queste ultime, nonostante avessero pagato l’affitto nelle mani del proprietario, non possedevano alcuna ricevuta. L’unico documento in loro possesso era una piantina della città di Lecce che riportava la zona nella quale si trova l’immobile, con l’annotazione a penna dei numeri telefonici del proprietario, della sua convivente e della collaboratrice domestica. Non solo. Sempre secondo gli investigatori, anche il prezzo pagato da ciascuna delle ragazze sarebbe sintomatico della consapevolezza da parte del proprietario dell’attività di prostituzione che veniva svolta. Per una sola stanza, ciascuna di esse pagava dai 300 ai 350 euro. Inoltre, la stanza spesso veniva contemporaneamente affittata a più persone che non si conoscevano e che dormivano nello stesso letto. Grazie alle dichiarazioni rese dalle ragazze straniere, la polizia, ha anche appreso che il proprietario, il giorno precedente a quello della perquisizione, si era recato nell’appartamento per consegnare loro i prodotti per le pulizie, annunciando, nella stessa occasione, che nei giorni successivi avrebbero dovuto condividere la stanza con altre ragazze appena giunte. Una delle ragazze ha riferito ancora che, contattato il proprietario dopo avere trovato su internet il suo numero di telefono quale titolare di un bed and breakfast, e lamentatasi per il prezzo di affitto elevato, l’interlocutore avrebbe risposto alla giovane che «non avrebbe avuto problemi a pagare una tale cifra». L’indagato, dopo avere diviso in due l’appartamento di sua proprietà, ricavandone quello poi concesso in locazione, aveva piazzato solo all’esterno di questo, e senza l’autorizzazione dei condomini, una telecamera che ne vigilava l’ingresso. Gli inquilini dell’immobile hanno riferito di avere più volte notato l’indagato accompagnare ragazze in ascensore all’appartamento, portando loro le valigie. Infine, nonostante l’appartamento fosse pubblicizzato sul web come casa vacanze o bed and breakfast, nessuna insegna era stata posta all’esterno dello stabile.

Pagano le intercettazioni coi soldi dei detenuti, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 22 luglio 2016 su “Il Dubbio”. Venne stabilito un indennizzo pari a 8 euro per ogni giorno di detenzione trascorso in condizione inumane, ma dei 20 milioni stanziati solo 500mila sono stati utilizzati. Sono passati oltre tre anni da quando, nel 2013, l’Italia venne condannata dalla CEDU con l’ormai storica sentenza “Torreggiani” per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani, cioè il divieto di tortura o di trattamenti disumani e degradanti. La condanna, come si ricorderà, nasceva dal ricorso di alcuni detenuti delle carceri di Busto Arsizio e Piacenza che lamentavano di essere stati costretti a vivere in meno di tre metri quadrati a testa, di non aver potuto regolarmente usufruire delle docce e di non aver avuto sufficiente illuminazione nella cella. I giudici di Strasburgo, con quella sentenza, aprirono di fatto una nuova emergenza carceri nel Paese, affermando che il sovraffollamento carcerario rappresentava ormai un “problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico del sistema penitenziario italiano”. Il governo italiano, costretto a misure d’emergenza per evitare ulteriori conseguenze a livello europeo e, soprattutto, altre condanne, varò una seria di provvedimenti legislativi. Il più celebre fu senza dubbio il decreto legge n. 92 del 26 giugno 2014 che, recependo le prescrizioni della Corte di Strasburgo, stabiliva un “risarcimento” per i detenuti reclusi in condizione di sovraffollamento. Tale risarcimento, su domanda dell’interessato, sarebbe consistito in uno sconto di pena di un giorno ogni 10 giorni di carcerazione subita in condizione inumane. I magistrati di sorveglianza vennero incaricati di provvedere al riguardo, valutando le istanze presentate dai detenuti. Per i detenuti già scarcerati, invece, venne stabilito un risarcimento pari ad 8 euro per ogni giorno di detenzione trascorso in condizione di sovraffollamento. Sempre a domanda dell’interessato da presentarsi, questa volta, al tribunale civile che avrebbe deciso in composizione collegiale. La norma prevedeva, infine, che questi rimedi risarcitori fossero soggetti a decadenza se non richiesti entro sei mesi dalla data della scarcerazione. Leggendo i dati sui risarcimenti erogati, aggiornati al primo semestre del 2016, sembra che in Italia non ci sia però mai stata alcuna “emergenza carceri”, e che tutto sia stato il frutto di una strumentalizzazione mediatica orchestrata dai radicali, da sempre particolarmente sensibili su questo tema, o dalle associazioni che si occupano dei problemi dei detenuti. In questi anni, degli oltre 20 milioni di euro che il governo aveva stanziato nel 2014 temendo una valanga di ricorsi, ne sono stati erogati per i risarcimenti appena 500 mila. I motivi? Molteplici. In primo luogo le varie sentenze della Cassazione che si sono succedute nel tempo e che hanno ingenerato confusione sul concetto di “attualità” del trattamento inumano e degradante. Nel senso che se al momento della presentazione del ricorso il detenuto non era più ristretto in un loculo, essendo venuta meno l’attualità della domanda, questo veniva dichiarato inammissibile. Poi la difficoltà intrinseca nel ricostruire la “storia” carceraria del detenuto. Nei casi di lunghe carcerazioni, ad esempio, con frequenti spostamenti di cella o, addirittura, di carcere, non è affatto facile risalire al momento preciso della condizione di recluso in un contesto sovraffollato. Ma, ed è questo l’aspetto principale su cui bisogna soffermarsi, e che i più maliziosi dicono sia stato fatto apposta per scoraggiare la presentazione dei ricorsi, la procedura prevista dalla legge per l’ottenere il risarcimento. Cioè la causa civile da predisporre davanti al giudice. Causa che di per se comporta un costo per il detenuto fra contributo unificato da versare direttamente ed onorario dell’avvocato che deve curare il procedimento davanti al tribunale. Il detenuto, infatti, oltre al normale avvocato penalista, in molti casi deve affiancarlo anche da un civilista per la trattazione di questo genere di ricorso. Senza considerare, poi, che molti di questi sono detenuti sono soggetti estremamente fragili. Con problemi di tossicodipendenza o di clandestinità. E quindi portati a rinunciare ad affrontare un nuovo contenzioso. Per far fronte alla complessità della procedura risarcitoria, in questo periodo, si è sopperito con l’aiuto di associazioni di volontariato o con la meritoria attività di avvocati che, senza compenso alcuno, hanno seguito il procedimento civile. Al danno per i mancati risarcimenti, però, a breve potrebbe aggiungersi la beffa. Come ventilato da molti, il governo sarebbe intenzionato a “stornare” dal capitolo di bilancio questi milioni di euro che non sono stati spesi. Soldi che, pare, dovrebbero essere destinati per i pagamenti delle attività di intercettazione telefonica. Da sempre un pozzo senza fondo per il bilancio del ministero della Giustizia. Ci auguriamo di essere smentiti.

Caso Cucchi, un'insostenibile mancanza di giustizia, scrive Giuseppe Anzani il 20 luglio 2016 su "Avvenire”. ​Stefano Cucchi non è morto per colpa dei medici dell’ospedale Pertini, dice daccapo la Corte d’Assise d’appello di Roma in fase di rinvio. Accusati di aver lasciato in abbandono quell’uomo incapace dal povero corpo stremato, condannati in primo grado per omicidio colposo, poi assolti in appello con una formula ricavata dalla «mancanza di certezze sulla causa della morte», rimessi ancora alla sbarra dalla Corte Suprema che aveva cassato la sentenza, imponendo un nuovo processo, escono ora di scena (salvo ennesimo ricorso) i sanitari, i camici bianchi ai quali è affidata la salute degli uomini. Non conosciamo ancora il percorso argomentativo col quale i giudici hanno risposto al puntiglioso dettato della Cassazione, i cui princìpi ancora si stagliano: il medico è il garante della tutela della salute per ogni paziente, il medico è tenuto a fare «tutto ciò che è nelle sue capacità per la salvaguardia dell’integrità del paziente», il medico di cui non è mai giustificabile, neppure nelle situazioni complesse, l’inerzia o l’errore diagnostico. Non abbiamo ragioni nostre per dire che questa rinnovata assoluzione è giusta o sbagliata. È ribadita e ferma. E così la morte di Stefano Cucchi resta un grido che chiede ancora perché. Un grido che non si spegne nel segmento terminale delle ipotesi fatte dai periti e dai vari consulenti di parte (tutti di chiara fama, ma così divergenti); ben prima di incrociare responsabilità personali dirette, ora escluse, interroga il senso dell’ingresso in una struttura di ricovero e di terapia, da parte di un uomo in vinculis, infragilito e a rischio di morte, col corpo ferito. Senza che quel "sistema" lo scampi dal morire, pur senza la colpa penale di nessun camice bianco. È questo lo scacco, il fallimento inaccettabile, che la cronaca ha unito alla crudeltà burocratica della solitudine del ragazzo rispetto ai genitori in attesa di permesso, cui fu dato accesso il giorno dell’autopsia. Il riverbero dell’esclusione della colpa dei sanitari rilancia l’immagine del corpo sfinito per le percosse. Gli agenti di polizia penitenziaria mandati a processo sono stati assolti, in primo secondo e terzo grado. Ma le botte ci sono; la Cassazione commenta persino la «disarmante sicurezza e semplicità di un carabiniere» che testimonia: «Era chiaro che era stato menato». Quelle botte sono un delitto vergognoso, commesso all’interno degli apparati dello Stato. Di quel delitto nessuno sta rispondendo, e il colpevole non si trova e forse non si troverà. È vero che c’è in corso un’altra inchiesta, riguardo ai carabinieri che ebbero tra le mani Stefano Cucchi dall’arresto in poi. Dico "tra le mani" di proposito, come figura di ciò che l’arresto, il fermo, la cattura fisicamente produce, sul piano del possesso o della padronia di un corpo in ceppi, quando legge e forza si fanno tutt’uno. Da quel momento deve scattare una cautela che ha in sé qualcosa di sacro, una salvaguardia per la dignità umana dell’arrestato, una garanzia per la sua incolumità e sicurezza, una responsabilità dello Stato che lo ha in custodia. Purtroppo non accade sempre così, e le trasgressioni sono difficili da smascherare, e talvolta è persino rischioso denunciarle, c’è chi preferisce tenersi l’occhio pesto perché «caduto dalle scale» piuttosto che rischiare una controdenuncia per calunnia. Ci vuole un salto di civiltà, un soprassalto di coscienza. La morte di Stefano Cucchi ha sparigliato molte carte, c’è qualcosa di più importante da fare, che macinare altre doverose sentenze su cenci residui. C’è da rifare luce nel mondo della legge, togliendo ogni opacità e ipocrisia. La vita d’un uomo vale la vita del mondo.

Caso Cucchi, nuova assoluzione per i medici nel processo di appello bis. La terza corte d'Appello di Roma scagiona i cinque imputati di omicidio colposo nel quarto processo per il caso del geometra romano morto il 22 ottobre del 2009 all'ospedale Pertini: "Il fatto non sussiste", scrive "La Repubblica" il 18 luglio 2016. Nuova assoluzione per i medici dell'ospedale Sandro Pertini dove era ricoverato Stefano Cucchi, il geometra romano di 32 anni morto il 22 ottobre del 2009 dopo un ricovero di cinque giorni. La terza Corte d'assise d'appello di Roma ha scagionato dall'accusa di concorso in omicidio colposo, il primario Aldo Fierro e i sanitari Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis e Silvia Di Carlo perchè il fatto non sussiste. Il pg Eugenio Rubolino, aveva chiesto quattro anni di carcere per Fierro, primario all'epoca dei fatti, e tre anni e sei mesi per gli altri quattro medici imputati. Al processo che arriva dopo l'annullamento dell'assoluzione deciso dalla Corte di Cassazione nel dicembre scorso, probabilmente seguirà un nuovo appello presso la Suprema Corte. "Ciao Stefano, tu eri già così - è il commento che Ilaria, la sorella di Stefano, affida a Facebook -. Lo sei sempre stato. Noi non ce ne siamo mai accorti ma non abbiamo colpe perché in fin dei conti tu eri già così. Eri già morto quando stavi con noi alla tua ultima festa di compleanno, eri già morto quando ti hanno visto il giorno prima del tuo arresto varcare la soglia degli uffici del comune e della provincia. Eri già morto quando ti hanno visto correre ed allenarti 4 ore prima del tuo arresto. Eri già morto quando ti hanno arrestato. Non se ne era accorto nessuno. Magari sei deperito e dimagrito dopo morto. Magari diranno così. Ma tu sei sempre stato morto". I familiari di Stefano Cucchi che hanno ricevuto un risarcimento di un milione e trecentomila euro dall'ospedale romano non erano presenti come parte civile al processo. Intanto è ancora in corso la perizia medico legale sul caso nell'ambito dell'inchiesta bis sulla morte del giovane che vede indagati cinque carabinieri. Il nuovo incidente probatorio ha il compito di rivalutare il quadro di lesività sul corpo del giovane anche al fine di stabilire la sussistenza o meno di un nesso di causalità tra le lesioni subite a seguito del pestaggio e la sua morte. Nell'inchiesta bis sono indagati Alessio Di Bernardo, Raffaele D'Alessandro, Francesco Tedesco per lesioni personali aggravate e abuso d'autorità, e Vincenzo Nicolardi e Roberto Mandolini per falsa testimonianza. Nicolardi risponde anche di false informazioni al pm.  Secondo la nuova indagine della procura di Roma, Stefano Cucchi fu pestato dai carabinieri e ci fu una strategia scientifica per ostacolare la corretta ricostruzione dei fatti. Stefano Cucchi è morto il 22 ottobre del 2009, all'ospedale Pertini di Roma. Era stato arrestato una settimana prima per detenzione di droga, la sera del 15 in via Lemonia, nei pressi del Parco degli Acquedotti.

Riccardo Magherini, un’altra "sentenzina" per omicidio colposo, scrive Susanna Marietti, coordinatrice associazione Antigone, il 13 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Un altro omicidio colposo. Di nuovo c’è stata negligenza, imprudenza o imperizia in quelle manette messe dietro la schiena e quella faccia buttata sul terreno per circa mezz’ora in una posizione che impediva a Riccardo Magherini di respirare. “Aiuto, aiuto, sto morendo”, sono state le ultime parole pronunciate da Riccardo in quella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Firenze, registrate dal cellulare di un uomo affacciato a una finestra lì vicino. Arriva ora la sentenza di primo grado nella quale tre carabinieri vengono condannati per omicidio colposo, uno di loro a otto mesi di carcere e gli altri due a sette. Per il primo era stato chiesto ben un mese di più. Sapete perché? Perché mentre Magherini era a terra ammanettato e soffocante lui lo ha preso a calci. Ma il giudice non ha voluto procedere per l’accusa di percosse. Un altro omicidio colposo, come quello di Federico Aldrovandi, pericolosissimo ragazzino di diciotto anni, persino un po’ mingherlino, che tornava dalla discoteca a Ferrara una notte del settembre 2005 ed è stato picchiato a morte da quattro poliziotti. Lui urlava “basta, aiutatemi, sto morendo” e loro lo prendevano a manganellate e a calci. Cosa c’è di colposo nella condotta tenuta dai poliziotti? Lo stesso pubblico ministero affermò al processo: “Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono”. Un evidente omicidio preterintenzionale, punito con il carcere dai dieci ai diciotto anni, per come viene descritto in queste parole. Eppure è lo stesso pm a chiedere una condanna a tre anni e otto mesi, con il crimine derubricato a omicidio colposo (scusate, non l’ho fatto apposta…). E all’indomani della sentenza dicevamo tutti che finalmente Federico aveva avuto giustizia, che ora si sapeva chi erano i suoi assassini. Il papà di Federico affermava: “Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così”. Oggi accade lo stesso per il processo relativo alla morte di Riccardo Magherini. Il fratello è contento della “sentenzina”, sa che di più non può aspettarsi per rendere giustizia a Riccardo. Tutti noi lo sappiamo. Diamo per scontato che quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine la scelta sia tra impunità completa o “sentenzine” esemplari. Ci hanno abituato che in Italia è così. Eppure i crimini compiuti da funzionari dello Stato sono tra i più odiosi che si possano immaginare. Quei poliziotti e quei carabinieri erano lì a nome di tutti noi. Il loro non è un crimine privato.

Se al processo per omicidio la Corte si ritira (al ristorante). Indagato dalla procura di Bologna il presidente Reinotti che aveva portato i giudici a pranzare prima della sentenza. Verdetto (di condanna) a rischio. L’imputata: «Li ho visti pranzare allegramente». Reinotti: «Non commento ma non esistono norme specifiche», scrive Andrea Pasqualetto il 20 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera". Trieste non è New York e le Corti italiane non sono le giurie americane. Nel senso che non hanno gli stessi doveri di isolamento, segretezza e candore rispetto al giudizio. Ma neppure possono andare allegramente al ristorante quando si ritirano in Camera di consiglio per decidere se condannare un imputato di omicidio. E siccome nel capoluogo giuliano sembra sia andata un po’ così, ecco che il processo si rovescia e sotto accusa finiscono i giudici. Anzi, il primo giudice di quel processo, cioè il presidente della Corte d’assise d’appello di Trieste, Pier Valerio Reinotti, indagato per falso ideologico in atto pubblico proprio in relazione alla scelta di andare al ristorante con l’intera Corte. L’accusa è mossa dalla procura di Bologna, competente a indagare sui magistrati triestini, che ha chiuso di recente l’inchiesta depositando gli atti. Dai quali emerge l’intera vicenda, che sta peraltro mettendo a rischio un processo per omicidio. Succede tutto il 26 giugno del 2015, il giorno della sentenza d’appello Feltrin. Sul banco degli imputati c’è Fiorella Fior, la dipendente delle Poste che nella notte del 10 febbraio 2012, al culmine di un litigio, uccide con una coltellata il compagno Carlo Feltrin nella sua casa di Udine. I giudici di primo grado l’avevano condannata a quattro anni di reclusione per omicidio colposo, riconoscendole l’eccesso di legittima difesa. In secondo grado, il 26 giugno, è stata invece una stangata: nove anni e quattro mesi per omicidio volontario. La cronaca di quel giorno è stata ricostruita ora per ora. Alle 11.40 la Corte d’Assise d’appello dichiara chiuso il dibattimento e si ritira in camera di consiglio per deliberare. Il presidente rinvia tutti al pomeriggio per la lettura della sentenza: «Dopo le 14.30». É in quelle tre ore che accade l’anomalia. Perché ti aspetteresti un lungo, riservatissimo consulto fra giudici, magari intervallato da un pasto frugale portato con cautela in camera di consiglio. La Corte decide invece di prendersi del tempo per pranzare al ristorante. Sia chiaro, non il Cosme di New York: Peperino Pizza & Grill. Il fatto è che in quel locale è capitata anche l’imputata che ricorda così la scena: «In un grande tavolo in fondo alla sala esterna del locale c’erano tutti i miei giudici che serenamente e allegramente pranzavano, mentre il presidente, capotavola, sembrava animare la conversazione». Sfortuna ha poi voluto che in un altro tavolo ci fossero anche i suoi avvocati, testimoni pure loro del curioso banchetto. I quali hanno naturalmente colto la palla al balzo per urlare allo scandalo. «Abbandono collettivo della camera di consiglio!», ha scritto Federica Tosel, difensore di Fiorella Fior. Di più: «Dell’intero Palazzo di giustizia». «Compromesso il processo». «Sentenza illegittima». Chiudendo la denuncia con la battuta graffiante: «Ristorante di consiglio». Inevitabile l’esposto al Csm che si è però dichiarato incompetente. E inevitabile anche il ricorso per Cassazione contro la condanna. Nel frattempo a Bologna si muoveva il pm Luca Tamperi che ora ha chiuso l’indagine. Il presidente Reinotti preferisce non commentare: «Dico solo che non ci sono norme specifiche che regolamentano la materia». Gli inquirenti ritengono che anche se non siamo in America l’assenza va quantomeno verbalizzata e giustificata da buoni motivi. Resta dunque un dubbio: è o non è un buon motivo d’abbandono quel languorino che ha spinto i giudici al ristorante?

Ma credete veramente che la Legge sia uguale per tutti? Noi abbiamo qualche dubbio…Magistrato insulta carabiniere. ​Ma i pm salvano il collega. Il militare aveva chiesto i documenti al magistrato, che lo aveva apostrofato: “Ma vaffanculo”. L’accusato conferma, ma i pm chiedono l’archiviazione. Una notizia data dal quotidiano milanese il Giornale il 19 luglio 2016, che ha raccontato ieri l’ennesimo fenomeno di malcostume della magistratura che conferma di sentirsi sempre più una “casta intoccabile”. Un magistrato è entrato senza badge in una zona del Tribunale di Palermo, particolarmente vigilata, ed è stato fermato da un militare dell’Arma dei Carabinieri – facendo semplicemente il suo dovere – il quale gli ha chiesto i documenti per identificarlo, il pm si è innervosito e lo ha mandato caldamente, ma soprattutto vergognosamente, a quel paese con l’affermazione: “Ma vaffanculo. Questa, è l’offesa “testuale” rivolta dal pubblico ministero all’appuntato dei carabinieri. Un insulto che il militare ha ritenuto, giustamente secondo noi, di dover denunciare alla Procura della Repubblica. E che i pm non hanno mancato di archiviare, confermando di essere una “casta” intoccabile salvando il collega dal processo. L’insulto del magistrato al carabiniere. È questa la sintesi dettagliata della vicenda che ha investito la procura di Palermo e un appuntato del reparto scorte Carabinieri della città siciliana. Ma facciamo un passo indietro. È dicembre 2015 quando il magistrato in questione entra nell’area blindata della Direzione Distrettuale Antimafia senza usare il badge. L’appuntato, non conoscendo di vista il pm, non poteva chiudere un occhio. E giustamente ha chiesto quindi più volte i documenti alla toga, evidentemente infastidita da tanta insistenza. Il magistrato peraltro, dopo aver rifiutato l’identificazione, comportamento che per un normale cittadino costituisce un reato previsto dal Codice Penale, ha persino apostrofato il rigoroso e bravo carabiniere, dicendogli: “Vaffanculo”. Questo lo dedichiamo noi a certi magistrati che dimenticano di essere davanti alla Legge dei cittadini come gli altri. La vicenda, come scrive il sito di informazione su sicurezza, difesa e giustizia grnet.it, che ha rivelato l’incredibile farsa giudiziaria, sarebbe stata confermata da altri tre carabinieri presenti al momento dell’insulto ed anche dal pm stesso nella relazione di servizio. Ma non è bastato a far rispettare il teorema secondo cui “la legge è uguale per tutti”. La Procura di Caltanissetta cui è stato inviato il fascicolo, per competenza territoriale sulla procura di Palermo, infatti, ha deciso che non è possibile punire il pubblico ministero, chiedendo l’archiviazione del caso. Il motivo? Il militare avrebbe sbagliato a insistere nel chiedere i documenti “quando appariva ormai chiaro che si trattava di un magistrato e quando lo aveva certamente valutato come un soggetto inoffensivo dal punto di vista della sicurezza del magistrato da lui protetto”. Insomma: i pm ce l’hanno scritto in faccia che sono magistrati e possono così mandare a quel paese un carabiniere. Senza rischiare di essere puniti.

Essere i paladini della legalità. Il lavaggio del cervello delle toghe. L’Anm indottrina i giovani. E il dogma “impresentabili” spopola, scrive "Il Foglio" il 10 Maggio 2016. "Portatore sano di legalità", era scritto sulle magliette distribuite con il pasto al sacco sabato 7 maggio a 1.500 studenti dall’Associazione nazionale magistrati per la “Notte bianca della legalità”, tour serale al tribunale romano culminato in un intervento del direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio e nel “Viaggio del fascicolo”, simulazione dell’iter di un’indagine dal pm al gip, poi al gup, e infine al giudice. Chissà se è stato anche spiegato che il “viaggio” è tra le stesse carriere, spesso le stesse persone, inquadrate dallo stesso sindacato, l’Anm appunto, oggi protagonista di un’offensiva mediatico-manettara con il suo presidente Piercamillo Davigo, con esponenti della corrente di Magistratura democratica che intendono “fermare” il governo, con pezzi da novanta, come il procuratore di Torino, Armando Spataro, che rivendicano il diritto-dovere di fare campagne politiche. Nel 2011, al Palasharp anti Cavaliere di Milano, fu mandato sul palco un tredicenne; stavolta l’operazione coinvolge i liceali (ma il 23 a Palermo si ripete, elementari comprese), ed è in apparenza più istituzionale: ministri, avvocati, sponsorizzazioni di Coni e Rai, Ambra Angiolini e Laura Morante. E Travaglio guest star. L’uso pedagogico-militante degli adolescenti ricorda sempre un po’ il sabato fascista o la Corea del nord; non è come le visite (al peggio noiosissime) al Parlamento, qui è un sindacato che organizza, come se la Cgil istruisse i giovani sul Jobs Act o il governo illustrasse la legge di Stabilità nelle scuole. C’è aria di lavaggio del cervello: Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia, ideatrice dell’etichetta di “impresentabili” per candidati con accuse magari crollate in giudizio – il governatore campano Vincenzo De Luca, che era stato bollato come “impresentabile”, si è visto chiedere dal pm l’archiviazione per il reato di abuso d’ufficio, mentre quello di peculato è già stato archiviato – dice che “le forze politiche hanno fatto a gara a portare alla Commissione le liste elettorali”, e tanto basta. L’equilibrio dei poteri, la parità tra accusa e difesa, quello che in Inghilterra è da 300 anni l’habeas corpus, e che si studia sui banchi di scuola tra le libertà naturali di ognuno; insomma lo stato di diritto: tutto questo non va bene per il pm unico nazionale, e niente notti bianche.

La legge non è uguale per tutti Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo, Lunedì 19/08/2013, su "Il Giornale". La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge.

E poi...

L’ombra di Gomorra sui concorsi di Polizia penitenziaria e Ps. Gli accertamenti riguardano anche la ditta che si era aggiudicata l’appalto per le selezioni, con sede in Campania, e le idoneità fisiche ottenute dai candidati, scrive Damiano Aliprandi il 22 giugno 2016 su “Il Dubbio”. Ripetere al più presto le prove del concorso con video sorveglianza e assumere 800 agenti. È quello che chiede il sindacato autonomo della polizia penitenziaria (il Sappe) in merito alla questione riguardante la sospensione del concorso per gli agenti penitenziari tenuto nello scorso mese di aprile. “Abbiamo invitato il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria a rompere gli indugi e, a prescindere dalla pronuncia o meno dell’Avvocatura della Stato, annullare le procedure di svolgimento delle prove in regime di autotutela”, spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Allo stesso tempo – continua il segretario del sindacato - il Sappe ha proposto all’Amministrazione di avviare immediatamente le procedure per la ripetizione delle prove che devono essere espletate prima della fine dell’estate nella Sala concorsi della Scuola di Polizia penitenziaria di Roma, anche avvalendosi di un sistema di controllo mediante telecamere a circuito chiuso con registrazione video, allo scopo di escludere ogni candidato ripreso a commettere irregolarità”. Il Sappe denuncia che i reparti di polizia penitenziaria hanno bisogno di rinforzi al più presto e per questo chiede non solo la ripetizione del concorso, ma anche di avviare lo scorrimento delle graduatorie ancora valide degli idonei non vincitori dei concorsi precedenti al fine di avviare ai corsi di formazione almeno 800 ulteriori agenti. Ma che cosa è accaduto durante l’esame e perché è stato sospeso? Il concorso si era svolto alla Nuova Fiera di Roma il 20, 21 e 22 aprile. Vi avevano partecipato 11 mila uomini per 300 posti e duemila donne per cento posti. I dubbi su possibili irregolarità erano emersi già nei giorni precedenti visto che voci in merito giravano da qualche tempo: per questo l’amministrazione penitenziaria aveva disposto una task force composta da agenti del Nic (Nucleo investigativo centrale) e da due commissari. A quel punto è uscito fuori lo scandalo: 88 candidati sono stati denunciati perché durante le prove hanno utilizzato radiotrasmittenti, auricolari, bracciali con le risposte ai quiz, cellulari contraffatti, cover dei telefonini con le soluzioni. Ma c’è di più. Grazie alle dichiarazioni di alcuni concorrenti finiti sotto accusa, sono usciti fuori i nomi di terze persone coinvolte che puntano diritto alla camorra. Il sospetto degli inquirenti è che la criminalità organizzata abbia tentato di infiltrarsi nelle carceri italiane tramite la via ordinaria del concorso ministeriale. Secondo una ricostruzione de Il Messaggero pare che le indagini puntino anche ad accertare eventuali complicità all’interno del Dap. A suscitare allarme e forti dubbi sulla possibilità di infiltrazioni della criminalità organizzata sono state anche le cifre che sarebbero state pagate per ottenere le soluzioni ai test: in alcuni casi raggiungerebbero i 25mila euro. Soldi che difficilmente un normale concorrente, che abbia la licenza media, può permettersi di pagare per superare un concorso. Gli accertamenti riguardano pure la ditta che si era aggiudicata l’appalto per le selezioni, anche quella con sede in Campania e le idoneità fisiche ottenute dai candidati. Ma non finisce qui. Lo stesso sospetto riguarda un altro recente concorso riguardante la polizia di stato. Il 4 maggio si sono tenute le prove scritte del concorso Polizia di Stato 2016. Terminato il primo step, il 13 maggio, ufficiosamente, è stata pubblicata la graduatoria di merito. Intanto sui gruppi Facebook sono apparse le prime segnalazioni da parte dei candidati che hanno riscontrato irregolarità e procedure poco chiare. Tutto il materiale è sul tavolo del numero uno dell’anticorruzione Raffaele Cantone. A lui e al ministro dell’Interno Angelino Alfano ha scritto il sindacato Autonomo di Polizia su segnalazione dell’associazione “Militari in congedo”. In poche parole sono emerse delle anomalie appena sono uscite le graduatorie del concorso. Nonostante non fosse stata resa pubblica la banca dati su cui allenarsi per prepararsi alla prova scritta, ci si è trovati di fronte a un alto numero di ragazzi che hanno superato la stessa prova senza commettere alcun errore. Ben 194 candidati non hanno sbagliato nemmeno una delle ottanta risposte, 134 hanno commesso un solo errore e 93 ne hanno sbagliate appena due. La totalità degli idonei provengono tutti dalla Campania, regione in cui ha sede la ditta – la stessa che si è occupata anche del concorso per agenti penitenziari – che prepara la banca dati utilizzata per la somministrazione dei quiz. Gente preparatissima, al limite della genialità, oppure dei furbi? Ci penserà forse Raffaele Cantone con una indagine conoscitiva.

Ritirata la medaglia al partigiano stragista di Schio. Era stato premiato nonostante la condanna a 10 anni di carcere per l'eccidio del luglio 1945, scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 11/08/2016, su "Il Giornale". Valentino Bortoloso, il boia di Schio, dovrà restituire la «medaglia della Liberazione» consegnata in giugno dallo Stato italiano. Il partigiano di 93 anni, nome di battaglia Teppa, partecipò ad un odioso massacro nella notte fra il 6 e 7 luglio 1945. A guerra finita, 54 prigionieri nelle ex carceri di Schio, furono falciati a raffiche di mitra da un commando partigiano della brigata garibaldina «Martiri Valleogra». Per l'eccidio Bortoloso scontò 10 anni di carcere, ma l'Associazione nazionale partigiani lo ha inserito lo stesso in una lista di benemeriti della Resistenza segnalati per la medaglia. «Meglio tardi, che mai» è il commento dei parenti delle vittime, che avevano subito protestato dopo la consegna dell'onorificenza. Il sindaco di Schio ha chiesto la revoca al ministro della Difesa. La decisione di ritirare la medaglia è arrivata in questi giorni. La Difesa ha notificato alla prefettura di Schio la «revoca della medaglia» e l'«espunzione del nominativo di Bortoloso dall'albo» degli insigniti. «Giustizia è fatta! È stata ritirata la medaglia alla vergogna al partigiano colpevole della strage di Schio» ha esultato Elena Donazzan, assessore regionale del Veneto. «Si tratta di una delle pagine più imbarazzanti della storia della Repubblica italiana - aggiunge Donazzan - La superficialità del governo Renzi, che si è rimpallato le responsabilità a mezza voce, si è tradotta nella semplice registrazione di nomi da un elenco fornito dall'Anpi per conferire delle medaglie, senza alcuna verifica». Il diretto interessato non parla e l'Anpi di Vicenza protesta. Il presidente, Danilo Andriollo, ha dichiarato alla stampa locale che «Valentino è stato premiato per la sua attività partigiana certificata. L'eccidio? Lui è stato condannato e ha pagato per quel che ha fatto». Sul sito della sezione di Vicenza nessun comunicato, per ora, ma un secco «No a Via Almirante a Noventa» nel vicentino, dopo la decisione della giunta comunale di ricordare il leader del Movimento sociale italiano. Un fotomontaggio mostra il cartello di Via Almirante «razzista e fucilatore di partigiani». Al contrario l'Anpi sottolinea che Bortoloso, boia di Schio, «nel 1985 ha ricevuto un diploma dal Presidente della Repubblica Pertini e dal Ministro della Difesa Spadolini per aver combattuto per la libertà d'Italia». Durante la polemica i partigiani hanno fatto quadrato attorno a «Teppa»: «Tutte e tutti coloro che hanno ricevuto quella medaglia (della Liberazione nda) e quell'attestato meritano gratitudine, rispetto e riconoscenza per il contributo che hanno dato alla sconfitta del fascismo e del nazismo». Donazzan, alfiere della battaglia per la revoca dell'onorificenza, non ci sta: «Le parole vergognose dell'Anpi tese ad assolvere il buon partigiano, colpevole in fondo solo di avere fatto il proprio dovere compiendo la strage, è incredibile! Credo sia tempo di cancellare l'Anpi per manifesta faziosità e falsità».

Partigiano trucidò 54 innocenti e il governo gli dà una medaglia. La Difesa ha decretato "eroe" della Resistenza Valentino Bortoloso, che partecipò all'eccidio partigiano di Schio, scrive Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 17/06/2016, su "Il Giornale". Se da partigiano hai ucciso 54 persone, se sei entrato nelle carceri e hai scaricato l'intero caricatore di mitra su quelle persone inermi, lo Stato italiano ti premia. Ti dà una medaglia. Ti inserisce nel novero degli eroi. Anche se alle spalle hai una condanna a morte a certificare che quella azione "eroica" fu in realtà un eccidio. Non è uno scherzo. Uno dei protagonisti dell'eccidio di Schio del 6-7 luglio del 1945 (la guerra era già finita) è stato insignito della lodevole "medaglia della Liberazione". Il ministero della Difesa, infatti, in onore dei 70 anni della Repubblica italiana ha pensato fosse necessario istituire una nuova onorificenza per chi prese parte alla Resistenza partigiana. E così nel vicentino, il prefetto Eugenio Soldà non ha potuto che eseguire gli ordini ricevuti dal ministro Pinotti e consegnare la medaglia a 84 partigiani vicentini. Peccato che, non si sa se per errore oppure per dolo, tra i premiati ci sia finito anche Valentino Bortoloso. Teppa, questo il suo nome di battaglia, nel curriculum vanta la partecipazione all'eccidio di Schio. Era uno dei componenti del commando della brigata garibaldina "Martiri Valleogra" che penetrò nelle carceri della guerra civile e colpì a suon di mitra 54 persone. Delle quali, ricorda il Gazzettino, 15 erano donne e 7 dei bambini. Bortoloso venne riconosciuto responsabile e condannato a morte dagli alleati. Anche se poi la pena decadde successivamente in altri processi. La consegna della medaglia ha scatenato una nuvola di proteste a Schio, e anche il sindaco della città ha cercato di prendere le distanze da quanto deciso dalla Difesa. "Se l'ex partigiano fosse realmente pentito per quanto fatto nel luglio del '45, avrebbe dovuto, quanto meno, rifiutare il riconoscimento come vero e concreto gesto di riappacificazione - dice Alex Cioni, responsabile del comitato Prima Noi - Invece, accogliendo questa onorificenza, il partigiano Teppa ha premuto nuovamente il grilletto scaricando idealmente una nuova mitragliata di pallottole su uomini e donne inermi".

Fu condannato a morte per l’Eccidio, ora premiato il partigiano Teppa, scrive Venerdì 17 Giugno 2016 Vittorino Bernardi su “Il Gazzettino”. Un protagonista dell’Eccidio di Schio del 6-7 luglio 1945 ha ricevuto dallo Stato l’onorificenza “Medaglia della Liberazione”. Per il 70° della fine della seconda guerra mondiale il ministero della Difesa ha istituito una nuova onorificenza dedicata agli eroi della Resistenza: la “Medaglia della Liberazione”. A palazzo Leoni Montanari il prefetto Eugenio Soldà ha convocato per premiarli 84 vicentini. Tra loro a spiccare è stato Valentino Bortoloso, legato a uno dei fatti più drammatici della storia di Schio: l’eccidio partigiano della notte tra il 6 e 7 luglio 1945 (a guerra finita) nelle allora carceri mandamentali e ora biblioteca civica Renato Bortoli. Quella notte un commando partigiano penetrò arbitrariamente nelle carceri ammazzando con sventagliate di mitra 54 persone (14 donne e 7 minorenni) ree di essere fasciste o collegare al regime. Uno dei protagonisti del commando partigiano, ora unico vivente, è stato Valentino Bortoloso, 93 anni: Teppa il suo nome da partigiano, componente della brigata garibaldina “Martiri Valleogra”. È stata una figura discussa Valentino Bortoloso, condannato a morte dagli alleati per la partecipazione all’Eccidio, pena successivamente decaduta in successivi processi. Valentino Bortoloso ha ricevuto l’onorificenza dalle mani del prefetto Eugenio Soldà e di Anna Donà, assessore allo sviluppo del Comune di Schio in rappresentanza del sindaco Valter Orsi.

2 giugno 1946: monarchia o repubblica? Nord e Sud sempre divisi su tutto. Gli italiani al voto, scrive Giancarlo Restelli. Per decidere se l’Italia sarebbe stata una repubblica o ancora una monarchia gli italiani andarono alle urne il 2 giugno del ’46 con un referendum. Il risultato fu la vittoria della repubblica ma con uno scarto poco ampio di voti: 12.717.923 per la repubblica e 10.719.284 per la monarchia a cui dobbiamo aggiungere un milione e mezzo di schede bianche e nulle. La repubblica ottiene quindi poco più del 54 per cento dei voti. A esprimersi nel referendum è un’Italia spaccata tra Nord e Sud. Il Nord vota a maggioranza repubblicana mentre il Sud è compattamente monarchico. Vediamo qualche percentuale. In Piemonte, culla dei Savoia, la repubblica ottiene il 57 per cento, in Lombardia il 64 per cento, in Toscana il 71; percentuali simili l’Umbria e le Marche. La regione dove il consenso alla repubblica è più alto è il Trentino con l’85 per cento. Per la monarchia la percentuale più elevata è nella circoscrizione Napoli-Caserta con il 79.9 per cento. I partiti di sinistra (Partito comunista, Partito socialista, Partito d’Azione) si espressero decisamente per la repubblica mentre la Dc non diede indicazioni di voto perché nel partito c’era una forte spaccatura sulla questione istituzionale. La chiesa dà indicazioni di voto a favore della monarchia. Gli americani cautamente si esprimono per la repubblica. Churchill per la monarchia, ma Churchill non è più al potere in Gran Bretagna. Perché questa spaccatura tra Nord e Sud? A parte le storiche differenze tra le due parti d’Italia contarono molto le diverse esperienze delle due aree durante la guerra: il Nord conobbe la Resistenza (il “vento del Nord”) e una presa di coscienza politica che invece il Sud non ebbe perché l’avanzata anglo-americana fu relativamente rapida almeno fino a Montecassino e quindi non ebbe tempo di formarsi la resistenza ai nazifascisti. Ma dietro il voto monarchico si celava il timore che le forze di sinistra mutassero l’Italia sulla base dei propri obiettivi. Spaventava molto il legame fortissimo tra il Pci e l’Unione Sovietica e nello stesso tempo il forte radicamento del partito di Togliatti tra gli operai del Nord e i contadini del Centro-Sud. La monarchia era vista quindi come baluardo conservatore di fronte alle incognite del dopoguerra. Dopo aver appoggiato il fascismo per i propri interessi, ora masse di borghesia piccola e media votavano a favore della conservazione politica identificandosi con i Savoia. Vittorio Emanuele III tentò un colpo a sorpresa per “lavare” l’immagine fosca della monarchia in Italia: abdicò a favore del figlio Umberto (molto meno compromesso con il fascismo rispetto al padre), che così divenne Umberto II. Il passaggio di potere avvenne alla vigilia del referendum nel maggio ’46, così Umberto II divenne il “re di maggio”. Nonostante l’estremo e tardivo tentativo di salvare il trono, la monarchia è sconfitta perché ha dato il potere al fascismo al tempo della Marcia su Roma, non ha agito contro Mussolini quando Matteotti fu assassinato, ha accolto con soddisfazione la nascita dell’“Impero”, ha firmato senza battere ciglio le Leggi Razziali, ha voluto la guerra al pari di Mussolini e si è dissociata da Mussolini e dal fascismo solo quando la guerra era compromessa (25 luglio ’43) per conservare il trono. Con l’8 settembre del ‘43 il re, fuggendo vergognosamente da Roma, condannava il Paese al caos dell’armistizio. È una delle tante leggende che continuano a circolare nel nostro Paese: la presenza di brogli che avrebbero favorito la vittoria della repubblica. Oggi non c’è storico serio che dia credito a questa tesi. Furono i monarchici a sostenere l’idea di una vittoria ottenuta manipolando i voti perché in quei giorni ci fu, dopo il voto, una imbarazzante confusione agli alti livelli dello Stato. Basta pensare che i risultati definitivi furono proclamati dalla Cassazione solo il 18 giugno (!), sedici giorni dopo il voto. Altro fatto sconcertante, dopo la conta le schede furono subito bruciate in tutta Italia, quindi fu impossibile il riconteggio. Mentre la Cassazione tardava a fornire i risultati definitivi corsero voci di golpe da parte delle forze monarchiche che cercarono di coinvolgere Umberto II nel rovesciamento del governo retto in quel momento da De Gasperi. Non ci fu nessun tentativo significativo di colpo di Stato probabilmente perché Umberto II si rese conto che l’eventuale azione militare non avrebbe riscosso molto successo nell’esercito e nel mondo economico; anche gli americani non volevano che l’Italia precipitasse di nuovo nella guerra civile. Fu così che il “re di maggio” lasciò l’Italia il 13 giugno per il Portogallo non attendendo neppure il risultato definitivo del referendum. L’entusiamo per la nascita della Repubblica durò pochi giorni perché sempre nel giugno ’46 Togliatti (leader e figura storica del Pci), in quel momento ministro di Grazia e Giustizia, emanò la famosa amnistia grazie alla quale migliaia di fascisti furono scarcerati e tornarono a occupare posti di potere. La reazione di molti partigiani fu prima di incredulità e poi di aperta protesta ma le cose non cambiarono. Fu così che Togliatti diventò “ministro della Grazia ma non della Giustizia”. Altra delusione di quei giorni fu l’elezione a Capo provvisorio dello Stato dell’avvocato Enrico De Nicola, notorio monarchico così come per la monarchia si era espresso il suo partito, il Partito liberale italiano. De Nicola, esponente di quella classe dirigente liberale che con troppa facilità aveva ceduto al fascismo al tempo della Marcia su Roma, è colui che aveva spedito a Benito Mussolini un telegramma di auguri per il Congresso di Napoli dei Fasci che preparò gli avvenimenti del 28 ottobre 1922. Ma De Nicola fu anche colui che elogiò il re Vittorio Emanuele III quando conferì a Mussolini l’incarico di formare il primo governo di fascisti e liberali nei giorni convulsi della Marcia. Insomma un monarchico a capo della repubblica! Contemporaneamente il 2 giugno del ’46 si votò a favore della Costituente, ossia di quella assemblea che avrebbe avuto il compito di redigere la nuova Carta costituzionale (1 gennaio ’48). I risultati sono a favore della Dc che ottiene il 35 per cento mentre il Pci è fermo al 19 e il Psi al 20. Scompare il Pd’A di Parri, Valiani, Bauer, Calamandrei, ossia un partito che nella Resistenza espresse quadri politici e militari di notevole livello e fu a capo di numerose organizzazioni partigiane. Ormai il sistema politico ruota attorno ai tre partiti di massa mentre monarchici, repubblicani, liberali sono ridotti a percentuali irrisorie. L’anno dopo, il 1947, le sinistre sarebbero state escluse dal governo (maggio ’47, quarto governo De Gasperi) e la prima repubblica italiana si preparava a una lunga egemonia democristiana.

“La costituzione più brutta del mondo” di Federico Cartelli. Libro pubblicato nella collana “Fuori dal Coro" de “Il Giornale” il 19 maggio 2016. La Costituzione «nata dalla Resistenza», concepita settant’anni fa ed entro un contesto culturale dominato da ideologie illiberali, continua ad apparire qualcosa di sacro e intoccabile. Mettere in discussione la più bella del mondo è un’eresia. Ma una Costituzione non dev’essere bella: dev’essere efficiente. La nostra invece è la radice di ogni male italiano, dal debito pubblico al fisco, dai giochi di palazzo agli eccessi sindacali. La Carta è la pietra angolare del conservatorismo che protegge quello status quo politico ed economico che tutti, a parole, vorrebbero cambiare. 

“Costituzione, Stato e crisi”, intervista a Federico Cartelli di Riccardo Ghezzi del 31 agosto 2015 su "Quelsi”. La Costituzione italiana è davvero la più bella del mondo? Non secondo Federico Cartelli, direttore del sito The Fielder, che nel suo libro “Costituzione, Stato e crisi – Eresie di libertà per un paese di sudditi”, disponibile su Amazon, mette sotto processo uno dei miti della nostra società: la Costituzione “nata dalla Resistenza”. Un libro con la prefazione del filosofo liberale Carlo Lottieri. In questa intervista con l’autore ne approfondiamo le tematiche.

Federico, innanzitutto, come è nata l’idea di questo libro?

«Stavo preparando un articolo sui difetti della nostra Costituzione e stavo ricercando del materiale. Dopo un po’ mi sono accorto che trovare libri o paper critici nei confronti della Carta era pressoché impossibile. Praticamente tutte le fonti che stavo consultando non osavano metterne in dubbio la sacralità, né muovevano dei rilievi su quelle parti che sono palesemente superate dalla Storia. A quel punto, con un po’ di sana incoscienza e senza prendermi troppo sul serio, ho deciso che mi sarei impegnato personalmente per colmare questa lacuna. Avevo sempre pensato di scrivere un libro, e questa è stata l’occasione giusta».

Non ti sembra azzardato che una persona “qualunque” possa scrivere un libro di critica nei confronti di quella che è pur sempre la nostra Costituzione?

«Senz’altro. È molto azzardato. Però credo che in questo libro, più che altro un manifesto, si possano cogliere sia lo spirito polemico delle mie osservazioni, sia l’intenzione di discostarmi da certi modelli populisti in salsa grillina che non sanno andare oltre il pensiero breve. In verità, “Costituzione, Stato e crisi” è proprio un manifesto contro il pensiero breve, più precisamente quel pensiero breve sessantottino e progressista che da decenni blocca l’Italia e le impedisce di diventare un Paese moderno. È un manifesto contro la retorica collettivista, contro il benecomunismo che si respira in ogni articolo della nostra Carta e che ogni giorno ci viene propinato da certi giornali e da certi politici. Bisogna dirlo forte è chiaro: no, non è la Costituzione più bella del mondo. Anzi, è una delle peggio riuscite».

Credi che i lettori abbiano apprezzato questo messaggio?

«Per adesso, direi proprio di sì. Sono rimasto sorpreso dai molti messaggi ricevuti e dalle valutazioni lasciate su Amazon. Alcuni mi hanno scritto in privato per complimentarsi e hanno apprezzato il fatto di poter leggere, finalmente, una critica alla “più bella del mondo”. Posso già ritenermi soddisfatto, e spero che le mie “eresie” si diffondano in più possibile».

Ma secondo te, perché c’è sempre questa ossessiva retorica adulatoria nei confronti della Costituzione?

«Perché la Costituzione è di fatto il lucchetto che mantiene tutto com’è. È la suprema garanzia dello status quo. In nessun altro Paese europeo c’è questa ossessione nei confronti della Costituzione sacra e intoccabile. Perché sì, è vero che è stata cambiata nel corso degli anni: ma non sono mai state toccate né la parte riguardanti i rapporti economici, né i principi fondamentali (che in ogni caso non posso essere soggetti a modifiche). Non è mai stato toccato quel nucleo che rappresenta, di fatto, l’Italia dell’immediato dopoguerra che vedeva nello Stato un padre-padrone. La parte riguardante i rapporti economici è, di fatto, un imbarazzante manifesto socialista. Servirebbe un’assemblea costituente, perché questa Carta è davvero tutta da rifare».

C’è un capitolo del libro al quale sei più legato?

«Il quinto, senza dubbio, “Il lavoro non è un diritto”. Ed è anche il capitolo che più ha suscitato la curiosità nei lettori. Molti, lasciandosi ingannare dal titolo – evidentemente provocatorio – si sono detti: questo è matto, perché mai il lavoro non dovrebbe essere un diritto? In realtà poi, una volta letto il capitolo, si sono ricreduti».

Nel capitolo 8 fai una lunga critica al cosiddetto “federalismo all’italiana”. Ha ancora senso parlare di federalismo in Italia?

«Sì, e aggiungo che in Italia si deve parlare di federalismo. Ma di vero federalismo, non di quel pasticcio compiuto dal centrosinistra nel 2001 e poi degenerato definitivamente con Monti. Il federalismo all’italiana non è vero federalismo, è solo un altro salasso fiscale ai danni dei contribuenti, che si sono visti aumentare le tasse e moltiplicare i centri di spesa, mentre certe regioni e certi comuni in completo dissesto finanziario continuano a battere cassa a Roma. È per questo che ho dedicato un capitolo al federalismo: perché ho voluto mettere un po’ d’ordine e far capire ai lettori che una rivoluzione federalista è l’unica vera possibilità di cambiare il Paese. Credo che anche in futuro tornerò su questo argomento».

Come vedi l’attuale situazione politica ed economica dell’Italia?

«Faccio parte di quelli che il nostro magnifico presidente del Consiglio definisce “gufi”. Purtroppo sono affetto da una malattia molto grave: il realismo. E non riesco davvero ad emozionarmi per i tweet del nostro Matteo, che pensa di coprire i fallimenti di questo governo con un modus operandi da bulletto di periferia. I numeri dicono il tanto decantato Jobs Act è in realtà un Flop Act, e nonostante tutti i fattori esterni favorevoli – politiche accomodanti dalla Banca Centrale Europea, costo delle materie prime ai minimi storici solo per citarne alcuni – non c’è stata alcuna reale ripresa, ma solo qualche “zero virgola” che in termine concreti non vuol dire nulla. Dall’altra parte, non c’è alcune reale opposizione. Il cosiddetto “centrodestra” è solo un cumulo di macerie, senza alcun piano maggioritario per governare il Paese a lungo termine. Insomma, di questo passo tra qualche anno l’Italia diventerà l’Argentina dell’Europa».

A proposito di Europa, cosa pensi dell’attuale Unione Europea?

«Dieci anni fa, ai tempi dell’università, ero un convinto sostenitore dell’Unione Europea e della moneta unica. Ma davanti ai fatti – sempre a causa di quella malattia, il realismo – mi sono dovuto ricredere. Quest’Unione non funziona più, è una caricatura di se stessa, persa tra vertici infiniti dagli esiti mai chiari, divisa in politica estera, sempre più lontana dai cittadini. Basta vedere come, in questi giorni, viene gestito il problema dell’immigrazione: ognuno per sé, con l’Italia che rischia – come spesso accade – di pagare il prezzo più alto. Poi è inutile piangersi addosso perché aumenta il consenso ai cosiddetti partiti populisti. Per ciò che concerne l’euro, è evidente che sono necessari aggiustamenti, perché le calende greche dell’estate appena conclusa sono destinate a ripetersi».

La Costituzione italiana: la più brutta del mondo, si legge su “Risveglio nazionale” il 09/05/2015. La costituzione che garantisce l’impunità e la protezione all’eletto che tradisce i suoi elettori!… Ovvero: la costituzione più antipopolare, più immorale, più demagogica, massonica, ebraica, rothschildiana e tracotantemente truffaldina del mondo!…La nostra “sacra costituzione” voluta da Rothschild è davvero la più brutta del mondo. Una costituzione a sovranità limitatissima, che il popolo non può cambiare. I nostri “padri costituzionalisti”, seguendo alla lettera le direttive di Rothschild, ci hanno fatto credere di averci dato in eredità qualcosa di sacro, che se viene cambiato ci farà solo del male. Oggi la Costituzione, oltre ai più che ambigui “principi fondamentali”, presuppone un sistema decisionale lento, se non completamente bloccato e un gioco di pesi e contrappesi a tutti i livelli che non dà una chiara definizione di chi debba decidere cosa e praticamente permette tutto ed il contrario di tutto al soggetto socialmente più forte: Rothschild. E’ ora di riflettere, guardarci in faccia e di ammettere una volta per tutte che l’assetto istituzionale italiano, sancito dalla Costituzione del 1948 e dalle successive modifiche, comprese quelle sull’assetto regionalista del 1999, è il più grande nemico del Paese, poiché i tempi sono evidentemente cambiati. Infatti, non dobbiamo più leccarci le ferite morali e materiali aperte dai bombardamenti e incancrenite per la fame e la miseria e avvelenate dalla umiliazione della sconfitta e dalla paura di fronte ai vincitori e per la brutale invasione e la feroce occupazione “alleata”, quindi l’assemblearismo estremo non è mai stato e meno che mai è adesso un valore aggiunto. L’Italia non ha affatto bisogno di superpartiti “assopigliatutto”, con annessi supersindacati, supertraditori e superassociazioni varie che intrallazzano in tutti i modi, che sono sempre in disaccordo fra loro per spartirsi qualche osso. Persone docili e ubbidienti col loro signore e padrone Rothschild per fare le “riforme” contro il popolo più povero per fargli buttare sangue a pagare l’usuraio, enorme, crescente ed eterno “debito pubblico”. E’ necessario avere governi che governino realmente a favore del popolo e non per finta, e di un legislatore controllato veramente dal popolo, e che sia costretto dal popolo a fare leggi giuste per il bene del popolo e non per il bene dei “mercati” di Rothschild. Siamo arrivati al punto da capire sulla nostra pelle e di dire, e di urlare, che la “nostra” costituzione non è affatto “nostra” e non è affatto la “costituzione più bella del mondo”, perché non si salva neanche… uno… dei malignamente ambigui e contraddittori articoli fondamentali, e che quella che gli scagnozzi di Rothschild ci hanno appioppato è “la Costituzione più brutta del mondo”.

Questo volere difendere ad ogni costo questa loro demagogica e truffaldina costituzione serve proprio, e solo, alle alte sfere del potere antipopolare per potere preparare un ritorno forzato all’autoritarismo più biecamente capitalista e schiavista assoluto. E’ bene ricordare che la restaurazione “democratica” rothschildiana, seguita alla sconfitta della prima guerra mondiale, regalò al povero popolo tedesco la corrotta, tirannica, terribile e mostruosa “Repubblica di Weimar” con il popolo minuto che faceva la fame molto, molto, molto peggio che in seguito gli ebrei ad Auschwitz e con gli avidi, viziosi e debosciati capitalistoni ebraici, vassalli al seguito del satanico Rothschild che debordavano a vista d’occhio in tutto e per tutto, dappertutto nella società come porci da ingrasso scatenati e lasciati liberi in un campo di grano!… Voglio solo ricordare: Art. 1: L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Tralasciando il “non sense” del primo comma, fondata sul lavoro, che non vuol dire assolutamente nulla, faccio solo notare che nel secondo con la mano destra dà ciò che con la mano sinistra toglie (nello spazio di una virgola). Art. 8: Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. Quindi, la religione cattolica può avere teoricamente norme in contrasto con l’ordinamento italiano. Ergo, non tutte le confessioni sono egualmente libere (vedi a questo proposito anche l’art. 7). Ultimamente abbiamo assistito a polemiche sulle croci e sui presepi e ad attacchi contro la religione cattolica e contro la religione islamica, che vengono spesso vilipese volgarmente, oscenamente e pesantemente in pubblico anche dai mass media. Malgrado questo, si vede chiaramente che la magistratura massonica ebraica rothschildiana, di questo regime coloniale vigente in Italia, in Europa e in tutto l’Occidente, è estremamente tollerante. Una magistratura che non dice nulla, chiude tutti e due gli occhi, non interviene o, se lo fa, interviene addirittura a favore di chi le vilipende, creando le premesse tra le masse popolari di forti contraddizioni ideologiche e religiose, di profondo scontento e di gravi ed anche gravissimi e tragici incidenti. Invece, ecco che dall’altra parte c’è tutto un fiorire di iniziative mediatiche e legislative per conferire uno status privilegiato alla religione ebraica, alla etnia ebraica, al sionismo, allo stato di Israele, a tutta la questione dell’olocausto, della “shoah”, etc. Guai se ci si permette anche solo di dire, di sussurrare o di pensare qualcosa anche solo di costruttivamente critico nei confronti di questi argomenti, perché scatta subito l’accusa di “antisemitismo”, e sono cavoli amari, condanne pesantissime, discriminazioni addirittura odiosamente razziste e comunque seccature di ogni genere!… Ma da tutto questo movimento di legiferazione e di attività giudiziarie scandalosamente improntate al criterio dei due pesi e delle due misure, anche i più ignoranti, i più ottusi ed i più ipocriti, capiscono e son costretti ad ammettere che a quanto pare, anche se costituzionalmente si afferma formalmente che “tutte le confessioni sono egualmente libere”, invece, gli ordini di scuderia del vigente regime massonico, ebraico, rothschildiano sono prioritariamente orientati a tenere un atteggiamento di estremo riguardo per i soggetti e gli argomenti talmudici sopra accennati. Sembra quindi che questo articolo della costituzione non valga un fico. Art. 13 comma V: la legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva. Il mio diritto alla libertà personale, il mio diritto a non essere privato di essa prima di un regolare processo e di una condanna definitiva è nelle mani di deputati e senatori (la parte migliore del paese, vero?), anziché essere fissati almeno nelle linee guida. Art. 68. I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Questo articolo, tanto breve quanto apparentemente “innocente”, è in realtà il nocciolo della truffa rothschildiana sedicente “democratica” e quindi della profonda ed anzi essenziale rothschildianità di questa costituzione truffaldina ed antipopolare. Infatti è ovvio anche per uno sprovveduto che il parlamentare, pur eletto a seguito di suoi solenni giuramenti e grandi promesse ai suoi elettori che farà gli interessi, i loro interessi,… invece, il neo eletto, strafregandosene altamente di giuramenti e promesse ha già voltato gabbana e peggio di Giuda Iscariota si è già venduto al miglior offerente anche per meno di trenta denari d’argento. Ovvero, trattandosi di soldi, chi più di Rothschild, l’uomo più ricco e potente del mondo, potrà comprare chi vuole a qualsiasi prezzo e dominare qualsiasi parlamento corrompendolo come gli pare? In effetti succede sistematicamente ormai dal 1861, cioè da quando, più di un secolo e mezzo fa, Rothschild impose a mano armata, e poi reimpose sempre “manu militari” nel 1943 la sua truffaldina e farsesca “democrazia” massonica, ebraica, antipopolare, proprio congegnata per fregare il popolo, appunto in nome della “libertà di coscienza” di poter tradire impunemente il popolo, ovvero i più poveri; e per poterlo fare a cuor leggero, sancì, beffa delle beffe, che il tradimento potesse essere fatto proprio protetti dalla “sacra ed inviolabile” costituzione e dalle “democraticissime” leggi conseguenti, invocate ed applicate zelantemente da giudici, forze dell’ordine , massmedia, etc. In Italia, ormai, tutti massonicamente condizionati e opportunamente assoggettati con le buone o con le cattive agli ordini del più ricco, ovvero del solito Rothschild, ovvero del più pericoloso associato a delinquere: il capo supremo di tutte le massonerie del mondo!… e cioè sempre e comunque Rothschild. Tutto questo è tanto vero che è famosissima la frase appunto: “datemi il controllo della moneta di una nazione e non mi importa di chi farà le sue leggi”- Mayer Amschel Rothschild 1815. Art.75 comma II: Non è ammesso il “referendum” per le leggi tributarie e di bilancio (quelle appunto che riguardano i… soldi… e sono proprio quelle che interessano più di tutte a Rothschild), di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Decisamente il mio articolo preferito. La Costituzione spiega come, per quanto riguarda le cose davvero importanti (proprietà e soldi, libertà personale, ecc.), il cittadino italiano sia troppo stupido per esprimere serenamente la propria opinione. Meglio negargli la possibilità solo a chiacchiere e per modo di dire (ma non era una repubblica democratica secondo l’art. 1?). La Costituzione della Repubblica Italiana è la legge fondamentale della Repubblica italiana, ovvero il vertice nella gerarchia delle fonti di diritto dello Stato italiano. Approvata dall’Assemblea Costituente il 22 dicembre 1947 e promulgata dal capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola il 27 dicembre 1947, fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 298, edizione straordinaria, del 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1º gennaio1948.

I Rothschild sono una famiglia europea di origini tedesco-giudaiche. Cinque linee del ramo austriaco della famiglia sono stati elevati alla nobiltà austriaca, avendo ricevuto baronie ereditarie dell'Impero asburgico dall'Imperatore Francesco II nel 1816. Un'altra linea, del ramo inglese della famiglia, fu elevata alla nobiltà britannica su richiesta della regina Vittoria. Nel corso dell'Ottocento, quando era al suo apice, la famiglia si ritiene abbia posseduto di gran lunga il più grande patrimonio privato del mondo. Oggi, i business dei Rothschild sono su scala più ridotta anche se comprendono una vasta gamma di settori, tra cui: gestione dei patrimoni privati, consulenza finanziaria, policoltura.

La Costituzione italiana: ambigua, immorale, demagogica, antipopolare. La costituzione che garantisce l'impunità e la protezione agli eletti che tradiscono i propri elettori!... Ovvero: la costituzione più immorale, più demagogica, più antipopolare, massonica, ebraica, rothschildiana e tracotantemente truffaldina del mondo!...La “sacra” costituzione dell’attuale classe dominante, al di là della messa in scena retorica di facciata, è a limitatissima sovranità popolare, anche se i suoi “padri costituzionalisti” hanno cercato di farci credere, con la complicità del monopolio mediatico del loro regime, di aver scritto la costituzione più bella del mondo. Anche i principi fondamentali in essa contenuti sono talmente ambigui, contraddittori ed indeterminati che la classe dominante può permettersi tutto ed il contrario di tutto a tutti i livelli, con le buone o con le cattive, in modo tale da detenere sempre e comunque la stragrande parte del potere possibile nelle sue mani. Infatti, perfino quando le sue leggi elettorali truffa, i suoi brogli ed imbrogli senza fine, non permettessero ai suoi politicanti di avere la maggioranza in parlamento e senato, le permetterebbero comunque senza particolari difficoltà di ricorrere, di nuovo come in passato, alle maniere forti di un regime apertamente militare con tanto di coprifuoco e di leggi marziali per salvare il suo Stato, ovvero per salvaguardare il primato del suo potere egemone sul popolo e contro il popolo. La nostra costituzione è stata scritta nel 1947, ed è andata in vigore nel 1948. Già l'art. 1 della Costituzione è una vera e propria presa in giro.

Art. 1: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Tralasciando il primo comma, che è una formula ambigua che si fonda su una idea astratta e indeterminata di lavoro, invece che sulle precise e concrete persone fisiche dei lavoratori o dei cittadini. Nel secondo comma, a proposito della sovranità popolare, si dà con una frase quello che, subito dopo una virgola, si toglie con una frase sostanzialmente opposta.

Art. 8: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.” Anche su questo articolo potremmo discutere a lungo. Oltre alle polemiche, alle prevaricazioni e alle ingiustizie che specie in questi ultimi tempi si fanno contro i cristiani e contro gli islamici, avallate dai mass media e dalla magistratura del regime, si assiste anche a tutto un fiorire di leggi e controleggi, che privilegiano, contro la stessa costituzione e contro lo stesso diritto di libertà di pensiero e di parola, la religione ebraica, l'etnia ebraica, la shoah, l'olocausto, ecc... 

Art. 59: “È senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi è stato Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario. In parlamento, in senato ed a capo dello Stato, in rappresentanza del popolo sovrano, dovrebbero stare solo i rappresentanti eletti direttamente dal popolo, e nessun altro.

Art. 67. “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.”

Art. 68. ”I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni”. Questi due articoli 67 e 68, tanto brevi quanto apparentemente "innocenti", sono in realtà il nocciolo centrale della truffa e della sedicente "democrazia" rothschildiana. Questi articoli garantiscono l'impunità e la protezione agli eletti che tradiscono i propri elettori, svuotando la vera rappresentatività popolare e democratica di qualsiasi eletto ed annullando il reale e sovrano potere del popolo in qualsiasi e sedicente democrazia.

Art.75 comma II: “Non è ammesso il “referendum” per le leggi tributarie e di bilancio.” Ecco un altro articolo truffaldino nei confronti del popolo, a cui viene sottratta la possibilità di esercitare un controllo diretto su questioni economiche, che lo riguardano direttamente e che spesso sono vitali. La Costituzione infatti afferma con detto art. 75 come, per quanto riguarda le questioni economiche concrete e davvero importanti (appunto proprietà e soldi, libertà personale, ecc.), il cittadino italiano debba essere di proposito e maliziosamente trattato come se fosse troppo stupido per essere in grado di esprimere saggiamente una giusta opinione. Meglio quindi dargli, solo a chiacchiere e per modo di dire, la possibilità di esprimersi, ma poi, perfidamente, negargliela nei fatti!...(ma non era una repubblica "Democratica"?... che, all’art. 1, spiega che il Popolo è Sovrano?).

Non lasciamoci ingannare dalle parole dolci, suadenti, sentimentali dei lupi travestiti da pecore...e se l'Italia ha la Costituzione più bella del mondo come mai ha generato la classe politica e dirigente più ladra, più corrotta, più criminale, più infame, più delinquente, più mafiosa? La risposta si trova in un passo evangelico: «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere». Mt 7, 15-20. Sarebbe il caso di ammettere una volta per sempre che l'assetto costituzionale, sancito dalla Costituzione del 1948 e dalle successive modifiche, in particolare quelle sull’assetto regionalista del 1999, è il più grande nemico del Paese. (s. brosal - d. mallamaci).

LA COSTITUZIONE ITALIANA VOLUTA DAI MASSONI.

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa.

La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali.

Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum.

Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale.

Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione.

Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro.

Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto. Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità. Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere. Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto. Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose.

Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha. Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo: L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo”.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori.

A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”, brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille;

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

E’ il dio denaro e le ricchezze che da sempre fanno muovere il mondo e le montagne religiose ed ideologico.

Le masse si smuovono dalla loro apatia solo se indotti dai loro bisogni primari, non conoscendo altri virtù.

Già i romani indicavano in “Panem et Circenses” le aspirazioni della plebe. Gli illuminati, pochi ricchi e potenti, sin dall’antichità usano i bisogni della plebe per disegnare il loro Ordine Mondiale. Gli strumenti per attuare le loro mire di destabilizzazione: religioni ed ideologie, prime tra tutte il comunismo.

Marxismo e immigrazione proletaria (da «il comunista»; N° 113; Luglio 2009). Il fenomeno dell'immigrazione dei proletari non ha nulla di nuovo e i marxisti hanno spessissimo trattato questo tema, a cominciare da Engels nel 1845 nel suo libro su «La situazione della classe operaia in Inghilterra». Marx ne parla nel Capitale, fra gli altri nel passaggio seguente: «Il progresso industriale che segue la marcia dell'accumulazione, non soltanto riduce sempre più il numero degli operai necessari per mettere in moto una massa crescente di mezzi di produzione, aumenta nello stesso tempo la quantità di lavoro che l'operaio individuale deve fornire. nella misura in cui esso sviluppa le potenzialità produttive del lavoro e fa dunque ottenere più prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista sviluppa anche i mezzi per ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando la giornata lavorativa, sia aumentando l'intensità del suo lavoro, o ancora aumentando in apparenza il numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una forza superiore e più cara con più forze inferiori e meno care, l'uomo con la donna, l'adulto con l'adolescente e il bambino, uno yankee con tre cinesi. Ecco diversi metodi per diminuire la domanda di lavoro e rendere l'offerta sovrabbondante, in un parola per fabbricare una sovrapopolazione. «L'eccesso di lavoro imposto alla frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest'ultima esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale» (Il Capitale, Libro, I, 7,25). Riassumendo, la borghesia utilizza l'importazione di lavoratori stranieri allo scopo di ingrossare l'esercito industriale di riserva e aumentare la concorrenza, questa «guerra di tutti contro tutti», fra proletari. Marx dettaglia questo fenomeno della concorrenza fra operai «nazionali» e immigrati con i casi degli operai irlandesi in Inghilterra e le sue osservazioni sono estremamente ricche di insegnamento: «A causa della concentrazione crescente della proprietà della terra, l'Irlanda invia la sua sovrabbondanza di popolazione verso il mercato del lavoro inglese, e fa abbassare così i salari degradando la condizione morale e materiale della classe operaia inglese. «E il più importante di tutto: Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra possiede ora una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. L'operaio inglese medio odia l'operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese egli si sente un membro della nazione dominante, e così si costituisce in uno strumento degli aristocratici e dei capitalisti del suo paese contro l'Irlanda, rafforzando in questo modo il loro dominio su lui stesso. Si nutre di pregiudizi religiosi, sociale e nazionali contro il lavoratore irlandese. La sua attitudine verso di luiè molto simile a quella dei poveri bianchi" verso i "negri" degli antichi Stati schiavisti degli Stati Uniti d'America. L'Irlandese gli rende la pariglia, e con gli interessi. Egli vede nell'operaio inglese nello stesso tempo il complice e lo strumento stupido del dominio inglese sull'Irlanda. «Questo antagonismo è artificialmente mantenuto e intensificato dalla stampa, dagli oratori, dalle caricature, in breve da tutti i mezzi di cui dispongono le classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. E' il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere. E questa classe ne è perfettamente cosciente» (Lettera di K. Marx a S. Meyer e A. Vogt, 9/4/1870). Anche oggi la classe capitalista è perfettamente cosciente che la divisione fra proletari immigrati e italiani è un fattore chiave della paralisi della classe operaia, e naturalmente fa di tutto per mantenere e rafforzare questa divisione, questa ostilità, questo razzismo, questo sentimento di superiorità nazionale. Anche nel caso in cui, come succede ora in Italia col governo Berlusconi, in cui ha una certo peso la Lega Nord, il governo borghese si prenda il gusto di tormentare la popolazione proletaria immigrata con leggi vessatorie sulle loro condizioni di esistenza. Mai era successo che la situazione fisica di esistenza, come sbarcare in territorio italiano alla ricerca di una sopravvivenza meno precaria, fosse trasformata in reato penale (mentre sono stati depennati dal penale i falsi in bilancio, bancarotta ecc.!). Un altro punto, il ruolo potenzialmente molto importante per la lotta proletaria e per il suo internazionalismo che gioca l'immigrazione, è sottolineato da Lenin: «Il capitalismo ha creato un tipo particolare di migrazione di popoli. I paesi che si sviluppano industrialmente in fretta, introducendo più macchine e soppiantando i paesi arretrati nel mercato mondiale, elevano il salario al di sopra della media e attirano gli operai salariati di quei paesi. «Centinaia di migliaia di operai si spostano in questo modo per centinaia e migliaia di verste. Il capitalismo avanzato li assorbe violentemente nel suo vortice, li strappa dalle località sperdute, li fa partecipare al movimento storico mondiale, li mette faccia a faccia con la possente, unita classe internazionale degli industriali. «Non c'è dubbio che solo l'estrema povertà costringe gli uomini ad abbandonare la patria e che i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati. Ma solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna dei popoli. La liberazione dall'oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso. E proprio a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l'arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere dell'America, della Germania, ecc.» E vi aggiunge: «La borghesia aizza gli operai di una nazione contro gli operai di un'altra, cercando di dividerli. Gli operai coscienti, comprendendo l'inevitabilità e il carattere progressivo della distruzione di tutte le barriere nazionali operata dal capitalismo, cercano di aiutare a illuminare e a organizzare i loro compagni dei paesi arretrati» (Lenin, Il capitalismo e l'immigrazione operaia, 1913). Ecco quale deve essere l'attitudine costante dei proletari e delle loro organizzazioni di classe, ecco qual è la nostra prospettiva!

Il rapporto Chilcot, bufera sull’invasione dell’Iraq. Una paese in guerra e un paese fuori controllo: questi i risultati della decisione presa da Blair e Bush nel 2003, scrive il 7 luglio 2016 Luciano Tirinnanzi su "Panorama". Quella di ieri, mercoledì 6 luglio 2016, è stata una giornata difficile per la politica britannica e, in buona parte, anche per quella americana. Mentre Londra faceva la conta del numero di politici dimissionari dopo lo tsunami della Brexit, e mentre a Washington l’FBI scagionava dalle accuse sull’emailgate Hillary Clinton, sulla scena internazionale irrompevano le conclusioni del rapporto Chilcot, ovvero la commissione d'inchiesta britannica sulla partecipazione del Regno Unito all’intervento militare in Iraq del 2003.  “Abbiamo concluso che la scelta del Regno Unito di partecipare all’invasione in Iraq è stata compiuta prima che fossero esaurite tutte le altre opzioni pacifiche per il disarmo. Abbiamo altresì concluso che la minaccia delle armi di distruzione di massa in possesso dell’Iraq, rappresentata come una certezza, non era giustificata. Nonostante gli avvertimenti, le conseguenze dell’invasione sono state sottovalutate e la preparazione del dopo Saddam è stata del tutto inadeguata”. Sono queste in sostanza le osservazioni di John Chilcot, l’uomo che presiede l’inchiesta sul ruolo britannico nell’invasione. Parole che verosimilmente scateneranno una serie di polemiche destinate ad ampliare il terremoto in corso nel mondo politico inglese e che hanno già fatto breccia nella campagna elettorale americana. Anche se il rapporto Chilcot - dopo sette anni di lavori, centinaia di testimonianze raccolte e 150mila documenti vagliati - ci racconta delle ovvietà, poiché evidentemente tutti hanno sotto gli occhi i risultati di cosa ha comportato, non può sfuggire l’importanza simbolica delle sue conclusioni. L’ufficialità del rapporto pone, infatti, una questione politica non da poco sia per il Regno Unito sia per la comunità internazionale, soprattutto per il verdetto schiacciante che condanna in toto l’attività dell’allora premier britannico Tony Blair, il quale “era stato avvertito” dell’inopportunità di entrare in guerra e nonostante ciò ha perseverato nel disastro, ma anche la decisione degli americani. Secondo gli storici, Blair agì in questo modo per non rovinare il buon rapporto tra il Regno Unito e gli Stati Uniti che si era cementato durante la presidenza Clinton e che rischiava di sgretolarsi con l’arrivo del nuovo presidente repubblicano. In questo senso, la commissione suggerisce che Blair avrebbe promesso a George W. Bush che lo avrebbe affiancato nell'impresa bellica “a ogni costo”, convinto di poter gestire il rapporto con l’inquilino della Casa Bianca. Mentre secondo il diretto interessato, che non ha perso tempo e ha risposto immediatamente alle accuse, il rapporto Chilcot per quanto lo riguarda afferma che non vi è stata “nessuna falsificazione o uso improprio dell’intelligence” e neanche “alcun inganno nei confronti del governo”, così come non è stato siglato “nessun patto segreto” tra lui e il presidente George W. Bush per l’entrata in guerra britannica. Nonostante la difesa di Tony Blair, però, il risultato non cambia. La parabola politica dell’ex premier inglese si conclude con una bocciatura storica non da poco da parte di un’inchiesta ufficiale. E non va meglio dall’altra parte dell’oceano, dove il candidato repubblicano Donald Trump non ha perso tempo nel commentare alla sua maniera il caso: “Saddam Hussein era un cattivo ragazzo. Davvero cattivo. Ma sapete cosa? Ha fatto qualcosa di buono. Ha ucciso i terroristi”. E ha poi aggiunto: “Guardate cos’è diventato oggi l’Iraq, è l’Harvard del terrorismo”. Insomma, se a Londra ci si domanda come gestire il rapporto Chilcot e come assorbire l’impatto di questa inchiesta, in America la questione è già spostata in avanti. Il New York Times in un cupo editoriale si è sentito in dovere di citare le parole pronunciate poche settimane fa dal capo della CIA John Brennan il quale, commentando la forza dello Stato Islamico, si è spinto a dire: “Abbiamo ancora molta strada da fare prima di poter affermare che abbiamo fatto dei progressi significativi contro di loro”. Dunque, seguendo le osservazioni di Londra e Washington: la guerra per deporre Saddam Hussein fu un errore; la gestione del dopo-invasione ha generato il terrorismo; il terrorismo a sua volta ha prodotto il Califfato; il Califfato è vivo e vegeto e gli Stati Uniti non hanno idea di come fermarlo. Ma la cosa che più spaventa è l’ammissione che l’Occidente da quindici anni a questa parte ha sbagliato tutto sul Medio Oriente e ancora oggi non ha idea di come gestire il genio (del male) fuoriuscito dalla lampada. E, come insegna la fiaba de Le mille e una notte, una volta fuori è difficile ricacciarlo dentro. Il rapporto Chilcot incide sulla pietra il fatto che l’invasione dell’Iraq fu un vero fallimento e che le conseguenze negative di quella scelta sciagurata si stanno protraendo fino a oggi. Questo significa anche ufficializzare il de profundis per la politica occidentale nel Medio Oriente, e in Iraq in misura ancora maggiore, proprio mentre Baghdad è ostaggio del tritolo dello Stato Islamico. Infatti il Califfo Al Baghdadi, che con il Ramadan 2016 ha inaugurato una nuova strategia del terrore, ha deciso di incrementare le azioni suicide sulla capitale per costringere il governo sciita di Haider Al Abadi a far rientrare in città le truppe che oggi combattono l’ISIS a nord e che minacciano Mosul (ancora in mano allo Stato Islamico), per difendere dalle azioni dei kamikaze una capitale quasi fuori controllo. La sicurezza a Baghdad, infatti, non esiste più e anche se il Califfato non è arrivato mai a minacciare militarmente la città, ciò non significa che tenerla in ostaggio con le bombe non produca lo stesso risultato: quello di danneggiare il governo Al Abadi fino al punto da provocare una sua caduta. In questo, il Califfato potrebbe trovare un alleato inconsapevole nello sceicco Moqtad Al Sadr, il leader che a Baghdad comanda il gigantesco quartiere sciita di Sadr City (impenetrabile anche alle autorità irachene e già protagonista della resistenza all’invasione americana), che osteggia tanto i sunniti di Al Baghdadi quanto il governo sciita in carica, accusandolo di corruzione e di complicità con il terrorismo. Non più di due giorni fa, infatti, Al Sadr ha affermato: “Questi attentati non avranno fine, perché molti politici stanno capitalizzando sulle bombe” e ha poi aggiunto una frase che suona come una minaccia diretta all’attuale governo: “solo il popolo iracheno potrà mettere fine a questa corruzione”. Come a dire che, se Al Abadi non è in grado di proteggere la popolazione, qualcun altro presto dovrà farlo. In ogni caso, metaforicamente Baghdad è davvero la nuova Babilonia.

Così la guerra in Iraq ha sconvolto il Medio Oriente e rafforzato il terrorismo. Lo scenario. Dal rapporto della commissione chilcot emerge che Blair e Bush jr. ignorarono la Storia e non ascoltarono i diplomatici: l'invasione spezzò i fragili equilibri regionali, scrive Bernardo Valli il 7 luglio 2016 su “La Repubblica”. Ci sono voluti 7 anni, 12 volumi, più di 2 milioni e mezzo di parole, quante ne ha scritte Tolstoj in Guerra e Pace (ha calcolato il New York Times), per stabilire, infine, che l'invasione dell'Iraq voluta da Bush Jr, con Tony Blair al suo fianco, era non solo inutile, ma anche disastrosa. La titanica fatica della commissione presieduta, a Londra, da John Chilcot ha condotto a una verità già nota dal 2003, quando cominciò il conflitto. Aveva tuttavia bisogno di una conferma solenne. La quale assomiglia a una sentenza, benché non preveda alcun processo per "crimine di guerra" a carico dell'inquisito Blair, come chiedevano ieri i manifestanti londinesi. La commissione Chilcot non aveva poteri giudiziari. E del resto Blair ebbe l'autorizzazione del Parlamento, sia pur strappata con quella che si può chiamare una menzogna. La questione delle responsabilità penali è affiorata sempre ieri per iniziativa dei familiari dei morti. Che furono duecento britannici (di cui centosettantanove militari), quattromila cinquecento americani e più di 140mila iracheni. Limitando il bilancio alla prima fase della guerra. Ai Comuni, dove non è stato tenero con il suo predecessore alla testa del Labour, Jeremy Corbyn ha chiesto scusa a nome del suo partito per "l'aggressione militare basata su un falso pretesto". E ha parlato di "violazione della legge internazionale", da parte di un primo ministro laburista, quel era all'epoca Blair. Il rapporto Chilcot equivale a una condanna politica e morale per quanto riguarda l'inquisito britannico, e in modo indiretto la stessa condanna vale anche per George W. Bush. Del quale, si disse allora che l'obbediente Tony Blair fosse il "barboncino". Il risultato della commissione britannica non arriva con tredici anni di ritardo rispetto alla guerra del 2003. Il conflitto è ancora in corso. La mischia nella valle del Tigri e dell'Eufrate ne è la conseguenza. Il detonatore di quel che accade oggi, terrorismo compreso, è stata l'invasione di allora. La situazione era pronta per un'esplosione. È vero. La guerra nell'Afghanistan, occupato dai sovietici, aveva rafforzato il jihadismo di Al Qaeda, irrobustitosi con il decisivo aiuto americano. Nella guerra fredda l'Islam servì agli Stati Uniti come arma contro l'Urss. E il lungo conflitto, durante quasi tutto il decennio degli Ottanta, tra l'Iraq di Saddam Hussein, a forte governo sunnita, e l'Iran sciita di Khomeini, aveva risvegliato la tenzone tra le due grandi correnti dell'Islam adesso in aperto confronto. Nonostante gli avvertimenti insistenti di esperti e diplomatici, la coppia Bush-Blair si è inoltrata nel Medio Oriente incandescente dichiarando di volervi portare la democrazia e al tempo stesso annientare le armi di distruzione di massa, non meglio precisate se chimiche o nucleari, ma delle quali non c'era prova. E che comunque si rivelarono immaginarie. Noi cronisti, a Bagdad, la prima notte dei bombardamenti, indossammo le tute e le maschere che avrebbero dovuto proteggerci dall'iprite e da non so quale altro veleno. Dopo qualche ora ci liberammo di tutto, accorgendoci che tra i tanti pericoli che ci attendevano non c'erano quelli propagandati dagli invasori in arrivo. L'uso dei gas nella sterminata e popolata Bagdad sarebbe equivalso a un auto-olocausto. La commissione di inchiesta accusa Blair, e di riflesso Bush jr, di non avere approfittato di tutte le opzioni pacifiche a disposizione per arrivare a un disarmo concordato. È un appunto di rilievo perché Blair rivendica il fatto di avere comunque contribuito ad abbattere un dittatore feroce qual era Saddam Hussein. Gli inquirenti, in sostanza, sostengono che restasse uno spazio per trattare con il rais di Bagdad, considerato tra l'altro, quando era in guerra con l'Iran, un alleato obiettivo. L'irresponsabilità più grave denunciata da John Chilcot è quella dimostrata nella prima fase del dopo guerra, quando gli occidentali Bush e Blair proclamano anzi tempo la vittoria. L'ignoranza è sottolineata più volte. Il saccheggio delle città da parte della popolazione, sia a Bagdad dove c'erano gli americani, sia a Bassora dove c'erano i britannici, toglie ogni fiducia negli invasori stranieri. I quali risultano incapaci di garantire la sicurezza. L'esercito nazionale viene sciolto, ma non disarmato. Il partito Baath, funzionante da Stato, è subito disperso e i suoi dirigenti imprigionati e privati dei loro beni. Giusta punizione ma il paese resta senza un'amministrazione. I militari sunniti si danno alla macchia con ufficiali e cannoni, presto raggiunti dai jihadisti provenienti da tutti i paesi arabi. I saddamisti laici si alleano con i salafiti. Gli americani e gli inglesi hanno offerto un campo di battaglia su cui affrontarli. Le milizie sciite, emerse dopo una lunga sottomissione alla minoranza sunnita, sfidano spesso gli occupanti. Che non considerano liberatori perché hanno cacciato il dittatore che li opprimeva, ma invasori. L'impatto dell'intervento occidentale sgretola i fragili confini disegnati sulle rovine dell'impero ottomano alla fine della Grande Guerra. Nel 1918. I paesi del Medio Oriente si decompongono. Prima l'Iraq poi la Siria. Nel frattempo le primavere arabe mettono in crisi i regimi dei rais che funzionavano da gendarmi. L'intervento americano con l'appoggio britannico spezza gli equilibri regionali. Il rapporto Chilcot, nei suoi dodici volumi, non è soltanto un atto d'accusa sul piano politico e morale, ma l'analisi sul come si è giunti al conflitto medio orientale di oggi. Bush jr e l'amico Blair hanno ignorato la Storia.

«Sarò con te, sempre». Scrive il 6 luglio 2016 “Il Corriere della Sera”. Tra le carte, fino ad oggi top secret, analizzate e rese pubbliche nel rapporto di Sir John Chilcot sulle responsabilità britanniche nella guerra in Iraq, ci sono anche alcune note che l’allora premier Tony Blair scrisse a George W. Bush. In una di queste, datata 28 luglio 2002 (otto mesi prima che il 20 marzo 2003 prendesse il via la guerra) Blair già promette appoggio incondizionato all’allora presidente Usa per l’invasione dell’Iraq. Il dossier Chilcot contiene vari messaggi tra Blair e Bush prima, durante e dopo il conflitto. In questa lettera, scritta a mano, l’ex premier si complimenta con il presidente Usa per un suo «brillante discorso» in merito alla necessità dell’intervento in Iraq. In tutto sono 29 le lettere inviate dall’ex primo ministro del Regno Unito Tony Blair all’ex presidente Usa George W. Bush e sono centinaia i documenti desecretati e pubblicati nel Rapporto Chilcot. Il rapporto tra i due leader è considerato cruciale nella decisione dell’invasione. Il rapporto Chilcot è un’inchiesta britannica portata avanti dalla commissione parlamentare presieduta dall’ex diplomatico Sir John Chilcot sulla guerra in Iraq. Istituita da Gordon Brown nel 2009, ha lo scopo di far chiarezza sulle circostanze che portarono il governo di Tony Blair a entrare in guerra assieme agli Stati Uniti contro Saddam Hussein Durante i lavori della commissione sono stati analizzati oltre 150.000 documenti e sono stati sentiti più di 150 testimoni, tra cui l’ex premier Tony Blair. È suddiviso in 12 volumi e contiene 2,6 milioni di parole.

Iraq, come sarebbe il mondo oggi se Saddam non fosse caduto? Dopo tredici anni e un’infinita serie di attentati e violenze, cinque domande provano a creare una realtà alternativa in cui il raìs sarebbe ancora al potere, scrive Michele Farina il 6 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. E se non avessero invaso l’Iraq? O se almeno avessero preparato meglio il dopo guerra? Per il rapporto Chilcot fu un intervento «sbagliato» e «le sue conseguenze perdurano ancora oggi». Tony Blair dice che senza quell’intervento il mondo sarebbe peggiore, meno sicuro. E che almeno adesso gli iracheni hanno una chance di libertà che sotto Saddam Hussein non avevano. La libertà di morire a centinaia, una sera d’estate del 2016, per l’esplosione di un camion bomba dell’Isis tra i negozi e i ristoranti di Bagdad affollati di famiglie e bambini? Khaddim al-Jaburi dice che, se incontrasse Blair oggi, «gli sputerebbe in faccia». Al Jaburi è l’uomo che buttò già la prima statua di Saddam alla caduta di Bagdad. Faceva il meccanico, riparava le moto del dittatore. Cadde in disgrazia, gli uccisero 15 familiari. Eppure oggi intervistato a Bagdad dalla Bbc dice che se potesse tornare indietro, sapendo quanto è successo in questi tredici anni, lui quella statua «la rimetterebbe in piedi». I curdi del nord e gli sciiti del Sud, per decenni vittime dichiarate del regime, hanno una prospettiva differente. Senza l’invasione del 2003 Saddam o chi per lui (Qusay, il figlio più astuto) gaserebbe ancora bambini e avversari? Avrebbe fatto un’altra guerra con l’Iran? E se la primavera araba nel 2011 avesse attecchito anche sulla riva al Tigri oggi l’Iraq sarebbe comunque preda — come lascia intendere Blair — di una sanguinosa guerra civile modello siriano? E il mondo sarebbe comunque alle prese con l’Isis e il suo terrorismo in franchising? Tornare indietro. Immaginare la storia provando a rimettere insieme i tasselli secondo un’altra combinazione, seguendo il cartello del «what if», cosa sarebbe successo se. Lo fa l’ex premier Blair e il meccanico al-Jaburi. E’ una tentazione che ognuno di noi sperimenta nel proprio piccolo, a ogni angolo. E se Pellè non avesse provocato Neuer? Più seriamente, pensando in grande: e se non avessero invaso l’Iraq? Un gioco distopico per romanzieri, un esercizio per provare a non sbagliare direzione in futuro.

1 Se avessero trovato le armi di distruzione di massa? Tutto a posteriori sarebbe stato giustificato. Bush e Blair candidati al Nobel per la pace?

2 Se Blair non si fosse legato al carro armato di Bush? L’America sarebbe andata da sola all’invasione. La Gran Bretagna non sarebbe stata meno sicura. Vedi Francia: nel 2003 con Chirac all’Eliseo disse no all’intervento armato in Iraq. Ma questo non le ha risparmiato le ferite degli attentati di Parigi.

3 Se la guerra fosse stata preparata meglio? Il rapporto Chilcot accusa Londra (e di riflesso Washington) di impreparazione e sottovalutazione. Anche da un punto di vista militare. Fin da subito gli stessi comandi alleati dissero (inascoltati) che servivano più soldati e più mezzi. Gli Usa rimasero con gli Humvees colabrodo che saltavano in aria sulle bombe improvvisate, gli inglesi al Sud giravano con i gipponi che i soldati chiamavano «bare mobili». Pensare che la Cia arrivò a Bagdad con casse di bandierine a stelle e strisce: da distribuire alla popolazione che si immaginava festante. Altro che resistenza. Gli Usa prospettavano un rapido «mordi e fuggi», o in alternativa qualcosa di simile alla serena occupazione del Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale.

4 Se non avessero sciolto l’esercito iracheno? Una questione spinosa e complicata. Ma certo quella decisione presa dal governatore Usa Paul Bremer non favorì la riconciliazione nazionale. Anzi.

5 Se avessero aspettato l’Onu? Francia e Russia erano contro l’intervento armato. Di fronte alla paralisi diplomatica non c’era un attimo da perdere, sostiene Blair. Ma le prove di intelligence contro Saddam Hussein, come riafferma oggi la commissione Chilcot dovevano apparire gravemente insufficienti anche 13 anni fa. E allora, prendere tempo sarebbe stato saggio e non avrebbe necessariamente rafforzato Saddam. Questa era anche la posizione tedesca. Una linea di prudenza che, con scenario tutto diverso, Angela Merkel va applicando anche alla questione Brexit. La politica del «Schweigen»: calma e silenzio. Meglio che «shock and awe», colpisci e terrorizza (la tattica adottata nel primo giorno di attacco all’Iraq nel 2003). Il rapporto Chilcot (volendolo guardare attraverso il filtro della diplomazia comunitaria) per certi versi prova e allarga il solco tra Gran Bretagna ed Europa continentale. Un solco a geometrie variabili, considerando per esempio l’impazienza francese nell’attaccare la Libia di Gheddafi. Anche se i tedeschi mai l’ammetterebbero, l’attendismo di Berlino sulla Brexit (aspettiamo l’estate) può ricordare il nostro adda passà ‘a nuttata. Molto italiano, e anche molto iracheno: il sentimento di un popolo che, 13 anni dopo la sua liberazione, si ritrova a rimpiangere l’orco Saddam.

Massoneria. Rivoluzioni e conquiste.

La Brexit come disegno ordito dalla massoneria.

L’opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

«Non voglio passare per un complottista, ma la saggistica scrive che la massoneria anglosassone, non anglicana, non atea, ma pagana, ha sempre complottato contro la chiesa cattolica per estirpargli l’egemonia di potere che esercita sul mondo occidentale. Per avere il primato d’imperio sulla civiltà e sui popoli e per debellare questa forza internazionale, prima temporale e poi spirituale, la massoneria ha manipolato le masse povere ed ignoranti contro le dinastie regnanti cristiane. Ha fomentato la rivoluzione francese, prima, americana, poi, ed infine, russa, inventando il socialismo ateo e anticlericale, da cui è scaturito fascismo, nazismo e comunismo, fonte di tante tragedie. La chiesa, ciononostante, non ha capitolato. Non riuscendo nel suo intento, la massoneria, si è inventata, attraverso i media ed i governi fantoccio, le guerre di democratizzazione del Medio Oriente e Nord Africa, foraggiando, al contempo, gruppi estremistici e terroristici, e contestualmente ha intensificato l’affamamento dell’Africa, con lo sfruttamento delle sue risorse a vantaggio di tiranni burattini, con il fine ultimo di incentivare l’invasione islamica dell’occidente, attraverso gli sbarchi continui sulle coste dell’Europa di migranti, rifugiati e terroristi infiltrati. L’islamizzazione dell’Europa come fine ultimo per arrivare all’estinzione della cristianità.

La sinistra nel mondo è soggiogata e manipolata da questo disegno di continua destabilizzazione dell’ordine mondiale, di fatto favorendo l’invasione dell’Europa, incitando il diritto ad emigrare.

“Nel contesto socio-politico attuale, però, prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra” afferma il Santo Padre Benedetto XVI nel suo Messaggio per la 99ma Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, che sarà celebrata domenica 13 gennaio 2013, sul tema “Migrazioni: pellegrinaggio di fede e di speranza”.

Il monopoli o domino massonico destabilizzante continua il 23 giugno 2016. Il Regno Unito ha votato la sua uscita dall'Unione Europea. Ma la domanda è: Il Regno Unito ci è mai entrato nell'Unione Europea? E se lo ha fatto con quali intenzioni? Sia l’entrata che l’uscita dall’Unione Europea dell’Union Jack non è forse un tentativo di destabilizzare la normalizzazione dei rapporti tra gli Stati europei ed impedire la loro unificazione politica, economia e monetaria, oltre che ostacolare l’espandersi dei rapporti amichevoli con la Russia che è vista come antagonista degli Usa nell’egemonizzazione del mondo?

Dominato dall'orgoglio francese, ma anche perché non li considerava "europeizzabili", Charles de Gaulle non voleva gli inglesi nella comunità. Li sospettava di essere una quinta colonna degli Stati Uniti massoni.

"Leggo dello sconforto di Jacques Delors, ex presidente della Commissione: «Avremmo fatto meglio a lasciare fuori gli inglesi». Ero a Parigi nel 1966, quando si discuteva già se permettere o no l’ingresso della Gran Bretagna nella Cee. De Gaulle era contrarissimo, mentre la maggior parte degli altri partner europei erano favorevoli. In uno dei tanti discorsi che soleva tenere alla tv, De Gaulle fece questa profezia: «Fate entrare l’Inghilterra e l’Europa non sarà mai fatta». Può dirmi, alla luce di quanto sta accadendo, se «l’Europa delle Patrie» dallo stesso De Gaulle tanto auspicata, avrebbe intrapreso forse un cammino più rapido verso una vera Unione europea simile a quella degli Usa?" Domanda di Rocco Caiazza a Sergio Romano del 5 dicembre 2012 su “Il Corriere della Sera”. “Caro Caiazza, Non ricordo la frase da lei citata, ma sul problema dell’adesione della Gran Bretagna alla Comunità europea la posizione di De Gaulle fu sempre chiara ed esplicita. Era convinto che Londra sarebbe stata il «cavallo di Troia» dell’America nell’organizzazione europea e non esitò a boicottare i negoziati con una clamorosa conferenza stampa il 14 gennaio 1963.” Fu la risposta di Romano. In effetti, dal 1975, da quando cioè il Regno Unito attraverso un altro referendum convocato sulla permanenza nell'Ue ad appena tre anni dal suo ingresso ufficiale ha optato per il «sì» a Bruxelles, le relazioni tra Londra e il blocco comunitario non sono mai state idilliache, scrive Arianna Sgammotta su “L’Inkiesta” il 22 giugno 2016. Non soltanto. Oltremanica l'Unione europea è sempre stata o ignorata o accusata di tutto quello che non funzionava in patria. Non stupisce quindi che fino al 2008, agli anni precedenti la crisi economica e finanziaria, l'etichetta euroscettico fosse a uso e consumo dei britannici, quasi a porsi come un sinonimo del carattere nazionale. In trent'anni di convivenza difficile il Regno Unito ha ottenuto una serie di deroghe all'implementazione di vari regolamenti validi invece per tutti gli altri Stati membri. Questo grazie alla cosiddetta clausola dell'opt-out. Ma non basta, grazie alla leader di ferro, Margaret Tatcher, Londra gode di un deciso sconto sul contributo annuale al bilancio comunitario. All'origine della diatriba tra Regno Unito e resto delle capitali Ue, la visione stessa del progetto comunitario. Per Londra una mera area di libero scambio solo se per sé vantaggiosa, per i Paesi fondatori - tra cui l'Italia - le basi di un'unione politica, economica e monetaria. Tant’è che il Regno Unito non è nell’area Euro né nello spazio Schenghen.

Allora, anziché rammaricarci del risultato, perchè non brindiamo per la vittoria che gli europeisti continentali hanno ottenuto ed analizziamo le notizie ed i dati offerteci dai media con maggior approfondimento e distacco ideologico? Come chiederci: gli antieuropeisti come gli europeisti fallimentisti, che con il formalismo e la burocrazia minano le basi dell’Unione, sono mica massoni?»

Massoneria come entità sopranazionale e trasversale, comunque vincente, checchè ne dicano i soliti idioti che stanno sempre lì a commentare le ovvie verità nei miei scritti. Ecco perché a Strasburgo vediamo che il Parlamento Europeo vota per l’uscita immediata dalla UE del Regno Unito ed a votare contro troviamo il leader inglese che ha fomentato la Brexit e con lui hanno votato il Movimento 5 Stelle, ed i movimenti di Le Pen e Salvini.

Ed i precedenti italiani di destabilizzazione?

Per scaricare Renzi i poteri forti rispolverano la massoneria, scrive il 20 febbraio 2016 Stefano Sansonetti su “La Notizia Giornale”. Ormai non c’è giorno senza che arrivi un pessimo segnale per la tenuta del Governo guidato da Matteo Renzi. Se poi questi segnali arrivano direttamente dall’estero, o sono comunque veicolati da profili legati a centri di potere internazionali, per il premier l’effetto non può che essere allarmante. Soprattutto quando tra le accuse viene ritirata in ballo la “massoneria”. Tra quelli che stanno lanciando missili c’è senza dubbio Mario Monti, ex commissario europeo, molto stimato da alcune cancellerie nonché membro dei comitati esecutivi delle più influenti e chiacchierate lobby mondiali, dalla Trilateral all’Aspen. Ebbene, qualche giorno fa Monti aveva dato un antipasto a Montecitorio criticando il presidente del consiglio per la strategia assunta in Europa. “Presidente Renzi, lei non manca occasione per denigrare le modalità concrete di esistenza della Unione Europea, con la distruzione sistematica a colpi di clava e scalpello di tutto quello che la Ue ha significato finora”, aveva detto Monti in quell’occasione, aggiungendo che “questo sta introducendo negli italiani, soprattutto in quelli che la seguono, una pericolosissima alienazione nei confronti della Ue. Con il rischio di un benaltrismo su scala continentale molto pericoloso”. Ieri, in un colloquio con il Corriere della sera, Monti è stato ancora più affilato, evocando addirittura la massoneria. Senza mai citare direttamente Renzi, l’ex premier ha spiegato che “molti politici nazionali, che sovente si professano europeisti – e magari perfino credono di esserlo – sono diventati maestri muratori della decostruzione europea”. E’ appena il caso di far notare che in termini storici la massoneria viene fatta risalire proprio alle corporazioni dei muratori del Medioevo. Lo stesso termine “massoneria” deriva dal francese “maçon”, che significa appunto muratore. Senza contare che in genere il “gran maestro” rappresenta il ruolo di vertice all’interno della gerarchia massonica. Insomma, ci sono sin troppi indizi che fanno capire come non sia stato certo casuale il riferimento di Monti ai “maestri muratori”. Questa durissima insinuazione, seppur indiretta, ha peraltro trovato spazio sulle colonne del Corriere della sera, non nuovo a lanciare accuse di questo tipo. Nel settembre del 2014, in un editoriale dell’allora direttore Ferruccio de Bortoli, il patto del Nazareno tra Renzi e gli emissari di Silvio Berlusconi venne accostato allo “stantio odore della massoneria”. Ma non è finita qui. Se nei giorni scorsi il Financial Times aveva scritto che “la fortuna di Renzi si sta esaurendo”, ieri in un’intervista a Qn è stato il politologo americano neocon, Edward Luttwak, a dare al premier italiano l’avviso di sfratto: “Renzi ha fallito perché doveva fare riforme importanti e non le ha fatte. Non ha fatto la spending review e non ha messo mano alla burocrazia della pubblica amministrazione”. Quanto al possibile complotto Ue contro Renzi, per Luttwak “non esiste, c’è stato sicuramente per Berlusconi, ma non nei confronti di Renzi”. Infine la superstoccata finale, quella che può aiutare a capire cosa si agiti nella mente di alcuni osservatori internazionali. Basti leggere il modo in cui, secondo Luttwak, Renzi dovrebbe andare avanti: “Innanzitutto lasciando a casa le ragazzine e i dilettanti e circondandosi di personaggi qualificati”. Riferimento neanche troppo velato a Maria Elena Boschi e a Marianna Madia. E chi dovrebbe essere recuperato da Renzi? “Pierluigi Bersani per le liberalizzazioni, poi Romano Prodi ed Enrico Letta. E anche Giorgio Napolitano, che potrebbe avere un ruolo nella riforma della giustizia italiana”. Ora, da che pulpito vengano queste richieste è domanda più che legittima. Ma è il contesto generale di pressione a dover far riflettere. Una spia di come certi poteri stiano scaricando il premier può essere ravvisata anche dal trattamento riservatogli da alcuni giornali. Per carità, il presidente del consiglio può ancora “consolarsi” con il sostegno mediatico fornitogli da La Repubblica del gruppo De Benedetti, da La Stampa della famiglia Agnelli, e da Il Messaggero dell’immobiliarista Francesco Gaetano Caltagirone. Ma certo un bel po’ di preoccupazione sarà indotta nel premier dagli strali lanciati dal Corriere della sera nelle ultime 48 ore. E non è solo per via di Mario Monti. Due giorni fa un editoriale di Antonio Polito era eloquentemente titolato “la spinta smarrita di Renzi”. Ieri un commento economico del vicedirettore, Federico Fubini, ha accusato Renzi si sbagliare completamente strategia quando minaccia di opporsi alla proposta tedesca di mettere un tetto al possesso dei titoli di Stato da parte delle banche. L’assunto è che Berlino “non sosterrà mai un sistema europeo di garanzie sui depositi bancari”, a cui l’Italia dice di tenere molto, “finché le banche stesse saranno così esposte sul debito dei rispettivi governi”. La sintesi, allora, è che “quando Renzi respinge la richiesta tedesca, di fatto rinuncia proprio a ciò che fino a ieri lui stesso chiedeva con urgenza”. Per carità, da tutto questo dedurre un avviso si fratto al premier sarà esagerato. Ma siamo molto vicini a una messa in mora.

L'ultimo tassello che dimostra il complotto di Napolitano & C. Le carte pubblicate da Repubblica sono solo la conferma dello scenario sul golpe del 2011. Prima l'attacco speculativo sui mercati, poi le manovre per far cadere il governo Berlusconi, scrive Renato Brunetta, Mercoledì 24/02/2016 su “Il Giornale”. Un fatto di gravità inaudita è stato rivelato ieri da Repubblica, che ha attinto da Wikileaks la notizia provata delle intercettazioni che uno Stato amico e alleato ha compiuto ai danni del nostro Paese e della sua legittima autorità di governo, rubando le telefonate del nostro presidente del Consiglio e dei suoi più stretti collaboratori. Questo Stato si chiama Stati Uniti d'America, negli anni di Barack Obama, e il presidente del Consiglio italiano è Silvio Berlusconi. Si tratta di una violazione che si configura come attacco alla nostra sovranità nazionale. Ma a questo credo che saprà (o no?) rispondere da par suo (ahinoi!) Matteo Renzi. Il quale, visto che chiama gli oppositori interni gufi, come minimo dovrà dare della iena a Obama. Figuriamoci. Qui restringiamo il campo a chi ha fornito le prove di questo scempio: Repubblica. E Repubblica, se possibile, è peggio degli spioni. Infatti la chiave di lettura che essa dà di questo crimine è di compiacimento, poiché vuol convincere il mondo che questa infamia fornisce nuovi proiettili contro il nemico storico, Silvio Berlusconi e il suo governo. In particolare nell'editoriale di Claudio Tito usa le telefonate carpite per negare l'esistenza di qualsivoglia complotto contro l'ultimo premier legittimato dal voto e di conseguenza contro il nostro Paese. Lo scopo è chiaro: volgarmente si direbbe, mettere le mani avanti. Più raffinatamente, trattasi della classica operazione di disinformacija. Tito, e Calabresi-De Benedetti, vogliono creare il mainstream, il pensiero unico su questa vicenda, obbligando tutti i commenti a instradarsi su questi binari, ad accettare l'agenda proprio di coloro che ordirono il complotto, i quali stavano e stanno non solo all'estero, ma in Italia, e proprio molto vicino all'area politico-culturale di Repubblica-Espresso. Perché queste intercettazioni sono solo nelle loro mani? Hanno per caso pagato per averle? Perché non le hanno anche gli altri giornali? Si fa per caso un uso selettivo di WikiLeaks? L'asino però casca sull'ignoranza, voluta o determinata dal pregiudizio proprio e della casa madre, qui non importa. Il diavolo sta nei dettagli. E i dettagli dicono topiche clamorose nell'impostazione delle fondamenta di una tesi smentita dalla realtà. Ma è proprio questa miseria morale e deontologica a essere la caratteristica espressiva non solo del giornalismo del gruppo editoriale di De Benedetti, ma della sinistra intellettuale e politica in quanto tale. Uno spirito di diserzione rispetto agli interessi nazionali, abbandonando quel minimo di patriottismo che sarebbe naturale riscontrare in chiunque ami il proprio Paese e lo veda ferito con strumenti di scasso che mettono in pericolo la sicurezza di tutti. Il Giornale ha, nel maggio del 2014, pubblicato e diffuso un libro che porta la mia firma e si intitola Berlusconi deve cadere. Cronaca di un complotto. Le rivelazioni odierne forniscono in realtà totale conferma della mia narrazione di quegli eventi che videro l'Italia, soprattutto nel secondo semestre del 2011, sotto attacco speculativo. Prima partì l'aggressione finanziaria ai titoli di Stato, mentre i fondamentali della nostra economia erano stati ben valutati dalla Commissione europea. Dal complotto finanziario si passò senza soluzione di continuità al complotto politico, bene assecondato in Italia dal Quirinale (e da Repubblica). Dalle telefonate intercettate in particolare al consigliere politico e deputato Valentino Valentini, che partecipò ai colloqui riservati di Berlusconi con i leader franco-tedeschi, si evince che Sarkozy e Merkel misero sotto pressione fortissima Berlusconi anche in privato. Contemporaneamente ordirono nei corridoi e in incontri riservati al vertice del G20 di Cannes quello che il segretario del Tesoro americano Tim Geithner ha definito nelle sue memorie the scheme, il complotto. A cui si sottrasse, non volendosi «macchiare le mani del sangue» di Berlusconi. Ps. Ecco a uso della scuola di giornalismo e magari alla attenzione dell'Ordine dei giornalisti per la diffusione di notizie false. Prima il testo di Tito, poi la confutazione delle topiche. «Il governo venne umiliato in Parlamento: incapace di approvare la legge di Stabilità... La paura di essere travolti dal buco nero italiano diventava il vero incubo dell'Unione europea e di tutti gli alleati internazionali. Non è un caso che in quei giorni (autunno 2011, ndr) la Deutsche Bank - allora ancora solida - si liberava in un colpo solo dell'88% dei titoli di Stato italiani che aveva in cassaforte. Quasi in contemporanea, dal vertice europeo di Nizza di ottobre arrivava un altro schiaffo. La Cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Sarkozy ironizzavano con un sorriso eloquente sulla capacità dell'esecutivo berlusconiano di mettere al riparo i conti dello Stato». Il governo non era «incapace di approvare la legge di Stabilità». La legge di Stabilità non era allora in questione. Si trattava, invece, del voto sul rendiconto generale dello Stato, un atto dovuto, e peraltro approvato dalla Camera. La Deutsche Bank non vende «per paura di essere travolti dal buco nero italiano» dopo l'estate, ma sono le decisioni dei suoi vertici a causare ad arte questa paura innescando la tempesta perfetta sui mercati. La Deutsche Bank cedette i titoli di Stato italiani tra marzo e giugno 2011. La Bundesbank impose lo stesso comportamento a tutti gli istituti presenti sul suolo tedesco ai primi di luglio. Fu questa vendita preordinata e in blocco a causare la crescita artificiosa dello spread. I sorrisetti di Merkel e Sarkozy non furono «durante il vertice europeo di Nizza», ma durante una conferenza stampa a Bruxelles il 23 ottobre 2011. Il vertice europeo di Nizza si svolse un po' prima, esattamente tra il 7 e il 9 dicembre 2000, e c'erano Giuliano Amato, Jacques Chirac e Gerhard Schröder. In effetti lì non ci fu nessun complotto. Lo spread non ha mai «sfiorato» 600 punti base, ma al massimo 529 il 15 novembre 2011, quando Berlusconi, tra l'altro, si era già dimesso. Ciò detto, a chi giova oggi questa divulgazione di informazioni? Chi è il vero obiettivo di questa campagna? È l'operazione verità rispetto al passato, per cui noi abbiamo già chiesto l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta, oppure l'obiettivo è l'attuale governo? È un avvertimento a Renzi? Domande inquietanti, che chiedono risposte immediate. Ha niente da dire il solitamente ciarliero presidente del Consiglio italiano?

Napolitano e tutto il PD hanno approvato un piano massonico sequestrato nel 1981. Il senatore del Movimento 5 Stelle Sergio Puglia, con un video pubblicato su “Libero Quotidiano Tv” il 13 ottobre 2015, accusa l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di aver portato avanti il programma della P2. Il senatore del Movimento registra un video nel transatlantico di Palazzo Madama, dopo che il suo gruppo è uscito dall’aula, quando l’ex presidente della Repubblica ha preso la parola. Puglia dice: “Napolitano ha preso il programma della loggia massonica P2 e lo ha imposto ai presidenti del Consiglio. Lui è l’autore di tutto questo macello istituzionale”.

La sinistra massone lo sa che con i suoi apparati politici, mediatici e culturali, influenza le masse ignoranti. E la massa vota con la pancia, non con la testa.

Ed allora parliamo del Gruppo Bilderberg.

I massoni e la sinistra italiana, scrive Andrea Cinquegrani, tratto da "La Voce della Campania". Il Gruppo Bilderberg nasce nel 1952, ma viene ufficializzato due anni più tardi, a giugno del 1954, quando un ristretto gruppo di vip dell’epoca si riunisce all’hotel Bilderberg di Oosterbeek, in Olanda. Da quel momento le riunioni si sono svolte una o due volte all’anno, nel più totale riserbo. In occasione di una delle ultime, nella splendida e appartata resort di Sintra, in Portogallo, il settimanale locale News riportò una notizia secondo cui il Governo avrebbe ricevuto migliaia di dollari dal Gruppo per organizzare «un servizio militare compreso di elicotteri che si occupasse di garantire la privacy e la sicurezza dei partecipanti». Ma torniamo agli esordi. I primi incontri si sono svolti esclusivamente nei paesi europei, ma dall’inizio degli anni ’60 anche negli Usa. Tra i promotori - precisano alcuni studiosi della semi sconosciuta materia - occorre ricordare due nomi in particolare: sua maestà il principe Bernardo de Lippe, olandese, ex ufficiale delle SS, che ha guidato il gruppo per oltre un ventennio, fino a quando, nel 1976, è stato travolto dallo scandalo Lockheed; e Joseph Retinger, un faccendiere polacco al centro di una fittissima trama di rapporti con uomini che per anni hanno contato sullo scacchiere internazionale della politica e dell’economia. «La loro ambizione - viene descritto - era quella di costruire un’Europa Unita per arrivare a una profonda alleanza con gli Stati Uniti e quindi dar vita a un nuovo Ordine Mondiale, dove potenti organizzazioni sopranazionali avrebbero garantito più stabilità rispetto ai singoli governi nazionali. Fin dalla prima riunione vennero invitati banchieri, politici, universitari, funzionari internazionali degli Usa e dell’Europa occidentale, per un totale di un centinaio di personaggi circa». Ecco cosa hanno scritto alcuni giornalisti investigativi inglesi nel magazine on line di Bbc News a pochi giorni dal meeting di Stresa. «Si tratta di una delle associazioni più controverse dei nostri tempi, da alcuni accusata di decidere i destini del mondo a porte chiuse. Nessuna parola di quanto viene detto nel corso degli incontri è mai trapelata. I giornalisti non vengono invitati e quando in qualche occasione vengono concessi alcuni minuti a qualche reporter, c’è l’obbligo di non far cenno ad alcun nome. I luoghi d’incontro sono tenuti segreti e il gruppo non ha un suo sito web. Secondo esperti di affari internazionali, il gruppo Bilderberg avrebbe ispirato alcuni tra i più clamorosi fatti degli ultimi anni, come ad esempio le azioni terroristiche di Osama bin Laden, la strage di Oklaoma City, e perfino la guerra nella ex Jugoslavia per far cadere Milosevic. Il più grosso problema è quello della segretezza. Quando tante e tali personalità del mondo si riuniscono, sarebbe più che normale avere informazioni su quanto sta succedendo». Invece, tutto top secret. Scrive un giornalista inglese, Tony Gosling, in un giornale di Bristol: «Secondo alcune indiscrezioni che ho raccolto, il primo luogo nel quale si è parlato di invasione dell’Iraq da parte degli Usa, ben prima che ciò accadesse, è stato nel meeting 2002 dei Bilderberg». Di parere opposto un redattore del Financial Times, Martin Wolf, più volte invitato ai meeting: «L’idea che questi incontri non possano essere coperti dalla privacy è fondamentalmente totalitaria; non si tratta di un organismo esecutivo, nessuna decisione viene presa lì». Fa eco uno dei fondatori, anche lui inglese, lord Denis Healey: «Non c’è assolutamente niente sotto. E’ solo un posto per la discussione, non abbiamo mai cercato di raggiungere un consenso sui grandi temi. E’ il migliore gruppo internazionale che io abbia mai frequentato. Il livello confidenziale, senza alcun clamore all’esterno, consente alle persone di parlare in modo chiaro». Ed ecco cosa scrive un altro studioso di ordini paralleli e di gruppi e associazioni che agiscono sotto traccia, Giorgio Bongiovanni. «Bilderberg rappresenta uno dei più potenti gruppi di facciata degli Illuminati (una sorta di super Cupola mondiale, ndr). Malgrado le apparenti buone intenzioni, il vero obiettivo è stato quello di formare un’altra organizzazione di facciata che potesse attivamente contribuire al disegno degli Illuminati: la costituzione di un Nuovo Ordine Mondiale e di un Governo Mondiale entro il 2012. Sembra che le decisioni più importanti a livello politico, sociale, economico-finanziario per il mondo occidentale vengano in qualche modo ratificate dai Bilderberg». «Il Gruppo - scrive ancora Bongiovanni - recluta politici, ministri, finanzieri, presidenti di multinazionali, magnate dell’informazione, reali, professori universitari, uomini di vari campi che con le loro decisioni possono influenzare il mondo. Tutti i membri aderiscono alle idee precedenti, ma non tutti sono al corrente della profonda verità ideologica di alcuni membri principali». I veri “conducator”- secondo questa analisi - i quali a loro volta fanno anche parte di altri segmenti strategici nell’organigramma degli Illuminati. Due in particolare: la Trilateral e la Commission of Foreign Relationship, nata nel 1921, la quale riunisce a sua volta tutti i personaggi che hanno fra le loro mani le leve del comando negli Usa. «Questi membri particolari - prosegue Bongiovanni - sono i più potenti e fanno parte di quello che viene definito il ‘cerchio interiore’. Quello “esteriore”, invece, è l’insieme degli uomini della finanza, della politica, e altro, che sono sedotti dalle idee di instaurare un governo mondiale che regolerà tutto a livello politico e economico: insomma, le ‘marionette’ utilizzate dal cerchio interiore perché i loro membri sanno che non possono cambiare il mondo da soli e hanno bisogno di collaboratori motivati e mossi anche dal desiderio di danaro e potere». Passiamo, per finire, alla Trilateral, vero e proprio luogo cult del Potere nascosto, in grado comunque di condizionare i destini del mondo. Ovviamente ‘sponsorizzato’ della star dell’imprenditoria multinazionale, come Coca Cola, Ibm, Pan American, Hewlett Packard, Fiat, Sony, Toyota, Mobil, Exxon, Dunlop, Texas Instruments, Mutsubishi, per citare solo le più importanti. L’associazione nasce nel 1973, sotto la presidenza “democratica” di Jimmy Carter e del suo consigliere speciale per la sicurezza, Zbigniew Brzezinsky, il vero deux ex machina. A ispirare il progetto, le famiglie Rothschield e Rockfeller, i Paperoni d’America. Un progetto che ha irresistibilmente attratto i potenti del mondo, a cominciare proprio dai presidenti Usa, con un Bill Clinton in prima fila. Così descriveva Giovanni Agnelli la Trilateral: «Un gruppo di privati cittadini, studiosi, imprenditori, politici, sindacalisti delle tre aree del mondo industrializzato (Usa, Europa e Giappone, ndr) che si riuniscono per studiare e proporre soluzioni equilibrate a problemi di scottante attualità internazionale e di comune interesse». Il solito ritornello. Di diverso avviso il giornalista Richard Falk, che già nel 1978 - quindi a pochissimi anni dalla nascita - scrive sulle colonne della Monthly Review di New York: «Le idee della Commissione Trilaterale possono essere sintetizzate come l’orientamento ideologico che incarna il punto di vista sopranazionale delle società multinazionali, che cercano di subordinare le politiche territoriali a fini economici non territoriali». E’ la filosofia delle grandi corporation, che stanno privatizzando le risorse di tutto il pianeta, a cominciare dai beni primari, come ad esempio l’acqua: non solo riescono a ricavare profitti stratosferici ma anche ad esercitare un controllo politico su tutti i Sud - e non solo - del mondo. La logica della globalizzazione. E i bracci operativi di questo turbocapitalismo sono proprio due strutture che dovrebbero invece garantire il contrario: ovvero la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. «Entrambi - scrive uno studioso, Mario Di Giovanni - sotto lo stretto controllo del ‘Sistema’ liberal della costa orientale americana. Agiscono a tutto campo nell’emisfero meridionale del pianeta, impegnate nella conduzione e ‘assistenza’ economica ai paesi in via di sviluppo». E proprio sull’acqua, la Banca Mondiale sta dando il meglio di sé: con la sua collegata IFC (Internazionale Finance Corporation) infatti sta mettendo le mani sulla gran parte delle privatizzazioni dei sistemi idrici di mezzo mondo, soprattutto quello africano e asiatico, condizionando la concessione dei fondi all’accettazione della privatizzazione, parziale o più spesso totale, del servizio. Del resto, è la stessa Banca a calcolare il business in almeno 1000 miliardi di dollari… Scrive ancora Di Giovanni: «Le decisioni assunte dai vertici della Trilateral riguarderanno sempre di più quanti uomini far morire, attraverso l’eutanasia o gli aborti, e quanti farne vivere, attraverso un’oculata distribuzione delle risorse alimentari. Decisioni che riguarderanno l’ingegneria genetica, per intervenire nella nuova ‘umanità’. In una parola, tutto ciò che definitivamente distrugga il ‘vecchio’ ordine sociale, cristiano, per la creazione di un nuovo ordine. Ma tutto questo senza particolari scossoni. Non vi sarà bisogno di dittature, visto che le democrazie laiche e progressiste, condotte da governi di ‘centrosinistra’, servono già così efficacemente allo scopo. Governi che riproducono - conclude - una formula già sperimentata lungo l’intero corso del ventesimo secolo e plasticamente rappresentata dal passato governo Prodi-D’Alema: l’alleanza fra la borghesia massonica e la sinistra, rivoluzionaria o meno».

LE 13 FAMIGLIE CHE COMANDANO IL MONDO, scrive “Informare per resistere” l'8 agosto 2012. “Illuminati” o “portatori di luce”. Appartengono a tredici delle più ricche famiglie del mondo e sono i personaggi che veramente controllano e comandano il mondo da dietro le quinte. Vengono, da molti, anche definiti la “Nobiltà Nera”. La loro caratteristica principale è quella di essere nascosti agli occhi della popolazione mondiale. Il loro albero genealogico va indietro migliaia di anni, alcuni dicono che risale alla civiltà sumera/babilonese o addirittura che siano ibridi, figli di una razza extraterrestre, i rettiliani. Sono molto attenti a mantenere il loro legame di sangue di generazione in generazione senza interromperla. Il loro potere risiede nel controllo specie quello economico (gruppo Bilderberg ecc…), “il denaro crea potere” è la loro filosofia. Il loro controllo punta a possedere tutte le banche internazionali, il settore petrolifero e tutti i più potenti settori industriali e commerciali. Sono infiltrati nella politica e nella maggior parte dei governi e degli organi statali e parastatali. Inoltre negli organi internazionali primo fra tutti l’ONU e poi il Fondo Monetario Internazionale. Ma qual è l’obiettivo degli Illuminati? Creare un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) con un governo mondiale, una banca centrale mondiale, un esercito globale e tutta una rete di controllo totale sulle masse. A capo ovviamente loro stessi, per sottomettere il mondo ad una nuova schiavitù, non fisica, ma “spirituale” ed affermare il loro credo, quello di Lucifero. Questo progetto va avanti, secondo alcuni, da millenni ma ebbe un incremento nella prima metà del 1700 con l’incontro tra il “Gruppo dei Savi di Sion” e Mayer Amschel Rothschild, l’abile fondatore della famosa dinastia che ancora oggi controlla il Sistema Bancario Internazionale. L’incontro portò alla creazione di un manifesto: “I Protocolli dei Savi di Sion”. Suddiviso in 24 paragrafi, viene descritto come soggiogare e dominare il mondo con l’aiuto del sistema economico. Rothschild successivamente aiutò e finanziò l’ebreo Adam Weishaupt, un ex prete gesuita, che a Francoforte creò il famigerato gruppo segreto dal nome “Gli Illuminati di Baviera”. Weishaupt prendendo spunto dai “Protocolli dei Savi di Sion” elaborò verso il 1770 “Il Nuovo Testamento di Satana” un piano che porterà una piccola minoranza di persone al controllo globale. La sua strategia si basava sulla soppressione dei governi nazionali e alla concentrazione di tutti i poteri sotto unici organi da loro controllati. Loro hanno un piano ben preciso che portano avanti a piccoli passi, proprio per non destare alcun sospetto. Creare la divisione delle masse, è un passo fondamentale, in politica, nell’economia, negli aspetti sociali, con la religione, l’invenzione di razze ed etnie ecc… Scatenare conflitti tra stati, così da destabilizzare l’opinione pubblica sui governi, l’economia e incutere timore e mancanza di sicurezza nella popolazione.  Corrompere con denaro facile, vantaggi e sesso, quindi rendere ricattabili i politici o chi ha una posizione di spicco all’interno di uno stato o di un organo statale. Scegliere il futuro capo di stato tra quelli che sono servili e sottomessi incondizionatamente. Avere il controllo delle scuole: dalla scuola infantile all’Università per fare in modo che i giovani talenti siano indirizzati ad una cultura internazionale e diventino inconsciamente parte del complotto. Indottrinando la popolazione su come si può o non può vivere, su quali sono le regole da rispettare, gli usi e i costumi ecc… Infiltrarsi in ogni decisione importante (meglio a lungo termine) dei governi degli stati più potenti del mondo. Facendo coincidere queste decisioni con il progetto finale. Controllare la stampa e l’informazione in generale, creando false notizie, false emozioni, paura ed instabilità. Abituare le masse a vivere sulle apparenze ed a soddisfare solo il loro piacere ed il materialismo così da portare la società alla depravazione, stadio in cui l’uomo non ha più fede in nulla. Arrivare a creare un tale stato di degrado, di confusione e quindi di spossatezza, che le masse avrebbero dovuto reagire cercando un protettore o un benefattore al quale sottomettersi spontaneamente. Uno dei loro obbiettivi è scippare la popolazione così da manipolare il loro pensiero ed il loro comportamento, oltre che rendere molto facile la loro identificazione e localizzazione. Tutto questo con la scusante della sicurezza personale. Nel 1871 il piano di Weishaupt viene ulteriormente confermato e completato da un suo seguace americano, il gran maestro, Albert Pike che elaborò un documento per l’istituzione di un Nuovo Ordine Mondiale (NWO) attraverso tre Guerre Mondiali. Lui sosteneva che attraverso questi tre conflitti la popolazione mondiale, stanca della violenza e della sofferenza, avrebbe richiesto spontaneamente protezione e pace e la creazione di organi mondiali che controllassero ciò. Dopo la Seconda Guerra Mondiale venne fatto il primo passo in questa direzione con la formazione dell’ONU. Per Pike, la Prima Guerra Mondiale doveva portare gli Illuminati, che già avevano il controllo di alcuni Stati Europei e stavano conquistando attraverso le loro trame gli Stati Uniti di America, ad avere anche la guida della Russia. Quest’ultima sarebbe poi servita alla divisione del mondo in due blocchi. La Seconda Guerra Mondiale sarebbe dovuta partire dalla Germania (cosa che accadde), manipolando le diverse opinioni tra i nazionalisti tedeschi e i sionisti politicamente impegnati. Inoltre avrebbe portato la Russia ad estendere la sua zona di influenza e reso possibile la costituzione dello Stato di Israele in Palestina. La Terza Guerra Mondiale sarà basata sulle divergenze di opinioni che gli Illuminati avranno creato tra i Sionisti e gli Arabi (occidente cristiano contro l’Islam cosa che si sta avverando e anche velocemente), programmando l’estensione del conflitto a livello mondiale. Ovviamente non potevano pensare di conseguire i loro obiettivi da soli, avevano ed hanno bisogno di una “struttura operativa”, composta da organizzazioni o persone che esercitando del potere ed operino più o meno consapevolmente nella stessa direzione. La loro strategia ha fatto leva su 2 capisaldi: la forza del denaro, loro hanno costituito e controllano il sistema bancario internazionale; la disponibilità di persone fidate, ottenuta attraverso il controllo delle società segrete (logge massoniche). Gli Illuminati e chi con loro controlla queste società, sono pressoché Satanisti e praticano la magia nera e sacrifici umani. Il loro Dio è Lucifero e attraverso pratiche e riti occulti manipolano e influenzano le masse. Molti asseriscono che è anche da questa scienza di tipo occulto che gli Illuminati hanno sviluppato la teoria sul controllo mentale delle masse. Poco tempo fa sono emersi anche i nomi delle suddette famiglie: ASTOR, BUNDY, COLLINS, DUPONT, FREEMAN, KENNEDY, LI, ONASSIS, ROCKFELLER, ROTHSCHILD, RUSSELL, VAN DUYN, MEROVINGI.

Famoso discorso, fatto da John Fritzgerald Kennedy, il 27 aprile 1961, sulla reale minaccia, che le società segrete, costituiscono per tutto il mondo, e per la libertà, di ogni essere umano. Kennedy denunciò apertamente i poteri occulti che nell’ombra governano il mondo, poi quando decise di stampare una banconota di stato svincolata dalla FED fu fatto fuori. Casualità???

L’INGHILTERRA E’ CONTROLLATA DAI ROTHSCHILD, scrive “I Complottisti” il 30/06/2016. L’Inghilterra è un’oligarchia finanziaria gestita dalla corona che si riferisce alla City of London e non alla Regina. La City of London è gestita dalla Banca d’Inghilterra, una società privata. La City è uno stato sovrano, come il Vaticano del mondo finanziario, e non è soggetta alla legge britannica, al contrario i banchieri danno gli ordini al Parlamento Britannico. Nel 1886 Andrew Carnegie scrisse che "6 o 7 uomini possono spingere il paese in una guerra senza consultare il Parlamento”. Vincenzo Vickers direttore della Banca d’Inghilterra dal 1910 al 1919 ha accusato la City per le guerre nel mondo. L’impero britannico era un’estensione degli interessi finanziari dei banchieri. In effetti, tutte le colonie non bianche (India, Hong Komg, Gibilterra) erano corone colonie. Appartenevano alla City e non erano soggetti alla legge inglese. La Banca d’Inghilterra ha assunto il controllo degli USA durante l’amministrazione Roosevelt (1901-1909) quando il suo agente J.P. Morgan acquisì oltre il 25% del business americano. Secondo l’American Almanac i banchieri fanno parte di una rete chiamata club of Isles che è un’associazione informale di famiglie reali prevalentemente europee tra cui la Regina. Il club of Isles gestisce una cifra stimata di 10 miliardi di dollari in assets come la Royal Dutch Shell, Imperial Chemical Industries, Lloyds of London, Unilever, Lonrho, Rio Tinto Zinc, e anglo americana De Beers. Domina la fornitura mondiale di petrolio, oro, diamanti, e molte altre materie prime vitali ed impiega questi assets a disposizione della propria agenda geopolitica. Il loro obiettivo è ridurre la popolazione mondiale ad 1 miliardo di persone entro le prossime 2/3 generazioni, per mantenere il proprio potere globale e feudale. La storia Jeffrey Steinberg scrisse: “Inghilterra, Scozia, Galles ed in particolare l’Irlanda del Nord sono oggi poco più di piantagioni di schiavi e laboratori di ingegneria sociale per soddisfare le esigenze della City of London”. Queste famiglie costituiscono un’oligarchia finanziaria e sono il potere dietro il trono Windsor. Considerano se stessi come eredi dell’oligarchia veneziana che si sono infiltrati ed hanno sovvertito l’Inghilterra dal periodo 1509-1715 ed ha stabilito un nuovo più virulento ceppo anglo-olandese svizzero del sistema oligarchico dell’impero di Babilonia, Persia, Roma e Bisanzio…La City of London domina i mercati speculativi del mondo. Un gruppo strettamente interdipendente di imprese, materie prime coinvolte nell’estrazione, finanza, assicurazioni, trasporti e produzioni di cibo, fa la parte del leone nel controllo del mercato mondiale. Sembra che molti membri di questa oligarchia erano ebrei. Cecil Roth scrisse “il commercio di Venezia è stato il nodo schiacciante concentrato nelle mano degli ebrei, i più ricchi della classe mercantile (La storia degli ebrei a Venezia 1930). William Guy Carr nel libro Pawns in the game spiega che sia Oliver Cromwell che Gugliemo d’Orange sono stati finanziati da banchieri ebrei. La Rivoluzione Inglese (1649) è stata la prima di una serie di rivoluzioni progettate per dare loro egemonia mondiale. L’Inghilterra è stato uno stato ebraico per oltre 300 anni.

I 25 PUNTI SCRITTI DAI ROTHSCHILD PER LA CONQUISTA DEL MONDO, scrive “I Complottisti” il 22/03/2016. PREMESSA: I ROTHSCHILD, SONO UNA DELLE POCHE FAMIGLIE A CONTROLLARE SIN DAGLI ALBORI LE BANCHE, QUINDI LE ECONOMIE E QUINDI I GOVERNI MONDIALI. Anno 1773. Poco prima di presentare il suo piano, in 25 punti, per “dominare le ricchezze, le risorse naturali e la forza lavoro di tutto il mondo”, Amschel Mayer Rothschild, ai suoi dodici ascoltatori, svelò «come la Rivoluzione Inglese (1640-60) fosse stata organizzata e mise in risalto gli errori che erano stati commessi: il periodo rivoluzionario era stato troppo lungo, l’eliminazione dei reazionari non era stata eseguita con sufficiente rapidità e spietatezza e il programmato “regno del terrore”, col quale si doveva ottenere la rapida sottomissione delle masse, non era stato messo in pratica in modo efficace. Malgrado questi errori, i banchieri, che avevano istigato la rivoluzione, avevano stabilito il loro controllo sull’economia e sul debito pubblico inglese». Rothschild mostrò che questi risultati finanziari non erano da paragonare a quelli che si potevano ottenere con la Rivoluzione francese, a condizione che i presenti si unissero per mettere in pratica il Piano rivoluzionario che egli aveva studiato e aggiornato con grande cura. Questi 25 punti sono:

1. Usare la violenza e il terrorismo, piuttosto che le discussioni accademiche.

2. Predicare il “Liberalismo” per usurpare il potere politico.

3. Avviare la lotta di classe.

4. I politici devono essere astuti e ingannevoli – qualsiasi codice morale lascia un politico vulnerabile.

5. Smantellare “le esistenti forze dell’ordine e i regolamenti. Ricostruzione di tutte le istituzioni esistenti.”

6. Rimanere invisibili fino al momento in cui si è acquisita una forza tale che nessun’altra forza o astuzia può più minarla.

7. Usare la Psicologia di massa per controllare le folle. “Senza il dispotismo assoluto non si può governare in modo efficiente.”

8. Sostenere l’uso di liquori, droga, corruzione morale e ogni forma di vizio, utilizzati sistematicamente da “agenti” per corrompere la gioventù.

9. Impadronirsi delle proprietà con ogni mezzo per assicurarsi sottomissione e sovranità.

10. Fomentare le guerre e controllare le conferenze di pace in modo che nessuno dei combattenti guadagni territorio, mettendo loro in uno stato di debito ulteriore e quindi in nostro potere.

11. Scegliere i candidati alle cariche pubbliche tra chi sarà “servile e obbediente ai nostri comandi, in modo da poter essere facilmente utilizzabile come pedina nel nostro gioco”.

12. Utilizzare la stampa per la propaganda al fine di controllare tutti i punti di uscita d’ informazioni al pubblico, pur rimanendo nell’ombra, liberi da colpa.

13. Far sì che le masse credano di essere state preda di criminali. Quindi ripristinare l’ordine e apparire come salvatori.

14. Creare panico finanziario. La fame viene usata per controllare e soggiogare le masse.

15. Infiltrare la massoneria per sfruttare le logge del Grande Oriente come mantello alla vera natura del loro lavoro nella filantropia. Diffondere la loro ideologia ateo-materialista tra i “goyim” (gentili).

16. Quando batte l’ora dell’incoronamento per il nostro signore sovrano del Mondo intero, la loro influenza bandirà tutto ciò che potrebbe ostacolare la sua strada.

17. Uso sistematico di inganno, frasi altisonanti e slogan popolari. “Il contrario di quanto è stato promesso si può fare sempre dopo. Questo è senza conseguenze”.

18. Un Regno del Terrore è il modo più economico per portare rapidamente sottomissione.

19. Mascherarsi da politici, consulenti finanziari ed economici per svolgere il nostro mandato con la diplomazia e senza timore di esporre “il potere segreto dietro gli affari nazionali e internazionali.”

20. L’obiettivo è il supremo governo mondiale. Sarà necessario stabilire grandi monopoli, quindi, anche la più grande fortuna dei Goyim dipenderà da noi a tal punto che essi andranno a fondo insieme al credito dei dei loro governi il giorno dopo la grande bancarotta politica.

21. Usa la guerra economica. Deruba i “Goyim” delle loro proprietà terriere e delle industrie con una combinazione di alte tasse e concorrenza sleale.

22. Fai si che il “Goyim” distrugga ognuno degli altri; così nel mondo sarà lasciato solo il proletariato, con pochi milionari devoti alla nostra causa e polizia e soldati sufficienti per proteggere i loro interessi.

23. Chiamatelo il Nuovo Ordine. Nominate un Dittatore.

24. Istupidire, confondere e corrompere e membri più giovani della società, insegnando loro teorie e principi che sappiamo essere falsi.

25. Piegare le leggi nazionali e internazionali all’interno di una contraddizione che innanzi tutto maschera la legge e dopo la nasconde del tutto. Sostituire l’arbitrato alla legge.

 “COME (NON) FUNZIONA LA DEMOCRAZIA DELL’UNIONE EUROPEA. INDAGINE SUI TRATTATI EUROPEI” – SPECIALE COMPLETO in TRE PARTI (a cura dell’avvocato Giuseppe PALMA del 3 luglio 2016).

PREMESSA. Dopo il voto britannico sulla Brexit (cioè sulla volontà del popolo del Regno Unito di restare o meno all’interno dell’Unione Europea), giornalai di regime e professoroni universitari, visto l’esito, hanno scatenato il putiferio! Il referendum in Gran Bretagna di giovedì 23 giugno si è concluso con una inequivocabile vittoria del LEAVE (fatta eccezione per Londra, il resto dell’Inghilterra e del Galles hanno votato per uscire dall’UE, mentre Scozia e Irlanda del Nord per rimanere). Ciò ha determinato, come ci si aspettava, un terremoto sui mercati. Ed ecco che il “vero potere” ha scatenato un’offensiva senza precedenti contro la democrazia. C’è addirittura chi, dall’alto del proprio ruolo di docente universitario ordinario, ha follemente ipotizzato la necessità di sostituire il voto eguale (cioè una testa un voto) con il voto ponderato (cioè che alcuni voti valgano più di altri a seconda dell’età e/o del titolo di studio). A questo punto, c’è da chiedersi: ma se è vero (e non lo è) che l’Unione Europea si fonda sui principi di democrazia, pace e benessere, per quale motivo una semplice consultazione elettorale (per di più di natura consultiva e non vincolante) ha determinato il crollo dei mercati e la reazione scomposta dell’establishment? Sarà mica l’Unione Europea ad essere INCOMPATIBILE con la democrazia? Giudicate Voi.

PARTE PRIMA. PERCHE’ LE NORME GIURIDICHE DELL’UNIONE EUROPEA PREVALGONO SU QUELLE NAZIONALI?

Il rapporto gerarchico nel sistema delle Fonti del diritto: gravi problematiche. Fatta salva – nei termini che si esporranno di seguito – la supremazia gerarchica della Costituzione nei confronti delle norme europee di qualunque fonte (supremazia meramente formale visto che le norme costituzionali sono state sostanzialmente superate dal contenuto dei Trattati), la produzione legislativa nazionale di rango ordinario (le leggi e gli atti aventi forza di legge) si colloca su un livello inferiore (rapporto gerarchico) rispetto alla produzione legislativa dell’UE, tant’è che, qualora una norma nazionale non fosse conforme ad una norma europea, il giudice nazionale (al quale i cittadini si rivolgono per ottenere giustizia) deve disapplicare la norma nazionale e applicare quella europea, anche se questa è antecedente alla norma interna. Ma andiamo per gradi. Cosa vuol dire rapporto gerarchico? Vuol dire che un atto giuridico deve essere conforme ad un altro atto giuridico posto su un livello superiore nella scala gerarchica delle Fonti del diritto, cioè – ad esempio – un regolamento del Governo deve essere conforme alla legge ordinaria, questa deve essere conforme al Regolamento dell’UE (che è un atto giuridico che fa parte del diritto derivato dell’Unione) e quest’ultimo non deve essere in contrasto con i Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, con la Parte Prima della Costituzione e con la forma repubblicana (intesa nel suo significato più ampio). La conformità alla Costituzione è richiesta anche al diritto europeo originario (rappresentato dai Trattati dell’UE), e a tal riguardo va evidenziato che gli atti legislativi dell’Unione sono adottati attraverso le procedure stabilite dai Trattati che nulla hanno a che fare con le procedure democratiche dettagliatamente stabilite dalla Parte Seconda della nostra Costituzione, la quale attribuisce la funzione legislativa esclusivamente ad un Parlamento eletto direttamente dal popolo (fatta eccezione per i casi del decreto legge e del decreto legislativo che sono invece di competenza del Governo, la cui funzione legislativa è comunque limitata al verificarsi di specifiche condizioni). Ciò detto, i cittadini italiani sono soggetti a norme europee (che superano quelle nazionali) adottate attraverso procedure legislative meno garantiste e meno democratiche di quelle stabilite dalla Costituzione, le quali sono costate milioni di morti. Capito adesso perché la Costituzione è stata – di fatto – esautorata sin dalle sue viscere? Come si fa a dire di essere europeisti di fronte a tali verità? Come si può accettare che la Commissione europea e il Consiglio dell’UE (quindi funzione esecutiva, iniziativa legislativa e funzione legislativa), deputati rispettivamente a proporre e ad emanare atti legislativi direttamente vincolanti e superiori alle leggi nazionali, siano composti da soggetti nominati (e quindi non eletti) che non ricevono neppure un vero e proprio voto di fiducia da parte del Parlamento, unico organismo europeo eletto direttamente dal popolo? In pratica, se la Rivoluzione francese aveva strappato la funzione legislativa dalle mani del re (e del suo “Consilium Principis”) per attribuirla ad un’assemblea elettiva che rappresentasse ed esercitasse la sovranità popolare, l’UE ha annullato le conquiste rivoluzionarie attribuendo sostanzialmente la potestà legislativa dell’Unione (il cui frutto supera la produzione legislativa nazionale) ad un organismo – il Consiglio dell’UE – i cui componenti (al pari dei componenti della Commissione), non essendo eletti dai cittadini, rispondono unicamente a logiche di potere e di interesse del tutto contrapposte alle “naturali” esigenze dei popoli. I Trattati europei (da ultimo quello di Lisbona) prevedono che la funzione legislativa dell’UE sia esercitata congiuntamente da Parlamento europeo e Consiglio dell’UE, ma la potestà legislativa del Parlamento europeo è circoscritta al mero ruolo di “compartecipe” o di “notaio in differita”. Nella sostanza, gli atti giuridici dell’Unione sono adottati dal Consiglio e dalla Commissione, due organi non eletti dal popolo e che non rispondono a criteri democratici! La funzione legislativa dell’Unione mira esclusivamente alla tutela del capitale internazionale (anche attraverso l’euro), al perseguimento degli scopi delle multinazionali e alla salvaguardia degli interessi dei mercati. Il rispetto della sovranità popolare e la tutela dei diritti fondamentali non fanno parte dell’agenda politica e legislativa dell’UE! Ma entriamo nello specifico. Ferma restando la palese manipolazione interpretativa dell’art. 11 Cost. La nostra Corte Costituzionale, già nel 1964, affermava che le norme comunitarie sono da porre sul medesimo piano delle leggi ordinarie, e che un eventuale conflitto tra norma interna e norma comunitaria si sarebbe dovuto risolvere attraverso il criterio della successione delle leggi nel tempo (il c.d. principio lex posterior derogat priori), ossia che la norma successiva deroga (sostituisce) quella precedente (Sent. n. 14 del 7 marzo 1964 – Costa c. Enel). Successivamente, nel 1973, la Consulta si spinge addirittura oltre riconoscendo sia il primato del diritto comunitario sul diritto interno che l’efficacia diretta dei Regolamenti (Sent. n. 183 del 1973 – conosciuta come Sentenza Frontini). Forse toccata da un sussulto di indipendenza, nel 1975 sempre la nostra Corte Costituzionale (con Sentenza n. 232/1975) enuncia il principio che, affinché potesse essere disapplicata, la norma nazionale doveva essere abrogata o dichiarata costituzionalmente illegittima dall’organo costituzionale competente, lasciando in tal modo allo Stato (attraverso se stessa) un minimo di controllo sull’efficacia della normativa comunitaria nell’ordinamento giuridico nazionale. Ma nel 1978 interviene un’importante Sentenza della Corte di Giustizia europea (causa Simmenthal – Sent. 9 marzo 1978) che risolve ogni empasse in favore della legislazione comunitaria: “il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere od ottenere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale”. Trascorrono circa sei anni durante i quali la Consulta mantiene sostanzialmente le proprie posizioni, ma nel 1984 il conflitto tra la giurisprudenza della Corte di Giustizia e quella della Corte Costituzionale viene definitivamente risolto da quest’ultima con l’emanazione della Sentenza n. 170 dell’8 giugno 1984 (causa Granital c. Ministero delle Finanze), con la quale la nostra Consulta si è allineata totalmente alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, stabilendo che il giudice nazionale è tenuto a disapplicare addirittura anche la normativa nazionale posteriore confliggente con le disposizioni europee, superando in tal modo l’obbligo previsto nel 1975 di un preventivo giudizio di legittimità costituzionale. Successivamente, nel 1985 (Sent. del 23 aprile 1985 n. 113 – causa BECA S.p.A. e altri c. Amministrazione finanziaria dello Stato), la Consulta – oltre a ribadire quanto già affermato con Sentenza n. 170/1984 – chiarisce che la normativa europea entra e permane in vigore in Italia senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge ordinaria dello Stato, ogni qualvolta la normativa europea soddisfa il requisito dell’immediata applicabilità, quindi i Regolamenti UE e – per espressa previsione – le statuizioni risultanti dalle Sentenze interpretative della Corte di Giustizia. Tuttavia, l’applicazione e l’efficacia diretta delle norme del diritto europeo incontrano un limite invalicabile (quanto meno da un punto di vista formale) rappresentato dai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dai diritti inalienabili della persona, infatti la stessa Corte Costituzionale – con Sentenza del 13 luglio 2007 n. 284 – afferma: “Ora, nel sistema dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi, in forza dell’art. 11 della Costituzione, soprattutto a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l’applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi – come si è verificato nella specie – in ordine all’esistenza del conflitto. La non applicazione (del diritto interno – nda) deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona”. A tal proposito, Luciano Barra Caracciolo sostiene che tra i limiti che incontra la prevalenza del diritto europeo rispetto al diritto interno, anche in relazione all’interpretazione dell’art. 11 Cost., non vi sono solo quelli di parità con gli altri Stati o di promozione della pace e della giustizia fra le Nazioni, ma anche quello sancito dall’art. 139 Cost. (La forma repubblicana, intesa nella sua accezione più vasta) e quello – come stabilito anche dalla Consulta – del rispetto dei Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona. Il novero di questi limiti (cosiddetti CONTROLIMITI), inoltre, non si ferma ai diritti inalienabili della persona, ma si estende – come si è visto –, oltre che ai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, anche alle disposizioni di cui alla Parte Prima della Costituzione che rappresentano la proiezione programmatica dei Principi Fondamentali. Sempre in merito ai rapporti tra ordinamento costituzionale italiano e prevalenza del diritto comunitario, Barra Caracciolo riporta un’illuminante argomentazione di uno dei Padri Costituenti, il calabrese Costantino Mortati, tra i più importanti giuristi italiani del XX Secolo: “Passando all’esame dei limiti, è da ritenere che essi debbano ritrovarsi in tutti i principi fondamentali, sia organizzativi che materiali, o scritti o impliciti, della Costituzione: sicché la sottrazione dell’esercizio di alcune competenze costituzionalmente spettanti al Parlamento, al Governo, alla giurisdizione,…dev’essere tale da non indurre alterazioni del nostro Stato come Stato di diritto democratico e sociale”; il che renderebbe fortemente dubbia – scrive Barra Caracciolo – la stessa ratificabilità del Trattato di Maastricht e poi di Lisbona. Tutto ciò premesso, chiarita la subordinazione gerarchica del diritto europeo ai Principi Fondamentali dell’ordinamento costituzionale, alla Parte Prima della Costituzione e alla forma repubblicana (dove per “forma repubblicana” non si intende solo la forma di Stato opposta alla monarchia, ma anche quell’ampio spazio creativo del concetto di Repubblica necessariamente assunto come inscindibile da quello di democrazia e di uguaglianza sostanziale), “non mi spiego” come sia stato possibile che si siano poste le basi per il superamento della legislazione nazionale a vantaggio di una legislazione sovranazionale adottata (secondo quanto previsto dai Trattati, quindi dal diritto europeo originario) attraverso meccanismi meno democratici e meno garantisti di quelli dettati dalla nostra Carta Costituzionale, cioè quelli sanciti nella Parte Seconda. La nostra Costituzione, tutta, rappresenta la madre delle Fonti del diritto dell’ordinamento giuridico italiano, quindi è la Carta fondamentale dello Stato alla cui difesa deve provvedere (da un punto di vista giuridico) la Corte Costituzionale. Pertanto, considerato che la Consulta ha la funzione di sindacare sulla conformità delle leggi alla Costituzione, si può affermare che essa non è stata sufficientemente “vigile” nei confronti del diritto europeo originario (e, nello specifico, nei confronti delle leggi nazionali di autorizzazione alla ratifica dei Trattati), il quale, nonostante sia anch’esso posto nella scala gerarchica delle Fonti del diritto su un livello inferiore rispetto alla Costituzione, ha sostanzialmente sostituito le norme costituzionali che disciplinano la funzione legislativa e il procedimento di adozione delle leggi (contenute nella Parte Seconda della nostra Costituzione) con norme meno garantiste che, anche da un punto di vista formale, tradiscono addirittura tutte quelle conquiste democratiche (costate milioni di morti) che sono l’essenza stessa dello Stato di Diritto[5]. Una su tutte quella dell’attribuzione della funzione legislativa unicamente ad un’assemblea eletta direttamente dal popolo, pilastro di civiltà costituzionale che l’Unione Europea (insieme ai Parlamenti nazionali che hanno approvato con larghe maggioranze le leggi di autorizzazione alla ratifica dei Trattati) ha palesemente tradito attribuendo la predetta funzione ad organismi sovranazionali non eletti e sostanzialmente immuni dai processi elettorali.

PARTE SECONDA: L’ASSETTO ISTITUZIONALE DELL’UE E LA MANCANZA DI DEMOCRAZIA NELLE PROCEDURE DI ADOZIONE DEGLI ATTI GIURIDICI DELL’UNIONE.

La FUNZIONE LEGISLATIVA dell’Unione Europea. Secondo quanto previsto dai Trattati dell’Unione Europea (TUE e TFUE) la FUNZIONE LEGISLATIVA dell’Unione (vale a dire il potere legislativo, cioè quello di fare e leggi) è esercitata – nella sostanza – dal duo Commissione europea/Consiglio dell’Unione Europea (quest’ultimo detto anche Consiglio dei Ministri o semplicemente Consiglio). In pratica la Commissione – che esercita il potere esecutivo – ha anche la titolarità dell’iniziativa legislativa, cioè sottopone sia al Consiglio dell’UE (da non confondere con il Consiglio europeo) che al Parlamento europeo le proprie proposte degli atti giuridici da adottare e, nella sostanza, il Consiglio adotta l’atto uniformando quasi sempre la sua posizione alla proposta della Commissione. Nella realtà, infatti, benché sia formalmente prevista una procedura legislativa consistente nell’adozione congiunta dell’atto da parte di Consiglio e Parlamento (che in passato era chiamata “procedura di codecisione”), quest’ultimo è di fatto esautorato da quella che dovrebbe essere la sua “funzione naturale”, cioè l’esercizio esclusivo della potestà legislativa (fare le leggi). L’aspetto drammatico, tra tutti i gravissimi aspetti di criticità evidenziabili, è quello che sono morte milioni di persone perché si giungesse alla conquista del sacrosanto principio che a fare le leggi fosse esclusivamente un’assemblea eletta direttamente dal popolo ed esercitante la sovranità popolare, ma, con l’avvento dell’Unione Europea, tale principio è stato quasi del tutto calpestato e tradito. La conquista democratica del binomio inscindibile “Parlamento eletto – Legge” ha quindi avuto attuazione attraverso le disposizioni contenute in ciascuna delle Costituzioni nazionali degli Stati membri dell’Unione, ma i Trattati dell’UE (per ultimo il Trattato di Lisbona) ne hanno – non solo sostanzialmente – evirato l’essenza! Il Consiglio dell’UE, infatti, è composto da un rappresentante per ciascuno Stato membro, a livello ministeriale, di volta in volta competente per la materia trattata, il quale é abilitato ad impegnare il governo dello Stato membro che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto, ma trattasi di soggetti non eletti che il popolo il più delle volte neppure conosce; e stesso discorso dicasi anche per la Commissione, un organismo potentissimo composto da soggetti non eletti da nessuno (fatta eccezione per quanto si dirà più avanti). Riassumendo questi concetti, è bene che il lettore ricordi che la Commissione europea (esercitante sia il potere esecutivo che l’iniziativa legislativa) e il Consiglio dell’UE (esercitante la funzione legislativa), essendo entrambi composti da membri non eletti dai cittadini, sono totalmente immuni dagli eventuali “scossoni” scaturenti dai processi elettorali. E il Parlamento? Pur essendo l’unica Istituzione europea eletta direttamente dal popolo, e quindi alla quale sarebbe dovuta legittimamente spettare – come ci insegnano le conquiste democratiche costate milioni di morti –l’esercizio esclusivo della funzione legislativa, svolge sostanzialmente il ruolo di “assistente” alle decisioni del duo Commissione – Consiglio! Per di più, considerato che i due grandi partiti europei sono il PSE (Partito del Socialismo Europeo) e il PPE (Partito Popolare Europeo), in Parlamento v’è e vi sarà sempre la maggioranza assoluta per non bloccare le decisioni di Commissione e Consiglio! Ma non è finita qui: mentre la nostra Costituzione prevede che il Governo (al quale è affidato sia l’esercizio della funzione esecutiva che l’iniziativa legislativa) debba godere necessariamente della fiducia del Parlamento (altrimenti non può esercitare a pieno le sue funzioni ed è addirittura obbligato a dimettersi), in Europa non è così! Il Parlamento europeo, nella sostanza, non vota e non revoca alcuna fiducia alla Commissione (e neppure al Consiglio), la quale esercita la funzione esecutiva e l’iniziativa legislativa unicamente per volere di coloro che hanno scritto i Trattati e senza alcun controllo – neppure indiretto – da parte dei rappresentanti del popolo (in merito all’argomento fiducia/sfiducia Parlamento/Commissione, leggasi l’approfondimento tecnico a seguire). Il Parlamento europeo, per la prima volta a partire dal 2014, ha solo il diritto di eleggere (a maggioranza dei suoi membri) il Presidente della Commissione europea: considerato che alle ultime elezioni del maggio 2014 nessuno tra PSE e PPE ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, questi hanno “pensato bene” di mettere insieme i propri numeri in Parlamento esprimendo un voto corale in favore del candidato del PPE Jean-Claude Juncker (sulla base del fatto che il PPE ha ottenuto la maggioranza relativa dei seggi). Quindi a nulla – o quasi – sono valse le vittorie elettorali di Marine Le Pen in Francia e di Nigel Farage in Inghilterra: nel suo complesso, il sistema elettorale per l’elezione del Parlamento europeo è stato concepito e realizzato proprio perché siano sempre il PSE e/o il PPE a farla da padrona!

APPROFONDIMENTO TECNICO. I Trattati dell’UE, oltre a prevedere che il Presidente della Commissione europea sia eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono e tenuto conto dei risultati elettorali per l’elezione del Parlamento medesimo (circostanza sopra evidenziata), prevedono anche che quest’ultimo (cioè il Parlamento) esprima un VOTO DI APPROVAZIONE nei confronti della Commissione (e più precisamente nei confronti del Presidente, dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e degli altri commissari collettivamente considerati), il quale non equivale assolutamente ad un voto di fiducia come quello che – ad esempio – il Parlamento italiano esprime nei confronti del Governo; si tratta infatti di una cosa ben diversa che, nella sostanza, si traduce in un mero “giudizio di gradimento” del tutto ovvio e scontato in quanto il voto di approvazione del Parlamento è preceduto dal voto con cui questo ha già eletto il Presidente della Commissione. Per di più, dopo che il Parlamento europeo ha espresso il voto di approvazione nei confronti della Commissione, è necessario un ulteriore passaggio consistente nella nomina ufficiale della Commissione da parte del Consiglio europeo (da non confondere con il Consiglio dell’UE), e ciò dimostra come il voto di approvazione espresso dal Parlamento nei confronti della Commissione non possa considerarsi tecnicamente come un vero e proprio voto di fiducia.  Per quanto riguarda, invece, un eventuale “voto di sfiducia” del Parlamento nei confronti della Commissione (che obbligherebbe quest’ultima alle dimissioni), è opportuno anzitutto evidenziare che è del tutto azzardato parlare di “sfiducia” perché è quasi impossibile che ciò possa verificarsi nella realtà: la cosiddetta MOZIONE DI CENSURA prevista dai Trattati è una mera previsione formale del tutto irrealizzabile nella sostanza, infatti perché il Parlamento europeo possa “sfiduciare” la Commissione occorre che l’eventuale mozione di censura venga approvata con una maggioranza di addirittura i 2/3 dei voti espressi dall’aula parlamentare, sempre che il predetto risultato non sia inferiore alla maggioranza dei membri che compongono il Parlamento. Una vera e propria “truffa” che rende la forma palesemente soccombente al cospetto della sostanza. E in democrazia, si sa, la forma è elemento fondamentale e irrinunciabile. E’ pur vero che – nella forma – il Trattato di Lisbona prevede l’esercizio congiunto della funzione legislativa da parte del Consiglio dell’UE e del Parlamento europeo (posti formalmente sullo stesso piano quanto meno nella procedura legislativa ordinaria), ma è altrettanto vero che – nella sostanza – il Parlamento non esercita a pieno la funzione legislativa come invece avviene per tutte le assemblee legislative di ciascuno degli Stati membri. Il Parlamento europeo ha – di fatto – un misero ruolo di “compartecipe” o di “notaio in differita”.

Le procedure legislative dell’UE per l’adozione degli atti giuridici dell’Unione. Le procedure legislative di adozione degli atti giuridici dell’Unione Europea si distinguono in ordinaria e speciali.

LA PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA (che rappresenta la regola nella formazione degli atti giuridici dell’UE) è composta di quattro fasi:

Iª FASE (fase della prima lettura) – La Commissione europea presenta una proposta congiuntamente sia al Consiglio dell’UE che al Parlamento europeo, e su di essa quest’ultimo formula la sua posizione (cioè il Parlamento può presentare o meno una serie di emendamenti) e la invia al Consiglio. Qualora quest’ultimo non elabori proposte di emendamento, ovvero accetti gli emendamenti (la posizione) proposti dal Parlamento, l’atto viene adottato senza ulteriori adempimenti. Se invece il Consiglio non approva la posizione del Parlamento, adotta una propria posizione in prima lettura e la trasmette al Parlamento;

IIª FASE (fase della seconda lettura) – Se entro un termine di tre mesi da tale comunicazione il Parlamento: a) approva la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura oppure non si pronuncia, l’atto in questione si considera adottato nella formulazione che corrisponde alla posizione del Consiglio; b) respinge, a maggioranza dei membri che lo compongono, la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, l’atto proposto si considera non adottato; c) propone, sempre a maggioranza dei membri che lo compongono, emendamenti alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, il testo così emendato è inviato al Consiglio e alla Commissione che formula un parere su tali emendamenti. A questo punto (cioè in quest’ultima ipotesi), entro un termine di tre mesi dal testo così emendato, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può: 1) approvare tutti gli emendamenti e quindi l’atto in questione si considera adottato; 2) non approvare tutti gli emendamenti e il suo Presidente, d’intesa con il Presidente del Parlamento, convoca entro sei settimane un organo denominato Comitato di conciliazione;

IIIª FASE (fase della Conciliazione) – Il Comitato di conciliazione (composto da membri o rappresentanti del Consiglio e del Parlamento) ha il compito di giungere ad un accordo su un progetto comune (“testo di compromesso”) sulla base delle posizioni del Parlamento e del Consiglio in seconda lettura. Se entro un termine di sei settimane dalla sua convocazione il Comitato di conciliazione non approva un progetto comune, l’atto in questione si considera non adottato;

IVª FASE (fase della terza lettura) – Qualora entro il termine di sei settimane il Comitato di conciliazione riesce invece ad approvare un progetto comune, il Parlamento e il Consiglio dispongono ciascuno di un termine di sei settimane (a decorrere dall’approvazione del progetto comune da parte del Comitato di conciliazione) per adottare l’atto in questione in base al progetto comune. Il Parlamento delibera a maggioranza dei voti espressi mentre il Consiglio a maggioranza qualificata. Se entrambe le Istituzioni deliberano l’adozione dell’atto in questione, questo si intende adottato e la procedura si conclude; in mancanza invece di una decisione, ovvero qualora l’atto non venga adottato con le maggioranze predette, lo stesso si considera non adottato e la procedura si conclude.

LE PROCEDURE LEGISLATIVE SPECIALI, invece, non godono di una descrizione analitica da parte dei Trattati quindi, in mancanza di specifiche indicazioni e in attesa che si consolidi una prassi nel merito, si ritiene che si possa parlare di procedure legislative speciali tutte le volte che i Trattati prevedono procedure legislative differenti da quella ordinaria. Nell’ambito delle procedure speciali, ritengo sia necessario soffermarsi sull’ipotesi in cui è il Consiglio ad adottare l’atto con la partecipazione del Parlamento. In questo caso si hanno due tipi di procedure: la “procedura di consultazione” e la “procedura di approvazione”:

La procedura di consultazione: prima che il Consiglio adotti un atto, è necessaria la consultazione del Parlamento (in tal caso la consultazione può essere obbligatoria o facoltativa, a seconda di quanto prevedono i Trattati). Il parere espresso dal Parlamento non è vincolante né per la Commissione (che non è obbligata ad uniformare la sua proposta alle osservazioni ivi contenute), né per il Consiglio, che può disattenderlo;

La procedura di approvazione: il Consiglio non può validamente legiferare in talune materie se il Parlamento non concorda pienamente, a maggioranza assoluta dei suoi membri, con il contenuto dell’atto. In mancanza di tale approvazione l’atto non può essere adottato. In pratica si tratta di un diritto di veto da parte del Parlamento nei confronti del Consiglio.

Concentrando l’analisi sulla PROCEDURA LEGISLATIVA ORDINARIA, uno dei suoi aspetti di maggiore criticità è quello che nella fase della seconda lettura il Parlamento può respingere la posizione espressa dal Consiglio in prima lettura solo a maggioranza dei suoi membri (cioè a maggioranza assoluta), quindi occorre un voto del 50% più uno dei componenti l’assemblea, una maggioranza che – come abbiamo visto – è possibile raggiungere solo se si sommano i deputati di PSE e PPE. Considerato che si tratta di partiti (entrambi) sui quali si fonda l’intero apparato eurocratico, è praticamente impossibile per le opposizioni parlamentari trovare la forza numerica (che ricordo è della metà più uno dei membri del Parlamento) per respingere una posizione espressa dal Consiglio. Inoltre, come il lettore ha avuto modo di rendersi conto, in seconda lettura l’atto si intende adottato nel testo corrispondente alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura se il Parlamento, entro il termine di tre mesi, non si pronuncia sulla predetta posizione. Oppure, rimanendo sempre nell’esempio della fase della seconda lettura, il Parlamento può, sì, proporre emendamenti alla posizione espressa dal Consiglio in prima lettura, ma solo e sempre a maggioranza dei suoi membri. Appare dunque evidente che, rispetto ad esempio alla normale procedura di adozione delle leggi prevista dalla nostra Costituzione (artt. 70 e segg. Cost.), le procedure dettate dai Trattati europei presentano un pericoloso deficit di democrazia, tanto più che non è previsto neppure un controllo come quello che la nostra Costituzione assegna al Presidente della Repubblica, il quale ha la facoltà di rinviare la legge alle Camere per chiederne una nuova deliberazione (art. 74 Cost.)! Il Parlamento italiano ha autorizzato la ratifica del Trattato di Lisbona con un voto all’unanimità nel luglio 2008, senza alcun adeguato dibattito né parlamentare né mediatico. Tutto quanto sinora premesso prova che la DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE è stata ormai superata dai Trattati dell’UE, nati non per fare gli interessi dei popoli ma per esautorarne – nella sostanza – la sovranità e l’autodeterminazione!

TERZA ed ULTIMA PARTE: MONETA UNICA E PAREGGIO DI BILANCIO: LA MORTE DELL’UE.

I principali aspetti di criticità della moneta unica. Rapporto €uro/lavoro. Abraham Lincoln, Presidente degli Stati Uniti d’America dal 1861 al 1865, ebbe modo di affermare che: “Il Governo non ha necessità né deve prendere a prestito capitale pagando interessi come mezzo per finanziare lavori governativi ed imprese pubbliche. Il Governo deve creare, emettere e far circolare tutta la valuta ed il credito necessari per soddisfare il potere di spesa del Governo ed il potere d’acquisto dei consumatori. Il privilegio di creare ed emettere moneta non è solamente una prerogativa suprema del Governo, ma rappresenta anche la maggiore opportunità creativa del Governo stesso. La moneta cesserà di essere la padrona e diventerà la serva dell’umanità. La democrazia diventerà superiore al potere dei soldi”. Era il 1865. Quello stesso anno Lincoln venne assassinato. Tra i maggiori aspetti di criticità di questo euro, oltre a quello che trattasi di moneta da prendere in prestito dai mercati dei capitali privati (es. banche private) ai quali va restituita con gli interessi (costringendo i Governi ad aumentare le tasse, inasprire gli strumenti di accertamento fiscale, porre limiti troppo bassi all’utilizzo del denaro contante e tagliare selvaggiamente lo stato sociale), v’è quello che è un accordo di cambi fissi, per cui, nei periodi di crisi economica, gli Stati sono costretti – non potendo far leva sulla svalutazione monetaria – a SVALUTARE IL LAVORO, quindi a contrarre le garanzie contrattuali e di legge, a ridurre i salari e a rendere eccessivamente flessibile il rapporto di lavoro (vedesi Riforma Fornero e  Jobs Act). Il tutto a scapito dei diritti fondamentali e del principio supremo del lavoro sul quale la Costituzione stessa fonda la Repubblica. L’euro è una moneta costruita non per la realizzazione concreta dei principi supremi sanciti dalla Costituzione (uno su tutti il lavoro), bensì per la tutela del capitale internazionale, e ciò comporta la necessità – addirittura ammessa esplicitamente – di mantenere tendenzialmente alto il tasso di disoccupazione (o comunque di non ridurlo sotto una certa soglia), ovvero di conseguire un più alto livello occupazionale ma mantenendo salari bassi e comprimendo le garanzie contrattuali e di legge in favore del lavoratore: se non si comprende questo concetto è impossibile rendersi conto di quanto è accaduto. L’UE nasce, come espressamente scritto nei Trattati, su principi del tutto in contrasto con quelli sui quali trovano fondamento le Costituzioni degli Stati membri: l’art. 3, comma 3, del TUE stabilisce infatti – tra gli obiettivi dell’Unione –la stabilità dei prezzi in un’economia di mercato fortemente competitiva, e ciò lede palesemente l’obiettivo della piena occupazione sul quale la Repubblica italiana trova fondamento (art. 1 co. I e art. 4 Cost.) e verso il quale tendono (ipocritamente) addirittura anche gli stessi Trattati europei, i quali prevedono il perseguimento della piena occupazione e del progresso sociale ma all’interno della cornice (davvero assurdo!) della stabilità dei prezzi e della competitività selvaggia: in pratica, per dirla con parole povere, l’UE persegue principalmente due obiettivi: da un lato la piena occupazione e il progresso sociale, dall’altro la stabilità dei prezzi e l’economia di mercato competitiva, i quali non possono coesistere senza che l’uno non divori l’altro! Inoltre, a completamento dell’orribile quadro sin qui delineato, va sottolineato che la BCE (Banca Centrale Europea) – come previsto dal suo stesso Statuto (quindi chi ha costruito l’UE e l’euro sapeva benissimo cosa stava facendo) – NON FUNGE DA PRESTATRICE DI ULTIMA ISTANZA, cioè non può garantire – come invece hanno sempre fatto tutte le Banche Centrali prima dell’introduzione dell’euro – i debiti pubblici di ciascuno degli Stati dell’Eurozona, i quali, trovandosi espropriati di una delle funzioni fondamentali di politica monetaria ed economica, sono continuamente assoggettati al terrore del famigerato debito pubblico! Negli Stati che invece conservano la sovranità monetaria, il debito pubblico non costituisce affatto un problema perché, potendo la Banca Centrale (o il Tesoro) fungere da prestatrice di ultima istanza, essa sarà sempre in grado di “acquistare” (e quindi di garantire) l’intero ammontare del debito pubblico senza che il Governo scarichi il relativo peso su cittadini, imprese e stato sociale. Ed è proprio da questa argomentazione che nasce l’esigenza di spiegare, seppur brevemente, la funzione delle “tasse”: se negli Stati privi di sovranità monetaria l’imposizione fiscale serve principalmente per far fronte alla spesa pubblica (le cui voci più sensibili quali la sanità, gli stipendi dei dipendenti pubblici e le pensioni sono ovviamente soggetti a tagli selvaggi) e per “ripagare” – con gli interessi – i mercati dei capitali privati che hanno dato in prestito la moneta, negli Stati che godono di sovranità monetaria le tasse servono invece per non creare altro debito pubblico (ovvero per tenerlo “sotto controllo”) e a controllare la massa monetaria in circolazione, quindi il Governo può benissimo evitare di scaricare il peso del debito su popolo e welfare. Ciò premesso, la domanda sorge spontanea: chi svolge la funzione di prestatrice di ultima istanza negli Stati che hanno adottato l’euro? Ovviamente il popolo, attraverso l’aumento della tassazione, l’inasprimento dei sistemi di accertamento fiscale, l’abbassamento della soglia massima per l’utilizzo del denaro contate e soprattutto i tagli selvaggi alle voci di spesa pubblica più delicate (istruzione, pensioni, stipendi, sicurezza, sanità, giustizia etc…). Tutto ciò premesso, i 19 Stati dell’Eurozona – non potendo più creare moneta dal nulla – devono pertanto andarsi a cercare la moneta. In che modo? Prendendola in prestito dai mercati dei capitali privati (ai quali va restituita con gli interessi) e/o andando a prenderla da cittadini e imprese attraverso le tasse, la lotta selvaggia all’evasione fiscale di sopravvivenza e i tagli allo stato sociale. Inoltre, tanto per intenderci, l’euro è una moneta fiat, cioè creata dal nulla dalla BCE (nello specifico da ciascuna Banca Centrale dei Paesi dell’Eurozona ma su decisione della BCE), quindi il crimine è doppio, infatti ciascuno Stato è costretto – nonostante l’euro sia creato dal nulla – a farsi prestare la moneta dalle banche private che, prima di prestarla, valutano con la lente di ingrandimento la capacità finanziaria dello Stato richiedente a poterla restituire. Ecco perché c’è il terrore della spesa e del debito pubblico; ecco perché l’evasione fiscale costituisce un problema… tutto questo perché si è deciso di adottare l’euro, una moneta completamente sbagliata! Ma torniamo al rapporto euro/lavoro/diritti fondamentali. Ecco un esempio pratico di come questa moneta unica – per sopravvivere – imponga ai Paesi che l’hanno adottata la SVALUTAZIONE DEL LAVORO: se la Riforma Fornero (Legge n. 92/2012) – in merito ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo – rendeva il reintegro nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente licenziato un’ipotesi residuale circoscritta a sole tre circostanze (licenziamenti orali, discriminatori e nei casi di carente motivazione o manifesta infondatezza del motivo addotto), il Jobs Act (Legge delega n. 183/2014 e successivi decreti attuativi del 2015) cancella del tutto la tutela del reintegro (sia per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo che per quelli per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa), fatte salve le ipotesi meramente residuali dei licenziamenti orali, discriminatori e – solo per i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa – nel caso di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, lasciando fuori dal perimetro della tutela reale (reintegro) la sproporzionalità tra fatto contestato al lavoratore e provvedimento di licenziamento. Il Jobs Act riduce anche la forbice della tutela obbligatoria (economica), infatti, per entrambe le tipologie di licenziamento sopra indicate, la predetta tutela passa dalle 12-24 mensilità previste dalla Fornero alle 4-24 mensilità del Jobs Act! Per dirla con parole più semplici, l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato quasi interamente smantellato in risposta alle criminali esigenze di sopravvivenza di questa moneta unica sbagliata. E a farlo è stata una politica di centro-sinistra che ha trovato asilo in un Parlamento di nominati, “eletto” con meccanismi elettorali dichiarati incostituzionali (Corte Costituzionale, Sent. n. 1/2014), oltre che per volontà di un Governo presieduto dal terzo Presidente del Consiglio dei ministri consecutivo privo di qualsivoglia legittimazione democratica. La folle costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio. Possibili rimedi giuridici. In ordine a tutto quanto predetto nel precedente paragrafo, si precisa altresì che se i “principi supremi” sui quali trova fondamento il nostro ordinamento costituzionale (in parte coincidenti con i Principi Fondamentali rubricati dall’art. 1 all’art. 12 della Costituzione) non possono essere soggetti a procedura di revisione costituzionale(limite implicito al quale va aggiunto quello esplicito della forma repubblicana di cui all’art. 139 Cost.), la Parte Prima della Costituzione – rappresentando la proiezione programmatica dei Principi Fondamentali – è anch’essa sottratta da eventuale procedura di revisione, se non in melius! A tal riguardo mi preme portare all’attenzione del lettore quanto accaduto con la Legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (“Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”), attraverso la quale il Parlamento italiano (pur rispettando la procedura di revisione costituzionale dettata dall’art. 138 Cost.) ha inserito in Costituzione il vincolo del pareggio di bilancio (art. 81 Cost., quindi Parte Seconda della Costituzione e pertanto soggetta a revisione), ledendo – se non addirittura esautorando – uno dei “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale che è il lavoro (artt. 1 co. I, 4 e 35 e seguenti della Costituzione). In pratica, pur rispettando la forma (COSTITUZIONE FORMALE), il Legislatore ha palesemente violato e tradito la sostanza (COSTITUZIONE MATERIALE). Partiamo da un presupposto inconfutabile: l’art. 1, primo comma, della Carta costituzionale (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”) rappresenta la norma più importante della nostra Costituzione, il faro dell’intera legislazione, il limite supremo ad ogni sopruso, la rotta maestra che tutte le Istituzioni della Repubblica devono necessariamente percorrere sia nell’esercizio del potere legislativo ed esecutivo, sia nell’esercizio della funzione giurisdizionale! Se i Padri Costituenti decisero di fondare la Repubblica sul lavoro (avrebbero potuto fondarla benissimo, ad esempio, sulla democrazia rappresentativa o sulla lotta ai totalitarismi) vuol dire che ammettevano senz’ombra di dubbio che lo Stato possa spendere a deficit al fine di creare piena occupazione e tutelare il diritto al lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Se così non fosse, per quale motivo i Padri Costituenti avrebbero fondato la Repubblica “sul lavoro”? Per quale motivo avrebbero scritto la parola “lavoro” addirittura al primo comma del primo articolo? E’ ovvio che l’intenzione dell’Assemblea Costituente era quella di creare uno Stato democratico che garantisse a tutti la possibilità di vivere liberi dal bisogno, garantendo a chiunque un medio benessere non scaturente dalla rendita o dalla proprietà, bensì dal lavoro (sia manuale che intellettuale)! Ma la Costituente, indomita, si spinse addirittura oltre e scrisse anche sia l’art. 4 co. I e II (“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”), sia gli artt. 35 e seguenti (sulla tutela del lavoro, della libertà sindacale e del diritto di sciopero). Il “principio supremo” del lavoro, rubricato sia nei Principi Fondamentali (artt. 1 co. I e 4 Cost.) che nella Parte Prima della Costituzione (artt. 35-40 Cost.), e quindi non soggetto a revisione costituzionale (se non in melius per quel che concerne la rubricazione che va dall’art. 35 all’art. 40 Cost.), di fronte alla costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio (avvenuta – come si è già evidenziato – nel rispetto formale della procedura di revisione costituzionale dettata dall’art. 138 Cost.) perde di efficacia sostanziale! Ciò detto, il nostro Parlamento ha volutamente calpestato i principi inderogabili della Costituzione (Costituzione primigenia) rendendo la Repubblica non più fondata sul lavoro bensì sulla stabilità (si fa per dire!) dei conti pubblici, mutandone completamente – con un atto di forza formalmente corretto ma sostanzialmente illegittimo – sia l’anima che l’impianto! Ciò premesso, la costituzionalizzazione del vincolo del pareggio di bilancio è del tutto incompatibile con i “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale. L’obbligo del pareggio di bilancio, introdotto in Costituzione nel 2012, sarebbe dovuto entrare in vigore a partire dal 2014, tuttavia il Governo Renzi – in cambio delle cosiddette riforme strutturali [soprattutto della riforma del mercato del lavoro (Jobs Act) e dell’avvio a ritmi serrati della revisione della Parte Seconda della Costituzione] – ha ottenuto da Bruxelles prima un rinvio al 2018, poi al 2019. In pratica lo “schiavo”, dopo essersi flagellato da solo convincendosi che flagellarsi fa bene, e dopo aver spontaneamente rinunciato alla libertà che gli è stata donata dai suo Padri, attende consapevole e felice la data della sua “morte” ch’egli già conosce. Tutto ciò premesso, i rimedi che offre il nostro ordinamento giuridico al fine di risolvere le gravi problematiche sinora esposte sono due: a) che il Parlamento, attraverso la procedura aggravata di cui all’art. 138 Cost., provveda all’abrogazione dell’art. 81 della Costituzione con la quale esso stesso ha introdotto il vincolo del pareggio di bilancio; b)che la Corte costituzionale, chiamata secondo le norme vigenti ad esprimersi sulla legittimità costituzionale della Legge costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, dichiari l’incostituzionalità della nuova formulazione dell’art. 81 Cost. per palese violazione dei principi inderogabili della Costituzione primigenia. Alla luce di tutto quanto sinora argomentato, appare quindi sufficientemente dimostrato come la moneta unica e il pareggio di bilancio incidano negativamente (se non di peggio!) non solo nei confronti del principio fondamentale del lavoro, ma anche nei confronti della DEMOCRAZIA di tutti gli Stati dell’Eurozona. Provi uno Stato che ha adottato l’euro ad indire un referendum (anche solo consultivo) sull’abbandono della moneta unica: la democrazia sarebbe soggetta ad un attacco spietato sia da parte dei mercati e della finanza, sia da parte dell’establishment eurocratico (Istituzioni europee, media, giornalisti, politici e professoroni… quelli a libro paga del sistema). Avvocato Giuseppe PALMA

LE BOLLE PAPALI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO: SIAMO SCHIAVI DAL 1302 D. C. LO SAPEVATE?

Il quaderno di Giorgio da Batiorco su Veja del 5 aprile 2013…Vivi libero…e fai le domande che non hanno risposta. Il Sistema delle Bolle Papali costituisce storicamente il fondamento giuridico della nostra attuale schiavitù finanziaria. Perché ha senso parlarne espressamente in questo momento, in cui un papa ha appena annunciato le proprie dimissioni? Perché il precedente storico dell’evento attuale, rappresentato di Celestino V, Papa che fu costretto a dimettersi nel 1294, rappresenta l’inizio della storia che ci ha condotto fino alla critica situazione che stiamo vivendo oggi. Facciamo un passo indietro e vediamo come. Celestino V, che le note della ormai notoriamente “addomesticatissima” Wikipedia ci fanno passare per uno sprovveduto ignorante, era invece un papa che intendeva rivoluzionare la Chiesa basandola nuovamente su un cristianesimo profondo. Per passare da un cristianesimo corrotto e di potere – la “ecclesia carnalis” – ad un cristianesimo aperto, pieno di veri valori spirituali sul modello del Cristo: l’ “ecclesia spiritualis”. Tuttavia la chiesa di potere operò su più livelli per difendersi e bloccare l’opera di Celestino Quinto. E il manovratore cardinal Caetani (stranamente via Caetani è la via in cui fu trovato il corpo esanime di Aldo Moro, statista italiano che aveva osato uscire dalle righe del controllo finanziario internazionale n.d.r.) lo indusse alle dimissioni nel dicembre del 1296. Caetani poi, diventato Papa con il nome di Bonifacio VIII, lo fece imprigionare ed infine uccidere con un chiodo piantato nel cranio. La fine di Celestino Quinto e la conseguente fine dei Templari qualche anno dopo, mutarono profondamente la chiesa, facendola diventare solamente chiesa di potere e cancellando la gran parte delle correnti autenticamente spirituali. A Bonifacio VIII, uno dei papi più oscuri e controversi della storia, che Dante nell’inferno pone nella bolgia dei Simoniaci, ossia i corrotti che fanno commercio di cose spirituali, si deve la redazione della famosa bolla “Unam Sanctam Ecclesiam” che istituì il primo fondamento giuridico dell’infame sistema che ora ci ha ridotto nella schiavitù finanziaria di cui ognuno di noi, ogni santo giorno della nostra vita, si trova a patire le vessazioni. Le tre Bolle e l’istituzione dei Trust. Le informazioni che di qui in poi leggerete sono particolarmente dense e, dato che hanno il potere di trasformare letteralmente la visione della realtà che viviamo, è bene affrontarne la lettura con calma ed attenzione. Noi siamo qui essenzialmente in veste di compilatori, altri prima di noi hanno fatto un egregio lavoro di ricerca, sintesi e divulgazione. Il nostro compito nel momento attuale, è quello di distribuire questi materiali in modo che quante più persone possibile abbiano l’opportunità di comprendere che sotto l’apparenza più o meno rassicurante della realtà che conosciamo c’è qualcosa di diverso, che difficilmente potremmo immaginare.

LE BOLLE PAPALI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO. La lettura di questo articolo è impegnativa ma ha un’importanza vitale nella comprensione del mondo occidentale moderno e dei fatti storici che lo hanno portato allo status quo. Parla di come la legge universale del Libero Arbitrio nel corso della storia sia stata sfruttata e distorta dalla forze del Male per imprigionare ed asservire gli esseri umani. Se oggi le cose non vanno come vorremmo, è perchè noi abbiamo dato il nostro consenso affinchè accadessero, anche se non ne siamo consapevoli perchè questo ci è stato estorto in malafede con l’inganno. Tutto ha avuto inizio il 18 novembre del 1302, la data della pubblicazione della Bolla Papale di Papa Bonifacio VIII intitolata “Unam Sanctam Ecclesiam” le cui ripercussioni storiche fanno ancora oggi in modo che noi alla nascita diamo il nostro consenso per essere di fatto sfruttati come schiavi per tutta la vita. Armatevi di pazienza e scoprirete come…Perché stiamo diventando sempre più poveri? Perché siamo governati da un individuo non eletto o nominato da altri (non eletti di nuovo), per tassarci e versare il nostro denaro o valore equivalente direttamente nelle casse dei banchieri internazionali privati? Perché anche l’Italia ha ceduto ogni sovranità nazionale ad un gruppo di potere europeo privato? Perché questa bancarotta di tutte le economie occidentali pianificata a tavolino dai primissimi anni ’30, viene fatta col nostro consenso, di cui apparentemente non sappiamo nulla? La prima cosa da fare è capire come ottengono o come hanno ottenuto il nostro consenso e perciò, una volta compreso, saremo in grado di attuare una strategia per ritirarlo e per spezzare definitivamente questo gioco al massacro. Cos’è questo consenso? Se non partiamo da qui, prima di parlare di recupero della sovranità monetaria, di elezioni democratiche e di riforme, siamo disarmati e non ne usciremo mai. Qualsiasi cosa vorremmo o potremmo fare sarà inutile, inefficace, avremo già perso in partenza. Perciò la seconda cosa su cui ragionare è: perché per il potere mondiale chiamato anche Cabala nera è fondamentale il nostro consenso? Perché costoro sanno benissimo che esiste una legge universale, una legge suprema, che regola e domina tutto l’Universo, che va al di sopra di tutte le possibili leggi umane, che è la legge del Libero Arbitrio.

LA STORIA DEL CONSENSO E LA LEGGE UNIVERSALE DEL LIBERO ARBITRIO. Prima di parlare della storia dell’applicazione della legge del Libero Arbitrio, facciamo qualche esempio di applicazione di questa legge Universale, partendo da casi semplici, per arrivare a quelli che riguardano più da vicino ognuno di noi quotidianamente. Se tu hai firmato un contratto di mutuo con la banca, che poi ti porta via la casa in caso d’insolvenza, hai dato il tuo consenso (= libero arbitrio) a quel contratto. Nessuno ti ha mai costretto. Se poi ti rechi in tribunale per la causa di pignoramento e riconosci quegli organi legislativi e quindi quei tribunali e così facendo li legittimi, hai dato il tuo consenso (= libero arbitrio) a quelle legittimazioni.  Quindi, in parole povere, siamo noi a rinnovare il contratto con questo “sistema” ogni giorno, utilizzando quei mezzi “impropri e fraudolenti” che loro ci hanno fatto credere, con un ingegnoso mezzo-inganno, indispensabili. La prima reazione spontanea a queste affermazioni è la seguente: tutta la nostra società funziona così e nessuno di noi per vivere, lavorare, comprarsi la casa, la macchina, andare in vacanza, sposarsi, fare dei figli, educarli e farli studiare potrebbe fare altrimenti. Ma dunque è giusto, immediatamente dopo, chiedersi: “Perché funziona così?” (Domanda che ci facciamo troppo poco, quando invece è la DOMANDA fondamentale da farsi, ma siamo programmati per benino proprio per non farcela mai). Per rispondere torniamo indietro di parecchi anni, secoli, millenni…Vi esorto a leggere i libri e a guardare i video di Mauro Biglino, che ha tradotto letteralmente dall’ebraico antico, con tanto di testo originale a fronte, tutto l’Antico Testamento della Bibbia. Le sue traduzioni sono convalidate dagli anziani delle comunità ebraiche e sono divenute incontrovertibili, perché letterali e non interpretate.  Con rivelazioni davvero, davvero, davvero, davvero per menti… “aperte”.  Nel nostro caso lo studio di ciò che viene rivelato nella vera Bibbia, ci serve per capire l’importanza del “libero arbitro” nei giochi di potere e del legame indissolubile che esiste tra diritto, denaro, RELIGIONE E POLITICA. Questa incredibile scoperta, con la traduzione letterale del testi, rivela la vera natura della Bibbia, che in realtà è un Codice di Diritto Mercantile Marittimo, VALIDO, APPLICATO ANCORA OGGI, pressoché inoppugnabile in qualsiasi tribunale del mondo. Si racconta, nelle “cronache” dell’Antico testamento che il “dio” Jahvè (che si trova riportato in altri testi come Jahwe, Yahweh, Yahveh… poi vedremo chi sia questo “dio” perché non lo è affatto, ma nella traduzione “manipolata” diffusa dalla Chiesa è stato tradotto come Dio) non può obbligare Mosè a seguirlo nel cammino per la Terra Promessa (una conquista quindi, con la necessità di un piccolo esercito?). Jahvé infatti non è “Dio”, ma è precisamente descritto come un ALTO E POTENTE “Eloah” (da cui poi deriva il termine Allah).  È quindi UNO DEI TANTI Elohìm (plurale di Eloah), la stirpe che governava quei territori, forse discendente da un altro pianeta (molto probabile, da verificare, ma non è essenziale per noi adesso…). Una civiltà rappresentata da una gerarchia di individui di cui la Bibbia ci dà conto quando distingue Elohìm, Malachìm, Nefilìm, Anakìm, Refaìm, Emìm, Zamzummìm… Individui che si sono divisi il controllo del pianeta, come ci narrano il Libro della Genesi ed il Deuteronomio, combattendo tra di loro per affermare ed incrementare il loro potere utilizzando i popoli sottomessi. Sta di fatto che di questi Elohìm ce n’erano tantissimi, appunto, sparpagliati sulla Terra e organizzati in accampamenti (formati da due settori in genere, uno per l’autorità, l’Eloah, e l’altro per le “truppe”…angeli fiammeggianti e dotati di spada?). N.d.r – Conferma esatta di queste cronache si trovano anche nei testi sumerici antecedenti alla Bibbia stessa. Questo Jahvè, anche se dotato di un arma potentissima, che dalla dettagliatissima descrizione biblica sembrerebbe un’arma al plasma (Arca dell’Alleanza?), capace d’incenerire ogni cosa, non poteva comunque obbligare Mosè a seguirlo. Fu costretto perciò a stipulare “un’alleanza” con il popolo ebraico, con delle regole e delle clausole precise reciproche (io ti dò tanto, tu mi ridai tanto), tra le quali il sacrificio del primogenito di ogni coppia ecc… di cui ormai sappiamo bene la “versione” che è arrivata fino ai nostri giorni. Sempre nella Bibbia si racconta che quando decisero quindi di seguire Jahvè e furono condotti alle porte della Terra Promessa, si riunirono in assemblea per decidere se continuare a seguirlo o meno, o se ritornare sotto i vecchi Elohìm, o se affidarsi ai nuovi Elohìm che comandavano in questa nuova terra in cui erano arrivati. Questo era l’o.d.g dell’assemblea. Così, ancora una volta col loro libero arbitrio decidono di seguire Jahvè, che con la sua potentissima arma scatena la carneficina e distrugge tutte le città che incontrano nel loro cammino, uccidendo uomini, donne, vecchi e bambini (tra le quali Sodoma e Gomorra… e ci sono aneddoti significativi sulla “scelta dei giusti” da salvare dalla distruzione da parte di Jahvè e l’origine della circoncisione, oltre al mito negativo della sodomizzazione praticata in quelle regioni). Tutta questa lunga premessa, apparentemente divagatoria, oltre a segnalare una lettura diversa della Bibbia e quindi delle nostre origini e della storia dell’Umanità, serve per definire meglio la necessità del Potere di avere il consenso, perché possa perdurare e agire. Ma serve soprattutto per porre le basi del primo legame indissolubile, come dicevo, tra la legge del Libero Arbitrio, la religione, la politica, il Codice di Diritto Mercantile Marittimo, il denaro e quel che viviamo oggi. Ovviamente, come ogni regola e legge ha le proprie eccezioni, che in questo caso sono i massimi livelli di “disonore” che l’umanità ha raggiunto nel disattendere la legge del Libero Arbitrio:

– la riduzione in schiavitù degli africani, in secoli abbastanza recenti, perché non hanno ricevuto il beneficio di essere avvisati e quindi di scegliere che reazione avere (che è alla base di questa legge, come abbiamo detto);

– senza andare troppo lontano, la strategia della tensione, qui in Italia, negli anni di piombo, perché le stragi sono state fatte in modo totalmente disonorevole.

Ma questo è il comportamento più autodistruttivo e meno sostenibile che il potere possa compiere e l’élite lo sa benissimo. Perché perfino il peggiore dei satanisti massoni, che si appresta ad effettuare un sacrificio umano – la cosa più aberrante a cui noi umani comuni possiamo pensare – è obbligato a seguire queste regole e quindi a scegliere la prima vittima che si offre volontariamente, spinta da un’inspiegabile attrazione. Oppure, un esercito che sta per invadere una nazione straniera è obbligato a dare un avvertimento allo Stato che sta per mettere a ferro e fuoco, spiegando tutte le proprie richieste. Il governo dello Stato assediato ha il libero arbitrio di rispondere sì o no. Orribile o meno, c’è stato comunque un preavviso, quindi l’onore è stato mantenuto. Abbiate pazienza, non stiamo divagando, tutto serve per arrivare al punto focale, perché comprendere l’universalità della legge del consenso, è alla base di ciò che viviamo oggi, e andando avanti sarà dimostrato che l’élite mondiale dominante sta seguendo questa legge fin dall’inizio e la mette in pratica in ogni momento e in ogni aspetto della nostra vita. Se non la conoscessero così dettagliatamente e se non la seguissero così scrupolosamente, il loro potere non sarebbe durato fino ad oggi. Ecco perché Jahvè aveva bisogno del consenso per agire, ecco perché, i governanti oggi, ci fanno votare. Poiché hanno quindi bisogno assoluto del nostro consenso, come fanno ad aggirare il sistema (rendendolo però meno chiaro e decifrabile possibile) e a preservarlo nei secoli? Hanno ideato un sistema perfetto che funziona secondo i principi descritti precedentemente: “avvertimento” e “silenzio assenso”; se non mi rispondi vuol dire che sei d’accordo e quindi peggio per te. Facciamo un esempio banale che capita a tutti noi: quando la banca cambia le condizioni e lo fa spessissimo, è obbligata a mandarti un documento di trasparenza bancaria – avvertimento – che credo pochissimi di noi leggano (purtroppo!). Se tu non rispondi è silenzio assenso. Tutta la storia del nostro mondo da millenni funziona secondo questo principio.

LE LEGGI CANONICHE E LE BOLLE PAPALI. Per capire come funziona questo principio, che regola la nostra intera vita abbiamo bisogno di fare ulteriori premesse. Cosa sono le leggi? Tutte le leggi derivano da Canoni, ovvero dal Diritto Canonico, perché tutte le leggi, direttamente o indirettamente, hanno a che fare con la Legge Divina ed Ecclesiastica. Ma i Canoni in particolare sono norme o principi che traggono valore dal fatto di non essere mai stati contestati (tacito assenso). Ecco alcuni canoni, norme o principi, universalmente riconosciuti, perché nessuno ha mai detto che non lo debbano essere (molti sono per altro condivisibili perché sono alla base della civile convivenza).

1) tutti debiti devono essere pagati;

2) tutti i contratti devono essere onorati;

3) tutte le controversie portate di fronte alla legge, devono essere risolte di fronte alla legge (ovvero, se tu ricevi un’accusa, per quanto infondata, per quanto ingiusta, per quanto immorale, per quanto illegale non puoi ignorarla. E tuo l’onere di dimostrare l’infondatezza di quella accusa davanti alla legge di fronte alla quale è stata portata);

4) qualsiasi affermazione, se non viene contestata diventa valida. (Importantissimo punto! Ricevi una multa, una sanzione ingiusta, viene fissata un’udienza e tu non ti presenti, cavoli tuoi, sarà chi di dovere a decidere per te e senza di te).

• Nota al punto 4): il 99% delle procedure giudiziarie si basa sulla presupposizione di qualcosa, ma il 99% degli esseri umani non si preoccupa di comprendere quali siano queste presupposizioni, o non si preoccupa di rifiutarle. In altre parole il Sistema è ancora adesso basato sul sacramento della confessione, proprio come ai tempi dell’Inquisizione, cioè è indispensabile che tu accusi te stesso. In mancanza di questo atto di auto accusa non si può procedere. Il Diritto è gerarchico, discende sempre e comunque dal Diritto Divino: sopra a tutto c’è il Diritto Divino che, come tale, discende dal Divino Creatore, poi c’è il Diritto Naturale e poi il Diritto Positivo (leggi nazionali, internazionali, amministrative, private ecc…), il Diritto Positivo appartiene al gradino più basso nella scala gerarchica.

• Nota al punto 5): ogni proprietà costituisce un diritto associato ad un trust, cioè ad un sistema fiduciario. I potenti, l’élite mondiale, sanno da sempre che la proprietà è un concetto fittizio. Infatti come puoi possedere un pezzo di terra?

La terra, i fiumi, i laghi, i mari appartengono al Pianeta. Ma anche una casa; come puoi fisicamente possedere una casa o un’automobile? Sono tutte cose per cui esistono “titoli di proprietà” e sono titoli fittizi, costituiscono cioè diritto d’uso della casa, dell’automobile e della terra finché sei vivo. Quando sarai morto, cosa succederà a quella casa, a quell’automobile o a quel pezzo di terra, se non esistono disposizioni testamentarie, non dipende più da te. Così la casa, intesa come muri, mattoni e intonaco e la casa intesa come titolo e cioè come trust, o come sistema fiduciario, sono quindi DUE COSE BEN DIVERSE. Il sistema fiduciario, il titolo, prevede tre parti in gioco: un esecutore, un amministratore e un beneficiario. L’esecutore è sempre quello che “concede il titolo” e in questo caso è sempre lo Stato, l’amministratore è quello che amministra il titolo (catasto o Comune), il beneficiario, in questo caso sei tu, cioè il cosiddetto “proprietario” di quel bene. Fin qui tutto più o meno normale, è tutto chiaro e non c’è nulla di strano; rimane da capire se e come, questo sistema, venga usato contro di noi. Facciamo un enorme passo indietro nel tempo. L’attuale sistema, che è basato sul concetto di proprietà, è stato creato dagli antichi romani, i quali hanno disseminato il loro “diritto” in giro per il mondo e sappiamo come (è un karma pesantissimo che noi “italici” dobbiamo espiare nei confronti di tutto il mondo). Ogni terra conquistata e distrutta veniva iscritta in un “registro” conservato a Roma e ogni nuova terra dell’Impero poteva essere di proprietà solo di un cittadino romano.  Ancora oggi quindi noi viviamo in un sistema che si tramanda dall’esistenza dell’Impero Romano che di fatto, non è mai finito.  Con le invasioni longobarde, Papa Leone III, incorona Pipino il Breve come Re dei Franchi e poi Carlo Magno come Imperatore del Sacro Romano Impero. Quindi il sistema che abbiamo oggi nell’organizzazione della proprietà e del diritto e quindi del denaro e quindi della politica, nasce nel 1302 (il 18 novembre), che è la data della pubblicazione della Bolla Papale scritta da Papa Bonifacio VIII, che aveva come titolo “UNAM SANCTAM ECCLESIAM”. Bonifacio VIII è considerato uno degli uomini più corrotti, malvagi e potenti della storia della Chiesa e del mondo, tanto che lo stesso Dante lo mette nei gironi più bassi dell’Inferno. Questa Bolla Papale determina il primo sistema fiduciario ancora valido oggi. Bonifacio VIII, in questa Bolla, afferma che Dio aveva affidato tutti i titoli e le proprietà della Terra al Vaticano. Questa affermazione non venne mai contestata e quindi, in base al punto 4) del Canone di Diritto (vedi sopra) divenne valida. Il Vaticano perciò, nomina l’esecutore, l’amministratore e il beneficiario di questo sistema fiduciario. L’Esecutore è l’Ordine Minore dei Francescani unito con L’Ordine dei Gesuiti (braccio armato?) ed è ben visibile nello stemma sulla pubblicazione dell’enciclica. L’amministratore è il Papa e i beneficiari di questo trust sono tutti gli uomini del mondo. In pratica e tradotto in altri termini, la Bolla Papale del 1302 usa la metafora del Diritto Marittimo e dell’Ammiragliato (Bibbia) affermando che l’Unam Sanctam Ecclesiam e quindi la Prima e Unica Santa Chiesa è l’Arca di Noè, perché mentre tutto il mondo era sommerso dalle acque, l’unica cosa che si elevava al di sopra era l’Arca. Quindi tutti gli esseri umani, a partire da quel giorno, certificato dalla Bibbia come Codice di Diritto Nautico, sono dispersi in mare. E il Papa dunque reclama tutta l’autorità, tutta la proprietà, sia spirituale che temporale, fino a quando i “dispersi” torneranno a reclamare i loro diritti. Cosa che finora, dal 1302, non è mai avvenuta, perché tutte le Nazioni si basano su quel sistema giuridico. Questo Diritto proclamato da Papa Bonifacio VIII si basa per Diritto Divino, ecco perché non possiamo parlare di politica senza parlare di religione o di economia e finanza senza parlare di religione. Il secondo trust, creato sempre in Vaticano, risale al 1455, cioè circa 150 dopo la Bolla di Bonifacio VIII (quindi ancora mai contestata dopo 150 anni). Questa seconda Bolla è di natura testamentaria, cioè il Papa dispone, al momento della sua morte e della morte dei futuri Papi, come deve funzionare il diritto d’uso di tutti i privilegi e di tutte le proprietà derivanti dalla Bolla precedente di Bonifacio VIII. Testamento di cui l’esecutore è la Curia Romana, l’amministratore è il Collegio dei Cardinali e il Beneficiario, questa volta è il Re, sulla terra di proprietà del Papa. Quindi in due parole Dio ha dato tutto il mondo al Papa e il Papa concede pezzi di questo mondo ai Re. Per cui da quel momento i Re del mondo hanno un mandato divino. Questa enciclica del 1455 (l’8 gennaio) si chiama “ROMANUS PONTIFEX” e fu emanata da Papa Niccolò V. Cito un breve estratto significativo: “Poiché abbiamo concesso precedentemente, con altre lettere nostre, fra le altre cose, piena e completa facoltà al Re Alfonso V di invadere, ricercare, catturare, conquistare, soggiogare tutti i Saraceni e qualsiasi pagano e gli altri nemici di Cristo, ovunque essi vivano, insieme ai loro regni e ducati, principati, signorie, possedimenti e qualsiasi bene, mobile e immobile, che sia di loro proprietà e di gettarli in schiavitù perpetua e di occupare, appropriarsi e volgere ad uso e profitto proprio, signorie, possedimenti e beni, in conseguenza della garanzia data dalla suddetta concessione, il Re Alfonso V (di Portogallo n.d.r), o il detto infante a suo nome, hanno legittimamente e legalmente occupato isole, terre, porti , acque e le hanno possedute e le posseggono e ad essi appartengono e sono di proprietà “de jure” del medesimo Re Alfonso V e dei suoi successori, possono compiere e compiano questa pia e bellissima opera, degna di essere ricordata in ogni tempo, che noi essendo da essa favoriti per la salvezza delle anime e il diffondersi della fede e la sconfitta dei suoi nemici, consideriamo un compito che concerne Dio stesso, la sua fede, la Chiesa Universale, con tanta maggiore perfezione, in quanto rimosso ogni ostacolo, diverranno consapevoli di essere fortificati dai più grandi favori e privilegi concessi da noi e dalla Sede Apostolica.” Appena 30 anni dopo circa, nel 1481 (il 21 giugno), viene emanata la terza Bolla, il terzo trust, o diritto fiduciario da Papa Sisto IV, chiamata “AETERNIS REGIS CLEMENTIA”, che si diversifica dalla Bolla precedente di poco, in quanto il “bene” concesso ai Re non è più la terra, ma sono gli esseri umani che abitano quella terra, che da quel momento vengono considerati incompetenti, incapaci e dunque soggetti ad amministrazione coatta. In realtà questa Bolla di Sisto IV realizza la visione illuminata di Bonifacio VIII per cui gli esseri umani sono dispersi in mare e quindi nulla ci appartiene, siamo in bancarotta, perché non siamo mai tornati a reclamare i nostri averi e diritti e quindi è lo Stato che si deve prendere cura di noi per il nostro bene. Questo è il sistema in vigore ancora oggi. [piccola postilla: gli originali delle Bolle del 1302, del 1455 e del 1481, non sono visibili, questo perché fino al XVIII secolo, il Vaticano scriveva le proprie Bolle non su carta, considerata un mezzo privo di vita e quindi privo di valore: a quei tempi (solo due secoli fa!) un documento per essere valido doveva essere scritto su un materiale vivente. Era perciò firmato con il sangue ed era scritto su una pergamena di pelle umana. Parentesi nella parentesi: la recentissima firma della Regina Elisabetta del – criminale! – trattato di Lisbona, è stata fatto su una pergamena di capretto, poiché la Regina, come beneficiaria di un diritto divino, non può firmare un documento “morto”. Non è tutto, la storia notifica, che le Bolle Papali erano scritte su pergamene di pelle di bambini, questo spiegherebbe perché sarebbe imbarazzante per il Vaticano mostrare gli originali.] Approfitto di questa piccola interruzione del racconto per sottolineare che non c’è nessun riferimento negativo a tutte le persone di Buon Cuore (con la B e C maiuscole!) che seguono e vivono secondo l’etica giusta e generosa della Chiesa Cattolica. Il riferimento semmai è solo rivolto a quella “setta” che gestisce il mondo all’interno della Città del Vaticano. E sarebbe importante invitare i Veri Cristiani che si riconoscono in un Dio giusto e misericordioso, a pretendere, indagare e far luce su quello che avviene all’interno di quelle mura. Altrimenti, davvero, non ne usciremo mai!

COSA SIAMO NOI E COSA È LA REPUBBLICA ITALIANA. Nel  1933 c’è stata la peggiore bancarotta concordata, ormai famigerata: furono azzerati i debiti e fu anche proibito il possesso dell’oro da parte dei privati (vi ricordate “l’oro alla patria”?) e gli Stati hanno conferito tutto il proprio oro, insieme a quello confiscato e raccolto, in un unico fondo globale, per custodire il quale è stata fondata la BIS, Bank for International Settlements (Banca per le Transazioni Internazionali) — che darà il via ad un’altra sconcertante storia, come il Sukarno Trust e le denunce attualissime tuttora in corso alla Federal Reserve, (ma ora non è il caso di parlarne, altrimenti rischiamo di mettere troppa carne al fuoco) — che ha sede a Basilea, in Svizzera e fu fondata e controllata dai Gesuiti e dai Cavalieri di Malta. Come per tutto il resto, è facilmente verificabile e certificato, sempre per la legge del Libero Arbitrio. Vi esorto a fare tutte le verifiche possibili e se vi va anche a fare ricerche su quel che sta succedendo con il fondo di oro globale e le richieste di risarcimento alla Federal Reserve. Ma, sempre nel 1933 (udite, udite!) le Nazioni diventano Società di Diritto Privato, registrate presso la SEC (Security Exchange Commission) con sede a Washington D.C., che è l’equivalente della nostra CONSOB (organismo che controlla la Borsa). Queste Società di Diritto Privato chiamate Nazioni, apparentemente pubbliche e repubbliche, ma in realtà privatissime, in base alle tre Bolle Papali, possiedono oggi il DIRITTO DI PROPRIETÁ sulle persone nate in quello stato. La prima istintiva reazione è: non l’Italia! Che è una Repubblica fondata sul lavoro e che ha la sua meravigliosa Costituzione! Purtroppo invece è vero. Andate a controllare voi stessi (cliccate qui → www.sec.gov): c’è la registrazione e il numero di registrazione di “ITALY REPUBLIC OF” – Company Registration Number 0000052782, con tanto di documenti di quotazioni di borsa, cessioni di quote ecc…Il “Business Address è: “Ministero dell’Economia e delle Finanze – Via XX Settembre, 97 – Roma” e il mailing Address è: “C/O Studio Legale Bisconti, Via A. Salandra, 18 – Roma”. Quindi l’Italia NON è una Repubblica libera e pubblica, ma una Private Company e lo Stato possiede il diritto di proprietà delle persone (noi tutti) nate sul suo territorio. Ma abbiamo detto che la proprietà costituisce un diritto associato ad un trust, un atto fiduciario. Perché i potenti sanno che la proprietà è un concetto fittizio e quindi anche le persone puoi possederle solo con un titolo di proprietà che conferisca il diritto d’uso. Al momento della tua nascita, senza avvisarti, è stato creato un trust, cioè un sistema fiduciario, che ha per oggetto la tua esistenza in vita. E i tuoi genitori hanno avvallato e firmato questo trust (io ho tre figli e mi sento morire per averlo fatto tre volte!) senza essere stati avvisati. Infatti è proprio negli anni ’30 che diventa obbligatorio, guarda caso, registrare le nascite, appropriandosi così del consenso, anche se in questo caso senza essere stati doverosamente “avvisati”. Ecco perché questo sistema è, in parte, fraudolento. In realtà il Certificato di Nascita è un avvertimento, perché è la costituzione di una personalità fittizia, che non appartiene a te, ma a loro. Infatti se erroneamente si potesse pensare che il Certificato di Nascita appartenga a noi, basterebbe provare ad andare in una qualsiasi anagrafe di competenza a chiederne l’originale: possiamo averne una copia, un estratto, ma MAI l’originale. Come a dire che dal momento della creazione del Certificato di Nascita esistono due entità (ricordate la casa di mattoni e il titolo di proprietà su quella casa che ha bisogno di un esecutore, di un amministratore e di un beneficiario?), che sono l’essere umano in carne ed ossa e la persona, cioè un intermediario fittizio o una finzione giuridica, quindi un trust. Questo trust è creato secondo le Leggi Marittime e dell’Ammiragliato (Bibbia) che trascendono sempre le leggi delle varie nazioni e che è la giurisprudenza segreta dei potenti e dell’élite. Di questo trust che viene creato al momento della nascita, sulla tua esistenza in vita, l’esecutore è sempre un organo dello Stato, ma chi è il beneficiario di questo certificato di nascita?  È la Società di Diritto Privato chiamata Repubblica Italiana (un’azienda quindi). Ma beneficiario di cosa? È beneficiario di un bond, di un titolo di possesso, o di una quota societaria che attualmente viene stimato approssimativamente intorno ai 2 milioni di dollari. In pratica lo Stato Italiano crea alla tua nascita due milioni di dollari a mezzo di un bond o titolo e il collaterale di questo bond è la tua esistenza in vita, che significa: produttività, forza lavoro (sempre meno pagata e tutelata così ci guadagnano di più), valore reale! L’equivalenza perversa è: nascita = creazione di un bond e di denaro fittizio = collaterale la tua esistenza in vita e quindi il tuo futuro lavoro (pagato pochissimo se possibile e come stanno evidentemente facendo) = schiavitù! Il “tuo bond” è depositato alla S.E.C, come security, o titolo fiduciario ed entra a far parte del patrimonio di quella Private Company registrata in modo ingannevole come Repubblica Italiana. Per favore verificate tutto ciò che vi è stato detto, bastano pochi secondi su Google. Ma manca ancora la terza parte per dar vita a questa finzione giuridica: l’amministratore, quello che per contratto (trust o certificato di nascita in questo caso) si accolla l’obbligo di prendersi cura del “bene”. Chi è che ha questo ruolo? Ogni qual volta, qualsiasi autorità (dal vigile urbano, al giudice della Corte Costituzionale) ti domanda “è lei Pinco Pallino?” e tu rispondi “sì”, in quel preciso momento ti sei autonominato amministratore di quel trust.  Sei quindi caduto nel tranello in cui ti hanno messo fin dalla nascita, perché nella finzione hanno bisogno che tu ti creda l’amministratore di quella “esistenza in vita”, nella realtà invece, tu e quel trust che porta il tuo nome siete due entità completamente distinte e separate.  L’essere umano in carne ed ossa si scrive con le iniziali maiuscole e le altre lettere minuscole (come ci hanno sempre insegnato anche a scuola), la persona giuridica invece, fittizia, si scrive con tutte le LETTERE MAIUSCOLE. Controllate tutti i vostri documenti d’identità, le comunicazioni bancarie, le notifiche erariali, il tesserino sanitario ecc…Se provaste ad andare per esempio in banca e chiedeste all’impiegato di scrivere il vostro nome con le iniziali maiuscole e il resto minuscolo, se è un ignorantone ci proverà, ma sarà costretto a rispondervi che è impossibile perché il “sistema” non lo permette.  Quindi, ricapitolando: se il 99% del diritto è basato sulla presupposizione, si presuppone che qualcosa sia vero e nessuno mette in discussione quella presupposizione perché il sistema è ancora basato sul meccanismo della “confessione”, esattamente come ai tempi dell’Inquisizione; per funzionare il sistema ha bisogno che tu accusi te stesso e quindi tutto è basato sul tuo consenso, sul tuo libero arbitrio! È necessario infatti che tu accusi te stesso, ma di cosa? Del “peccato originale”. E che cos’è? La frode! L’utilizzo del nome che non ti appartiene, quel nome che da quando sei nato è stato scritto a lettere maiuscole e che è una proprietà intellettuale dello Stato, che ti ha messo in condizioni di usare fraudolentemente. Nel momento in cui lo usi dichiari: che sei nato privo di diritti, che sei in bancarotta, perché la tua vita, il tuo nome e la tua esistenza sono gestiti da altri che non sei tu; sei, perciò, da quando sei nato, in un regime di amministrazione controllata, dove il tuo nome non appartiene a te ma ad altri. Ma è ancora peggio di così! Secondo il Codice dell’Ammiragliato, o Codice Marittimo (Bibbia), sei nato disperso in mare, perché questo dicono le Bolle Papali, sulle quali si basa tutto il sistema; tu, al momento della nascita e attraverso il canale uterino, sei caduto in acqua e sei disperso in mare e non sei mai riuscito a raggiungere la terra ferma, in modo da poterti alzare in piedi e affermare “io sono un essere umano libero davanti a Dio”. Poiché le Bolle Papali si giustificano secondo mandato divino. Perché sono loro che usano la parola Dio, sono loro che hanno chiamato in causa Dio, sono loro che hanno tradotto la Bibbia con il termine Dio, che originariamente non viene mai citato (a proposito la Bibbia diventa Codice di Diritto Nautico sostituendo la parola “peccato” con “debito” n.d.r).  Il diritto quindi è sempre di provenienza divina, noi siamo perciò creature “divine” (vedi. vera traduzione della Bibbia) e loro lo sanno benissimo; non possono quindi creare un diritto fittizio, hanno assoluto bisogno di far discendere il loro diritto da Dio. Quindi loro usano questo Dio (diritto) e se tu usi il loro stesso Dio, ti sei autodefinito incapace, disperso, senza diritti. Pensate la perversione, se tu utilizzi quello che loro ti hanno detto, imposto di utilizzare, dichiari e confermi di essere incapace di prenderti cura di te stesso. Quindi, ricapitoliamo: usano una Società di Diritto Privato, quotata, fingono che sia uno Stato, un ente pubblico, in realtà è privatissimo, e lo usano per fare business (quattrini, denaro, profitto! E ci chiedono anche di pagare le tasse per mantenere una Società di Diritto Privato che non è nostra!) attraverso la tua esistenza, oggetto di quell’entità fittizia scritta tutta a lettere maiuscole, quotata alla S.E.C. di Washington D.C. Il concetto è, quindi, che se tu accetti questo presupposto, ti autodefinisci incapace, bisognoso di essere amministrato in modo coatto, perché oltre ad essere disperso in mare, quindi senza diritti e in bancarotta (non hai mai reclamato ciò che è tuo), non sai neanche chi sei! Per assurdo, ogni autorità, infatti, deve chiederti chi sei, altrimenti non ti può toccare nemmeno con un dito. Non avrebbe la giurisdizione per farlo (si parla di diritto amministrativo, tributario, civile ecc… se uccidi qualcuno, quindi codice penale, è un po’ diverso, ma non troppo…). I nostri tribunali infatti sono tribunali di diritto privato, quindi tribunali aziendali! Stessa cosa vale per il denaro, le banconote “euro”: siamo stati avvertiti, sopra c’è scritto “proprietà della Banca Centrale Europea”, non è nostro è della BCE, ma se noi accettiamo di usarlo, come per il nome fittizio, ci autoproclamiamo incapaci e incompetenti ai loro occhi (disperso in mare, ecc…). Hanno creato quindi un sistema di governo chiamato Cosa Pubblica, che invece è privatissima, che include partiti, Parlamento, Governo, elezioni e se tu accetti di partecipare a questo gioco ti autodefinisci di nuovo incapace e incompetente (disperso in mare, ecc…), bisognoso di amministrazione coatta.  A fronte di questo lungo e, immagino sconvolgente racconto per molti di voi, la prima riflessione è: Come facciamo a cambiare in meglio una cosa che non ci appartiene affatto? Ma del resto il nostro inconscio ce lo dice, nelle ultime amministrative ha votato il 50% degli aventi diritto; una persona su due considera offensivo per la propria intelligenza andare a votare. Quindi a questo punto, se è tutto chiaro, gli interrogativi sono solo due:

1. Cosa possiamo fare per sottrarre il nostro consenso a questa frode che ci vede protagonisti “involontari” fin da quando siamo nati? “Cosa possiamo fare” comprende il salvare il salvabile, dai pignoramenti per esempio, da Equitalia, perché non siamo noi, persona fisica in carne ed ossa a dover pagare le tasse, ma è l’entità fittizia che noi legittimiamo nel momento che la usiamo fraudolentemente (lettere maiuscole). Quindi, in modo individuale possiamo utilizzare noi le loro stesse leggi, Codice Nautico e dell’Ammiragliato (Bibbia) in maniera tale che siano loro a cadere in disonore? Conoscendo la legge possiamo fare qualcosa?

2. Cosa possiamo fare invece collettivamente per creare un’alternativa a questo sistema marcio, fraudolento che è stato creato a loro favore a nostro totale sfavore? Come possiamo modificarlo se non ci appartiene? Intanto, mentre ci pensiamo, possiamo soltanto smettere di partecipare. Concludendo, i nodi cruciali sono due: il denaro e come si prendono le decisioni, che è sinonimo di politica. Ma c’è un punto in più che è diventato chiarissimo: non si possono trattare separatamente denaro (economia, finanza, crisi ecc…), la politica, cioè il modo in cui si prendono le decisioni, la religione e il diritto, perché per i potenti, l’élite, sono la stessa identica cosa.

INDIANI D’AMERICA: “NOI NON DERIVIAMO DALLE SCIMMIE, MA DALLE PLEIADI…” Articolo di Bisonte Che Corre (Enzo Braschi) su “Il Mondo alla rovescia” del 31 maggio, 2016. Gli Indiani e la Conoscenza perduta sulle origini dell’uomo a causa dei colonizzatori criminali europei. I Cherokee (Ani Yonwiyah) ovvero “Il popolo capo” è antico come le pietre. “Ne ho conosciuti alcuni – biondi e con gli occhi azzurri – durante la "Danza del Sole" del 1998, nella Riserva dei Lakota Sicangu di Rosebud, in Sud Dakota. Erano un padre e due figli”. “Sembrate inglesi, scozzesi, non so… ” dissi, “ma non Cherokee”. I tre risero: “Veniamo da Atlantide, e prima ancora dalle Pleiadi.” “Raccontami” dissi. Il ragazzo spiegò: “La nostra lingua, la sua radice originaria, oggi parlata da un’esigua minoranza di ultra ottantenni, si chiama Elati. Io non la so parlare, qualcuno ancora la ricorda, ma contiamo quel qualcuno sulla punta delle dita. Si tratta di suoni crescenti e decrescenti che vengono pronunciati senza quasi muovere la bocca. Ciò che ne scaturisce possiede una bellezza e una musicalità del tutto particolari, considerato che si tratta di una lingua gutturale”. “Più che di parole si deve parlare di suoni di potere che racchiudono una forte energia spirituale. Per i Cherokee parlare significa infatti essere più che comunicare. Questa lingua, Elati, è detto "il linguaggio degli Antenati" o "il linguaggio delle Stelle", un modo di esprimersi che i vecchi uomini sacri della nostra gente consideravano provenire da lassù, dall’alto. La tradizione orale della tribù puntualizza infatti che i Cherokee arrivarono sulla Terra 250.000 anni fa dalle Pleiadi, che nella nostra antica lingua vuole dire per l’appunto Antenati.” “A tal proposito vorrei precisare che l’uomo non discende affatto dalla scimmia ma dal Popolo delle Stelle. Nella cosmologia cherokee, la Terra è detta il Pianeta dei Bambini, ovvero il Pianeta dei Figli delle Stelle.” “Il sapere della nostra antica Società dei Capelli Intrecciati ha inizio al tempo in cui esistevano dodici pianeti abitati da esseri umani, i cui progenitori si riunivano su un pianeta chiamato Osiriaconwiya, vale a dire il quarto pianeta della costellazione del Cane Maggiore, cioè Sirio. Su quel pianeta grandi sapienti si trovarono un giorno a discutere delle sorti dell’Ava Terra, la nostra terra, detta in lingua cherokee Eheytoma, il pianeta dei figli, ovvero il tredicesimo pianeta”. “Poiché il nostro mondo era il meno evoluto rispetto agli altri, quei dotti stabilirono di trasferire tutta la loro conoscenza all’interno di dodici teschi di cristallo, che chiamarono Arca di Osiriaconwiya, che portarono sulla nostra Terra, affinché un giorno potessimo consultarli e sapere tutto delle nostre vere origini”. “I nostri avi fecero di più: aiutarono infatti i loro figli a fondare quattro civiltà: Lemuria, Mu, Mieyhun e Atlantide, servendosi della conoscenza dei teschi, per dare avvio alle grandi scuole del mistero, veri centri di sapienza arcana, e alle segrete società di medicina.” “Queste informazioni giunsero circa 750.000 anni fa e cominciarono a diffondersi sul nostro pianeta tra i 250 e i 300.000 anni fa. I dodici teschi corrispondenti ai dodici pianeti, venivano sistemati in cerchio attorno a un tredicesimo teschio di ametista di dimensioni più grandi, che raccoglieva la consapevolezza collettiva di tutti quei mondi”. Ma poi…arrivarono Cortès e i suoi assassini (i nostri antenati europei) che interruppero lo sviluppo della conoscenza. “Coloro che furono incaricati di compiere il viaggio sulla Terra per farci dono dei teschi di cristallo furono detti Olmechi. Questi passarono quella conoscenza ai Maya, quindi agli Aztechi e infine ai Cheorkee e a tutti gli altri indiani del Nord America. Pare che l’Arca si trovasse ancora a Teotihuacan, allorché arrivarono Cortès e i suoi assassini che interruppero lo sviluppo della conoscenza” concluse il Cherokee. La cosa non sembra essere priva di fondamento: risulta infatti che Cortès venne a conoscenza di qualcosa di potentemente misterioso e che arrivò quasi a impossessarsi dell’Arca, grazie all’aiuto di un traditore; ma i sacerdoti giaguaro e i guerrieri aquila riuscirono a trarla in salvo. Alcuni teschi di cristallo vennero nascosti in America Meridionale, altri andarono dispersi nel mondo. La Terra attenderebbe che la conoscenza sia finalmente svelata al genere umano attraverso la riunione dei tredici teschi di cristallo. Secondo i Lakota Sioux, la Prima Sacra Pipa fu portata loro in tempo remoto da Ptesan Win, “Donna Bisonte Bianco”, una donna proveniente dal cielo, probabilmente dalle Pleaidi. Tayamni è il nome che i Lakota danno a una costellazione che equivale a un bisonte bianco nel cielo. Tayamni è infatti formato dalle Pleiadi come testa, le tre stelle della cintura di Orione come spina dorsale, le stelle Betelgeuse e Rigel come costole, e Sirio come coda. Unendo tutti questi punti, in cielo si forma l’immagine di un bianco bisonte…Miti, favole. Miti e favole come sempre, vero? Ma certo. A proposito di “fantascienza”… perché non vi riguardate l’ultimo film di Indiana Jones relativo ai tredici teschi di cristallo? Fantasia, miti e favole come sempre. Ma la NASA e il potere occulto amano la fantascienza, vi pare?

Un Mondo Impossibile ..."“Contra factum non valet argumentum”. Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. In questo blog si vuole commentare ed analizzare l'attualità e la storia ma sopratutto scoprire ed evidenziare le ipocrisie, le falsità ed i soprusi di questo mondo appunto ormai impossibile da vivere, scrive martedì 19 gennaio 2016 Arturo Navone su  “Un Mondo Impossibile”. “La storia ha due volti: quello ufficiale, mendace e quello segreto e imbarazzante, in cui però sono da ricercarsi le vere cause degli avvenimenti occorsi”. Honorè de Balzac. Propaganda, Stereotipi e Lavaggio del Cervello, l'Allontanamento dalla Soluzione e come Ritrovarla. Carl Gustav Jung e gli Indiani d'america ... Il delirante percorso della civiltà occidentale e dell'uomo bianco come è noto ha causato danni incalcolabili, dove sempre per interessi reconditi ma sempre più chiari ci viene raccontato che siamo vicini al punto di non ritorno che nulla si può fare. E' un chiaro esempio di propaganda e lavaggio del cervello, che ho già evidenziato in altri articoli, studiato a tavolino che aggiunto a degli stereotipi fa il gioco di chi ora lasciamo comandare. Un esempio ne sono proprio i pellerossa che ci han voluto far credere essere dei demoni quando invece lo eravamo noi, è il nostro mondo, quello che è nero lo dipingono per bianco e viceversa, con l'uso poi dei vari sistemi ormai fin troppo conosciuti, cinema, televisione, media, opinionisti, influencer, pubblicità e messaggi subliminali ti incatenano la menzogna alla coscienza, ne viene poi difficile venirne fuori, ci sono degli esempi incredibili, filmati dove le vittime sono poi finite ad essere i carnefici, le montagne di morti non hanno la targa di circolazione, poi l'ha detto "la televisione", le immagini dei cadaveri del popolo X uccisi da Y li han rappresentati come morti di Z et voilà X erano i criminali e Y e Z santi e martiri, poi un X si vede in un documentario rieducativo in un posto che nemmeno sapeva esistesse perchè in effetti così come era stato rappresentato non esisteva, non stò nemmeno a dire i protagonisti è fin troppo evidente per chi ha occhi, orecchie e soprattutto cervello .... pochi ma così è la vita. Questo scritto era iniziato con un altro intento poi cammin facendo si è evoluto, andremo a vedere come quelli che crediamo "barbari" non lo siano affatto e che la soluzione l'hanno sempre culturalmente avuta, abbiamo cercato di distruggerli ma ora gioco forza cerchiamo di recuperare ciò che è l'unica salvezza ...Il noto psicologo Carl Gustav Jung, nel suo scritto Ricordi, sogni, riflessioni racconta di un suo incontro con un capo pellerossa Taos Pueblos mentre era alla ricerca della propria ombra. La conversazione che ne seguì è significativa per comprendere i nostri condizionamenti culturali. «Vedi - diceva il capo indiano - i bianchi vogliono sempre qualcosa, sono sempre scontenti, irrequieti. Noi non sappiamo cosa vogliono. Non riusciamo a capirli. Pensiamo che sono pazzi». Jung chiese a questo capo perché mai pensasse che l’uomo bianco fosse pazzo. E l’indiano gli rispose, mostrando tutta la sua meraviglia: «Dicono di pensare con la testa!». «Ma certamente pensano con la testa! – disse Jung - E tu, con cosa pensi?». E lui: «Noi pensiamo qui!», disse, indicando con la mano il cuore. E Jung conclude: «Mi immersi in una lunga meditazione. Per la prima volta nella mia vita, così mi sembrava, qualcuno mi aveva tratteggiato l’immagine del vero uomo bianco. Era come se, fino a quel momento, non avessi visto altro che stampe colorate, abbellite dal sentimento. Quell’indiano aveva centrato il nostro punto debole. Aveva svelato una verità, alla quale siamo ciechi»."il mondo dell'Uomo bianco è Koyaanisqatsi, un Mondo Disarmonico, privo di equilibrio, un Mondo malato al quale la saggezza degli Indiani d'America può arrecare giovamento, affinchè l'Uomo Bianco possa vivere le stagioni.....nel cuore della vita...in armonia con sè stesso e la Natura!!!!!" Nella cultura indiana il percorso di risanamento dell’anima ha delle tappe ben precise che devono essere rispettate: innanzitutto le quattro direzioni dei punti cardinali e, poi, il rapporto con la terra come madre dell’universo e con il cielo come dimora degli spiriti. Il processo si completa nel cerchio sacro, una forma che diventa il simbolo dell’armonia tra gli uomini e ciò che li circonda. Questo viaggio senza fine, perché il miglioramento fisico, emotivo, mentale e spirituale non può mai essere completato, è lo scopo dell’esistenza di ogni Indiano, qualunque sia il gruppo tribale d’appartenenza. Le quattrocento nazioni originarie del continente nordamericano erano caratterizzate da differenze marcatissime a livello geografico, sociale, linguistico e culturale. I Lakota-Sioux si muovevano liberamente nel grande oceano d’erba, le praterie e pianure sconfinate che si estendevano dalla Valle del Mississippi alle Montagne Rocciose. Erano nomadi che, spostando le proprie tende (tepee), seguivano le migrazioni del bisonte in cerca di nuovi pascoli. Gli Zuni e gli Hopi, stanziati nell’arida terra del sud-ovest americano, ricavarono le loro case dal deserto. I Cherokee praticavano l’agricoltura. Avevano un sistema sociale preciso basato su principi democratici e si organizzarono in insediamenti piuttosto ampi. Gli Tsimshian vivevano sulle coste nordoccidentali del Canada. I Chippewa e i Wintu appartenevano al gruppo degli Indiani dei boschi. Ma un filo comune emerge dalle loro parole, dal ricchissimo patrimonio orale di canti, miti, leggende, narrazioni sacre e profane: la consapevolezza che la Terra è madre e deve essere rispettata. La meta di questa avventura spirituale è la comprensione che l’uomo è parte integrante di un cerchio che comprende le piante, gli animali, i minerali, la Terra, il Cielo, l’acqua, le stelle, la notte e il giorno, la Luna e il Sole. Il corpo umano è tutt’uno con la terra che lo nutre e lo sostiene: «Noi siamo la terra. Noi le apparteniamo. Noi siamo una parte della terra e la terra fa parte di noi. I fiori profumati sono nostri fratelli. Il cervo, il cavallo, la grande aquila sono nostri fratelli. Le coste rocciose, il verde dei prati, il calore dei pony e l’uomo appartengono tutti alla stessa famiglia». Non c’è separazione tra mondo naturale e mondo umano. L’uomo non è il Signore del Creato e il mondo non è a suo beneficio. Ogni creatura ha un eguale diritto all’esistenza e merita rispetto semplicemente perché è viva. Il ritmo della natura porta la salute, l’equilibrio, l’armonia la bellezza. Il ciclo annuale delle stagioni è garanzia di ordine e di benessere: il tepore primaverile verrà sempre a riscattare il gelo invernale. Non bisogna spezzare il fluire del cielo naturale, altrimenti ne deriveranno malattia, paura, incubi e insicurezza. La natura batte il tempo, il suo orologio regola la vita del pianeta e dell’uomo. L’uomo non stabilisce quindi solamente un rapporto equilibrato con la natura ma arriva a conoscere se stesso grazie a questa armonia. Joseph Bruhac ci racconta una storia che riassume questo viaggio interiore: «Dopo che Wakan Tanka, il Grande Spirito, ebbe messo in ordine le altre sei direzioni, l’est, il sud, l’ovest, il nord, il cielo e la terra, restava sempre una direzione senza destinazione. Ma poiché la settima direzione era la più potente di tutte, in quanto racchiudeva la saggezza e la forza più grandi, Wakan Tanka, il Grande Spirito, desiderò metterla in un luogo dove non sarebbe stato facile trovarla. Ecco perché la nascose nell’ultimo posto dove gli uomini generalmente pensano di guardare: nel loro cuore». Nonostante siano stati privati della propria terra, della propria cultura e della propria identità, gli Indiani d’America sono riusciti a trasmettere la loro fede in questo modo di vivere. Hanno parlato con il cuore, di padre in figlio, per indicare il sentiero che porta alla rigenerazione e la loro voce è rimasta. Anche con queste parole: Accanto alla montagna, spianato dai nostri passi, il terreno del campo risuona. Ti dice: la terra è un tamburo, pensaci. Noi, per seguirne il ritmo, dobbiamo fare attenzione ai nostri passi.

I DIECI COMANDAMENTI INDIANI:

La Terra è la nostra Madre, abbi cura di Lei.

Onora (rispetta) tutti i tuoi parenti.

Apri il tuo cuore ed il tuo Spirito al Grande Spirito.

Tutta la vita è sacra, tratta tutti gli esseri con rispetto.

Prendi dalla Terra solo ciò che è necessario e niente di più.

Fai ciò che bisogna fare per il bene di tutti.

Ringrazia costantemente il Grande Spirito per ogni giorno nuovo.

Devi dire sempre la verità, ma soltanto per il bene degli altri.

Segui i ritmi della natura, alzati e ritirati con il sole.

Gioisci nel viaggio della vita senza lasciare orme.

Trovo delle straordinarie similitudini con la fisica quantistica e le filosofie orientali, se una cosa la trovi in più culture e studi è inequivocabilmente segno che è la strada giusta, personalmente credo che la grandezza di Jung sia anche provata dalla capacità di aprirsi allo studio delle altre culture, prova ne è che la coscienza collettiva, la sincronicità quindi, è trattata anche nella Bhagavad gītā, testo millenario, sacro indù. L’amore è un concetto estensibile che va dal cielo all’inferno, riunisce in sé il bene e il male, il sublime e l’infinito.

Incontro Occidente-Oriente di Mario Thanavaro. Tratto da “Spiritualità Olistica” (Venexia Editore). “E’ giunto il momento in cui dobbiamo lasciar cadere questa divisione tra esterno e interno, tra ciò che è inferiore e ciò che è superiore, tra la mano destra e la mano sinistra. Dobbiamo lasciar perdere questa divisione fra l’uomo e la donna, fra l’Oriente e l’Occidente. Dobbiamo creare un essere umano integro, abile in entrambe le dimensioni”. Osho Rajneesh. Il principio dei vasi comunicanti afferma che quando in un’area si crea il vuoto e in un’altra c’è il pieno, il travaso dal pieno verso il vuoto si produce inevitabilmente. Viviamo oggi in un’epoca straordinaria, il grande progresso tecnologico ci ha dato i mezzi e gli strumenti per spostarci da una parte all’altra del pianeta, permettendoci di entrare in contatto con altre etnie, tradizioni e culture. Tutto il mondo ci entra in casa via satellite grazie al piccolo e al grande schermo e questo ci consente di analizzare la grande diversità tra le varie culture, la diversità della loro organizzazione socio-politica ed economica. Con la scienza e la tecnologia abbiamo assistito al prevalere della secolarizzazione e del modernismo sulle antiche istituzioni religiose, ma lo sviluppo tecnologico ha preso la direzione di uno sconsiderato utilitarismo senza riguardo ai valori e ai diritti umani, accentuando la disparità tra nazioni, popoli e culture. Per quanto la tecnologia ci dia l’impressione di essere vicini l’uno, le leggi di mercato ci impongono il Super Dollaro come sola unità di misura valida nel quantificare il valore di un individuo o di un popolo. La grande famiglia umana è stata inesorabilmente divisa in ricchi e poveri, e i grandi flussi migratori, oggi come in passato, sono la risposta spontanea della natura che tende al riequilibrio. Il problema demografico ed economico spinge i Paesi più poveri verso l’Occidente, il quale, da sempre in contatto con altre civiltà, prima con i grandi viaggi e scoperte poi con il colonialismo, ha fatto delle fortune degli altri Paesi la sua fonte di ricchezza. Il primo contatto con l’Oriente risale al principio dell’800 e avviene sul piano ideologico dell’intellettualismo filosofico e religioso. A quel periodo risalgono le prime traduzioni degli antichi testi sacri dell’India, i Veda, le Upanishad e il canone buddhista. Già da quei primi approcci risultò evidente la grandezza del messaggio spirituale dell’Oriente, per molti versi incomprensibile agli occidentali, tanto che gli Inglesi, dopo un secolo di dominazione coloniale, dovettero ammettere di non aver capito il modo di pensare degli indiani. L’Inghilterra spinse le sue colonizzazioni fino in Cina, in Birmania e nel lontano Tibet. Il Museo Britannico di Londra conserva molti dei tesori letterari e artistici presi durante quella dominazione. Gli studiosi autentici di quei cimeli ci hanno insegnato a guardare all’Oriente con rispetto e forse in modo un po’ onirico. Il fascino che ancora oggi l’Oriente esercita sulla mente degli occidentali risponde forse a un’esigenza di libertà, sempre più difficile da esperire per l’uomo del XXI secolo, chiuso in una società tecno-virtuale, afflitto da un senso di solitudine e alienazione senza pari. L’avvicinamento delle varie culture presenta degli aspetti molto positivi, ci può indirizzare verso un’apertura di mente e cuore, un dialogo e una comunicazione veramente nuovi se vissuti come scelta consapevole, fino a un cambiamento radicale delle secolari impalcature e strutture concettuali, fino allo movimento di pensieri coscienti e non coscienti secondo il principio dei vasi comunicanti. Tutti possono beneficiare dell’apporto di altre culture e tradizioni. Ci può arricchire in tutti i sensi e contribuire al risveglio di una Nuova Civiltà. Il messaggio dei saggi del Medio ed Estremo Oriente così pure delle antichissime tradizioni sciamaniche (le origini dello sciamanesimo si possono far risalire a circa 30.000 anni fa) può offrire una nuova visione, permettendo di riprendere contatto con le radici spirituali e finalmente uscire dal vicolo cieco. Il riemergere oggi della cultura e filosofia degli indiani d’America sotto la spinta dell’Occidente è indicativo dell’estremo tentativo da parte dell’uomo bianco di ritrovare un collegamento diretto con la Natura. È proprio a causa della separazione dell’uomo bianco dal principio del rispetto della Terra e di ogni essere vivente che ci troviamo di fronte a problemi ecologici enormi, effetto del suo agire sconsiderato. Secondo diversi ricercatori e scienziati, a causa della pressione ambientale, nel 2050 le condizioni di vita sul pianeta saranno pessime. È per questo motivo che in diverse culture spirituali è stata profetizzata una grande Purificazione Planetaria. In un antico testo del buddhismo tibetano, le preghiere rivolte a una divinità protettrice sono precedute dal seguente testo: «In quest’epoca degenerata la contraddizione tra le intenzioni e gli atti degli esseri e le perturbazioni degli elementi esterni e interni provocano epidemie e malattie finora sconosciute che colpiscono uomini e animali, sofferenze causate da pianeti, naga (una categoria di esseri intelligenti con volto umano e lunga coda di serpente, n.d.t.),demoni ed esseri elementari cattivi. I raccolti sono colpiti da malattie, gelo e grandine, sono annate dure nelle quali scoppiano dispute, lotte e guerre. Le piogge sono irregolari, la neve cade troppo abbondante e appaiono calamità causate dai roditori. Vi sono terremoti, incendi e disastri dovuti ai quattro elementi». Oggi come in passato la confusione e la sofferenza che proviamo è imputabile prima di tutto a una situazione di disequilibrio. Mentre la saggezza millenaria dell’Oriente ci insegna a guardare dentro per le risposte ai problemi dell’uomo, l’Occidente guarda fuori. In cerca di soluzioni e risposte, l’uomo moderno occidentale ha cercato la verità assoluta nella razionalità. È convinto di garantirsi una vita comoda, sul piano sociale e politico semplicemente rafforzando l’economia e, sicuro del suo modello di sviluppo, lo ha promosso e molto spesso imposto in tutti i Paesi del mondo. Dominato dal delirio della scienza, pensa di occultare ancora per molto la sua paura della morte affidando le sue speranze di immortalità all’ingegneria genetica. Il suo agire imprudente sull’ambiente non lo ha messo al riparo dagli elementi, anzi ha accentuato la precarietà della sua esistenza, esponendolo a disastri naturali di ogni tipo che lo colgono fragile e psicologicamente impreparato ad affrontare il dolore della tragedia. Nel campo religioso, la ferrea convinzione di essere il detentore dell’unica verità assoluta, ha accentuato la sua distanza dal prossimo e da Dio al quale si affida in modo fideistico per allontanarsene ogni qualvolta non trova risposta ai suoi mille ‘perché’. Il suo smarrimento è grande e ha bisogno dell’aiuto dell’intuito della antica saggezza dell’Oriente per tornare alla riflessione, alla meditazione, alla contemplazione della bellezza del creato, per ritrovare pace e armonia con se stesso, i suoi simili, la terra e il cosmo. Ho scritto questo articolo per evidenziare come con dei mezzi banali, se vogliamo, si può far credere tutto ed il contrario di tutto e che la soluzione ai "nostri problemi" non sia poi chissà cosa, è semplicemente dentro di noi, quello è il difficile, è ovviamente più facile dare la colpa ad altri e far finta di nulla. Parecchi anni fa, tanti, dopo la lettura di quanto segue avevo intuito che quella era la soluzione ed ora me la ritrovo confermata anche da Jung tra gli altri, chiaramente c'era arrivato prima ma non ne ero a conoscenza ... "Non vi potrà mai essere una rivoluzione socio-politica, finché non avrà luogo una rivoluzione individuale, perché la rivoluzione deve nascere dall’interno di ciascun singolo essere umano perché poi può diventare collettiva, del resto, si può privare l’essere umano della libertà politica, senza fargli alcun male, ma se lo si priva della sua libertà di essere o sentire, lo si distrugge. La nostra cultura occidentale disprezza le culture primitive ma quei popoli vivono in armonia con la terra, le foreste e gli animali. Occorre una rivoluzione interiore radicale, occorre varcare le proprie porte interiori, per poter essere davvero liberi, liberi di essere e sentire, occorre spazzare via dal proprio intimo tutta l’immondizia che ci è stata inserita dentro nel corso degli anni, fin dal momento in cui siamo nati. Ma la stragrande maggioranza della gente, questo non lo vuole fare, non è disposta a cambiare nulla". !!!!!!!!!! Jim Morrison.

La Storia Segreta Dell’Unione Europea: Il Piano Kalergi, scrive “No Censura” il 7 novembre 2013. Pertanto per comprendere meglio il fenomeno paneuropeista è necessario non fermarsi ai falsi miti (multi-culturalismo, multietnicismo, distruzione degli Stati Nazione, favoreggiamento del regionalismo, ecc.) propinati da questo contenitore estremamente influente e pericoloso, bensì è necessario capire chi finanziò questo istituto globalista. Oltre agli agenti industriali e finanziari, Richard Coudenhove-Kalergi ebbe il sostegno del banchiere Max Warburg, che rappresentava la banca tedesca di Amburgo (la Banca Warburg). All’epoca suo fratello, (trasferitosi negli Usa) Paul Warburg, era stato uno dei fondatori della FED (la Federal Reserve statunitense) oltre che leader del Council on Foreign Relation (il CFR). Esistono due storie che raccontano la nascita dell’Unione Europea. Una ufficiale, di facciata, sponsorizzata dall’intero apparato accademico che narra di un gruppo eterogeneo di persone, i cosiddetti padri fondatori della “nuova Europa”, il quale successivamente al conflitto mondiale iniziò a progettare la pace, l’unità e la prosperità nel Vecchio continente per poi dare vita ad una comunità di Stati in cooperazione tra di loro. E poi c’è una storia reale ma oscurata, che rivela il progetto di un uomo, l’aristocratico Richard Koudenove-Kalergi (giapponese di madre e austriaco di padre), il quale non fu mai protagonista degli eventi ma che fu, nel retroscena, artefice allo steso modo dei vari De Gasperi, Shuman, Monnet e Adenauer, probabilmente ancor più influente poiché a differenza di questi ultimi, aveva una visione planetaria e non europea. Nel 1922, Koudenove-Kalergi fonda la Paneuropa (o Unione Paneuropea) con lo scopo apparente di impedire un nuovo conflitto continentale, tuttavia nel 1925 in una relazione presentata alla Società delle Nazioni i fini dell’austro-giapponese si manifestano chiaramente. Il suo obiettivo primario era quello di unificare l’Europa, al fine di integrarla all’interno di un’organizzazione mondiale politicamente unificata, in poche parole un governo mondiale, che a sua volta federasse nuove federazione continentali (“continenti politici”, proprio come la “Paneuropa”). Inoltre nel suo libro «Praktischer Idealismus» pubblicato nel 1925, Kalergi espone una visione multiculturalista e multi-etnicista dell’Europa, dichiarando che gli abitanti dei futuri “Stati Uniti d’Europa” non saranno i popoli originali del Vecchio continente, bensì una sorta di subumanità resa bestiale dalla mescolanza razziale”, e affermando senza mezzi termini che “è necessario incrociare i popoli europei con razze asiatiche e di colore, per creare un gregge multietnico senza qualità e facilmente dominabile dall’elite al potere. L’uomo del futuro sarà di sangue misto. La razza futura eurasiatica-negroide, estremamente simile agli antichi egiziani, sostituirà la molteplicità dei popoli, con una molteplicità di personalità”. Nel 1926 Koudenove-Kalergi organizzò la prima conferenza paneuropea di Vienna, sotto gli auspici del suo presidente onorario, il presidente Aristide Briand (1862-1932) e fu proprio in questo convegno che si decise di scegliere l’inno europeo, l’Inno alla gioia di Beethoven, che in seguito diventerà l’inno ufficiale dell’Unione Europea. Ma è durante questo primo congresso che sono esposti in modo chiaro, lucido, gli obiettivi a breve, medio e lungo termine di questo contenitore di idee: “l’Unione Pan-europea ribadisce il suo impegno al patriottismo europeo, a coronamento dell’identità nazionale di tutti gli europei. Nel momento dell’interdipendenza e delle sfide globali, solo una forte Europa unita politicamente è in grado di garantire il futuro dei suoi popoli ed entità etniche. L’Unione Paneuropea riconosce il diritto all’autodeterminazione dei gruppi etnici allo sviluppo (…) culturale, economico e politico”. Negli anni Trenta, Koudenove-Kalergi condanna fermamente il modello nazional-socialista di Adolph Hitler e quello sovietico di Stalin, tanto che l’industria tedesca revoca definitivamente i finanziamenti all’Unione paneuropea, mentre gli intellettuali filo-sovietici lasciano l’associazione. Durante la Seconda Guerra Mondiale il fondatore della Paneuropa si rifugia negli Stati Uniti, nei quali insegnò in un seminario presso la New York University – “La ricerca per una federazione europea del dopoguerra” – a favore del federalismo europeo. Nel 1946, Koudenove-Kalergi torna in Europa e la sua personalità gioca un ruolo di estrema rilevanza. La Paneuropa riprende le forze e si creano in tutti Paesi europei delle delegazioni (Paneurope France, Paneuropa Italia, ecc.) che in pochi mesi diffusero gli ideali paneuropeisti a quelli che poi furono considerati i “padri fondatori della nuova Europa”. Queste delegazioni contribuirono alla realizzazione dell’Unione parlamentare europea, che successivamente consentì la creazione nel 1949, del Consiglio d’Europa. Il suo “impegno” intellettuale e politico gli permisero di aggiudicarsi nel 1950 il prestigioso premio prettamente continentale “Carlo Magno” e, persino in suo onore fu stato istituito il premio europeo Coudenhove-Kalergi che ogni due anni premia gli europeisti che si sono maggiormente distinti nel perseguire il suo “ideale” confederativo e mondialista. Tra questi troviamo nomi come Angela Merkel e Herman Van Rompuy. Pertanto per comprendere meglio il fenomeno paneuropeista è necessario non fermarsi ai falsi miti (multi-culturalismo, multietnicismo, distruzione degli Stati Nazione, favoreggiamento del regionalismo, ecc.) propinati da questo contenitore estremamente influente e pericoloso, bensì è necessario capire chi finanziò questo istituto globalista. Oltre agli agenti industriali e finanziari, Richard Coudenhove-Kalergi ebbe il sostegno del banchiere Max Warburg, che rappresentava la banca tedesca di Amburgo (la Banca Warburg). All’epoca suo fratello, (trasferitosi negli Usa) Paul Warburg, era stato uno dei fondatori della FED (la Federal Reserve statunitense) oltre che leader del Council on Foreign Relation (il CFR). Da qui vediamo lo stretto legame tra Wall Street, quindi gli Stati Uniti d’America e la volontà già negli Venti di federare l’Europa sotto una sola guida politica, probabilmente per dominarla meglio. Richard Coudenhove-Kalergi non fu un visionario del suo tempo proprio perché egli fu un manovratore della partita. Non a caso l’Europa sognata dall’aristocratico austro-giapponese è la stessa di oggi, quella del terzo millennio.

Ecco la condanna a morte che ci attende. Pubblicato il testo del TPP. Pubblicato il 6 novembre 2015 da Claudio Messora su “Byo Blu”. “Peggiore di qualunque cosa avessimo mai immaginato”. “Un atto di guerra al clima”. “Un omaggio all’agricoltura intensiva”. “Una condanna a morte per la libertà della rete”. “Il peggior incubo”. “Un disastro”. Questo è il tenore dei commenti di chi ha letto e studiato il testo del TPP, il fratello gemello del TTIP, l’accordo di libero scambio commerciale tra Usa e Ue, negoziato in segreto, di cui vi ho parlato mercoledì sera a La Gabbia. Il TTIP fa parte di una gigantesca strategia globale degli Usa, le cosiddette “Tre T”, che comprendono anche il TTP e il TISA. Il TTIP è l’accordo di liberalizzazione commerciale che stanno negoziando (in segreto) Usa e UE. Il Tisa (Trade in Services Agreement) è l’accordo, anche peggiore, sulla liberalizzazione dei servizi e il TPP (Trans Pacific Partnership), è l’omologo del TTIP sul fronte pacifico, che includerà 12 paesi, tra cui Singapore, la Nuova Zelanda, gli Stati Uniti, l’Australia, il Messico, il Giappone e il Canada. Caso vuole che in nessuno dei tre accordi siano presenti i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Caso vuole? No, in effetti non è un caso, ma esattamente lo scopo per cui le Tre T sono state create: aggirare il peso che i paesi emergenti hanno assunto nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), isolare la Cina (con la strategia militare e commerciale definita “Pivot to Asia”) e assicurare il dominio delle grandi corporation USA nell’economia mondiale. Questi trattati sono negoziati in segreto (perché se no non glieli lasceremmo fare): per la UE ci pensa quella simpaticona indefessa adoratrice dei più stringenti principi democratici che si chiama Cecilia Malmström (la signora io-non-rispondo-ai-cittadini). Solo le lobby hanno libero accesso al testo del negoziato. Se gli europarlamentari vogliono visionarlo, devono chiamare l’ambasciata americana, farsi dare un appuntamento che è disponibile solo due volte a settimana, in una fascia oraria di sole due ore, solo due alla volta, all’ingresso devono consegnare ogni dispositivo elettronico, firmare un impegno di riservatezza e finalmente possono avere davanti agli occhi intere sezioni di codici e codicilli legali, per due ore, senza poter prendere appunti e guardati a vista da due guardie americane. Se questo lo chiamate democrazia, fatevi visitare da uno bravo! Lato Usa invece usano la Fast Track Negotiating Authority for Trade Agreement, che è uno strumento che consente al Presidente degli Stati Uniti d’America di negoziare trattati commerciali per i fatti suoi, e poi presentare un pacchetto fatto e finito al Congresso, che può solo approvarlo o respingerlo in toto, a maggioranza semplice, (un po’ come la nostra fiducia): i deputati USA non possono in alcun modo proporre emendamenti o fare ostruzionismo. E’ nato per consentire l’approvazione di trattati commerciali che altrimenti non avrebbero mai visto la luce, e per consentire ai deputati di votare a favore senza perdere la poltrona (negli Usa c’è il recall), dato che chi li ha eletti ne sarebbe probabilmente scontento. Figuratevi quanta democrazia ci sia anche da quelle parti: hanno creato uno strumento per fare in modo di poter votare quello che democraticamente non potrebbero! Chapeau! (E questa è la più grande democrazia del pianeta, figuriamoci le altre!). Dunque cosa succede? Succede che il testo del TPP finalmente è stato rilasciato, dopo essere stato finalizzato dalle ultime negoziazioni di Atlanta, in Georgia. La pubblicazione dei contenuti del trattato ha così avviato il periodo di tre mesi che precede il suo atterraggio al Congresso, chiamato ad approvarlo. Ecco il testo ufficiale: TPP FINAL TABLE OF CONTENTS. La reazione di chi ha avuto lo stomaco di leggerselo è stata questa: “Dai leaks, avevamo saputo qualcosa sull’accordo, ma capitolo dopo capitolo la lettura del testo finale è peggiore di quello che ci aspettavamo: le richieste di 500 lobbisti che rappresentano gli interessi delle corporation sono state soddisfatte a svantaggio dell’interesse pubblico. Questo accade quando le lobby possono negoziare in privato, nell’oscurità, e i cittadini vengono tagliati fuori”. “Il TTP è un disastro per il lavoro, per l’ambiente e per la democrazia. E’ l’ultimo passo verso la resa della nostra società alle corporation. L’enorme accordo tra 12 nazioni sulle coste del Pacifico ha meno a che fare con la vendita delle merci di quanto, piuttosto, abbia a che fare con la riscrittura delle regole dell’economia globale in favore del grande business. Esattamente come il North American Free Trade Agreement (il NAFTA), 20 anni fa, sarà una cosa ottima per i più ricchi e un disastro per chiunque altro. Il NAFTA ha radicato le disuguaglianze e causato la perdita di un milione di posti di lavoro negli USA. E il TPP non è altro che una versione del NAFTA iperpotenziata”. “Ora che abbiamo visto il testo definitivo, viene fuori che il TTP, vero e proprio assassino dell’occupazione, è peggiore di qualunque altra cosa che sia mai stata immaginata. Questo accordo abbatterà i salari, inonderà il nostro Paese di alimenti importati e non sicuri, innalzerà i prezzi delle medicine salva-vita, e tutto questo mentre si faranno affari con paesi dove gli omosessuali e le mamme single possono essere lapidate”. “Il testo è pieno di sussidi per le società che fanno affari sui combustibili fossili e di incredibili possibilità per queste compagnie di fare causa ai singoli governi che cercano di diminuire l’uso dei combustibili fossili. Se una provincia mette una moratoria sul fracking, le corporation possono perseguirla legalmente; se una comunità cerca di fermare una miniera di carbone, le corporation possono prevalere in punta di diritto. In breve, queste leggi minano la capacità dei singoli stati di attuare quello che gli scienziati dicono che sia la sola cosa più importante da fare per combattere la crisi climatica: abbattere i consumi di carburanti fossili”. “E’ un accordo disegnato per proteggere il commercio libero di prodotti energeticamente sporchi come i depositi non convenzionali di catrame e bitume, depositi di carbone e gas naturale liquefatto spedito dai porti della costa occidentale. Il risultato sarà un’accelerazione dei cambiamenti climatici derivante delle emissioni di CO2 in tutto il Pacifico. Il presidente Obama ha venduto agli americani false promesse: il TTP tradisce la promessa di Obama di fare dell’accordo un trattato amico dell’ambiente”. “Il capitolo ambientale conferma molti dei peggiori incubi dei gruppi ambientalisti e degli attivisti contro il cambiamento climatico”. “Con le sue disposizioni che tagliano le mani agli ispettori alimentari sulle frontiere e danno più potere alle compagnie che operano nella biotecnologia, il TPP è un regalo alle grandi multinazionali del settore dell’agricoltura intensiva e del cibo biotech. Questo genere di società useranno gli accordi come il TPP per attaccare le misure di sicurezza sugli alimenti sensibili, per indebolire le possibilità di ispezionare il cibo importato e per bloccare ogni sforzo di rafforzare gli standard di sicurezza alimentare degli Stati Uniti. Innanzitutto quelli per etichettare correttamente gli alimenti OGM. Inoltre, qualunque criterio di sicurezza alimentare sull’etichettatura dei pesticidi o degli additivi che sia più elevato rispetto agli standard internazionali, potrà essere additato come una barriera commerciale illegittima. Sotto al regime del TTP, il business dell’agricoltura intensiva e le multinazionali biotech delle sementi hanno adesso un modo più semplice per sfidare a quei paesi che vietano l’importazione di alimenti geneticamente modificati, che controllano la contaminazione OGM, che non approvano prontamente nuovi prodotti OGM o anche solo richiedono un’etichettatura adeguata”. “Se il Congresso degli Stati Uniti firmerà questo accordo malgrado la sua sfacciata pericolosità, firmerà la condanna a morte per la rete internet aperta e metterà il futuro della libertà di opinione a repentaglio. Tra le molte sezioni del documento che destano gravi preoccupazioni, ci sono quelli relative ai marchi commerciali, ai brevetti delle case farmaceutiche, alla protezione del copyright e ai segreti commerciali. La sezione J, che riguarda gli internet service providers, è una delle sezioni peggiori che impatta sulla libertà della rete. Richiede ai fornitori di servizi internet di comportarsi come poliziotti della rete e collaborare con le richieste di oscuramento, ma non obbliga i paesi a dotarsi di un sistema di contestazione. Così, una società potrebbe ordinare a un sito web di essere oscurato in un altro paese e non ci sarebbe nessuno strumento per il proprietario del sito di confutare la legittimità della richiesta nel caso, per esempio, dei blog di critica politica che usano materiale protetto da copyright sotto il regime del fair use. La sezione J è scritta in maniera tale che gli internet service provider non saranno perseguibili per nessuno degli errori che dovessero commettere sull’oscuramento dei contenuti, incentivandoli così a “sbagliare” a favore dei detentori di copyright invece che a favore di chi esercita la libertà di opinione”. “Anche una parte dell’opinione pubblica canadese è molto preoccupata sulle conseguenze dell’accordo commerciale sui diritti umani, sulla salute, sull’occupazione e sulla democrazia. Il Consiglio dei canadesi, un’organizzazione alla testa di un largo network impegnata nella difesa dell’equità sociale, ha chiesto formalmente al nuovo primo ministro Trudeau di organizzare una consultazione pubblica che includa un ampia analisi indipendente del testo, dal punto di vista dei diritti umani, delle conseguenze economiche e di quelle ambientali, prima di procedere oltre nella ratifica. Trudeau è sottoposto a enormi pressioni per adottare l’accordo il più presto possibile, con numerose insistenti telefonate da Barack Obama e dal presidente giapponese Shinto Abe, ma una approfondita revisione pubblica dell’accordo è necessaria prima di poter stabilire se il TPP è nell’interesse del Canada”.

State molto attenti, perché quello che c’è nel TPP è con grandissima probabilità quello che troveremo nel TTIP, quando la nostra Malmströmavrà finito di farsi i cazzi suoi in privato con le lobby e deciderà finalmente di pubblicare un testo che poi il Parlamento Europeo sarà chiamato ad approvare. Per quella data, dobbiamo essere pronti a fargli un culo così.

Ecco perché hanno ammazzato Gheddafi. Le email Usa che non vi dicono, scrive Claudio Messora il 9 gennaio 2016 su "Byo Blu". Il 31 dicembre scorso, su ordine di un tribunale, sono state pubblicate 3000 email tratte dalla corrispondenza personale di Hillary Clinton, transitate sui suoi server di posta privati anziché quelli istituzionali, mentre era Segretario di Stato. Un problema che rischia di minare seriamente la sua corsa alla Casa Bianca. I giornali parlano di questo caso in maniera generale, senza entrare nel dettaglio, ma alcune di queste email delineano con chiarezza il quadro geopolitico ed economico che portò la Francia e il Regno Unito alla decisione di rovesciare un regime stabile e tutto sommato amico dell’Italia, come la Libia di Gheddafi. Ovviamente non saranno i media mainstream generalisti a raccontarvelo, né quelli italiani né quelli di questa Europa che in quanto a propaganda non è seconda a nessuno, tantomeno a quel Putin spesso preso a modello negativo. A raccontarvelo non poteva essere che un blog, questa volta Scenari Economici di Antonio Rinaldi e del suo team, a cui vanno i complimenti. “Due terzi delle concessioni petrolifere nel 2011 erano dell’ENI, che aveva investito somme considerevoli in infrastrutture e impianti di estrazione, trattamento e stoccaggio. Ricordiamo che la Libia è il maggior paese produttore africano, e che l’Italia era la principale destinazione del gas e del petrolio libici. La email UNCLASSIFIED U.S. Department of State Case No. F-2014-20439 Doc No. C05779612 Date: 12/31/2015 inviata il 2 aprile 2011 dal funzionario Sidney Blumenthal (stretto collaboratore prima di Bill Clinton e poi di Hillary) a Hillary Clinton, dall’eloquente titolo “France’s client & Qaddafi’s gold”, racconta i retroscena dell’intervento franco-inglese. Li sintetizziamo qui. La Francia ha chiari interessi economici in gioco nell’attacco alla Libia. Il governo francese ha organizzato le fazioni anti-Gheddafi alimentando inizialmente i capi golpisti con armi, denaro, addestratori delle milizie (anche sospettate di legami con Al-Qaeda), intelligence e forze speciali al suolo. Le motivazioni dell’azione di Sarkozy sono soprattutto economiche e geopolitiche, che il funzionario USA  riassume in 5 punti: Il desiderio di Sarkozy di ottenere una quota maggiore della produzione di petrolio della Libia (a danno dell’Italia, NdR); Aumentare l’influenza della Francia in Nord Africa; Migliorare la posizione politica interna di Sarkozy; Dare ai militari francesi un’opportunità per riasserire la sua posizione di potenza mondiale; Rispondere alla preoccupazione dei suoi consiglieri circa i piani di Gheddafi per soppiantare la Francia come potenza dominante nell’Africa Francofona. Ma la stessa mail illustra un altro pezzo dello scenario dietro all’attacco franco-inglese, se possibile ancora più stupefacente, anche se alcune notizie in merito circolarono già all’epoca. La motivazione principale dell’attacco militare francese fu il progetto di Gheddafi di soppiantare il Franco francese africano (CFA) con una nuova valuta pan africana. In sintesi Blumenthal dice: Le grosse riserve d’oro e argento di Gheddafi, stimate in 143 tonnellate d’oro e una quantità simile di argento, pongono una seria minaccia al Franco francese CFA, la principale valuta africana. L’oro accumulato dalla Libia doveva essere usato per stabilire una valuta pan-africana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano doveva dare ai paesi dell’Africa Francofona un’alternativa al franco francese CFA. La preoccupazione principale da parte francese è che la Libia porti il Nord Africa all’indipendenza economica con la nuova valuta pan-africana. L’intelligence francese scoprì un piano libico per competere col franco CFA subito dopo l’inizio della ribellione, spingendo Sarkozy a entrare in guerra direttamente e bloccare Gheddafi con l’azione militare.

Libia, le carte di Hillary Clinton: "La Francia distrusse l'Italia". La guerra che portò il caos in Libia venne scatenata dai francesi con l'avallo degli americani. L'obiettivo era uno solo: affermare la potenza transalpina ed eliminare ogni influenza italiana nel Maghreb, scrive Ivan Francese, Mercoledì 03/08/2016, su "Il Giornale". La guerra di Libia - un'altra - cent'anni dopo. Correva l'anno 2011, i dodici mesi che cambiarono il mondo ma soprattutto la storia d'Italia. Eravamo ormai abituati a ricordarlo come l'anno della caduta del governo Berlusconi IV e dell'arrivo dell'ultra-europeista Mario Monti a Palazzo Chigi dopo mesi di attacchi politici e finanziari (non senza speculazioni assai poco trasparenti). Tutti ricordiamo gli insopportabili risolini di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy al Consiglio Europeo del 23 ottobre 2011. Ebbene, ora su quei giorni cruciali potremmo apprendere qualcos'altro. Se possibile, qualcosa di ancora più inquietante. Come ha rilevato Scenarieconomici, spulciando fra le mail dell'allora Segretario di Stato UsaHillary Clinton si scopre che l'attacco internazionale che portò alla caduta del regime di Muhammar Gheddafi e all'uccisione del Colonnello venne lanciato solo ed esclusivamente per rispondere a precisi interessi geostrategici francesi, con l'avallo statunitense. A tutto detrimento degli interessi italiani. Certo, sapevamo già che la guerra voluta da Sarkozy era un mezzo per estromettere il nostro Paese dal controllo del petrolio libico, ma vederlo scritto nero su bianco resta comunque impressionante. E allora vediamo cosa contengono, quelle mail famigerate. Il 2 aprile del 2011 l'attuale candidata democratica alla Casa Bianca riceveva un messaggio dal suo consigliere per il Medio Oriente Sidney Bluementhal dai toni assai espliciti. Da quelle righe emerge infatti che il presidente francese dell'epoca, Sarkozy, ha finanziato e aiutato in ogni modo le fazioni anti gheddafiane con denaro, armi e addestratori, allo scopo di strappare più quote di produzione del petrolio in Libia e rafforzare la propria posizione tanto sul fronte politico esterno quanto su quello geostrategico globale. Di più. A motivare definitivamente la decisione dell'Eliseo di entrare nel conflitto sarebbe stato il progetto del raìs di soppiantare il franco francese africano con una nuova divisa pan-africana, nell'ottica di un'ascesa della Libia come potenza regionale in grado di raccogliere intorno a sè un'alleanza regionale di Stati. Sostituendo così proprio la Francia, a suon di oro e di argento (Gheddafi ne avrebbe conservate poco meno di trecento tonnellate). Le conseguenze dell'intervento sono storia nota, con la Libia precipitata in un'atroce guerra civile, l'Isis che spadroneggia sulle coste meridionali del Mediterraneo e un'ondata di migranti senza precedenti che si riversa sulle nostre coste. All'epoca l'Italia, all'oscuro di tutto, prese addirittura parte alla guerra contro Gheddafi, sia pure a malincuore. Ora però è chiaro che quella manovra, insieme all'attacco speculativo portatoci dalla Germania, aveva un solo obiettivo: l'Italia. Che ancora oggi ne sconta le terribili conseguenze.

Le mail segrete di Hillary smascherano Sarkò: da Gheddafi per un furto all'Italia, scrive Marco Gorra su "Libero Quotidiano” il 18 Gennaio 2016. Il sospetto che la storia della Francia che muove guerra a Gheddafi perché unicamente interessata ad «assumere il proprio ruolo di fronte alla storia» ed a «difendere i libici che vogliono liberarsi dalla schiavitù» (parola dell'allora presidente Nicolas Sarkozy) fosse una solenne presa in giro era venuto.  Adesso arrivano le conferme. E viene fuori che no, dietro la decisione di Parigi di rovesciare con le cattive il Colonnello di idealismo ce n' era ben poco. In compenso, c' erano altre considerazioni di carattere assai più venale: petrolio e quattrini. Due fondamentali interessi francesi in nome dei quali ci si è armati e si è partiti. E non solo chi, come i transalpini, aveva da guadagnarci. Ma anche chi, come l'Italia, dell'operazione ostile ordita a Parigi era la prima vittima designata.  A fare luce su quegli eventi del 2011 soccorrono oggi le famose mail di Hillary Clinton, recentemente desecretate in seguito alle polemiche divampate intorno ai famigerati server privati dell'ex Segretario di Stato. Nella mole di documenti declassificati, spiccano i messaggi inviati alla Clinton da Sidney Blumenthal, consigliere privato della signora e suo principale esperto sul campo di questioni libiche. Dal carteggio emergono le reali preoccupazioni dei francesi in ordine alla crisi libica. La prima è quella relativa al petrolio, business faraonico da cui le aziende transalpine erano tagliate fuori ad opera - anche - di quelle italiane (prima dell'inizio della guerra due terzi della concessioni erano dell'Eni). Tramite il riconoscimento preventivo del Cnt e la di esso successiva installazione al potere, Parigi contava di riequilibrare la situazione a proprio vantaggio: l'accordo coi ribelli era di trasferire in mano ai francesi, a titolo di ringraziamento per il supporto fornito, il 35% del crude oil del Paese. A questo scopo, elementi dell'intelligence francese avevano iniziato fin dalla primavera del 2011 a fornire supporto di ogni tipo agli anti-Gheddafi. La seconda preoccupazione dei francesi era di ordine monetario. Si trattava di impedire che il Colonnello desse seguito al proprio vecchio pallino di creare una valuta panafricana. All' uopo, Gheddafi era pronto ad impiegare le proprie riserve (143 tonnellate d' oro e quasi altrettante d' argento, per un valore complessivo di circa sette miliardi di dollari). Scenario da incubo per la Francia, dacché la nuova moneta avrebbe pensionato il franco Cfa, valuta creata nel '45 ed utilizzata da 14 ex colonie con svariati e benefici ricaschi per il Tesoro francese.  A completare il quadro dei veri motivi dietro all' attacco, secondo il carteggio, ci sono poi due grandi classici di queste situazioni: i sondaggi, con l'esigenza per Sarkozy di riguadagnare popolarità in vista delle incombenti elezioni presidenziali, e i militari, cui premeva avere un'occasione per riaffermare la propria posizione di potenza di livello mondiale. Come è andata a finire è cosa nota: l'azzardo di francesi e britannici funziona, Casa Bianca e Palazzo di Vetro danno l'ok e la guerra a Gheddafi si fa. Guerra in cui, pur avendo intuito che non sarebbe stato esattamente un affarone, partecipa anche l'Italia. Questione di qualche mese e il gioco è fatto: Gheddafi è rovesciato e al suo posto ci sono gli ormai ex ribelli del Cnt. I risultati non tardano ad arrivare: la moneta panafricana finisce in archivio prima ancora di essere nata e si procede alla grande redistribuzione del petrolio (in cui, ironia della sorte, i francesi porteranno a casa meno di quanto sperato a vantaggio di russi e cinesi). Soprattutto, l'influenza italiana nell' area si riduce drasticamente. Proprio come auspicato dall' inquilino dell'Eliseo. Marco Gorra 

I megaprogetti nei Balcani spianano la via alla Grande Eurasia. Hillary Clinton e l'orientamento del potere: è lei la vera candidata guerrafondaia alla Casa Bianca, scrive Andrea Spinelli Barrile su “ibtimes” l'1.03.2016 . Hillary Rodham Clinton è il candidato democratico che in questo momento sembra avere più chance non solo per la vittoria del Super Tuesday e delle primarie dell'asinello a stelle e strisce ma soprattutto per tornare ad essere inquilina alla Casa Bianca, dove ha già trascorso 8 anni come first lady. La candidata democratica, non è un mistero, piace ai colletti bianchi di Wall Street, piace ai neoconservatori - un editoriale di Robert Kagan sul Washington Post del 25 febbraio è qualcosa di più di un endorsement – e alla medio-alta borghesia americana, mentre meno gradita sembra essere sia alla base del partito democratico che ai “poorly educated” (questi ultimi vanno pazzi per Donald Trump). Questo fa di Hillary Clinton una sorta di Matteo Renzi, con qualche anno e diversi chilometri in più sul curriculum, dell'era post-ideologica americana? Non esattamente. In realtà la signora Clinton è quanto di più vicino ci sia all'establishment americano e alle lobby, almeno tra i vari candidati alla Casa Bianca. Compreso Donald Trump. Un interessante profilo della signora Clinton lo ha pubblicato l'Huffington Post americano. Jeffrey Sachs, direttore dell'Earth Institute presso la Columbia University, descrive così il background della candidata democratica: “Gli stretti rapporti di Hillary e Bill Clinton con Wall Street contribuirono ad alimentare due bolle finanziarie (1999-2000 e 2005-2008) e la Grande Recessione che seguì il tracollo di Lehman. […] Anche i legami di Hillary con il complesso militare-industriale sono inquietanti”. Nel nostro immaginario i democratici sono quelli che cercano di fare da contrappeso alla sete guerrafondaia repubblicana nel Congresso ma anche in questo Hillary si dimostra essere una democratica piuttosto atipica. È stato evidente nel dibattito televisivo di sabato sera tra i candidati dem: la Clinton ha sempre difeso la scelta della missione NATO in Libia nel 2011, che ha eliminato Gheddafi e fatto sprofondare il Paese nordafricano nel caos assoluto, ma nell'ultimo dibattito è andata leggermente oltre. Alla domanda su quali fossero le responsabilità dell'allora Segretario di Stato Hillary Clinton sulla realtà libica di oggi ha risposto così: “Non mi arrendo sulla Libia, penso che nessuno debba farlo. […] C'è sempre una retrospettiva, uno spazio per dire 'quali errori sono stati fatti' ma io so che abbiamo offerto molto aiuto e so che è stato difficile per i libici accettarlo”. In quella frase c'è tutta l'esperienza in politica estera della signora Clinton: da first lady, da senatrice e da Segretario di Stato Hillary Clinton ha appoggiato sempre e incondizionatamente qualsiasi guerra gli Stati Uniti abbiano intrapreso da quando lei è sulla scena politica. Secondo Sachs tutto ebbe inizio il 31 ottobre 1998: l'allora Presidente Bill Clinton firmava il Decreto per la Liberazione dell'Iraq rendendo ufficiale la strategia atta al “cambiamento di regime” nel paese mediorientale, la base legislativa sulla quale è stato costruito l'intervento armato dal suo successore George W. Bush. Nel 2003, quando il Congresso fu chiamato a decidere se bombardare o meno l'Iraq sulla base delle prove - risultate fasulle - fornite dalla CIA Hillary Clinton, allora senatrice, non esitò a sostenere quell'intervento armato, costato uno sproposito in termini economici per gli USA e geopolitici per la stabilità del Medio Oriente. L'anno successivo al decreto sull'Iraq ci fu la guerra in Kosovo. Il 24 marzo 1999 la signora Clinton si trovava in viaggio in Africa quando telefonò al marito: “Lo esortai a bombardare” disse alla giornalista Lucinda Franks qualche anno dopo. Quel frangente e la schiena dritta tenuta durante lo scandalo sexgate alla fine del secondo mandato del marito connotano il carattere di Hillary Clinton, determinato e power-oriented: la ragion di Stato (o di famiglia) su tutto. Dopo 8 anni di Bush jr un Premio Nobel per la Pace, il democratico Barack Obama, diventò il primo presidente nero degli Stati Uniti. E con lui Hillary Clinton divenne la prima ex-first lady a diventare Segretario di Stato, che in America è il vero numero due del Presidente: nel periodo in cui la signora Clinton è stata Segretario di Stato gli Stati Uniti hanno inanellato una serie di insuccessi e di scelte militariste sbagliate che non hanno precedenti nella storia moderna americana. Il 21 aprile 2009 Hillary Clinton riceveva alla Segreteria di Stato Mutassim Gheddafi, figlio del Colonnello, all'epoca a capo della sicurezza nazionale libica: “Sono onorata di dare il benvenuto al ministro Gheddafi […] apprezziamo il valore profondo delle nostre relazioni e avremo molte occasioni di approfondire e ampliare la nostra collaborazione”. Mutassim, tra i figli di Gheddafi quello più simile al padre, sfoggiò un sorriso magnetico mentre stringeva la mano alla Clinton. Il 20 ottobre 2011 la stessa Hillary Clinton, preparandosi a un'intervista con la CBS, riceveva durante un fuori onda – ripreso ugualmente dall'operatore - l'inattesa notizia della cattura di Gheddafi sul BlackBerry di una sua collaboratrice: “Wow” esclamò con l'aria sinceramente sorpresa “ci sono notizie non confermate sulla cattura di Gheddafi”. Pochi minuti dopo, prima di cominciare a girare, sistemandosi la giacca e con un sorriso estatico sul volto, rivolgendosi alla giornalista, la signora Clinton declinò addirittura Giulio Cesare: “Siamo venuti, abbiamo visto, è morto!”. Era il periodo nel quale gli Stati Uniti, e la signora Clinton, si esprimevano con dichiarazioni infuocate anche verso il Presidente siriano Bashar al-Assad: nel mese di agosto la Clinton suggeriva ad Assad di “togliersi di torno”, sposando in toto la teoria della CIA e dell'Arabia Saudita che la rimozione del dittatore siriano sarebbe stata rapida, priva di costi e sicuramente un successo. Il risultato di quelle scelte lo osserviamo oggi, ma ci serve un mappamondo per guardarlo tutto: la crisi è diffusa in un'area che va dal Mali fino all'Afghanistan – e si allarga verso est – e nel cuore di questo grande spazio ci sono due scenari apocalittici: Libia e Siria. Durante il periodo da Segretario di Stato Hillary Clinton ha avuto un'influenza enorme sul Presidente Barack Obama, determinante per alcune scelte determinanti in politica estera, e spesso è stato proprio il parere della signora Clinton a far prendere a Obama una decisione piuttosto che un'altra. Nella vita reale, le scelte dell'amministrazione americana durante il periodo di Hillary Clinton alla Segreteria di Stato possono essere rappresentate tramite un numero: 10 milioni di profughi siriani, che quando non muoiono sotto le bombe, di fame durante il viaggio, di malattie nei campi profughi o annegati nel Mediterraneo, si ritrovano in Europa alimentando una crisi politica senza precedenti, indebolendo paesi già in difficoltà come Grecia e Italia e creando una realtà che sta minando alla base i valori fondanti della stessa Unione Europea. Ma l'operato della signora Clinton non riguarda soltanto il Medio Oriente e il nord Africa: da senatrice Hillary ha approvato, votandola, la Risoluzione 439 del Senato che permise l'inclusione di Ucraina e Georgia nella NATO, un atto che fu l'embrione di quella che oggi la Russia definisce “nuova Guerra Fredda”. Gli americani negano, ma le operazioni di rafforzamento dei contingenti americani in Europa sono un dato di fatto che racconta una storia diversa da quella ufficiale. Il suo successore come Segretario di Stato John Kerry è ancora al lavoro per riparare i buchi immensi provocati dalla sete di bombe della signora Clinton: lo scenario libico, raccontato in questo articolo di grande giornalismo del New York Times, è oggi la conseguenza di numerose scelte scellerate fatte da Hillary Clinton ed oggi un Paese con una popolazione inferiore a quella dello stato del Tennessee preoccupa due colossi mondiali come gli Stati Uniti e l'Unione Europea: “Abbiamo avuto un'occasione d'oro per ridare vita a questo paese. Purtroppo quel sogno si è infranto” ha detto Mahmoud Jibril, che fu primo ministro ad interim del governo provvisorio nato durante la rivoluzione libica. Era stato il principale interlocutore di Hillary Clinton prima che morisse Gheddafi. 

Email di Hillary, dinari d’oro e Primavera araba, scrive F. William Engdahl, New Eastern Outlook il 17 marzo 2016. Sepolto tra decine di migliaia di pagine e-mail segrete dell’ex-segretaria di Stato Hillary Clinton, ora rese pubbliche dal governo degli Stati Uniti, c’è un devastante scambio di e-mail tra Clinton e il suo confidente Sid Blumenthal su Gheddafi e l’intervento degli Stati Uniti coordinato nel 2011 per rovesciare il governante libico. Si tratta dell’oro quale futura minaccia esistenziale al dollaro come valuta di riserva mondiale. Si trattava dei piani di Gheddafi per il dinaro-oro per l’Africa e il mondo arabo. Due paragrafi in una e-mail di recente declassificate dal server privato illegalmente utilizzato dall’allora segretaria di Stato Hillary Clinton durante la guerra orchestrata dagli Stati Uniti per distruggere la Libia di Gheddafi nel 2011, rivelano l’ordine del giorno strettamente segreto della guerra di Obama contro Gheddafi, cinicamente chiamata “Responsabilità di proteggere”. Barack Obama, presidente indeciso e debole, delegò tutte le responsabilità presidenziali della guerra in Libia alla segretaria di Stato Hillary Clinton, prima sostenitrice del “cambio di regime” arabo utilizzando in segreto i Fratelli musulmani ed invocando il nuovo bizzarro principio della “responsabilità di proteggere” (R2P) per giustificare la guerra libica, divenuta rapidamente una guerra della NATO. Con l’R2P, concetto sciocco promosso dalle reti dell’Open Society Foundations di George Soros, Clinton affermava, senza alcuna prova, che Gheddafi bombardasse i civili libici a Bengasi. Secondo il New York Times, citando fonti di alto livello dell’amministrazione Obama, fu Hillary Clinton, sostenuta da Samantha Power, collaboratrice di primo piano al Consiglio di Sicurezza Nazionale e oggi ambasciatrice di Obama alle Nazioni Unite, e Susan Rice, allora ambasciatrice di Obama alle Nazioni Unite, e ora consigliere per la Sicurezza Nazionale, che spinse Obama all’azione militare contro la Libia di Gheddafi. Clinton, affiancata da Powers e Rice, era così potente che riuscì a prevalere sul segretario alla Difesa Robert Gates, Tom Donilon, il consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, e John Brennan, capo antiterrorismo di Obama ed oggi capo della CIA. La segretaria di Stato Clinton guidò la cospirazione per scatenare ciò che venne soprannominata “primavera araba”, l’ondata di cambi di regime finanziati dagli USA nel Medio Oriente arabo, nell’ambito del progetto del Grande Medio Oriente presentato nel 2003 dall’amministrazione Bush dopo l’occupazione dell’Iraq. I primi tre Paesi colpiti dalla “primavera araba” degli USA nel 2011, in cui Washington usò le sue ONG per i “diritti umani” come Freedom House e National Endowment for Democracy, in combutta come al solito con le Open Society Foundations dello speculatore miliardario George Soros, insieme al dipartimento di Stato degli Stati Uniti e ad agenti della CIA, furono la Tunisia di Ben Ali, l’Egitto di Mubaraq e la Libia di Gheddafi. Ora tempi e obiettivi di Washington della destabilizzazione via “primavera araba” del 2011 di certi Stati in Medio Oriente assumono nuova luce in relazione alle email declassificate sulla Libia di Clinton con il suo “consulente” e amico Sid Blumenthal. Blumenthal è l’untuoso avvocato che difese l’allora presidente Bill Clinton nello scandalo sessuale di Monika Lewinsky quando era Presidente e affrontava l’impeachment. Per molti rimane un mistero perché Washington abbia deciso che Gheddafi dovesse essere ucciso, e non solo esiliato come Mubaraq. Clinton, quando fu informata del brutale assassinio di Gheddafi da parte dei terroristi di al-Qaida dell' “opposizione democratica” finanziata dagli USA, pronunciò alla CBS News una perversa parafrasi di Giulio Cesare, “Siamo venuti, l’abbiamo visto, è morto” con una fragorosa risata macabra. Poco si sa in occidente di ciò che Muammar Gheddafi fece in Libia o anche in Africa e nel mondo arabo. Ora, la divulgazione di altre e-mail di Hillary Clinton da segretaria di Stato, al momento della guerra di Obama a Gheddafi, getta nuova drammatica luce. Non fu una decisione personale di Hillary Clinton eliminare Gheddafi e distruggerne lo Stato. La decisione, è ormai chiaro, proveniva da ambienti molto potenti dell’oligarchia monetaria degli Stati Uniti. Era un altro strumento a Washington del mandato politico di tali oligarchi. L’intervento era distruggere i piani ben definiti di Gheddafi per creare una moneta africana e araba basata sull’oro per sostituire il dollaro nei traffici di petrolio. Da quando il dollaro USA ha abbandonato il cambio in oro nel 1971, il dollaro rispetto all’oro ha perso drammaticamente valore. Gli Stati petroliferi dell’OPEC hanno a lungo contestato il potere d’acquisto evanescente delle loro vendite di petrolio, che dal 1970 Washington impone esclusivamente in dollari, mentre l’inflazione del dollaro arrivava ad oltre il 2000% nel 2001. In una recentemente declassificata email di Sid Blumenthal alla segretaria di Stato Hillary Clinton, del 2 aprile 2011, Blumenthal rivela la ragione per cui Gheddafi andava eliminato. Utilizzando il pretesto citato da una non identificata “alta fonte”, Blumenthal scrive a Clinton, “Secondo le informazioni sensibili disponibili a questa fonte, il governo di Gheddafi detiene 143 tonnellate di oro e una quantità simile in argento… l’oro fu accumulato prima della ribellione ed era destinato a creare una valuta panafricana basata sul dinaro d’oro libico. Questo piano era volto a fornire ai Paesi africani francofoni un’alternativa al franco francese (CFA)“. Tale aspetto francese era solo la punta dell’iceberg del dinaro d’oro di Gheddafi. Nel primo decennio di questo secolo, i Paesi OPEC del Golfo persico, tra cui Arabia Saudita, Qatar e altri, iniziarono seriamente a deviare una parte significativa dei ricavi delle vendite di petrolio e gas sui fondi sovrani, basandosi sul successo dei fondi petroliferi norvegesi. Il crescente malcontento verso la guerra al terrorismo degli Stati Uniti, con le guerre in Iraq e Afghanistan e la loro politica in Medio Oriente dal settembre 2001, portò la maggior parte degli Stati arabi dell’OPEC a deviare una quota crescente delle entrate petrolifere su fondi controllati dallo Stato, piuttosto che fidarsi delle dita appiccicose dei banchieri di New York e Londra, come era solito dagli anni ’70, quando i prezzi del petrolio schizzarono alle stelle creando ciò che Henry Kissinger affettuosamente chiamò “petrodollaro” per sostituire il dollaro-oro che Washington mollò il 15 agosto 1971. L’attuale guerra tra sunniti e sciiti o lo scontro di civiltà sono infatti il risultato delle manipolazioni degli Stati Uniti nella regione dal 2003, il “divide et impera”. Nel 2008 la prospettiva del controllo sovrano in un numero crescente di Stati petroliferi africani ed arabi dei loro proventi su petrolio e gas causava gravi preoccupazioni a Wall Street e alla City di Londra. Un’enorme liquidità, migliaia di miliardi, che potenzialmente non potevano più controllare. La primavera araba, in retrospettiva, appare sempre più sembra legata agli sforzi di Washington e Wall Street per controllare non solo gli enormi flussi di petrolio dal Medio Oriente arabo, ma ugualmente lo scopo era controllarne il denaro, migliaia di miliardi di dollari che si accumulavano nei nuovi fondi sovrani. Tuttavia, come confermato dall’ultimo scambio di email Clinton-Blumenthal del 2 aprile 2011, dal mondo petrolifero africano e arabo emergeva una nuova minaccia per gli “dei del denaro” di Wall Street e City di Londra. La Libia di Gheddafi, la Tunisia di Ben Ali e l’Egitto di Mubaraq stavano per lanciare la moneta islamica indipendente dal dollaro USA e basata sull’oro. Mi fu detto di questo piano nei primi mesi del 2012, in una conferenza finanziaria e geopolitica svizzera, da un algerino che sapeva del progetto. La documentazione era scarsa al momento e la storia mi passò di mente. Ora un quadro molto più interessante emerge indicando la ferocia della primavera araba di Washington e l’urgenza del caso della Libia. Nel 2009 Gheddafi, allora Presidente dell’Unione africana, propose che il continente economicamente depresso adottasse il “dinaro d’oro”. Nei mesi precedenti la decisione degli Stati Uniti, col sostegno inglese e francese, di aver una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per aver la foglia di fico del diritto alla NATO di distruggere il regime di Gheddafi, Muammar Gheddafi organizzò la creazione del dinaro-oro che sarebbe stato utilizzato dagli Stati africani petroliferi e dai Paesi arabi dell’OPEC per vendere petrolio sul mercato mondiale. Al momento Wall Street e City di Londra erano sprofondati nella crisi finanziaria del 2007-2008, e la sfida al dollaro quale valuta di riserva l’avrebbe aggravata. Sarebbe stata la campana a morto per l’egemonia finanziaria statunitense e il sistema del dollaro. L’Africa è uno dei continenti più ricchi del mondo, con vaste inesplorate ricchezze in minerali ed oro, volutamente mantenuto per secoli sottosviluppato o preda di guerre per impedirne lo sviluppo. Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale negli ultimi decenni furono gli strumenti di Washington per sopprimere un vero sviluppo africano. Gheddafi invitò i Paesi produttori di petrolio africani dell’Unione africana e musulmani ad entrare nell’alleanza che avrebbe fatto del dinaro d’oro la loro valuta. Avrebbero venduto petrolio e altre risorse a Stati Uniti e resto del mondo solo in dinari d’oro. In qualità di Presidente dell’Unione africana, nel 2009 Gheddafi presentò all’Unione Africana la proposta di usare il dinaro libico e il dirham d’argento come unico denaro con cui il resto del mondo poteva comprare il petrolio africano. Insieme ai fondi sovrani arabi dell’OPEC, le altre nazioni petrolifere africane, in particolare Angola e Nigeria, creavano i propri fondi nazionali petroliferi quando nel 2011 la NATO bombardava la Libia. Quei fondi nazionali sovrani, legati al concetto del dinaro d’oro di Gheddafi, avrebbe realizzato il vecchio dell’Africa indipendente dal controllo monetario coloniale, che fosse sterlina, franco francese, euro o dollaro statunitense. Gheddafi attuava, come capo dell’Unione africana, al momento dell’assassinio, il piano per unificare gli Stati sovrani dell’Africa con una moneta d’oro negli Stati Uniti d’Africa. Nel 2004, il Parlamento panafricano di 53 nazioni aveva piani per la Comunità economica africana, con una moneta d’oro unica entro il 2023. Le nazioni africane produttrici di petrolio progettavano l’abbandono del petrodollaro e di chiedere pagamenti in oro per petrolio e gas; erano Egitto, Sudan, Sud Sudan, Guinea Equatoriale, Congo, Repubblica democratica del Congo, Tunisia, Gabon, Sud Africa, Uganda, Ciad, Suriname, Camerun, Mauritania, Marocco, Zambia, Somalia, Ghana, Etiopia, Kenya, Tanzania, Mozambico, Costa d’Avorio, oltre allo Yemen che aveva appena scoperto nuovi significativi giacimenti di petrolio. I quattro Stati africani nell’OPEC, Algeria, Angola, Nigeria, gigantesco produttore di petrolio e primo produttore di gas naturale in Africa dagli enormi giacimenti di gas, e la Libia dalle maggiori riserve, avrebbero aderito al nuovo sistema del dinaro d’oro. Non c’è da stupirsi che il presidente francese Nicolas Sarkozy, che da Washington ricevette il proscenio della guerra contro Gheddafi, arrivò a definire la Libia una “minaccia” alla sicurezza finanziaria del mondo. Una delle caratteristiche più bizzarre della guerra di Hillary Clinton per distruggere Gheddafi fu che i “ribelli” filo-USA di Bengasi, nella parte petrolifera della Libia, nel pieno della guerra, ben prima che fosse del tutto chiaro che avrebbero rovesciato il regime di Gheddafi, dichiararono di aver creato una banca centrale di tipo occidentale “in esilio”. Nelle prime settimane della ribellione, i capi dichiararono di aver creato una banca centrale per sostituire l’autorità monetaria dello Stato di Gheddafi. Il consiglio dei ribelli, oltre a creare la propria compagnia petrolifera per vendere il petrolio rubato, annunciò: “la nomina della Banca Centrale di Bengasi come autorità monetaria competente nelle politiche monetarie in Libia, e la nomina del governatore della Banca centrale della Libia, con sede provvisoria a Bengasi”. Commentando la strana decisione, prima che l’esito della battaglia fosse anche deciso, di creare una banca centrale per sostituire la banca nazionale sovrana di Gheddafi che emetteva dinari d’oro, Robert Wenzel del Economic Policy Journal, osservò, “non ho mai sentito parlare di una banca centrale creata poche settimane dopo una rivolta popolare. Ciò suggerisce che c’è qualcos’altro che non una banda di straccioni ribelli e che ci sono certe piuttosto sofisticate influenze”. È chiaro ora, alla luce dei messaggi di posta elettronica Clinton-Blumenthal, che tali “influenze abbastanza sofisticate” erano legate a Wall Street e City di Londra. La persona inviata da Washington a guidare i ribelli nel marzo 2011, Qalifa Haftar, aveva trascorso i precedenti venti anni in Virginia, non lontano dal quartier generale della CIA, dopo aver lasciato la Libia quando era uno dei principali comandante militari di Gheddafi. Il rischio per il futuro del dollaro come valuta di riserva mondiale, se Gheddafi avesse potuto procedere insieme a Egitto, Tunisia e altri Stati arabi di OPEC e Unione Africana, introducendo le vendite di petrolio in oro e non dollari, sarebbe stato chiaramente l’equivalente finanziario di uno tsunami. Il sogno di Gheddafi di un sistema basato sull’oro arabo e africano indipendente dal dollaro, purtroppo è morto con lui. La Libia, dopo la cinica “responsabilità di proteggere” di Hillary Clinton che ha distrutto il Paese, oggi è lacerata da guerre tribali, caos economico, terroristi di al-Qaida e SIIL. La sovranità monetaria detenuta dal 100% dalle agenzie monetarie nazionali statali di Gheddafi e la loro emissione di dinari d’oro, è finita sostituita da una banca centrale “indipendente” legata al dollaro. Nonostante ciò, va notato che ora un nuovo gruppo di nazioni si unisce per costruire un sistema monetario basato sull’oro. Questo è il gruppo guidato da Russia e Cina, terzo e primo Paesi produttori di oro nel mondo. Questo gruppo è legato alla costruzione del grande progetto infrastrutturale eurasiatico della Nuova Via della Seta della Cina, comprendente 16 miliardi di fondi in oro per lo sviluppo della Cina, decisa a sostituire City di Londra e New York come centri del commercio mondiale dell’oro. L’emergente sistema d’oro eurasiatico pone ora una serie completamente nuova di sfide all’egemonia finanziaria statunitense. Questa sfida eurasiatica, riuscendo o fallendo, deciderà se la nostra civiltà potrà sopravvivere e prosperare in condizioni completamente diverse, o affondare con il fallimentare sistema del dollaro. F. William Engdahl è consulente di rischio strategico e docente, laureato in politica alla Princeton University, è autore di best-seller su petrolio e geopolitica, in esclusiva per la rivista online “New Eastern Outlook”. Traduzione del 12 luglio 2016 di Alessandro Lattanzio – SitoAurora.

Modesto contributo alla chiacchiera su guerra di religione. In forma di catechismo, scrive Maurizio Blondet il 29 luglio 2016. Un caro lettore, travolto come tutti dallo stato d’animo collettivo indotto, mi ha scritto: “Stamani tutti i media riportano queste parole di Bergoglio che quella in essere non è una guerra di religione. Ovviamente il senso della gente comune sa che questa è una menzogna. Non riesco a capire la logica di questo messaggio subito ripreso, ad esempio, dal presidente della repubblica. Spero possa accennare una risposta in un suo prossimo articolo. La ringrazio. Prego per Lei e la sua famiglia.” Mi sono quindi risolto a riportare qualche argomento di cui il nostro amico - e chiunque vorrà interloquire nella chiacchiera frenetica sulla guerra di religione in corso -  potrà fare riferimento.   Sul terrorismo islamico, riporto fatti incontrovertibili. Sotto forma di catechismo, così spero sia più semplice. Il terrorismo islamico non esisteva “prima”. Esisteva il terrorismo islamico, “prima”? Ossia quando l’Afghanistan era sotto un governo comunista, l’Irak sotto Saddam Hussein, l’Egitto governato da Mubarak, la Siria dalla famiglia Assad e la Libia da Gheddafi? No. Quelli erano regimi laici, modernizzanti, nazionalisti –   ossia promotori attivi dell’unità nazionale, al disopra delle plurime entità etniche e religiose che governavano. Per questo erano ostili ad ogni islamismo settario.  Lo tenevano a freno, se si manifestava nel loro stati.   In Irak e in Siria, le minoranze cristiane erano rispettate e spesso, anzi, erano la spina dorsale di quei regimi. Chi ha fatto cadere quei regimi con forze militari imponenti, destabilizzandone i paesi, gettandoli nel caos e nella guerra intestina? Gli Stati Uniti: alla testa di coalizioni occidentali, a cui hanno partecipato Gran Bretagna, Francia, stati membri della NATO oppure no, come Australia o Polonia (nella prima guerra del Golfo); la NATO ha preso il controllo dell’Afghanistan (missione ISAF). Per quale motivo l’Occidente a guida americana ha messo a ferro e fuoco quei paesi, massacrato i loro governanti anti-islamisti, e li ha gettati nel caos in mano a forze settarie? In esecuzione del piano israeliano (detto Piano Kivunim) che dal 1982 propugnava   la spaccatura di questi Stati “secondo le loro linee di   frattura etniche e religiose”. Nella rivista ebraica Kivunim, si leggeva al proposito: “l’Iraq, ricco di petrolio e lacerato internamente, è sicuramente un candidato degli obiettivi d’Israele. La sua dissoluzione è ancora più importante per noi di quella della Siria. L’Iraq è più forte della Siria. … Ogni confronto inter-arabo ci aiuterà nel breve periodo e accorcerà la strada all’obiettivo più importante, spezzare l’Iraq in domini come Siria e Libano. In Iraq, la divisione in province lungo linee etno-religiose, come in Siria durante il periodo ottomano, è possibile. Così esisteranno almeno tre Stati attorno alle tre principali città: Bassora, Baghdad e Mosul, e le aree sciite del sud si separeranno dal nord sunnita e curdo. … L’intera penisola arabica è un candidato naturale della dissoluzione su pressioni interne ed esterne, e la questione è inevitabile soprattutto per l’Arabia Saudita”.   Israele non poteva sentirsi sicura senza creare il caos attorno a sé. Ma perché il governo Usa avrebbe aderito a questo piano? Perché vi conversero gli interessi petroliferi (esemplificati da Dick Cheney, presidente della Halliburton) e il sistema militare-industriale.    Si aggiunga il regno dei Saud, che vide il proprio interesse in questo progetto per ragioni settarie: portatore della versione più reetriva del Sunnismo (il wahabismo) voleva distruggere gli Sciit, e segnatamente l’Iran.  Quando Bush figlio prese la presidenza, attorno a lui tutto era pronto per questo progetto. Quando si è sentito parlare per la prima volta di “terrorismo islamico”? L’11 Settembre 2001, quando gli Stati Uniti sono stati proditoriamente aggrediti da un gruppo di terroristi islamici che hanno dirottato dei Boeing e li hanno lanciati contro le Twin Tower e il Pentagono, facendo oltre 3 mila morti.  I terroristi erano guidati da Osama Bin Laden. Chi era Osama Bin Laden? Era un   miliardario saudita la cui famiglia è amica, e socia in affari, della famiglia Bush. Aiutò gli americani a rovesciare il regime comunista in Afghanistan negli anni ’80; per loro arruolò migliaia di combattenti in tutto il Medio Oriente per mandarli a debellare i sovietici: con armamenti americani, e instaurare un regime religioso’, composto dai Talebani (studenti islamici preparati in Pakistan).  Questa organizzazione agli ordini americani si chiamava Al Qaeda (database – l’elenco degli arruolati). Quando Bin Laden è diventato nemico degli Usa? Improvvisamente. Ancora il 9 settembre 2001, due sue uomini (fingendosi giornalisti) uccisero il generale Massoud, il Leone del Panshir, inviso agli americani perché sarebbe stato in grado – come eroe nazionale – di unificare e stabilizzare l’Afghanistan.   L’intelligence francese sostenne che il capostazione della Cia andò a far visita a Bin Laden all’ospedale americano di Dubai a luglio, dove era ricoverato per dialisi. Lo scrisse il Figaro, senza essere smentito.  Dunque il 9 settembre era ancora amico, e il 21 era divenuto nemico degli Usa. Ma queste   sono ipotesi complottiste, che non si possono dimostrare! Lo disse il generale Wesley Clark, che era stato capo della NATO durante l’intervento in Kossovo: il giorno dopo l’11 Settembre, andò al Pentagono e un ufficiale suo amico, che aveva appena parlato col ministro (Donald Rumsfeld), lo chiamò nell’ufficio, chiuse la porta e gli sussurrò, incredulo: “Andiamo ad attaccare 7 paesi in 5 anni.  Adesso cominciamo con l’Irak, poi Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan, e per finire, Iran”.  D’accordo, però nella religione islamica è insita la violenza, il jihad, la conversione forzata. Sì, certo.  Però era un aspetto dormiente, e tenuto a freno dai governi laici di Irak, Siria, Libia.  Quell’aspetto atroce dell’Islam fu risvegliato e istigato volontariamente. Gruppi fanatici furono armati ed addestrati apposta. Anche questa è una teoria complottista senza alcuna prova! Sempre il generale Wesley Clark – ricordo, l’ex comandante supremo NATO in Europa – disse alla CNN kil 21 febbraio 2015: “Abbiamo reclutato Zeloti e estremisti takfiri”, creato “un Frankenstein”; in quell’intervista spiegò anche: “L’ISIS è stato creato dai nostri alleati per battere fino alla morte Hezbollah”. Intendeva: creato dalla monarchia Saudita per debellare la componente sciita che vive in Libano, Hezbollah. Dunque gli Usa avrebbero creato, o lasciato creare, i movimenti   terroristico-jihadisti, per poi combatterli? Ma è assurdo! A che scopo? Secondo Samuel Huntington, che è il principale scienziato politico americano, la cosa è utile al potere americano. Egli scrisse nel 1996 un saggio, “Scontro di Civiltà e Nuovo Ordine Mondiale”, in cui profetizzò che “la principale fonte di conflitti nel mondo post-Guerra fredda diverranno le identità culturali e religiose”; non ci saranno più guerre fra Stati fra “civiltà”.  Di fatto, ragionava Huntington, dopo la caduta dell’Urss dove trovare un nemico comune che tenga unito l’Occidente sotto la guida americana? Lo scontro di civiltà era la risposta; e la lotta all’Islam, una   popolosa cultura “aliena” e poco solubile nel nuovo ordine mondiale, era la soluzione. Che piaceva anche a Israele e alla lobby giudaica a Washington. E questa strategia ha avuto successo? Sì, il piano Kivunim ha avuto successo. Tutti i paesi islamici circostanti Israele, e quasi tutti quelli più lontani, sono sconvolti da lotte intestine etnico-religiose: sciiti contro sunniti, curdi contro turchi, cirenaici contro tripolitani, alawiti contro sunniti….   Nessuno di questo tornerà più ad essere uno Stato ordinato, quindi che possa rappresentare un pericolo politico o militare per Israele.   Il progetto però è incompiuto in due casi: l’Iran non è stato ancora destabilizzato (troppo grosso e lontano), e i tentativi di Israele di indurre Washington a bombardarne le centrali nucleari è andato finora a vuoto; e la Siria. Qui la caduta del regime laico di Assad è stata sventata dalla Russia, che l’aiuta militarmente; ed anche dal fatto che le minoranze siriane non si battono contro il regime in numero sufficiente, né aderiscono al jihadismo di ISI e Al Qaeda, preferendo di fuggire come profughi. Al punto che oggi a combattere in Siria contro Assad non sono le opposizioni siriane, ma jihadisti ceceni, azeri, europei reclutati in Francia, Belgio Gran Bretagna, e spesso   attratti dalle paghe: reclutati come mercenari coi soldi Sauditi e l’addestramento della Cia. Però adesso l’ISIS manda i suoi terroristi in Europa. L’ISIS? Abbiamo visto che si tratta di una creazione americano-saudita. Gli israeliani li sostengono nella lotta in Siria, silenziosamente, curano i feriti del Califfato nei loro ospedali (esiste ampia documentazione). Gli americani stanno ostacolando le azioni militari russe; hanno intimato a Putin di non colpire Al Nusra (nome nuovo di Al Qaeda) perché quelli sono “l’opposizione democratica” che intendono mettere al potere in Siria, dopo detronizzato Assad.   Comunque l’ISIS ha il suo daffare a difendersi, altro che spedire jihadisti in Europa. Però rivendica tutti gli attentati islamici che avvengono sempre più spesso in Europa. Le rivendicazioni sono opportuniste. E   lei è proprio sicuro che sia l’ISIS a farle? Dopotutto, le rivendicazioni dell’ISI vengono diffuse dal SITE, un’azienda della israeliano-americana Rita Katz. Sono tutte probabilmente false, create dalla propaganda israeliana. Ma   i jihadisti ammazzano davvero! A Nizza, a Rouen hanno ammazzato il prete! Non è questa guerra di religione? E’ scontro di civiltà come voleva Huntington.  È strategia della tensione: qualcuno vuole tenere gli europei nella paura. Diversi esponenti israeliani   hanno detto: “è bene che gli europei provino quello che proviamo noi, che quando andiamo al ristorante non siamo sicuri di tornare a casa”, perché un palestinese può accoltellarli.  Anche certi governi europei possono trovare conveniente tenere i loro cittadini nella tensione e nella paura, nel clima della lotta perpetua al Nemico Islamico, che è fra noi e colpisce quando vuole. Il Piano Kivunim, tradotto in inglese dall’ebraico dal compianto amico Israel Shahak. Come scrisse Orwell nel suo “1984”, dove immagina uno stato totalitario futuro: “C’erano   attentati continui e ingiustificati. Fatti a caso.  Servivano allo Stato per limitare le libertà dei cittadini.   Ad ogni attentato, si facevano leggi restrittive della libertà!” Ma qui siamo in democrazia! Sì, certo. Hollande però ha approfittato degli attentati per prolungare lo stato di emergenza, ossia leggi restrittive della libertà dei cittadini. Ma non dirà che   sono gli stessi governi a indurre due diciannovenni islamici a sgozzare il povero prete a Rouen. Quelli hanno agito spontaneamente, a nome dell’ISIS. Certamente. E’ un meccanismo che noi italiani conosciamo bene. Negli anni di piombo, di strategia della tensione, le Brigate Rosse commettevano omicidi; ebbene, più ne commettevano, più trovavano favore nelle fabbriche e nelle scuole, fra frange notevoli di studenti e di operai “di sinistra”. E anche molti intellettuali simpatizzavano: “Né con lo stato né con le BR”, scrissero in molti. I più giovani e suggestionabili, sognavano di arruolarsi nelle Brigate Rosse, cercavano contatti, volevano andare in clandestinità – era uno stato d’animo collettivo, ed era anche una moda travolgente.  Oggi sappiamo che strategia della tensione e BR erano “gestite” da servizi esteri e da Gladio, organizzazione clandestina della NATO. Ma i giovani di allora erano sedotti da quello stato d’animo, sparavano “spontaneamente”. Come i marginali di oggi in Europa, col nome e cognome islamico, sono sedotti da un ISIS – che è una creazione americana. Non mi ha convinto…Lo so. So che lei è sotto influsso psico-emotivo dello stato d’animo collettivo che ci vuole spaventati: l’Islam ci attacca! E’ una guerra di religione! Sì, è una guerra di religione. Indotta, però, da centrali che hanno fatto di tutto per provocarla.  Le centrali di cui sopra vogliono che la civiltà europea venga devastata – come hanno voluto la devastazione di Palmyra in Siria – e scompaia. Ma perché? Perché la cultura e civiltà europea, greco-romana e cristiana, formava uomini liberi, e il potere globale non vuole liberi, ma consumatori. Perché odiano Cristo e la sua civiltà.  Perché quelle centrali – diciamo, gli usurai (per usare un termine poundiano) mai hanno avuto la capacità di edificare un Partenone, un Pantheon; mai hanno prodotto nulla che ricordi anche lontanamente Fidia o Caravaggio, né tra di loro è mai nato un Dostojewski, o uno Shakespeare o un Dante. I loro scrittori sono dei pornografi.  La loro “arte” è quella del MOMA di New York, una bruttezza che si vendono e comprano tra loro a prezzi stratosferici; bruttezza che si accompagna necessariamente alla menzogna e all’odio per il Vero: Vero e Bello sono la stessa cosa, diceva Tommaso d’Aquino. Vogliono renderci come loro. Spaventati e pieni d’odio e d’invidia per il genere umano.

Perché DAESH vuole Killary presidente. Proprio come tutti i Katz, scrive Maurizio Blondet il 2 agosto 2016. Come si diceva, Daesh minaccia Putin il giorno dopo che Hillary ha accusato Putin, coi suoi hackers, di aver diffuso le mail più discutibili su di lei e il suo partito democratico.  “Daesh per Hillary!”, era il nostro titolo.  Meno paradossale di quel che sembra: per forza Daesh aiuta la Clinton   a   entrare nella Casa Bianca – dopo tutto quello che lei ha fatto per lui. La cosa è saltata fuori, ma subito sepolta, dopo l’11 settembre 2012, il giorno in cui l’ambasciatore americano Chris Stevens fu trucidato a Bengasi insieme ai Marines che gli facevano da guardie del corpo, in un oscuro combattimento.  Reso più oscuro dal fatto che i commandos pronti a partire da Sigonella per soccorrere l’ambasciatore – sarebbero arrivati in meno di mezz’ora – ricevettero da Obama l’ordine di stand-down, ossia di non muoversi: dal che si sospetta che Stevens sia stato deliberatamente sacrificato, per seppellire con lui una storia sporca   i cui liquami   sarebbero schizzati fino alla Clinton. Hillary, Panetta a desta e Dempsey mentono durante l’audizione al senato nel 2013. Questa vicenda sporca consisteva nel fatto che Stevens era stato mandato a Bengazi per comprare armamenti dai ribelli islamisti che avevano svuotato gli arsenali di Gheddafi, onde inviarli ai jihadisti che combattevano contro il regime di Assad: lo   Stato Islamico, guarda caso, che per i media nasce proprio nel 2012, distaccandosi da Al Qaeda con tanto di comunicato ufficiale. In una udienza al Senato del maggio 2012, Hillary Clinton – affiancata da Leon Panetta allora segretario alla Difesa, e all’ammiraglio Dempsey (capo degli stati maggiori) – negarono l’esistenza del piano per armare occultamente i terroristi in Siria. O meglio: raccontarono che sì, avevano avuto l’idea, ne parlarono ad Obama, ma lui la bocciò – sicché non se ne fece nulla.   Lo stesso Bill Clinton ha raccontato in un’intervista alla CNN che il piano esisteva e che lui l’aveva raccomandato, ma niente. Menzogne su menzogne. Come ha dimostrato una approfondita ed esplosiva inchiesta condotta da Aaron Klein.  Il quale non è solo ebreo, ma è anche un noto columnist del New York Times, ed oggi è capo della redazione di Gerusalemme per il Breitbart News Network.   E il suo libro-accusa, “The REAL Benghazi story: what the White House and Hillary don’t want you to know” è stato un best seller nel 2014, quando è uscito. Che cosa ha scoperto Klein? Che contrariamente alla versione ufficiale, Obama aveva autorizzato l’operazione segreta (e illegale) di acquistare dai tagliagole libici le armi per mandarle ai tagliagole siriani. Come l’ha scoperto?   Nel modo più facile: un lancio della Reuters che ai primi del 2012 rendeva noto quanto segue: il presidente Obama ha firmato un ordine esecutivo “che permette alla Cia ed altre agenzie di fornire sostegno ai ribelli per cacciare Assad”: mandato “broadly”, ossia ampio e generico. Da attuarsi, aggiungeva l’agenzia, attraverso un “centro di comando segreto operato dalla Turchia e i suoi alleati” (sic).  Sempre la Reuters, citando una “fonte Usa”, avvertiva però che la Casa Bianca non aveva autorizzato l’invio di armi letali, “anche se certi alleati Usa lo fanno” (sic). Che Chris Stevens fu mandato in Libia senza lo status di ambasciatore, “a bordo di un cargo battente bandiera greca che portava forniture e automezzi”, già durante la rivoluzione che eliminò Gheddafi. Il suo compito?  Diventare “il primo interlocutore fra l’amministrazione Obama e i ribelli basati a Bengasi” – e fare il mercante d’armi.   Era affiancato in questo compito da un professionista: come rivelò lo steso New York Times nel dicembre 2012, da un tale Marc Turi, definito dallo stesso medium mainstream “un mercante d’armi americano che voleva fornire armamenti in Libia”, e per il quale Stevens chiese al Dipartimento di Stato una autorizzazione – che è agli atti.  Anche dopo essere stato nominato ambasciatore, Stevens continuò – dice Klein – a trattare armi coi tagliagole. Che membri armati della “Brigata Martiri 17 Febbraio” (tagliagole libici collegati alla Ansar al Sharia, definita organizzazione terroristica dagli Usa) furono assunti dal Dipartimento di Stato – ossia da Hillary – per fornire la “security interna a una missione speciale” –   ossia par di capire a far da guardie del corpo a Stevens, visto che non essendo ancora ambasciatore non gli si potevano assegnare del Marines. Secondo Klein, i capi della Brigata Martiri 17 Febbraio furono anche usati   come agevolatori, diciamo, della compravendita ai arsenali da mandare ai tagliagole siriani. Nell’autorizzazione concessa ufficialmente dal Dipartimento di Stato a Marc Turi, e risalente al maggio 2011, si legge che il Turi aveva “il progetto di spedire armamenti del valore di 200 milioni di dollari al Katar” – uno dei massimi nemici di Assad. Facile capire   in che mani sarebbero finite quelle armi. Una “grossa spedizione di armi da Bengasi ai ribelli siriani partì nell’agosto 2012 (poche settimane prima la tragica fine di Stevens, 11 settembre) su una nave, e arrivò al porto turco di Iskenderum, a 35 chilometri dalla frontiera con la Siria.  Ufficialmente, portava aiuti umanitari.  Altri trasporti avvennero per via aerea in quel periodo. Il New York Times stesso raccontò in uno dei suoi articoli che “da uffici in località segrete”, membri dell’intelligence Usa “aiutavano i governi arabi a comprare armi – e “hanno selezionato accuratamente (sic) i   comandanti e i gruppi ribelli per determinare chi di loro avrebbe ricevuto le armi all’arrivo”. La Reuters ha intervistato il 18 giungo 2013 Abdul Basit Haroun, un ex capo della Brigata Martiri 17 Febbraio, che ammise di essere il facilitatore di uno dei più grossi invii di materiale bellico da Bengazi ai ribelli siriani; precisando che le armi erano spedite in Turchia, da cui venivano contrabbandate ai terroristi siriani. Secondo la testimonianza di un altro capo della Brigata, Ismail Salabi, questo Haroun s’era messo in proprio costituendo una sua milizia, poco dopo.   Aveva i mezzi, visti i milioni di dollari che entrarono nell’affare, per mezzo di Marc Turi. Naturalmente, quando poi Stevens fu attaccato e morì, si raccontò che era a Bengasi per recuperare i MANPaD (missili anti-aerei a spalla) che si sapeva erano negli arsenali saccheggiati da Gheddafi, e che i ribelli non volevano dare. Un’operazione. Ma se era meritoria, perché Chris Stevens fu lasciato trucidare e non salvato dalle Forze Speciali, che ascoltarono in diretta le disperate richieste di aiuto che gli rivolgevano, mentre sparavano assediati nella “casa sicura della Cia”, i Marines a Bengasi, quell’11 settembre 2012? Perché ricevettero l’ordine di stand down? Se non per coprire il porcilaio condotto dagli americani e dai loro terroristi preferiti? Probabilmente Stevens fu ucciso, diciamo, nel corso di un litigio per soldi fra i “ribelli” e l’americano; forse persino da elementi della Brigata che lo “proteggeva”. Si doveva proteggere Hillary. La candidata che l’intero Establishment ha scelto, e che sta cercando di imporre con tutti i mezzi contro il candidato Trump, l’inaffidabile, o l’oggetto degli odii più frenetici, “il complice di Putin” (come ha detto Leon Panetta alla convention democratica), la cui moglie “ha posato nuda”, quello che sputa sui soldati medaglie d’oro solo perché islamici.  Ho paura che le elezioni saranno truccate, ha detto Trump. E perché tutto questo? Perché, ha detto la stessa Hillary in una mail spifferata da Wikileaks, “il modo migliore di aiutare Israele contro l’Iran e la sua crescente capacità nucleare è aiutare il popolo di Siria a rovesciare il regime di Bashar Assad”. Obama non ha mai ricevuto il capo della DIA. Eppure ci sono notizie succose. Il generale Michael Flynn, già capo della DIA, ha fatto   una rivelazione più significativa delle nudità dell’ex modella moglie di Trump. Ha raccontato che Obama, pur avendo nominato lui – generale Flynn –   due volte come responsabile dell’intelligence militare, non l’ha mai voluto incontrare di persona. Mai l’ha convocato, in quattro anni.  Come ha avuto modo di spiegare   in un’altra esplosiva intervista a Seymour Hersh, Flynn avrebbe messo in guardia dalle losche operazioni che il Dipartimento di Stato, con la Cia, stava conducendo per armare i tagliagole dell’IS.  I quella stessa intervista, Flynn ha raccontato come e qualmente lui, e l’ammiraglio Dempsey allora capo degli SM Riuniti, mandarono a monte spedizioni di armi della Cia, collaborando con Putin e con Assad. Roba da corte marziale.   Se, s’intende, Obama avesse mai convocato Flynn e chiesto spiegazioni. Non l’ha mai fatto.  Non voleva sapere cosa facevano le erinni del Dipartimento di Stato, armando e finanziando i terroristi islamici che fingeva di combattere? O lo sapeva fin troppo bene? In ogni caso, giriamo la notizia alla valorosa corrispondente RAI da New York, che per 200 mila euro annui – da noi contribuenti pagati – copre quella sede prestigiosa e adora Obama, e ovviamente sostiene la Clinton contro Trump. Magari un servizietto sul generale Flynn e su come mai Obama non l’abbia mai voluto ascoltare né abbia mai letto un suo rapporto in quattro anni?  Gli diamo anche la fonte, pubblica. E gli diamo lo scoop gratis, non deve spendere nessuno dei 200 mila euro annui che riceve da noi. (Una lettura che farebbe bene anche ai giornalisti, commentatori, cattoliconi che strillano sugli “islamisti che ci sgozzano in chiesa”. Sì, quegli islamisti sono una creatura   di queste operazioni sopra descritte.   Perché non lo dite mai?). Mentre finisco di scrivere, i giornali e tg italiani sono tutti eccitati perché Obama “ha dato direttamente ordine” di bombardare “i terroristi islamici dell’IS in Libia”. Certo, bisogna ripulire i segni, gli indizi e i testimoni scomodi   di quel che fece Hillary coi ribelli, oggi IS, prima Al Qaeda, sempre un asset americano.

Ed altra condanna a morte ci attende. 

Mario Giordano su Libero Quotidiano del 1 agosto 2016 vs islamici: "Andate pure a messa, ma la verità su Maometto è questa qua" (devastante). Pubblichiamo Posta Prioritaria, la rubrica in cui Mario Giordano risponde alla missiva di un lettore. Oggi si parla della differenza tra Gesù e Maometto.

Caro Giordano, nella sua “posta prioritaria” lei, oltre ad apprezzare giustamente quanto scritto dalla lettrice Marina Pacini, le risponde evidenziando due differenze fondamentali tra cristianesimo e islam: il cristianesimo ha avuto un Nuovo Testamento che ha superato il Vecchio Testamento e ha un Papa che ne dà l’interpretazione valida per tutti i cristiani. È quello che tutte le persone colte sostengono ma, a parer mio, sono due cose ineludibili per i teologi ma superflue per i fedeli. Il Cristianesimo è nato quando Cristo è sceso in terra e ha detto «Ama il prossimo tuo come te stesso» e «Non fare ad altri ciò che non vuoi venga fatto a te»: con queste semplici ed inequivocabili parole ha cancellato, emarginato tutta la violenza contenuta nei precedenti testi sacri indicando, da quel momento in poi, la strada per separare il bene dal male. Tutto il resto è teologia, importantissima, ma teologia: quello che conta è Cristo con la sua parola che non può essere fraintesa. Confrontare cristianesimo e islam sulla base di disquisizioni interpretative è deviante e può divenire, grazie alla cultura dei “contendenti”, tanto cavilloso da perdere di vista la realtà: Cristo ha predicato la pace, Maometto no. Punto. Nessuno può uccidere in nome di Cristo (anche se è stato fatto, bestemmiando le sue parole), chiunque può uccidere in nome di Maometto citando le sue parole. Punto. Roberto Bellia, Vermezzo.

Grazie Roberto per la sua precisazione. È davvero chiara, molto più chiara di come sono stato io in quelle poche righe che mi erano rimaste alla fine dell'elenco delle sure improntate alla violenza del Corano. Lei ha ragione da vendere, in effetti: è vero che in passato sono stati commessi crimini orrendi in nome del cristianesimo, ma il cristianesimo è e resta una religione di pace, così come è una religione di pace il buddismo. Ci potrà pur essere qualche svitato nel mondo che uccide proclamandosi buddista, ma la religione buddista resta in ogni modo una religione di pace. Allo stesso modo ci sono stati troppi cristiani che hanno ucciso in nome di Cristo, ma il messaggio di Cristo è «Ama il prossimo tuo come te stesso». Quello di Maometto no. Quello di Maometto è un messaggio di violenza e di morte. E non rendersene conto, o illudersi soltanto perché un gruppetto di musulmani fa finta di andare a messa alla domenica, non è soltanto molto sbagliato. È soprattutto, come ripetiamo da tempo, temo inutilmente, molto pericoloso...Mario Giordano.

"Corano, leggetevi questa roba...": Mario Giordano il 30 luglio 2016, furia contro il libro sacro. Pubblichiamo Posta Prioritaria, la rubrica in cui Mario Giordano risponde alla missiva di un lettore. Oggi si parla di islam e delle più agghiaccianti sure del Corano, dove si predica morte e conquista.

Caro Giordano, il Papa dicendo che le vere religioni sono di pace, ha dimostrato di non conoscere il Corano e neppure il Vecchio Testamento che è pieno di violenza. O forse lo sa ma continua a tenerci calmi come quelli che suonavano sul Titanic. Continuiamo dunque a inneggiare i nostri valori, che sono quelli che ci fanno accogliere amorosamente questi invasati. Le mando qualche sura del Corano...Marina Pacini, Lucca.

La ringrazio, cara Marina, e riporto una parte del suo agghiacciante elenco.

* Circa gli infedeli (coloro che non si sottomettono all'Islam), costoro sono «gli inveterati nemici» dei musulmani [Sura 4:101]. I musulmani devono «arrestarli, assediarli e preparare imboscate in ogni dove» [Sura 9:95]. I musulmani devono anche «circondarli e metterli a morte ovunque li troviate, uccideteli ogni dove li troviate, cercate i nemici dell'Islam senza sosta» [Sura 4:90]. «Combatteteli finché l'Islam non regni sovrano» [Sura 2:193].

«Tagliate loro le mani e la punta delle loro dita» [Sura 8:12]

* Se un musulmano non si unisce alla guerra, Allah lo ucciderà [Sura 9:93]. 

* I musulmani devono far guerra agli infedeli che vivono intorno a loro [Sura 9:123]

* I musulmani devono essere «brutali con gli infedeli» [Sura 48:29]

* Un musulmano può uccidere ogni persona che desidera se è per «giusta causa» [Sura 6:152]

* Allah ama coloro che «combattono per la Sua causa» [Sura 6:13]. Chiunque combatta contro Allah o rinunci all'Islam per abbracciare un'altra religione deve essere «messo a morte o crocifisso o mani e piedi siano amputati da parti opposte» [Sura 5:34]

* «Chiunque abiuri la sua religione islamica, uccidetelo». [Sahih Al-Bukhari 9:57]

* «Assassinate gli idolatri ogni dove li troviate, prendeteli prigionieri e assediateli e attendeteli in ogni imboscata» [Sura 9:5]

* «Prendetelo (l'infedele n.d.t.) ed incatenatelo ed esponetelo al fuoco dell'inferno» [Sura 69:30]

* «Instillerò il terrore nel cuore dei non credenti, colpite sopra il loro collo e tagliate loro la punta di tutte le dita» [Sura 8:12]

* «Essi (gli infedeli ndr) devono essere uccisi o crocefissi e le loro mani ed i loro piedi tagliati dalla parte opposta» [Sura 5:33]

(Qualcuno osa ancora dire che l’Islam è una religione di pace? Aggiungo solo un dettaglio non irrilevante: anche nell’Antico Testamento ci sono frasi ispirate alla violenza. Ma poi c’è il Nuovo Testamento che lo reinterpreta e la Chiesa cattolica che ne dà la lettura ufficiale, valida per ogni cristiano. Nell’Islam, come è noto, invece…)

"...allora creperemo tutti". Islam, c'è solo una possibilità: la cupa profezia di Mario Giordano su “Libero Quotidiano del 28 luglio 2016. Un altro mattacchione? Un altro pazzo isolato? Un altro depresso? E adesso come reagirà l'Europa di fronte a un prete sgozzato in chiesa, mentre dice messa, da due islamici che gridavano Allah Akbar? Organizzerà un convegno di psichiatri? Si affiderà agli antidepressivi? Più Prozac per tutti? Continueranno a raccontarci la favoletta dei malati di mente che in quest' estate 2016, anziché mettersi in testa il cappello di Napoleone, vanno in giro a massacrare cristiani? Insisteranno con le bugie, le minimizzazioni, «per favore», «non generalizziamo», «i profughi non c' entrano nulla», «l'Islam? Figuriamoci», «la nostra risposta sono le porte aperte» e già che ci siamo «inauguriamo una mezza dozzina di moschee»? Davvero faranno così? Ce lo dicano, perché nel caso prepariamo il collo: se non ci difenderemo, infatti, finiremo presto tutti sgozzati. Proprio come quell' anziano sacerdote sull' altare di Saint-Etienne-du-Rouveray. Il tempo è scaduto, ne abbiamo perso fin troppo in chiacchiere e dibattiti da salotto. Adesso siamo arrivati all'ora della scelta: o si combatte o si muore. O si capisce che c' è una guerra di religione in corso o siamo già stati sconfitti. L'abbiamo già scritto tante volte, ma adesso il nemico ha alzato il tiro: l'attacco a una chiesa, durante una messa, con i fedeli e le suore prese in ostaggio, il prete scuoiato come un agnello sacrificale sotto il crocifisso, nel pieno dell'Europa cristiana, ebbene: un atto del genere dovrebbe aprire gli occhi anche ai più ottusi. Che aspettiamo ancora? Che ci vengano a sgozzare nel Duomo di Milano? Nella basilica di Assisi? O magari sotto il Cupolone di San Pietro? Il messaggio è già chiaro. Vi ricordate la bandiera nera che sventolava sul Vaticano? Vi ricordate i cristiani copti uccisi sul bagnasciuga della Libia per insanguinare il nostro mare? Vi ricordare le minacce del Califfo, che ripeteva «arriveremo a Roma per uccidere tutti gli infedeli»? Sembravano esagerazioni, paradossi, boutade. Invece l'attacco è in corso. Houellebecq ha sbagliato tutto: la sottomissione non avverrà in maniera pacifica, ma con le armi in pugno, non ci conquisteranno con democratiche elezioni ma con il coltello per le decapitazioni. Di che cosa abbiamo ancora bisogno per convincercene? Finora, fateci caso, hanno mantenuto tutte le promesse. Anche nelle ultime settimane. Avevano annunciato attacchi in Francia, e così è stato. Avevano annunciato attacchi in Germania, e così è stato. Avevano annunciato attacchi in riva al mare, e c' è stata la strage sulla passeggiata di Nizza. Avevano annunciato che sarebbe stata un'estate di sangue, e così purtroppo è. Sono assassini, questi islamici, ma non cialtroni. A modo loro, sono persone di parola: dicono che vogliono tagliare le teste, e zac, lo fanno. Dicono che vogliono distruggere i cristiani, e zac, rispettano l'impegno. Non mancano mai l'appuntamento con la morte, che per loro, per altro, significa vergini in fiore e fiumi di latte. A noi lo sgozzamento, a loro il paradiso. E di fronte a questo attacco frontale, davanti a questa offensiva violenta e spregiudicata, l'Europa dei tremebondi che fa? L' avete sentita in questi giorni: discute di pazzia, follia, gesti isolati, minimizza, specifica, precisa, si perde nei distinguo, organizza sessioni plenarie sulle teorie dei discendenti di Freud, si autoflagella, si colpevolizza, esulta se trova che un assassino (iraniano) ha in casa una foto di Breivik («lo vedete: i cattivi siamo noi»), erige processi sulla diffusione delle armi, come se le armi sparassero da sole, «ah signora mia non sa com' è facile procurarsi una pistola» (in effetti, in Europa non tanto: ma per un coltello basta entrare in cucina), si comporta come se la colpa delle sparatorie fosse delle fabbriche di pistole e la colpa degli sgozzamenti delle coltellerie. Alcuni giornali hanno persino messo sotto processo i videogiochi (lo giuro: i videogiochi). Tutto pur di non dire la piatta e brutale verità: il Corano ordina, i musulmani sgozzano. È la guerra santa dell'Islam. Questa verità sta lì da tempo, sotto i nostri occhi, oggi è rossa come il sangue di quel sacerdote. Ma noi non vogliamo ammetterla. Preferiamo raccontarci balle, nascondere la verità, come hanno fatto ripetutamente in questi giorni il governo francese, e forse anche quello tedesco. Preferiamo non dire quello che sappiamo, e cioè che è in atto un attacco coordinato e organizzato contro di noi. Preferiamo chiudere gli occhi, liberare dalle carceri soggetti pericolosi, come uno di due assalitori della Normandia, come i terroristi appena usciti a Bari, come tanti altri, preferiamo esporci al rischio della morte piuttosto che al rischio della verità. È pazzesco: sembra quasi che la civiltà occidentale, oggi, scelga di farsi ammazzare piuttosto che ammettere di dover fare i conti con la religione islamica. Sceglie di soccombere piuttosto che ammettere che i sacri principi della tolleranza e del dialogo non possono funzionare sempre, perché se qualcuno ti vuole uccidere non basta sventolargli in faccia la bandiera della pace. È così duro prenderne atto che andiamo diritti verso la macellazione avvolti dal nostro morbido involucro di bugie. Anche ieri, le prime dichiarazioni dopo lo sgozzamento del prete, sono andate in questa direzione. Il premier francese ha parlato di «barbaro attacco», il Papa ha «condannato l'odio». Come vedete, manca una parola, sempre la stessa. Non sono stati i marziani ad attaccare ma gli islamici, l'odio non nasce sotto il cavolo ma dentro le moschee. Noi continuiamo a tacerlo. E perciò finiremo tutti come padre Jacques, 58 anni di sacerdozio, lacerati con una lama al collo, mentre celebrava la messa del mattino nella sua chiesa in Normandia. Se il Papa avesse le palle, lo dovrebbe proclamare santo subito. San Jacques Martire, ucciso per difendere la nostra fede dall' aggressione dei seguaci di Allah. Suona anche bene. Suona ormai un po' inutile, però. Mario Giordano 

L'altro volto della storia: l'attacco della massoneria alla civiltà cristiana, scrive Francesco Pio Meola. La nota di Giorgio Vitali. "L'articolo qui sotto, pur provenendo da ambienti del conservatorismo cattolico, è esemplare e assolutamente degno di essere preso in considerazione per le sue implicazioni storiche e politiche. In effetti, per chi vuole fare politica, queste conoscenze sono essenziali, nella misura in cui si riesce con facilità ad individuare le linee di condotta che motivano certi personaggi della politica e quanto di una qualsiasi iniziativa in campo politico nazionale o comunitario la componente "ideologica" primaria sia quella maggiormente determinante nei confronti di una quasi sempre poco probabile, necessità "contingente". Che a motivare i singoli "uomini politici" ad iniziative di grande respiro pubblico siano l'appartenenza a gruppi iniziatici con le loro credenze e le loro pratiche, è ampiamente dimostrato l'appartenenza di questi "politici" a particolari organizzazioni più o meno occulte. Ma il fatto che queste associazioni siano "occulte" non significa nulla, perchè anche gli Organismi, specie quelli internazionali e/o comunitari sono composti da individui selezionati sulla base dell'appartenenza a queste organizzazioni. Non solo, in un libro che consiglio vivamente, ("L'altra Europa", di Giorgio Galli e Paolo Rumor, ed. Hobby & Work, 2010, euro 16,50) si dimostra con documenti attendibili l'appartenenza a gruppi esoterici di varia natura dei cosiddetti "creatori dell'UE". In particolare il "cattolico" Maurice Schumann. Un altro particolare importante è costituito da Giorgio Galli, famoso politologo, anzi il primo vero politologo italiano, che per decenni ha fatto della politologia un elemento di analisi della realtà nazionale e geopolitica. Questo illustre professore universitario, già di area socialcomunista, giunto alla fine della carriera, ha maturato l'esigenza di approfondire gli aspetti "esoterici" dei rapporti politici sia nazionali che comunitari o internazionali. Ciò significa che, partendo con intelligenza dall'analisi di superficie degli avvenimenti, alla fine ha dovuto confrontarsi con una realtà ben più profonda di quanto la sua cultura d'impostazione materialiste e razionalista gli permettesse di "vedere". Nel suo intervento pubblicato nel libro sopra citato, trovandosi a trattare della "Storia", che è una componente essenziale della base culturale su cui si costruisce il comportamento delle èlites, egli scrive: «... La storia, come teoria del comportamento umano, comprende non solo la "decostruzione", ma anche la "costruzione" del mito». In altre parole, è la storia che costruisce il mito, perchè gli storici sono persone per lo più motivate dalla necessità di diffondere specifici "miti", come possiamo ben vedere in questi decenni post- secondo conflitto mondiale, caratterizzati dalla costruzione di miti dal nulla documentale. Infine è necessario ricordare che in un'opera recente, dedicata al movimento teosofico d'inizio novecento, scritta da Marco Pasi dell'Università di Amsterdam, ("Teosofia ed Antroposofia nell'Italia del primo novecento", in Annale 25 della Storia d'ItaliaEinaudi, dedicata all'Esoterismo) si dimostra quanto un movimento come quello citato, poco conosciuto e valutato fino ad oggi, ad esclusione dei seguaci dell'Antroposofia, che aumentano sempre a livello mondiale a fronte delle constatate conferme scientifiche e tecniche legate a quell'impostazione culturale, o dei lettori di "Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo " di J. Evola (prima ed. Bocca, 1931), abbia invece permeato tutti gli aspetti della cultura italiana, dal Futurismo al Fiumanesimo, fino all'elaborazione della pedagogia montessoriana ed all'istituzione del corso universitario di Storia delle Religioni e dello Studio comparato di Storia delle Religioni voluto da Raffaele Pettazzoni che scrisse anche "Teosofia e Storia delle Religioni", per finire col noto Balbino Giuliano, ministro nel 1929, autore del famoso decreto sul "giuramento dei professori". Su questa capacità di una specifica cultura nell'influenzare il corso dei pensieri di una o più generazioni, creando anche èlites capaci di imporre la loro ideologia, sarà utile riprendere il dibattito." Giorgio Vitali.

La massoneria è una setta segreta le cui origini risalgono alle corporazioni medievali inglesi e tedesche dei liberi muratori (operativa). La Massoneria moderna (speculativa) s'ispira agli ideali razionalisti e illuministi di Libertà, Uguaglianza e Fratellanza. Fu fondata a Londra il 24 giugno 1717 dal rifugiato ugonotto Thèophile Desaguliers e dal pastore anglicano James Anderson, i quali riassunsero i suoi principi nelle cosiddette Costituzioni. Essa trae origine anche e soprattutto da un patrimonio di scienze occulte che vanno dalla magia egizia e rinascimentale all'ebraismo cabalistico-talmudico, dal platonismo al Manicheismo, dalla tradizione Rosa Croce al vecchio paganesimo naturalista, dall'astrologia alla teosofia, dall'alchimia ad altre fisime minori. Contiene elementi delle vecchie eresie cristiane e si basa sulla fisica newtoniana. E'chiaro come questo concentrato di dottrine esoteriche non poteva che provocare la scomunica della Chiesa, che l'ha condannata per quasi ben 580 volte, detenendo il primato assoluto. L'insieme di tutte queste tradizioni trova unità nella Gnosi. Essa è una speciale conoscenza religiosa dalla quale per rivelazione, indipendentemente dalla fede e dalle opere, deriva la salvezza, ossia da una sorta di "illuminazione", riservata solo a pochi iniziati. Si noti come questa idea sia radicalmente contraria alla fede cattolica, la quale invece proclama che la salvezza è accessibile a tutti. La Gnosi pretende di concepire il reale come qualcosa di totalmente negativo, per cui viene, di conseguenza, la necessità di aspirare a una sorta di palingenesi, di trasformazione totale, da cui potrà realizzarsi un mondo completamente nuovo, e in cui potrà vivere un uomo completamente nuovo, contrassegnato da una perfetta autosufficienza (C. Gnerre). Il fenomeno gnostico è come un fiume carsico, ritornando improvvisamente in auge nelle varie epoche storiche. Pensiamo alle vecchie eresie cristiane, a quella catara soprattutto, la più pericolosa, al modernismo e a tutte le religioni diverse dalla cattolica o ortodossa, Islam e Giudaismo compresi. Lo gnosticismo sostiene l'opposizione tra lo spirito (il bene) e la materia (il male). Gli gnostici sostengono che un Dio buono non può aver creato un mondo così malvagio, quindi la sua creazione è da disprezzare, mentre il principio del male, Satana, sarebbe il dio buono, il serpente che sedusse Eva e che indusse al peccato Adamo. Da qui la leggenda massonica di Adamo come "primo iniziato", e come lui sono considerati Gesù, S. Giovanni Battista (la Massoneria è nata il 24 giugno), Mosè, Maometto, Buddha, S. Francesco, Lutero, ecc . Per quanto riguarda Cristo e il Battista basta pensare alle folli elucubrazioni gnostiche del "Codice da Vinci" del seguace New Age Dan Brown, mentre S. Francesco oggi è considerato un profeta pacifista ed ecologista. Furono invece influenzati dalla gnosi Lutero, Buddha e Maometto. Mons. Leone Meurin, un sacerdote francese del XIX sec, per tutti questi motivi nella sua opera "La Frammassoneria sinagoga di Satana", considerava la Gnosi il culto di Lucifero, l'angelo decaduto portatore di luce, l'illuminato, il più grande iniziato. In molti testi esoterici Lucifero è accostato a Prometeo, la figura mitologica ribelle a Zeus che voleva donare il fuoco agli uomini, a Dioniso, dio dell'orgia e del divertimento sfrenato, al buddha, inteso come l'individuo iniziato ("buddha" significa appunto "l'illuminato"). I massoni usano chiamarsi tra loro "fratelli"; si distinguono in vari gradi, tra i quali gli apprendisti, i compagni, i maestri, i sublimi cavalieri eletti, i grandi maestri architetti, ecc. Si raccolgono in logge presiedute da un venerabile; più logge associate costituiscono una gran loggia, presieduta da un gran maestro, mentre nell'ambito di uno Stato tutte le logge dipendono da un grande oriente. La Massoneria venera un dio impersonale (il "Dio orologiaio" degli illuministi) chiamato Grande Architetto dell'Universo o Essere Supremo. Essa ha vari riti e obbedienze. Tra i riti più importanti ricordiamo quello scozzese, inglese, nazionale spagnolo, egizio (detto anche di Menfi e Misraim), simbolico italiano, swedemborghiano, noachita, ecc. Il più importante è quello scozzese, che si rifà all'esoterismo templare e ha 33°, tra cui i più alti sono quelli dal 18° in poi. Quando si parla di templarismo in massoneria in realtà viene ripresa una tradizione in parte errata, scorretta e diffamatoria. L'obbedienza più importante al mondo è quella che fa capo alla Gran Loggia Unita d'Inghilterra, detta anche "Sancti Quatuor Coronati", che ha per gran maestro il duca di Kent (attualmente è il principe Edoardo Windsor). Per le sue posizioni deiste, non riconosce la maggiore obbedienza francese, il Grande Oriente di Francia, che è violentemente antireligiosa e ammette anche gli atei. Le massonerie scandinave hanno una particolarità: riconoscono come gran maestro il re dei loro rispettivi stati; ad esempio in Svezia è l'attuale re Carlo Gustavo XVI. Esistono anche massonerie esclusive come la Prince Hall negli USA che ammette solo personalità afroamericane, di cui ne fa parte il presidente americano Barack Obama, oppure la B'nai B'rith, riservata ai soli ebrei. Caratteristiche fondamentali delle logge sono la segretezza e l'esclusione delle donne, anche se ci sono obbedienze rigorosamente femminili o addirittura miste come la Gran Loggia d'Italia di piazza del Gesù. L'Inghilterra di inizio '700 era vista dalla nobiltà liberale europea un faro di civiltà, soprattutto per il suo ordinamento monarchico-costituzionale. Le caste aristocratiche illuminate anglofile erano ambiziose e gelose delle prerogative tradizionali dei re e volevano limitarle. Si studiavano i principi costituzionali britannici con l'ansia di esportare gli ideali illuministi. La nobiltà europea era affascinata dal costituzionalismo, dal deismo, dalla tolleranza religiosa e dal liberismo economico. Insieme a tutte queste suggestioni provenienti da oltre Manica, cominciò a diffondersi la massoneria, dapprima in Olanda, Francia, Germania (Hannover) e poi negli altri paesi europei, tra cui l'Italia; il primo libero muratore italiano fu il medico beneventano Antonio Cocchi, iniziato a Firenze nel 1732 alla loggia detta "degli Inglesi". In Francia uno degli esponenti dell'aristocrazia anglofila fu il barone Charles de Montesquieu, grande teorico del liberalismo e del costituzionalismo, uno dei padri riconosciuti dell'Illuminismo. La Massoneria francese cominciò quasi subito a rivendicare una certa autonomia, ispirandosi all'esoterismo templare e dandosi un'impostazione di tipo cavalleresca; raccoglieva gli esponenti nobili e alto-borghesi riformatori che si fecero portavoce di quel clima culturale che portò alla stagione dell'enciclopedismo illuminista che ha avuto per protagonisti Diderot, D'Alembert e Voltaire. La critica enciclopedista attaccava la società di Ancièn Règime, la Chiesa Cattolica, vista come fonte di oscurantismo, pregiudizi e superstizione, i privilegi nobiliari che causavano diseguaglianze, la storia passata, considerata inutile e piena di errori; esaltava invece il pensiero scientista, la libertà in tutte le sue forme, l'uguaglianza sociale, il progresso in tutti i campi, la fratellanza tra gli esseri umani e il potere illimitato della ragione, identificata come strumento infallibile di indagine della realtà. Lo spirito corrosivo dei liberi pensatori, impregnato di razionalismo e di scetticismo antireligioso, provocò nel 1738 la scomunica da parte della Chiesa, con la bolla di papa Benedetto XIV. In quegli anni la Massoneria prendeva sempre più, soprattutto in Francia, una piega politica radicale e antidispotica; in Inghilterra si tenne invece favorevole al mantenimento dell'ordine costituzionale, appoggiando il partito liberale whig. Intanto però le logge si diffusero anche nelle colonie americane. Nel 1751 fu pubblicato quel feroce manifesto anticristiano che fu l'Enciclopedia di Diderot e D'Alembert, diretta emanazione delle logge che preparò una forte ostilità nei confronti della tradizione e del cattolicesimo. Un altro illuminista franco-svizzero, Rousseau, teorizzò la "democrazia totalitaria", ossia il rovesciamento violento dell'ordine costituito in favore di un governo popolare, in cui la moltitudine avrebbe delegato il potere a propri rappresentanti in grado di interpretare "la volontà generale", in pratica la prefigurazione del Terrore giacobino della Rivoluzione francese. Nel periodo pre-rivoluzionario furono pubblicati migliaia di libri, pamphlet, riviste, giornali, tutti tesi a screditare e a diffamare la Corona di Francia e la Chiesa cattolica. Il 1776 fu l'anno dell'indipendenza delle 13 colonie americane dalla madrepatria inglese; i capi del movimento anticoloniale da George Washington a Thomas Jefferson, da Benjamin Franklin a John Adams, erano tutti massoni. Il marchese francese di La Fayette, che era un "fratello" e aveva combattuto a loro fianco, sperava che un giorno anche in Francia si potesse lottare per gli ideali rivoluzionari. La Massoneria francese nel frattempo infiltrava suoi uomini nelle istituzioni ecclesiastiche e a corte: il banchiere ginevrino Jacques Necker, ministro delle finanze di Luigi XVI, il cugino del re, il duca Filippo d'Orléans, detto in seguito anche Philippe Egalitè, per il suo acceso fervore rivoluzionario, Jacques Roux , soprannominato il "curato rosso", e l'abate Sieyès. Obiettivo principale era disintegrare il sistema dal di dentro. L'anno stesso della Rivoluzione americana, il 1° maggio 1776 fu fondata a Ingolstadt, grazie all'appoggio finanziario dei banchieri Rothschild, la società segreta cospiratoria degli "Illuminati di Baviera". Il capo di questa potente e pericolosa organizzazione era un ex gesuita discendente da una ricca famiglia di ebrei convertiti, Adam Weisshaupt. Feroce anticattolico, era seguace dell'Illuminismo ateo e materialista ma allo stesso tempo coinvolto nell'occulto, in particolare della tradizione rosacrociana e templare. L'obiettivo della setta era distruggere le monarchie cattoliche o comunque cristiane e il papato, al fine di instaurare una "repubblica universale". Il disegno dei Rothschild era conquistare tutte le nazioni e assoggettarle al potere delle banche e della finanza, nonché stampare privatamente le monete nazionali (signoraggio). Il loro patrimonio era stimabile di gran lunga superiore alla ricchezza dello stesso re di Francia; erano la famiglia più potente dell'epoca. I congiurati di Weisshaupt entrarono nella massoneria ufficiale. Lo storico Alan Stang attesta che nel 1788 tutte le 266 logge del Grande Oriente di Francia erano sotto il controllo degli Illuminati; il gran maestro era diventato Filippo di Orleans. L'ossessione degli Illuminati era vendicare la condanna a morte dell'ultimo gran maestro templare Jacques De Molay (di cui si dicevano continuatori), fatto giustiziare da re Filippo IV il Bello di Francia il 13 ottobre 1314; il loro progetto era sterminare la "razza dei Capeti", i Capetingi. Prima e durante la Rivoluzione, i massoni si riunivano intorno alla tomba di De Molay per celebrare rituali esoterici e giuramenti di vendetta. Il boia che giustiziò materialmente il 21 gennaio 1793 Luigi XVI era un discendente dell'ultimo gran maestro dell'Ordine del Tempio. Con questo orrendo delitto i giacobini dell'Illuminato di Baviera Maximilien Robespierre scatenarono una feroce persecuzione contro i loro nemici, i controrivoluzionari, accanendosi in particolar modo proprio contro quel popolo di cui tanto si facevano paladini, che invece voleva rimanere fedele ai Borbone e alla Chiesa. La persecuzione antireligiosa era cominciata in maniera più blanda già dopo il 14 luglio 1789, ma con il Terrore giacobino raggiunse vette molto più alte. Beni confiscati, ruberie di stato, chiese distrutte e incendiate, ostie e reliquie profanate, preti imprigionati e massacrati, suore stuprate e uccise, credenti umiliati e trucidati, in nome degli "immortali" principi di Libertè, Egalitè, Fraternitè. Da non dimenticare l'orribile genocidio della Vandea (130.000 morti), che disgustò perfino Babeuf e Napoleone, ma di cui nessuno parla. Questa regione doveva diventare, nelle parole del generale giacobino Westerman, un "cimitero nazionale". Il furore spietato e distruttivo contro la Vandea si spiegava perché era la regione più religiosa e lealista della Francia. P. Augustine Barruel scrisse chiaramente in una sua opera che gli Illuminati avevano complottato contro il Trono e l'Altare. Erano membri della setta Robespierre, il duca di Orléans, Necker, La Fayette, Barnave, il duca di Rouchefoucault, Mirabeau, Fauchet, Clootz e Talleyrand, e appartenevano al Grande Oriente di Francia tutti i principali capi rivoluzionari: Sieyès, Saint-Just, Marat, Danton, Desmoulins, Hèbert (l'ideatore della "scristianizzazione") e Brissot. La scristianizzazione portata avanti da Hèbert, accanitamente antireligiosa, non trovò l'appoggio di Robespierre, che sostenne e impose il culto dell'Essere Supremo e della Dea Ragione. Il capo giacobino sperava in tal modo di rendere "popolari" i principi massonici. All'Ente Supremo, equivalente del Gadu, fu conferito come simbolo un grande e robusto albero, una quercia, che alla fine rappresenta la Natura; notiamo bene che questo simbolo pagano era lo stesso che campeggiava sullo stemma del Pds di Achille Occhetto, che nel 1991 aveva appena abbandonato il vecchio nome di Pci. Alla Dea Ragione fu data l'immagine di una donna con il petto scoperto dove spunta l'occhio onniveggente, altro simbolo cabalistico ed esoterico. Che la Rivoluzione francese fosse influenzata dalla massoneria è dimostrato da più parti: basta controllare il frontespizio dell'Enciclopedia e le fedeli riproduzioni della Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino, dove le allegorie massoniche sono evidentissime. La reazione del 9 Termidoro che portò alla ghigliottina Robespierre e i suoi seguaci il 27 luglio 1794, segnò l'ascesa al potere dei gruppi borghesi liberal-moderati. Intanto le frange più estremiste si organizzavano, e un triumvirato ultragiacobino composto da Gracco Babeuf, Filippo Buonarroti e Silvain Marèchal, tutti e tre massoni, diede vita alla Congiura degli Eguali del marzo-maggio 1797. La cospirazione fu soffocata nel sangue e Babeuf condannato a morte. Buonarroti e Marèchal continuarono nel segreto la loro attività rivoluzionaria, fornendo insieme a Jakob Kats, un patrimonio politico di rilevante importanza, perché questi gruppi proto comunistici furono gli antesignani diretti del socialismo marxista. L'ascesa di Napoleone Bonaparte segnò l'inizio della conquista massonica dell'Europa. L'esercito francese disseminava logge in tutti i territori occupati, Italia compresa. Il 20 giugno 1805 nacque a Milano il Grande Oriente d'Italia, la più grande obbedienza della penisola, però non riconosciuta dalla Loggia Madre di Londra. In quel periodo nacque anche la Carboneria, una metamorfosi rurale della Massoneria, che ebbe come gran protettore il cugino di Napoleone, Gioacchino Murat, "re" di Napoli e delle Due Sicilie. Scopo delle società segrete italiane era "liberare" l'Italia dai vecchi Stati feudali e dalla Chiesa cattolica. Possiamo scorgere l'azione della Massoneria dietro tutte le rivoluzioni in Europa e in America del 1820-21, 1825, 1830-31 e del 1848. Il Risorgimento italiano, guidato dal massone Cavour e aiutato dai "fratelli" Mazzini, Garibaldi, Manin, D'Azeglio e tanti altri, portò alla "indipendenza" italiana nel 1861. Lo Stato Pontificio fu conquistato solo il 20 settembre 1870 con la breccia di Porta Pia per opera dei bersaglieri dell'esercito sabaudo, nonostante l'eroica resistenza di papa Pio IX, spesso ingiustamente accusato dalla storiografia progressista come un anti-italiano. Anzi, esisteva un progetto dello stesso pontefice volto ad unificare in maniera federativa gli Stati italiani, onde evitare il pericolo di una rivoluzione laicista e anticlericale. Fatto sta che dal 1870 al 1929 il papa è stato prigioniero in Vaticano e che dal 1861 al 1922 il Regno d'Italia è stato governato da un regime oligarchico e liberal-massonico, nonostante il patto Gentiloni-Giolitti del 1913. Dalle società segrete socialiste francesi che avevano dato vita alla congiura di Babeuf emigrate in Germania, nacque nel 1834 la Lega dei Proscritti. Questi gruppi cospiratori discendevano in linea diretta dagli Illuminati di Weisshaupt. Nel 1836 ci fu una scissione all'interno dei Proscritti; nasceva così la Lega degli Uomini Giusti. Nel 1840 circa, entrarono a far parte di questo gruppo Kiessel Mordechai Levi, alias Karl Marx e Friederich Engels, i padri del comunismo. Marx, secondo la notizia riportata sulla rivista massonica italiana "Hiram" il 1° maggio 1990, fu iniziato alla loggia "Apollo" di Colonia. Nel 1847 gli Illuminati inglesi affidarono ai due filosofi il compito di rielaborare i principi di Weisshaupt e Babeuf in forma nuova e scientifica, mentre i fondi necessari per la pubblicazione del "Manifesto Comunista" del 1848 provennero da Clinton Roosevelt e Horace Greely (avo di Hjalmar Schact, ministro dell'economia del Terzo Reich), entrambi membri della loggia "Columbia", fondata a New York dagli Illuminati bavaresi. Le agitazioni rivoluzionarie fomentate da comunisti, socialisti, anarchici e radical-democratici sfociarono nella Comune di Parigi del 1871, un violento rivolgimento politico indirizzato contro il governo del conservatore Adolphe Thiers. La rivolta fu domata in poche settimane. A cavallo tra l' '800 e il '900 i principali governi europei e americani erano anticlericali, soprattutto la Francia e l'Italia, egemonizzati da partiti liberal-moderati, progressisti e radical-socialisti. Durante la cosiddetta "belle èpoque" (1900-1914) le logge studiavano come disfarsi dei governi autocratici che ancora resistevano dopo le ondate rivoluzionarie ottocentesche; gli obiettivi da abbattere erano l'Impero Austro-Ungarico, la Germania del Kaiser, la Russia zarista (sconvolta da attentati e moti fino a prima del 1914), ma anche la Turchia Ottomana. L'odio di grembiulini e rivoluzionari era concentrato soprattutto contro gli Asburgo d'Austria, visti come eredi dei Carolingi e del Sacro Romano Impero Germanico, fondatore dell'Europa cristiana. L'Impero asburgico era multietnico e si volevano strumentalizzare le rivendicazioni per l'indipendenza di alcune nazionalità: i serbi ortodossi alleati della Russia, i cechi, gli slovacchi, ma anche l'élite ebraica che mal sopportava essere governata da una dinastia cattolica. Gli ebrei sostenevano il Partito Socialdemocratico, guidato dal loro correligionario Viktor Adler, il cui figlio Friederich uccise il primo ministro Stürgkh. La Massoneria internazionale voleva un grande scontro sul continente che avrebbe dovuto portare alla federazione repubblicana degli Stati europei. Il 28 giugno 1914 il terrorista ebreo serbo Gavrilo Princip appartenente alla società segreta della "Mano Nera" e alla setta democratica "Giovane Serbia", uccise l'erede al trono d'Austria il granduca Francesco Ferdinando e la moglie a Sarajevo, provocando lo scoppio della Prima guerra mondiale. Gli schieramenti erano questi: da una parte gli Imperi centrali, Austria - Ungheria, Germania e Turchia Ottomana, dall'altra la Triplice Intesa che comprendeva Inghilterra, Francia, Russia (poi costretta ad abbandonare per lo scoppio della Rivoluzione bolscevica) e più tardi Italia e Stati Uniti. La Grande Guerra si concluse con la vittoria delle potenze massoniche e la distruzione dei vecchi imperi europei. L'Austria – Ungheria fu smembrata e la Germania umiliata. Ottennero l'indipendenza la Cecoslovacchia, guidata dai "fratelli" Beneš e Masaryk, la Polonia, l'Ungheria e il Regno di Jugoslavia. L'Impero Ottomano fu lentamente logorato all'interno con la presa del potere dei "Giovani Turchi" nel 1908, una setta democratica modernizzante i cui membri risultavano affiliati alla loggia "Macedonia Resurrecta" di Salonicco. Il governo massonico turco pianificò il genocidio armeno nel 1915; furono trucidati 1.500.000 di armeni. Con la fine del conflitto l'Impero si sfaldò. Nel 1923 il generale massone Kemal Atatürk abolì definitivamente il sultanato; nasceva così la Repubblica di Turchia, profondamente occidentalizzata e proiettata verso l'Europa. La Russia fu sconvolta dalla Rivoluzione di febbraio che spodestò lo zar Nicola II, guidata dai massoni L'vov e Kerenskij, affiliati alla Gran Loggia di Russia. La rivolta di febbraio ebbe un carattere liberale e socialdemocratico. Ma il 25 ottobre successivo il potere fu preso dai comunisti bolscevichi, capitanati dagli altrettanti "fratelli" Lenin, Trotzkij, Zinov'ev, Parvus, Litvinov, Bucharin, Sverdlov, Lunačarskij, Radek, Rakowskij, Krasin, tutti iniziati al Grande Oriente di Francia; è forse da escludere l'appartenenza di Stalin, il quale non risulta affiliato. Lenin fu iniziato a Parigi nel 1908 alla loggia "Union de Bellevillle" e ottenne il 31° grado. Il governo sovietico del 1920 era molto particolare: su 21 Commissari del Popolo 17 erano di origine ebraica; su 545 funzionari di Stato, 447 erano ebrei. In effetti la comunità israelitica vedeva di buon occhio la Rivoluzione nel paese degli zar. Non è un mistero che essa fu finanziata da ambienti ebraici anglosassoni nordamericani ed europei contigui alla B'nai B'rith tramite Parvus (Rockefeller, Morgan, Kuhn & Loeb, Rothschild, Schiff, Warburg). Molti correligionari però, appartenenti alla piccola borghesia, furono ferocemente perseguitati e spogliati dei beni perché conservatori e fedeli al vecchio regime. La "Civiltà Cattolica", autorevole rivista dei gesuiti, parlò di un complotto giudaico-massonico-bolscevico. Il governo comunista di Russia è stato il primo a legalizzare la pratica genocida dell'aborto, voluto dal Commissario del Popolo agli Affari Familiari Goichberg su pressione di Lenin, ispirato a sua volta dal "miliardario rosso" americano Armand Hammer, uomo dei Rockefeller (i più grandi pianificatori del controllo delle nascite a livello globale), maestro dell'ecologista radicale Al Gore. Un grande storico magiaro-francese, François Fejtö, ha ammesso nella sua opera più conosciuta "Requiem per un Impero defunto", il ruolo determinante delle società segrete nello scoppio della Prima guerra mondiale. Gli stessi capi politici delle potenze vincitrici, il democratico Wilson (USA), il liberale Lloyd George (Gb), il radical-socialista Clemenceau (Fra) e il liberaldemocratico Orlando (Ita) erano tutti massoni. Woodrow Wilson fu l'ideatore della Società delle Nazioni, un organismo sovranazionale, antenato dell'ONU, che avrebbe dovuto portare secondo lui alla pace universale e ad un unico governo mondiale; essa avrebbe dovuto riuscire dove il Cristianesimo aveva fallito. Clemenceau era un anticlericale incallito; apparteneva ad una loggia i cui membri si facevano tumulare da morti ritti in piedi, in segno di odio e di sfida contro Dio. Nel '900 particolarmente travagliata è stata la storia del Messico. Scosso da rivoluzioni e da vari rivolgimenti politici (1910-1914), la lotta anticristiana fu molto virulenta. Presidenti massoni come Madero, Carranza, Obregòn, Cardenas e soprattutto Calles furono i protagonisti in negativo di un'epoca. Quest'ultimo scatenò una ferocissima persecuzione, che provocò come reazione la guerra cristera del 1927-1929. Il regime era controllato dal Partito Rivoluzionario Istituzionale, che ideologicamente professava un socialismo di tipo ottocentesco con venature democratico-giacobine; per essere più pratici lo si potrebbe paragonare al Psoe di Zapatero. È unanimemente riconosciuto che la Massoneria messicana, secondo anche la testimonianza di P. Carlos Blanco, è la più anticlericale che esiste. Manovrata dagli USA o da ambienti sinarchici europei vicini alla Spagna e alla Francia, si sforza di dare al Messico un'identità laica e protestante in grado di cancellare le radici cattoliche del paese, viste come il maggiore ostacolo alla fusione di tutte le nazioni americane. Il rapporto tra la Libera Muratoria e i grandi nazionalismi europei è stato piuttosto complesso. In Italia Benito Mussolini nel 1922 mise fine a 61 anni di regime oligarchico - liberale, ma inizialmente già dal 1919, il fascismo godette del sostegno della Massoneria italiana, poiché lo credeva un movimento socialista e nazional-giacobino. Il massone anticlericale Arturo Reghini fu, insieme all'esoterista Julius Evola, il principale assertore del "fascismo pagano". Personalmente il Duce detestava i poteri occulti, e nel 1925 li mise fuori legge, suscitando le ire di Antonio Gramsci. Nonostante ciò, molti gerarchi fascisti erano "fratelli" come Grandi, Balbo, Badoglio, Bottai, Costanzo Ciano, Farinacci, Starace, Sante Ceccherini, Acerbo, ma anche due tecnici del governo come Giuseppe Volpi di Misurata e Alberto Beneduce. La cosa a quanto pare fu sottovalutata da Mussolini che se ne rese conto troppo tardi quando il 25 luglio 1943 fu sfiduciato dal Gran Consiglio da un gruppo di fascisti dissidenti capeggiati da Dino Grandi. Quest'ultimo ha scritto nelle sue memorie che voleva far pagare al Duce e al regime le scelte fatte dal 1936 in poi, anno dell'inizio della guerra civile di Spagna, che vide l'Italia fiancheggiare senza riserve i nazionalisti di Franco, impegnati in una dura lotta al bolscevismo e alla massoneria internazionale. Lo stesso Badoglio si oppose all'entrata in guerra dell'Italia. La massoneria negli anni '30 accentuò la propaganda antifascista, e in molte carte segrete, oggi recuperate, si esprimeva la necessità di abbattere il Duce con una grande alleanza internazionale, che si concretizzò con la Seconda guerra mondiale. In realtà la Massoneria non perdonava al regime anche la stipula dei Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929, che mettevano fine al decennale contenzioso tra Stato italiano e Chiesa cattolica. Il nazismo di Hitler era profondamente avverso alla massoneria, perché la considerava una pedina degli ebrei. Nonostante ciò, ministro dell'Economia del Reich e presidente della Deutsche Bank era il protestante frammassone Hjalmar Schact, "miracolosamente" sfuggito al processo di Norimberga, evidentemente salvato dai "fratelli" americani, inglesi, francesi e sovietici. Bisogna dire che il nazionalsocialismo fu in parte emanazione di circoli iniziatici pangermanisti e neopagani facenti capo alla loggia "Thule". Molti esponenti nazisti facevano parte di questo gruppo esoterico: Adolf Hitler, Alfred Rosenberg, Otto Rahn, Heinrich Himmler e Rudolf Hess; quest'ultimo apparteneva anche all'Ordine Ermetico dell'Alba Dorata, società d'ispirazione rosacrociana. Secondo alcuni storici, si recò in Inghilterra nel 1941 per negoziare una pace separata con gli inglesi proprio a causa della sua affiliazione a questa setta segreta la cui sede e i cui vertici risiedevano in Gran Bretagna. Il Falangismo spagnolo di Francisco Franco fu autenticamente cattolico e rigorosamente antimassonico. La Repubblica, egemonizzata dalle sinistre anticlericali (socialisti, repubblicani, comunisti), e sostenuta dall'esterno dagli anarchici e all'estero dal Messico di Cardenas, dalla Francia del Fronte Popolare del marxista Lèon Blum e in maniera più decisa e diretta dall'URSS di Stalin, cominciò ad innescare un clima di odio e di violenza tale che soprattutto dal 1936 al 1939 raggiunse l'apice massimo. A proposito del dittatore georgiano, urge una precisazione: la volta scorsa ho scritto che non risulta affiliato; ebbene, un massone mi ha riferito invece che Stalin era "fratello". La Massoneria lo ha screditato dopo la morte a causa delle molte epurazioni da lui effettuate all'interno del Pcus. Il presidente repubblicano Manuel Azaña, un massone fanatico, era deciso a portare la Spagna sotto l'orbita sovietica, provocando e alimentando la violenza inaudita dei rivoluzionari contro la Chiesa e tutti coloro che non si piegavano al terrore rosso. Le persecuzioni furono terribili; gli orrori dei comunisti spagnoli superavano in molti casi quelli dei giacobini durante la Rivoluzione francese. Con la risoluta reazione dei nazionalisti di Franco, aiutati in maniera decisiva dalla Germania ma soprattutto dall'Italia, la Repubblica filosovietica fu abbattuta. Franco giunto al potere emanò il 1° marzo 1940 la legge per la repressione della massoneria e del comunismo. Va aggiunto che molti massoni di tutte le tendenze politiche antifasciste si arruolarono nelle Brigate Internazionali, per andare in soccorso dei "fratelli" in pericolo. La vittoria degli Alleati nella II guerra mondiale e la sconfitta dei grandi nazionalismi italiano, tedesco e giapponese, implicò la divisione del mondo in due blocchi, voluto a Yalta nel 1945 dai "fratelli" Roosevelt, Churchill e Stalin: a occidente il predominio americano e a oriente quello sovietico. I due mondialismi materialisti si spartivano il pianeta: da una parte il capitalismo liberaldemocratico, agnostico e tollerante, dall'altro il comunismo ateo e totalitario. Il nazionalismo doveva essere distrutto per far posto al mondialismo, che avrebbe dovuto portare al compimento della Grande Opera, al sogno della massoneria: la Repubblica Universale. I popoli dovevano scegliere. L'Italia decideva il suo destino il 18 aprile 1948: dopo l'unità durante la Resistenza, una parte della Massoneria sostenne i partiti laici minori, il PDA, il PRI e il PLI, apertamente filoamericani, mentre l'altra il Fronte Popolare, costituito da PCI e PSI, che invece erano filosovietici. Simbolo del FP era un'immagine di Garibaldi. La grande vittoria della DC confermò l'Italia nel campo americano, insieme agli altri paesi occidentali. In tutta l'Europa orientale, la Massoneria spianò la strada ai socialcomunisti. La studiosa Angela Pellicciari, tra le migliori esperte di storia del Risorgimento italiano, ha giustamente notato che sull'emblema della DDR (la Germania Orientale comunista) figurava un compasso; ricordiamo che il compasso, con la stella a 5 punte e la squadra sono i principali simboli della massoneria. Un caso oscuro ed emblematico di come i "fratelli" si vogliano bene tra loro riguarda la Cecoslovacchia. Con il colpo di Stato del 1948, il radicale Jan Masaryk, già Gran Maestro della Massoneria ceca al pari di suo padre Tomas e di Edvard Beneš, persecutori e carnefici degli slovacchi cattolici, fu "suicidato" dagli stessi "fratelli" comunisti che lui aveva favorito come alleati al governo (era l'unico non marxista). La famiglia Masaryk fu protagonista di un vero e proprio dramma: Tomas fece di tutto per "liberare" la Cecoslovacchia dall'Impero Asburgico, mentre suo figlio Jan aveva consegnato il suo paese (rimettendoci la vita!) negli artigli del bolscevismo internazionale. Lo stesso anno, il 14 maggio 1948 Ben Gurion fondava lo Stato d'Israele, dando vita al "Risorgimento ebraico" che ha per base ideologica il Sionismo di Teodoro Herzl. Il sionismo predica il ritorno in patria del popolo d'Israele, in base ad un messianismo laico e terreno. Con l'arrivo dei coloni ebrei è iniziato un capitolo triste per la sorte del popolo arabo-palestinese. Nel 1945 a S. Francisco era nata l'ONU, per iniziativa delle potenze vincitrici, al posto della screditata Società delle Nazioni. La sua sede è a New York, edificata in uno spazio donato dai Rockefeller. Le stanze dell'ONU sono piene di simbologie massoniche. Le Nazioni Unite sono una prefigurazione del futuro governo mondiale, controllate da burocrati mediocri ma potenti, influenzati da un tipo di socialismo fabiano e tecnocratico. Esse hanno silenziosamente e subdolamente incoraggiato la decolonizzazione negli anni '40, '50 e '60 delle dipendenze oltre continente di Inghilterra, Francia, Belgio, Portogallo e Olanda. Rozzi e violenti capipopolo di sinistra come Sukarno in Indonesia, Lumumba nel Congo belga, Ho Chi Minh in Vietnam, solo per fare qualche nome, ottennero l'indipendenza delle loro nazioni per poi fare lucrosi affari sottobanco con i grandi capitalisti occidentali, loro che avevano predicato la guerra rivoluzionaria ai bianchi "schiavisti" e "sfruttatori". Lo stesso può dirsi per le rivoluzioni marxiste nei Paesi poveri, la Cina di Mao (istigata dall'agente sovietico del Comintern, il rivoluzionario massone Michail Borodin, detto Gurov) e la Cambogia dei khmer rossi, dove il macellaio comunista Pol Pot ha eliminato 1 milione di persone nel giro di una settimana, ma soprattutto nell'America Latina , guidate dai "fratelli" Castro e Che Guevara a Cuba (entrambi 33° grado del Rsaa della Gran Loggia Cubana), Romulo Betancourt in Venezuela, Jacobo Arbenz Guzmàn in Guatemala e Salvador Allende in Cile (Venerabile della Loggia "Hiram n° 66 di Santiago). Una breve digressione merita il "mitico 68". Esso fu preparato mediante un'efficace suggestione culturale dalla Scuola di Francoforte, un gruppo di filosofi marxisti "eretici", tra cui Theodor Adorno, Herbert Marcuse e Max Horkehimer. Fondata dalla Fabian Society, la società semi-segreta inglese nata nel 1904, fautrice dell'espansione del socialismo nel mondo, da cui sono usciti molti politici laburisti come i premier Tony Blair e Gordon Brown, essa aveva lo scopo di inquinare i costumi dell'Occidente con la mentalità libertaria e nichilista, al fine di facilitare l'avvento della socialdemocrazia universale. Un altro organismo mondialista che ci riguarda molto da vicino è l'Unione Europea (ex Ceca-Euratom, Cee). Nonostante sia stata voluta anche da 3 cattolici ferventi come De Gasperi, Schuman e Adenauer, l'Ue ha preso una piega sempre più tecnocratica, centralista, socialista e laicista. Padri "spirituali" di questa Europa debole e corrotta sono i massoni Blum, Spaak, Monnet, Spinelli, Brandt, Giscard d'Estaing, Felipe Gonzalez, Cohn Bendhit, Mitterrand (che in occasione del bicentenario della Rivoluzione francese ha riempito Parigi di simboli esoterici) e Delors. Qualcuno non contento, vuole perfino far entrare la Turchia, vista come l'ariete che potrà finalmente distruggere la nostra Civiltà. Del resto è sotto gli occhi di tutti la politica anticristiana praticata dalle istituzioni comunitarie. L'azione della massoneria in Italia nel dopoguerra si è concentrata soprattutto sulla corruzione dei costumi e della famiglia. Forze politiche anticlericali come il Pri, il Psi, il Pci, il Psdi, il Pli, guidate dal Partito Radicale di Marco Pannella ed Emma Bonino, riuscirono a far introdurre il divorzio nel 1970 e l'aborto nel 1978. Esso era stato legalizzato prima nell'URSS e poi nel restante campo comunista, poi diveniva legge negli USA il 22 gennaio 1973, quando la Corte Suprema, controllata dai Rockefeller, si pronunciò a favore di tale provvedimento. Che l'applicazione dell'aborto su scala mondiale sia frutto di una pianificazione a tavolino dei poteri massonici, non c'è dubbio; diceva la femminista francese Edwige Prud'homme, Gran Maestra della Loggia femminile di Francia, intervistata da Le Monde il 26 aprile 1975: «È nelle nostre logge che furono prese, 15 anni fa le prime iniziative che condussero alla legislazione sulla contraccezione, il familial planning e l'aborto». Lo storico François Fejtö su "il Giornale" del 14 dicembre 1982: «Sotto Giscard, il Gran Maestro della Gran Loggia di Francia, Pierre Simon, svolse un ruolo preponderante nella preparazione delle leggi sulla contraccezione e l'aborto». Perfino Giovanni Paolo II diceva che «sono grandi e potenti le forze che oggi, apertamente od occultamente, dispiegano nel mondo la cultura della morte». Molte agenzie dell'ONU e dell'Ue promuovono l'aborto su scala planetaria, soprattutto nel Terzo mondo. L'aborto per i massoni, ha un significato esoterico profondo: è il sacrificio cruento di sangue innocente offerto al Principe di questo mondo, Satana, il vero dio della Massoneria, qualificato come Gadu o Ente Supremo, per nascondere ai profani le vere finalità della setta, come ebbe a sottolineare il grande giurista cattolico e controrivoluzionario francese vissuto tra il '700 e l'800, il conte di Anthenaire, e come confermano molti documenti riservati agli alti gradi, tra cui quelli di Albert Pike, Sovrano Gran Commendatore del Supremo Consiglio del Rssa della Giurisdizione del Sud degli Stati Uniti d'America, vissuto nell'800. Gli anni '80 furono l'inizio del collasso sovietico: l'elezione al vertice del PCUS dello pseudo innovatore Michail Gorbačev, tanto acclamato in Occidente, portò alla fine del comunismo nell'Europa orientale nel 1989 e alla dissoluzione dell'URSS nel 1991. La sua politica riformatrice e allo stesso tempo fallimentare, era dettata dai poteri forti mondialisti, decisi a far crollare il socialismo di Stato per proiettare l'economia russa verso il mercato globale; gli stessi gruppi di potere che furono i burattinai dell'ottobre 1917, i Rockefeller in testa. Non stupirà sapere che Gorbačev è massone e membro del Lucis Trust, un club fondato dalla teosofa ed esoterista Alice Bailey, che si batte per l'unificazione delle religioni; la congrega usa riunirsi spesso nella cappella newyorkese presbiteriana di S.Giovanni il Divino. Esso è inoltre uno degli sponsor più attivi per i meeting sul dialogo interreligioso promossi dall'ONU. Prima del novembre 1989, Gorbačev tenne un incontro molto riservato a Mosca con il Gran Maestro della Massoneria romena, Marcel Shapira, il quale gli confidò con mesi d'anticipo che i capi comunisti di allora, i vari Ceausescu, Husak, Honecker, ecc, sarebbero stati presto sostituiti con altri leaders. Ciò la dice lunga sui profondi legami tra apparato comunista e massoneria internazionale mondialista. Oggi l'ex dittatore sovietico è a capo della Green Cross International, una grande associazione ecologista, ed è tra i firmatari della Carta della Terra, che a suo avviso dovrebbe sostituire i 10 Comandamenti, nonché sostenitore delle bizzarre previsioni sul clima di Al Gore. Nell' '89 il comunismo, la peggiore forma di sfruttamento e di oppressione della storia, crollava con un terrificante bilancio incalcolabile di morti e di danni materiali e spirituali, con il solo risultato di aver devastato i popoli e di aver paradossalmente lasciato al loro posto tutti grossi gruppi del grande capitale internazionale. La fine del sistema comunista in Europa ha portato al superamento dei blocchi e all'indiscussa supremazia USA. L'11 settembre 1991 il presidente americano George Bush (33° grado Rsaa) annunciò dal suo studio ovale di Washington che si era giunti all'alba di un "nuovo ordine mondiale". Cosa intendeva? Quella che oggi è sotto gli occhi di tutti: la società multietnica e multiculturale, che ci porterà alla Repubblica Universale massonica, che annullerà tutte le culture e le fedi. Proprio a partire da quegli anni, l'Europa, culla di Civiltà, è stata interessata dall'invasione di immigrati provenienti dall'Est, dall'Africa, dall'America Latina e dall'Asia. La maggior parte di questi nuovi arrivati è di fede musulmana. La religione di Maometto è incompatibile con gli ordinamenti civili occidentali, crea incomprensioni e problemi di convivenza, ma ai progressisti, custodi del politically correct e proprietari dei mezzi di comunicazione, la cosa sembra non importare, anzi auspicano uno "scontro creativo" tra civiltà, per cui nascerà un nuovo ordine dal caos, come disse Edgar Morin, sociologo di sinistra ed ex consigliere di Mitterrand. L'obiettivo dei grembiulini è devastare la radice e il tessuto culturale e sociale con l'ausilio della religione islamica, che è in grande espansione, contro un'Europa disarmata e in crisi d'identità. Ma la globalizzazione era già stata preparata nei piani alti delle logge massoniche. In piena Seconda guerra mondiale, John Foster Dulles, presidente della Fondazione Rockefeller, così vedeva la "pace universale", sul "Times" del 16 marzo 1942: «Un Governo mondiale, la limitazione immediata delle sovranità nazionali, il controllo internazionale di tutti gli eserciti e di tutte le marine, un sistema monetario unico, la libertà di immigrazione nel mondo intero». Oggi si parla tanto di pace, quanto è abusato questo termine! La "pax mondana" è cosa ben diversa da quella "christiana", lo dice perfino Gesù nel Vangelo, checché ne dica qualche parroco o vescovo progressista. Tutti noi ricordiamo quando durante la guerra in Iraq, molti italiani esposero la bandiera arcobaleno; ebbene quel vessillo è simbolo della Società Teosofica, fondata nel 1875 a New York da Anne Beasant, Helena Petrovna Blavatsky , Alice Bailey e altri famosi occultisti, che indica la pace come sforzo umano e non come dono di Dio. L'arcobaleno così inteso era presente già nella simbologia delle logge massoniche del'700, figura sulla bandiera del Nicaragua (tuttora patria e rifugio di comunisti, massoni, rivoluzionari, guerriglieri, narcotrafficanti e terroristi di tutto il mondo) e nello stemma dell'Antico Rito Noachita. Inutile dire quanto sia usato durante le manifestazioni omosessuali. Quindi l'arcobaleno è il simbolo principale della Nuova Era dell'Acquario, che sarà pacifista, multietnica, multiculturale, multisessuale, sincretista e politicamente corretta. La moderna secolarizzazione ha colpito duramente anche la Chiesa. Una crisi che è stata preparata da tempo dalle logge massoniche. Documenti riservati dell'Alta massoneria risalenti a fine '800 – inizio '900 dichiaravano che occorreva distruggere la Chiesa cattolica dal di dentro, puntando sulla corruzione morale dei sacerdoti e dei credenti, al fine di screditarla. Il periodico francese "Vers Demain" pubblicò un estratto del piano studiato dal massone spretato Paul Roca: «Soppressione della veste talare, matrimonio dei preti, revisione dei dogmi in funzione del progresso universale, sconvolgimento della liturgia, l'Eucarestia ridotta a un semplice simbolo della comunione universale ed il vecchio Papato ed il vecchio sacerdozio abdicanti di fronte ai preti dell'avvenire». Da qui l'irrompere dell'eresia modernista, duramente condannata da S. Pio X con il decreto Lamentabili e l'enciclica Pascendi del 1907. Ovunque la Massoneria è giunta al potere, ha sempre provveduto ad infiltrare agenti e a sottomettere la Chiesa allo Stato, come è avvenuto in Francia durante la Rivoluzione con la Costituzione Civile del Clero, così come in Messico, in Russia, ecc, e come voleva fare in Italia contro papa Pio IX, che non voleva «diventare il cappellano di Casa Savoia». Un grande santo come Padre Pio da Pietrelcina definiva la massoneria «l'infame setta». Non esagerava, aveva perfettamente ragione. Francesco Pio Meola

La massoneria cattiva che minaccia il mondo, scrive Claudio Messora il 9 dicembre 2015. Gioele Magaldi vi racconta i disegni della massoneria neo-aristrocratica e la battaglia in corso con quella progressista per il dominio sul mondo (la prima) e per il ripristino delle libertà fondamentali dell’uomo (la seconda), mostrando le connessioni con gli ultimi avvenimenti del contesto geopolitico.

Ho letto alcune tue interviste, in cui analizzi i fatti di Parigi, e li leghi all’intreccio massonico. Confermi?

Fatti come quelli del 7 gennaio e del 13 novembre sono già adombrati nel libro, specialmente nell’ultimo capitolo di “Massoni. Società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere. L’ISIS è una creatura non “occidentale”, così come spesso si dice in una banalizzazione delle dinamiche del potere: è semmai una creazione sovranazionale, apolide. Ci sono forze sovranazionali che operano. E lo fanno con uno spirito cosmopolita. C’era per esempio, nell’Ottocento, una internazionale massonica progressista che andava a fare le rivoluzioni ovunque vi fosse una tirannide. La patria era ogni luogo ove si trattasse di aiutare delle persone ad auto-determinarsi, a darsi Costituzioni, liberali e democratiche. Garibaldi è uno che ha combattuto ovunque, insieme ai patrioti ungheresi, statunitensi, francesi. Sono venuti a fare il Risorgimento in Italia e sono andati a farlo in Ungheria, e sono andati in Francia, sono andati negli Stati Uniti. Ecco, invece oggi, da settant’anni a questa parte, soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, per la prima volta nella storia nell’ambito della Massoneria sono arrivati all’egemonia dei gruppi massonici, non più progressisti, ma io li definisco neo-aristocratici e reazionari, con un’idea non più cosmopolita del loro potere e delle loro battaglie, ma apolide, cioè indifferente, cinicamente indifferente al benessere dei singoli popoli, e anche sopraelevati rispetto a qualunque controllo di tipo territoriale, con la capacità di incidere, quindi, globali. Ecco! Nell’ambito di questi circuiti c’è una super-loggia, la Hathor Pentalpha, che è a monte anche degli eventi tragici dell’11 settembre. A un certo punto prorompe in un ambito di altre super-logge neo-aristocratiche e, quasi come una super-loggia eretica in negativo, immagina un mondo dove anche il terrorismo, su scala globale, abbia un ruolo politico importante.

Un ruolo destabilizzatore?

Sì. Noi abbiamo già questa esperienza, per averla vissuta in Italia ma anche in singole altre nazioni. L’esperienza di un terrorismo degli anni Settanta e Ottanta che, molto spesso, è stato ambiguo ed opaco, nel senso che è un terrorismo dove ci sono state infiltrazioni di manine varie, cioè non c’era soltanto l’istanza, come dire, spontanea, autonoma e autentica ancorché terribile, di gruppi coerenti con quell’aberrante idea di trasformazione della società in modo violento, armato. No! C’era chi ha accompagnato, infiltrato, eterodiretto. Immaginiamo allora che a un certo punto qualcuno decide, in un mondo più globalizzato rispetto agli anni Settanta e Ottanta (ricordiamoci che la globalizzazione in senso stretto arriva dopo l’unificazione europea, la caduta del muro di Berlino e la caduta dell’Unione Sovietica), in un nuovo contesto che è quello che si va a configurare all’inizio del XXI° Secolo, che il terrorismo globale possa avere un ruolo importante per ridefinire i rapporti sociali e politici. Non ci scordiamo che, dopo il 2001, negli Stati Uniti e quindi nella prima democrazia al mondo, tutte le norme legislative del Papework Act sono all’insegna di una violazione patente di quei principi di democrazia e libertà su cui gli Stati Uniti e tutte le democrazie moderne sono stati edificati. E oggi, in Italia, in Francia, in Europa, dopo gli eventi francesi si inizia a pensare a misure legislative illiberali come il Papework Actamericano.

Quando tu dici che c’è una super-loggia che avrebbe interesse ad immaginare un ruolo politico per il terrorismo”, nella sostanza, a chi ti riferisci?

La caratteristica delle super-logge massoniche è quella di inglobare personaggi che provengono dall’establishment politico, finanziario, militare, diplomatico, dall’intelligence… Cioè: la trasversalità delle presenze è funzionale, perché c’è bisogno di una copertura mediatica. C’è bisogno di omissioni mediatiche. C’è bisogno di connivenza industriale, connivenza militare, connivenza politica.  I personaggi sono i protagonisti negativi dei primi anni duemila. Anche lì, attenzione! Certamente c’è dentro il clan Bush, ma il clan Bush è soltanto la punta di un iceberg. Il Governo degli Stati Uniti, gestito malamente nei due mandati di George W. Bush, in realtà è stato uno strumento. Quando alimentiamo polemiche antiamericane, non ci rendiamo conto che non esiste l’America in quanto tale. Gli Stati Uniti, come ogni grande paese, sono attraversati da gruppi di potere che spesso sono in feroce lotta tra di loro. Questi poteri apolidi di cui parlavo prima si servono anche del governo degli Stati Uniti, quando possono, perché è un governo importante, che muove risorse militari ed economiche importanti. Ma si tratta di un utilizzo fatto dall’esterno, attraverso persone che, contingentemente, occupano dei posti. Mi chiedono se no ho paura di morire. Intanto ci tengo a precisare che non sto “sputtanando” la Massoneria: io sono un massone fiero di essere tale, e lo rivendico con orgoglio. L’opinione pubblica italiana è paurosamente ignorante su questo tema, a partire dai libri di scuola dove l’argomento massoneria viene omesso. Nessuno ne parla, né nel bene né nel male. La massoneria è stata centrale, a partire dal settecento e fino agli anni sessanta con la New Frontiers, che è stata l’ultima istanza veramente progressista del novecento. Kennedy non era massone, ma il suo ideologo di riferimento, Artur Meier Schelesinger, era massone ed era anche Maestro Venerabile di una loggia progressista molto importante: la Thomas Paine, alla quale ho avuto il privilegio di essere iniziato. E poi va ricordato l’evento epocale che ha mandato, per la prima volta, il primo Presidente cattolico alla guida degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy, e il primo Papa massone al Soglio Pontificio, che fece il Concilio Vaticano II° e riconciliò la Chiesa con la modernità. Una sorta di connubio, quindi, grazie a un’operazione voluta da alcune logge di ambiente cattolicheggiante e non. Da questo partì anche, grazie ad una serie di reti massoniche, la risoluzione della crisi missilistica di Cuba. C’è questo tentativo che vedrà poi degli epigoni anche in una serie di persone che verranno uccise, da Robert Kennedy a Martin Luther King. Robert Kennedy stava per essere iniziato: non fece a tempo. Martin Luther King invece era massone. E c’è un laboratorio, in quel momento, che tenta di proporre un ampliamento dei diritti sociali ed economici: era la New Frontiers kennedyana, che venne bloccato attraverso degli omicidi. Questi omicidi segnano anche l’arrivo di una nuova egemonia, non più della massoneria progressista, che appunto io rivendico con orgoglio e che dal settecento in avanti ha trasformato il mondo portando la sovranità del popolo, la democrazia, la libertà, lo stato di diritto, i diritti inalienabili degli uomini e dei cittadini – e questa cosa avrebbe potuto proseguire, e forse oggi ci troveremmo in un mondo diversamente globalizzato -, ma di una massoneria neo-aristocratica, che immagina un’involuzione oligarchica e tecnocratica nella governance mondiale.

E ci riesce, fino ad adesso!

E ci riesce fino ad adesso! Naturalmente con delle accelerazioni pericolose da apprendisti stregoni, che offrono il fianco ad una reazione. Io, insieme ad altre persone in Italia e nel mondo, stiamo cercando di “riavviare”, la forza comunque silente, intatta, dei circuiti massonici progressisti che hanno sonnecchiato.

Per tornare alla domanda precedente, come influiscono queste super logge nei fatti, nei flussi degli avvenimenti terroristici?

Facciamo un esempio: il famoso Califfo al-Baghdadi. Siamo al limite del paradosso: coloro che lo detengono come pericoloso terrorista si vedono recapitare un ordine di scarceramento! Questo signore è stato iniziato massone, è un uomo del tutto integrato nel sistema di vita occidentale il quale, insieme agli altri suoi compari, da mesi fa una sceneggiata hollywoodiana, perché tutte le decapitazioni in mondovisione, tutto il sistema comunicativo dell’ISIS, è un sistema ben studiato.

Compresa Rita Katz che è l’unica…

Tutto quanto è ben studiato. Ci sono alcuni che sono iniziati a queste logge “controiniziatiche”, che io definirei una “massoneria maligna“, una pianta maligna che è fiorita dentro un corpo non solo sano, ma benemerito. E poi ci sono naturalmente gli ignari. L’ISIS fa un salto di qualità. Prima avevamo il terrorismo di al-Qaeda che era un terrorismo a macchia di leopardo: non c’era uno Stato: c’era una base in Afganistan. Qui invece c’è un catalizzatore potente anche ideologico, cioè l’ISIS, che è un punto di richiamo per cellule sparse ovunque, ma ha che ha anche una sua forza finanziaria, una capacità di espansione e di attrazione, antitetica anche alla modernità. Diciamo la verità: sono state introdotte leggi liberticide con il Patriot Actnegli Stati Uniti e anche altrove in Occidente, ma poi si era spenta l’emergenza al terrorismo, perché era un’emergenza fasulla, farlocca, così come è farlocco il pericolo dell’ISIS. Proseguendo nella direzione che stiamo prendendo, ad un certo momento ci sarà un intervento militare del solito tipo, cioè di tipo distruttivo. Ci andranno di mezzo popolazioni inermi, civili, senza nessuna costruzione di infrastrutture materiali e immateriali della democrazia e della libertà. A questo si arriverà titillando la paura, l’orrore. Invece, diciamoci la verità, quello che bisognerebbe fare oggi è sì raderli al suolo (io sono per l’intervento di terra, di aria, di tutto), ma la potenza delle democrazie è talmente spropositata che, se volessero intervenire, in poco tempo l’ISIS verrebbe raso al suolo. Ma poi occorrerebbe fare una cosa che non è stata fatta in tutti questi decenni: cioè invece di proporre forme diverse e sempre uguali di neocolonialismo, di sfruttamento del caos altrui per i propri interessi, si tratterebbe di costruire, in quei Paesi, infrastrutture materiali e immateriali di democrazia. Questo è lo spirito della Dichiarazione Universali dei Diritti Umani che noi abbiamo approvato all’ONU, ma che è lettera morta! Cioè pensare che fatte salve le specificità culturali, però ci voglia il rispetto delle donne, il rispetto dei diversi, il rispetto dei dissenzienti, il rispetto del fatto che gli esseri umani sono cittadini e non sudditi. Tutte cose che io rivendico come portate dalla massoneria, la massoneria ha inventato il concetto di esseri umani latori pro quota di sovranità e non sudditi. Guardate che la consuetudine dei millenni di storia umana è quella di avere avuto oligarchie, aristocrazie religiose o profane a governare su masse di straccioni tenuti nell’ignoranza e nell’abbrutimento. La massoneria, gli avanguardisti massoni, dal settecento in avanti hanno cambiato questo stato di cose. Adesso, degli avanguardisti in negativo stanno cercando di introdurre un governo mondiale di aristocratici dello spirito, sedicenti “illuminati”. Illuminati è un aggettivo, non un sostantivo come alimenta un certo fiume carsico complottista. Non esiste nessuna continuità storica tra illuminati di Baviera e presunti illuminati che governerebbero il mondo, cosa che non significa nulla. ‘Illuminati’ è un aggettivo che può attribuirsi ad alcuni massoni aristocratici. Ecco, costoro immaginano un mondo neo-feudale, (ndr: cfr. “Diego Fusaro: il medioevo era meglio”) dove la democrazia – attenzione! -, non è affrontata in termini perentori, come invce accadde in certi esperimenti liberticidi e tirannici negli anni settanta. Cioè non si la si sostituisce con un regime tirannico, in occidente. Pensiamo a quello che accadde in Grecia, con la dittatura dei Colonnelli, a quello che accadde in Portogallo, a quello che accadde in America Latina con l’operazione Condor, al Cile, all’Argentina, a quello chesi tentò di fare in Italia con la P2 che doveva essere la base per gestire in modo autoritario, stile Argentina, un paese nel cuore dell’occidente. Oggi non si pensa più a questo perché il cittadino ormai è abituato ai riti della democrazia, alla retorica della democrazia. Oggi piuttosto si pensa di svuotarla di sostanza. Si abitua il cittadino a non eleggere più il Senato o le province (ad esempio, per parlare dell’Italia). In Europa ci si è abituati a una costruzione economicistica e tecnocratica: il Parlamento Europeo non è il luogo della sovranità del popolo: non ha il potere di sfiduciare un esecutivo europeo. Non abbiamo un dipartimento economico, quindi un primato della politica, sovra-ordinato alla Banca Centrale. Il più grosso potere è un potere non elettivo, tecnocratico. La Banca Centrale? Sì, c’è un diritto pubblico che la regola, ma la proprietà e l’indirizzo sono di natura privatistica. Ecco: questa Europa è figlia delle idee del comitato disposto da Coudenhove-Kalergi e Jean Monnet, ex massone progressista (ndr: cfr. “Il piano Kalergi” e “La verità su Kalergi e il suo piano”), passato poi ai circuiti neo-aristocratici. Sento spesso dire: “Bisogna tornare allo spirito del discorso di Schuman dei padri fondatori”, ma proprio quello spirito ha costruito questa Europa! Il discorso di Robert Schuman del 1950 fu scritto da Jean Monnet!

La UE è una creatura massonica?

È una creatura massonica! io ne parlo nel secondo capitolo nel libro “Massoni”. Io davvero rinvio il tuo pubblico alla lettura di quel libro, perché gli ultimi settant’anni di storia vengono passati ai raggi-x con nomi, cognomi e circostanze in termini estremamente minuziosi.

Cosa vuole dire UR-lodges?

La massoneria storicamente si articola in Grandi Orienti o Gran Logge, cioè federazioni di logge su base nazionale, con una certa difformità di rituali. La massoneria è un network internazionale, tanto che c’è perfino unpassaporto massonico che consente di avere – diciamo – rapporti diplomatici. Tuttavia, questa articolazione viene superata, nella seconda metà dell’ottocento, dalla costruzione di super-logge sovra-nazionali, che bypassano gli insediamenti nazionali e quindi la sovranità territoriale di una giunta, di un Grande Oriente o di una Gran Loggia e si pongono in termini globalizzanti. Spesso cooptano tra le proprie file sia profani, cioè persone mai passate per iniziazione massonica ma eccellenti in vari ambiti, sia eminenze della massoneria tradizionale. Quindi può capitare che un personaggio importante, della United Lodges of England o della Gran loggia dello stato di New York o del grande Oriente di Francia o del Grande Oriente d’Italia, poi stia con un piede lì e un piede in una super-loggia, beneficiando di una maggiore capacità di movimento. Le UR-Lodegesdanno anche vita a quei soggetti che spesso sono immaginati illusoriamente come i protagonisti di certi eventi contemporanei. Parlo del Bildelberg Group, della Trilateral Commission, del Council on Foreign Relation, del Royal Institute of International Affairs, del Bohemian Club. Tutta questa pletora di entità, che non hanno alcuna vera soggettività importante o capacità di incidere, sono associazioni paramassoniche, dove si incontrano massoni e non massoni ma dove di solito sono in pochi quelli appartenenti alle UR-Lodges, le super logge che le hanno generate, ad avere il controllo. Per esempio Enrico Letta, che pure ha fatto e fa parte di varie entità paramassoniche, non è mai stato iniziato in una qualche UR-Lodges.

Mario Monti sì, però?

Mario Monti sì! E io ne ho parlato: sono stato forse il primo a spiegare qual era il background di Mario Monti.

Monti, Napolitano, Draghi… non c’è bisogno che te lo chieda. Ma la domanda era questa: le UR-Lodges hanno questo obiettivo di neo-feudalizzare la società globale. Ma se è vero che ogni cosa che si fa deve avere un obiettivo, un tornaconto, un interesse, qual è lo scopo finale? Forse pensano che il mondo sarebbe meglio organizzato in un altro modo, oppure hanno interessi economico-finanziari da difendere, o magari pensano di poter amministrare meglio la loro attività. Cosa vorrebbero?

“I veri mandanti dell’Isis e la Superloggia massonica Hathor-Pentalpha”, scrive Carlo Tarallo il 20 novembre 2015 su “Italia Ora”. Intervista esclusiva a Gioele Magaldi, Gran Maestro del Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com) e Presidente del Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), autore del best-seller “MASSONI. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges” (Chiarelettere, Milano 2014) primo volume di una trilogia, che sta anche per essere pubblicato in lingua spagnola, francese e inglese.

D. Magaldi, lei afferma nel suo libro “Massoni” che il nome “Isis” ha un significato legato a una superloggia massonica…

R. Come ho spiegato nel primo volume della serie di Massoni. Società a responsabilità, Chiarelettere Editore, l’Isis e il progetto politico-terroristico connesso sono una precisa e meditata creazione ad opera della Ur-Lodge Hathor-Pentalpha, una superloggia sovranazionale malignamente “eretica ed estremista” nei suoi fini e nei suoi mezzi, persino rispetto agli ordinari circuiti massonici neoaristocratici e reazionari. Del resto, Isis o Iside è la stessa divinità egizia che, in determinati contesti mitologico-rituali, assume il nome di “Hathor… Tutto questo, comunque, viene spiegato minuziosamente nel libro Massoni, cosi come vi vengono profetizzati- con mesi e mesi di anticipo (il libro è uscito nel novembre 2014) - eventi quali i tremendi attentati terroristici di Parigi del 7 gennaio (episodio di “Charlie Hebdo”) e del 13 novembre 2015.  Le superlogge “Hathor-Pentalpha”, “Amun”, “Geburah”, “Der Ring” (alla guida di altre, loro satelliti) lucrarono enormi profitti geopolitici ed economici dalle guerre “preventive” al terrorismo dei primi anni ‘2000. Guerre che avrebbero avuto un senso solo se davvero fossero state volte ad “esportare” democrazia, libertà, laicità, diritti universali e infrastrutture materiali e immateriali in grado di garantire in Medio Oriente e altrove non solo istituzioni fondate sulla sovranità popolare e il pluralismo liberale, ma anche giustizia sociale e prosperità per tutti e per ciascuno. Cosi non fu. Quelle guerre, scatenate con il pretesto di abbattere “regimi canaglia” fiancheggiatori del terrorismo islamico, in realtà sono servite a scopi di ampliamento del potere e della ricchezza di un ristretto numero di gruppi massonici reazionari e neoaristocratici.

Cosa sono le superlogge massoniche?

Anzitutto occorre rammentare che il termine tecnico per denominarle è “Ur-Lodges”. Si tratta di logge molto potenti e speciali, di respiro e composizione sovranazionale, che cooptano tra i propri membri eminenti personaggi (sia uomini che donne) appartenenti alle Comunioni massoniche tradizionali (Gran Logge e Grandi Orienti) e anche profani e profane di particolare spessore e prestigio politico-sociale, economico-finanziario, mediatico, militare e culturale. E si tratta di contesti dove non ci si occupa soltanto di gestire il potere ai suoi massimi livelli globali, ma anche di cenacoli dove teorie e pratiche rituali ed esoteriche vengono coltivate con grande assiduità e scrupolosità. In effetti, a partire da fine Ottocento (momento di nascita delle prime, tra queste superlogge) e poi soprattutto nel corso del Novecento e nel primo quarto del XXI secolo, l’egemonia massonica e l’egemonia tout-court a livello planetario passa dalle tradizionali comunità massoniche organizzate su base nazionale a queste superlogge sovranazionali.

Perché una superloggia dovrebbe scatenare il terrore in Europa?

Da mesi, con la sceneggiata hollywoodiana sull’Isis e i suoi tagliatori di teste trasmessa worldwide, si è dapprima preparato il terreno. Poi è giunto il primo assaggio cruento nel cuore del Vecchio continente (vedi attentato alla sede della rivista “Charlie Hebdo”), quindi c’è stata una ulteriore escalation con l’episodio di venerdì 13 novembre 2015 e la strage di Parigi. Pur dissentendo da qualsivoglia paranoia complottista sulle numerologie di certi eventi, occorre rammentare che da quando, il venerdì 13 ottobre del 1307, il re di Francia Filippo il Bello diede l’ordine di arresto dei Cavalieri Templari, “venerdì 13” è divenuto un significante importante e famigerato negli ambienti esoterici e massonici e poi anche nell’immaginario collettivo “profano”, tanto da dar vita, in tempi recenti, ad alcune serie filmografiche sul tema. E’ in corso una lotta fratricida tra ambienti massonici neoaristocratici, egemoni da mezzo secolo, e la ripresa di attività dei circuiti latomistici progressisti, decisi ora ad invertire il corso antidemocratico e tecnocratico tanto della globalizzazione che della governance europea. Colpendo in un giorno molto preciso e particolare, le manovalanze terroristiche eterodirette dagli ambienti della Ur-Lodge Hathor-Pentalpha, intendevano conseguire due precisi obiettivi. 

Uno: dare un segnale infra-massonico ai circuiti liberomuratori progressisti e in particolare a una superloggia precisa, legata alla tradizione dei Templari e operante con particolare attenzione in Francia, in questi mesi… Dirò poi di che Ur-Lodge si tratti e che cosa stia cercando di fare sul territorio francese. 

Due: grazie allo shock provocato e allo spauracchio della presunta impossibilità di garantire la sicurezza senza misure emergenziali, determinare sia in Francia che altrove un maggiore controllo politico, sociale e mediatico “autoritario”, mediante l’introduzione di eventuali modifiche costituzionali (vedi gli annunci di Hollande in tal senso) e di una sorta di “Patriot Act” europeo. In sostanza, dopo aver determinato una cinesizzazione del popolo europeo sul piano dei rapporti sociali ed economici (smantellamento del welfare, disoccupazione galoppante, crollo della domanda aggregata e dei consumi e conseguente aumento di manodopera a buon prezzo e con bassi salari) e dopo aver costruito una UE matrigna e antidemocratica (il Parlamento europeo, luogo di rappresentanza della sovranità del Popolo europeo non ha il potere di fiduciare e sfiduciare un esecutivo politico continentale che sia sovraordinato alle strutture burocratiche comunitarie, invece di essere, come effettivamente è, subordinato alla dittatura tecnocratica della Bce, vero “dominus” non elettivo dell’attuale Europa), adesso si cerca di mortificare ulteriormente la vita democratica del Vecchio continente, introducendo, per mezzo della paura del terrorismo, leggi liberticide e autoritarie.

Il Procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti, ha detto che “forse dobbiamo essere pronti a rinunciare ad alcune delle nostre libertà personali, in particolare dal punto di vista della comunicazione” a causa della necessità di combattere con ogni mezzo il terrorismo. Cosa ne pensa?

Proprio il 14 novembre, sul sito ufficiale del Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), poi rilanciato anche sul sito di Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com), è apparso un importante intervento intitolato “Strage a Parigi del 13 novembre 2015: il tragico avverarsi delle profezie di MASSONI e di Gioele Magaldi (risalenti al 2014) e un necessario impegno di tutti e di ciascuno per difendere democrazia e libertà, contro qualsivoglia deriva autoritaria e illiberale in stile Patriot Act sul suolo europeo e contro altre conseguenze strumentali e scellerate auspicate dai mandanti degli attentati di ieri (13 novembre) e del 7 gennaio 2015 in Francia”, articolo pubblicato il 14 novembre 2015 sul sito MR, di cui consiglio un’attenta lettura. Dopo qualche polemica iniziale, “a caldo”, rispetto a quanto da lui affermato, ho avuto modo di informarmi meglio sulla figura di Franco Roberti, procuratore antimafia e antiterrorismo, e in molti me ne hanno parlato come di persona seria, competente e amante della libertà e della democrazia. Credo, quindi, che quelle parole (anch’ esse dette “a caldo”, sull’onda dei fatti terribili che ci hanno tutti indignato e scosso) sul fatto di rinunciare alla libertà, specie di comunicazione, in favore della sicurezza, siano state pronunciate in un momento di comprensibile e preponderante preoccupazione di assicurare al popolo italiano il massimo di tutela da minacce terroristiche.  Ma sono altrettanto convinto che Franco Roberti e i suoi collaboratori saranno in grado di lavorare alacremente sul lato della prevenzione e del controllo sapiente del territorio e dei luoghi più esposti a rischio, senza minimamente attentare alle libertà fondamentali dei cittadini. Del resto, il massone progressista Benjamin Franklin, uno dei massimi padri della nascita della prima Repubblica costituzionale e democratica al Mondo, gli Stati Uniti d’America, soleva affermare: “Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza”.  A proposito dei fatti di Parigi di venerdì scorso, vorrei aggiungere quello che mi hanno suggerito diversi amici fraterni onesti e scrupolosi, tra i quadri e i dirigenti dei servizi d’intelligence (di diverse nazioni) operanti in Francia, e in particolare a Parigi. E sa cosa mi hanno detto? Che senza una falla grossa come una casa nell’operato degli stessi servizi segreti occidentali e francesi (qualche agente infedele che, evidentemente, ha “collaborato” con i terroristi, tradendo con infamia i propri doveri e la propria dignità di uomo e di servitore dello Stato), quello che è accaduto venerdì 13 novembre non sarebbe mai potuto accadere. 

Ma stiamo scherzando? Terroristi che arrivano indisturbati a pochi passi da dove si muove il Presidente della Repubblica e che vanno a fare il più atroce attentato in un locale che avrebbe dovuto essere scientificamente guardato a vista da servizi d’intelligence e sicurezza, in quanto già attenzionato in precedenza per possibili atti di terrorismo e violenza?

Senza la connivenza di apparati deviati dell’intelligence militare e civile, tutto ciò non sarebbe stato assolutamente possibile. Ecco, dunque ci si prodighi per evitare, in Italia, le falle clamorose e inescusabili relative alla prevenzione degli attentati e al presidio capillare dei luoghi più esposti a rischi. E da questo punto di vista, in molti che lo conoscono bene, mi assicurano che Franco Roberti rappresenti una garanzia- per competenza, intelligenza e desiderio sincero di proteggere la popolazione esposta a minacce terroristiche- di prim’ordine.

Quando e come finirà, se finirà, questa tragedia? 

La tragedia non finirà da sola. La sua fine dipende insieme dalle iniziative dei massoni progressisti nel contrastare i progetti di involuzione neo-feudale su scala europea, occidentale e globale e dal risveglio dell’orgoglio di tutti i cittadini comuni, latori pro-quota di sovranità. In questa prospettiva è stato fondato il Movimento Roosevelt (movimentoroosevelt.com), per unire in una alleanza comune élites progressiste e popolo sovrano desideroso di difendere con le unghie e con i denti tre secoli di conquiste democratiche e liberali.

Le sue verità sono sconvolgenti, lei vende tantissimi libri e gira l’Italia a spiegarle a tutti. Ha mai avuto una querela?

Ho ricevuto querele (stralunate) per diffamazione, in relazione alle attività del sito ufficiale di Grande Oriente Democratico (grandeoriente-democratico.com), Movimento massonico d’opinione di cui mi onoro di essere Gran Maestro. Ma non ho ricevuto alcuna querela per questioni attinenti alla pubblicazione del libro Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges.

Nella massoneria, adesso, pensa di avere più amici o più nemici?

Ho sicuramente sia molti amici che molti nemici, all’esterno del network specifico di GOD, parte del più ampio campo di azione della Libera Muratoria progressista, di cui sono parte integrante. Tuttavia, da qualche tempo a questa parte accadono cose un po’ strane… L’altro giorno, ad esempio, qualcuno mi ha iscritto ad un Gruppo “Massoneria” su facebook e poi, su quello stesso Gruppo, ieri, mercoledì 18 novembre, sono stato oggetto di minacce di esplicita violenza fisica e anche di morte, da alcuni massoni italiani, peraltro riconoscibili con nome e cognome. Sarà naturalmente mia cura, nelle prossime ore, allertare della cosa in modo adeguato sia le autorità giudiziarie competenti che l’opinione pubblica. 

Casta per sempre, così i politici si sono tenuti tutti i loro privilegi. Indennità nascoste. Massaggi e viaggi gratis. Infermieri a disposizione anche per i genitori. Abusi di portaborse. E al lavoro solo tre giorni alla settimana. La bufera mediatica è passata, ma poco o nulla è cambiato, scrive Emiliano Fittipaldi il 16 giugno 2016 su "L'Espresso". I senatori e i loro familiari non hanno mai paura di sedersi sulla sedia del dentista. Non perché più coraggiosi degli altri mortali, ma perché il conto, loro, non lo pagano mai. Ci pensano gli italiani: grazie all’assistenza sanitaria integrativa ogni parlamentare può avere rimborsi fino a 25 mila euro nell’arco di un quinquennio. Un plafond che comprende anche «lo sbiancamento di denti non vitali (250 euro per dente)» e «corone in oro e porcellana» a 1.150 euro l’una. Se il Censis segnala che 11 milioni di concittadini rinunciano alle cure a causa della crisi economica, e l’Ufficio di bilancio del Parlamento ha spiegato che il 7,1 per cento evita di farsi visitare perché i costi delle prestazioni sono troppo alti, lo stesso Parlamento regala a ogni senatore della Repubblica un plafond supplementare da 1.500 euro l’anno per farsi «una depressoterapia intermittente». Una somma che può essere spesa anche per «un’idrochinesiterapia» (si fa in piscine termali) e pure - se si tiene alla linea, l’estate ormai è alle porte - per «drenaggio linfatico manuale». In passato i Radicali avevano raccontato che ai deputati vengono rimborsati persino sedute di agopuntura e trattamenti shiatsu. Ebbene, se le proteste a nulla sono servite e i rimborsi per i massaggi sono ancora lì, nessuno sapeva che il tariffario di Palazzo Madama prevede anche «sedute individuali di training per dislessici», e che prevede risarcimenti di quasi mille euro al mese per pagare un infermiere in caso di bisogno (il servizio si può estendere anche ai genitori del senatore). Il senatore può presentare anche fattura per un paio di scarpe ortopediche da 600 euro (qualcuno giura che ce ne sono di molto eleganti in pelle), e se colto da attacchi d’ansia può spendere 5 mila euro l’anno per sedute dallo strizza-cervelli. Ecco. Il tariffario dedicato ai senatori, datato maggio 2015, è solo una delle evidenze che dimostrano come, nonostante gli scandali infiniti, le proteste dell’opinione pubblica, il ludibrio internazionale e le batoste elettorali, i privilegi della "casta"sono stati appena scalfiti. È vero: le province e i costi per gli stipendi dei presidenti e dei consiglieri sono stati cancellati, i vitalizi per gli attuali parlamentari finalmente aboliti, ma per il resto prebende e vantaggi assortiti non sono stati toccati. «Il cash a disposizione dei parlamentari è rimasto praticamente identico», spiega la grillina Laura Bottici, questore al Senato che da tre anni sta ancora tentando di districarsi nella bolgia di sconti e stratagemmi (tutti leciti) con cui gli eletti possono gonfiare busta paga e aumentare le loro franchigie. Andiamo con ordine. La busta paga della Bottici è identica a quella dei suoi colleghi: l’indennità parlamentare è di 5.246 euro netti al mese. Se l’eletto fa anche un altro lavoro, scende un po’, a 4.750 euro. Se i grillini si sono decurtati lo stipendio, sono decine i deputati che mantengono la doppia professione. Nessuno stress: a Montecitorio e Palazzo Madama ci si va pochissimo, e il tempo libero non manca. «In questa legislatura in Senato si lavora da martedì pomeriggio, quando partono le convocazioni in aula e commissione, fino a giovedì mattina. Per interrogazioni o question time si arriva a dopopranzo: ma il senatore non ci va quasi mai, e il giovedì alle 14 parte e torna a casa» ragiona la Bottici. «Pure le commissioni sono sempre deserte: solo quando si vota l’affluenza aumenta, perché la maggioranza non vuol rischiare di andare sotto. Anche noi andiamo poco in aula, lo ammetto: le discussioni sono del tutto inutili, è la regolamentazione che va cambiata al più presto». È probabilmente d’accordo con lei Antonio Angelucci, re delle cliniche romane, almeno a spulciare le statistiche Openpolis: in tre anni deputato-fantasma di Forza Italia ha votato 86 volte su 16.365, con un tasso di assenza pari al 99,51 per cento. A Montecitorio tra i meno presenti ci sono l’altro forzista Rocco Crimi (che ha l’8 per cento di presenze), l’ex Pd Francantonio Genovese (assenze forzate le sue, visto che è stato arrestato nel maggio del 2014), l’alfaniano Filippo Picone (che ha un invidiabile 82 per cento di assenze), seguito a ruota da Giorgia Meloni, oberata leader dei Fratelli d’Italia che vanta un tasso di assenteismo del 76,4 per cento. Recordmen in Senato sono invece l’avvocato di Silvio Berlusconi Niccolò Ghedini e il capo di Ala Denis Verdini: il primo s’è presentato in aula lo 0,91 per cento delle volte, il secondo è stato assente l’88 per cento delle sedute. L’assenteismo è spesso giustificato dall’inutilità della presenza fisica. In effetti, dai tempi dei governi Berlusconi l’interventismo governativo ha trasformato i parlamentari in meri pigiatori di bottoni, obbligati a un ozio strapagato e a una noia dorata. È un fatto che le leggi, principale attività per la quale vengono eletti i Nostri, sono ormai appannaggio quasi esclusivo dell’esecutivo: dal 2013 Camera e Senato hanno approvato in tutto solo 36 leggi di iniziativa parlamentare, mentre ne hanno approvate 176 di iniziativa del governo. In media meno di un dispositivo al mese, contando anche norme sull’equilibrio di donne e uomini nei consigli regionali, l’istituzione del "Premio Biennale Giuseppe Di Vagno" e la nascita del "Giorno del Dono" fortemente voluta dall’ex presidente Carlo Azeglio Ciampi. Un po’ poco, forse, per chi all’indennità aggiunge una diaria forfettaria da 3.503 euro nette al mese, che serve ai deputati per sostenere le spese di soggiorno a Roma (viene decurtata di 206 euro per ogni giorno di assenza, ma un eletto, anche se partecipa al 30 per cento delle votazioni nell’arco di una giornata, è considerato presente). Al gruzzolo vanno aggiunti altri 3.690 euro, sempre netti, come rimborso necessario a garantire il rapporto tra eletto e il suo collegio. Di quest’ultima somma il 50 per cento viene girata direttamente in busta paga, l’altra metà a piè di lista. Può essere usata per pagare collaboratori e consulenze, organizzare convegni e qualsiasi altro «sostegno alle attività politiche». Al Senato il sistema è diverso: «Oltre l’indennità abbiamo rimborsi pari a 9.330 euro al mese, tra diaria, spese generali e quelle per l’esercizio del mandato. Una delle cose più assurde è che la parte che bisogna rendicontare (solo 2.090 euro, ndr) se non si riesce a spenderla per intero entro la fine del mese, può essere "recuperata" prima della fine dell’anno», commenta il questore. «Tutti soldi, si badi bene, non tassati». Matteo Renzi sa bene che il tema degli stipendi-monstre dei parlamentari è uno dei leitmotiv dei movimenti anti-sistema, e non manca occasione di ricordare che la riforma costituzionale prevede un taglio drastico dei senatori (oggi sono 315, ne sopravviveranno 100) e l’eliminazione dell’indennità per chi siederà sugli scranni di Palazzo Madama. Già: il nuovo Senato sarà composto da consiglieri regionali e sindaci che prenderanno solo lo stipendio dall’ente di appartenenza, ma godranno dell’immunità parlamentare. Se ad ottobre vincessero i Sì e la riforma firmata da Maria Elena Boschi entrasse in vigore, i costi generali della struttura secondo uno studio della Ragioneria Generale si ridurrebbero però di appena 9 punti percentuali. Complessivamente il Senato, novello ente inutile, continuerà a costare poco meno di mezzo miliardo di euro l’anno. La metà di quanto costa Montecitorio (nonostante tagli e sforbiciate la Camera pesa ancora un miliardo di euro l’anno sull’erario) e il doppio dei costi del Quirinale, casa del capo dello Stato Sergio Mattarella e altro palazzo che gli italiani continuano a pagare a carissimo prezzo. Per il 2016 la spesa complessiva effettiva sarà pari, si legge nel bilancio di previsione», a 236 milioni di euro, «in diminuzione del 2,15 per cento sul 2015», e di un solo milione sul 2014. Dal 2007, anno in cui il libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella evidenziò come la corte presidenziale abitata da centinaia di corazzieri, poliziotti, funzionari e burocrati costasse quattro volte la reggia di Buckingham Palace, è stata tagliata - in termini assoluti - di appena quattro milioni di euro. Nonostante la riduzione del numero del personale, l’aumento costante del costo delle pensioni fa si che il Quirinale costi il doppio dell’Eliseo, e quasi dieci volte la presidenza tedesca. Nulla sembra possa modificare neppure il destino dei portaborse. I deputati possono usare il 50 per cento della diaria per pagare lo stipendio ai propri collaboratori, ma in molti continuano a farne a meno per intascare tutto il cucuzzaro, preferendo rendicontare altre spese. Altri assumono segretari con stipendi da fame. Se la Bottici ricorda che è uso comune girare soldi al partito in cambio di un collaboratore di fiducia (in questo modo gli uffici di Palazzo Madama non sanno nemmeno che tipo di contratto ha), Valentina Tonti, presidente dell’Associazione dei collaboratori parlamentari chiarisce subito che anche in questa legislatura per i portaborse «la situazione non è affatto cambiata». Non esistono infatti regole chiare per l’assunzione, né contratti regolamentati come avviene nel resto d’Europa. «Esistono ancora stagisti che fanno i portaborse senza essere pagati neanche un euro, ragazzi che sono contrattualizzati da un solo deputato ma che lavorano per più parlamentari, altri pagati - almeno in parte - al nero. Nessuno denuncia gli abusi, nemmeno a noi dell’associazione: tutti hanno paura di perdere il posto e di non trovarlo più», dice la Tonti. Com’è possibile che il ricatto occupazionale sia messo in atto nei palazzi del potere nonostante inchieste e scandali a catena? «Non lo so. So solo che qualche mese fa siamo riusciti a far approvare alla Camera un ordine del giorno trasversale, che impegnava il palazzo a studiare nuove norme. Finora non abbiamo avuto riscontri, nonostante a parole sia il presidente Laura Boldrini sia i vari partiti siano totalmente d’accordo». A parole. Nei fatti ad oggi è segreto perfino il numero complessivo delle assunzioni, e che le tipologie contrattuali siano avvolte nel mistero più fitto. L’unica certezza è che il sistema incentiva il parlamentare a risparmiare più possibile sul collaboratore, in modo da intascarsi più denaro possibile. Lo stipendio medio di chi è riuscito a strappare un contratto "normale" si aggirava fino a pochi mesi fa sui 1.100 euro al mese, ma adesso, a causa del Job’s Act, il tempo determinato è diventata un’assunzione più onerosa, «e il netto» conclude la Tonti «si è abbassato». Torniamo a chi, dell’Irpef, se ne frega. La mole di integrazioni economiche per i parlamentari, nell’anno di grazia 2016, sembra infinita. I deputati e i senatori più fortunati continuano ad arrotondare lo stipendio con le indennità di carica: i membri del consiglio di presidenza e i presidenti di commissione sono quelli che le hanno più alte. A Montecitorio tutti godono di un plafond supplementare di 1.200 euro l’anno per il rimborso delle spese telefoniche (fino al primo aprile 2014 era addirittura di 3.980 euro), mentre altri 1.500 euro l’anno sono destinati all’acquisto di un computer o un tablet. Al Senato c’è una voce simile: 2.500 euro per ogni legislatura, «ma io ci ho rinunciato, il pc me lo sono comprato da sola. Così come rifiuto di prendere i soldi che mi spetterebbero per l’esercizio del mandato», chiosa la Bottici, che eliminerebbe con un tratto di penna le norme che permettono di dare somme forfettizzate, in modo da obbligare chi chiede rimborsi spesa a mostrare fatture e pezze d’appoggio. Come dalla nascita della Repubblica, anche nella XVI legislatura i parlamentari hanno privilegi eccezionali sui trasporti: un must della casta. La tessera che gli permette di viaggiare gratuitamente, e in prima classe, su treni, autostrade e aerei in tutto il territorio nazionale non è stata abolita. «Viaggiamo gratis anche se dobbiamo andare al compleanno di nostra nonna», spiegò Carlo Monai a "l’Espresso" qualche anno fa, un ex democrat che chiedeva al Parlamento di mettere controlli affinché fossero pagate solo le trasferte legate all’incarico pubblico. Carlo Fraccaro, deputato del M5S, aggiunge oggi un altro dettaglio: «Per i trasferimenti dal luogo di residenza all’aeroporto più vicino e tra Fiumicino e Montecitorio, è previsto un rimborso spese trimestrale di 3.323 euro per coloro che vivono entro 100 chilometri dall’aeroporto più vicino alla residenza, e di quasi 4 mila euro se la distanza da percorrere supera i 100 chilometri». Ci sono anche altri vantaggi che la legislatura non è riuscita (?) ad eliminare: come la moda di collezionare, a spese del contribuente, miglia Alitalia da utilizzare per viaggi all’estero o quelli di amici e parenti. Senato e Camera fanno riferimento all’agenzia americana Carlson Wagonlit, con sede in Minnesota, e quasi tutti i parlamentari sono frequent flyer Alitalia. Nessuno vieta loro di scegliere altre compagnie, ma i politici se ne guardano bene: da un lato il prezzo di un biglietto low cost lo devono anticipare di tasca propria (mentre con Alitalia anticipa il Parlamento), dall’altro perderebbero i punti fedeltà da accumulare sulla carta "Millemiglia". Punti che sono personali, e che vengono usate dal deputato come meglio crede. Nel 2014 i deputati grillini in un ordine del giorno hanno proposto che Montecitorio valutasse «l’opportunità di avviare una trattativa per riformulare i termini dell’accordo della Camera con Alitalia», in modo da attribuire non al singolo parlamentare ma all’amministrazione i punti maturati con i biglietti aerei pagati con fondi pubblici. Finora, la proposta è rimasta lettera morta. La vita a scrocco è un must indistruttibile. Non c’è scandalo che tenga: se Monai raccontò che parcheggiare al parking di Fiumicino, al silos "E", costa agli italiani 293 euro al mese e al parlamentare solo 50, se i mitici barbieri sono ancora lì (passati da 7 a 4, insieme ai quasi mille dipendenti vedranno una riduzione del loro stipendio a partire dal 2018: a fine carriera potranno comunque arrivare a guadagnare 99 mila euro l’anno), i deputati possono beneficiare - se vogliono comprarsi un’auto nuova - di sconti proposti dalle case automobilistiche, riservati esclusivamente a loro. Sarebbe ipocrita, però, non sottolineare che qualche passo verso la sobrietà è stato comunque fatto. Le auto blu sono calate drasticamente: il Senato - al netto della scorta del presidente Piero Grasso - ha solo sette Audi A6 più quattro auto elettriche, tutte a noleggio; mentre la Camera gestisce nove auto di cilindrata media, più due van monovolume per le delegazioni. «Un parco macchine ridicolo per un’istituzione così importante», protesta un deputato del Nuovo Centro Destra, che ricorda con nostalgia la trentina di berlina 2.4 di due legislature fa. Passasse il referendum sul disegno di legge costituzionale della Boschi, oltre gli stipendi dei senatori verrebbero tagliati con l’accetta le indennità dei consiglieri regionali, in qualche caso più che dimezzate. Il governo Monti, con un decreto, fissò un tetto massimo di 8.500 euro al mese. Netti. Un limite che, vista la crisi economica, resta comunque altissimo: con la vittoria del Sì i consiglieri prenderebbero automaticamente quanto il sindaco del capoluogo della regione di appartenenza: per fare un esempio, in Calabria i consiglieri passeranno da oltre 7 mila euro netti ai 2.500 euro appannaggio del sindaco di Catanzaro. Una mazzata, secondo Renzi. «Spiccioli», per chi considera la riforma un immondo papocchio che non vale «lo stravolgimento della Carta e della nostra democrazia».

Deputati, basta accettare regali costosi. Ora c'è il codice etico. Ma non prevede sanzioni. La Camera si prepara a varare un documento che chiede agli onorevoli di rifiutare doni dal valore superiore ai 250 euro. Ma chi non lo rispetta riceverà solo una segnalazione sul sito internet di Montecitorio, scrive Susanna Turco il 25 marzo 2016 su "L'Espresso". I deputati facciano la cara grazia di non accettare più regali costosi, almeno "nell’esercizio delle loro funzioni". Non che sia una rivoluzione: più che altro è un argine, un appello alla responsabilità dei parlamentari. E’ questa la novità principale del Codice etico che la Camera si appresta a varare, introducendo – sul modello del Parlamento europeo - un limite di 250 euro a "doni e benefici analoghi", oltre il quale il deputato "si astiene dall’accettare", c’è scritto proprio così. Un consiglio, un'indicazione, più che un obbligo: anche perché, allo stato, non sono previste vere e proprie sanzioni per chi continuasse a fare come prima. D’altra parte è un Codice etico, mica una legge. Il testo, appena approvato dalla Giunta del Regolamento, può essere ancora modificato (il termine per gli emendamenti è l’8 aprile), ma dovrebbe venir approvato come "protocollo sperimentale" entro il mese prossimo. Oltre alla preghiera dei regali low cost, ma si prevede una serie di comunicazioni obbligatorie, come quella relativa a tutte le cariche e uffici che si ricoprono e ricoprivano all’epoca della candidatura, le dichiarazioni di spesa per la campagna elettorale, quelle sugli eventuali finanziamenti, la situazione patrimoniale, i redditi. Sarà un "Comitato consultivo sulla condotta dei deputati" a vigilare su eventuali violazioni, ma qui appunto è il bello: per chi non rispetterà il codice non c’è una sanzione, c’è l’esposizione alla pubblica gogna del web. Una punizione politico-mediatica, meglio che niente: gli inadempienti e le violazioni saranno resi pubblici sul sito internet della Camera. "Così si finisce per indebolire la portata dell’intero testo", si è lamentato l’altro giorno in Giunta il grillino Danilo Toninelli. I Cinque stelle, come pure Forza Italia, vorrebbero che almeno si applicassero le stesse sanzioni previste per chi provoca disordini in Aula, come la sospensione del deputato dai due ai quindici giorni. Ma non è così semplice. O meglio non tutti ritengono si possa fare. Secondo l’orientamento emerso sia dall’autore della norma Pino Pisicchio, che dalla presidente della Camera Laura Boldrini, se si inseriscono delle sanzioni, bisogna modificare il Regolamento della Camera. Non si può semplicemente estendere l’applicazione delle norme che già ci sono. Questo, però, significherebbe far passare il Codice etico per l’approvazione dell’Aula di Montecitorio: "E il rischio andare in Aula è finir per non fare più niente", confida lo stesso Pisicchio. Si sa come vanno queste cose: già se la norma diviene efficace così come è, si può chiamarla una vittoria. E allora meglio comunque fare qualcosa, è la logica. Anche perché c’è poco tempo: giusto ad aprile un organismo della Corte Europea (l’acronimo è "Greco"), verrà a verificare i livelli di corruzione in Italia, e uno dei requisiti richiesti riguarda appunto le norme di comportamento dei deputati. Sarebbe spiacevole incorrere in una procedura di infrazione. L’altro requisito richiesto dal Greco, che in verità è ancora più complesso da attuarsi, riguarda la regolamentazione dell’accesso a Montecitorio dei lobbisti. Una questione strettamente connessa con il Codice etico dei parlamentari, come si può intuire. E’ il secondo testo all’esame della Giunta del regolamento, e dovrebbe essere approvato in tandem con il primo. Anche se taluni fanno resistenze, argomentando che servirebbe una vera e propria legge di regolamentazione delle lobbies (che peraltro è in discussione al Senato). L’ambizione ultima, per quel che riguarda la Camera, sarebbe quella di chiudere l’era degli assalti ai corridoi di Montecitorio – tipo mercato delle vacche – quando si discute di legge di stabilità e altri provvedimenti delicati e complessi. E’ sempre stato così, a conseguenza di un regime che di fatto, nei decenni, si è rivelato odiosamente irriformabile. Ma a quali luoghi i lobbisti potranno accedere o meno, lo stabilirà l’Ufficio di presidenza in un secondo momento. Per ora, la Giunta per il Regolamento punta ad approvare un protocollo di regolamentazione: i lobbisti dovranno registrarsi (non è ammesso chi ha sentenze definitive per alcuni reati), dichiarare quali interessi sponsorizzano e, due volte l’anno, pena la cancellazione dal registro, fare una relazione su quali parlamentari abbiano incontrato, quali obiettivi raggiunto, con che "mezzi", e quali spese abbiano sostenuto. La norma al momento riguarda anche gli ex parlamentari che svolgano attività di lobbing. Difficile immaginare un controllo serrato: ma del resto anche una innovazione come quella progettata in questi giorni alla Camera sarebbe un debutto assoluto, nel Parlamento italiano.

Il moralismo dei tifosi. Troppe volte chi fa politica, in Italia, si comporta come gli ultrà del calcio, che hanno la coscienza offuscata dal credo sportivo, scrive Giorgio Mulè il 29 aprile 2016 su "Panorama". Che poi, in cuor loro, manco i tifosi della Juventus credono fino in fondo alla filastrocca che canticchiano dopo ogni vittoria: "Siamo noi, siamo noi...i migliori dell'Italia siamo noi. Perché va bene il quinto scudetto consecutivo e il sano sfottò ai rosiconi, però loro per primi sanno che Calciopoli non si cancella, che gli "aiutini" e le "sviste" degli arbitri hanno influito sul corso dell'ultimo campionato. Però sono tifosi, appunto. E per loro stessa natura i tifosi sono fanatici, spesso hanno la coscienza offuscata dal credo sportivo e sanno ben nascondere la realtà che non gli piace. Ma chi fa politica può essere tifoso? Chi ha l'onere di amministrare un Comune, una Regione o il Paese può davvero essere credibile se ripete in modo stucchevole "Siamo noi, siamo noi...i migliori dell'Italia siamo noi"? E se mentre lo ripete l'ipocrisia lo seppellisce? E se i comportamenti che lui rimprovera all'avversario sono esattamente gli stessi che lui perdona o fa finta di non vedere tra chi "gioca" nella sua squadra? Non parlo di falli di reazione, di sfoghi improvvisi. Ma di unaincultura politica purtroppo radicata. A Roma il Pd si è scatenato contro la candidata a sindaco dei 5 stelle. Lasciamo perdere il video farlocco dell' Unità che la voleva tra i sostenitori di Berlusconi ("Non è informazione, ma una vergogna" ha correttamente detto il presidente nazionale dell'Ordine dei giornalisti, anche a fronte delle mancate scuse del quotidiano) e dedichiamoci agli attacchi recenti del partito di Renzi: prima hanno accusato la Raggi di aver "nascosto" il suo praticantato legale presso lo studio Previti, poi di essere stata, sempre in veste professionale, cooptata nel cda di una società legata al braccio destro dell'ex sindaco Gianni Alemanno. Senatori e deputati del Pd hanno scatenato una tempesta di critiche ferocissime al grido di #omertàomertà o #raggiri, con dichiarazioni di fuoco su giornali e televisioni. Spostiamoci di 600 chilometri a nord. A Milano il candidato del Pd Beppe Sala è stato finora inchiodato a una serie di omissioni ben più gravi rispetto a quelle della Raggi per non parlare delle spericolate arrampicature sui conti Expo: ha dichiarato "sul mio onore" di non avere una casa in Svizzera e ha pure dimenticato di specificare di non aver solo un "terreno sito nel Comune di Zoagli" ma anche una bella villa. Avete per caso letto non dico un tweet al vetriolo, ma un felpato rimbrotto dei compagni di partito? Ovviamente no. La doppiezza del tifoso vale anche per gli indagati: si pretendono e ottengono le dimissioni del ministro Maurizio Lupi non indagato e si tiene al suo posto il sottosegretario Vito De Filippo che, a parte essere indagato nell'inchiesta Tempa rossa, è politicamente indifendibile al pari di un nugolo di amministratori lucani neppure sfiorati da un provvedimento di sospensione temporaneo dal partito. Vedremo adesso l'atteggiamento di lorsignori dopo l'inchiesta che vede il presidente del Pd campano, Stefano Graziano, sotto inchiesta per concorso esterno in associazione camorristica. Vedremo come sarà declinata stavolta l'arte dei "migliori", l'antica supponenza che accomuna Renzi oggi, D'Alema ieri e Prodi l'altro ieri: cambia la specie nei secoli, ma la trasmissione del Dna è identica. Eccoli lì tutti e tre a riempirsi la bocca, quando conviene loro, di presunzione di innocenza. La presunzione abbonda, quanto all'innocenza meglio lasciar perdere.

Il Partito Democratico peggio della mafia? A contar gli indagati e gli arrestati sembra di sì!

Brescello sciolto per mafia, la dinastia di sinistra dei Coffrini e il condizionamento del clan delle “persone perbene”. Il paese di Peppone e Don Camillo è stato amministrato dal 1985 da Ermes (Pci) e poi dal figlio Marcello (prima assessore all'Urbanistica e poi primo cittadino). Negli anni tanti gli episodi controversi che hanno caratterizzato la cittadina emiliana: nel 1992 uno dei rari omicidi di 'ndrangheta, nel 2003 l'intervista del sindaco "padre" che difende Grande Aracri ("Qui si è comportato bene") e nel 2014 quella del sindaco "figlio" che dice il boss "è educato". Il Pd ne ha chiesto le dimissioni solo nel 2016, scrive David Marceddu il 20 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Hanno amministrato Brescello per 30 anni i Coffrini. Ma ora lo scioglimento per infiltrazioni mafiose del loro comune chiama in causa le loro scelte amministrative: in attesa di capire che cosa dice la relazione segretata che ha portato alla scelta del consiglio dei ministri, il governo parla in un comunicato di “accertate forme di condizionamento della vita amministrativa da parte della criminalità organizzata”. “Ho la coscienza a posto, sono sicuro del mio operato e di quello di mio padre Ermes”, spiega Marcello Coffrini, sindaco fino a pochi mesi fa. I due ex primi cittadini non risulta che siano mai stati indagati in inchieste penali, eppure, già da tempo, erano finiti al centro di polemiche politiche per i loro giudizi espressi pubblicamente su Francesco Grande Aracri di Cutro. Per intendersi, Nicolino, il più famoso dei fratelli Grande Aracri, è considerato punto di riferimento della ‘ndrina reggiana sgominata dall’inchiesta Aemilia della Dda di Bologna. Ma torniamo a Brescello, paese di 5mila anime in cui nel 1992 si verifica uno dei rari omicidi di ‘ndrangheta in terra emiliana: quello di Giuseppe Ruggiero, freddato in una guerra tra cosche. Era invece il 1985 quando Ermes, avvocato amministrativista di fama, diventa primo cittadino per il Partito comunista italiano: in pratica un erede ideale del Peppone di Guareschi che da queste parti si scontrava con Don Camillo. Cade il muro di Berlino, sparisce la falce e il martello, inizia la seconda repubblica, ma Ermes rimane al suo posto sino al 2004, quando lascia il testimone a Giuseppe Vezzani, sempre in quota Pd. Ma la dinastia non è conclusa: Marcello, figlio di Ermes, anche lui avvocato, diventa assessore all’urbanistica, posto chiave in qualunque giunta. E rimane lì per 10 anni durante i quali, secondo quanto trapela dalla relazione che ha portato allo scioglimento, alcune scelte urbanistiche avrebbero in qualche modo favorito uomini vicini proprio ai Grande Aracri. Nel 2014 infine diventa sindaco lui stesso, 10 anni dopo suo padre: ma per Marcello sarà una esperienza breve. A settembre dello stesso anno arriva la vicenda dell’intervista su Francesco Grande Aracri, anche lui condannato per mafia e da tempo residente a Brescello, e i riflettori della stampa si accendono sul paese. E il destino politico di Marcello è segnato. La figura di Francesco Grande Aracri torna alla ribalta diverse volte nei 30 anni della dinastia Coffrini. In una intervista del 2003 il sindaco Ermes parla di Grande Aracri, che allora era già stato arrestato, ma ancora non era stato condannato per mafia: “A noi non risulta nulla, qui si è sempre comportato bene, ha fatto anche dei lavori in casa mia e si è visto assegnare dei lavori dal Comune”. In quello stesso anno, un barista brescellese racconta di essere stato minacciato da persone che gli chiedevano il pizzo. Immediatamente appende un cartello con scritto “Chiuso per mafia” e abbassa le serrande. Ermes reagisce preannunciando cause legali per tutelare il nome di Brescello e la revoca della licenza al barista. Poi assicura: di organizzazioni criminali “non risulta il radicamento nei nostri territori”. Ma c’è di più. Pochi giorni prima della notizia dello scioglimento, era venuto anche a galla che nel lontano 2002 (e sino al 2006) Francesco Grande Aracri e diversi suoi fratelli (ma non Nicolino) erano stati difesi davanti al Tar di Catanzaro proprio da Ermes Coffrini. “Se viene un signore e ha bisogno non gli chiedo un certificato penale o attinenze con la sua moralità. Io tutelo un diritto particolare. Altrimenti qui un avvocato non deve più tutelare un eventuale mafioso o un medico curarlo?”, ha spiegato Ermes Coffrini alla Gazzetta di Reggio. E il Partito democratico dov’era? A settembre 2014, come detto, scoppia la bufera su Marcello Coffrini che durante una intervista alla web tv Cortocircuito aveva definito Francesco Grande Aracri uno “molto composto, educato, che ha sempre vissuto a basso livello”. Il Pd non ne chiede le dimissioni. Convoca Marcello Coffrini a un incontro di sindaci, lo sgrida, ma lo lascia al suo posto. Motivo? Coffrini non risultava, a detta dell’assemblea dei sindaci, un iscritto al partito. Un anno e mezzo dopo ci vorrà Beppe Grillo per ritirare fuori il caso: stretto dalle polemiche sulla vicenda della sindaca di Quarto, il fondatore dei 5 stelle ricorda al Pd la vicenda di Brescello. Solo allora, e siamo a gennaio 2016, il Partito democratico – che non aveva messo in discussione Coffrini neanche al momento in cui il prefetto aveva mandato una commissione d’accesso per valutare lo scioglimento – decide di darsi una mossa e impone ai consiglieri comunali iscritti di togliere la fiducia al sindaco. Non tutti obbediranno, ma a quel punto Coffrini alza bandiera bianca autonomamente e si dimette. “Non ho timori, le mie dimissioni sono tutto tranne una fuga. Non ho nessuna responsabilità di tipo penale”, spiegherà l’ormai ex sindaco.

Tutti gli indagati del Partito Democratico. Il coinvolgimento di esponenti di sinistra nelle inchieste sulla criminalità organizzata campana non desta più scalpore. Le prove? Eccole. L’indagine per concorso esterno in associazione camorristica..., scrive Lu. Ro. Il 28 aprile 2016 su “Il Tempo”. Il coinvolgimento di esponenti di sinistra nelle inchieste sulla criminalità organizzata campana non desta più scalpore. Le prove? Eccole. L’indagine per concorso esterno in associazione camorristica a carico di Stefano Graziano, consigliere regionale e presidente del Pd campano, è solo l’ultimo esempio. Prima di lui la Dda di Napoli ha messo sotto inchiesta per il medesimo reato anche uno dei simboli dell’antimafia di sinistra, l’ex parlamentare Lorenzo Diana che secondo Roberto Saviano era l’unico politico temuto dai clan. Gli stessi inquirenti ipotizzano che a Casavatore (Napoli) il clan Ferone avrebbe appoggiato alle ultime elezioni comunali anche il candidato sindaco del Pd, poi sconfitto, Salvatore Silvestri. È del gennaio scorso, invece, la notizia (smentita dal diretto interessato) del coinvolgimento dell’europarlamentare del Pd Nicola Caputo in un’inchiesta dell’antimafia sul voto di scambio. Nel luglio scorso, poi, il prefetto di Caserta Arturo De Felice ha sospeso il consiglio comunale di Villa di Briano (Caserta) dopo le dimissioni di sette consiglieri, conseguenza diretta dell'inchiesta sulle infiltrazioni camorristiche al Comune che aveva portato all’arresto del dirigente comunale Nicola Magliulo, fratello del sindaco Pd Dionigi, a sua volta indagato per peculato e abuso d'ufficio perché, secondo la Dda, avrebbe messo a disposizione uomini e mezzi del Municipio per pulire un mobilificio a cui gli stessi camorristi avevano messo fuoco allo scopo di truffare l'assicurazione. Nel giugno del 2015, inoltre, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha condannato a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa l'ex sindaco di Villa Literno (Caserta) ed ex consigliere regionale Enrico Fabozzi. Anche lui del Pd. Corruzione aggravata dal metodo camorristico è, poi, l’accusa che pesa sul capo dell’ex sindaco di Orta d’Atella (Caserta) ed ex consigliere regionale Ds Angelo Brancaccio, mentre dello stesso reato deve rispondere l'ex primo cittadino Pd di Gricignano d'Aversa (Caserta) Andrea Lettieri.

L’esercito degli indagati del Partito Democratico. Più di 100 esponenti sott’inchiesta per vari reati, scrive Silvia Mancinelli il 27 aprile su “Il Tempo”. L’elenco degli indagati del Pd in Italia si fa sempre più lungo. Con Graziano arriviamo a quota 125. I reati sono vari, gravi e meno gravi, a seconda dei casi. Fra i più noti c’è Luigi Lusi, ex senatore romano del Pd nei guai per i soldi della Margherita, fino ai «coinvolti» in Mafia Capitale: Daniele Ozzimo, ex assessore, Mirko Coratti, ex presidente dell’Assemblea capitolina. Sempre nel Lazio troviamo Maurizio Venafro, già capo di gabinetto di Nicola Zingaretti, Andrea Tassone, non più presidente del X municipio, Pierpaolo Pedetti, ex consigliere Pd. Nel tritacarne dell’inchiesta sulle spese pazze in regione spuntano, Esterino Montino, oggi sindaco di Fiumicino, e poi i parlamentari Giancarlo Lucherini, Bruno Astorre, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela Valentini, Enzo Foschi e Marco Di Stefano, nei guai anche per altro. Ovviamente c’è Ignazio Marino, per le vicende degli scontrini e della nota onlus. Passando in Lombardia come non citare Tiziano Butturini che ha patteggiato la pena in un’inchiesta dove spunta la ’ndrangheta. E ancora, indagati a vario titolo per altre storie giudiziarie i sindaci Maria Rosa Belotti (Pero) Gianpietro Ballardin (Brenta), Mario Lucini (Como). Particolare il caso di Filippo Penati che si è avvalso della prescrizione per uscire dal processo. Altro filone sulle spese pazze vede tirati in ballo Luca Gaffuri, Carlo Spreafico, Angelo Costanzo. Scomoda inchiesta quella che vede protagonista Luigi Addisi. In Piemonte la lista degli indagati su più inchieste si apre con Maura Forte, sindaco di Vercelli, Giovanni Corgnati, Davide Sandalo, ex presidente del Consiglio comunale di Casale Monferrato (Alessandria). A Verbania spicca il caso dell’ex vicesindaco Giuseppe Grieco e l’ex presidente del Consiglio comunale Diego Brignoli. A Torino figura invece il consigliere regionale Daniele Valle, Rocco Fiorio, presidente della V circoscrizione, la deputata Paola Bragantini e il suo compagno Andrea Stara. In Liguria, tra l’inchiesta Mensopoli del 2007, la centrale a carbone e le alluvioni poi emergono i nomi diAntonino Miceli, dell’allora sindaco di Genova Marta Vincenzi, Raffaella Paita, ex assessore alla Protezione civile, e Franco Bonanini (poi passato al centrodestra). E che dire del Veneto con l’ex sindaco di Venezia del Pd, Giorgio Orsoni e il tesoriere Giampietro Marchese, entrambi nei guai per finanziamento illecito ai partiti. In Emilia Romagna i pm, a proposito delle spese pazze in Regione, hanno puntato Marco Monari, Damiano Zoffoli, Andrea Gnassi, Virginio Merola e Vasco Errani. La Toscana miete «vittime» eccellenti in diversi filoni investigativi, come gli ex assessori fiorentini Gianni Biagi e Graziano Cioni. Segue l’ex capogruppo Pd in consiglio comunale Alberto Formigli, l’ex sindaco di Firenze Leonardo Dominici, il sindaco di Siena Bruno Valentini, l’ex sindaco di Livorno Alessandro Cosimi e gli assessori della stessa città Bruno Picchi e Walter Nebbiai. Le regioni rosse come le Marche e l’Umbria contano invece Gianmario Spacca, Vittoriano Solazzi e Angelo Sciapichetti, Leopoldo Di Girolamo e Fabio Paparelli. Un salto in Abruzzo con Roberto Riga, ex vicesindaco de L’Aquila. Ancora più giù, in Basilicata, dove il Partito Democratico deve fare i conti con le indagini sul governatore Marcello Pittella, oltre a Vincenzo Folino, Giuseppe Ginefra, Federico Pace, il sottosegretario alla Sanità Vito De Filippo e l’assessore regionale all’Agricoltura Luca Braia. La lista è lunga assai. In Sardegna c’ha pensato Renato Soru, segretario regionale, nonché europarlamentare ed ex governatore, a farsi «attenzionare» dai magistrati. Mentre in Sicilia i riflettori delle procure si sono accesi su Elio Galvagno, Mirello Crisafulli , Vito Daniele Cimiotta , l’ex senatore Nino Papania e Gaspare Vitrano . Associazione a delinquere e tentata concussione sono invece le accuse che vedono imputato il governatore Vincenzo De Luca in Campania. Indagati anche tre suoi collaboratori: Nello Mastursi, Enrico Coscioni e Franco Alfieri. C’è pure Antonio Bassolino, uscito indenne da quasi tutti i processi sui rifiuti ma ancora in bilico per uno che lo vede imputato di peculato. Poi, Enrico Fabozzi, ex sindaco di Villa Literno ed ex consigliere regionale condannato in primo grado a 10 anni per concorso esterno in associazione camorristica, e i sindaci Giosy Ferrandino e Giorgio Zinno al centro di inchieste su presunti appalti pilotati.

In coda, ma solo geograficamente, la Puglia e la Calabria con il senatore Alberto Tedesco, l’ex sindaco di Brindisi Mimmo Consales, l’ex presidente della provincia di Taranto Gianni Florido e il suo assessore all’Ambiente Michele Conserva, Donato Pentassuglia, assessore della Giunta Vendola, Michele Mazzarano, consigliere regionale sotto processo per finanziamento illecito ai partiti, e «colleghi» come Fabiano Amati, Gerardo De Gennaro ed Ernesto Abaterusso. Voti in cambio di appalti e posti di lavoro ai clan le ombre costate i domiciliari all’ex sottosegretario Sandro Principe. Non un caso unico se si guardano gli altri nomi snocciolati nelle inchieste calabresi: Orlandino Greco, il consigliere regionale indagato per corruzione elettorale e voto di scambio politico-mafioso, Nino De Gaetano, Nicola Adamo, Antonio Scalzo, Carlo Guccione, Vincenzo Ciconte e Michelangelo Mirabello. I favori ai Casalesi per gli appalti, che oggi vedono indagato per concorso esterno in associazione mafiosa Stefano Graziano, sembrano dunque essere solo l’ennesima puntata di una saga horror che sta mietendo vittime illustri in ogni ambito istituzionale. Dai presidenti dei municipi ai consiglieri regionali, dai sindaci ai parlamentari. «Democraticamente» appunto, come si conviene - visto il nome - nel Partito.

"Ecco la verità su Pd, soldi e mafia". L'anticipazione del libro scritto da Gianni Alemanno. Documenti, inchieste e ricostruzioni dimostrano le responsabilità della Sinistra, scrive Alberto Di Majo il 30 marzo su “Il Tempo”. Un viaggio lungo cinque anni, in cui si sono intrecciati progetti, ambizioni e fallimenti. Farà discutere «Verità Capitale - Caste e segreti di Roma» (edito da Koinè) di Gianni Alemanno. Non è un’operazione di «riabilitazione», tutt’altro. L’ex sindaco ricostruisce la sua esperienza alla guida della città eterna senza usare alibi e scuse: «Ci siamo lanciati verso obiettivi difficili e impervi, con una macchina con le ruote sgonfie e il volante rotto. Non potevamo non romperci l’osso del collo, anzi fin troppo è stato realizzato in queste condizioni». Alemanno riconosce anche «la debolezza e l’impreparazione della mia squadra di governo, che deriva da miei personali errori di valutazione e dalla fragilità del movimento politico che mi ha portato a governare il Campidoglio». Ma, altrettanto onestamente, nota che «le molto più esperte e organizzate compagini delle amministrazioni di sinistra fino ad allora erano riuscite solo a nascondere "la polvere sotto il tappeto", a vendere bene l’immagine di Roma, non certo a modificarne in meglio la realtà profonda». Presenta dati e analisi, l’ex sindaco, per mostrare che la Capitale che lui ha «ereditato» nel 2008, era già tecnicamente fallita. Come quando il segretario generale entrò nel suo studio il primo giorno: «"Che cosa succede?" Chiesi un po’ intimorito. "Succede che non abbiamo i soldi neppure per pagare gli stipendi" rispose asciutto il superburocrate che aveva regnato sul Campidoglio per tutta l’epoca di Rutelli e Veltroni». Alemanno arriva anche a chiedere scusa ai romani e «a chi mi ha seguito nella mia avventura in Campidoglio». Ma ammettere i propri errori non significa assolvere gli altri. Per questo, ribadisce più volte nelle pagine del suo libro, che il vero responsabile dello sfascio Capitale è il centrosinistra. Ecco perché è arrivata come una doccia fredda la «visita» dei carabinieri quel 2 dicembre 2014. Erano le 8,40. «Una squadra del Ros si presenta sotto casa suonando al citofono. Alle loro spalle le telecamere di una troupe di Report, opportunamente allertate, per documentare "l’evento storico". Attimi di panico familiare, confusione, poi degli imbarazzati sottufficiali dei Carabinieri, ricevuti nel mio studio, mi presentano un avviso di garanzia e un ordine di perquisizione per il reato previsto dall’articolo 416 bis del Codice penale. "416 bis, 416 bis...questo articolo mi dice qualcosa, ma non riesco a ricordare quale reato indichi..." domando agli ancora più imbarazzati militi. Il più alto in grado, dopo essersi schiarito la voce, mi risponde: "Sindaco, è associazione per delinquere di stampo mafioso". Ci guardiamo negli occhi, da un lato all’altro della mia scrivania, in una reciproca espressione di stupore e di imbarazzo. "Ma...è previsto l’arresto?" domando. Non si preoccupi, per carità... solo l’accusa di essere mafioso"». Da qui ha prevalso quello che Alemanno definisce il «teorema fascio-mafioso», tutto incentrato sulla sua amministrazione, benché lui stesso avesse più volte denunciato il salto di qualità delle mafie a Roma, che «avevano superato il livello dei semplici investimenti economici e del riciclaggio di denaro sporco, per cominciare a diventare presenza organizzata nel territorio». Non è un caso, precisa, che nell’inchiesta su Mafia Capitale «la percentuale delle persone coinvolte collocate politicamente sarà più o meno la seguente: 70% di sinistra 30% di destra». I ricordi di Alemanno tornano amari. L’ex sindaco richiama l’attuale presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, allora numero uno della Provincia di Roma, soprannominato «er saponetta», dice, per la sua abilità nello schivare problemi e difficoltà. Fu lui, sostiene Alemanno, a «salvare» Luca Odevaine (uno dei protagonisti dell’inchiesta della Procura di Roma, ndr), già vicino all’ex primo cittadino Veltroni, nominandolo capo della Polizia provinciale. «Con questo non voglio dire che Walter Veltroni e Nicola Zingaretti fossero consapevoli dei traffici di Odevaine, ma non posso non rilevare la profonda differenza di trattamento tra me e loro. Mentre io ricevevo l’avviso di garanzia e venivo sbattuto sulle prime pagine di tutti i giornali, Veltroni era considerato uno dei "quirinabili" fino alla vigilia dell’elezione del Presidente Mattarella. Zingaretti, dal canto suo, ha continuato fino ad oggi a governare indisturbato la Regione Lazio, nonostante un altro uomo del suo entourage, il capo di Gabinetto Maurizio Venafro, sia stato rinviato a giudizio per un ulteriore filone dell’indagine su Mafia Capitale». Alemanno non nasconde la delusione per il trattamento ricevuto dai suoi colleghi di partito. Con Giorgia Meloni l’ha unito lo stesso movimento, «Fratelli d’Italia», e diviso più di un anno di silenzio dopo una breve telefonata, quella in cui Alemanno preannunciava la volontà di auto-sospendersi dalle cariche di partito. «Ancora più deludente fu l’atteggiamento di due persone con cui faccio politica dagli anni ’70 e che sono stati i miei più stretti collaboratori e alleati in tantissime occasioni. Sto parlando di Andrea Augello e di Fabio Rampelli (...)». L’ex primo cittadino non risparmia Giancarlo Cremonesi e Massimo Tabacchiera. Il primo, eletto alla presidenza della Camera di Commercio di Roma, il secondo all’Atac e all’Agenzia della Mobilità. Entrambi scomparsi, si lamenta Alemanno. Aveva ragione Andreotti: in politica la gratitudine è il sentimento della vigilia. L’ex sindaco parla anche, ma con termini diversi, degli imprenditori Caltagirone e Cerroni, mai avvantaggiati, rivendica. A differenza della gestione del centrosinistra («con Veltroni la raccolta differenziata era ferma al 17%, con me è arrivata al 30»). Nel libro ci sono aneddoti e curiosità. Come quando Gheddafi arrivò nella Capitale e volle tenere un discorso rivolto al popolo romano. Di fronte a impiegati comunali e dipendenti delle società partecipate, il raìs parlò della necessità di liberarsi dei partiti. Prima, sotto la lupa che allatta i gemelli all’ingresso del Campidoglio, Gheddafi aveva chiesto ad Alemanno: «Ma sarà vera questa storia?».

"Rovinato dai pm per proteggere Delrio e il Pd". Prosciolto l'ex assessore Pdl di Parma Bernini, accusato di avere chiesto voti alla 'ndrangheta: "Coperte le responsabilità dei democratici", scrive Mariateresa Conti, Domenica 24/04/2016, su "Il Giornale". Quella che Renzi, qualche giorno fa, ha definito «barbarie giustizialista» lui, Giovanni Paolo Bernini, 53 anni, ex consigliere del ministro Pietro Lunardi, ex presidente del Consiglio comunale ed ex assessore Pdl a Parma nella giunta Vignali, la conosce bene. Prima, nel 2011, 21 giorni di carcere e due mesi di domiciliari per accuse poi smontate. A gennaio del 2015 la nuova richiesta d'arresto nell'inchiesta sulla ndrangheta in Emilia Romagna, sfociata nel processo Aemilia. Un anno e mezzo di calvario, con l'accusa di voto di scambio politico mafioso. Adesso il proscioglimento, col rito abbreviato: l'aggravante di aver preso i voti dei boss, già bocciata da due giudici e sulla quale il pm insisteva, per il Gup di Bologna non sussiste, e l'eventuale corruzione elettorale è ormai prescritta. «Ma la mia battaglia vera dice Bernini comincia adesso. Mi rivolgo al presidente della Repubblica e al Csm, con un esposto. Ci sono troppi dubbi e lacune in questa vicenda. Io voglio sapere perché, nonostante le intercettazioni che coinvolgono esponenti del Pd locali e nazionali come il ministro Delrio, questi non sono stati toccati neppure da un avviso di garanzia, mentre io e il collega consigliere di Forza Italia Pagliani (anche lui assolto, ndr) siamo stati arrestati». È un fiume in piena, Bernini. Al sollievo per la fine di una vicenda giudiziaria che ha stroncato la sua carriera politica in ascesa, si accompagna la rabbia, tanta, per quello che definisce «accanimento giudiziario». «E cosa è - spiega - se non accanimento giudiziario un pm che nonostante la sonora bocciatura di due giudici insiste sull'aggravante mafiosa? Se poi aggiungiamo il fatto che il pm Marco Mescolini, era nel 2006 nell'ufficio di un viceministro del governo Prodi, ecco, credo che questo la dica lunga sull'andazzo di questa inchiesta. In un Paese civile un magistrato che ha avuto incarichi politici non dovrebbe svolgere indagini su politici della parte avversa e arrestarli, si dovrebbe astenere. La scelta del pm di non indagare amministratori locali o esponenti nazionali del Pd in questa inchiesta fa a pugni con le carte giudiziarie agli atti del processo. E il Csm deve dirmi perché è accaduto». Non ci sta, Bernini. «Ho l'impressione - dice - che in questa vicenda si siano volute coprire responsabilità gravi degli amministratori Pd dell'Emilia. Ed è stato fatto con un teorema assurdo: se sono politici di Berlusconi a cercare voti tra i residenti di origine meridionale allora è mafia, mentre se sono del Pd è legittima ricerca del consenso. Non lo dico io, sono i fatti a parlare: Brescello sciolto adesso per mafia, la casa del sindaco di Reggio Emilia acquistata da uno poi coinvolto nell'inchiesta, le intercettazioni su Delrio. Ma è normale che, in questo quadro, contro il Pd non ci sia stato nemmeno un avviso di garanzia mentre noi di Forza Italia siamo stati arrestati?». Non un attacco all'inchiesta: «Andava fatta - continua Bernini - i mafiosi vanno arrestati. Il mio non è un attacco alla magistratura. Avevo fiducia nei giudici e la sentenza mi dà ragione. La giustizia in Italia trionfa, nonostante la presenza di certi pm che preferiscono interviste e conferenze stampa, l'apparire invece della ricerca della verità e il rispetto delle persone. Sa che le dico? Renzi ha ragione. Sia pure in notevole ritardo e probabilmente perché si sente un possibile bersaglio, il premier si è accorto che i magistrati troppo spesso parlano prima delle sentenze». Oltre che l'esposto al Csm, Bernini prepara anche una querela a «Libera»: «Li denuncio per diffamazione, e chiedo i danni anche alla Regione Emilia che ha dato un contributo al loro dossier - quindi ha speso soldi dei contribuenti - che continua a circolare pur contenendo notizie gravi e false nei miei confronti». Voglia di tornare alla politica attiva? «La politica - conclude Bernini - è come un virus, è difficile guarire. Per ora comunque mi dedicherò alla battaglia civile contro la malagiustizia».

"Io, mafioso a mia insaputa. Ho rischiato 12 anni di carcere". Pagliani, consigliere di Forza Italia a Reggio Emilia ora assolto: "Colpito perché mi opponevo alle coop rosse", scrive Mariateresa Conti, Giovedì 28/04/2016, su "Il Giornale". Arrestato come un boss, nel cuore della notte. Detenuto per 22 giorni nel carcere di Parma, lo stesso di Totò Riina. «Mi sono piombati in casa alle 3 e mezza, mi sono ritrovato da un minuto all'altro mafioso a mia insaputa, accusato di concorso esterno e con una richiesta di condanna a 12 anni, anzi in realtà a 18, 12 con lo sconto per il rito abbreviato. Io, che mi sono sempre battuto per la legalità e che, vengo dal Fronte della gioventù, avevo come eroe Paolo Borsellino. Si rende conto?». Giuseppe Pagliani, 42 anni, consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia e capogruppo azzurro in Provincia, è stato appena assolto «per non aver commesso il fatto» nel processo Aemilia, il maxi processo che in Emilia Romagna ha portato alla sbarra decine di affiliati alla ndrangheta e qualche politico. Solo del centrodestra. Come l'ex assessore a Parma Giovanni Bernini, ora prosciolto. Una vicenda che definire kafkiana è un eufemismo, quella di Pagliani. Lui, avvocato, arrestato il 28 gennaio del 2015 e scarcerato il 19 febbraio, ce l'ha fatta a tirarsi fuori: «Perché sono avvocato - dice - e ho una formazione penalistica, perché mi hanno difeso principi del foro come gli avvocati Alessandro Silveri e Romano Corsi. Ma il cittadino x riconosce rimane stritolato, schiacciato dalla mole di carte, disorientato da accuse assurde. Io stesso mi rendo conto solo adesso di quanto sia facile restare vittime della malagiustizia. E in futuro sono pronto a difendere gratis innocenti che dovessero trovarsi in simili vicende». Cosa ha fatto mai Pagliani per ritrovarsi in questo caso giudiziario? «In un lampo improvviso di follia - ironizza - qualcuno si è convinto che a Reggio Emilia il concorso potesse essere rappresentato da esponenti dell'opposizione lontani dagli appalti, come me». La sua «colpa», se così si può chiamare, consiste in due incontri con alcuni personaggi di origine calabrese poi finiti inquisiti nel caso Aemilia. «Ma queste persone - sottolinea Pagliani - io nemmeno le conoscevo». E invece per il pm nel primo incontro, il 2 marzo del 2012, viene stipulato il patto mafioso. Nel secondo, una cena in un locale pubblico a cui erano presenti decine di persone, il patto si sarebbe consolidato. «Una follia - dice Pagliani - io a quella cena, di fatto uno sfogatoio di questi che ce l'avevano con le coop rosse, conoscevo solo alcune persone delle quali non avevo motivo di dubitare. E quando qualche giorno dopo un amico avvocato mi disse che c'era qualche personaggio equivoco troncai ogni contatto». Vero, tanto vero che nelle intercettazioni uno degli indagati non ricorda neppure il nome dell'avvocato Pagliani. «Le benedico ogni giorno le intercettazioni - continua - è grazie ai brogliacci che siamo riusciti a ricostruire tutto e a smontare la teoria del pm». Non è stato il solo, Pagliani, a incontrare i calabresi in odor di 'ndrangheta. L'allora sindaco di Reggio Emilia, ora ministro, Graziano Delrio, è andato anche in visita istituzionale in Calabria, a Cutro. «E li ha pure - aggiunge Pagliani - portati dal prefetto. Io no». Eppure Delrio non è stato nemmeno indagato, è stato solo sentito come testimone. Pagliani invece «non poteva non sapere»: quindi è finito in galera. «Eppure - dice il politico azzurro - la decisione del tribunale del Riesame (non appellata dai pm, ndr) che mi ha scarcerato era granitica. A quel punto una procura di media o bassa intelligenza avrebbe dovuto chiedere l'archiviazione. E invece hanno insistito. Nella requisitoria il pm è arrivato a sostenere che io avevo incontrato uno dei coimputati, Brescia. Meno male che ho potuto dimostrare che quell'appuntamento, segnato in agenda, in realtà era un incontro professionale a Brescia, con un avvocato». Perché è accaduto tutto questo? «Me lo sono chiesto - dice Pagliani - mi sono domandato perché io?». E la risposta? «Da consigliere d'opposizione avevo avuto per le mani vicende delicate come Global service. Come oppositore strenuo al sistema locale delle coop rosse davo fastidio». Accanimento contro Forza Italia? «Sì, c'è stato, il Pd invece è stato difeso». Ha temuto di essere schiacciato da una condanna? «Mai, nemmeno per un secondo. Sapevo di essere innocente, c'è stato il sostegno di tanti amici e non, tutti hanno capito che non c'entravo nulla. Tutti tranne il pm».

Di Pietro, Grillo, il Movimento 5 Stelle e gli “utili idioti giustizialisti”.

L’Opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Le incalzanti notizie di cronaca giudiziaria provocano reazioni variegate tra i cittadini della nostra penisola. Sgomento, sorpresa, sdegno, compassione o incredulità si alternano nei discorsi tra i cittadini. Ma emerge, troppo spesso, una ipocrisia di fondo che è la stessa che attraversa, troppo spesso, la nostra società. Ma… chi è onesto al cento per cento? Credo nessuno, nemmeno il Papa. Chi non ha fatto fare qualche lavoretto in nero? Chi ha fatturato ogni lavoro eseguito? Chi ha sempre pagato l’iva? Chi ha dichiarato l’esatta metratura dei propri locali, per evitare di pagare più tasse sulla spazzatura? Chi lavora per raccomandazione o ha vinto un concorso truccato? Chi è un falso invalido o un baby pensionato? Chi per una volta non ha marinato l’impiego pubblico? Ecc.. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Naturalmente, quando non paghiamo qualche tassa, ci giustifichiamo in nome della nostra “onestà” presunta, oppure del fatto che fan tutti così: “Io non sono un coglione”!  E così via…

Ecco allora che mi sgranano gli occhi all'ultimo saluto a Casaleggio il 14 aprile 2016. La folla grida “Onestà, onestà, onestà”, frase di sinistroide e giustizialistoide natali. "Onestà, onestà". Questo lo slogano urlato a più riprese dai militanti del M5S alla fine dei funerali del cofondatore Roberto Casaleggio a Milano. Applausi scroscianti non solo al feretro, ma anche ai parlamentari presenti a Santa Maria delle Grazie, tra cui Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio. Abbracci, lacrime e commozione fra i parlamentari all'uscita.

“La follia di fare dell'onestà un manifesto politico”, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/04/2016, su "Il Giornale".  «Gli unici onesti del Paese sarebbero loro, come vent'anni fa si spacciavano per tali i magistrati del pool di Mani pulite, come tre anni fa sosteneva di esserlo il candidato del Pd Marino contrapposto a Roma ai presunti ladri di destra. Come tanti altri. Io non faccio esami di onestà a nessuno, me ne guardo bene, ma per lavoro seguo la cronaca e ho preso atto di un principio ineluttabile: chi di onestà colpisce, prima o poi i conti deve farli con la sua, di onestà. Lo sa bene Di Pietro, naufragato sui pasticci immobiliari del suo partito; ne ha pagato le conseguenze Marino con i suoi scontrini taroccati; lo stesso Grillo, a distanza di anni, non ha ancora smentito le notizie sui tanti soldi in nero che incassava quando faceva il comico di professione».

In pochi, pochissimi lo sanno. Ma prima di diventare il guru del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio aveva avuto rapporti con la politica attraverso le sue società di comunicazione. In particolare con un politico anni fa molto in voga e oggi completamente in disgrazia: Antonio Di Pietro.

«E' così, quando vedono una figura che potrebbe offuscare o affiancare la popolarità di Grillo, i vertici del Movimento si affrettano a epurarla». La sua storia, dall'appoggio incondizionato ricevuto all'allontanamento improvviso, è il simbolo del rapporto tra l'Italia dei Valori e Beppe Grillo, scrive Francesco Oggiano il 22 giugno 2012 su “Vanity Faire”. Il partito dell'ex pm è da sempre quello più vicino per contenuti al Movimento. Il sodalizio è iniziato con la nascita del blog ed è continuato almeno fino agli scorsi mesi. Grillo ha sempre sostenuto l'ex pm, definito una «persona perbene» e soprannominato «Kryptonite», per essere rimasto «l'unico a fare veramente opposizione al Governo Berlusconi». I «vertici» sarebbero quelli della Casaleggio Associati, società fondata dal guru Gianroberto che cura la comunicazione del Movimento 5 Stelle. La «figura» in ascesa era lei, Sonia Alfano. 40 anni, l'esplosiva eurodeputata eletta con l'Idv, poi diventata Presidente della Commissione Antimafia europea, arrivando al culmine di una carriera accidentata (prima la rottura con Grillo, poi con l'Idv) iniziata nel 2008. Figlia del giornalista Beppe assassinato dalla mafia, l'eurodeputata è stata la prima ad aver creato una lista civica regionale certificata da Grillo, nel 2008. Già attiva da tempo nel Meetup di Palermo, si presentò in Sicilia ignorata dai media tradizionali e aiutata dal comico prese il 3% e 70 mila preferenze. «Alla vigilia delle elezioni europee del 2009, Grillo e Di Pietro vennero da me e mi chiesero di candidarmi a Strasburgo. Io non sapevo neanche di che si occupava l'Europarlamento», racconta oggi. Perché Casaleggio avrebbe dovuto allontanare due europarlamentari popolari come Sonia Alfano e Luigi De Magistris? Chiede Francesco Oggiano a Sonia Alfano: «La mia sensazione è che quando i vertici del Movimento annusano una figura "carismatica" che può offuscare, o quantomeno affiancare, la leadership mediatica di Grillo, diano inizio all'epurazione».

Già dal gennaio 2003 il Presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande, in una semideserta ed indifferente assemblea dell'IDV a Bari, in presenza di Antonio Di Pietro e di Carlo Madaro (il giudice del caso Di Bella) criticò il modo di fare nell'IDV. L'allora vice presidente provinciale di Taranto contestò alcuni punti, che furono causa del suo abbandono: Diritto di parola in pubblico e strategie politiche esclusiva di Di Pietro; dirigenti "Yes-man" scelti dal padre-padrone senza cultura politica, o transfughi da altri partiti, o addirittura con troppa scaltrezza politica, spesso allocati in territori non di competenza (in Puglia nominato commissario il lucano Felice Bellisario); IDV presentato come partito della legalità-moralità in realtà era ed è il partito dei magistrati, anche di quelli che delinquono impunemente; finanziamenti pubblici mai arrivati alla base, così come ne hanno tanto parlato gli scandali mediatici e giudiziari.

Ma non è questo che fa pensare cento volte prima di entrare in un movimento insipido come il M5S. Specialmente a chi, come me, per le sue campagne di legalità contro i poteri forti è oggetto perpetuo degli strali dei magistrati. Incensurato, ma per quanto?

FU IL TENENTE GIUSEPPE DI BELLO IL PRIMO A SCOPRIRE L’INQUINAMENTO IN BASILICATA, PER PUNIZIONE LO DENUNCIARONO PER “PROCURATO ALLARME!” Tenente della polizia provinciale di Potenza denuncia l’inquinamento e perde la divisa. A Potenza viene sospeso e condannato. Il caso affrontato con un servizio di Dino Giarrusso su "Le Iene" del 17 aprile 2016. “Io rovinato per aver fatto il mio dovere. E per aver raccontato i veleni del petrolio in Basilicata prima di tutti”. In un colloquio lo sfogo di Giuseppe Di Bello, tenente di polizia provinciale ora spedito a fare il custode al museo di Potenza per le sue denunce sull'inquinamento all'invaso del Pertusillo, scrive Antonello Caporale il 4 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". «La risposta delle istituzioni è la sentenza con la quale vengo condannato a due mesi e venti giorni di reclusione, che in appello sono aumentati a tre mesi tondi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perché sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata. La Cassazione annulla la sentenza (anche se con rinvio, quindi mi attende un nuovo processo). Il procuratore generale mi stringe la mano davanti a tutti. La magistratura lucana ora si accorge del disastro ambientale, adesso sigilla il Costa Molina. Nessuno che chieda a chi doveva vedere e non ha visto, chi doveva sapere e ha taciuto: e in quest’anni dove eravate? Cosa facevate?».

A questo punto ritengo che i movimenti a monoconduttura o padronali, che basano il loro credo sulla propria presunta onestà per non inimicarsi i magistrati, ovvero per non essere offuscati dall’ombra degli eroi che combattono i poteri forti e ne subiscono le ritorsioni giudiziarie, vogliano nelle loro fila solo “utili idioti”. Cioè persone che non hanno una storia da raccontare, o un’esperienza vissuta; non hanno un bacino elettorale che ne conosca le capacità. Insomma i padroni del movimento vogliono dei “Yes-Man” proni al volere dei loro signori. “Utili idioti” scelti in “camera caritatis” o a forza di poche decine di click su un blog imprenditoriale. “Utili idioti” sui quali fare i conti in tasca: sia mai che guadagnino più del loro guru. A pensarci bene, però, gli altri partiti non è che siano molto diversi dal Movimento 5 Stelle o l’IDV. La differenza è che gli altri non gridano all’onestà, ben sapendo di essere italiani.

TRIBUNALE DI POTENZA. SI DECIDE SUL DIRITTO DI CRITICA, MA ANCHE SUL DIRITTO DI INFORMARE.

Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.

Tribunale di Potenza. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato.

Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitati. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.

Per dire: una norma scomoda inapplicata.

Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.

Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.

L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.

Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.

Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?

E anche stavolta, come decine di volte ancora prima con accuse montate ad arte, non ci sono riusciti a condannare il dr Antonio Giangrande. Il Dr Lucio Setola del tribunale di Potenza assolve il dr Antonio Giangrande il 19 maggio 2016, alle ore 17, dopo un’estenuante attesa dalla mattina da parte dell’imputato e dei sui difensori l’avv. Pietrantonio De Nuzzo e l’avv. Mirko Giangrande.

La stessa cosa si ripete a Taranto dove l’avv. Nadia Cavallo ha ripresentato una querela per diffamazione, per un fatto già giudicato e da cui è scaturita assoluzione. La nuova querela della Cavallo aveva prodotto un decreto penale di condanna emesso dal Gip Giuseppe Tommasino senza contradditorio. La doverosa opposizione del difensore, l’avv. Mirko Giangrande, per “ne bis in idem”, ossia non processato è condannato per lo stesso fatto, portava al Giudizio Immediato presso il Tribunale di Taranto da cui il 3 ottobre 2016 scaturiva ennesima sentenza di assoluzione.

Dicono su Avetrana accusata di omertà: “Chi sa parli!” Se poi da avetranese parli o scrivi, ti processano.

L’illegalità diffusa che alimenta la nostra corruzione. In Italia il marcio della politica è il marcio di tutta una società che da tre, quattro decenni, per mille ragioni — non tutte necessariamente malvagie — ha deciso sempre più di chiudere un occhio, di permettere, di non punire, di condonare, scrive Ernesto Galli della Loggia il 25 aprile 2016 su "Il Corriere della Sera". Il dottor Davigo non si fa molte illusioni sulla moralità dei politici. Personalmente me ne farei anche meno sulla moralità di coloro che li eleggono. Sulla nostra. Del resto come potrebbe essere altrimenti? Appena inizia ad aprirsi alla ragione il giovane italiano va a scuola. Lì tutti cercano di copiare senza che la cosa desti particolare riprovazione. Chiunque vuole, poi, può maltrattare arredi, imbrattare di scritte di ogni tipo (in genere oscene) i bagni, scrivere e disegnare a suo piacere sui muri dell’edificio: anche in questo caso senza alcuna sanzione. Così come senza alcuna sanzione significativa resterà ogni atto d’indisciplina: se marinerà la scuola, se si metterà a compulsare il suo smartphone durante le lezioni, se manderà l’insegnante a quel paese. Imitato in quest’ultima attività anche dai suoi genitori. I quali talvolta – assai più spesso di quanto si creda – ameranno ricorrere anche a insulti e minacce. Tutto coperto sempre da una sostanziale impunità. Non basta. In genere, infatti, la scuola sarà per il nostro giovane concittadino anche un’ottima palestra di turpiloquio, di bullismo sessista, di scambio di materiale pornografico quando non di spaccio di droga. Uscito dalle aule all’una, per tornare a casa l’adolescente italiano, se usa i trasporti pubblici si eserciterà nel salto del tornello sulla metro o si guarderà bene, se vorrà (ma perché non volerlo?) dal pagare il biglietto di un autobus o di un tram. Ha imparato da tempo, infatti, che in Italia pagare il biglietto sui mezzi pubblici è più che altro un’attività amatoriale, un hobby. Per farlo bisogna esserci portato. Ma naturalmente è più probabile che invece il nostro abbia un motorino. Il più delle volte, va da sé, con la marmitta truccata. Insomma, un po’ più veloce e molto più rumoroso del consentito. Gliel’ha aggiustato un meccanico e, si capisce, il giovane italiano ha pagato per questo anche un bel po’: eppure una ricevuta fiscale o uno scontrino egli s’è guardato bene dal chiederli e l’altro dal darglieli. E allora via con il motorino truccato: tanto che probabilità ha di essere fermato e multato? Diciamo una su centomila. Dunque avanti come se nulla fosse. Avanti a sorpassare sulla destra, a tagliare la strada con repentini cambi di corsia, una mano sul manubrio e l’altra impegnata a twittare. Un po’ di studio nel pomeriggio, e arriva finalmente la sera: il momento di svagarsi, specie se è sabato. Sì, è vero, vendere gli alcolici ai minorenni sarebbe vietato, ma via!, non vorremo mica vedere strade e botteghe deserte, spero. Dunque una birra, due birre, tre birre in un pub e poi in un altro ancora; o qualcosa di più forte in discoteca. Come si sa, tutti locali aperti di solito anche oltre l’orario stabilito: del resto è la movida, no? Pertanto anche se c’è un po’ di schiamazzo sotto le finestre della gente che dorme, e magari qua e là gare di velocità tra motorini, e sgassate micidiali, e cocci di bottiglie rotte sui marciapiedi, che problema c’è? Inevitabilmente vigili e carabinieri, seppure risponderanno mai alle telefonate inviperite di qualcuno, in genere non faranno, non potranno fare (loro almeno così dicono) un bel niente. Ottenuta senza troppa fatica una licenza (in Italia le percentuali dei promossi sfiorano abitualmente il cento per cento), bisogna alla fine iscriversi all’università. Le tasse, è vero, sono un po’ cresciute in questi ultimi anni, ma non c’è una riduzione o addirittura l’esenzione per chi viene da una famiglia a basso reddito? È a questo punto che il nostro giovane italiano compie l’atto finale della sua educazione sentimentale alla legalità. Quando scopre, per l’appunto che il suo papà e la sua mammina, accorsati commercianti, ottimi professionisti, funzionari di buon livello, possessori di un suv e di un’utilitaria, di un bell’appartamento in un quartiere niente male, di una casetta al mare e di un adeguato gruzzoletto da parte, mamma e papà che ogni anno si fanno la loro settimana bianca e la loro vacanza da qualche parte nel mondo, e i quali come si dice non si fanno mancare niente, scopre il nostro giovane, dicevo, che essi però al Fisco risultano titolari di un reddito che consente a lui di avere una discreta riduzione delle tasse universitarie e a tutta la famiglia l’esenzione dal ticket sanitario. A quanti giovani italiani può applicarsi questo ironico ma realistico ritratto di un’educazione alla legalità? A molti, direi. Con qualche ulteriore elemento (tutt’altro che raro) da mettere eventualmente in conto: tipo frequentazione di un centro sociale antagonista o presenza in casa di una vecchia zia finta invalida con relativa pensione. Da quanto tempo è in questo modo — attraverso la forza senza pari dell’esempio diffuso capillarmente e quotidianamente attraverso queste micidiali dosi omeopatiche — che i giovani italiani (non nascondiamocelo: in particolare quelli del ceto medio, della cosiddetta «buona borghesia») apprendono come funziona il loro Paese e in quale conto vi deve essere tenuto il rispetto delle regole? Alcuni non ci stanno e se ne vanno, ma la grande maggioranza ci si trova benissimo e cerca una nicchia dove sistemarsi (spesso grazie alla raccomandazione e/o alle relazioni dei genitori di cui sopra). La nostra corruzione nasce da qui. Da questo rilasciamento di ogni freno e di ogni misura che ha accompagnato il nostro divenire ricchi e moderni. In Italia il marcio della politica è il marcio di tutta una società che da tre, quattro decenni, per mille ragioni — non tutte necessariamente malvagie — ha deciso sempre più di chiudere un occhio, di permettere, di non punire, di condonare. Certo, Piercamillo Davigo ha ragione, lo ha deciso la politica. Ma perché il Paese glielo chiedeva. Il Paese chiedeva traffico d’influenza, voto di scambio, favori di ogni tipo, promozioni facili, sconti, deroghe, esenzioni, finanziamenti inutili alle industrie, pensioni finte, appalti truccati, aggiramenti delle leggi, concessioni indebite, e poi soldi, soldi e ancora soldi. E con il suffragio universale è difficile che prima o poi la volontà del Paese non finisca per imporsi. Di questo dovrebbe occuparsi la fragile democrazia italiana, di questo dibattere i suoi politici che ancora sanno che cosa sia la politica: del mare di corruzione dal basso che insieme alla delinquenza organizzata minaccia di morte la Repubblica. Per i singoli corrotti invece bastano i giudici: ed è solo di costoro che è loro compito occuparsi.

Editoriale. Parliamo un po’ della Giustizia italiana. La Giustizia dei paradossi.

Le maldicenze dicono che gli italiani sono un popolo di corrotti e corruttori e, tuttavia, scelgono di essere giustizialisti e di stare dalla parte dei Magistrati.

L’Opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Sui media la Giustizia ha sempre un posto in primo piano nella loro personale scaletta, ma non sempre sono sinceri.

Parliamo del premier Matteo Renzi che, in occasione del 25 aprile 2016, celebra la "liberazione" dai pm con una lunga intervista a Repubblica. Il nocciolo del suo pensiero è tutto raccolto in poche frasi: "I politici che rubano fanno schifo. E vanno trovati, giudicati e condannati. Dire che tutti sono colpevoli significa dire che nessuno è colpevole. Esattamente l'opposto di ciò che serve all'Italia. Voglio nomi e cognomi dei colpevoli. Una politica forte non ha paura di una magistratura forte. È finito il tempo della subalternità. Il politico onesto rispetta il magistrato e aspetta la sentenza. Tutto il resto è noia, avrebbe detto Califano. Adesso la priorità è che si velocizzino i tempi della giustizia".

Poi, invece, si legge che sono stati denunciati i pm del caso Renzi: "Omesse indagini sulle spese pazze". Depositata l'accusa contro i pm che hanno archiviato il caso delle spese di Renzi: "Non hanno voluto indagare", scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 05/01/2016, su “Il Giornale”.

Parliamo del Ministro della Giustizia Andrea Orlando che parla, tra le altre cose, di riforma della Prescrizione. Andrea Orlando. Primo guardasigilli non laureato che nel 2010 gli è stata ritirata patente per guida in stato di ebbrezza, scrive Federico Altea su “Elzeviro” il 27 febbraio 2014. Quaranticinquenne, non ha mai toccato la giustizia in incarichi pubblici, ma è stato nominato responsabile in materia in seno alla direzione del partito di cui fa parte, nominato da Bersani di cui è fedele compagno nella corrente nei Giovani turchi. In un'intervista al Foglio si disse favorevole al carcere duro. Non è di un politico "esperto" né di un tecnico intrallazzato che il dicastero della giustizia ha bisogno, ma di un giurista serio che conosca e riformi completamente il sistema penale e civile e restringa il più possibile la facoltà dei giudici di interpretare a loro piacimento il sistema giuridico. Una persona che abbia le competenze per riformare il sistema penitenziario. Andrea Orlando, sempre parlando di competenze in ambito di Giustizia o giuridiche in senso lato, non solo non ha la laurea in giurisprudenza, ma non ha ottenuto un diploma di laurea di alcun genere. Nella storia della Repubblica italiana è la prima volta che il Ministero della Giustizia viene affidato ad un non laureato. Tutti i trentatré predecessori di Orlando, infatti, erano laureati e ben ventisette guardasigilli erano laureati giurisprudenza. Da questo c’è da desumere che possa pendere dalle labbra degli esperti e tecnici interessati.

Parliamo delle toghe. Diceva Piero Calamandrei: “L’avvocato farà bene, se gli sta a cuore la sua causa, a non darsi l’aria di insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri”. “I magistrati - diceva ancora Calamandrei - sono come i maiali. Se ne tocchi, uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione". Il giudice rappresenta il funzionario dello Stato, vincitore di concorso all’italiana, cui è attribuito impropriamente il Potere dello iuris dicere. Ossia di porre la parola fine ad una controversia, di attribuire ad uno dei contendenti il bene della vita conteso nel processo giurisdizionale, di iniziare e/o far finire i giorni della vita di un cittadino in una struttura penitenziaria. Il giudice è per sé stesso “un’Autorità”: ossia un Pubblico Ufficiale. L’avvocato, invece, non lo è. La considerazione è così banale, tanto è ovvia. L’avvocato è solo un esercente un servizio di pubblica necessità, divenuto tale in virtù di un criticato esame di abilitazione.

Il processo non può essere mai giusto, come definito in Costituzione, se nulla si può fare contro un magistrato ingiusto giudicato e giustificato dai colleghi, ovvero se in udienza penale l’avvocato si scontra contro le tesi dell’inquirente/requirente collega del giudicante.

La magistratura in Italia: ordine o potere? Secondo la classica tripartizione operata dal Montesquieu, i poteri dello Stato si suddividono in Potere legislativo spettante al Parlamento, Potere esecutivo spettante al Governo e Potere giudiziario spettante alla Magistratura. Questo al tempo della rivoluzione francese. Poi il diritto, per fortuna, si è evoluto. In Italia la Magistratura non può in nessun caso esercitare un potere dello Stato (Potere, nel vero senso della parola), infatti per poter parlare tecnicamente di Potere, e quindi di imperium, è necessario che esso derivi dal popolo o, come accadeva nei secoli passati, da Dio. Nelle moderne democrazie occidentali il concetto di potere è strettamente legato a quello di imperium proveniente dalla volontà popolare, quindi è del tutto pacifico affermare che gli unici organi – seppur con tutte le loro derivazioni – ad essere legittimati ad esercitare un Potere sono soltanto il Parlamento (potere legislativo) ed il Governo (potere esecutivo). In effetti l’art. 1 della Costituzione, nei principi fondamentali, recita: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Per rendere chiaro il concetto è sufficiente comprendere che nel momento in cui il Parlamento ed il Governo esercitano i propri poteri, lo fanno “in nome” e “per conto” del popolo da cui ne deriva l’investitura, quindi la Magistratura non può essere in alcun modo considerata un potere – in senso stretto – dello Stato; essa è solo un Ordine legittimato ad esercitare – “in nome” del popolo e non anche per conto di questo – la funzione giurisdizionale nei soli spazi delineati dalla Costituzione e, soprattutto, nel fedele rispetto della legge approvata dai soli organi deputati ad adottarla, quindi dal Parlamento e dal Governo, seppur quest’ultimo nei soli casi tassativamente previsti dalla Carta costituzionale. A dimostrazione di quanto premesso, la nostra Costituzione – della quale i giudici si dichiarano spesso i soli difensori – parla, non a caso, di Ordine Giudiziario e non di Potere. Difatti il Titolo Quarto della Carta costituzionale riporta scritto a chiare lettere, nella Sezione Prima, “Ordinamento giurisdizionale”, e non Potere; e a fugare ogni dubbio ci pensa l’art. 104 Cost.: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere…”. Di questo, però, la sinistra politica non se ne capacita, continuando ad usare il termine Potere riferito alla magistratura, smentendo i loro stessi padri costituenti. Se fino alla fine degli anni Ottanta, quando vi erano veri politici a rappresentare il popolo, questo tipo di discussione non era neppure immaginabile, a partire dal 1992 – vale a dire da quando è iniziato un periodo di cronica debolezza della politica, ovvero quando la politica ha usato l’arma giudiziaria per arrivare al potere – la Magistratura ha cercato (come quasi sempre è accaduto nella Storia) di sostituirsi alla politica arrivando addirittura ad esercitare, talune volte anche esplicitamente, alcune prerogative tipiche del Parlamento e del Governo: un vero colpo di Stato. Non possiamo dimenticarci quando un gruppo di magistrati – durante il cosiddetto periodo di “mani pulite” – si presentò davanti alle telecamere per contrastare l’entrata in vigore di un legittimo – anche se discutibile – Decreto che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti (il cosiddetto Decreto Conso), violentando in tal modo sia il principio di autodeterminazione delle Camere che l’esercizio della sovranità popolare. E che dire della crociata classista, giacobina e corporativa racchiusa nelle parole “resistere, resistere, resistere…”! E poi i magistrati con la Costituzione tra le braccia al fine di ergersi ad unici difensori della stessa contro presunti attacchi da parte della politica. E che dire, poi, di alcune sentenze della Corte di Cassazione? Nascondendosi dietro l’importantissima funzione nomofilattica, la Suprema Corte spesso stravolge sia l’intenzione del Legislatore che il senso e la portata delle leggi stesse, se non addirittura inventarsi nuove norme, come per esempio "il concorso esterno nell'associazione mafiosa": un reato che non esiste tra le leggi. Per non parlare, poi, della mancata applicazione della legge, come quella della rimessione del processo in altri fori per legittimo sospetto di parzialità. Spesso la Magistratura si difende affermando di non svolgere nessuna attività politica, ma si smentisce perché all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura ci sono delle vere e proprie correnti. Ma le correnti non sono tipiche dei partiti politici? E poi, per quale motivo gli organi rappresentativi dell’associazione nazionale magistrati vanno di frequente in televisione per combattere la crociata contro un qualsiasi progetto di riforma della giustizia che investa anche l’ordine giudiziario? E perché, questi stessi, i più animosi tra le toghe, inducono i politici a loro vicini ad adottare leggi giustizialiste ad uso e consumo della corporazione? Ma i magistrati non sono tenuti soltanto ad applicare le leggi dello Stato? Per quale ragione alcuni magistrati, pur mantenendosi saldamente attaccati alla poltrona di pubblico ministero o di organo giudicante, scelgono di fare politica, arrivando addirittura a candidarsi alle elezioni senza avere neppure la delicatezza di dimettersi dalle funzioni giudiziarie?

Parliamo infine delle vittime della malagiustizia. Si parla poco, ma comunque se ne parla, inascoltati, del problema degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni, così come della lungaggine dei processi. Così come si discute poco, ma si discute, inascoltati, del problema dei risarcimenti del danno e degli indennizzi, pian piano negati. Delle vittime della malagiustizia si parla di un ammontare di 5 milioni dal 1945. Ogni anno in Italia 7 mila persone arrestate e poi giudicate innocenti. Almeno a guardare i numeri del ministero della Giustizia. Dal 1992 il Tesoro ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25 mila vittime di ingiusta detenzione, 36 milioni li ha versati nel 2015 e altri 11 nei primi tre mesi del 2016. Queste vittime della malagiustizia li vedi, come forsennati, a raccontare perpetuamente sui social network, inascoltati, le loro misere storie. Sono tanti, come detto 5 milioni negli ultimi 60 anni. Poi ci sono i parenti e gli affini da aggiungere a loro. Un numero smisurato: da plebiscito. Solo che poi si constata che in effetti nulla cambia, anzi si evolve, con ipocrisia e demagogia, al peggio, spinti dai media giustizialisti che incutono timore con delle parole d’ordine: “Insicurezza ed impunità. Tutti dentro e si butta la chiave”. Allora vien da chiedersi con un intercalare che rende l’idea: “Ma queste vittime dell’ingiustizia a chi cazzo votano, se vogliono avere ristoro? Sarebbe il colmo se votassero, da masochisti, proprio i politici giustizialisti che nelle piazze gridano: onestà, onestà, onestà…consapevoli di essere italiani, o che votassero i politici giustizialisti che, proni e timorosi, si offrono ai magistrati. Quei magistrati che ingiustamente hanno condannato o hanno arrestato le vittime innocenti, spinti dalla folla inneggiante e plaudente, disinformata dai media amici delle toghe! Sarebbe altresì il colmo se le vittime innocenti votassero quei politici che stando al potere non hanno saputo nemmeno salvare se stessi dall’ingiusta gogna.

Se così fosse, allora, cioè, si fosse dato un voto sbagliato a destra, così come a sinistra, con questo editoriale di che stiamo parlando?

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.  

 (Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)   

Lasciatemi votare 

con un salmone in mano 

vi salverò il paese 

io sono un norvegese…  

Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.

Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”

In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.

“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl

Il volume più letto dai politici? Un manuale per ottenere l'immunità. Alle Biblioteca delle Nazioni Unite non hanno più nemmeno una copia. Spiega i vari tipi di immunità e chi può usufruire, scrive Gabriele Bertocchi Venerdì, 08/01/2016, su “Il Giornale”. Non è un semplice libro, è il libro che ogni politico dovrebbe leggere. E infatti è cosi, tutto lo vogliono. È diventato il libro più richiesto alla biblioteca delle Nazioni Unite. Vi starete chiedendo che volume è: magari se è un'opera di letteratura classica, oppure un trattato sulla politica internazionale. Nessuno di questi, si chiama "Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali", è uno scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum che spiega e illustra che tipo di immunità esistono per tali soggetti. "Più che un libro è una star" commenta Maria Montagna sulle pagine de La Stampa, una delle addette alla gestione banca dati di Dag Hammarskjold Library, libreria dedicata al'ex segretario generale, alle Nazioni Unite. "È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier" continua l'addetta. Il successo lo si deve anche a Twitter, infatti la Dag Hammarskjold Library ha pubblicato il "primato" del libro, creando così un vero e proprio cult da leggere. Ma all'interno cosa si può imparare, come scrive la Pedretti, autrice del volume, si può scoprire che esistono due dtipi di immunità: quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. La Montagna spiega che "ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social", ma prima era perlopiù composta da funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. E intanto, come si legge su La Stampa, arriva la conferma da parte della libreria: "Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile".

Va a ruba all’Onu il libro che insegna ai leader come avere l’immunità. Esaurito in biblioteca. Tesi di laurea. Il pamphlet è stato scritto da Ramona Pedretti ex studentessa dell’Università di Lucerna, scrive Francesco Semprini su “La Stampa” l’8 gennaio 2016. Basta entrare nella biblioteca delle Nazioni Unite e menzionare il nome del libro per capire che non stiamo parlando di un volume qualunque. Maria Montagna, una delle addette alla gestione della banca data di Dag Hammarskjold Library - la libreria dedicata all’ex segretario generale - guarda la collega Ariel Lebowitz e sorride. «Più che un libro è una star - dice - aspetti qui, controlliamo subito». L’opera in questione è «Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali», un pamphlet scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa oriunda dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum per capire che tipo di immunità esistono per tali soggetti. Ne esistono due, come spiega Pedretti nel suo scritto, quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. «È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier», dice Maria. Twitter ha fatto il resto, visto che Dag Hammarskjold Library ha rilanciato sul social network il «primato» del libro moltiplicandone notorietà e richieste. Ma chi lo chiede in prestito? All’inizio erano soprattutto funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi dell’autrice è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. È questo il principio ad esempio che ha portato all’arresto di Adolph Eichmann da parte di Israele e Augusto Pinochet dalla Spagna. «Ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social», chiosa Maria. E arriva la conferma: «Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile».  

Fondazioni, i soldi nascosti dei politici. Finanziamenti milionari anonimi. Intrecci con banchieri, costruttori e petrolieri. Società fantasma. Da Renzi a Gasparri, da Alfano ad Alemanno, ecco cosa c'è nei conti delle fondazioni, scrivono Paolo Biondani, Lorenzo Bagnoli e Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Finanziamenti milionari ma anonimi. Un intreccio tra ministri, petrolieri, banchieri e imprenditori. Con una lunga inchiesta nel numero in edicola “L'Espresso” ha esaminato i documenti ufficiali delle fondazioni che fanno capo ai leader politici, da Renzi a Gasparri, da Alfano a Quagliarello, tutte dominate dall'assenza di trasparenza. Nel consiglio direttivo di Open, il pensatoio-cassaforte del premier, siedono l’amico che ne è presidente Alberto Bianchi, ora consigliere dell’Enel, il sottosegretario Luca Lotti, il braccio destro Marco Carrai e il ministro Maria Elena Boschi. Il sito pubblica centinaia di nomi di finanziatori, ma omette «i dati delle persone fisiche che non lo hanno autorizzato esplicitamente». Il patrimonio iniziale di 20 mila euro, stanziato dai fondatori, si è moltiplicato di 140 volte con i contributi successivi: in totale, 2 milioni e 803 mila euro. Sul sito compaiono solo tre sostenitori sopra quota centomila: il finanziere Davide Serra (175), il defunto imprenditore Guido Ghisolfi (125) e la British American Tobacco (100 mila). Molto inferiori le somme versate da politici come Lotti (9.600), Boschi (8.800) o il nuovo manager della Rai, Antonio Campo Dell’Orto (solo 250 euro). Ma un terzo dei finanziatori sono anonimi per un importo di 934 mila euro. Ad Angelino Alfano invece fa oggi capo la storica fondazione intitolata ad Alcide De Gasperi, che ha «espresso il suo dissenso» alla richiesta ufficiale della prefettura di far esaminare i bilanci: per una fondazione presieduta dal ministro dell’Interno, la trasparenza non esiste. Nell’attuale direttivo compaiono anche Fouad Makhzoumi, l’uomo più ricco del Libano, titolare del colosso del gas Future Pipes Industries. Tra gli italiani, Vito Bonsignore, l’ex politico che dopo una condanna per tangenti è diventato un ricco uomo d’affari; il banchiere Giovanni Bazoli, il marchese Alvise Di Canossa, il manager Carlo Secchi, l’ex dc Giuseppe Zamberletti, l’ex presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali, l’avvocato Sergio Gemma e il professor Mauro Ronco. Ma tutti i contributi alla causa di Alfano sono top secret. Invece la fondazione Magna Carta è stata costituita dal suo presidente, Gaetano Quagliariello, da un altro politico, Giuseppe Calderisi, e da un banchiere di Arezzo, Giuseppe Morbidelli, ora numero uno della Cassa di risparmio di Firenze. Gli altri fondatori sono tre società: l’assicurazione Sai-Fondiaria, impersonata da Fausto Rapisarda che rappresenta Jonella Ligresti; la Erg Petroli dei fratelli Garrone; e la cooperativa Nuova Editoriale di Enrico Luca Biagiotti, uomo d’affari legato a Denis Verdini. Il capitale iniziale di 300 mila euro è stato interamente «versato dalle tre società in quote uguali». I politici non ci hanno messo un soldo, ma la dirigono insieme ai finanziatori. Nel 2013 i Ligresti escono dal consiglio, dove intanto è entrata Gina Nieri, manager di Mediaset. L’ultimo verbale (giugno 2015) riconferma l’attrazione verso le assicurazioni, con il manager Fabio Cerchiai, e il petrolio, con Garrone e il nuovo consigliere Gianmarco Moratti. La fondazione pubblica i bilanci, ma non rivela chi l’ha sostenuta: in soli due anni, un milione di finanziamenti anonimi. La Nuova Italia di Gianni Alemanno invece non esiste più. “L’Espresso” ha scoperto che il 23 novembre scorso la prefettura di Roma ne ha decretato lo scioglimento: «la fondazione nell’ultimo anno non ha svolto alcuna attività», tanto che «le raccomandate inviate dalla prefettura alla sede legale e all’indirizzo del presidente sono tornate al mittente con la dicitura sconosciuto». Ai tempi d’oro della destra romana sembrava un ascensore per il potere: dei 13 soci promotori, tutti legati all’ex Msi o An, almeno nove hanno ottenuto incarichi dal ministero dell’agricoltura o dal comune capitolino. All’inizio Gianni Alemanno e sua moglie Isabella Rauti figurano solo nel listone dei 449 «aderenti» chiamati a versare «contributi in denaro». I primi soci sborsano il capitale iniziale di 250 mila euro. Tra gli iscritti compaiono tutti i fedelissimi poi indagati o arrestati, come Franco Panzironi, segretario e gestore, Riccardo Mancini, Fabrizio Testa, Franco Fiorito e altri. La “Fondazione della libertà per il bene comune” è stata creata dal senatore ed ex ministro Altero Matteoli assieme ad altre dieci persone, tra cui politici di destra come Guglielmo Rositani (ex parlamentare e consigliere Rai), Eugenio Minasso, Marco Martinelli e Marcello De Angelis. A procurare i primi 120 mila euro, però, sono anche soci in teoria estranei alla politica, come l’ex consigliere dell’Anas Giovan Battista Papello (15 mila), il professor Roberto Serrentino (10 mila) e l'imprenditore, Erasmo Cinque, che versa 20 mila euro come Matteoli. La fondazione, gestita dal tesoriere Papello, pubblica i bilanci: tra il 2010 e il 2011, in particolare, dichiara di aver incassato 374 mila euro dai «soci fondatori», altri 124 mila di «contributi liberali» e solo duemila dalle proprie attività (convegni e pubblicazioni). Gli atti della prefettura però non spiegano quali benefattori li abbiano versati. Espressione di Massimo D'Alema, ItalianiEuropei nel 1999 è stata una delle prime fondazioni. I fondatori sono l'ex premier Giuliano Amato, il costruttore romano Alfio Marchini, il presidente della Lega Cooperative, Ivano Barberini, e il finanziere esperto in derivati Leonello Clementi. Il capitale iniziale è di un miliardo di lire (517 mila euro), quasi totalmente versati da aziende o uomini d’affari: 600 milioni di lire da varie associazioni di cooperative rosse, 50 ciascuno da multinazionali come Abb ed Ericsson, la Pirelli di Tronchetti Provera, l’industriale farmaceutico Claudio Cavazza, oltre che da Marchini (50) e Clementi (55). ItalianiEuropei deposita regolari bilanci e ha autorizzato la prefettura di Roma a mostrarli. L’ultimo è del 2013. Gli atti identificano solo i finanziatori iniziali del 1998. A quei 517 mila euro, però, se ne sono aggiunti altri 649 mila sborsati da «nuovi soci», non precisati. Nei bilanci inoltre compare una diversa categoria di «contributi alle attività» o «per l’esercizio»: in totale in sei anni i finanziamenti ammontano a un milione e 912 mila euro. Italia Protagonista nasce nel 2010 per volontà di due leader della destra: Maurizio Gasparri, presidente, e Ignazio La Russa, vicepresidente. Tra i fondatori, che versano 7 mila euro ciascuno, c’è un ristretto gruppo di politici e collaboratori, ma anche un manager, Antonio Giordano. Dopo la fine di An, però, La Russa e i suoi uomini escono e la fondazione resta un feudo dell’ex ministro Gasparri. Come direttore compare un missionario della confraternita che s’ispira al beato La Salle, Amilcare Boccuccia, e come vice un suo confratello spagnolo. Tra i soci viene ammesso anche Alvaro Rodriguez Echeverria, esperto e uditore del sinodo 2012 in Vaticano, nonché fratello dell’ex presidente del Costarica. L’ultimo bilancio riguarda il 2013, quando il capitale, dai 100 mila euro iniziali, è ormai salito a 231 mila. Le donazioni di quell’anno, 56 mila euro, non sono bastate a coprire le spese, con perdite finali per 63 mila, però in banca ci sono 156 mila euro di liquidità. Ma sui nomi dei benefattori, zero informazioni. «Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici», dichiara Raffaele Cantone a “l'Espresso” : «Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori». 

«Non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi», scrive Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su "L'Espresso". «È una situazione che ha raggiunto i limiti dell’indecenza». Un anno fa Raffaele Cantone fu il primo a lanciare l’allarme sui fondi opachi trasferiti alla politica attraverso le fondazioni. Con un’intervista a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sottolineò il problema della carenza di controlli. Negli ultimi mesi le indagini hanno poi evidenziato altri sospetti sui soldi passati attraverso questi canali per finanziare l’attività dei partiti.

Raffaele Cantone, ma da allora è cambiato qualcosa?

«Non è cambiato nulla. Ma questo più che un finanziamento ai partiti è un modo di sovvenzionare gruppi interni ai partiti, quelle che un tempo si chiamavano correnti. Nel tempo le correnti si sono organizzate in realtà di tipo associativo: questa scelta potrebbe essere positiva, perché in qualche modo dà una struttura evidente alle correnti. Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia. Viene previsto solo il controllo formale e generico delle prefetture, che non hanno capacità di incidere sui bilanci: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi».

Molte di queste fondazioni politiche sono semplici associazioni, che non depositano neppure una minima documentazione.

«Bisogna tenere presente che nel nostro Paese per ragioni culturali queste realtà sono state un momento significativo della libertà di associazione. Nel diritto civile sono previste le associazioni non riconosciute, tutelate perché si tutela la libertà di associazione, che devono avere una loro possibilità di operare. Il problema è che in questi casi viene a mancare persino quel minimo di controllo esercitato dalle prefetture: sono in tutto uguali a una bocciofila. Non ci sono né regole, né rischi legali quando vengono usate per incassare finanziamenti sospetti: possono solo incorrere in verifiche fiscali della Guardia di Finanza se emergono pagamenti in nero. È una carenza normativa che si fa sentire e più volte il Parlamento ha espresso esigenza di intervenire. Sono stati presentati diversi disegni di legge, alcuni dei quali validi, ma non sono mai andati in discussione».

Negli organi che gestiscono le fondazioni politiche c’è poi una diffusa commistione tra centinaia di imprenditori e di politici. È una confusione che può alimentare i conflitti di interesse?

«In sé non è un aspetto deleterio. Che ci sia un legame nelle attività delle fondazioni tra chi svolge politica attiva e chi si occupa di attività economiche, imprenditoriali e professionali, non è un dato atipico delle moderne democrazie. Anzi, avviene in tutte le democrazie occidentali. Il problema è che i potenziali conflitti di interesse possono essere contrastati o attenuati solo attraverso meccanismi di trasparenza. Se l’imprenditore Tizio finanzia la fondazione del politico Caio e questo dato è noto, come avviene ad esempio negli Usa, questo sterilizza il conflitto d’interessi perché quando si discuterà di provvedimenti che riguardano l’imprenditore Tizio, direttamente o indirettamente, tutti potranno rendersi conto dei legami. Quello che è grave è l’assenza di pubblicità nel modo in cui le due situazioni si interfacciano all’interno delle fondazioni».

Alfano nasconde i soldi perfino ai suoi prefetti. La Fondazione presieduta dal ministro non pubblica l'elenco dei finanziatori. E il dg Rai è sponsor di Renzi, scrive Paolo Bracalini Sabato, 09/01/2016, su “Il Giornale”. Un investimento da appena 250 euro che ne rende ogni anno 650mila (di stipendio), un posto di assoluto comando nella tv pubblica e prima ancora il Cda di Poste italiane. In epoca di rendimenti bassi o negativi, l'investimento di Antonio Campo Dall'Orto è da manuale di finanza. Il nuovo direttore generale della Rai ha donato 250 euro alla Fondazione Open, la cassaforte renziana, entrando così nel cerchio ristretto degli amici dell'ex sindaco di Firenze, che poi da premier ha ricambiato quelli che aveva creduto in lui nominandoli nelle partecipate pubbliche. Dall'Orto è uno dei molti finanziatori «in chiaro» della fondazione guidata da Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai. I donatori, cioè, che hanno dato il consenso alla pubblicazione dei propri nomi nell'elenco dei finanziatori del think tank legato a Renzi.Ma c'è una zona grigia. Sui 2.803.953,49 euro raccolti dalla Open, infatti, quasi un terzo (913mila euro) arriva da ignoti sostenitori del renzismo che preferiscono restare anonimi. E nemmeno tirando in ballo le prefetture, che per legge vigilano (poco) su enti di diritto privato come le fondazioni, si riesce a sapere di più. Il test lo ha fatto l'Espresso, contattando via mail sette prefetti di altrettanti città italiane (da Roma a Napoli) dove hanno sede le associazioni politiche espressione di qualche leader o presunto tale. Ma anche l'intervento dello Stato, nella figura del prefetto, non sembra illuminare granché di quella zona d'ombra che nasconde le modalità di finanziamento delle fondazioni. Il paradosso è che persino quella che fa capo ad Angelino Alfano, ministro dell'Interno e dunque riferimento istituzionale dei prefetti, «esprime dissenso» alla richiesta di fornire bilanci e informazioni sulla Fondazione De Gasperi, presieduta appunto dal leader di Ncd e capo del Viminale. L'unico patrimonio tracciabile risale all'eredità della vecchia Dc, 400 milioni di lire, passati alla fondazione intitolata al grande statista democristiano. Il resto dei finanziatori si può solo immaginare guardando i membri del consiglio di amministrazione (Bazoli di Intesa San Paolo, il miliardario libanese Makhzoumi Fouad...), visto che la fondazione del ministro non si rende trasparente ai prefetti. E donatori ne servono, visto che anche il 5 per mille per l'associazione di Alfano è andato molto male: l'ultima volta solo 59 contribuenti hanno espresso la preferenza nella dichiarazioni dei redditi, per complessivi 6.700 euro. Spiccioli. Di fondazioni politiche ce n'è un centinaio, ma le più importanti (e ricche) sono una ventina. Ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - e non devono rendere pubblici i bilanci. Tanti vantaggi che ne spiegano la proliferazione. Una di quelle storiche è ItalianiEuropei di Massimo D'Alema. Quando nasce, nel 1999, viene innaffiata di soldi da cooperative rosse, grosse multinazionali, colossi della farmaceutica. La fondazione dell'ex premier Ds ha autorizzato la prefettura a rendere pubblici i suoi bilanci. Dai quali, però, non si ricavano le informazioni complete sui finanziatori. In totale dai rendiconti fino al 2013 risultano quasi 2 milioni di euro di donazioni, registrate genericamente come «contributi all'attività» da «nuovi soci». Ma quali siano i loro nomi non è dato saperlo.

Figuraccia italiana nella visita a Riad: rissa per il Rolex regalato a Renzi & C. I 50 membri della delegazione si sono azzuffati per i regali offerti dalla famiglia reale. Il premier li fa sequestrare ma a Palazzo Chigi non sono ancora arrivati, scrive TGCOM il 9 gennaio 2016. Monta la polemica per il viaggio diplomatico e commerciale compiuto da Matteo Renzi e una delegazione politico-economica in Arabia Saudita l'8 novembre 2015. E non c'entrano gli appalti miliardari o la crisi internazionale con l'Iran a causa delle esecuzioni capitali compiute da Riad. Il problema sono i Rolex, i regali che i ricchi sauditi avevano preparato per alcuni membri della delegazione italiana ma che alla fine tutti avrebbero preteso. Stando alle indiscrezioni di stampa questi Rolex non è chiaro che fine abbiano fatto. E' il Fatto Quotidiano a ricostruire la vicenda: i 50 ospiti arrivati da Roma (tra cui vertici di aziende statali e non come Finmeccanica, Impregilo e Salini) sono a cena con la famiglia reale. Arrivano gli omaggi preparati dagli sceicchi, pacchettini con nomi e cognomi, in italiano e arabo. C'è il pacchettino di serie A, con il Rolex svizzero, e quello, diciamo, di serie B con un cronografo prodotto a Dubai che vale "solo" 4mila euro. Il fattaccio avviene quando un furbetto della delegazione italiana scambia il suo cronografo arabo col pacchetto luccicante svizzero. Il "proprietario" del Rolex se ne accorge e scoppia una quasi rissa. Tutti vogliono il Rolex, i reali sauditi sarebbero anche pronti a cambiare tutti i regali pur di non vedersi di fronte questa scena da mercato del pesce. Ma interviene la security di Renzi che sequestra tutti i pacchetti. Ora, denuncia il Fatto Quotidiano, di questi orologi si è persa traccia. Va ricordato che il governo di Mario Monti varò una norma che impedisce ai dipendenti pubblici di accettare omaggi del valore superiore a 150 euro. I Rolex e gli altri cadeau avrebbero dovuto essere depositati nella stanza dei regali al terzo piano di Palazzo Chigi. Ma qui non si trovano. Interpellata sul caso, Ilva Saponara, padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non risponde, dice di avere la febbre e di non ricordare nemmeno il contenuto dei doni offerti dai sauditi. Anche l’ambasciatore Armando Varricchio, consigliere per l'estero di Renzi, non parla ma annuisce di fronte alla ricostruzione del caso. Non dice che fine hanno fatto i Rolex ma rassicura: "I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali". Se ne deduce che qualcuno ancora non ha restituito il Rolex in questione. E chissà se mai lo farà.

Governo in visita in Arabia Saudita. La missione finisce in rissa per i Rolex in regalo. Durante la trasferta a Ryad dello scorso novembre, i delegati italiani si sono accapigliati per dei cronografi da migliaia di euro, un omaggio dei sovrani sauditi. Per questo la delegazione del premier li ha sequestrati. Nota di Palazzo Chigi: "Sono nella nostra disponibilità", scrive Carlo Tecce l'8 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Parapiglia tra dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renziper i Rolex elargiti dagli amici di Ryad. Questo racconto, descritto da testimoni oculari, proviene dall’Arabia Saudita. È una grossa figuraccia internazionale per l’Italia. È ormai la notte tra domenica 8 e lunedì 9 novembre. Il palazzo reale di Ryad è una fonte di luce che illumina la Capitale saudita ficcata nel deserto. La delegazione italiana, che accompagna Matteo Renzi in visita ai signori del petrolio, è sfiancata dal fuso orario e dal tasso d’umidità. La comitiva di governo è nei corridoi immensi con piante e tende vistose, atmosfera ovattata, marmi e dipinti. Gli italiani vanno a dormire. Così il cerimoniale di Palazzo Chigi, depositario degli elenchi e dei protocolli di una trasferta di Stato, prima del riposo tenta di alleviare le fatiche con l’inusuale distribuzione dei regali. Quelli che gli oltre 50 ospiti di Roma – ci sono anche i vertici di alcune aziende statali (Finmeccanica) e private (Salini Impregilo) – hanno adocchiato sui banchetti del salone per la cena con la famiglia al trono: deliziose confezioni col fiocco, cognome scritto in italiano e pure in arabo. Gli illustri dipendenti profanano la direttiva di Mario Monti: gli impiegati pubblici di qualsiasi grado devono rifiutare gli omaggi che superano il valore di 150 euro oppure consegnarli subito agli uffici di competenza. Qui non si tratta di centinaia, ma di migliaia di euro. Perché i sovrani sauditi preparano per gli italiani dei pacchetti con orologi preziosi: avveniristici cronografi prodotti aDubai, con il prezzo che oscilla dai 3.000 ai 4.000 euro e Rolex robusti, per polsi atletici, che sforano decine di migliaia di euro, almeno un paio. A Renzi sarà recapitato anche un cassettone imballato, trascinato con il carrello dagli inservienti. Il cerimoniale sta per conferire i regali. Il momento è di gioia. Ma un furbastro lo rovina. Desidera il Rolex. Scambia la sua scatoletta con il pacchiano cronografo con quella dell’ambito orologio svizzero e provoca un diverbio che rimbomba nella residenza di re Salman. Tutti reclamano il Rolex. Per sedare la rissa interviene la scorta di Renzi: sequestra gli orologi e li custodisce fino al ritorno a Roma. La compagine diplomatica, guidata dall’ambasciatore Armando Varricchio, inorridisce di fronte a una scena da mercato di provincia per il chiasso che interrompe il sonno dei sauditi. Anche perché i generosi arabi sono disposti a reperire presto altri Rolex pur di calmare gli italiani. Non sarà un pezzo d’oro a sfaldare i rapporti tra Ryad e Roma: ballano miliardi di euro di appalti, mica affinità morali. Nonostante le decapitazioni di Capodanno, tra cui quella dell’imam sciita che scatena la furia dell’Iran, per gli italiani Ryad resta una meta esotica per laute commesse. E che sarà mai una vagonata di Rolex? Il guaio è che degli orologi, almeno durante le vacanze natalizie, non c’era più traccia a Palazzo Chigi. Non c’erano nella stanza dei regali al terzo piano. Chi avrà infranto la regola Monti e chi l’avrà rispettata? E Renzi ce l’ha o non ce l’ha, il Rolex? La dottoressa Ilva Sapora, la padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non rammenta il contenuto dei doni. Ha la febbre e poca forza per rovistare nella memoria. Varricchio ascolta le domande e la ricostruzione dei fatti di Ryad: annuisce, non replica. Varricchio è il consigliere per l’estero di Renzi, nonché il prossimo ambasciatore italiano a Washington. Allora merita un secondo contatto al telefono. Non svela il destino del Rolex che ha ricevuto, ma si dimostra comprensivo: “I cittadini devono sapere. Queste vicende meritano la massima attenzione. Le arriverà una nota di Palazzo Chigi. Che la voce sia univoca”. Ecco la voce del governo, che non smentisce niente, che non assolve la Sapora, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”. Il racconto non finisce. Cos’è accaduto dopo la notte di Ryad? Chi non voleva restituire o non ha ancora restituito i Rolex? Da Il Fatto Quotidiano di venerdì 8 gennaio 2016.

Renzi, Caporale vs Fiano (Pd): “Ci fu rissa tra dirigenti per Rolex regalati dai sauditi”. “Scena ignominiosa, ma per me non c’è notizia”, continua "Il Fatto Quotidiano tv". Polemica vivace tra Antonello Caporale, inviato de Il Fatto Quotidiano, e il deputato Pd Emanuele Fiano, durante Omnibus, su La7. Lo scontro è innescato dall’articolo di Carlo Tecce, pubblicato sul numero odierno del Fatto, circa il parapiglia esploso nello scorso novembre tra i dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renzi in Arabia Saudita: la rissa tra i dirigenti governativi della folta delegazione italiana è stata scatenata dalla generosa elargizione di circa 50 Rolex di varia fattura ad opera del re saudita. Come spiega Caporale nella trasmissione, nella hall dell’hotel di Ryad alcuni dirigenti italiani si sono ribellati perché avevano ricevuto l’orologio meno lussuoso, peraltro in barba alla legge Monti che impone di rifiutare doni oltre i 150 euro. Successivamente la scorta di Renzi ha dovuto sequestrare gli orologi, tutti prodotti a Dubai e dal valore oscillante tra3mila e 4mila euro. Caporale commenta: “Temo che la mediocrità del gruppo dirigente e di coloro che dovrebbero guidare l’Occidente a risolvere questa crisi internazionale sia tale che anche i dettagli illustrino il pessimismo generale. E questo episodio è un dettaglio significativo”. Il giornalista definisce il caso dei Rolex d’oro donati dagli ‘amici di Ryad’ un dettaglio di costume non certo folkloristico: “E’ indicatore della nostra ambiguità che ovviamente non è solo italiana, e simboleggia la debolezza dell’Occidente. Che non riesce non solo a porre un’idea generale cu come far fronte a una guerra così asimmetrica, pericolosa, atipica, difficile da condurre, ma nemmeno a misurare le forze per far fronte a cose più banali”. Insorge Fiano, che ribadisce di aver letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano ‘parola per parola': “Qui c’è un grande titolo, ma di notizie certe non c’è nulla”. “E’ notizia certa che i Rolex siano stati dati”, replica Caporale. “L’unica fonte che viene citata” – obietta il parlamentare Pd – “è un consigliere diplomatico di Palazzo Chigi”. “C’è la nota di Palazzo Chigi alla fine dell’articolo” – ribatte la firma de Il Fatto – “lo legga tutto”. Ma il deputato Pd, pur definendo “ignominiosa” la rissa descritta nell’articolo di Tecce, ripete che non c’è notizia, né la nota di Palazzo. In realtà, la versione del governo c’è e non smentisce nulla, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”.

SOCIETÀ INCIVILE E RINCOGLIONITA. Scrive Mario Vito Torosantucci su “L’Oservatore d’Italia” il 23/12/2015. Caro italiano, tu non esisti più, e se esisti, è soltanto una tua convinzione personale, che ti porterà ad essere sempre più un insignificante burattino. A volte, sembra di sognare, e poi, quando ti svegli, sei invaso da una strana sensazione di disagio psicofisico che ti fa star male. Ti guardi intorno, e non riesci bene a realizzare se stai veramente nel tuo mondo, in quel mondo dove sei cresciuto, dove hai vissuto momenti indelebili, dove hai imparato dei valori sani della vita, dove si parlava con il prossimo, si discuteva anche animatamente, ci si divertiva e avevamo lo stimolo per ridere, essere ottimisti e credere nel futuro. Giri lo sguardo, sperando di vivere soltanto un brutto sogno, immerso nei pensieri più deprimenti e pessimisti, cercando di convincerti, che quello che vedi non è la tua realtà, e che si dissolverà nell’aria come una nuvola passeggera, dileguandosi, spinta da una folata di vento piena di positività. Quante illusioni! Basta uscire da casa, e ti accorgi subito, che la realtà è un’altra, rievocando la torre di Babele, ti immergi istantaneamente in un caos totale, di ignoranza, maleducazione, cattiveria, inciviltà, aggravata dall’invasione di popoli non per loro colpa, retrogradi, nel quale si ha l’impressione, non di iniziare un nuovo giorno con un certo ottimismo, bensì, con la consapevolezza di andare in guerra, usando un eufemismo appropriato. Salutare il prossimo, è un’opzione remota, del passato, non più di moda, anche se si abita nello stesso palazzo, o occupanti dello stesso parcheggio, però, in compenso ci si guarda in cagnesco, pronti a far esplodere la propria ira al primo indizio negativo. Il menefreghismo, che regna nella maggioranza della gente, oltre naturalmente, una forte dose di maleducazione, induce ad aggravare lo stato di degrado generale che notiamo per le strade. L’ impegno gravoso, per esempio, di pigiare con il piede il cassonetto, per gettare i rifiuti, spinge il cittadino comune, a lasciare il sacchetto per terra, oppure bisognerebbe allargare i fori per la plastica, perché, sempre il cittadino comune, non può perdere tempo a gettare le bottiglie singolarmente, cosicchè è costretto ad incastrare l’intero involucro delle sue bottiglie, lasciando il suo lavoro al prossimo imbecille, che se non vuole accollarsi il lavoro superfluo altrui, lascia il tutto tranquillamente per terra. Camminare sui marciapiedi, è diventato difficile, e per una mamma che spinge il carrozzino, l’impresa è ancora più ardua, perché non c’è lo spazio necessario. Infatti fra escrementi di cani, foglie cadute dagli alberi, particolarmente abbondanti in questo periodo, cespugli che crescono a vista d’occhio, e, dulcis in fundo, le auto parcheggiate con le ruote sui marciapiedi, la gimcana con il complementare pericolo, è d’obbligo per i poveri pedoni. Guai a reclamare con qualcuno, perché il minimo che può capitare è di finire in ospedale, e spesso si è offesi ed umiliati e si è costretti ad andare via, covando dentro di sé quella rabbia, che pian piano ci mangerà il fegato. Osservare le regole nel nostro amabile paese, è diventato un rischio, infatti se per esempio, in auto rispetti i limiti di velocità, fra l’altro, non si sa con quale criteri siano stati stabiliti, puoi essere tamponato e susseguentemente malmenato da chi ti è venuto addosso, per intralcio nel traffico, oppure decidi di accelerare, e così ti prendi una bella multa, per avere superato il limite di velocità. E’ soltanto una questione di scelte soggettive. Discutere con il prossimo, specialmente se è un extracomunitario, è pericolosissimo, perché le armi da taglio abbondano, se non si tira fuori anche qualche pistola, ma le forze dell’ordine, da capire, per una questione di privacy, non possono fermarli e perquisirli, perché li offenderebbero. Gloria ai giudici, che per spirito di giustizia, puniscono i cittadini onesti, che vogliono per forza difendersi, quando capita di essere aggrediti in casa propria, malmenati, e derubati dei propri sacrifici. Onore ai politici, che invece di cambiare un’innumerevole quantità di leggi sbagliate, cosa che potrebbero fare in pochi minuti, si dedicano costantemente ai propri ed esclusivi interessi. Caro italiano, tu non esisti più, e se esisti, è soltanto una tua convinzione personale, che ti porterà ad essere sempre più un insignificante burattino. Una cosa è vera, e bisogna ammetterla; che noi cittadini, abbiamo un fisico veramente bestiale, come diceva una famosa canzone, perché sopravvivere in un mondo inquinato nei generi alimentari, prodotti in campagne che spesso custodiscono scorie chimiche altamente pericolose, medicinali, che dopo tanto tempo usati, si scopre che sono fortemente tossici, è la prova che siamo fatti di ferro. Certo! Qualche volta il ferro si fonde, e, molti sene vanno, ma che importa, il problema si risolve con migliaia di nuovi profughi che continuamente arrivano. In questo caos, la società moderna ha trovato il rimedio. Meglio fare come le tre scimmiette, non vedo, non sento, non parlo, così ci si racchiude in noi stessi, ed il mezzo per farlo è il telefonino. Grandissima invenzione, che ci consente di telefonare, ma ci regala altre cose molto più importanti, quella di estraniarci da tutto ciò che ci circonda, ci fa messaggiare, ci fa fare centinaia di giochini, rendendoci la vita più piacevole, anche se qualche volta, distrattamente si va a sbattere contro qualche palo della luce, oppure addosso alle persone, che non riescono a sparire all’istante. Sui mezzi pubblici il novanta per cento dei passeggeri è assorto nel mondo del proprio cellulare, per la gioia degli scippatori, che al contrario sono molto attenti al prossimo. Conclusione, chi ha una certa età in Italia, oggigiorno, si sente un pesce fuor d’acqua, grazie a questa società incivile e rincoglionita.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

FENOMENOLOGIA DEL TRADIMENTO E DELLA RINNEGAZIONE.

Si è fatto con Cristo…, figuriamoci con i poveri cristi.

“E quando fu sera, egli si mise a tavola con i dodici; e, mentre mangiavano, disse: "In verità vi dico che uno di voi mi tradirà". Ed essi si rattristarono grandemente, e ciascuno di loro prese a dirgli: "Sono io quello, Signore?". Ed egli, rispondendo, disse: "Colui che ha intinto con me la mano nel piatto mi tradirà. Il Figlio dell'uomo certo se ne va secondo che è scritto di lui; ma guai a quell'uomo per mezzo del quale il Figlio dell'uomo è tradito! Sarebbe stato meglio per lui di non essere mai nato". E Giuda, colui che lo avrebbe tradito, prese a dire: "Maestro, sono io quello?". Egli gli disse: "Tu l'hai detto!". Matteo 26

La predizione di Gesù. Quando, nell’imminenza dell’arresto, Gesù preannuncia il prossimo sbandarsi delle pecore rimaste prive del pastore (nonché, occorre pur dirlo, la propria successiva risurrezione), Pietro insorge esclamando: “Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai”. Al che Gesù: “In verità ti dico che questa notte, prima che il gallo canti, mi rinnegherai tre volte”. Ma Pietro insiste: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò”. E l’evangelista aggiunge che “similmente dissero anche tutti gli altri discepoli”. Abbiamo citato da Matteo (26, 33-35); la versione di Marco differisce solo in un particolare: “Prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte” (14, 30). Sensibilmente diversa invece la versione di Luca (22, 31-34), che inizia con il preannuncio del ritorno di Simon Pietro al suo ruolo di guida dopo la defezione: “Simone, Simone, ecco, Satana vi ha reclamato per vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede. E tu, una volta ritornato, corrobora i tuoi fratelli”. Replica Pietro: “Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte”. Al che Gesù ribatte come sappiamo: “Ti dico, Pietro, non canterà oggi il gallo prima che tu abbia negato tre volte di conoscermi”. Quanto al quarto vangelo, anche in esso figura, in forma un poco diversa, il botta e risposta tra Pietro e Gesù: "Pietro disse: ‘Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te! Rispose Gesù: ‘Darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte’" (Gv 13, 37-38). Rispetto ai Sinottici, manca, in questo passo, il preannunzio della diserzione di tutti i discepoli senza eccezione alcuna. Ciò è comprensibile se si pensa che il quarto evangelista afferma in seguito la presenza del discepolo prediletto ai piedi della croce. Con dubbia coerenza, però, il concetto della diserzione generalizzata viene espresso tre capitoli più avanti: “Ecco, verrà l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo” (Gv 16, 32). Dopo l’arresto di Gesù, già si è visto, le cose vanno in effetti come egli aveva preannunziato: tutti i discepoli si sbandano e fuggono.

Fenomenologia della negazione, scrive Salvo Vitale il 2 maggio 2016 su "Telejato" nelle fasi dello sandalo che ha investito Pino Maniaci. QUANDO IL GIUDIZIO CAMBIA, L’AMORE DIVENTA ODIO, L’AMICIZIA INIMICIZIA, IL RISPETTO DISPREZZO. Se si vuole criticare qualcosa, si trova sempre qualche motivo per farlo. Anche a costo di fare forzature, di stravolgere un’affermazione per farla diventare il contrario di quella che è. In tal caso non c’è più il dato, l’elemento del contendere, ma il significato, la lettura soggettiva del dato. Il problema, tuttavia, non è nella critica, che è un effetto, ma nella causa che la determina. Perché si vuole criticare qualcosa? Qual è la molla che fa scattare la critica? Il movente non è molto distante, nel rapporto interpersonale, dalle situazioni con cui si sviluppa la crisi della biunivocità, sino ad arrivare alla sua totale negazione, che comporta anche la negazione della persona di riferimento. Esempio classico è quello di due persone che hanno fatto coppia e, a un certo momento si lasciano. E’ più o meno come vedere attraverso un occhiale colorato, o anche di vista. Cambiata la chiave di lettura, ogni cosa assume dimensioni diverse e impensabili sino a poco tempo prima: tutto quello che sembrava bello, che mi faceva ridere, che destava ammirazione, diventa sciatto, banale, insipido, distante, sgradevole, antipatico. Ogni cosa, ogni gesto, ogni parola, diventa un tassello che alimenta la distanza, minuto dopo minuto, giorno dopo giorno, sino ad arrivare alla soppressione logica e psicologica dell’interlocutore, il quale, nella sua condizione di vittima sacrificale ha come possibilità o il silenzio, il taglio del rapporto dialogico, la costruzione di una parete divisoria, un atteggiamento difensivo, se non si vuole inasprire la distanza, o, in rapporto al proprio livello di aggressività, la risposta fredda, colpo su colpo, il pingpong, il mettersi alla pari senza rinunciare all’analisi spietata e alla denuncia dei passaggi sotterranei che determinano le critiche e le manipolazioni degli argomenti.  In quest’ultimo caso, poiché nessuno ammette che si tratta di errori di valutazioni o di chiavi di lettura emotivamente falsate, siamo già sull’orlo della rottura, con il suo micidiale carico di risentimenti, amarezze, incarognimenti, contrapposizioni, mugugni, preparazione mentale della frase, della risposta da tirar fuori al momento giusto, con attenta scelta delle parole, ognuna con la sua spietata forza di un’arma da taglio. Una vera e propria condizione patologica. Un cancro che rode, che alimenta metastasi, che distrugge la positività, la presenza del sorriso, della gioia, dell’intimità, della comprensione. Spesso un incontro, un bacio, un abbraccio, possono dare l’illusione che tutto sia stato superato, ma, se c’è il malessere, questo non tarderà a ripresentarsi. Se non si è in grado di invertire questa fase, e, per farlo, ci vuole amore e intelligenza, se si vuole evitare l’incancrenirsi di una situazione che genera devastazioni interiori, l’unica e definitiva soluzione è il bisturi, cosa che è sempre drammatica specie quando in mezzo ci sono situazioni familiari e vittime innocenti. Il giudizio non cambia solo per le persone, ma anche per le cose, per le ideologie, per la valutazione di opere d’arte e di letteratura. Tipico, nei giovani che diventano adulti, il superamento della condizione di ribellismo giovanile, che li ha portati ad occupare le scuole, a partecipare ai cortei, a frequentare gente con idee politiche “estremiste”: di colpo sembra tutto diventare come qualcosa che non appartiene, che ha occasionalmente attraversato la strada ed è andata via, i “peccati di gioventù”, dopo che ci si mette la testa a posto. Anche nella mutata valutazione di ideologie, prima fra tutti il “comunismo”, ma anche il “cristianesimo”,  non ci si fa scrupolo di accumulare tutto in un unico fascio dove mettere delitti, fanatismi, intolleranze, applicazioni e interpretazioni errate, cose ben lontane dalla concreta “purezza”, dal fascino dell’idea originaria, cosicchè la “dottrina dell’amore” diventa dottrina dell’odio, il principio dell’eguaglianza diventa ingiustizia perché non rispetta le competenze e le differenze, il panteismo diventa materialismo, la Shoah non è mai esistita o è stata gonfiata dalla propaganda antinazista, Peppino Impastato era un “lagnusu”, non voleva lavorare,  era “lordu,” e non aveva rispetto neanche per la sua famiglia che gli dava il pane, Garibaldi era uno che conquistò il Regno delle due Sicilie corrompendo i generali borbonici con i soldi dei Savoia e degli Inglesi, Leopardi era un poveraccio che “faceva puzza” , che non ebbe mai alcun rapporto con le donne e  quindi la sua poesia è solo espressione della sua insoddisfazione, Nietzsche era uno che è impazzito perché si ostinava a combattere il Cristianesimo e voleva sapere cose che all’uomo sono precluse,  ecc. Attenzione, possono esserci, nell’enunciazione di questi giudizi, elementi di partenza, circostanze che possono essere vere e giustificare la formazione del pregiudizio che rende il particolare come la chiave di lettura dell’universale: se tu fumi una sigaretta ogni tanto, o se qualche volta ti sei fatto una canna, sei un fumatore e un drogato; se hai avuto un incidente in macchina sei uno che non sa guidare, se ogni tanto ti concedi un bicchiere di vino sei un ubriacone, ecc. Nella logica di chi “forza” i margini del giudizio c’è anche il ricorso alla diffamazione, alla “macchina del fango”, all’invenzione o alla distorsione malevola di episodi, momenti, frasi, occasioni che divengono prove della dimostrazione della tesi di partenza. Una delle tecniche più usate è la proprietà transitiva, con il suo carico di deformazioni : se x è un cattivo soggetto, tu che sei amico di x sei anche un cattivo soggetto, se hai un figlio che si droga, la colpa è tua che non lo sorvegli o non hai saputo educarlo, se hai subito un attentato la colpa è anche tua, che ne hai dato l’occasione o la motivazione, se Crocetta, del PD,  è al governo siciliano assieme all’UDC di Cuffaro e se in questo partito ci sono molti pregiudicati e mafiosi, anche Crocetta è un mafioso o amico dei mafiosi, ma lo è anche il suo partito, il PD e così via. Dalla continuità alla transitività, dal particolare all’universale, si collegano fatti, si trovano relazioni, coincidenze, deduzioni, si elaborano teoremi incredibili. La “nullità” della persona negata è il presupposto che ne rende inutile, inconsistente, qualsiasi gesto apprezzabile, qualsiasi scelta coraggiosa, qualsiasi iniziativa, qualsiasi cosa scritta, anche se ha ricevuto il plauso degli altri. E così si conclude che gli altri non capiscono o non hanno capito, o si lasciano raggirare dalla perversa capacità di persuasione del soggetto negato. Anche il giudizio, il parere di persone eminenti, di studiosi, di esperti, diventa irrilevante nei confronti del pregiudizio. Si trova sempre qualche motivazione: non conoscono bene i fatti, sono estranei all’ambiente ecc. I “sapientoni” che invece sputano sentenze all’interno del loro codice ideologico, dei loro fanatismi, della loro intolleranza verso qualsiasi forma di diversità, pretendono di essere i soli depositari della verità, i soli e veri giudici dei fatti e delle persone. Molte di queste tecniche sono tipiche della subcultura mafiosa e sono funzionali alla conquista o al mantenimento di una condizione di privilegio e di controllo del territorio, costruita attraverso l’uso di qualsiasi forma di violenza, fisica o psicologica, attraverso il ricorso alla circolazione di false e diffamanti notizie studiate per creare l’isolamento attorno al soggetto sgradito, pronunciarne a priori la condanna e bandirlo o metterlo ai margini del contesto sociale in cui vive. La condanna, in molti casi, coinvolge anche amici e parenti, per il solito uso scorretto della proprietà della transitività. Lo strumento più facile per evitare la diffusione di possibili “virus” è l’etichettatura, l’affibbiare a una persona o a un gruppo un preciso delimitato spazio d’azione in cui muoversi, il giudicare secondo una inappellabile definizione: “Sono quelli di…, quelli che…”. La difficile sopravvivenza delle minoranze, siano esse politiche che professionali o religiose, (“quelli di Rifondazione Comunista…”, “i testimoni di Geova….”, “i grillini”, “i musulmani”, “persino i “Lions… “, tanto per mettere insieme cose di opposta estrazione), è stritolata dall’indicazione dell’omogeneità, dell’assimilazione al tutto, dall’identificazione nell’ideologia di massa, nel personaggio di moda, nel leader che esibisce i suoi deliri di onnipotenza ad alta voce, che affascina e del quale, spesso senza motivazioni o interessi specifici, certi soggetti diventano alfieri, esponenti, portavoci, difensori d’ufficio, soldati disposti a combattere, fanatici fans, elettori, pecore al seguito. Ed è inutile gridare che è necessario essere se stessi, riappropriarsi della propria identità, perché l’identità è ormai quella acquisita dal contesto sociale che te l’ha trasmessa e tutte le altre sono sbagliate. Al di là del rapporto d’amore, con tutti i suoi coinvolgimenti emotivi, rimane quello dialogico secondo l’indicazione di Epicuro: “di tutte le cose che la saggezza fornisce per rendere la vita interamente felice, quella più grande in assoluto è il possesso dell’amicizia”. Durante la rivoluzione francese la chiamavano “fraternitè”. Tutto questo vale anche se variano le scelte ideologiche: in tal caso, oltre che a rinnegare le idee in cui si è creduto, si rinnega anche se stessi (gli “errori giovanili”) e ci si circonda di una patina di autocompiacimento nel ritenere incontestabile e irreversibile il giudizio che cambia. In verità questo non vuol dire ritenersi capaci di “avere preso coscienza”, di avere avuto la forza e la capacità di rimettere in discussione un passato fatto di uomini e idee in cui non ci si riconosce più. Per non parlare delle forzature logiche, dei falsi teoremi che vengono adottati e che stanno dietro la necessità, se non la pretesa, di giustificare la scelta. Quando prima o poi si realizza il “taglio” non è necessario trasformarlo in “omicidio”, passare attraverso la soppressione dell’amico diventato nemico: basta sforzarsi di superare i mal di pancia, la delusione, l’amarezza e riconoscere che non ci sono più le condizioni per procedere “insieme” sulla stessa strada. Il che non vuol dire che la strada appartiene a una delle parti in causa. La strada è di tutti. Quando avremo imparato a parlarci come compagni di uno stesso itinerario, il cui traguardo è il raggiungimento di una comune serenità e la disponibilità al confronto e alla costruzione di infiniti saperi, di infinite ideologie, di molteplici tolleranze e di comuni convivenze reciprocamente costruttive, avremo realizzato i vari e affascinanti modi di essere di una odiata, vituperata, temuta, osannata, offesa, oppressa e soppressa parola, il comunismo, dove ci si riconosce come “compagni”.

Il "Mein Kampf" ritorna. Ma come oggetto di studio. I diritti sul libro, detenuti dalla Baviera, sono scaduti e la "bibbia del nazionalsocialismo" viene ripubblicata in Germania, e non solo. Senza questo testo è difficile capire l'ascesa di Hitler, scrive Matteo Sacchi, Mercoledì 08/06/2016, su "Il Giornale". Un oggetto tabù, eppure un documento storico fondamentale. Un libro che fa paura e che si teme sempre possa ispirare nostalgici del totalitarismo, eppure anche un testo senza il quale diventa difficile spiegare la Shoah o l'attacco nazista alla Russia sovietica. Stiamo parlando del Mein Kampf, il manifesto politico che Adolf Hitler iniziò a stendere, con l'aiuto di Rudolf Hess, in carcere, a Landsberg am Lech, dopo il velleitario (e fallito) colpo di Stato di Monaco del 9 novembre 1923. Il primo volume venne pubblicato nel 1925 (il secondo l'anno dopo) dalla casa editrice Franz Eher di Monaco, dopo che il direttore editoriale Max Amann pretese una riscrittura dell'elaborato, roboante e farraginoso, dell'aspirante dittatore (un autodidatta con talento per i discorsi ma scarse doti letterarie). Il testo ebbe, dopo una partenza stentata, un'enorme fortuna editoriale parallela al diffondersi del partito nazista. Giusto per fare un esempio, sino all'ascesa al potere di Hitler nel 1933 erano state vendute circa 241mila copie che superarono rapidamente il milione una volta che Hitler divenne cancelliere. E non solo in Germania. Il testo (la prima edizione italiana abbreviata rispetto all'originale è del 1934 per i tipi di Bompiani), intriso di antisemitismo e razzismo, ebbe enorme diffusione mondiale, sia tra gli ammiratori del dittatore tedesco sia tra chi voleva conoscere il proprio nemico. Charles De Gaulle nel 1939 urlava inascoltato che le difese francesi fossero insufficienti per fermare l'avanzata nazista, ripeteva: "Ci salteranno alla gola, io lo so: ho letto il Mein Kampf". Nessuno gli diede retta. Dopo la Seconda guerra mondiale vennero distrutti milioni di copie della "Bibbia del nazionalsocialismo". I diritti editoriali vennero affidati al länder della Baviera che ha vietato qualsiasi edizione non a scopo strettamente scientifico. I diritti sono però scaduti il 31 dicembre 2015 e questo ha dato il via a un fenomeno di ritorno di interesse sul testo, quasi maniacale. È andata così per l'edizione tedesca commentata e scientificamente corretta tornata nelle librerie tedesche dopo 70 anni di damnatio memoriae. Scopo dichiarato e promosso proprio dalla Baviera: smontare il mito, strumentalizzato dai neonazisti, che aleggia attorno al manifesto del Führer. Ma le logiche di mercato hanno subito scavalcato gli intenti filologici e pedagogici. E così la prima edizione legale in Germania dal 1945 (due volumi di 2mila pagine con 3.500 note critiche) ha scatenato una corsa all'acquisto dell'oggetto di "culto": la prima tiratura - 4mila copie - è andata esaurita il primo giorno, l'8 gennaio. I librai tedeschi non hanno fatto neppure in tempo a ricevere i volumi, già tutti prenotati. Anzi, una delle prime copie è stata rivenduta su Amazon per quasi 10mila euro. Del resto anche il costo del libro, pubblicato e curato dall'Istituto di Storia contemporanea di Monaco, è elevato: 59 euro. Eppure dal giorno di uscita è tra i cento libri più venduti in Germania (anche se la maggior parte dei librai ha deciso di non esporre il testo, vendendolo solo su richiesta). Chiaro dunque che la decisione di ridare alle stampe il Mein Kampf (che in edizione pirata è sempre circolato) non abbia mancato di suscitare polemiche. Il presidente del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Josef Schuster, ne ha sostenuto l'utilità: "Il commento critico mostrerà con quali teorie e tesi, false, abbia lavorato Hitler". E in Germania si sta anche molto discutendo sulla forma nella quale reintrodurre lo studio del testo, ovviamente a scopo storico, nelle scuole. Per altro in Germania le edizioni non commentate del Mein Kampf restano vietate. Ma pochi giorni fa un editore di Lipsia, come riportato da Bild, ha deciso di pubblicare il Mein Kampf nell'edizione originale, senza alcun commento a supporto. Si tratta della casa editrice di estrema destra Der Schelm (letteralmente il "briccone"). La procura di Bamberga ha aperto un'inchiesta. Insomma in Germania, e non solo, che si tratti del Mein Kampf o di libri che ricostruiscono la vita del Führer ora per ora come Das Itinerar (edito dalla Berliner Story Verlag, e frutto della fatica di Harald Sandner) o di romanzi/film parodia come Lui è tornato, Hitler resta un personaggio che incuriosisce e divide. Forse è proprio per questo che va studiato e non nascosto.

Il Mein Kampf sabato in edicola con il Giornale. Polemiche in tutta Italia, scrive Antonio Panullo su “Il Secolo D’Italia”, venerdì 10 giugno 2016. Polemiche – prevedibili – dopo che il Giornale ha deciso di regalare una copia del Mein Kampf, da sabato, a chiunque acquisterà una copia del quotidiano. In realtà l’operazione è più complessa, e rientra in operazioni culturali che il quotidiano fondato da Indro Montanelli ha sempre compiuto. Il Giornale, infatti, dopo aver allegato La storia del fascismo di Renzo De Felice, e altre collane storiche, adesso inizia la pubblicazione di una serie di volumi dedicati al Terzo Reich. Il primo titolo è Hitler e il Terzo Reich. Ascesa e trionfo di William Schirer, acquistabile a 11,90 euro. In più ci sarà il Mein Kampf nell’edizione originale, pubblicata in Italia da Bompiani nel 1934, con la prefazione critica di Francesco Perfetti. La comunità ebraica protesta: «Sono molto perplesso. Questo è un libro che non si può regalare con un giornale, come se fosse un romanzo da leggere sotto l’ombrellone, ma è un testo che va maneggiato con molta cura. Se vogliamo leggerlo e studiarlo, facciamolo, ma con i mezzi culturali necessari», ha osservato Ruben Della Rocca, vicepresidente della comunità ebraica romana». Da parte sua il deputato del Pd Emanuele Fiano, che ad Auschwitz ha perso buona parte della sua famiglia, dice: «Penso sia sbagliato, offensivo verso la memoria dei morti e al limite della collaborazione con quell’ideologia. Non è un testo che può essere pubblicato, addirittura regalato, così alla leggera. Che bisogno c’era un’operazione del genere?». Il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche in Italia Renzo Gattegna sostiene che «la distribuzione gratuita nelle edicole del Mein Kampf, domani accompagnato al quotidiano Il Giornale, rappresenta un fatto squallido, lontano anni luce da qualsiasi logica di studio e approfondimento della Shoah e dei diversi fattori che portarono l’umanità intera a sprofondare in un baratro senza fine di odio, morte e violenza. Bisogna dirlo con chiarezza: l’operazione del Giornale è indecente. E bisogna soprattutto che a dirlo sia chi è chiamato a vigilare e a intervenire sul comportamento deontologico dei giornalisti italiani», conclude Gattegna. Il Mein Kampf è tornato nelle librerie dopo 70 anni. Da notare che alla scadenza dei diritti – il 31 dicembre 2015 – in Germania il libro del Fuehrer tornato nelle librerie dopo 70 anni con un’edizione commentata di circa 2000 pagine che ha scalato le classifiche. Il quotidiano milanese da parte sua ha così spiegato la scelta editoriale: «La scelta di allegare il Mein Kampf alla collana di opere sul nazismo in edicola da sabato con il Giornale (otto volumi a 11,90 euro più il prezzo del quotidiano) fa discutere. Ma il libro-manifesto della follia xenofoba e antisemita di Adolf Hitler è un documento fondamentale per capire l’orrore della Seconda guerra mondiale e della Shoah. Il politologo Giorgio Galli, esperto dei legami tra nazismo ed esoterismo, spiega le origini del libro più maledetto della storia: “Hitler fu l’ultimo teorico della guerra tra razze. Questo libro non ha nulla di proibito e vietarlo lo ha reso solo più interessante”». Il giorno prima in un altro articolo sul Giornale Matteo Sacchi aveva così concluso il suo articolo Il Mein Kampf ritorna. Ma come oggetto di studio: «Insomma in Germania, e non solo, che si tratti del Mein Kampf o di libri che ricostruiscono la vita del Führer ora per ora come Das Itinerar (edito dalla Berliner Story Verlag, e frutto della fatica di Harald Sandner) o di romanzi/film parodia come Lui è tornato, Hitler resta un personaggio che incuriosisce e divide. Forse è proprio per questo che va studiato e non nascosto». Dall’articolo in questione apprendiamo anche che «dopo la Seconda guerra mondiale vennero distrutti milioni di copie della “Bibbia del nazionalsocialismo”. I diritti editoriali vennero affidati al länder della Baviera che ha vietato qualsiasi edizione non a scopo strettamente scientifico. I diritti sono però scaduti il 31 dicembre 2015 e questo ha dato il via a un fenomeno di ritorno di interesse sul testo, quasi maniacale. È andata così per l’edizione tedesca commentata e scientificamente corretta tornata nelle librerie tedesche dopo 70 anni di damnatio memoriae». Adesso probabilmente anche le copie del Giornale andranno a ruba.

Il Giornale regala il Mein Kampf. Esplode la polemica. La comunità ebraica insorge: "Fatto squallido". Sallusti replica: "Non deve essere un tabù, per capire il male bisogna storicizzarlo", scrive “Il Tempo” l’11 giugno 2016. A partire da oggi, sabato 11 giugno, Il Giornale è in edicola una collana dedicata alla storia del Terzo Reich che si articolerà in 8 volumi con uscita settimanale. Il primo titolo in edicola è "Hitler e il Terzo Reich. Ascesa e trionfo". In omaggio con il volume, viene distribuito il testo originale di Mein Kampf di Adolf Hitler, nell'edizione critica a cura del professor Francesco Perfetti.  Tale decisione ha generato scalpore, scatenando l'ira della Comunità Ebraica e del presidente del Consiglio. "Un fatto squallido" ha commentato Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. "Non aver paura di storicizzare" replica il direttore del quotidiano, Sallusti. Sul caso è intervenuto anche Renzi su Twitter: "Trovo squallido che un quotidiano italiano regali il Mein Kampf di Hitler. Il mio abbraccio più affettuoso alla comunità ebraica #maipiù". La polemica "Se ce lo avessero chiesto, avremmo consigliato loro di distribuire libri molto più adeguati per studiare e capire la Shoah” riferiscono fonti dell’ambasciata d’Israele a Roma. E Gattegna, presidente dell’Unione delle comunità Ebraiche Italiane, commenta come la distribuzione del testo sia "un fatto squallido, lontano anni luce da qualsiasi logica di studio e approfondimento della Shoah e dei diversi fattori che portarono l’umanità intera a sprofondare in un baratro senza fine di odio, morte e violenza". Gattegna poi rincara la dose dicendo che: "Bisogna dirlo con chiarezza: l’operazione del Giornale è indecente". Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme gli fa eco: "Che qualcuno abbia pensato di usare il Mein Kampf per accrescere le vendite è un fatto senza precedenti e allarmante". Non si stupisce delle reazioni il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti. Che replica: "Per capire com’è potuto nascere il male assoluto, bisogna andare alla fonte e non aver paura di storicizzare le tragedie del Novecento. Non avrei problemi, per dire, a pubblicare anche il Libretto rosso di Mao".

Il Mein Kampf in edicola: tutto quello che non sapete. Imparare dagli errori del passato è un nostro dovere. Ecco perché pubblichiamo il manifesto di Hitler, scrive "Il Giornale", Sabato 11/06/2016. È un assioma ricorrente nei manuali di strategia: per sconfiggere il nemico bisogna conoscerlo. E così, se si vogliono comprendere i crimini del nazismo, bisogna leggere il Mein Kampf. Poche storie. Il romanziere scozzese Bruce Marshall, tra i migliori a raccontare i drammi e le aberrazioni della Seconda Guerra Mondiale, lo ripete più volte nei suoi libri: molto si sarebbe potuto salvare se i Capi di Stato del Novecento si fossero presi la briga di leggere questo libro. Sia chiaro: quella che esce oggi con Il Giornale non è la prima edizione italiana del libro di Hitler. Le edizioni Kaos lo hanno stampato anni fa e su Amazon si può acquistare per pochi spiccioli. Chiunque può acquistarlo con un clic. Quindi perché adirarsi? Critiche (legittime) sono arrivate dalla comunità ebraica, ma ad esse ha già risposto il direttore di questo quotidiano, Alessandro Sallusti. Ma, dato il can can mediatico che è stato sollevato in queste ore, val la pena fare alcune precisazioni. Il Mein Kampf allegato a Il Giornale non è gratuito. Chi lo vorrà leggere dovrà acquistare il primo volume della collana sull'ascesa e declino del Terzo Reich scritta da William Shirer, e con note critiche e commenti del professor Francesco Perfetti, docente di storia contemporanea riconosciuto a livello internazionale. La storia sul nazionalsocialismo che uscirà in queste settimane non è certo un'apologia. Anzi...Proprio la lettura di questi libri servirà a dare la giusta lettura al Mein Kampf. Proprio questo mese è uscito in Italia un film interessante, "Lui è tornato", tratto dall'omonimo libro. "Lui" è ovviamente Hitler. Quella tratteggiata nel film è una società distopica, dove il Führer torna e fa il pieno di successo. Per realizzare questa pellicola sono state utilizzate anche scene improvvisate, in cui l'attore che impersona Hitler interagisce con ignari passanti. Chi ha visto il film può confermarlo: molti, ancora oggi, elogiano il dittatore tedesco. I motivi possono essere più disparati, ma sono tutti riconducibili all'ignoranza. Siamo abituati a pensare che Hitler abbia agito così in quanto pazzo: nulla di più falso. Quello del Führer era un piano lucido e criminale. Ottant'anni fa, abbiamo sottovalutato il problema. Non abbiamo letto il Mein Kampf e ci siamo trovati dall'oggi al domani con milioni di morti e una guerra mondiale. Evitiamo di farlo anche oggi.

Capire il Mein Kampf perché non torni più. Con certi venticelli che soffiano qua e là per l'Europa e in Medioriente serve capire dove si può annidare il male e non ripetere un errore fatale, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 11/06/2016, su "Il Giornale". C'è un pezzo di storia che fa ancora paura solo a parlarne. Ed è comprensibile perché gli uomini fanno scattare una legittima difesa contro il male assoluto. Parliamo di Hitler e del nazismo, la più grande tragedia - insieme al comunismo staliniano - del Novecento e tra le più orrende della storia intera del mondo. Milioni di ebrei sterminati nelle camere a gas, milioni di tedeschi mandati a morire per una causa aberrante, milioni di uomini liberi morti per estirpare dall'Europa questo cancro. Tutto ha inizio con un farneticante libro scritto nel 1925 dal futuro Führer e tragicamente noto come Mein Kampf, tradotto «La mia battaglia». Il 31 dicembre 2015 sono scaduti i diritti d'autore sul testo, diritti che erano stati affidati al governatorato della Baviera, che per settant'anni ne aveva vietato la pubblicazione. A gennaio l'Istituto di storia contemporanea di Monaco ha deciso di ripubblicare il testo a fini storici in una edizione commentata con l'avallo del presidente delle comunità ebraiche tedesche. In questi giorni si sta discutendo se adottare questo testo nei piani di studio delle scuole superiori. Abbiamo deciso di ripetere l'operazione per l'Italia, rieditando il testo originale stampato dalla Bompiani nel 1938 che oggi, per chi vorrà, è in edicola insieme al quotidiano e al primo numero di una collana dedicata alla storia del Terzo Reich. Ovviamente si tratta di un'edizione commentata. La guida critica alla lettura è del professore Francesco Perfetti, una delle massime autorità nel campo della storia contemporanea. La sola notizia di questa pubblicazione ha già suscitato polemiche, la maggior parte delle quali legittime e comprensibili, e le preoccupazioni degli amici della comunità ebraica italiana, che ci ha sempre visto e sempre ci vedrà al suo fianco senza se e senza ma, meritano tutto il nostro rispetto. Escludo però che ad alcuno possa anche solo sfiorare l'idea che si tratti di un'operazione apologetica o anche solo furba. Non si gioca su una simile tragedia. Semmai il contrario. Perché, con certi venticelli che soffiano qua e là per l'Europa e in Medioriente serve capire dove si può annidare il male e non ripetere un errore fatale. Cito Perfetti: «Al mondo politico, ma anche a quello intellettuale dell'Europa del tempo, può essere oggi rimproverato il fatto di non avere letto in maniera approfondita l'opera e di non averne quindi compreso appieno la dimensione aberrante destinata, come la storia avrebbe tragicamente dimostrato, a minare in profondità le fondamenta del mondo civile». Studiare il male per evitare che ritorni, magari sotto nuove e mentite spoglie. Questo è il senso vero e unico di ciò che abbiamo fatto.

Quanta polemica per un libro venduto pure alla Feltrinelli. Social divisi sulla promozione del «Giornale». Lerner s'infuria ma quando uscì in Germania disse: è giusto, scrive Giuseppe Marino, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". C'è uno scandalo nel mondo dei media italiani: una nota società editoriale lucra sul Mein Kampf. È la Feltrinelli. Basta cliccare sul sito della libreria on line e cercare il titolo per veder spuntare bene in evidenza il volume pubblicato da «Edizioni clandestine» con tanto di talloncino della promozione «-15%», autore «Hitler Adolf», disponibile in cinque giorni a soli 10,20 euro. E per giunta, a differenza di quella allegata al Giornale insieme a una collana storica firmata da autori di solida fama come William Shirer, quella venduta dall'editore simbolo della sinistra non è un'edizione critica ma il testo integrale. Ma niente da fare, l'occasione per accendere uno scandalo di plastica era troppo ghiotta. Come poteva non caderci Gad Lerner? E infatti sul suo blog consegna ai posteri un giudizio lapidario: «Alessandro Sallusti che distribuisce in edicola il Mein Kampf di Hitler conferma il suo talento nel fare la caricatura di se stesso». Eppure, nello scorso dicembre, in occasione della prima pubblicazione del testo base del nazismo dopo la decadenza dei diritti d'autore, lo stesso Lerner si dichiarava favorevole: «Non mi sento di criticarla anzi trovo positivo il fatto che questo tabù in Germania venga affrontato». Nello stesso articolo del Fatto Quotidiano, si esprimevano anche il politologo Piero Ignazi («Era ora») e lo storico Gian Enrico Rusconi («Un segno di maturità»). Il Mein Kampf del resto non è affatto un pamphlet clandestino. In Italia l'edizione più nota è quella critica curata dal politologo Giorgio Galli per i Tipi della «Kaos», accompagnata da parole sagge: «Questa riedizione del Mein Kampf ha un triplice significato. Il rifiuto etico-intellettuale di ogni tabù e di ogni forma di censura. La storicizzazione di un testo la cui lettura deve rappresentare un imperituro monito. La denuncia di rimozioni e mistificazioni all'ombra delle quali si vorrebbero legittimare disinvolti quanto pericolosi revisionismi storiografici». E ancora: «È opinione diffusa che sia un libro dell'orrore, un compendio di farneticazioni. Si può continuare a ritenerlo tale, ma solo dopo averlo letto». Il libro è tra l'altro accompagnato da una postfazione di Gianfranco Maris, presidente dell'Aned, Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti. E che dire del settimanale Focus, che dopo lo scoppio della polemica sull'iniziativa del Giornale, pubblica un vademecum sul «Mein Kampf in pillole» per «non doverlo per forza avere in casa». Lecita iniziativa giornalistica o speculazione? Al di là delle strumentalizzazioni, quelle di chi approfitta di un'iniziativa editoriale per scatenare una polemica da proiettare sul voto alle amministrative, sembra uno scherzo ma davvero nel Pd c'è chi attacca Parisi per questo (e che c'entra?), in tutto il dibattito un punto fermo c'è. Il manifesto hitleriano, comprensibilmente avversato dalle comunità ebraiche, che pure si divisero sul tema della ripubblicazione in Germania, non è mai stato un libro clandestino. Si trova da scaricare on line e, secondo l'associazione hateprevetion.org, ha venduto 70 milioni di copie nel mondo, dal 2008 a oggi. Nonostante questo non trascurabile dato di fatto, la vicenda ha incendiato il dibattito sui social network, con la consueta singolar tenzone parolaia. Quella organizzata (gli account collegati al Pd si sono dati un gran daffare a twittare e ritwittare) e spontanea ironia. Vedi Fulvio Abbate: «La prossima settimana offrirà ai lettori il dissuasore elettrico a bastone». Ma anche tanti che hanno capito il gioco di chi strumentalizza. E replicano in modo altrettanto graffiante. Come «Re Tweet»: «Mi congratulo per la vostra battaglia contro la presenza del #MeinKampf nelle edicole. Khomeini sarebbe fiero di voi».

Veri ipocriti e falsi moralisti. Trovo preoccupante che Renzi non sappia che il Mein Kampf si può acquistare da tempo in libreria, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". Matteo Renzi ha definito «squallida» l'iniziativa de Il Giornale di allegare, all'interno di una collana storica, una edizione commentata del Mein Kampf, atto fondativo di quella tragedia che fu il nazismo. Evidentemente il presidente del Consiglio in vita ha letto tanti fumetti - e questo lo si capisce -, ma pochi libri. Certamente non ha letto Se questo è un uomo di Primo Levi, nel quale, a proposito dell'Olocausto, si legge: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre». Trovo poi preoccupante che Renzi non sappia una cosa nota a tutti, cioè che il Mein Kampf lo si può acquistare già da tempo in molte librerie, quelle della Feltrinelli comprese, e con un clic su Amazon. I negazionisti rimuovono la storia scomoda, gli uomini liberi la affrontano, la studiano, la giudicano con la severità che merita. Potremmo ricordare a Renzi che squallido è non pagare i debiti che lo Stato ha con le imprese o illudere i pensionati che presto avranno 80 euro in più. Ma mischieremmo il sacro con il profano. Non possiamo però tacere, a proposito di storia, su quanto sia stato squallido, oltre che pericoloso, ricevere a Roma pochi mesi fa con tutti gli onori (e oscuramento delle statue marmoree dei Musei Capitolini per non offenderlo) Hassan Rouhani, presidente dell'Iran, cioè di un Paese che nega il diritto all'esistenza di Israele e che sul popolo ebraico getterebbe volentieri una bomba atomica per arrivare alla soluzione finale alla pari di Hitler. Alla stupidità di Renzi preferisco la coerenza di Stefano Fassina, uno degli ultimi comunisti ancora in circolazione. Dice Fassina: voglio vedere se Il Giornale avrà il coraggio di pubblicare i diari di Anna Frank. Per noi non si tratta di coraggio, questo giornale è dalla parte di Anna nella storia e anche oggi, ma accetto volentieri il suggerimento e, compatibilmente con i problemi di diritti d'autore, farò il possibile perché ciò accada. Dal Mein Kampf al Diario di Anna Frank, dal male assoluto al sogno di libertà. Ma se mi permettono Renzi e Fassina, punterei alla trilogia. Un'ultima uscita con un libro che rivendichi il diritto di Israele a esistere senza essere quotidianamente minacciato e ferito dal terrorismo palestinese e dall'ostile e complice indifferenza di buona parte della sinistra occidentale. Perché altrimenti tutta questa levata di scudi è soltanto l'ennesima presa per i fondelli.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano dell’11 giugno 2016: vi dico perché ora rischia la galera mezza Italia. In Italia si può negare l'esistenza di dio, ma non si può dubitare della versione ufficiale di un fatto storico, anzi, di alcuni fatti storici, anzi, di uno in particolare. È questa l'obiezione insuperabile alla legge sul negazionismo approvata l'altro giorno (237 sì, 5 no, 102 astenuti) che beninteso, è una legge di ornamento, serve a farsi belli e ad accontentare una minoranza: ma siccome le leggi poi gravano sul groppone di tutti, eccoci qui a dimostrare come una norma-bandiera sia destinata a restare disapplicata o a produrre assurdità o, più probabilmente, a essere risvegliata solo quando si parla di Shoah. Nel dettaglio: la norma introduce la galera da 2 a 6 anni quando la propaganda e l'incitamento all' odio razziale si fondino «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, crimini contro l'umanità e crimini di guerra». Già qui salta all' occhio il primo pasticcio: si citano «la Shoah o i crimini di genocidio» come se appartenessero a una classificazione storica diversa. Non è un caso che il principale promotore della legge sia stata l'Unione delle Comunità Ebraiche (ben decisa a separare eticamente "l'unicità" dell'Olocausto) e non è un caso neppure che la stessa Unione, nei suoi comunicati, abbia festeggiato la nuova legge citando solo la Shoah e nessun altro genocidio o crimine di guerra o contro l'umanità: e con ragione, perché il significato politico dell'operazione era indirizzato a loro. Il problema è che la legge, letta nero su bianco, poi vale per tutti: e sulla definizione dei genocidi (altri genocidi) fioccano disaccordi di ogni tipo e a tutti i livelli. È anche per questo che nel suo complicato iter (la norma ha fatto la navetta col Senato per 3 ben volte) gli storici e i politici di ogni schieramento hanno condiviso ogni perplessità per qualcosa che lascerà ai magistrati l'arbitrio di decidere che cosa sia reato e che cosa no; una "verità di Stato" che potrebbe vanificare ogni dibattito controverso. Studiosi di sinistra come Marcello Flores, direttore dell'Istituto storico della Resistenza e curatore della Storia della Shoah per Utet, per dire, su questo si è trovato d'accordo con Carlo Giovanardi o con Pietro Ichino: si rischia, dicono, un pasticcio infernale. Esempi? Centinaia. Dovremmo incriminare, in teoria, Recep Erdogan non appena mettesse piede sul suolo italiano, visto che da sempre si ostina a negare il genocidio degli armeni - riconosciuto dalle massime autorità europee e mondiali - e ha pure promosso delle leggi contro chi ne ammetta l'esistenza. A ruota potremmo mettere sotto indagine il governo Renzi, che nel marzo dell'anno scorso, attraverso il Ministero dei Beni culturali, eliminò la parola "genocidio" da una rassegna dedicata al popolo armeno. Inquisito anche l'ex ministro Franco Frattini, che in passato definì quel genocidio solo «un massacro». In ordine sparso: in galera chiunque metta in dubbio (o apra una discussione) sui crimini di guerra che l'esercito italiano commise tra il 1931 e il 1943 in Cirenaica ed Etiopia; al macero tutti i libri, anche serissimi, che nelle biblioteche negano quei crimini come fece anche Indro Montanelli con l'uso dei gas italiani in Etiopia. Dentro, poi, chiunque non consideri genocidio i fatti di Srebrenica (alcuni giuristi lo contestano) e incriminati anche quei tribunali di Buenos Aires che negarono lo status di genocidio alla repressione dei militari argentini. Nessun problema, invece, per quei manuali che ancor oggi giustificano o "contestualizzano" i milioni di morti dello Stalinismo: la definizione di genocidio, in quel caso, è ancora ufficiosa. Persino Giorgio Napolitano scrisse cose imbarazzanti sul ruolo di Solzenicyn durante l'intervento sovietico a Budapest nel 1956: ci sarebbe da approfondire. Piergiorgio Odifreddi, firma di Repubblica, paragonò l'esercito israeliano e le SS delle Ardeatine: ci sarebbe da approfondire anche qui. Il quotidiano Il Giornale, tra qualche giorno, allegherà una copia del Mein Kampf come documento storico: sarà incitamento? Istigazione? La portavoce del Commissariato Onu per i rifugiati, Carlotta Sami, ma anche Emma Bonino e Gad Lerner, in passato paragonarono lo sterminio pianificato degli ebrei al dramma degli immigrati nel Mediterraneo: fu un buon paragone? Non è che rischiano, ora? Un tempo si rischiava di dire cazzate e basta, ora si rischia che a valutarle sia un giudice. Senza contare l'esperienza di quei Paesi occidentali in cui le leggi anti-negazioniste sono state applicate: la copertura mediatica dei processi che ne sono scaturiti, spesso, ha finito per diventare una tribuna per la propaganda delle tesi che venivano perseguite, e che altrimenti sarebbero state ignorate dall' opinione pubblica. Leggi fallite, in sostanza: l'Italia si è accodata subito.

Renzi si indigna: «Un regalo squallido». Però i veri antisemiti stanno a sinistra. Il premier condanna l'iniziativa con un tweet ipocrita Ma il 25 aprile la Brigata ebraica fu cacciata dal corteo, scrive MMO, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". «Trovo squallido che un quotidiano italiano regali oggi il Mein Kampf di Hitler. Il mio abbraccio affettuoso alla comunità ebraica. #maipiù». Così Matteo Renzi su Twitter va all'attacco del Giornale per la scelta di regalare il Mein Kampf con il primo volume della collana sulla storia del Terzo Reich. Ma il cinguettio del premier suona ipocrita, considerato che proprio nella sinistra italiana c'è un problema irrisolto - e difficilmente dichiarato - con l'antisemitismo, come testimoniano le puntuali quanto vergognose contestazioni della Brigata ebraica ai cortei del 25 aprile (salutati al grido di «assassini» e «fascisti» a Milano poco più di un mese fa), per dirne una.

Comunali, il Pd milanese punta sull’islamismo politico. Il PD milanese persiste fianco a fianco con gli islamisti: Pierfrancesco Majorino fotografato in questi giorni assieme a Sameh Meligy, legato ai Fratelli Musulmani, scrive Angelo Scarano, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". Il PD milanese persiste fianco a fianco con gli islamisti. Non sono bastati i collegamenti messi in evidenza dai media durante la campagna per le Comunali tra la candidata Sumaya Abdel Qader e i Fratelli Musulmani, non sono bastate le sue dichiarazioni contraddittorie nei confronti dell’organizzazione islamista e nemmeno i post equivoci del marito, Abdallah Kabakebbji, nei confronti di Israele, definita “una truffa” e un “errore storico”. La rete che collega la candidata del PD e “confratelli” a ambienti come CAIM, Comitato Libertà e Democrazia per l’Egitto, Waqf al-Islami, Associazione Donne Musulmane d’Italia (Admi) e Alleanza Islamica, nonché a Fioe, Femyso. Sarà forse un caso che il presidente del Caim, Maher Kabakebbji, nonché suocero di Sumaya, è anche presidente del Caim e del Waqf al-Islami? Sarà un caso che Maher e il figlio Abdallah (marito di Sumaya) venivano ritratti in foto con Rachid Ghannouchi, leader storico dei Fratelli Musulmani tunisini? Sarà una coincidenza che Souhair Katkhouda, moglie di Maher Kabakebbji, è la presidentessa dell’Admi? Entrambi erano inoltre agli eventi organizzati in nord-Italia per inaugurare moschee finanziate dalla Qatar Charity. E che dire della foto che ritrae il padre di Sumaya Abdel Qader, nonché imam di Perugia, a un evento ufficiale mentre stringe la mano dell’ex presidente egiziano ed esponente dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi? Guarda caso diversi esponenti del Caim erano stati fotografati e filmati a manifestazioni a favore di Morsi, tra cui Omar Jibril, legato al Comitato Libertà e Democrazia per l’Egitto (gruppo molto attivo con iniziative a favore di Morsi). Omar Jibril e Sumaya Abdel Qader venivano recentemente fotografati a una riunione proprio con il candidato sindaco PD, Beppe Sala. Al momento Beppe Sala si è limitato a dire, durante un confronto televisivo con Parisi, che gli elementi in questione non sono dei Fratelli Musulmani, ma non ha ancora fornito chiarimenti riguardo ai collegamenti più che evidenti messi in luce dai media, così come Sumaya Abdel Qader non si è vista granchè sui grandi schermi e non ha chiarito le sue posizioni nei confronti dei matrimoni gay, delle adozioni, della repressione messa in atto dal governo-regime di Erdogan nei confronti di intellettuali, giornalisti, membri dell’opposizione e curdi. Tutti temi che, almeno in teoria, dovrebbero essere cari alla sinistra. Non dimentichiamo inoltre che in piena campagna elettorale il PD si è visto costretto a ritirare la candidatura di Sameh Meligy, pronto a correre per la zona 4 di Milano e fotografato assieme a Beppe Sala. Le polemiche erano scoppiate in seguito a una sua foto scattata assieme al predicatore legato ai Fratelli Musulmani kuwaitiani, Tareq Suwaidan, al quale è stato recentemente vietato l’ingresso in Italia poiché dal 2014 sulla blacklist dell’area Schengen e la cui enciclopedia illustrata sugli ebrei è ben più pericolosa del Mein Kampf. Meligy era inoltre apparso anche lui a manifestazioni pro-Fratelli Musulmani egiziani assieme a membri del Caim. Le posizioni islamiste intransigenti di Meligy sono ben note. Nonostante ciò, l’assessore alle politiche sociali, Pierfrancesco Majorino, è stato fotografato in questi giorni assieme a Meligy durante i volantinaggi del PD a favore di Beppe Sala. Meligy che è inoltre amico di Usama Santawy, predicatore noto non soltanto pro-Fratelli Musulmani, ma legato anche a personaggi come Musa Cerantonio, predicatore italo-australiano apologeta dell’Isis. Tutto ciò mentre i principi del Qatar, paese notoriamente legato ai Fratelli Musulmani e accusato di supportare i jihadisti in Siria, venivano in Italia a incontrare il Papa e a inaugurare centri islamici. Nel frattempo a Milano, dal 3 al 5 giugno, veniva ospitato a una conferenza organizzata dalla European Muslim Network, Tariq Ramadan, esponente dell’Islam “europeo” ma anche nipote del fondatore dei Fratelli Musulmani, Hassan al-Banna. Non dimentichiamo che l’organizzazione dei Fratelli Musulmani è stata messa al bando in Russia, Egitto, Siria, Arabia Saudita ed Emirati Arabi mentre in Gran Bretagna Cameron aveva fatto aprire un’inchiesta per avere maggiori informazioni sull’organizzazione. Il braccio palestinese dei Fratelli Musulmani è niente meno che Hamas, che pochi giorni fa festeggiava l’attentato di Tel Aviv offrendo pasticcini agli incroci stradali di Gaza. Vista la delicata situazione internazionale, la presenza di elementi legati all’islamismo politico all’interno del PD andrebbe affrontata con le necessarie cautele. Gli elementi emersi non possono non far riflettere. Il PD milanese a questo punto deve fornire delle risposte immediate ed esaustive al riguardo che vadano oltre il “non sono dei Fratelli Musulmani”, visto che la questione è seria. Del resto essere dei Fratelli Musulmani in Italia non comporta reato, dunque, se non c’è nulla da temere, se non ci sono scheletri nell’armadio perché negare? Vale poi la pena considerare un elemento, musulmani e Fratelli Musulmani non sono sinonimi, dunque inglobare nel PD elementi legati a un’ideologia politica significa discriminare la maggior parte dei musulmani che credono e seguono una religione e non un’ideologia.

Nell'islam che noi tuteliamo non c'è spazio per la libertà. La strage in Florida mostra le nostre contraddizioni: difendiamo coloro che sottometteranno i nostri diritti, scrive Magdi Cristiano Allam, Lunedì 13/06/2016, su "Il Giornale".  Ecco quale sarà la sorte di noi italiani, noi europei, noi occidentali qualora sciaguratamente dovessimo essere sottomessi all'islam. A prescindere dal fatto che Omar Saddiqui Mateen, lo stragista del locale gay Pulse a Orlando, 29 anni, cittadino americano dalla nascita, di origine afghana, fosse o meno organico all'Isis o ad altre sigle del terrorismo islamico, è indubbio che la condanna a morte degli omosessuali corrisponda a ciò che Allah prescrive letteralmente e integralmente nel Corano, a ciò che ha detto e ha fatto Maometto, alla prassi nel corso di 1400 anni di storia dell'islam. A oggi tutti gli Stati islamici, nonostante abbiano formalmente sottoscritto la «Dichiarazione universale dei diritti umani», sanzionano in un modo o nell'altro l'omosessualità come reato, mentre la condanna a morte degli omosessuali è ufficialmente vigente in Iran, Arabia Saudita, Pakistan, Nigeria, Sudan, Somalia e Mauritania. Non è affatto casuale che gli omosessuali siano vittime predilette sia dei terroristi islamici, che li lanciano dai tetti di edifici alti e poi vengono lapidati a morte, sia di Stati islamici che noi occidentali consideriamo addirittura «moderati», che li impiccano ostentatamente nelle pubbliche piazze di fronte alle moschee dopo la preghiera collettiva del venerdì. Succede perché tutti i musulmani sono tenuti a sanzionare il rapporto anale definito «liwat», a prescindere dal sesso di chi lo subisce, dove l'omosessuale è indicato come «luti», dal nome di Lot, nipote di Abramo, che per l'islam è un profeta, salvato da Allah dopo aver distrutto Sodoma e Gomorra. Nel Corano (27, 55-58) si legge: «V'accosterete voi lussuriosamente agli uomini anziché alle donne? Siete certo un popolo ignorante! Ma la sola risposta del suo popolo fu: Scacciate la famiglia di Lot dalla vostra città, poiché son gente che voglion farsi passare per puri. E noi salvammo lui e la sua famiglia, eccetto sua moglie, che stabilimmo dovesse restare fra quelli che rimasero indietro. Su di essi facemmo piovere una pioggia: terribile è la pioggia che piove su chi fu ammonito invano!». Così come a Maometto viene attribuito il detto: «Se scoprite chi commette il peccato del popolo di Lot, uccidete chi lo compie e chi lo subisce». È pertanto paradossale che dentro casa nostra siano proprio i paladini più intransigenti dei diritti dell'uomo e persino gli stessi omosessuali, guarda caso quasi tutti schierati a sinistra, a mobilitarsi per la piena legittimazione dell'islam, per la proliferazione delle moschee e persino per la presenza di tribunali islamici che emettono sentenze sulla base della sharia che, in generale, disconosce i diritti fondamentali alla vita, alla dignità, alla libertà di tutti e, in particolare, condanna a morte gli omosessuali. Un caso emblematico è quello del presidente della Regione della Sicilia Rosario Crocetta, dichiaratamente omosessuale, che sta promuovendo la reislamizzazione della Sicilia, consentendo in particolare all'Arabia Saudita e al Qatar di investire decine di milioni di euro per la costruzione di nuove moschee. All'amico Crocetta ricordo che a oggi può professarsi orgogliosamente omosessuale solo perché per sua fortuna si trova su questa nostra sponda del Mediterraneo, dove vige una civiltà laica e liberale dalle radici cristiane, ma se malauguratamente anche da noi dovesse prevalere l'islam gli omosessuali farebbero la stessa fine delle vittime del locale gay di Orlando. Perché è l'islam che lo prescrive, a prescindere dal fatto se il carnefice è un individuo o uno Stato, un terrorista o un «moderato».

Come ebreo vorrei fosse studiato a scuola. Io vado a comprarne una copia. Mi serve per capire il Male. Proprio perché sono interessato al dramma della Shoah questo libro terribile non può mancare nella mia biblioteca, scrive Giampiero Mughini, Lunedì 13/06/2016, su "Il Giornale". Sto per andare alla mia edicola di viale Trastevere dove assieme alla consueta mazzetta di quotidiani comprerò il Mein Kampf di Adolf Hitler di cui Francesco Perfetti (uno dei migliori storici italiani del moderno) ha curato l'edizione per Il Giornale. No, è pericoloso per chi non ha senso critico. Proprio perché sono visceralmente e drammaticamente interessato alla Shoah in ogni sua sfumatura di storia e di personaggi e di tragedia apicale del Novecento, quel libro non può mancare alla mia biblioteca. Lo metterò nello scaffale che ho dedicato a quell'argomento, il più vicino alla sedia su cui lavoro nel mio studio. Gli staranno accanto il libro dello storico inglese Martin Gilbert sulla reticenza degli Alleati a reagire a quel che sapevano stava succedendo nel campo di Auschwitz e altri; il portentoso libro/intervista in cui Gitta Sereny dialogava con l'ex capo nazi di Treblinka; il libro di Hannah Arendt sul processo Eichmann; il libro einaudiano che pubblicava per intero la relazione d'accusa del procuratore generale israeliano contro Eichman; il libro di Robert Faurisson il capo dei «negazionisti» francesi che avevo comprato nella libreria parigina dove negli anni Sessanta aveva comprato una celeberrima rivista trotzchista su cui avevo fatto la tesi di laurea nel 1970. Accanto al libro forse il più sconvolgente di tutti, L'Album d'Auschwitz, il libro dov'erano le foto che un paio di SS di Auschwitz avevano scattato in tutta tranquillità (alla maniera dei selfie nostrani) a donne e uomini che a vagonate erano appena sbarcati ad Auschwitz e che avevano ancora poche ore di vita. Ne potrei elencare cento altri. Il Mein Kampf non lo avevo, e invece cimelio mostruoso com'è non deve mancare da una biblioteca come la mia. All'epoca in cui apparve e fino al momento in cui il popolo tedesco non inondò di voti Hitler, quel libraccio lo avevano letto in pochissimi. Era reputato lo sproloquio di uno squinternato che si stava facendo un po' di galera per avere tentato un (ridicolo) putsch contro la democrazia di Weimar. L'inumana potenza dei carri armati e dei caccia nazi rese quel programma attuabile. Un programma che in tanti avevano sottovalutato. Se una tale porcata a tal punto dilaga e diventa effettuale, come fai a non conoscerne i tratti? Purtroppo non conosco il tedesco e non sono ricco. Fosse dipeso da me avrei volentierissimo comprato l'esemplare della prima edizione che i bouquinistes della Senna hanno venduto una decina d'anni fa. Come non avere un cimelio dell'orrore di tale stazza? E del resto io da ragazzo li avevo comprati i quattro volumi degli Editori Riuniti con le opere complete di Stalin, altro pontefice dell'orrore assoluto. Un paio d'anni fa mi capitò tra le mani la prima edizione italiana del Mein Kampf, un'edizione Bompiani del 1942. Solo che era in cattive condizioni, e la mia anima da bibliofilo si rifiutò. Se la trovo in buone condizioni la compro subito. Un libro uscito quando erano in molti gli italiani anche colti che flirtavano con l'antisemitismo. Ricordatevi di Guido Piovene che aveva fatto un grande elogio del «razzista» all'italiana Telesio Interlandi (personaggio del resto interessantissimo su cui ho scritto 25 anni fa un libro meritorio). Leggere sapere conoscere capire. Più lo fai e meglio è. E poi vi ricordate la gran polemica se sì o no pubblicare i «comunicati» delle Br pur di fare rilasciare un magistrato che loro avevano rapito? Tutti a dire di no, che non bisognava dar loro una vetrina massmediatica. Si distinse in quell'occasione Riccardo Lombardi, uno dei maestri socialisti della mia giovinezza. Ma certo che vanno pubblicati, scrisse, a far vedere a tutti che razza di cretini e delinquenti sono i brigatisti. Quei loro comunicati e «risoluzioni» mi sono messo adesso a cercarli in antiquariato e a leggermeli a uno a uno. Da far accapponare la pelle a pensare che quegli idioti hanno costituito un allarme per la nostra democrazia. Buona lettura.

Forse stiamo diventando tutti nazisti..., scrive Rocco Buttiglione il 10 giugno 2016 su “Il Dubbio”. È di nuovo in circolazione in Italia l’opera fondamentale di A. Hitler Mein Kampf. Non so se essere contento o preoccupato per il fatto che è stato tolto il bando che dalla fine della seconda guerra mondiale gravava su questo libro. Quanto più si progredisce nella lettura tanto più ci si rende conto di quanto tutti noi siamo impregnati dello spirito del nazionalsocialismo, di quanto le categorie culturali del nostro tempo ricalchino quelle che stanno alla base della ideologia nazionalsocialista. Questa può essere l’occasione di un grande esame di coscienza dell’Europa che ci conduca a rivedere profondamente le categorie culturali con le quali pensiamo noi stessi. Oppure può essere l’occasione per accelerare la regressione nella barbarie che caratterizza tanta parte della cultura nella quale siamo immersi. In un certo senso molti di noi potrebbero scoprire con orrore (o con compiacimento?) che eravamo nazisti e non lo sapevamo. Iniziamo con la filosofia di Hitler. Quali sono i presupposti filosofici del nazionalsocialismo? Per prima cosa incontriamo l’evoluzionismo darwiniano elevato a concezione del mondo. Nella Germania di quegli anni queste idee erano nell’aria, soprattutto per opera di E. Haeckel. È appena il caso di osservare che lo scientismo evoluzionistico è anche una componente fondamentale del modo di pensare comune dei nostri giorni. Naturalmente qui la teoria scientifica di Darwin non c’entra, c’entra il fatto che nella mentalità comune essa si trasforma da scienza (che spiega un certo numero di fenomeni propri della biologia) in metafisica che spiega il mistero dell’essere ed in filosofia sociale che spiega il destino dell’uomo. Ma non è proprio in questo modo che essa viene presentata anche oggi alle grandi masse? Il darwinismo popolare genera, allora come adesso, una certa tenerezza verso gli animali ed un certo disprezzo per gli umani. Se siamo tutti parte di una vita cosmica che perennemente si evolve la differenza qualitativa fra l’uomo e gli animali si perde. Siamo autorizzati a trattare gli uomini come se fossero animali e gli animali come se fossero uomini. Se prendete un filosofo che adesso va molto di moda come Peter Singer ritroverete la stessa tenerezza verso gli animali e la stessa negazione della sacralità della vita umana. Oggi parlar male del darwinismo significa essere additati al pubblico disprezzo come difensori di un creazionismo dogmatico e antiscientifico. Nessuno difende la verità fondamentale contenuta nella vecchia idea di creazione: l’uomo ha una dignità che non è paragonabile a quella degli animali e che nessuno ha il diritto di violare. È proprio l’oblio di questa verità il punto di partenza del pensiero di Hitler. L’altro filosofo di Hitler è Nietzsche. Non voglio negare che Nietzsche sia un pensatore che ha molti lati, anche contraddittori fra di loro, e non voglio rendere Nietzsche responsabile del nazismo. È però indubitabile che Hitler costruisce in larga misura il suo pensiero su di uno dei lati del pensiero di Nietzsche. Non esiste una verità oggettiva a cui l’uomo debba obbedire. L’uomo crea lui stesso l’ordine del mondo a partire dalla propria volontà. Questa volontà, che è volontà di potenza e di vita, abita nell’inconscio della razza ed emerge in un individuo che le dà forma storica: la Guida (il Führer). Non esiste una ragione che conosca una legge morale che precede la volontà ed a cui la volontà si debba piegare. L’unica legge è quella della lotta a morte per l’affermazione di se (del proprio popolo). La ragione non ha il compito di indicare alla volontà i fini che devono guidarla ma quello di organizzare i mezzi che le permettono di sottomettere a se la realtà. I parallelismi con il postmodernismo attuale sono evidenti. Esiste (per il momento) una differenza: il postmodernismo attuale non tematizza il concetto di popolo e di inconscio collettivo ma in qualunque momento potrebbe cominciare a farlo. Comune al nazismo ed al postmodernismo è l’odio della legge che pone un limite alla volontà ed al desiderio. La legge è sempre un inganno che vuole mettere in catene la volontà. L’ebreo è la personificazione della legge mentre la libertà germanica è la sua negazione. Non la legge astratta ma il concreto rapporto di fedeltà che si stabilisce fra il Führer ed i suoi seguaci deve guidare il popolo. Qui c’è posto anche per un cristianesimo deebraicizzato (e deellenizzato) ridotto ad una malcompresa polemica di S. Paolo contro la legge ebraica che ricorda da vicino qualche corrente della teologia contemporanea. Il Cristo germanico abolisce la legge e le oppone il vincolo personale che unisce i discepoli attorno alla sua volontà che dà forma ad un mondo nuovo. Non ci vuole molto per arrivare a vedere nel Führer il continuatore di Gesù che completa la sua opera distruggendo il popolo ebraico. I Cristiani Tedeschi (die Deutschen Christen, corrente teologica protestante) qualche anno dopo la pubblicazione di Mein Kampf, questo passo lo fecero. Dove però emerge tutta la personale (diabolica) genialità di Hitler è nella sua teoria della politica. La teoria politica classica si struttura attorno alla idea di bene comune. Al centro della teoria politica di Hitler c’è l’identificazione del nemico. L’unità del popolo si struttura contro il nemico. Max Scheler (che non era nazista) aveva spiegato in quegli anni che la vita psichica si struttura attorno alle due passioni fondamentali dell’amore e dell’odio ed aveva messo in guardia contro la forza dell’invidia e del risentimento. In ogni società come in ogni individuo singolo esiste un fondo di risentimento che ci si sforza di neutralizzare al fine di rendere possibile un comportamento razionale e civilizzato. Per Hitler l’azione politica deve al contrario mobilitare il risentimento, dargli piena legittimazione, farne la guida dell’azione politica. Per sfruttare in pieno la forza del risentimento bisogna affermare che noi e solo noi siamo il popolo. I nazisti non sono un partito. La parola partito viene per quanto possibile evitata perché evoca la idea di parte e dà l’idea che anche altri partiti possano essere parti legittime del popolo. Meglio usare la parola movimento o, meglio ancora, popolo. I nazisti pretendono di essere la parte sana della nazione. Gli altri, gli oppositori, sono la parte malata che va sradicata e gettata nel fuoco. Con essi non si viene a patti, non si argomenta, non si riconosce loro diritto di parola. Non hanno una dignità umana che vada rispettata. L’unica relazione verso di loro è l’invettiva. Non bisogna preoccuparsi nella polemica politica della verità delle cose. Un’unica fondamentale verità sovrasta tutte le altre e le riassorbe in se stessa: il nemico è il nemico e deve morire. Non so se Grillo abbia letto Mein Kampf. Tendo a pensare di no. Se non lo ha letto allora ne ha riscoperto da solo i principi. Per la politica del risentimento il problema non è realizzare il bene comune ma distruggere l’avversario. Sarebbe ingeneroso però vedere in Grillo l’unico discepolo di Hitler nel nostro tempo. Sempre più il linguaggio e l’argomentazione politica si vanno strutturando intorno all’odio verso il nemico piuttosto che intorno alla proposta in positivo di un bene comune. Il tema è sempre: mandiamo a casa Renzi oppure mandiamo in galera Berlusconi. Per quale motivo, se a torto o a ragione, sulla base di quali argomenti e per fare poi che cosa sono considerazioni alle quali non si attribuisce alcuna importanza. Come libro Mein Kampf funziona. Ricorda l’opera di Wagner. Wagner anche lui ha molti lati e uno di questi lati certamente è stato usato da Hitler. L’opera d Wagner mette in scena archetipi fondamentali dello spirito umano, forze potenti che albergano nell’inconscio di ciascuno di noi. Il criterio di verità dell’opera è interno alla soggettività umana, nei personaggi e nella tensione fra di essi rivediamo noi stessi. Avviene la stessa cosa anche in Shakespeare. Pensate per un attimo al Mercante di Venezia ed al personaggio di Shylock, l’ebreo. Lo sentiamo vero e lo odiamo e lo disprezziamo per la sua crudeltà (e anche lo compiangiamo perché Shakespeare ci fa intuire che la sua malvagità è la conseguenza di sofferenze ed ingiustizie che egli stesso ha subito). Odiamo e disprezziamo in lui parti interne di noi stessi ma... Immaginate se rivolgessimo i sentimenti che il dramma suscita in noi non contro il nostro Shylock interno ma contro gli ebrei realmente esistenti trasformando la verità interna dell’opera d’arte in verità politica. Hitler proietta il male fuori di noi nel nemico e ci invita poi a distruggere il male distruggendo il nemico. La sua narrazione è coinvolgente sul piano della rappresentazione artistica ma diventa demoniaca se proiettata sulla realtà. È stato W. Benjamin a vedere nella “estetizzazione” della politica una delle caratteristiche fondamentali del nazismo. Anche qui è evidente la parentela con quello che sta accadendo sotto i nostri occhi. Gli stili si mescolano, il cabaret diventa politica, non vi sono più limiti all’iperbole, ciò che io sento vero (senza nessuna prova empirica) lo metto in scena come se fosse vero e la gente si perde in questa realtà virtuale fino a smarrire la capacità di valutare la situazione e le proposte politiche sul piano della realtà. Come ultima riflessione vorrei consegnare ai lettori un dubbio: non è che per caso siamo (o stiamo diventando) tutti nazisti senza saperlo?  

Siamo di fronte al libero pensiero unificato.

Tutto ciò è avvalorato da quanto scrive su “Il Giornale” Alessandro Gnocchi. Wikipedia come Mao: fa censura per cercare di riscrivere la storia. La popolare enciclopedia on line cancella gli interventi degli utenti che non si attengono alla "linea politica". «L’egemonia culturale è un concetto che descrive il dominio culturale di un gruppo o di una classe che “sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo”». La definizione, con ampia citazione di Gramsci, è prelevata da Wikipedia, l’enciclopedia on line ormai egemone nel fornire informazioni a navigatori, studenti, giornalisti e perfino studiosi. Nel mondo di Wikipedia le gerarchie sono quasi inesistenti. Chiunque può contribuire a creare o modificare una voce. La garanzia dell’accuratezza poggia su una doppia convinzione: il sapere collettivo è superiore a quello individuale; la quantità, superata una certa soglia di informazioni, si trasforma in qualità. Molto discutibile, e non solo in linea di principio. Infatti in Wikipedia esiste un problema di manipolazione del consenso, in altre parole è attivo un «sistema di controllo» simil-gramsciano (in sedicesimo, si intende). Le posizioni faziose passano quindi per neutrali, e il collaboratore che obietta può andare incontro a sanzioni che vanno dalla sospensione alla radiazione. Di recente, ad esempio, è stato espulso Emanuele Mastrangelo, caporedattore di Storiainrete.com, sito specialistico, e autore di alcuni studi sul fascismo. La pena «all’utente problematico» è stata comminata, dopo processo non troppo regolare, per un «reato» d’opinione gravissimo: aver affermato che in Italia la fine della Seconda guerra mondiale assunse anche il carattere di una «guerra civile». Opinione, quest’ultima, largamente maggioritaria tra gli storici di ogni orientamento, salvo forse quelli che hanno ancora il mitragliatore del nonno sepolto in giardino. «Guerra civile», per Wikipedia.it, non merita neppure una voce a sé: l’espressione è citata di passaggio all’interno di «Resistenza». Stesso trattamento è riservato alle forze armate che rifiutarono di aderire alla Rsi, facendosi deportare dai tedeschi: un accenno e via. Quanto alle «esecuzioni post conflitto» operate dai partigiani, si sfiora il giustificazionismo. Il paragrafo è preceduto da una imparzialissima (si fa per dire) dichiarazione di Ermanno Gorrieri, sociologo attivo nella Resistenza: «I fascisti non hanno titolo per fare le vittime». E accompagnato da una precisazione imparzialissima (si fa per dire) di Luciano Lama: «Nessuno vuole giustificare i delitti del dopoguerra. Prima di giudicare però si deve sapere cosa accadde davvero. Una guerra qualunque può forse finire con il “cessate il fuoco”. Quella no». Ecco, questo si può dire, è super partes al contrario di «guerra civile», definizione «non enciclopedica» solo per caso usata da una tonnellata o due di studiosi e scrittori di sinistra da Pavone a Pansa. Di conseguenza, dopo qualche giorno di discussione on line, arriva la sentenza: «A un utente che è stato bloccato sei mesi e non ha ancora compreso che la comunità non tollera atteggiamenti di questo tipo, è il momento di dire basta. Con tanto dispiacere, ci mancherebbe, né ho “corda e sapone pronta da lunga pezza”». In effetti l’impiccagione sarebbe stato troppo anche per un revisionista come Mastrangelo. «Pertanto - prosegue il giudice - procedo a bloccare per un periodo infinito l’utente». Al di là di questo caso personale, sono parecchie le voci contestate per una certa parzialità. Da quella sulla malga di Porzûs (dove nel febbraio 1945 i partigiani comunisti massacrarono quelli cattolici dell’Osoppo) a quella sull’attentato di via Rasella, che i wikipediani preferiscono chiamare «attacco», piena di lacune, a esempio sulle polemiche scatenate dall’azione gappista anche all’interno del Pci e degli altri partiti del Comitato di Liberazione a Roma. Oggetto di accese discussioni anche Cefalonia, Pio XII, l’Olocausto, la religione cattolica in generale. Anche in voci meno calde come quelle inerenti il liberalismo, il libero mercato, il neoliberismo emerge nettamente una visione assai orientata contro il capitalismo. Nella voce dedicata all’economista Milton Friedman si legge addirittura un giudizio morale: «Pur ricordando che né Milton Friedman né José Piñera sono stati coinvolti con le torture ed i crimini commessi dal governo Pinochet, la loro correità morale non viene per questo diminuita di fronte alla gravità dei crimini commessi contro l’umanità». Non si direbbe una valutazione «enciclopedica». Il sapere «democratico» di Wikipedia sembra un aggiornamento digitale del maoismo.

Wikipedia «blocca» la Raggi: non ha rilevanza se non è eletta. Secondo le regole, i candidati hanno diritto ad una pagina solo se diventano sindaci, scrive Emanuele Buzzi l’11 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Volete consultare la pagina Wikipedia dedicata a Virginia Raggi? Allora qualche nozione di spagnolo, russo o tedesco potrebbe essere fondamentale. Infatti non esiste una voce italiana sulla candidata Cinque Stelle al Campidoglio. Un paradosso del web, contando che Raggi si è conquistata la ribalta sulla stampa di mezzo mondo: dalla Cina alla Russia, dagli Stati Uniti alla Francia. Molti altri candidati, invece, anche di città di molto meno popolose, sono presenti sulla enciclopedia web. Compreso Roberto Giachetti. Sulla Rete c’è chi ha protestato, parlando di «chiara violazione della par condicio e della libertà di informazione» e chiedendo la pubblicazione di una pagina apposita. «Se ne riparla eventualmente dopo il ballottaggio, a seconda del risultato — hanno replicato gli amministratori —. Prima, no. Per inciso: Wikipedia è una enciclopedia e non un servizio giornalistico e in quanto tale non è soggetta alla par condicio». E proprio dai paletti fissati dalla comunità che dà vita alle voci di Wikipedia nasce il paradosso che riguarda Raggi. «Le regole sulla presenza di esponenti politici su Wikipedia risalgono addirittura al 2008, quando l’enciclopedia cominciò a essere famosa e quindi c’era chi voleva sfruttarla a fini elettorali — spiega Maurizio Codogno, wikipediano di lunga data —. La comunità scelse di limitarsi a parlamentari nazionali e sindaci dei capoluoghi di provincia, pensando che i candidati sindaco non avessero rilevanza prima di venire eventualmente eletti. Dopo il 2013, con i casi di Pizzarotti a Parma e Accorinti a Messina, si fece una nuova discussione, ma il consenso finale fu di non cambiare le regole». In altre parole, per ora, Raggi non è politicamente rilevante secondo le norme vigenti per avere una propria pagina. E come lei anche, per citare altri casi, Lucia Borgonzoni (al ballottaggio a Bologna) o Chiara Appendino (a Torino). Lo scopo della comunità è duplice: evitare che la pagina dei candidati venga strumentalizzata durante la campagna elettorale.

Salvatore Aranzulla cancellato da Wikipedia. E lui replica: «Rosiconi». La cancellazione della voce sul noto blogger di informatica dall'enciclopedia online ha scatenato un dibattito e diviso la Rete sulle ragioni che portano alla rimozione, scrive Raffaella Cagnazzo l’11 giugno 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un caso che ha aperto una discussione online, ma non solo. La voce Wikipedia su Salvatore Aranzulla è stata cancellata. Una citazione che riguarda uno dei divulgatori di consigli di informatica più conosciuti del web: il suo sito internet è tra i trenta più visitati d’Italia con oltre 400mila visite al giorno, su Facebook ha più di 340.000 follower, un fatturato che supera il milione di euro e chi cerca suggerimenti online su computer, internet e telefonia, difficilmente non si è imbattuto in un suo post. Cosa è successo. «Amici cari, vi dico solo che concorrenti di bassa lega e rosiconi stanno proponendo l’eliminazione della mia voce da Wikipedia» scriveva il 23 maggio scorso Aranzulla sulla sua pagina Facebook. E dopo una lunga discussione sulla piattaforma, la cancellazione è avvenuta. L'accusa mossa ad Aranzulla è di non essere un divulgatore scientifico, in sostanza i detrattori del blogger ritengono non risponda ai criteri di enciclopedicità necessari per essere presente sulla pagina di Wikipedia. Una delle tre ragioni che possono portare alla cancellazione di una voce dalla piattaforma di divulgazione in Rete (le altre sono la forma con cui è scritta una voce e il contenuto quando utile più al soggetto citato che ad un'informazione generale). Per la piattaforma di Wikipedia poco importa che il blogger sia una celebrità online, abbia scritto libri e sia considerato un esperto tanto da essere stato invitato più volte come ospite qualificato in trasmissioni nazionali. La replica di Aranzulla. «Abbiamo fatto scoppiare una bomba: più di 300.000 persone sono venute a conoscenza della cancellazione della mia pagina da Wikipedia. Ho ricevuto migliaia di messaggi di sostegno e centinaia di discussioni sono state avviate e sono in corso in Rete: da Facebook a Twitter, da Reddit a Linkedin. La comunità italiana di Wikipedia è di parte e il mio non è un caso isolato» commenta Aranzulla, spiegando che anche la pagina di Virginia Raggi, al ballottaggio per la poltrona di sindaco di Roma, è stata cancellata. La cancellazione, com'era inevitabile, ha scatenato un dibattito tra chi è un fervido sostenitore del blogger e lo considera un Guru del Web chi, invece, lo accusa di non avere competenze specifiche e di non aver mai programmato. Ma la questione sconfina oltre il singolo caso di Salvatore Aranzulla e apre una disputa sulla scelta delle voci attive su Wikipedia, le cui regole e linee guida sono state stabilite prima del 2004, e dove sono presenti le voci su tronisti di Uomini e Donne, Veline, e più in generale vari personaggi appartenenti alla cultura popolare. Chi è il blogger Aranzulla. Dal suo blog, Salvatore Aranzulla si definisce un divulgatore informatico, con più di 15.000 copie di libri venduti, autore del sito Aranzulla.it, uno dei 30 più visitati in Italia. Offre indicazioni pratiche con post in cui spiega «Come trasformare un Pdf in Jpg» o «Come filmare lo schermo del Pc», «Come cancellare la cronologia di Google» o ancora «Come connettersi ad una rete wireless»: argomenti di uso comune con cui, chi usa la tecnologia, si confronta tutti i giorni.

Wikipedia e la censura su Antonio Giangrande, le sue opere e le sue attività, scrive “Oggi” il 19 luglio 2012. Wikipedia, secondo la presentazione contenuta sulla sua home page web, è un’enciclopedia online, collaborativa e gratuita. Disponibile in 280 lingue, Wikipedia affronta sia gli argomenti tipici delle enciclopedie tradizionali sia quelli presenti in almanacchi, dizionari geografici e pubblicazioni specialistiche. Wikipedia, a suo dire, è liberamente modificabile: chiunque può contribuire alle voci esistenti o crearne di nuove. Ogni contenuto è pubblicato sotto licenza Creative Commons CC BY-SA e può pertanto essere copiato e riutilizzato adottando la medesima licenza. La comunità di Wikipedia in lingua italiana è composta da 771.190 utenti registrati, dei quali 8.511 hanno contribuito con almeno una modifica nell’ultimo mese e 105 hanno un ruolo di servizio. Gli utenti costituiscono una comunità collaborativa, in cui tutti i membri, grazie anche ai progetti tematici e ai rispettivi luoghi di discussione, coordinano i propri sforzi nella redazione delle voci. Quello che non si dice di Wikipedia, però, è che, pur lagnandosi essa stessa del pericolo della censura, i suoi utenti con ruolo di servizio svolgono proprio un’attività censoria. Non tutti i contenuti inseriti, nuovi o di rettifica, sono pubblicati sulla cosiddetta enciclopedia libera. Wikipedia ha una serie di regole e di linee guida per la pubblicazione, ma poi ti accorgi che sono puri accorgimenti per censurare contenuti e personaggi non aggradi all’utente di turno con mansioni di servizio. Censura dovuta ad ignoranza o mala fede. Un esempio: provate a cercare Antonio Giangrande pur avendo 200 mila risultati sui motori di ricerca (siti web che parlano di lui), o cercate i suoi 100 libri, o Associazione Contro Tutte le Mafie. Non troverete nessuna pagina a loro dedicata, e si potrebbe capire non reputandoli degni di attenzione, ma non troverete anche alcun riferimento a contenuti attinenti ed esistenti ed inclusi in altre pagine. Per esempio, alla voce mafia tra le associazioni antimafia non vi è l’Associazione Contro Tutte le Mafie. Addirittura hanno tolto il riferimento bibliografico al libro con il titolo “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese”, scritto da Antonio Giangrande e da tempo inserito alla pagina “Il Delitto di Avetrana”. Ognuno, comunque, può verificare da sé con i propri contenuti. Alla fine ti accorgi che, mancando alcune opere, fatti, personaggi o contenuti nuovi o di rettifica, dovuti al fatto perché vi è impedimento al loro inserimento, Wikipedia proprio un’enciclopedia libera non è.

E poi c'è la massa di frustrati. Il 9 giugno 2016 mi trovo sulla mia pagina Facebook la richiesta di amicizia di un tipo insignificante a da me ignorato. Attingo le sue informazioni: libero pensatore (?) di Milano e con pochi amici. Confermo la richiesta. Facebook lo impedisce. Cerco di eliminarla, idem. Dopo un paio di giorni vedo citato il mio nome a sua firma in un blog sconosciuto. E leggo quanto su di me racconta. Il tipo, sicuramente, lo fa con un certo astio, non avendo letto alcun mio libro. Oppure, avendo letto quello su Milano, ne sia rimasto risentito.  “Lenzuolate. Cercando informazioni sul sempreverde Paglia, al secolo Giancarlo Pagliarini mi sono imbattuto in codesto personaggio, tal Antonio Giangrande. Uno che le mitiche lenzoluate di Uriel Fanelli sono termini delle elementari. Un grafomane assoluto come non ne avevo mai visti. Nu tipo tutto d’un pezzo. Uno che tiene ‘na caterva di siti. Insomma una specie di professionista della neNuNZia civil/penale. Uno che – parole sue: Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate. Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d’informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l’uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. Gli ingredienti del complottista ci sono tutti:

è convinto che gli altri lo taccino di mitomania, calunnie o pazzie (oh, por ninin)

si ritiene ingiustamente maltrattato (oh, pora stela)

ritiene di essere perseguitato per la sua azione “meritoria”. Infatti:

i media lo censurano (oh, por ninin)

le istituzioni lo perseguitano (oh, pora stela)

ma chicca delle chicche, questa missione superiore oh, poffartopo,

gli impedisce di lavorare!

Dico, ma quello che fa a casa mia si chiama “giornalismo”. Tant’è vero che vende i suoi libri su Amazon, su Google libri, e perfino su Lulu o su Create Space. È talmente preso dal bisogno morboso e patologico di scrivere, di dire al mondo che è tutto un’ingiustizia che non si rende nemmeno conto che forse a strillare così come un ossesso sembra davvero fuori di cotenna. Poi capisco la foga di dire al mondo la notizia. Ma diamine scrive come se parlasse alla radio! E ne sà, ma quante ne sà. In lungo e in largo, su ogni tema e su ogni zona di codesto infame paese E son tutti cattivi con lui: non lo sfiora neanche per un attimo che forse è proprio il suo atteggiamento che lo rende poco credibile. Ma no, lui ci ha la CiuSDiZia nelle vene.

Giusto per non farsi mancare niente, leggete come si descrive – in inglese:

THE ASSOCIATION AGAINST ALL THE MAFIAS

INTRODUCES

THE RELATION OF THE JUSTICE IN ITALY

President: Antonio Giangrande been born in Avetrana in the 2nd June 1963.

Professions: entrepreneur, private investigator, lawyer.

he emigrated in Germany when he had 16 years, because he was poor.

today, in Italy, for the threats and the attacks of the Mafia, he is unemployed.

today, in Italy, for the irregular examinations, he is unemployed.

The President with the degree is unemployed.

His wife is unemployed.

His son with the 2 degrees is unemployed.

His daughter with the diploma is unemployed.

They are unemployed because they fight the Mafia.

The judges do not punish the Mafia.

In Italy the environment is polluted;

In Italy the administrators publics do not respect the law;

In Italy the insurance agencies do not respect the law;

In Italy the lawyers do not respect the law;

In Italy the banks do not respect the law;

In Italy all the examinations are irregular, wins who is more cunning.

In Italy the authorities ignore the disabled, the prisoner, the unemployed, the poor people.

In Italy the judges do not respect the law;

In Italy the police does not respect the law;

In Italy the authority does not respect the law;

In Italy the authority misuses its power.

In Italy the authority says to the citizen: you undergo and be quiet!

The Italian citizen is silent.

You can translate the complete relation. It is in Italian.

Nessuno è onesto, son tutti disonesti, farabutti ecceterì ecceterà. Ma se è così un campione di superiore intelligenza….. perché non è andato all’estero a far faville? Mistero….Personalmente io sono una mezza sega, ma almeno sò di esserlo… codesto è il genio dei farlocchi incompresi. O meglio, sembra esserne convinto…”.

Non aspiro al consenso assoluto, comunque grazie per la pubblicità. Oscar Wilde diceva “Bene o male, purchè se ne parli…” Il detto «Nel bene o nel male, purché se ne parli» (e simili) parafrasa un brano de Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde (1890): “... ma attirare l'attenzione delle persone su di te ha due risvolti: il primo è che se non sei indifferente ad esse, e che quindi parlano, anche male, di te, vuol dire che comunque esisti; ma quando a parlare male di te sono persone disperate, derise dal resto del mondo e che passeranno su di esso senza lasciare alcuna traccia, allora è proprio triste...E ancora, se l'unica cosa che meriterebbero queste "persone" sarebbe un Oscar, se ne esistesse uno per la capacità di fingere, per la falsità con cui gestiscono i rapporti anche tra loro, allora è ancora più triste. Il mio errore più grande è stato quello di adeguarmi a frequentare "esseri" i cui neuroni sono pochi e purtroppo anche stanchi... e per adeguarmi intendo dire che ho accettato i loro limiti intellettivi, umani, culturali e sono passato sopra alle cose anche gravi che hanno fatto... così, perchè ho deciso di adottare la filosofia secondo la quale tutti siamo diversi... per intelletto, umanità e cultura... E quando mi sono sentito chiedere: "Come fai a stare con certa gente?" ho risposto che le persone è necessario conoscerle prima di giudicarle. Il problema è che io mi faccio conoscere come sono, ma spesso mi illudo di conoscere chi mi sta intorno. Forse sottovaluto ciò di cui possono essere capaci...Non avevo idea di come potesse essere cattiva la gente, o meglio, non pensavo di poterlo provare sulla pelle, di essere io l'oggetto della cattiveria di qualcuno/a... e mentre mettevo in guardia le persone a cui tengo di più, non mi accorgevo che dovevo stare anche io in guardia....La cosa che questi esseri (scusate ma non so proprio come definirli) non capiscono è che mentre cercano di rovinare la tua reputazione, dispensando giudizi negativi e gratuiti su di te, non si accorgono che la loro è già compromessa, o forse sono solo consapevoli che se si concentrano sui tuoi difetti non vedono i propri... Tu comunque non vieni intaccato, perchè ciò che dicono rimane nel loro piccolo mondo di cacca che si sono costruiti, e fuori da quel mondo di cacca tu sei apprezzato e rispettato, intrecci rapporti lavorativi, sociali, interagisci con persone diverse, mentre loro suscitano ilarità, disprezzo o peggio ancora indifferenza...Ecco perchè dopo tutto ciò non sono deluso, o triste, ma provo solo pietà... perchè io so, e sapevo, di tutta questa ilarità, disprezzo e indifferenza... la leggevo negli occhi di quelle stesse persone alle quali oggi gli esseri dispensano giudizi negativi e gratuiti su di me...Che falsità, che ipocrisia...Finchè nella tua vita non fai niente di "speciale", niente che possa suscitare l'invidia delle persone, passi inosservato, e nessuno si sente in diritto di giudicarti... ma quando eccelli in qualcosa, quando volente o nolente "ti fai notare" allora sei fottuto... e cosa ancora più grave proprio da chi ti diceva - Ma come sei bravo, diventerai un bravo ing., ecc.! . Giuda almeno ci ha guadagnato 30 denari con un bacio...L'importante è avere la stima delle persone a cui tieni di più: la tua famiglia, gli Amici veri, e perchè no, la gente con cui lavori... ma soprattutto il tuo orgoglio, il resto è niente... un tassello da aggiungere ad un puzzle, un pezzo che vorresti perdere ma che comunque fa parte del quadro, e senza mancherebbe sempre qualcosa, ci sarebbe un vuoto. Ben vengano le critiche allora, gli sguardi invidiosi, le maldicenze... sono prove a cui la vita ci sottopone, e ne usciamo più forti. Ci sono due tipi di "invidia": quella "malata", che porta molti a credere che per avere successo bisogna affondare chi è meglio o credi sia meglio di te, e quella "sana" che porta a migliorarti, perchè sai che tu puoi essere meglio di come sei ... che ti stimola a perfezionarti, perchè è così che si ottiene il successo. Purtroppo, come la gramigna, la prima è più diffusa, è insita nella natura umana, e propria di chi non vuole far fatica a mettere a prova sè stesso... è più facile distruggere chi rappresenta una minaccia...Rappresento una minaccia per qualcuno? non so, può darsi. Suscito invidia? Forse... ma non penso che qualcuno riesca a distruggermi.”

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

L'UGUAGLIANZA E L’INVIDIA SOCIALE.

Frasi, citazioni e aforismi sull’uguaglianza. Pubblicato da Fabrizio Caramagna.

Nasciamo uguali, ma l’uguaglianza cessa dopo cinque minuti: dipende dalla ruvidezza del panno in cui siamo avvolti, dal colore della stanza in cui ci mettono, dalla qualità del latte che beviamo e dalla gentilezza della donna che ci prende in braccio. (Joseph Mankiewicz)

Tutti gli uomini nascono uguali, però è l’ultima volta in cui lo sono. (Abraham Lincoln)

Ognuno è impastato nella stessa pasta ma non cotto nello stesso forno. (Proverbio Yiddish)

Dovunque sono uomini, sono diversità di opinioni, disparità di sentimenti, differenza di umori, tali e tante variazioni temporanee o permanenti, che il consenso perfetto è impossibile, non dico fra tutti o fra molti, ma fra pochi, fra due. (Federico De Roberto)

Equa distribuzione della ricchezza non significa che tutti noi dovremmo essere milionari – significa solo che nessuno dovrebbe morire di fame. (Dodinsky)

L’uguaglianza sarà forse un diritto, ma nessuna potenza umana saprà convertirlo in un fatto. (Honoré de Balzac)

È falso che l’uguaglianza sia una legge di natura: la natura non ha fatto nulla di eguale. La sua legge sovrana è la subordinazione e la dipendenza. (Marchese di Vauvenargues)

L’uguaglianza consiste nel ritenerci uguali a coloro che stanno al di sopra di noi, e superiori a coloro che stanno al di sotto. (Adrien Decourcelle)

Egalitarista. Il genere di riformatore politico e sociale interessato a fare scendere gli altri al proprio livello più che a sollevarsi a quello degli altri. (Ambrose Bierce)

In America tutti sono dell’opinione che non ci sono classi sociali superiori, dal momento che tutti gli uomini sono uguali, ma nessuno accetta che non ci siano classi sociali inferiori, perché, dai tempi di Jefferson in poi, la dottrina che tutti gli uomini sono uguali vale solo verso l’alto, non verso il basso. (Bertrand Russell)

Ci sono due dichiarazioni sugli esseri umani che sono vere: che tutti gli esseri umani sono uguali, e che tutti sono differenti. Su questi due fatti è fondata l’intera saggezza umana. (Mark Van Doren)

Davanti a Dio siamo tutti ugualmente saggi… e ugualmente sciocchi. (Albert Einstein)

Perché noi non siamo né al di sopra né al di sotto del resto: tutto quello che è sotto il cielo è sottoposto a una stessa legge e a una stessa sorte… Le anime degli imperatori e dei ciabattini sono fatte su uno stesso stampo. (Michel De Montaigne)

L’uguaglianza deve essere quella delle opportunità, non può essere ovviamente quella dei risultati. (John Dryden)

Ho letto tempo fa che nel futuro gli uomini saranno tutti uguali. Ugualmente ricchi o ugualmente poveri? (Zarko Petan)

Gli uomini sono nati uguali ma sono anche nati diversi. (Erich Fromm)

La figlia del re, giocando con una delle sue cameriere, le guardò la mano, e dopo avervi contato le dita esclamò: “Come! Anche voi avete cinque dita come me?!”. E le ricontò per sincerarsene. (Nicolas Chamfort)

Noi sosteniamo che queste verità sono per sé evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali; che sono dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra i quali sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini i governi, che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che, ogni qualvolta una forma di governo diventi perniciosa a questi fini, è nel diritto del popolo di modificarla o di abolirla. (Thomas Jefferson, Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America)

“Libertè, Egalitè, Fraternitè”. (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, 1795)

Tutta la società diventerà un unico ufficio e un’unica fabbrica con uguale lavoro e paga uguale. (Vladimir Lenin)

Il vizio inerente al capitalismo è la divisione ineguale dei beni; la virtù inerente al socialismo è l’uguale condivisione della miseria. (Sir Winston Churchill)

Allo stato naturale… tutti gli uomini nascono uguali, ma non possono continuare in questa uguaglianza. La società gliela fa perdere, ed essi la recuperano solo con la protezione della legge. (Montesquieu)

La prima uguaglianza è l’equità. (Victor Hugo)

L’uguaglianza ha un organo: l’istruzione gratuita e obbligatoria. (Victor Hugo)

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. (Costituzione della Repubblica Italiana, Art. 3, 1947)

Nessuno vi può dare la libertà. Nessuno vi può dare l’uguaglianza o la giustizia. Se siete uomini, prendetevela. (Malcolm X).

Finché c’è una classe inferiore io vi appartengo, finché c’è una classe criminale io vi appartengo, finché c’è un’anima in prigione io non sono libero. (Eugene V. Debs)

Le lacrime di un uomo rosso, giallo, nero, marrone o bianco sono tutti uguali. (Martin H. Fischer)

C’è qualcosa di sbagliato quando l’onestà porta uno straccio, e la furfanteria una veste; quando il debole mangia una crosta, mentre l’infame pasteggia nei banchetti. (Robert Ingersoll)

L’uguaglianza non esiste fin a quando ciascuno non produce secondo le sue forze e consuma secondo i suoi bisogno. (Louis Blanc)

Amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. E’ un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. (Martin Luther King)

Vivere nel mondo di oggi ed essere contro l’uguaglianza per motivi di razza o colore è come vivere in Alaska ed essere contro la neve. (William Faulkner)

Fino a quando la giustizia non sarà cieca al colore, fino a quando l’istruzione non sarà inconsapevole della razza, fino a quando l’opportunità non sarà indifferente al colore della pelle degli uomini, l’emancipazione sarà un proclama ma non un fatto. (Lyndon B. Johnson)

Un uomo non può tenere un altro uomo nel fango senza restare nel fango con lui. (Booker T. Washington)

Viviamo in un sistema che sposa il merito, l’uguaglianza e la parità di condizioni, ma esalta quelli con la ricchezza, il potere, e la celebrità, in qualunque modo l’abbiano guadagnato. (Derrick A. Bell)

Se le malattie e le sofferenze non fanno distinzione tra ricchi e poveri, perché dovremmo farlo noi? (Sathya Sai Baba)

Se ci pungete non diamo sangue, noi? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? (William Shakespeare)

Guardo i volti delle persone che lottano per la propria vita, e non vedo estranei. (Robert Brault)

Qualunque certezza tu abbia stai sicuro di questo: che tu sei terribilmente come gli altri. (James Russell Lowell)

Lo stesso Dio che ha creato Rembrandt ha creato te, ed agli occhi di Dio tu sei prezioso come Rembrandt o come chiunque altro.” (Zig Ziglar)

È bello quando due esseri uguali si uniscono, ma che un uomo grande innalzi a sé chi è inferiore a lui, è divino. (Friedrich Hölderlin)

Se ti sedessi su una nuvola non vedresti la linea di confine tra una nazione e l’altra, né la linea di divisione tra una fattoria e l’altra. Peccato che tu non possa sedere su una nuvola. (Khalil Gibran)

Il sole splende per tutti. (Proverbio latino)

La pioggia non cade su un tetto solo. (Proverbio africano)

In quanto uomini, siamo tutti uguali di fronte alla morte. (Publilio Siro)

La morte è questo: la completa uguaglianza degli ineguali. (Vladimir Jankélévitch)

Nella vita si prova a insegnare che siamo tutti uguali, ma solo la morte riesce ad insegnarlo davvero. (Anonimo)

Nella democrazia dei morti tutti gli uomini sono finalmente uguali. Non vi è né rango né posizione né prerogativa nella repubblica della tomba. (John James Ingalls).

Finito il gioco, il re e il pedone tornano nella stessa scatola. (Proverbio Italiano).

L’uguale distribuzione della ricchezza dovrebbe consistere nel fatto che nessun cittadino sia tanto ricco da poter comprare un altro, e nessuno tanto povero che abbia necessità di vendersi. (Armand Trousseau)

L’amore, è l’ideale dell’uguaglianza. (George Sand)

L’amore pretende di parificare, ma il denaro riesce a differenziare. (Aldo Busi)

Noi che siamo liberali e progressisti sappiamo che i poveri sono uguali a noi in tutti i sensi, tranne quello di essere uguali a noi. (Lionel Trilling)

La saggezza dell’uomo non ha ancora escogitato un sistema di tassazione che possa operare con perfetta uguaglianza. (Andrew Jackson)

Nessun uomo è al di sopra della legge, e nessuno è al di sotto di esso. (Theodore Roosevelt)

Siamo tutti uguali davanti alla legge, ma non davanti a coloro che devono applicarla. (Stanislaw Jerzy Lec)

La maestosa uguaglianza delle leggi proibisce ai ricchi come ai poveri di dormire sotto i ponti, di mendicare per strada e di rubare il pane. (Anatole France)

Perché in Italia la stupenda frase “La Giustizia è uguale per tutti” è scritta alle spalle dei magistrati? (Giulio Andreotti)

La scuola dava peso a chi non ne aveva, faceva uguaglianza. Non aboliva la miseria, però tra le sue mura permetteva il pari. Il dispari cominciava fuori. (Erri De Luca)

Qui vige l’eguaglianza. Non conta un cazzo nessuno!” (Dal film Full metal jacket)

Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri. (George Orwell)

Per realizzare una democrazia compiuta occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto. Non posso guidare un aeroplano appellandomi al principio di uguaglianza: devo prima superare un esame di volo. Perché quindi il voto, attività non meno affascinante e pericolosa, dovrebbe essere sottratta a un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione? (Massimo Gramellini)

La via dell’uguaglianza si percorre solo in discesa: all’altezza dei somari è facilissimo instaurarla. (Conte di Rivarol)

La parità e l’uguaglianza non esistono né possono esistere. E’ una menzogna che possiamo essere tutti uguali; si deve dare a ognuno il posto che gli compete. (Pancho Villa)

Fu un uomo saggio colui che disse che non vi è più grande ineguaglianza di un uguale trattamento di diseguali. (Felix Frankfurter)

Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali. (Lorenzo Milani)

Quella secondo la quale tutti gli uomini sono eguali è un’affermazione alla quale, in tempi ordinari, nessun essere umano sano di mente ha mai dato il suo assenso. (Aldous Huxley)

L’uguaglianza è una regola che non ha che delle eccezioni. (Ernest Jaubert)

Nell’incredibile moltitudine che potrebbe venir fuori da una sola coppia umana, che disuguaglianze e varietà! Vi si trovano grandi e piccoli, biondi e bruni, belli e brutti, deboli e forti. Tutto vi figura: il peggiore e l’eccellente, la tara e il genio, la mostruosità in alto e quella in basso. Dall’unione di due individui, tutto può nascere. Punto di congiunzione da cui non si deve sperare tutto e temere tutto. La coppia più banale è gravida di tutta l’umanità. (Jean Rostand)

Anche tra egualitari fanatici il più breve incontro ristabilisce le disuguaglianze umane. (Nicolás Gómez Dávila)

Io non ho rispetto per la passione dell’uguaglianza, che a me sembra una semplice invidia idealizzata. (Oliver Wendell Holmes Jr)

Il significato della parola uguaglianza non deve essere “omologazione”. (Anonimo)

Sì, c’è qualcosa in cui noi ci assomigliamo: tu e io ci crediamo differenti in modo uguale. (Jordi Doce)

Le donne che cercano di essere uguali agli uomini mancano di ambizione. (Timothy Leary)

Assistere l’autodeterminazione del popolo sulla base della massima uguaglianza possibile e mantenere la libertà, senza la minima interferenza di qualsivoglia potere, neppure provvisorio. (Michail Bakunin)

L’uguaglianza non può regnare che livellando le libertà, diseguali per natura. (Charles Maurras)

I legislatori o rivoluzionari che promettono insieme uguaglianza e libertà sono o esaltati o ciarlatani. (Goethe)

Quando sicurezza e uguaglianza sono in conflitto, non bisogna esitare un momento: l’uguaglianza va sacrificata. (Jeremy Bentham)

Una società che mette l’uguaglianza davanti libertà otterrà né l’una né l’altra. Una società che mette la libertà davanti all’uguaglianza avrà un buon livello di entrambe. (Milton Friedman)

Libertà, Uguaglianza, Fraternità – come arrivare ai verbi? (Stanislaw Jerzy Lec)

“Libertà, Fraternità, Uguaglianza”, d’accordo. Ma perchè non aggiungervi “Tolleranza, Intelligenza, Conoscenza?” (Laurent Gouze)

Dicesi problema sociale la necessità di trovare un equilibrio tra l’evidente uguaglianza degli uomini e la loro evidente disuguaglianza. (Nicolás Gómez Dávila)

Credo nell’uguaglianza. Gli uomini calvi dovrebbero sposare donne calve. (Fiona Pitt-Kethley)

Nel mondo contemporaneo l’unico posto dove si realizza la perfetta uguaglianza è nel traffico. (Fragmentarius)

Nella troppa disuguaglianza delle fortune, egualmente che nella perfetta eguaglianza, l’annua riproduzione si restringe al puro necessario, e l’industria s’annienta, poiché il popolo cade nel letargo. (Pietro Verri)

Se ciò che io dico risuona in te, è semplicemente perché siamo entrambi rami di uno stesso albero. (William Butler Yeats)

Chiunque può fuggire nel sonno, siamo tutti geni quando sogniamo, il macellaio e il poeta sono uguali là. (EM Cioran)

Io amo la notte perché di notte tutti i colori sono uguali e io sono uguale agli altri…(Bob Marley)

Il mio diritto di uomo è anche il diritto di un altro; ed è mio dovere garantire che lo eserciti. (Thomas Paine)

Chi vede tutti gli esseri nel suo stesso Sé, ed il suo Sé in tutti gli esseri, perde ogni paura. (Isa Upanishad)

«Fu il sangue mio d’invidia sì riarso

che se veduto avesse uomo farsi lieto,

visto m’avresti di livore sparso.

(Dante Alighieri, Purgatorio, XIV, vv.82-84)

L’invidia sociale, scrive Francesco Colonna, su ”Facci un salto”. Si sono impiegati molti decenni per sradicare il tratto fondamentale del marxismo, cioè la lotta di classe. Gli argomenti contrari a quel principio si riassumono in un concetto semplice: la collaborazione è più efficace della lotta. Permette di costruire di più, di fare più cose, di redistribuire meglio non solo i soldi, ma le competenze e la giustizia. Gli argomenti a favore invece erano e sono quella di una divergenza di interessi che si concilia male con l’idea di giustizia sociale. Non importa qui dibattere il tema. Quel che conta è quell’idea non circola più, e infatti nessuno ne parla e nessuno la usa per sostenere le proprie tesi. Di conseguenza, la logica sarebbe questa, tutto dovrebbe essere più tranquillo, una società più conciliante, meno aggressiva, più disposta alla collaborazione, nella quale i problemi si risolvono in modo pacifico e ragionato. E invece a quella ideologia (giusta o sbagliata che fosse non importa) si è sostituito non un pensiero o una filosofia nuovi ma un sentimento: l’invidia, alla quale si può aggiungere l’aggettivo “sociale”. L’invidia nelle sue forme più comuni si riferisce alla cose, invidia per ciò che non ho e altri hanno. Invece nella nostra società fatta di immagine e comunicazione (parole che sembrano sempre sottintendere una falsità o almeno una irrealtà) l’invidia è rivolta all’essere, ai modelli di successo, di fama o di notorietà. E questa invidia prende tante forme: dalla ostilità alla imitazione. E, per capire bene cosa significhi e comporti, basta guardare alla etimologia: invidere in latino vuol dire guardare storto, guardare in modo non corretto. Cioè l’invidia impedisce di vedere giusto e quindi di capire. Ed è trasversale, colpisce ovunque. Mentre la lotta di classe comunque dava una identità, una appartenenza, l’invidia sociale disgrega, atomizza la lotta, relegandola nell’intimo, pur esibendosi poi come ricerca di giustizia sociale. Difficile che in questa luce si possa trovare una strada comune, al massimo si cercano nemici, veri o presunti. Una caccia nella quale brillano il sospetto, la vendetta, il complotto, il pregiudizio. E con questo carico sulla coscienza diviene difficile ragionare e scegliere bene il tipo di società nel quale vivere.

 Monti, Bersani, Vendola e Cgil: il club della patrimoniale. La tentazione di patrimoniale è sempre più forte: Bersani ne vuole una light, Vendola punta alle rendite finanziarie, la Cgil sogna una stangata da 40 miliardi, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. E, adesso, patrimoniale. La spinta è forte. In piena campagna elettorale, la tentazione di fare una tentazione extra sui grandi patrimoni sembra impossessarsi trasversalmente sui leader di molti partiti. Il primo a proporla è stata Mario Monti che, nella sua agenda, l'ha inserita (senza farsi troppi problemi) per riuscire a ridurre la pressione fiscale, a partire dal "carico fiscale gravante su lavoro e impresa". In men che non si dica, una schiera di amanti delle tasse hanno subito fatto propria la smania di andare a mettere le mani sui risparmi degli italiani. "I ricchi devono andare all'inferno". Sebbene si riferisse al Gerard Depardieu che, per l'eccessiva tassazione, ha deciso di lasciare la Francia e accogliere il passaporto russo offertogli da Vladimir Putin, l'imprecazione lanciata da Nichi Vendola dà una chiara idea della crociata che, in caso di vittoria alle politiche, la sinistra condurrà contro i beni degli italiani. Dove potrà, razzolerà per far cassa e appianare i debiti di una macchina statale che fagocita tutti i soldi che vengono versati nell'erario pubblico. Nel giorni scorsi, in una intervista a Radio24, il leader del Sel aveva poi spiegato che, quando sarà al governo, andrà a "stanare" la ricchezza che deriva dalle rendite finanziarie. "Se si immagina che quella finanziaria del Paese è stimata in 4mila miliardi di euro e che viceversa meno di mille persone dichiarano nella denuncia dei redditi più di un milione di euro all'anno di reddito, siamo di fronte a una ricchezza largamente imboscata - ha spiegato Vendola - la tassazione alle transazioni finanziarie e sugli attivi finanziari non è una proposta bolscevica". Nascondendosi dietro alla ragione economica tesa alla ricostruzione del Paese, il governatore della Puglia sembra muoversi solo per una ragione di invidia sociale. Il primo a parlare di patrimoniale è stato, però, il Professore. Nell'agenda presentata a dicembre, Monti ha spiegato che è possibile tagliare le tasse a scapito di altri cespiti: "Il carico corrispondente va trasferito su grandi patrimoni e sui consumi che non impattano sui più deboli e sul ceto medio". Si legga: patrimoniale e appesantimento dell’Iva sui be­ni di lusso. Insomma, al premier uscente sembra non bastare l'aver introdotto l'Imu che, è già di per sé, una patrimoniale sull'abitazione. E, su questo punto, si trova in perfetta sintonia con Pierluigi Bersani che ieri sera, negli studi di Ballarò, ha spiegato chiaramente che l’imu non è una patrimoniale "abbastanza progressiva" per i suoi gusti. "Nel prossimo anno non saremo in condizione di ridurre le entrate dell’imu ma potremmo fare un riequilibrio caricando sui possessori di grandi patrimoni immobiliari - ha spiegato il segretario del Partito democratico - a fronte di una detrazione del 5% dobbiamo caricare con un’imposta personale sui detentori di grandi patrimoni immobiliari dal valore catastale di 1,5 milioni di euro". La segreteria di via del Nazareno, modificando leggermente i propositi iniziali vagamente massimalisti, ha fatto balenare una patrimoniale light da applicare agli immobili oltre il milione e mezzo di valore catastale. Lo staff di Bersani ha, invece, specificato che si tratterebbe di circa tre milioni a prezzi reali. Al suo fianco si è subito schierato anche Antonio Ingroia che ha già annunciato di voler togliere l'Imu perché la ritiene "un peso insopportabile e intollerabile". Il progetto del leader di Rivoluzione civile è rendere "il sistema economico più equo" mettendo "una patrimoniale sui redditi più alti e sui patrimoni più consistenti". Il sindacato di Susanna Camusso, che garantisce un’area elettorale decisiva per il Pd, ha preparato una piano fiscale che presenterà a Roma il 25 e 26 gennaio. Piano che fa impallidire gli slogan anti ricchi di Vendola: la Cgil punta, infatti, a reperire 40 miliardi di euro all'anno dalla patrimoniale, 20 miliardi dalla "ristrutturazione della spesa pubblica", 10 miliardi dal riordino dei finanziamenti alle imprese e 10 miliardi dai fondi dell'Unione europea. Gli 80 miliardi rastrellati verrebbero destinati, ogni anno, al lavoro (creazione di nuovi posti, sostegno dell’occupazione e nuova riforma del mercato del lavoro), al welfare e alla "restituzione fiscale" attraverso il taglio della prima aliquota dal 23 al 20% e della terza dal 38 al 36%. Progetto che senza la patrimoniale da 40 miliardi non sta in piedi.

Ci volevate uguali? Ora sim tutti poveri, scrive Mimmo Dato su "L'Intraprendente". In questo nostro bel paese, mio caro Mictel o come ti chiami, abbiamo avuto imponenti correnti d’ispirazione populista, con orientamenti internazionali con sguardo alla sovietizzazione ed al marxismo, forse un po’ radicalizzanti ma certo, a loro dire, pacifisti. Insomma tutta gente all’opposizione che ha vissuto una vita a gridare quanto fosse giusto eliminare le diseguaglianze economiche e ridistribuire le ricchezze, per ovvio sempre prodotte dagli altri e mai da loro; che bisognava aumentare le spese dello Stato per attuare queste pseudo misure egualitarie. Insomma tutti questi contro tutti quelli che non ponevano quale obiettivo principe la massimizzazione dell’uguaglianza. Poi il sogno in Italia si avvera e i governi a marchio populista, pacifista, egualitario si succedono a raffica pur senza che nessuno li elegga ma la Costituzione non viene infranta per questo, per i comunisti il voto non serve, ed eccoci all’oggi, tutti poveri uguale. Tutte le decisioni per la sopravvivenza del paese sono state omesse come qualunque sistema libero e democratico farebbe, tasse da record mondiale, caccia alle streghe, si è omesso di rafforzare le forze di difesa e di cercare le alleanze a garanzia internazionale. Quindi tutte le decisioni sono tendenti alla massimizzazione dell’uguaglianza in povertà contro quelle tese a garantire l’indipendenza e la sopravvivenza del sistema economico e democratico, si legga la nuova legge elettorale che dovrebbe esser varata. Ma allora, caro Mictel, ti chiederai chi erano e chi sono i veri potenti? Forse i ceti abbienti che sostenevano gruppi di maggioranza senza aver avuto, per loro frazionamento ed opportunismo, la capacità di arrestare forme populiste egualitarie o questi ultimi che hanno preso il potere da anni e stanno perseguendo opzioni politiche da disastro, spesa pubblica e disoccupazione al cielo? Vedi Mictel se tu mi fai la domanda, e non me la fai, su come la penso credo che oggi esistano due gruppi di pensatori, quelli che non vogliono l’uguaglianza nemmeno come valore e quelli che pensano che sia comunque impossibile. A questo punto, inutili e terra di conquista, che ci compri la Russia o la Cina. Eppoi il tuo nome sembra americano e mi dici esser cinese. Come ho fatto a non capirlo quando sei sceso da quel macchinone di lusso?

Altro che tutti uguali. Meglio tutti più ricchi. Frankfurt: ridurre le differenze di reddito non è un ideale morale. Il problema è invece che troppi sono poveri, scrive Harry G. Frankfurt Martedì 27/10/2015 su "Il Giornale". In un recente discorso sullo stato dell'Unione, il presidente Barack Obama ha dichiarato che la disuguaglianza di reddito è «la sfida che definisce la nostra epoca». A me sembra, invece, che la sfida fondamentale per noi non sia costituita dal fatto che i redditi degli americani sono ampiamente disuguali, ma dal fatto che troppe persone sono povere. Dopo tutto, la disuguaglianza di reddito potrebbe essere drasticamente eliminata stabilendo semplicemente che tutti i redditi devono essere ugualmente al di sotto della soglia di povertà. Inutile dire che un simile modo di ottenere l'uguaglianza dei redditi - rendendo tutti ugualmente poveri - presenta ben poche attrattive. Eliminare le disuguaglianze di reddito non può quindi costituire, di per sé, il nostro obiettivo fondamentale. Accanto alla diffusione della povertà, un altro aspetto dell'attuale malessere economico è il fatto che, mentre molte persone hanno troppo poco, ce ne sono altre che hanno troppo. È incontestabile che i molto ricchi abbiano ben più di ciò di cui hanno bisogno per condurre una vita attiva, produttiva e confortevole. Prelevando dalla ricchezza economica della nazione più di quanto occorra loro per vivere bene, le persone eccessivamente ricche peccano di una sorta d'ingordigia economica, che ricorda la voracità di chi trangugia più cibo di quanto richiesto sia dal suo benessere nutrizionale sia da un livello soddisfacente di godimento gastronomico. Tralasciando gli effetti psicologicamente e moralmente nocivi sulle vite degli stessi golosi, l'ingordigia economica offre uno spettacolo ridicolo e disgustoso. Se lo accostiamo allo spettacolo opposto di una ragguardevole classe di persone che vivono in condizioni di grande povertà economica, e che perciò sono più o meno impotenti, l'impressione generale prodotta dal nostro assetto economico risulta insieme ripugnante e moralmente offensiva. Concentrarsi sulla disuguaglianza, che in sé non è riprovevole, significa fraintendere la sfida reale che abbiamo davanti. Il nostro focus di fondo dovrebbe essere quello di ridurre sia la povertà sia l'eccessiva ricchezza. Questo, naturalmente, può benissimo comportare una riduzione della disuguaglianza, ma di per sé la riduzione della disuguaglianza non può costituire la nostra ambizione primaria. L'uguaglianza economica non è un ideale moralmente prioritario. Il principale obiettivo dei nostri sforzi deve essere quello di rimediare ai difetti di una società in cui molti hanno troppo poco, mentre altri hanno le comodità e il potere che si accompagnano al possedere più del necessario. Coloro che si trovano in una condizione molto privilegiata godono di un vantaggio enorme rispetto ai meno abbienti, un vantaggio che possono avere la tendenza a sfruttare per esercitare un'indebita influenza sui processi elettorali o normativi. Gli effetti potenzialmente antidemocratici di questo vantaggio vanno di conseguenza affrontati attraverso leggi e regolamenti finalizzati a proteggere tali processi da distorsioni e abusi. L'egualitarismo economico, secondo la mia interpretazione, è la dottrina per cui è desiderabile che tutti abbiano le stesse quantità di reddito e di ricchezza (in breve, di «denaro»). Quasi nessuno negherebbe che ci sono situazioni in cui ha senso discostarsi da questo criterio generale: per esempio, quando bisogna offrire la possibilità di guadagnare compensi eccezionali per assumere lavoratori con capacità estremamente richieste ma rare. Tuttavia, molte persone, pur essendo pronte a riconoscere che qualche disuguaglianza è lecita, credono che l'uguaglianza economica abbia in sé un importante valore morale e affermano che i tentativi di avvicinarsi all'ideale egualitario dovrebbero godere di una netta priorità. Secondo me, si tratta di un errore. L'uguaglianza economica non è di per sé moralmente importante e, allo stesso modo, la disuguaglianza economica non è in sé moralmente riprovevole. Da un punto di vista morale, non è importante che tutti abbiano lo stesso, ma che ciascuno abbia abbastanza. Se tutti avessero abbastanza denaro, non dovrebbe suscitare alcuna particolare preoccupazione o curiosità che certe persone abbiano più denaro di altri. Chiamerò questa alternativa all'egualitarismo «dottrina della sufficienza», vale a dire la dottrina secondo cui ciò che è moralmente importante, con riferimento al denaro, è che ciascuno ne abbia abbastanza. Naturalmente, il fatto che l'uguaglianza economica non sia di per sé un ideale sociale moralmente cogente non è una ragione per considerarla un obiettivo insignificante o inopportuno in qualsiasi contesto. L'uguaglianza economica può avere infatti un importante valore politico e sociale e possono esserci ottime ragioni per affrontare i problemi legati alla distribuzione del denaro secondo uno standard egualitario. Perciò, a volte, può avere senso concentrarsi direttamente sul tentativo di aumentare l'ampiezza dell'uguaglianza economica piuttosto che sul tentativo di controllare fino a che punto ognuno abbia abbastanza denaro. Anche se l'uguaglianza economica, in sé e per sé, non è importante, impegnarsi ad attuare una politica economica egualitaria potrebbe rivelarsi indispensabile per promuovere la realizzazione di vari obiettivi auspicabili in ambito sociale e politico. Potrebbe inoltre risultare che l'approccio più praticabile per raggiungere la sufficienza economica universale consista, in effetti, nel perseguire l'uguaglianza. E ovviamente, il fatto che l'uguaglianza economica non sia un bene in sé lascia comunque aperta la possibilità che abbia un valore strumentale come condizione necessaria per ottenere beni che posseggono, questi sì, un valore intrinseco. Pertanto, una distribuzione di denaro più egualitaria non sarebbe sicuramente criticabile. Tuttavia, l'errore assai diffuso di credere che esistano potenti ragioni morali per preoccuparsi dell'uguaglianza economica in quanto tale è tutt'altro che innocuo. Anzi, a dir la verità, tende a essere una credenza piuttosto dannosa. (2015 Princeton University Press2015 Ugo Guanda Editore Srl)

BERLINGUERISMO. I MITI DELLA SINISTRA.

Enrico Berlinguer, l'ultimo leader. Enrico Berlinguer nacque a Sassari il 25 maggio del 1922 figlio di Mario Berlinguer, un avvocato repubblicano, antifascista e vicino alla massoneria, come molti intellettuali laici dell'epoca, discendente da una nobile famiglia catalana stabilitasi in Sardegna all'epoca della dominazione aragonese, e di Maria Loriga. La famiglia portava i titoli nobiliari di Cavaliere, Nobile, con trattamento di Don e di Donna per concessione il 29 marzo 1777 a Giovanni e Angelo Ignazio da Vittorio Amedeo III Re di Sardegna. Nel dopoguerra, Mario Berlinguer fu parlamentare socialista. Enrico crebbe quindi in un ambiente culturalmente assai evoluto (il nonno, suo omonimo, era stato il fondatore del giornale La Nuova Sardegna, e aveva avuto contatti con Garibaldi e Mazzini) ed ebbe occasione di profittare di relazioni familiari e politiche che influenzarono notevolmente la sua ideologia e la carriera politica successiva. Era parente di Francesco Cossiga (le rispettive madri erano cugine tra loro) – che fu presidente della Repubblica – ed entrambi erano parenti di Antonio Segni, anch'egli Capo di Stato. Condotti gli studi liceali classici presso il Liceo Azuni di Sassari, nel 1943 Berlinguer si iscrisse al Partito Comunista Italiano e ne organizzò la sezione sassarese, svolgendo un'intensa attività di propaganda. Nel gennaio del 1944 la fame spinse la popolazione a saccheggiare i forni della città e Berlinguer fu accusato di esserne stato uno degli istigatori. Fu quindi arrestato e trattenuto in carcere per tre mesi, dopo i quali fu prosciolto dalle accuse e liberato.

Berlinguerismo: un misto di filosofia da oratorio e di marxismo in caricatura, scrive Ishmael su “Italia Oggi”. 2014. Sono passati trent'anni dalla morte d'Enrico Berlinguer, quasi altrettanti dalla caduta del Muro di Berlino, ma l'ideologia berlingueriana, un misto di filosofia da oratorio e di marxismo in caricatura, continua a pesare sulla sinistra italiana come un incubo: la «diversità», la «questione morale», il «nuovo modello di sviluppo» e soprattutto l'incapacità «di pensare la democrazia nella sua realtà politica, affrancandosi dal mito comunista e togliattiano della democrazia progressiva», come scrive Claudia Mancina — ex comunista, deputata diesse negli anni novanta — nel suo nuovo libro, Berlinguer in questione (Laterza 2014, pp. 136, 12,00 euro, ebook 7,99 euro). Come tutti i leader del comunismo italiano, anche Berlinguer, l'ultimo dei grandi segretari generali, partecipava di due nature: la fedeltà al «campo socialista» e l'istinto politico di conservazione, che gli faceva preferire l'ovest all'est, la Nato all'Armata rossa, la democrazia parlamentare alla democrazia popolare. Ma «agli occhi dei comunisti», scrive sempre Mancina, «la democrazia vera non è quella formale ma quella sostanziale», una democrazia «che consiste nella mobilitazione delle masse, nel potere dei lavoratori nel luogo di lavoro, dei sindacati sulla politica economica, o perfino degli studenti nell'università o dei genitori nella scuola». Berlinguer, ai suoi tempi, stabilì con accenti pasoliniani che «l'Italia non avrebbe seguito le banali strade delle democrazie occidentali, nelle quali c'è alternanza di governo e a volte vince la destra, altre la sinistra. Troppo poco per questo paese così speciale, il paese del più grande partito comunista d'Occidente! A noi toccava invece superare il capitalismo e portare a maturazione piena la democrazia, cioè realizzare la mitica democrazia sostanziale». Caduto il Muro di Berlino, passata Tangentopoli, con Berlusconi sugli altari, «i postcomunisti non hanno fatto che oscillare tra ipotesi di riforma elettorale e costituzionale e difesa acritica della costituzione, fino alla favola della costituzione più bella del mondo». Quanto all'eredità berlingueriana, invece di restare patrimonio dei solo ex e post e vetero comunisti, è diventata patrimonio collettivo, come i mezzi di produzione socializzati della favola marxista. «Per la sua deriva moralistica», l'intervista sulla questione morale di Berlinguer «è oggi un testo sacro per gli antipolitici». È grazie a Berlinguer e al suo marxismo bacchettone che «ancora oggi si pensa che l'intransigenza sia una politica».

Le grandi firme di ieri e di oggi per raccontare il segretario del Pci. "L'Espresso" ha scelto di celebrarlo, a trent'anni dalla morte con un libro impostato su un doppio registro: una riflessione attuale e la riproposizione degli articoli a lui dedicati negli anni della sua segreteria, dal 1972 al 1984, scrive Loredana Bartoletti su “L’Espresso”. Berlinguer come se fosse appena successo. A trent'anni dalla morte, l'ultimo grande leader del Partito comunista è tornato di attualità sulla ribalta politica. Evocato dai palchi dei comizi elettorali per solleticare consensi in suo nome, celebrato con film, documentari, libri e ricordi vari. Certo c'è un anniversario importante - trent'anni appunto da quell'11 giugno 1984 - ma c'è anche l'omaggio, il rispetto e quasi la nostalgia per un politico che appare diverso dal panorama cui ci siamo abituati, quasi un alieno nella sua severità di tratto e di comportamento e in più un contemporaneo per quelle parole d'ordine, come la questione morale, che a decenni di distanza non hanno ancora trovato una risposta. Il ricordo di un politico diventato icona può però tendere a idealizzare, a semplificare, a minimizzare le difficoltà e gli ostacoli che quel leader e il suo progetto hanno dovuto affrontare. Anche per questo "l'Espresso" ha scelto di celebrare Berlinguer con un libro impostato su un doppio registro: una riflessione attuale e la riproposizione degli articoli dedicati al capo di Botteghe Oscure proprio negli anni della sua segreteria, dal 1972 al 1984. Nel volume si alternano così le grandi firme del nostro settimanale, quelle di oggi e quelle di ieri. I bilanci e i giudizi su Berlinguer che la distanza di tempo consente di tracciare con maggiore lucidità e le cronache dirette del suo agire politico, dove emergono i tormenti di Botteghe Oscure, i "processi" che il leader subì da parte dei suoi, il lungo scontro con Bettino Craxi, i colpi inferti dal terrorismo, il tormentato rapporto con l'Urss... Insomma la complessità dell'azione di un grande leader. Ma la lettura di quegli articoli di decenni fa consente anche di riflettere sul modo di fare informazione politica di allora. In parte diversa, più stretta al succedersi degli eventi che non ai retroscena, e in parte anticipatrice di modelli poi ampiamente copiati: curiosa, irriverente, capace di disegnare legami e collegamenti inediti. Molto "Espresso", se è consentito dirlo. Il libro "Berlinguer", che sarà dal 6 giugno nelle edicole, è aperto da un’introduzione del direttore dell’”Espresso”, Bruno Manfellotto che riflette sul "politico perbene", poi una intervista di Denise Pardo a Eugenio Scalfari, in cui il grande giornalista ripercorre la carriere politica di Berlinguer, commenta gli eventi di quegli anni ma racconta anche il rapporto personale che ebbe con il leader di Botteghe Oscure. Questione morale, compromesso storico ed eredità politica: Eugenio Scalfari parla del segretario del Pci. L'intervista di Denise Pardo. Poi Chiara Valentini ricostruisce gli anni giovanili di Berlinguer, dal primo arresto in Sardegna all’incontro con Togliatti fino alla scalata al vertice del partito. Quindi Paolo Franchi analizza la strategia del compromesso storico mentre Marco Damilano firma un intervento sull’eredità politica di Berlinguer. L’ampia sezione centrale del libro è poi dedicata agli articoli di ieri, con una carrellata di grandi pezzi e grandi firme tra cui Livio Zanetti, Nello Ajello, Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca, Gianni Corbi, Paolo Mieli, Lucio Colletti, Ernesto Galli della Loggia, Giampaolo Pansa. A chiudere una sezione “pop”, con le copertine che il settimanale ha dedicata a Berlinguer e una trentina di straordinarie tavole di Pericoli e Pirella, tutte con il leader politico come protagonista, più un quiz divertito e divertente su Berlinguer, apparso nel 1972 sull’”Espresso colore”.

San Berlinguer martire e apostolo. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. Serve a nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. San Berlinguer, il Terzo Santo. Dopo i film, i libri, gli inserti, ora un largo Berlinguer al centro di Roma e la canonizzazione proclamata da Napolitano in un libro-intervista, Quando c'era Berlinguer, curato da Veltroni. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. A cosa serve? A nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano. A rianimare un partito spaesato. A cercare nel vintage un titolo di nobiltà. A rifarsi le labbra col silicone moralista. A lanciare qualcuno per il Quirinale. Berlinguer non aveva la statura di Togliatti e, quanto a svolte, fu più ardito Occhetto, seppur col favore dei muri crollati. Berlinguer era modesto, per lunghi anni allineato anche ai più sordidi eventi, mestamente comunista, non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto, considerò il Partito come l'Assoluto. Fu una persona onesta, per bene, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo con relativa agiografia? In realtà, tramite la copiosa apologetica su di lui, si vuol celebrare il popolo di sinistra. Berlinguer è un pretesto narrativo per santificare gli eredi. L'industria del santino che abbina il leader del Pci a Papa Francesco (Scalfari dixit) è all'opera. Rischiamo un pantheon di fuffa, tra finti eroi e finti geni, finti grand'uomini e palloni gonfiati, sfornati dalla Ditta Tarocco che produce falsi d'autore. Il P.C. oggi si traduce con Politically Correct. Finite le sciagurate illusioni, la sinistra passò all'illusionismo.

La beatificazione di Berlinguer sempre fedele a Stalin, scrive Mario Cervi su “Il Giornale”. Un supplemento di 100 pagine dell'Unità, convegni e dibattiti, o fervidi elogi del mondo politico, gli applausi dei grillini: per i trent'anni dalla morte di Enrico Berlinguer il ricordo prende i connotati della venerazione se non della santificazione laica. Omaggi più che meritati se si riferiscono all'uomo. Che fu onesto, intelligente, riservato in un mondo di ciarlatani, gran lavoratore. Per dirlo in sintesi una persona per bene. Il culto per lui di chi ha nostalgia dal Partito (...) (...) comunista italiano e alimenta ancora speranze in fulgide sorti progressive della sinistra è non solo giustificato ma doveroso. Perché riguarda chi fu comunista nell'essenza e in tutte le implicazioni del termine. E lo restò sfidando i fatti e le e delusioni con la tenacia indomabile dei credenti. Gian Carlo Pajetta disse, con il sarcasmo d'obbligo, che «si iscrisse giovanissimo alla direzione del Pci». Lasciando con questo intendere che il ragazzo di buona famiglia borghese fosse stato agevolato nello scalare la Nomenklatura delle Botteghe Oscure. Un raccomandato. In effetti l'ascesa di Berlinguer ai vertici comunisti ebbe l'avallo di Palmiro Togliatti che ai compagni altolocati indirizzò un biglietto così concepito: «Questo è il compagno Berlinguer che viene dalla Sardegna. Utilizzatelo nella vostra organizzazione». In verità, pur con l'iniziale e potente spinta di Ercoli, la successione di Togliatti e di Longo gli spettava di diritto: per le sue qualità e per la sua ortodossia ideologica. Alla valanga di articoli di questi giorni ne aggiungo uno mio. Con l'ambizione di non voler offendere una memoria, ma anche di non aggiungermi ai gloria imperversanti. Il primo incarico di gran rilievo del ragazzo sardo fu la guida della Federazione giovanile comunista italiana. Il che gli dava accesso ai sommi uffici, compreso quello del sommo tra i sommi, il Migliore. Al rispetto delle gerarchie ci teneva molto. Gli era stato assegnato un segretario particolare, Mario Pirani, (ora editorialista di Repubblica), e s'era accorto che Pirani sfogliava prima di lui la mazzetta dei quotidiani. «Dice con piglio da dirigente - cito dalla biografia di Chiara Valentini - che il primo a sfogliarli vuole essere lui». Non era incline all'ironia e nemmeno alle confidenze. Aveva da poco compiuto i 24 anni - attingo di nuovo al saggio citato - quando andò per la prima volta in Unione Sovietica con una delegazione di giovani partigiani. Rimase estasiato. Ripeteva in ogni discorso che «la gioventù sovietica felice canta nelle piazze la sua canzone preferita, Com'è bello vivere nel Paese dei Soviet». Ammirava sconfinatamente Stalin che ebbe la fortuna - almeno lui la ritenne tale - di incontrare. Togliatti era il Maestro: da lui aveva mutuato il vezzo d'indirizzare bigliettini in inchiostro verde ai collaboratori. Alla fine del viaggio russo fece firmare dalla delegazione un documento unitario che esaltava le conquiste e le libertà dello stalinismo. Al ritorno a Roma ci fu chi ebbe l'audacia di chiedergli qualcosa sulle donne russe, su come si vestivano, su come si truccavano. La risposta può essere collocata nella casistica del fanatismo quasi delirante. «Nel Paese del socialismo le donne non hanno bisogno di nessun orpello per attrarre gli uomini. In Urss non ci sono donne. Ci sono compagne sovietiche». Sciocchezze d'un ventenne, si dirà. Invece quel ventenne non era per niente sciocco, era un apparatchik inflessibile che nella sostanza rimase tale fino all'ultimo, quando un malore lo uccise e Sandro Pertini presidente della Repubblica, tanto si agitò da dare l'impressione che protagonista del funerale fosse lui. Ebbe anche nell'abbigliamento e nel linguaggio tratti da asceta. In un suo volumetto Dietro la vetrina a Botteghe oscure, il vecchio militante Fidia Gambetti, messo a dirigere la biblioteca di Rinascita a Roma, così scrisse: «Da Bologna ritorna vincitore Berlinguer, unico e naturale successore di Togliatti e di Longo. Con il suo aspetto sofferente di sempre, più piegato che mai sotto gli sfuggenti colli del soprabito e della giacca. Se dovessi dare un giudizio non potrei che rispondere non lo conosco. Non ha mai messo piede in libreria. Il primo a comparire è il grande sconfitto, Napolitano, sereno e signore come sempre». Ho indugiato su questi aspetti marginali della vita di Berlinguer non per sminuirlo ma per collocarlo sul podio che gli spetta e che a mio avviso è quello d'un conformista preparato e anche illuminato, non quello degli innovatori. Fu preso a rimorchio dai cambiamenti, talvolta rassegnandosi a malincuore. Anche gli strappi che gli sono valsi inni d'ammirazione erano tutto sommato prudenti e inevitabili. Non si rese mai conto del baratro verso il quale il comunismo si stava avviando, o se si rese conto lo tenne per sé. Ha scritto Alfredo Reichlin nell'inserto dell'Unità: «È vero, noi non fummo liberaldemocratici. Non avevamo letto i libri dei politologi americani e a Botteghe Oscure del modello Westminster non si parlava». Concesso. Ma la straordinaria vittoria del capitalismo sul comunismo che già era nell'aria non derivava dalla genialità dei politologi, derivava dal disastro di un'utopia tirannica. Berlinguer non sarebbe stato un tiranno. Probabilmente dei tiranni in cui aveva fiducia sarebbe stato vittima. Dopo averli osannati. A Berlinguer viene accreditato l'aver posto la «questione morale». Credo fosse sincero nel metterla sul tappeto. Credo anche che con la sua condotta privata si sia dimostrato degno della battaglia contro la corruzione. Non lo fu come massimo dirigente del Pci foraggiato e mantenuto dall'Urss. Personalmente accredito a Enrico Berlinguer, senza distinguo, la scelta della fermezza dopo il sequestro di Aldo Moro e la strage della sua scorta. La scelta arrivò dopo un lungo flirtare del Pci con le frange eversive della sinistra. Ma fu una scelta decisa. Molti anche oggi spiegano che il negoziato con i terroristi assassini sarebbe stato la via migliore per salvare la vita del leader democristiano. Io ritengo che una trattativa svolta ignorando il sacrificio di cinque servitori dello Stato sarebbe stata ignobile.

Berlinguer, anatomia di una sconfitta. Il libro di Claudia Mancina analizza la criticamente l'attività del leader di Botteghe Oscure, scrive “Europa Quotidiano”. Claudia Mancina ha vissuto dall’interno i travagli del Pci e cerca in questo veloce ma denso volumetto (Berlinguer in questione, edito da Laterza, 2014) di sviluppare un bilancio critico molto argomentato della leadership di Enrico Berlinguer. Ne esce fuori un ritratto molto simile, quasi identico, a quello delle memorie sull’Italia dell’ex-ambasciatore francese Gilles Martinet, inviato a Roma nel 1981. Berlinguer appare «più umano, più autentico, più comunicativo» di Palmiro Togliatti, al punto che ciò «lo rese accetto anche a chi non avrebbe mai votato comunista», essendo peraltro alla guida di un partito che dopo il dissenso sulla Cecoslovacchia aveva espanso i suoi consensi nei ceti medi urbani, specie giovanili. Eppure, se quelle erano le premesse personali, il bilancio strettamente politico è quello di una sconfitta: al di là delle diverse strategie (dal compromesso storico alla regressione neo-identitaria successiva) Berlinguer elude l’unica possibile opzione, quella della trasformazione esplicita in una moderna forza inserita nel socialismo europeo, ossia dentro l’orizzonte dell’economia di mercato. Volendo mantenere un riferimento rivoluzionario (anche se i contenuti con cui esso si identifica si modificano, dall’ammirazione per l’Urss si passa a una sorta di diversità etica, di ripulsa morale per la società dei consumi lontana dall’apertura modernizzante del marxismo) ma al contempo anche delineare una prospettiva credibile di accesso al governo, la soluzione consiste nell’idea di farsi legittimare da un sistema di alleanze. Come, nonostante le differenze e gli accenti, la elude la prospettiva “comunista e riformista” rivendicata ancora qualche mese fa da Emanuele Macaluso nel suo ultimo libro, in alternativa all’opposta ricostruzione di Enrico Morando. In questo senso è la storia politica del Pci, come sostengono Mancina e Morando, ad essere tramontata come tale nel segno della sconfitta, al di là delle energie che essa ha liberato dopo quella sconfitta. Da qui il rapido declino che si manifesta subito dopo la sua scomparsa, che lascia in eredità il referendum sulla scala mobile, voluto non per ragioni di contenuto ma per difendere il potere di veto del proprio partito. Un’impostazione che si riflette sulle questioni elettorali e istituzionali dove paradossalmente un partito di sinistra, che dovrebbe essere in astratto preoccupato di garantire forza ai governi per riequilibrare le disuguaglianze sociali, finisce per difendere a lungo regole iper-garantistiche varate nel periodo della frattura verticale della Guerra fredda. Anche il Pci, insieme alle forze di maggioranza, contribuisce quindi attivamente all’esito catastrofico del primo sistema di partiti, che nel suo insieme, come nota Pietro Scoppola richiamato da Mancina, non riesce a uscire da quella sorta di grande coalizione anomala che era la solidarietà nazionale per giungere ad una fisiologica democrazia dell’alternanza europea, come avrebbe voluto Aldo Moro. Alla fine Mancina ci propone un paradosso: la personalità politica che più ha insistito per una continuità ideale con alcuni aspetti di Berlinguer, Walter Veltroni, è quella che si è più battuta per una trasformazione post-ideologica, per un nuovo centrosinistra a vocazione maggioritaria che non avesse bisogno di protesi centriste; viceversa la persona più critica con Berlinguer in nome di una visione realistica della politica, D’Alema, rivendicando orgogliosamente la continuità con la storia del Pci ha poi sempre voluto alleati centristi per accedere al governo. Alla fine, però, la mutazione molto netta del centrosinistra è arrivata, dando ragione alla frase di Aldo Moro che Mancina premette: «Perché qualcosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi».

QUANDO IL CAPO ERA QUASI SACRO. Nel dicembre del 1977, all'indomani di una grande manifestazione di metalmeccanici, sulla prima pagina di Repubblica Giorgio Forattini disegnò il Segretario, o meglio il Segretario Generale del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer che adagiato in vestaglia su una poltrona sorbiva una tazza di tè incurante delle grida che gli giungevano dalla finestra di casa sua, scrive Filippo Ceccarelli su “Il Corriere della Sera”. Si trattava appunto di una vignetta. Senonché il giorno dopo lo storico ufficiale del Pci Paolo Spriano scrisse a Repubblica una sdegnatissima lettera chiedendo conto ai responsabili del misfatto: «Ma avete idea della vita di sacrificio, di passione rivoluzionaria, di tensione politica e morale di un dirigente comunista come Berlinguer?». Contro la caricatura prese posizione anche Trombadori e persino Fortebraccio, mentre Pajetta decretò che non faceva ridere. Nel rispondere a tutti, Eugenio Scalfari osservò che per i compagni Berlinguer era considerato «poco meno che l'Immacolata Concezione». Il richiamo dogmatico e dottrinario aiuta a comprendere in che modo quella carica fosse allora vissuta nel partito. Nell'immaginario comunista la figura del segretario non solo era per sua natura sottratta alla competizione, ma specialmente e letteralmente incarnava la Razionalità della Storia. Anche per questo un'atmosfera mistico-magico già aleggiava intorno a Togliatti, la cui guardia del corpo Armandino pretendeva che mangiasse ogni giorno un piatto di cervello perché doveva «pensare a tutti noi»; così come il suo medico personale, Spallone, si preoccupava anchea livello organizzativo della vita sessuale del Migliore per evitare «che la tensione affettiva, se contrastata, impedisse alla mente di Togliatti di ragionare con la lucidità che gli era propria e ai suoi nervi di essere meno saldi del consentito». E tuttavia con lo scorrere del tempo quest'aura al tempo stesso corporeae sacrale, venne meno e nel 1986 l'inserto satirico dell' Unità, Tango, raffigurò il povero Natta, allora in carica che ballava nudo al suono della fisarmonica di Craxi. Quest'ultimo ne fu piuttosto impressionato. Nessuno a via del Corso si sarebbe mai spinto a tale dileggio. Rispetto alla separatezza che persino nelle dislocazioni logistiche informava l'intangibile solitudine dei capi alle Botteghe Oscure, il vertice del Psi era da sempre più libero, provvisorio, litigioso e sgangherato. Il "Vecchio", cioè Nenni, era persona amabile e tollerante; e la guerra permanente fra Mancini e De Martino aveva finito per insediare una specie di rispettosa alternanza con tanto di stratificazioni. Craxi al contrario instaurò un cesarismo piuttosto prepotente, forse necessario alla guerra di corsa, ma di certo basato sulla paura e sul conformismo. Rimase segretario anche a Palazzo Chigi, lasciando che nel partito crescessero ambizioni e appetiti, cacicchi e ladroni. Del resto anche La Malfa senjor, Saragat, Malagodi e Almirante ebbero personalità così forti da oscurare sia avversari che re travicelli di Pri, Psdi, Plio Msi. Caso tutto diverso quello dei segretari della Dc. Qui occorrevano indispensabili requisiti, il primo dei quali era il favore delle gerarchie ecclesiastiche; il secondo imponeva una situazione coniugale regolare e il terzo una teorica indisponibilità al comando (« Domine non sum dignus ») temperata da spirito di servizio. Eletto primus inter pares, e tuttavia investito del maggior potere possibile, il segretario dc era in realtà in quel posto come garante del governo, delle alleanze, delle oligarchie, delle corporazioni, dei gruppi collaterali, dei territori, delle correnti, della tribù. Per cui ogni tanto veniva fatto secco ma non per sempre, un po' come succede nel Pd - ma con molta più fantasia e perizia.

BELLA CIAO: INNO COMUNISTA E DI LIBERTA’ DI SINISTRA.

Il testo di “Bella Ciao”.

Una mattina mi son svegliato,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

Una mattina mi son svegliato

e ho trovato l'invasor.

O partigiano, portami via,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

O partigiano, portami via,

ché mi sento di morir.

E se io muoio da partigiano,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

E se io muoio da partigiano,

tu mi devi seppellir.

E seppellire lassù in montagna,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

E seppellire lassù in montagna

sotto l'ombra di un bel fior.

E le genti che passeranno

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

E le genti che passeranno

Mi diranno «Che bel fior!»

«È questo il fiore del partigiano»,

o bella, ciao! bella, ciao! bella, ciao, ciao, ciao!

«È questo il fiore del partigiano

morto per la libertà!»

I testi di Faccetta nera e Giovinezza che mai faranno cantare a scuola.

FACCETTA NERA

Se tu dall'altopiano guardi il mare,

moretta che sei schiava tra gli schiavi,

vedrai come in un sogno tante navi

e un tricolore sventolar per te.

Faccetta nera, bell'abissina

aspetta e spera che già l'ora s'avvicina

quando saremo vicino a te

noi ti daremo un'altra legge e un altro Re.

La legge nostra è schiavitù d'amore

il nostro motto è libertà e dovere

vendicheremo noi camice nere

gli eroi caduti liberando te.

Faccetta nera, bell'abissina...

Faccetta nera, piccola abissina,

ti porteremo a Roma liberata

dal sole nostro tu sarai baciata

sarai in camicia nera pure tu.

Faccetta nera sarai romana,

la tua bandiera sarà sol quella italiana,

noi marceremo insieme a te

e sfileremo avanti al Duce, avanti al Re.

GIOVINEZZA testo del 1922

Su, compagni in forti schiere,

marciam verso l'avvenire

Siam falangi audaci e fiere,

pronte a osare, pronte a ardire.

Trionfi alfine l'ideale

per cui tanto combattemmo:

Fratellanza nazionale

d'italiana civiltà.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Non più ignava nè avvilita

resti ancor la nostra gente,

si ridesti a nuova vita

di splendore più possente

Su, leviamo alta la faccia

che c'illumini il cammino,

nel lavoro e nella pace

sia la vera libertà.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Nelle veglie di trincea

cupo vento di mitraglia

ci ravvolse alla bandiera

che agitammo alla battaglia.

Vittoriosa al nuovo sole

stretti a lei dobbiam lottare,

è l'Italia che lo vuole,

per l'Italia vincerem.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà.

Sorgi alfin lavoratore

giunto è il dì della riscossa

ti frodarono il sudore

con l'appello alla sommossa

Giù le bende ai traditori

che ti strinsero a catena;

Alla gogna gl'impostori

delle asiatiche virtù.

Giovinezza, giovinezza

primavera di bellezza,

nel fascismo è la salvezza

della nostra libertà 

GIOVINEZZA testo successivo

Salve o popolo di eroi,

salve o Patria immortale,

son rinati i figli tuoi

con la fe' nell'ideale.

Il valor dei tuoi guerrieri

la virtù dei pionieri

la vision dell'Alighieri

oggi brilla in tutti i cuor.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

del Fascismo è la salvezza per la nostra libertà.

Dell'Italia nei confini

son rifatti gli Italiani,

li ha rifatti Mussolini

per la guerra di domani

Per la gloria del lavoro

per la pace e per l'alloro

per la gogna di coloro

che la Patria rinnegar.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

I poeti e gli artigiani

i signori e i contadini,

con orgoglio di Italiani

giuran fede a Mussolini.

Non v'è povero quartiere

che non mandi le sue schiere,

che non spieghi le bandiere

del fascismo redentor.

Giovinezza, Giovinezza, primavera di bellezza

della vita nell'asprezza, il tuo canto squilla e va.

Bella Ciao. A 4 anni. Stamattina sono andato alla festa di fine anno dell’asilo di mio figlio qui a Milano, scrive Nicola Porro. Ha quattro anni e come i suoi coetanei ha indossato una maglietta colorata. Mi siedo e ascolto i cori che fanno le diverse classi: canzonette regionali rappresentative dell’unità d’Italia. Il tema generale erano i 150 anni dell’Italia e i bambini erano vestiti con magliette che formavano il tricolore. La recita va avanti con un repertorio di classici: Va pensiero, il Piave. E finalmente, si fa per dire, arriva Bella ciao. Si finisce poco dopo con l’inno d’Italia. Vi devo dire che non è mi è piaciuta. Che razza di scuola insegna ad un bambino di 4 anni, Bella Ciao?

Polemiche alle elementari di Porta Nuova sulla decisione di far cantare agli alunni un ritornello ispirato all' inno partigiano. Bella ciao a scuola. «E noi disertiamo la festa». Alcuni genitori minacciano di boicottare la recita di fine anno. Il preside: non è un canto sovversivo, scrive Sacchi Annachiara su “Il Corriere della Sera”. Canteranno in coro « Scuola ciao » . Per salutare i bambini di quinta elementare e dare l' arrivederci a compagni e insegnanti. Si metteranno in ordine per classe, come hanno imparato durante le prove. Il ritornello farà così: « Scuola ciao, scuola ciao, scuola c i a o c i a o ciao » , sulle note della canzone partigiana Bella ciao . E, a quel punto, un gruppetto di genitori minaccerà di andarsene. Portandosi via anche i figli. Festa di fine anno con polemica, quella di oggi alle elementari dei Bastioni di Porta Nuova. L' inno della Resistenza, scelto come « base » per il commiato dei bambini, ha incontrato prima qualche perplessità tra alcuni docenti e genitori per scatenare, poi, una vera e propria ostilità. « Le maestre sono state povere di idee: potevano scegliere qualsiasi altro motivo » . A parlare è la mamma d i uno dei 260 bambini iscritti. « Sono di origini friulane, per me quella canzone ha un significato forte. Certo, qui a Milano non ci sono ricordi drammatici come i nostri, ma è stato comun que un errore clamoroso, una grave leggerezza. E la cosa peggiore è che questa vicenda sarà strumentalizzata politicamente » . Polemiche o no, i bambini canteranno comunque. La festa seguirà fedelmente il programma: giochi all' aperto, mostra di manufatti e il grande coro finale. Lo ha deciso il preside dell' istituto, Alberto De Donno: « Bella ciao non è un canto sovversivo o anticostituzionale, fa parte della tradizione popolare. Certo, forse si poteva scegliere Ciao Mare , ma in ogni caso il nostro è un messaggio di auguri. Lo ripeto: non c' è nessuna volontà di dividere o di colorare politicamente la festa dei bambini. Il brano è stato scelto perché è molto orecchiabile » . Parole ribadite in una lettera scritta dal preside a insegnanti e famiglie: « È un canto innocente » . E per una nuova polemica ne riaffiora un' altra passata, quella sul presepe. « Sotto Natale, all' ultimo minuto - è la replica di alcune mamme - ci è stato spiegato che il presepe poteva offendere i bambini di religione non cristiana . Risultato: non si è fatto. Ma se siamo noi quelli offesi, allora non succede niente » . Sospira i l preside: « L' anno prossimo cercheremo di rendere più unita la scuola: questi, evidentemente, sono segnali di sofferenza. Sono dispiaciuto perché la festa voleva unire, non dividere. Speriamo solo che i genitori non ritirino i bambini al momento del canto » .

Il caso segnalato da “La Gazzetta di Modena”. “A scuola no ai canti di natale ma via libera a Bella Ciao?”. Barcaiuolo (Fratelli d’Italia) incredulo: «"Bella Ciao" insegnata ai bambini delle elementari dove invece è vietato insegnare canti natalizi o pasquali di matrice religiosa. Siamo in Italia o in Corea del Nord?». È quanto si chiede incredulo Michele Barcaiuolo capogruppo Fratelli d'Italia - Alleanza Nazionale che intende così denunciare pubblicamente qualcosa che non condivide. «In questi giorni sono stato contattato da molti genitori che scandalizzati, mi hanno segnalato l'atteggiamento che ormai in molte scuole modenesi gli insegnanti hanno assunto nei confronti delle svariate festività civili o religiose. - spiega - E' ormai noto a molti che sono moltissime le scuole modenesi , che per non urtare "altre sensibilità" scelgono, in occasione di festività come il S. Natale e la S. Pasqua di non insegnare ai bambini nessun canto, nessuna poesia che abbia qualsiasi riferimento alla matrice religiosa delle festività. Trovo questo atteggiamento e queste scelte incomprensibili, sopratutto in Italia dove perfino un ultrà laico come Benedetto Croce sosteneva "non possiamo non dirci cristiani per l'enorme influenza che la cultura, l'arte e l'architettura cristiana hanno in una Nazione come l'Italia". Ma se possibile , in questi giorni si sta facendo di peggio : in diverse scuole elementari di Modena ci sono insegnati che stanno insegnando ai bambini a cantare "Bella Ciao" come canzone prodromica a giustificare tutto ciò che e' stato fatto dai partigiani. Non sono certo bambini di 7, 8 o 9 anni a dover approfondire le pagine buie e le ombre della resistenza (cit. Giorgio Napolitano) ;ma certo indottrinare dei bambini con la vulgata storica voluta da chi in questa città da 70 anni continua a fare il bello e il cattivo tempo non e' il modo migliore per consegnare il domani alle nuove generazioni, sembra invece che a Modena ci siano aspetti educativi che più che a guardare alla formazione dei bambini guardino alla Corea del Nord». Voi che ne pensate?

“Bella Ciao. Controstoria della Resistenza”. Autore Giampaolo Pansa. Il 25 aprile chi va in piazza a cantare "Bella ciao" è convinto che tutti i partigiani abbiano combattuto per la libertà dell'Italia. È un'immagine suggestiva della Resistenza, ma non corrisponde alla verità. I comunisti si battevano, e morivano, per un obiettivo inaccettabile da chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura popolare, agli ordini dell'Unione Sovietica. Giampaolo Pansa racconta come i capi delle Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario e in che modo si siano comportati nei confronti di chi non voleva sottomettersi alla loro egemonia. Quando si sparava, dire di no ai comunisti richiedeva molto coraggio. Il Pci era il protagonista assoluto della Resistenza. Più della metà delle formazioni rispondeva soltanto a comandanti e commissari politici rossi. "Bella ciao" ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sin dall'agosto 1943, con la partenza dal confino di Ventotene. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l'omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l'incendio della guerra civile. La controstoria di Pansa svela il lato oscuro della Resistenza e la spietatezza di uno scontro tutto interno al fronte antifascista. E riporta alla luce vicende, personaggi e delitti sempre ignorati.

Dalla piazza greca di Tsipras alla Francia di Charlie Ebdo, dalle manifestazioni antigovernative in Turchia a quelle contro Yanukovich in Ucrainia, fino ai cortei di Occupy Hong Kong. Bella Ciao viene cantata in tutto il mondo. Ma come è nata? Quando? Perché è diventata globale?

Tutto il mondo (Italia esclusa) canta in piazza Bella ciao. La storia Da Atene a Parigi, da Istanbul a Hong Kong, la canzone della Resistenza diventa inno di libertà. Mentre nel nostro Paese è ritenuta a torto solo un manifesto comunista, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica” A Parigi l'emozione di Bella Ciao è la resistenza della libertà d'espressione alla barbarie dei kalashnikov, ad Atene accompagna l'utopia populista di Tsipras, a Hong Kong scandisce l'opposizione alla Cina comunista, a Istanbul canta la rivolta contro l'Islam autoritario di Erdogan. Solo in Italia Bella Ciao è all'indice, confusa con Bandiera rossa e L'Internazionale , e mai cantata, come si dovrebbe, con l'alzabandiera del 25 aprile, ma trattata come un inno comunista, degradata da canto laico della liberazione e della concordia repubblicana a ballata dei trinariciuti, a manifesto del Soviet italiano. E invece, nel mondo, la canzone della Resistenza ha fatto la sua resistenza, e ha vinto, anche contro se stessa. È infatti evasa dalla gabbia del braccio armato e del pugno chiuso con la forza della melodia tradizionale, con quelle due parole "ciao" e "bella" che sono le password della nostra identità, con i timbri e i toni che sono il meglio della leggerezza di Sanremo, con la dolce malinconia del bel fiore sulla tomba, e ovviamente con il partigiano morto per la libertà e non per "la rossa primavera" della falce e martello e neppure per il sol dell'avvenire della filosofia classica tedesca. Insomma Bella ciao ce l'ha fatta a riaccendere le emozioni originarie che la resero colonna sonora della guerra partigiana al nazifascismo, quando fu preferita a Fischia il vento , proprio perché, "era più ecumenica ". E la sua storia e la sua memoria "la accreditano come la canzone che unifica le speranze e le attese della democrazia" ha scritto Stefano Pivato in Bella ciao. Canto e politica nella storia d'Italia ( Laterza, 2005). Fu insomma la canzone delle forze politiche costituenti, tutte laburiste antifasciste e repubblicane, anche se in modi diversi e tra loro conflittuali, ma tutte Bella ciao: un fiore di montagna come educazione civica. E per capire che è tornata ad essere un inno internazionale di libertà basta rivedere su Repubblica. it tutte quelle labbra che a Parigi scandiscono "Una mattina / mi son svegliato / e ho trovato l'invasor". Nessun professore comunista li dirige, nessun libro marxista li ispira quando fondono Bella ciao e La Marsigliese dondolando e mixando "sotto l'ombra di un bel fior" con gli evviva alla memoria degli artisti di Charlie Hebdo, e senza mai andare né fuori tempo né fuori moda. Ed è emozionante la compostezza del coro un po' stonato di Istanbul con tutti quei turchi che battono il tempo con le mani: "E se io muoio / da partigiano / tu mi devi seppellir " diventa resistenza al martirio di Kobane, agli arresti dei giornalisti, all'oscurantismo religioso. È un contagio che arriva sino ad Atene, si diffonde senza radio e senza Ipod, ricorda l'epoca euforica degli anni Sessanta: Bella ciao come i Beatles, il vecchio canto della libertà italiana come la musica dei progetti, delle illusioni e degli azzardi, il nostro fiore di montagna contro il terrorismo in Europa, contro la mortificazione delle donne in Turchia. E sorprende e diverte a Hong Kong la voce di un italiano contro la violenza di quel terribile mondo arcaico che è la Cina. Certo, la storia di Bella ciao era già una specie di leggenda. Agli inizi del Novecento fu il canto delle mondine nelle umide risaie attossicate: "Oh mamma che tormento / io mi sento di morir". E ci sarebbe persino una versione Yiddish incisa a New York nel 1919. Mille ricerche sono state fatte sul giro del mondo di questa canzone che è stata folk, ebrea, swing e tradotta anche in giapponese Ma, come accade talvolta in filologia, le ricerche riportano sempre al punto di partenza: Reggio Emilia, 1940. Nella geografia della memoria Bella ciao è infatti il luogo della Resistenza condivisa, il ritmo della lotta antifascista che fu comunista, cattolica e azionista, come la Costituzione. Ed è, Bella ciao, come "la ballatetta" di Guido Cavalcanti, che "va leggera e piana" e "porterà novelle di sospiri ... quando uscirà dal core ". Il dolce stil novo sapeva già, prima del pop, che la canzonetta è una febbre musicale, e come l'acqua fresca sembra niente ma è tutto, e se c'è nebbia fa vedere il sole, e dà coraggio a chi ha paura. E, infatti, fischiettata o cantata in coro, Bella ciao ha sconfitto quell'altra Bella Ciao , spacciata per eversione e per rivoluzione. Insomma il fiore del partigiano fu, a torto, classificato, non come uno dei pochi canti della democrazia , ma come politica cantata, accanto agli inni del movimento operaio, "Su fratelli su compagni / su venite in fitta schiera", e alle canzoni dolenti degli anarchici, "Addio Lugano bella / o dolce terra mia", e all'orrendo inno che la Dc fece suo: "O bianco fiore / simbolo d'amore / con te la pace / che sospira il core". I comunisti risposero: "Il 25 aprile / è nata una puttana / e le hanno messo nome / Democrazia cristiana ". Ecco, Bella ciao è un'altra storia, e sembrava che lo avessero capito tutti. La cantarono infatti Claudio Villa e Yves Montand, Gigliola Cinquetti, Francesco De Gregori e Giorgio Gaber, canzone impegnata e canzone scanzonata. Finché i leghisti al governo di alcune città del Nord (Treviso, Pordenone ...) proibirono di suonarla il 25 aprile. E Berlusconi, più potente, tentò di abolire la festa della liberazione dal nazifascismo sostituendola con la festa della liberazione da tutte le dittature. E gli pareva che "Forza Italia/ perché siamo tantissimi " fosse più nazionalpopolare di "È questo il fiore / del partigiano / morto per la libertà". Le ha proprio viste tutte, la nostra Bella ciao . È stata persino stonata in tv da Michele Santoro dopo l'editto bulgaro che lo cacciava dalla Rai con Biagi e Luttazzi. In quell'Italia pazza la solita serva Rai arrivò persino al tentativo di festeggiare i 150 anni dell'Unità suonando a Sanremo sia Bella ciao sia Giovinezza, e di nuovo la canzone della Repubblica fu spacciata per inno comunista attraverso il gioco della somiglianza- contrapposizione con l'apologia del fascismo, suonata per par condicio... Ebbene Bella ciao ha superato anche quell'oltraggio. E adesso che ha conquistato il mondo, forse riconquisterà anche l'Italia.

Il fenomeno. "Bella ciao", da canto partigiano a inno globalizzato. Dalla campagna elettorale di Tsipras alla solidarietà a Charlie Hebdo, la canzone folk più nota della Resistenza varca i confini e si fa sempre più attuale, scrive “la Gazzetta di Reggio”. "Bella ciao" eterna, anzi sempre più attuale. La canzone folklorica cantata dai simpatizzanti del movimento partigiano italiano durante e dopo la seconda guerra mondiale, che combattevano contro le truppe fasciste e naziste, si è trasformata negli ultimi anni in un inno alla libertà, risuonato un po' ovunque: dalle piazze in rivolta ai funerali, dalle manifestazioni di piazza agli studi televisivi. Solo in Italia, scrive Repubblica in articolo di Francesco Merlo, il canto è ancora oggi etichettato come un "manifesto comunista". La circolazione di Bella ciao, durante la Resistenza è documentata e sembra circoscritta soprattutto in Emilia. Dopo la Liberazione la versione partigiana di Bella Ciao venne poi cantata e tradotta e diffusa in tutto il mondo grazie alle numerose delegazioni partecipanti al Primo festival mondiale della gioventù democratica che si tenne a Praga nell’estate 1947, dove andarono giovani partigiani emiliani che parteciparono alla rassegna canora “Canzoni Mondiali per la Gioventù e per la Pace”, dove inventarono il tipico ritmico battimano.

Giovanna Marini ricorda che tutto nacque a Reggio Emilia, dalla mondina Giovanna Daffini. Nelle scorse ore, "Bella ciao" ha chiuso ad Atene la campagna elettorale per le elezioni politiche di Alexis Tsipras, nella versione dei Modena City Ramblers. «Siamo sempre molto colpiti dall'entusiasmo che suscita Bella Ciao anche fuori dall'Italia. È la canzone che porta con sé valori molto forti e sinceri». E se Tsipras dovesse vincere, la folk band modenese annuncia che «canteremo Bella Ciao in greco». La famosissima versione dei MCR era stata suonata anche all'ultima edizione di Festareggio al Campovolo. Come inno alla libertà, "bella ciao" è stata rispolverata anche all'indomani degli attentati terroristici di Parigi, ecco christophe Aleveque che la canta in una trasmissione tivu di solidarietà a Charlie Hebdo e alle sue vittime. A Istanbul, "Bella ciao" è risuonata in piazza nell'ottobre 2013, adottata da Occupy Gezi: cantata in turco, ma con il ritornello in italiano. E sempre nella capitale turca, ecco la band rivoluzionario-socialista Yorum che la suona dal vivo con decine di artisti sul palco. Persino a Hong Kong, il canto è stato rispolverato dalla Rivoluzione degli ombrelli, cantato dal prete italiano Franco Mella.

Bella Ciao? Oggi la potrebbe cantare anche Marine Le Pen, scrive Stefano Baldolini su L'Huffington Post. Cantata in piazza Omonia dai sostenitori del divo Tsipras, a Parigi dai cittadini colpiti a morte dalla strage di Charlie, "Bella Ciao" è tornata. O meglio (fortunatamente?) non se n'è mai andata. Protagonista anche in passato, in luoghi e situazioni improbabili e molto lontane tra loro, ma oggi la coincidenza è evidente. È un destino dei classici esser rivisitati e non perdere colpi, assumere connotati e senso diverso in funzione del contesto e del tempo. È stato così anche per il nostro inno di Mameli, tabù della sinistra negli anni in cui i nazionalismi erano tutti di destra e oggi intonato nei comizi e nelle direzioni del Pd. Vittima del frullatore post ideologico, "Bella Ciao" può essere cantata e strattonata da tutti, è talmente intensa e diretta da non finire sgualcita. Ma cosa reclama "Bella Ciao" oggi? Certo, non può prescindere da un afflato di libertà che è sempre preceduta da forme vitali di resistenza e protesta ("È questo il fiore del partigiano Morto per la libertà"). Solo, che oggi, da piazza Taksim a Occupy Wall Street, da Charlie a piazza Omonia, l'inno partigiano è rivendicazione - in primis - di sovranità. Di rivendicazione della propria sovranità di cittadini e popoli contro scelte imposte da altri, potenti con nome e cognome o istituzioni senza volto. Erdogan o i lupi di Wall Street, i terroristi integralisti che vogliono occupare lo spazio libero delle idee, la Bce. Chiunque attenti all'occupazione - percepita come abusiva - dello spazio individuale e collettivo, mentale o fisico, è considerato invasore. Da cacciare, da respingere. Ecco perché non dovrebbe sorprenderci se un giorno, vicino o lontano, un'esponente come Marine Le Pen, potrebbe cantarla. Non suoni come mera provocazione, ma solo come una logica conseguenza. Non foss'altro per semplice proprietà transitiva: se Marine Le Pen simpatizza per Tsipras e i sostenitori di Tsipras cantano Bella Ciao, il passo successivo è nelle cose. Perché l'obiettivo è lo stesso: quello di recuperare la sovranità del popolo contro "l'invasore" sovra-nazionale. L'ha cantata, per scherno e impropriamente, Matteo Salvini, contro "l'invasione degli immigrati", ma lo potrebbe fare - persino con maggiore legittimità - la sua amica leader del Front National.

Bella ciao, breve storia della canzone di tutti noi, scrive Donatella Coccoli il 25 aprile 2016 su “Left”. Cantata in Francia ai funerali per le vittime di Charlie Hebdo come per la vittoria di Tsipras in Grecia, ma anche in Cina, in Ucraina, Bella ciao è un canto universale. «Assorbe tutte le libertà negate e per questo non ha confini”, racconta Carlo Pestelli, cantautore torinese con studi linguistici alle spalle e una passione per la cultura popolare. Ha scorrazzato per mesi tra Emilia Romagna e Toscana, ha conosciuto vecchie contadine dai nomi che dicono tutto – Comunarda, Antizarina -, ha sentito versioni varie della canzone e ascoltato storie e testimonianze della Resistenza. E poi ha cercato in Francia e in tanti altri Paesi. Alla fine ha scritto il libro Bella ciao, la canzone della libertà (add editore), pubblicato da pochi giorni. Non un saggio paludato ma, dice Pestelli, “la sociologia, la gestione delle tante traduzioni, nelle lingue principali, ma anche in quelle etnominoritarie dal dialetto cabilo delle popolazioni berbere al sinti torinese».

Cosa ha scoperto?

«Ho scoperto che interessa tutti. Bella ciao non è una canzone datata nel tempo, non è relegabile a qualcosa di ormai passato, come la televisione in bianco e nero, o le mondine o anche l’esperienza dei partigiani nella Resistenza. E’ una canzone – passami il termine – “rifunzionalizzabile”. E’ come se avesse lasciato i contorni storici alle spalle venendo continuamente “rifunzionalizzata”: dai bambini, dagli studenti, dalle femministe, fino ai lavoratori in sciopero alla fine degli anni 60 che avevano voglia di nuove parole d’ordine e hanno riciclato la melodia di Bella ciao. Poi è stata rifunzionalizzata negli anni 90 dai Modena City Ramblers, e fu clamoroso».

Qual è l’attualità di questa canzone?

«Quando vado a presentare il libro imparo sempre qualcosa. C’è sempre qualcuno che si alza e racconta. L’altro giorno una signora nata nel 1933, mi ha detto che nel 1944 abitava ad Alba, quando là c’era quella libera repubblica di partigiani immortalata da Beppe Fenoglio. Ecco, lei racconta di una canzone per un partigiano morto, una specie di ballata epica, che finiva con queste parole: “morto per la libertà”. La canzone, quasi silenziosamente è andata per gemmazione a costituirsi tra il 1943 e il 1944 in Emilia, in Piemonte, ma anche in Veneto e qualcuno ritiene anche in Abruzzo, visti i partigiani della brigata Maiella che liberarono Bologna insieme agli alleati. La guerra finisce e tutti si misero a cantarla. Storici come Cesare Bermani, Roberto Leydi, Franco Castelli, Franco Coggiola, hanno indagato per decenni su Bella ciao, anche alla ricerca di un autore. Però si sono arresi, perché Bella ciao è la “carta assorbente” di diverse versioni di canto popolare che poi sono confluite in questa canzone».

Quali sono le sue caratteristiche?

«Ha una forte ritmicità tanto che colpisce anche i bambini piccoli, poi ha delle parole fondamentali della nostra cultura: “bella” che è l’aggettivo petrarchesco per antonomasia e “ciao”. E inoltre riesce a tracciare una storia ideale di partecipazione popolare a una causa, quella della libertà, la più amata da tutti in un modo, per così dire, circolare. Inizia come in una fiaba, “stamattina mi son svegliato”, che già ti pone all’ascolto con una certa facilità. E poi, è vero, nel finale c’è uno che muore, ma muore per la libertà, non muore per la rossa bandiera o per il sol dell’avvenire, anche in questo riesce a slegarsi dall’utopia resistenziale».

Quindi è un patrimonio comune?

«Sì, è stata la canzone un po’ di tutti. Lo è stata dell’antifascismo, che negli anni 50 era un concetto che sonnecchiava, e che poi è stato risvegliato negli anni 60 ma da una generazione diversa. Ma non dimentichiamo che negli anni 70 Benigno Zaccagnini concludeva le assisi dei lavori della Dc con Bella ciao».

La canzone ha avuto molta fortuna all’estero, quante traduzioni esistono?

«Una quarantina, ma se ne producono continuamente. Per esempio una poetessa bretone ne ha scritta una versione di recente. Io distinguo tra le traduzioni nelle lingue principali: tedesco, francese, inglese, spagnolo e quelle delle lingue minoritarie, come il galiziano, il catalano e il ladino romanzo. C’è addirittura una versione in latino. Quando si tratta delle lingue principali vi possono essere più traduzioni. Facciamo l’esempio del tedesco: c’è quella formale ma c’è anche la reinterpretazione, come è accaduto negli anni 70 con Dieter Dehm, diventato poi un parlamentare, il quale ha ritenuto che i tedeschi non si meritassero Bella ciao perché non hanno fatto nulla per sconfiggere il nazismo da dentro, non hanno avuto un’epopea della resistenza paragonabile a quella italiana o yugoslava. E quindi lui trasforma il concetto di Bella ciao, lasciando inalterata la musica, nella storia di una lei e di un lui, entrambi guerriglieri: lei deve allontanarsi da lui perché deve andare a combattere e il finale è “mai più fascismo mai più guerra”».

In Grecia l’hanno cantata anche per la vittoria di Tispras.

«Sì e non solo. In Turchia la cantano in chiave anti Erdogan, nel Sud est asiatico ci sono i russi putiniani che stanno nel Sud est ucraino che la cantano in chiave anti ucraino. Allo stesso tempo i nazionalisti ucraini la cantano in chiave anti russa. E’ buona per tutte le cause. Tra le minoranze berbere viene cantata in chiave antialgerina o antitunisina».

Bella ciao è quindi una creazione collettiva?

«Un autore non c’è. Qualcuno come Ivan Della Mea – ma non è proprio lui la fonte diretta – sosteneva che l’autore forse era un medico ligure che viveva a Montefiorino nel Modenese, ma di fatto la canzone comincia a diffondersi a Bologna, a Montefiorino. Intanto nel 1944 a Torino una donna racconta che sentiva cantare una canzone sull’aria di Bella ciao con parole leggermente diverse nelle Carceri nuove. C’è poi chi nell’immediato dopoguerra racconta che con i festival della gioventù, di Berlino di Nizza, Praga, nel 1946 la cantavano tutti. C’erano delegazioni di giovani comunisti, tra cui anche Enrico Berlinguer che la insegnavano agli altri compagni. E la cantavano davvero tutti. Ad un certo punto c’era chi diceva che l’autore fosse Enzo Biagi che è stato partigiano e che era proprio della zona dove sarebbe nata. Anch’io dopo un po’ mi sono arreso. Invece ho scoperto che il Paese che più di tutti ha contribuito alla diffusione della canzone è stato la Francia grazie a un cantante di origine italiana, Yves Montand».

E per quanto riguarda la musica, ci sono influenze e tradizioni popolari?

«Anche in questo caso si potrebbe dire che è una bella insalata russa (ride). Principalmente si ritrova qualcosa in “Bevanda sonnifera”, un canto epico lirico diffuso in pianura padana, ma anche in alcune villotte diffuse in Trentino che contenevano quell’iterazione di “ciao ciao” scandito con le mani che serviva a dare il ritmo al gioco dei bambini. Per quanto riguarda il testo, ci sono dei progenitori. Un canto in particolare intitolato “Fior di tomba”, che diceva “mi son svegliato e ho trovato il mio amor”, risale al XIX secolo, molto noto in Piemonte e in Veneto. Il finale è drammatico perché è l’amore non corrisposto. Bella ciao insomma assorbe tutte quelle libertà negate che fanno parte del canto popolare: il condannato, l’amore non ripagato, la famiglia come prigione… Il fiore lasciato sulla tomba è il simbolo del ricordo. Un po’ come l’albero della libertà. Dove c’è una minoranza che rivendica dei diritti si può essere sicuri che c’è anche Bella ciao».

Classe Balilla, ecco gli allievi del Ventennio. A Segrate (Milano) in mostra circolari diari e quaderni dei bambini della scuola primaria, scrive Antonio Ruzzo, Sabato 16/04/2016, su "Il Giornale". Tutti in piedi entra la maestra... Quando salutare era un imperativo come credere, obbedire, combattere. Quando ai professori non si dava del «tu» e note e bocciature non erano materia per i giudici del Tar. Quando gli insegnanti erano definiti «apostoli» e «sacerdoti» e avevano la missione di educare la gioventù italiana a «comprendere e rinnovarsi nel Fascismo». Quando di libertà e diritti non si discuteva. Quando a scuola c'era lui insomma. Anni fa. Tanti anni fa che rivivono nella mostra «A scuola col Duce. L'istruzione primaria durante il Ventennio fascista», ideata e realizzata già nel 2003 dall'Istituto di Storia Contemporanea «Pier Antonio Perretta» di Como. Da ieri, e fino alla fine del mese, è allestita a Segrate (Milano) nel Centro Giuseppe Verdi proprio nella piazza dove l'architetto Aldo Rossi realizzò il monumento al partigiano. Nessuna nostalgia. Anzi. A volerla è stata la sezione cittadina dell'Anpi e a ospitarla è una giunta di centrosinistra. «L'idea ci è venuta per celebrare il 25 aprile - spiega Gianluca Poldi, assessore alla cultura di Segrate - e per approfondire un periodo della storia che deve essere affrontato come tale, senza preconcetti. E mi ha fatto piacere che a proporci questa mostra sia stata proprio l'associazione dei partigiani. Poi alla base di tutto c'è lo straordinario lavoro storico dell'Istituto di Storia Contemporanea Pier Antonio Perretta che è un garanzia». In esposizione oltre sessanta pannelli che riproducono per la maggior parte illustrazioni a colori, fotografie e testi ripresi dai manuali scolastici, dai quaderni degli scolari di allora e che, insieme a una serie di quadri riassuntivi, ripercorrono le tappe e i momenti più significativi della scuola di regime. L'Istituto comasco possiede una cospicua raccolta denominata Fondo scuola che comprende anche pagelle, certificati di studio, saggi pedagogici, periodici, libri di narrativa, fotografie. «La maggior parte della nostra raccolta - spiegano i responsabili - proviene dai mercatini dell'antiquariato e da donazioni di privati, ma una ricchissima documentazione la si può trovare negli archivi di molte scuole, soprattutto per quanto riguarda i registri scolastici e i giornali di classe stilati dall'insegnante. Chi ha ideato e fortemente voluto questa mostra è stato Ricciotti Lazzero, giornalista e storico di fama, presidente dell'Istituto Perretta, purtroppo scomparso nel dicembre del 2002, un mese prima dell'inaugurazione della mostra». La scelta di proporre la mostra in occasione della ricorrenza del 25 Aprile, Festa della Liberazione, non è casuale. «Assolutamente no - spiega l'assessore Poldi -. La speranza è che diventi un momento di riflessione per tutti. Mi aspetto che a vistarla vengano i nonni con i loro nipoti, mi aspetto che vengano anche molti studenti, anche se devo ammettere che vedo un po' di pigrizia negli insegnanti. Ma soprattutto mi aspetto che venga visitata e apprezzata senza pregiudizi. Anche perché il materiale raccolto è importante. La grafica di allora a esempio era straordinaria e aveva una grande capacità di sintesi. Si prenda la locandina che apre la mostra, quella dello studente col pennino che ha nella sua ombra la proiezione dell'uomo soldato. C'è tutto il regime, in quell'immagine...». Quella sotto il duce fu una scuola in cui il bambino era un adulto in miniatura, da istruire e mantenere sano nella mente e nel corpo, un potenziale militare. E centrale fu il ruolo dell'Opera Nazionale Balilla, ben presente nelle istituzioni scolastiche: presidi e insegnanti erano tenuti ad aprire le porte alle sue iniziative, a essa era affidato l'insegnamento dell'educazione fisica ai ragazzi. Conoscere «l'istruzione primaria durante il ventennio fascista», come recita il sottotitolo della mostra, significa capirne non solo la struttura e l'evoluzione, ma anche le motivazioni e le finalità: «Voi siete l'aurora della vita, voi siete la speranza della Patria, voi siete soprattutto l'esercito di domani...» diceva Mussolini ai ragazzi. «La mostra commenta la curatrice Elena D'Ambrosio - vuole contribuire a esaltare quella libertà dell'uomo che comincia difendendo i diritti del fanciullo in formazione. Poiché la libertà nasce nelle aule delle scuole elementari, dove per la prima volta al bambino viene consegnato un libro. Quel libro deve essere corretto e leale, senza dottrine, aperto all'ottimismo, chiaro, semplice». Un messaggio che passa dalla storia e arriva ai giorni nostri: «Sì un po' è così - conclude l'assessore Poldi -. Uno sguardo nel passato per capire che l'educazione dei bambini alla libertà è un valore da cui non si deve mai prescindere».

L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?

Agli artisti piacciono soltanto i «poveracci» Il triste paternalismo degli intellettuali italiani. Tutto è cambiato, ma siamo ancora inchiodati all'anticapitalismo d'ordinanza, scrive Massimiliano Parente, Domenica 21/08/2016, su "Il Giornale".  A pensarci ti viene il magone. Insomma, la cultura italiana sembra un reportage di Michele Santoro, stretta per decenni tra il poverismo democristiano e quello comunista. Con il risultato che la ricchezza, il benessere, l'imprenditoria, la Brianza, sono rigorosamente bistrattate, dipinte come male assoluto. E dunque, oggi, i Virzì con Il capitale umano, un libro di Lagioia di qua e un Saviano accusatore del Nord di là; poca roba, per carità, ma allevati nel brodino dell'anticapitalismo d'ordinanza. E appena li tocchi urlano ancora: fascista! fascista! Come se poi il fascismo c'entrasse qualcosa con la libera imprenditoria. Gli imprenditori? Tutti palazzinari. Mai avuto una cultura alta, della ricchezza, noi, figuriamoci. Se Proust fosse nato in Italia anziché dei Guermantes avrebbe scritto al massimo di Acitrezza, Alla ricerca del pesce perduto, perché la tristezza, ammettiamolo, inizia con il Verismo. Verismo della povera gente, ci mancherebbe. Anche oggi, a rileggere I Malavoglia, così stilisticamente raffinati, mi viene però una depressione, una claustrofobia, una puzza di pesce, una voglia austro-ungarica da schierarmi per dispetto contro il giovane Törless di Musil. O comunque, almeno, di rivalutare D'Annunzio. Così come il cinema, il nostro cinema, inizia con Vittorio De Sica e Ladri di biciclette, neppure ladri di Ferrari, che sfigati. E dopo tredici anni di neorealismo, ecco un balzo in avanti, arriva Pier Paolo Pasolini, con Accattone, un titolo un programma. Eppure c'è poco da ridere, sono i nostri modelli culturali, esportati in tutto il mondo. Nessuno si stupisce, all'estero, se l'Italia va male, abbiamo sempre avuto un gusto estetico per fare pena. Nella moda facciamo meraviglie, ma poi arriva Saviano per raccontarti che gli imprenditori del Nord sfruttano i cinesi negli scantinati del Sud. Poi, appena c'è un fuoriclasse, non so, un Guido Morselli, lo si mette all'angolo, gli si rifiutano i libri, lo si fa morire inedito. Va da sé, mentre Morselli si suicida sparandosi, un poverista come Pasolini diventa un santino, ma non subito, appena lo ammazzano. Con una morte scenografica molto Cristo dei poveri, insanguinato, impolverato, lui che sapeva, lui che denunciava lo Stato e gli imprenditori, lui che ha pagato per tutti, complotto, complotto! Fascisti! Fascisti! Mentre quand'era vivo i compagni gli davano del pedofilo e lo espellevano dal Pci. Del pasolinismo resta una scuola con due o tre mantra: l'editoriale dell'Io so, l'altro editoriale delle lucciole che sono sparite, mentre i romanzi con i ragazzi di vita e gli operai che se lo succhiano al Pratone della Casilina nessuno se li rilegge più, una noia, una noia, che neppure La noia di Moravia. Moravia, altro comunista, però come tutti ben inserito nei salotti giusti. Come oggi la Maraini, ex moglie e firma del Corriere della Sera, però, attenzione, appena comprato da Urbano Cairo, imprenditore del Nord, un piccolo Berlusconi. Cosa non bella. Cosa da guardare con sospetto. Mi ricordo una conversazione tra Flavio Briatore e il magistrato Luigi De Magistris. Il primo vorrebbe mettere dei campi da golf intorno a Pompei (figata), e alberghi extra-lusso, per valorizzare il luogo, per incrementare il turismo di un certo livello; il secondo rimprovera a Briatore di non aver mai lavorato un giorno in vita sua. Perché essere ricchi significa essere ladri, furbi, disonesti, o giù di lì. Intellettualmente parlando, Flavio ci ha fatto la figura del gigante, De Magistris quella dell'intellettuale italiano medio, fosse stato più calvo sarebbe parso quasi Saviano. D'altra parte il vero tabù è un altro, un pensiero che non si può dire. Tipo che il Nord ha creato l'imprenditoria e il Sud ha creato la mafia. Invece, ogni anno, tanti moralismi straccioni, petulanti, paradossali, come quello del filosofo Georgescu-Roegen sulla «decrescita felice», idea geniale, diventare tutti più poveri, solita solfa, subito fatta propria dal Movimento Cinque Stelle, di stronzate non se ne perdono una. Aggiungiamoci la Chiesa, il poverismo di papa Francesco (in realtà molto cristiano, ma che mette in imbarazzo i cristiani di destra: vorremo mica aprire la porta a tutti gli immigrati?), il denaro sterco del demonio, e la minestra è servita, e come da motto italico o la mangi o salti dalla finestra. Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta, dell'Elmo di Scipio s'è cinta la testa... anche questa, che marcetta demenziale, giusto a Benigni poteva piacere. Alla fine l'unico vero fratello d'Italia è Alberto Arbasino. Che in Fratelli d'Italia, vero capolavoro della letteratura italiana, dichiara, snobbissimo, fin da pagina uno: «tanto mio papà ha più di un milione di franchi al Credit Suisse». Grandissimo Arbasino, presto attaccato dal solito Pasolini con l'epiteto di «fascista! fascista!».

La casta? La inventò Morselli Per attaccare la sinistra italiana. Quarant'anni fa usciva «Il comunista», romanzo (bocciato dall'intellighenzia) in cui l'autore più sfortunato delle nostre Lettere smascherava la brama di potere del Pci, scrive Luigi Mascheroni, Venerdì 12/02/2016, su "Il Giornale". Attaccò letterariamente la casta politica, e fu letterariamente ucciso da quella intellettuale. Guido Morselli (1912-73), bolognese per neppure due anni, varesino per il resto della vita, fu il primo - chi lo avrebbe mai detto? - ad attaccare la «casta», nella fattispecie di sinistra, nello specifico «comunista», in un romanzo terribile pubblicato postumo da Adelphi quarant'anni fa, anno di scarsa grazia 1976. Titolo: Il comunista. Per inciso, un libro la cui ultima ristampa data, se non sbagliamo, 2006.Un libro invece fresco di stampa è Guido Morselli, un Gattopardo del Nord (Pietro Macchione editore) che, alludendo nel titolo alle analogie di destino con l'opera di Tomasi di Lampedusa, raccoglie gli atti dei convegni tenuti nei primi sette anni del premio dedicato all'autore «postumo» per antonomasia. Curato da Silvio Raffo e Linda Terziroli, il volume è una miniera di notizie, «letture» e interpretazioni sullo scrittore rimasto inedito in vita e riscoperto come un maestro del nostro secondo '900 post mortem. Molti i contributi interessanti: un «fantastico» Gianfranco de Turris su Morselli e l'immaginario, la super-esperta Valentina Fortichiari su Guido Morselli: sobrietà, nitidezza, discrezione, Giordano Bruno Guerri su Tutto è inutile. Morselli smentisce se stesso, dove si cita una frase profetica dello scrittore, del 1966: «Nessun partito politico è di sinistra, dopo che ha assunto il potere», e un elegante Rinaldo Rinaldi sulla Filosofia dell'abbigliamento nell'opera di Morselli... Ma soprattutto un irriverente Antonio Armano che firma l'intervento intitolato - appunto - Il comunista: quando Morselli parlava della casta dove si ricostruisce il caso del romanzo più politico dello scrittore di Varese (avendolo effettivamente letto e studiato, cosa che non tutti coloro che ne parlano hanno fatto).E forse Il comunista non fu neppure letto, o fu letto troppo bene, da chi lo bocciò. Come Italo Calvino - la storia è stranota - il quale nel 1965 rifiutando la pubblicazione del romanzo da Einaudi, casa editrice di cui era direttore editoriale, scrisse all'autore che «Dove ogni accento di verità si perde è quando ci si trova all'interno del partito comunista. Lo lasci dire a me che quel mondo lo conosco, credo proprio di poter dire, a tutti i livelli. Né le parole, né gli atteggiamenti, né le posizioni psicologiche sono vere. Ed è un mondo che troppa gente conosce per poterlo inventare». Insomma, non se ne fece nulla. Però l'anno successivo Rizzoli accettò di pubblicare il libro, arrivando fino alle bozze. Ma cambiò improvvisamente direttore editoriale, e il nuovo arrivato, sicuramente senza aver letto Il comunista, annullò tutti i programmi e il romanzo restò impubblicato (di certo piacque al primo dei due editor, che fece il contratto a Morselli, Giorgio Cesarano, già espulso dal Pci, il quale si uccise nel '75, due anni dopo lo scrittore).Comunque, quello che interessa - a dimostrazione di quanto invece Morselli conoscesse il mondo del comunismo italiano, e sapesse prevederne i destini, meglio di Calvino - è la costruzione del romanzo, la trama profetica e il ritratto psicologico del protagonista: un parlamentare del Pci degli anni Cinquanta diviso tra compagna e amante, dentro un partito laico che però brillava per bigottismo, in una Roma malinconica e trafficona, in un'Italia dove «la gente vive di chiacchiere, si consuma in chiacchiere. Tutto finisce in chiacchiere», perso tra inutili discussioni politiche sui massimi sistemi marxisti e piccole beghe di bottega, oscura. È qui che Morselli chiama quella dei parlamentari comunisti «una casta». Una Chiesa che non ammette né eresie né deviazioni. Un gruppo di potere, da cui il protagonista è deluso e insieme attratto e respinto, all'interno del quale dominano arrivismo, tatticismi, egoismo. Dove le utopie comuniste si schiantano contro i miseri tornaconti individuali. Dove prevalgono, al di là dell'ideologia, gli interessi personali e i compromessi «poltronistici». Ciò che Morselli vide dentro il Pci a metà degli anni Sessanta, quando scrisse Il comunista, è esattamente quello che il Paese avrebbe visto da lì a poco dentro se stesso, e tutta la propria classe politica. Difficile che un romanzo del genere, una staffilata contro la casta comunista togliattiana, potesse essere pubblicato da un editore come Einaudi. La casta intellettuale avrebbe provveduto a stopparlo. Un'ultima considerazione. Alla fine del suo saggio Antonio Armano fa notare che Wikipedia, nella biografia di Guido Morselli, inserisce un commento su Il comunista del tutto infondato: sostiene che lo scrittore non riuscì mai a pubblicare e fu boicottato dall'ambiente editoriale perché il romanzo traccia positivamente la figura di un partigiano e allora la Dc demonizzava i partigiani. «Una vera bestialità - spiega Armano - Se Morselli pagò uno scotto ideologico-letterario fu tutt'al più, come dimostra il romanzo e il commento di Calvino, di non essere uno scrittore etichettabile, tantomeno politicamente, di essere libero, di non appartenere a nessuna parrocchia». Un'ultima antipatica appendice internettiana - Wikipedia casamatta gramsciana - della vecchia egemonia culturale comunista. Morselli, che non rideva mai, avrebbe abbozzato una smorfia.

Se sono eroi, noi stiamo dall'altra parte. Celebrano i loro miti come fossero dei santi, ma non possono riscrivere la storia, scrive Alessandro Gnocchi, Martedì 03/11/2015, su "Il Giornale". L'Italia è sempre generosa nel celebrare i suoi eroi. A patto che abbiano manifestato, in parole e opere, una visione del mondo diversa da quella liberale. Possibilmente opposta, ma va bene anche un generico contributo in favore del conformismo (di sinistra). La cronaca ci offre tre casi molto diversi. Partiamo dal più vistoso, le celebrazioni di Pier Paolo Pasolini, ucciso il 2 novembre 1975 all'Idroscalo di Ostia. Chi si aspettava nuove interpretazioni e contributi critici è rimasto deluso. Il poeta, lo scrittore, il regista non interessano. Si è glorificato il Pasolini che sapeva tutto senza avere le prove di nulla ma voleva comunque processare la Democrazia cristiana. Al massimo si è fatto un po' di complottismo sull'omicidio, per dire che sono stati i fascisti, i poteri occulti, i servizi segreti. Senza prove, naturalmente, perché anche i biografi di Pasolini «sanno» e tanto basta. Pasolini dunque è ridotto a santino anti-capitalista, per via del suo marxismo. Se bisogna forzare la storia, non è un problema: non abbiamo letto grandi rievocazioni dell'ostracismo da parte del Partito comunista; né articoli vibranti sul poeta che simpatizzava con i poliziotti dopo gli scontri di Valle Giulia. La forzatura della storia, anzi: la riscrittura, è parsa evidente alla morte di Pietro Ingrao. I «coccodrilli» cantavano la democraticità del suo comunismo ed esaltavano il suo ruolo di eretico all'interno di Botteghe Oscure. Peccato che Ingrao fosse direttore dell'Unità quando il quotidiano definì «un putsch controrivoluzionario» l'insurrezione di Budapest del 1956. Ingrao stesso firmò l'editoriale in lode dell'invasione sovietica. Molti anni dopo, il presunto eretico pronunciò un discorso durissimo contro i «dissidenti» del Manifesto. Meno male che li considerava politicamente «figli suoi». Elogi sperticati anche per Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera, in occasione della pubblicazione della sua autobiografia (Il mio filo rosso, Einaudi). Vittorio Feltri ha già ricordato, su queste colonne, che fu proprio la «zarina» a licenziare Giovanni Spadolini per spostare il quotidiano a sinistra. Piero Ottone divenne direttore, Indro Montanelli fondò il Giornale. Nel 2016 cade il ventennale della morte di Renzo De Felice. La sua biografia di Mussolini faceva a pezzi il mito dell'antifascismo. Lo storico sapeva e aveva anche le prove ma fu sottoposto a un linciaggio intellettuale. (Per coincidenza, la feroce campagna di delegittimazione segue di pochissimo l'io so di Pasolini). Vedremo se l'Italia sarà capace di celebrare questo formidabile liberale come celebra le icone del pensiero illiberale. O se farà finta di non sapere. 

Joseph Stalin si è spento dopo quattro giorni di agonia, scrive Giovanni Artieri il 16 giugno 2014 su “Il Tempo”. Radio Mosca comunica che Stalin è morto alle 21,50 ora di Mosca, pari alle 19,50 ora italiana. L’annuncio è stato dato alle 2,07 (ora italiana), nella trasmissione in lingua russa di una speciale stazione di Radio Mosca. Il Comitato Centrale del partito Comunista, il consiglio dei Ministri e il Presidium del Soviet Supremo dell’Unione Sovietica hanno emanato un comunicato indirizzato a tutti gli iscritti al partito e a tutti i lavoratori dell’URSS. L’annunzio ufficiale dice: «Cari Compagni ed amici, il Comitato Centrale del partito Comunisto dell’Unione Sovietica, il consiglio dei Ministri dell’Unione Sovietica e il Presidium del Consiglio Supremo dell’Unione Sovietica annunciano con profondo dolore, al partito ed a tutti i lavoratori dell’Unione Sovietica che il 5 marzo alle 21,50 dopo una grave malattia, è morto il presidente del Consiglio dei Ministri dell’Unione Sovietica e Segretario del Comitato Centrale del Partito Comunisto dell’Unione Sovietica, Joseph Vissarionovich Dzougashvili. Il cuore del compagno del compagno Joseph Vissarionovich Dzougashvili, ispirato continuatore della volontà di Lenin, saggio maestro e condottiero del Partito Comunista e del popolo sovietico ha cessato di battere». Dopo aver esaltato l’opera di Stalin il comunicato interpreta il dolore del popolo sovietico, e afferma: «In queste tristi giornate tutti i popoli del nostro Paese si stringono più vicini in una grande e fraterna famiglia sotto la provata guida del partito Comunista, creato ed accresciuto da Lenin e Stalin». Dopo aver esaltato la funzione del Partito nello stato Sovietico, ed aver affermato che l’esattezza della politica del Partito Comunista è stata dimostrata da decenni di lotta il comunicato così prosegue: «Il popolo sovietico sa che la capacità difensiva e la potenza militare dello stato sovietico stanno crescendo e rafforzandosi, e sa che il partito rafforza in ogni modo l’esercito, la marina, e i suoi istituti culturali, mirando al costante progresso della nostra preparazione, allo scopo di poter respingere decisamente qualsiasi aggressione». Infine il comunicato conferma la politica «pacifista» del partito Comunista Sovietico ed esprime sentimenti di fraterna amicizia ai popoli satelliti e ai lavoratori dei paesi capitalisti e coloniali. È stato annunciato che la salma del maresciallo Stalin sarà esposta nella Sala Delle Colonne del Palazzo dei Sindacati di Mosca. Chi è l’erede di Stalin? In materia di successione dei dittatori non si hanno riferimenti sicuri. Mussolini se ne preoccupò vagamente verso il 1932 e ne tenne discorso con il Ludwig in uno dei famosi «Colloqui». Nominò due o tre di coloro che riteneva suoi «discepoli», ma, più tardi, quando un sanguigno tramonto l’avvertì della prossima fine, ebbe il buon senso di dichiarare lui stesso la inutilità di un «erede». Hitler fu più formale; dopo di aver nettamente designato Rudolf Hess, dovette sconfessarlo, quando l’«erede», in preda ad una crisi di coscienza, scappò in Scozzia con un aeroplano da caccia. Il posto di Hess fu occupato da Goering e tenuto, durante tutto il resto della guerra, sino alle settimane dell’assedio di Berlino. Goering, com’è noto scappò prima in Baviera e poi raggiunse gli Alleati sul Mare del Nord. Hitler dal fondo del suo «bunker» corazzato nei sotterranei della Cancelleria, dopo di aver sposato Eva Braun, regolarizzò anche la successione. Goering fu additato all’obbrobbrio dei nazisti come traditore. Capo del moribondo Terzo Reich venne indicato prima Goebbles che rifiutò dichiarando di voler seguire sulla strada del suicidio il Fuhrer; e poi Martin Bormann, ultimo segretario del partito nazional-socialista. Bormann, dopo di aver assistito alla morte di Goebbles e della sua famiglia, di Hitler e di Eva; dopo di aver provveduto al bruciamento dei corpi, uscì dal «bunker» e si perse nelle strade di berlino. La sua sorte è sconosciuta. A Stalin seguita una prassi simile? A egli, come Mussolini e Hitler, indicato un suo successore? Sino ad esso non si sa. Forse non lo ha fatto. L’erede di Stalin è, dunque, il Consiglio Ristretto dei Capi dell’URSS e del Comunismo mondiale noto col nome di Bolitburo. Da questo ristretto senato dovrà uscire il nome del Primo Ministro; a meno che forze esterne, i militari, per esempio, non vogliano intervenire. Stalin, com’è noto, non era il capo dello stato russo, e neppure più segretario del Partito Comunista. A quest’ultima carica che gli era servita dalla morte di Lenin in poi come una leva potente, inflessibile e insostituibile per dominare l’immenso ingranaggio della burocrazia sovietica, egli aveva rinunciato durante la seconda guerra mondiale. Con la vittoria gli era venuto il titolo di Generalissimo delle forze di terra, di cielo e di mare. Era questa la dignità principale sulla quale riposava il controllo della intera vita russa e la sicurezza del suo potere. Come presidente del Politburo Primo Ministro e Generalissimo (qualche settimana fa un giornale comunista francese adoperò addirittura il termine di «Maresciallissimo») Stalin s’era situato ad una quota irraggiungibile. Dall’alto delle sue dignità egli guardava persino il Capo dello Stato, il modesto Shwernik, succeduto al modesto Kalinin: una specie di re al quale non era, e non è dato, nè di regnare, nè di governare. Assai più che dai titoli ufficiali Stalin ripeteva il proprio prestigio dall’essere diventato, traverso una faticosa aggiustatura della storia scritta, traverso centinaia di milioni di rubli spesi in sempre nuove e sempre «aggiornate» edizioni della storia contemporanea, sia russa che del Partito Comunista, il «solo» vero creatore dell’Unione Sovietica. Come Stalin si preoccupasse della storia è dimostrato dalla fortuna politica toccata ad un uomo, il Beria, che oggi si trova allineato nella lista dei suoi successori. Poiché occorreva dimostrare la parte preminente avuta da Stalin nelle rivolte del Caucaso del 1905-07, revocata in circostanziato dubbio dai trotzskisti, l’oscuro funzionario della G.P.U., Laurenti Beria, scrisse un volumetto il cui titolo inglese è «On the History of the Bolscevic Organizzation in Transcaucasia»., di pura e solida apologia (...) (...) Erano gli uomini con i quali Stalin si era trovato faccia a faccia, nel suo lento ma fatale, ma pesante, ma inarrestabile ascendere dalla carica di Segretario del Partito, insignificante mentre vivevano Lenin e gli uomini che avevano prima teorizzata e poi realizzata la rivoluzione; divenuta la piattaforma del potere, quando - morto Lenin - Stalin con una genialità asiatica, lenta e tortuosa, ma fatale operò al «interno» del regime una specie di silenziosa rivoluzione. Sulla trasformazione del Politburo da organo costituzionale sovietico, in strumento della dittatura. Il Politburo era nato durante la guerra civile, dalle necessità urgenti e a volte angoscianti della lotta per la conservazione della rivoluzione di ottobre. Lenin «scelse» un gruppetto di uomini al quale venivano deferite le decisioni di rapida e massima responsabilità. 

Guareschi, un emarginato da Nobel per la letteratura. Nel 1965 l'Accademia di Svezia voleva premiarlo. Per i conformisti di casa nostra invece non era degno di nota..., scrive Daniele Abbiati Mercoledì, 06/01/2016, su “Il Giornale”. Sarà provinciale dirlo, ma molto spesso il Nobel per la Letteratura è un premio al milite ignoto (o quasi). Quando poi si pensi che esiste un esercito di generali, condottieri e in qualche caso autentici eroi del romanzo che non lo hanno vinto, tipo Tolstoj, Proust, Borges e compagnia scrivendo...Un provinciale ben più nobile di noi (da Nobel, appunto...), anzi il provinciale per eccellenza, di penna e di gloria, ahinoi e ahilui quasi tutta postuma avrebbe potuto vincerlo, il premio dell'Accademia Svedese. Lo rivelano proprio gli archivi del sancta sanctorum scandinavo risalenti a mezzo secolo fa, anno di disgrazia (per il Nostro) 1965. Ebbene sì, Giovannino Guareschi figurava nelle nominations, accanto a nomi grossi come Anna Akhmatova, Marguerite Yourcenar, Ezra Pound, Georges Simenon, Giuseppe Ungaretti e molti altri. Il suo sponsor? Mario Manlio Rossi, all'epoca professore di filosofia e letteratura all'Università di Edimburgo. Non a caso, un italiano all'estero. Perché l'Italia di cinquant'anni fa, l'Italia poverella del boom economico e ricca d'inventiva ma governata dai monocolore democristiani, l'Italia della commedia all'italiana, aveva messo la sordina al dramma del papà di Peppone e Don Camillo. In fondo, dieci anni prima era stato in galera per la nota questione del «Ta-pum del cecchino» non gradita a De Gasperi, e dunque non era percepito come uno stinco di santo, nonostante l'intercessione del suo amico parroco. Pensate, in occasione della sua messa al gabbio, durante un'allegra cena conviviale al «Bagutta» di Milano affollato di bella gente, s'era addirittura brindato alla lieta novella, presente fra gli altri, come relazionò Indro Montanelli sul Candido, il sommo poeta Eugenio Montale. «Guadagnati coi libri dei quattrini - ricordava nel '65 Guareschi - ho tentato di fare l'agricoltore e l'oste, con lacrimevoli risultati per me, per l'agricoltura e per l'industria turistico-alberghiera del mio paese. Adesso sono pressoché disoccupato, perché nessuno in Italia, eccettuato un amico di Roma, ha l'incoscienza di pubblicare i miei articoli e disegni politici. Ma io non mi agito e mi limito ad aspettare tranquillamente che scoppi la rivoluzione». Alle Roncole aveva aperto un piccolo ristorante e collaborava con la Paul Film scrivendo testi per i caroselli pubblicitari...Morirà tre anni dopo, Giovannino, il 22 luglio del '68 (22 luglio, come Indro). E Baldassarre Molossi, sulla Gazzetta di Parma, fu tra i pochissimi a ricordarne come si doveva la grandezza: «Giovannino Guareschi - scrisse il 25 luglio - è lo scrittore italiano più letto al mondo con traduzioni in tutte le lingue e cifre di tiratura da capogiro. Ma l'Italia ufficiale lo ha ignorato. Molti dei nostri attuali governanti devono pur qualcosa a Guareschi e alla sua strenua battaglia del 1948 se oggi siedono ancora su poltrone ministeriali, ma nessuno di essi si è mosso. Nessuno di essi si è fatto vivo . Anche Giovannino Guareschi ormai riposa al cimitero dei galantuomini. È un luogo poco affollato. L'abbiamo capito ieri, mentre ci contavamo tra di noi vecchi amici degli anni di gioventù e qualche giornalista, sulle dita di due mani». C'erano infatti Nino Nutrizio, Enzo Biagi, Enzo Ferrari. Gli altri, non pervenuti. L'infarto che si era portato via il deus ex machina di un Mondo piccolo ma anche grande era stato derubricato a lieve infreddatura, giudicando dai titoli di alcune testate. «Malinconico tramonto dello scrittore che non era mai sorto», borbottò in stile trinariciuto l'Unità. Ma i cattolici non furono da meno, tutt'altro. Il Nostro Tempo, espressione diretta della curia di Torino, lo omaggiò con l'elegantissimo titolo «Guareschi diede voce all'italiano mediocre». L'articolista, Elidio Antonelli, incominciò così il suo pezzo: «Era un uomo finito». E lo concluse così: «Fu in definitiva un corruttore». Evidentemente, contava di cavarsela con due Ave Maria e un Pater noster. Poco lungimirante, oltre che poco informato, don Lorenzo Bedeschi sull'Avvenire: «Peppone e don Camillo sono premorti al loro autore». Insomma, prima di ringraziare a posteriori l'oscuro professor Mario Manlio Rossi per la candidatura di Giovannino, e prima di chiederci se ce lo siamo davvero meritati, uno scrittore come Guareschi, testimone e custode di un'Italia orgogliosamente provinciale e onesta di qualsiasi colore fosse, il nostro Bernanos al lambrusco, il nostro Turgenev in bicicletta, dovremmo chiederci che cosa abbiamo fatto di male per aver avuto questi tromboni che suonavano lo spartito del regime. Del resto, se le colpe dei padri ricadono sui figli, quelle dei nonni mettono ko i nipoti. Nel '65, il premio Nobel per la Letteratura andò al russo Michail Aleksandrovic olochov, autore di Il placido Don. Il Don sarà anche placido, ma il Po è ancora lì che piange la morte di Guareschi.

Don Camillo bombarolo fa esplodere i comunisti. Avversari sempre, nemici mai. Nelle sceneggiature inedite un'Italia divisa ma rispettosa, scrive Egidio Bandini Domenica, 26/07/2015, su “Il Giornale”. «Al caro amico Guareschi/ sperando che un eventuale quarto/ Don Camillo lo possa compensare/ delle delusioni dei primi tre», firmato: Angelo Rizzoli. Data: 20 ottobre 1955. Questa dedica, che il commendator Rizzoli scrisse di suo pugno sulla copertina dell'opuscolo fotografico dedicato al film Don Camillo e l'onorevole Peppone, pubblicato dall'ufficio stampa della D.E.A.R. Film, basterebbe da sola a far capire, pure al più sprovveduto dei lettori, quali fossero i rapporti fra Giovannino Guareschi e il cinema. La dedica, tra l'altro, suona quanto mai inadeguata perché fu proprio l'eventuale quarto Don Camillo a far andare Giovannino su tutte le furie, sino a dare le dimissioni dal Candido e provocare, indirettamente, la chiusura del settimanale satirico più famoso d'Italia. Ma perché Guareschi cercò, sempre senza successo, di ribellarsi a produttori, sceneggiatori e registi per come venivano tradotti in immagini i suoi racconti di Mondo piccolo? E, soprattutto, perché Giovannino se la prese tanto con quelli che chiamava, poco amichevolmente, i «cinematografari», visto che i film ebbero un successo straordinario, capace di far ricredere chiunque sulla loro validità, al punto che, ancor oggi, a 60 anni di distanza, fanno ascolti da record ogni anno sulle reti televisive nazionali? Occorre procedere con ordine: sin dal 1951 Guareschi scrisse di proprio pugno - meglio, di proprie dita, visto che usava la macchina per scrivere - le sceneggiature originali dei film, su richiesta dello stesso «Commenda» e le scrisse, non solo scegliendo fra i racconti pubblicati sul Candido o nei volumi della serie «Mondo piccolo», ma addirittura inventando nuove storie, nuove situazioni, in grado di reggere la trama di un lungometraggio, dove i protagonisti dovevano essere, sempre e comunque, il pretone e il grosso sindaco della Bassa. L'intento di Guareschi era quello di far giungere agli spettatori lo stesso, identico messaggio che era giunto a milioni di lettori con i racconti della saga di Peppone e don Camillo, come egli stesso scriveva, spiegandone le motivazioni: «In un mondo carico d'odio, la gente sogna di poter vivere lottando, sì, ma in modo che gli uomini, pur rimanendo avversari fierissimi, non diventino nemici. E, all'ultimo momento, la passione politica sia vinta dal buon senso. E l'ultima parola, in ogni conflitto, sia quella della coscienza». Per coscienza, Giovannino intendeva, naturalmente, la voce del Cristo dell'altar maggiore, quella che egli stesso definiva «la voce della mia coscienza». Tutto ciò, evidentemente, urtava con gli intendimenti di Angelo Rizzoli e dei vari registi che si succedettero alla guida dei film: Julien Duvivier per i primi due, Carmine Gallone per il terzo e il quarto, Luigi Comencini per il quinto, l'ultimo girato Guareschi vivente. Sta di fatto che leggendo, come ha fatto il sottoscritto, le sceneggiature originali, scritte da Giovannino per ognuno dei film di don Camillo, si scopre qualcosa di assolutamente nuovo, cinque film mai visti, da immaginare con gli immancabili Fernandel e Gino Cervi nei panni di don Camillo e di Peppone: cinque storie per la maggior parte del tutto inedite, insomma, un Don Camillo scritto da Giovannino Guareschi e che nessuno ha mai letto. Innanzitutto la scaletta, la successione degli episodi, completamente diversa da quella che abbiamo visto anche in questi giorni in tv: ad esempio, il ritorno al paese di don Camillo nel secondo film, che Giovannino aveva immaginato a seguito dell'alluvione e che, invece, nel lungometraggio sceneggiato da René Barjavel arriva giusto alla fine del film. Poi gli episodi stessi, le scene, alcune escluse da registi e sceneggiatori, alcune addirittura girate e non montate all'interno del film, come quella che pubblichiamo, per gentile concessione di Alberto e Carlotta Guareschi, ovvero la scena della «bomba pasquale», realizzata per il film Don Camillo e l'onorevole Peppone e non inserita da Gallone. A provare il fatto la prima locandina del film (non utilizzata) e la foto di scena di don Camillo che solleva la bomba per lanciarla ai piedi di Peppone & Co. Stessa sorte nel quarto film, Don Camillo monsignore, ma non troppo toccherà alla scena del trattore sovietico, inserita a viva forza da Guareschi ne Il compagno don Camillo dal quale, però, Comencini epurò la vicenda del «compagno padre», cui Giovannino teneva moltissimo. A proposito, poi, del film Don Camillo e l'onorevole Peppone, girato mentre Guareschi era in carcere a Parma, è illuminante quanto scriveva, dalle patrie galere, lo stesso Giovannino ad Alessandro Minardi: «Accordo per il 3° Don Camillo da realizzare su soggetto e sceneggiatura di Giovannino Guareschi sotto il titolo: L'on. Peppone ... alle seguenti condizioni: Soggetto, “sceneggiatura base” e dialoghi dovranno essere opera del sign. Guareschi e solo del sign. Guareschi. La lavorazione del film in parola potrà essere iniziata solo e quando la “sceneggiatura tecnica” definitiva, elaborata dal regista, abbia la approvazione del sign. Guareschi. Il film non potrà essere proiettato al pubblico qualora non abbia l'approvazione del sign. Guareschi. Il titolo del film dovrà essere quello proposto dal sign. Guareschi e precisamente L'onorevole Peppone ... Il comm. Angelo Rizzoli, e non il Regista o altri, è responsabile di ogni violazione del presente accordo». Le cose, come sappiamo, andarono in modo diverso, ma Giovannino, nonostante tutto si limitò, dopo aver assistito alla prima del film a «dire alcune cose sgradevoli al signor Gallone». E questo è soltanto un assaggio di ciò che furono i rapporti di Guareschi con il mondo del cinema: un confronto (per non dire un conflitto) fatto di rinunce, prese di posizione, lettere e telegrammi che, davvero, servirebbero a scrivere una storia nella storia, un romanzo di «cappa e spada» con protagonisti Giovannino Guareschi nei panni del moschettiere D'Artagnan, Angelo Rizzoli in quelli di Richelieu e, volta a volta, Julien Duvivier, Carmine Gallone, Luigi Comencini, René Barjavel e gli altri sceneggiatori nelle vesti delle guardie del cardinale, eterni nemici di D'Artagnan e soci. Mancano, però, tre personaggi a questo novello romanzo di Dumas: Athos, Portos e Aramis. Sì, perché nessuno, almeno all'interno di tutto il variegato mondo che girava attorno a Cinecittà, prese mai le difese di Guareschi.

Leo, Curzio, Indro e Giovannino I film girati con la mano destra. Tra il 1943 e il 1963 Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi furono registi della loro prima e unica pellicola, raccontando con originalità momenti cruciali della storia d'Italia, scrive Giancarlo Mancini Domenica 23/08/2015, su “Il Giornale”. Il grande racconto dell'Italia del dopoguerra, anche al cinema, l'hanno realizzato quattro conservatori doc come Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi. Intellettuali che per tutta la vita sono stati indisponibili a raccontare quello che i grandi partiti o i salotti volevano far sapere al grande pubblico. Erano anticomunisti, certo, ma non per questo erano disposti a lesinare critiche ai partiti di governo. Parteggiavano per la borghesia ma verso quella italiana nutrirono perplessità e ne rilevarono le mancanze. I loro film (Dieci minuti di vita, Cristo proibito, I sogni muoiono all'alba e La Rabbia) messi assieme vanno a formare un racconto inedito, scritto con la mano destra anziché con la sinistra, della storia italiana nel ventennio che va dal 1943 al 1963. Si tratta di quattro «opere prime» rimaste tali. Ognuna affronta un nodo nevralgico della nostra storia recente, dalla caduta del fascismo alla guerra civile, dai fatti d'Ungheria con i loro tragici risvolti per la sinistra italiana al boom economico. Snobbati dai manuali di storia del cinema, spesso ignorati dai divulgatori «ufficiali», questi film non solo ci raccontano la Storia con la S maiuscola da un'altra angolazione, ma sono una vera contro-scuola di pensiero libero. Ma come mai questi intellettuali, così impegnati nel giornalismo, nella scrittura, nella comunicazione, decidono ad un certo punto di fare un film? Partiamo da Longanesi, il cui interesse per il cinema inizia molto tempo prima di girare Dieci minuti di vita. Siamo verso la fine degli anni Venti. L'autore del Vade-mecum del perfetto fascista e del motto «Mussolini ha sempre ragione» si concede la libertà di dire che se il fascismo vorrà davvero imporsi come un modo nuovo di vivere e di guardare le cose, se si vorrà completare la rivoluzione iniziata con la Marcia su Roma, allora il regime (e Benito Mussolini in primis) dovrà radicalmente ripensare al ruolo del cinema. Con una serie di articoli pubblicati su L'Italiano, la rivista da lui fondata e diretta, Longanesi avvia una martellante campagna per il rinnovamento del cinema italiano. Scrive Longanesi: «Avete mai visto un film italiano? Vi siete mai accorti che i nostri attori escono dalle risse, dai temporali e dalle battaglie più cruente sempre con l'abito nuovo? Per loro ciò significa “conservare la linea”». Via i dandy alla Gastone, via gli estetismi dannunziani, via gli orpelli, le baracconate da fiera circense, la proposta di Longanesi è orientata verso il cinema dal vero: «Stando alla finestra, mi accorgo che la folla che attraversa la via e si perde in ogni direzione, ha un suo aspetto, una “sua verità” che il cinema assai di rado riesce a mostrarci». La straordinaria capacità intuitiva porta Longanesi a «pronosticare» con parecchi anni di anticipo alcuni dei capisaldi del neorealismo, poetica su cui la sinistra edificherà la propria egemonia, ponendo anche un'ipoteca politica che ha avuto esiti disastrosi per il cinema italiano. Ma le radici del neorealismo, evidentemente, affondano negli anni del regime...La passione di Longanesi per il cinema non si esaurisce, anzi, inizia a scrivere brevi soggetti, collabora con sceneggiatori come Ivo Perilli e Piero Tellini, medita di andare negli Stati Uniti per apprendere i rudimenti della tecnica cinematografica. Insomma, ci sono tutte le premesse per diventare regista, cosa che avviene nel momento più delicato per la vita dell'Italia, del fascismo e di Mussolini. Siamo nell'estate del 1943 e mentre il regime sta crollando a pezzi, Longanesi è finalmente pronto per girare il suo primo e unico film, una satira sull'Italia di quegli anni. Protagonista è un anarchico scappato da un manicomio che, minato un palazzo, vuole osservare come ogni inquilino spenderà i suoi ultimi minuti di vita terrena. C'è il gerarca che si è arricchito in modo abbastanza equivoco, ci sono gli estenuati amanti dannunziani che si crogiolano sul modo migliore per togliersi la vita, c'è il marito che trovata la moglie a letto con l'amante... la lascia nell'appartamento che sta per esplodere. Con la firma dell'armistizio, l'8 settembre 1943 e l'imminente occupazione delle truppe tedesche di Roma, Longanesi decide di fuggire a Napoli, lasciando incompleto il film di cui, dopo varie peripezie, sono sopravvissuti appena 36 minuti praticamente inediti al di fuori di una ristrettissima cerchia di cultori. Ma è un lascito che unito ai suoi scritti cinematografici è oggi fondamentale riscoprire e rivalutare. Passano pochi anni e tocca a Curzio Malaparte, altro intellettuale non etichettabile secondo i rigidi canoni del dopoguerra, raccogliere il testimone lasciato da Longanesi e mettersi dietro la macchina da presa. Dopo aver scritto i suoi due libri più conosciuti (La pelle e Kaputt ), nel 1950 lo scrittore toscano si mette al lavoro su un tema che come pochi altri brucia sulla pelle degli italiani: la guerra civile. L'argomento è tabù, né la Democrazia cristiana al governo né le sinistre hanno voglia di rievocare quei giorni in cui si sono susseguiti i rastrellamenti, le vendette incrociate, i linciaggi, le esecuzioni sommarie, le foibe. Il protagonista di Cristo proibito si chiama Bruno, è appena tornato dalla Russia, al suo arrivo a casa scopre che il fratello è stato fucilato dai fascisti. Da quel momento una sorta di demone della vendetta si impadronisce di lui. Nonostante i genitori lo spingano a dimenticare, Bruno non riesce a mettere da parte il desiderio di conoscere il nome della persona responsabile della morte del fratello. Malaparte non si accontenta di raccontare l'Italia del dopoguerra con i suoi tormenti e le sue ferite; vuole metterne in risalto anche i valori che la possono far rinascere. «È un fatto - dice Malaparte - che il popolo italiano reagisce alla Storia di cui è protagonista in modo molto diverso da quello di altri popoli. Vi reagisce anche sul piano morale oltreché su quello del costume. Coloro che parlano di amoralità del popolo italiano non capiscono l'Italia e gli italiani». Il film è ambientato nella sua Toscana, si vede la piazza di Montepulciano, Cetona, il gioco della croce, un rito antico di secoli dove un vecchio contadino dopo aver a lungo portato la croce cerca tra la folla qualcuno che possa sobbarcarsi il sacrificio di espiare le colpe di tutti. Il significato cristiano del film è in effetti il lascito di quest'opera di Malaparte in cui sacrificio, perdono, compassione sono valori di cui è impregnata la carne viva dei personaggi. Presentata al festival di Cannes del 1951, la pellicola riceve una accoglienza positiva ma questo non la protegge dalle accuse della stampa di sinistra. Infatti, nonostante Malaparte in quegli anni si sia pubblicamente avvicinato al Partito comunista italiano, e in particolare a Togliatti, le riviste capofila del marxismo ortodosso come Cinema nuovo non risparmiano critiche al film e al regista. Pochi sembrano disposti a «perdonare» a Malaparte la libertà di rappresentare un Paese diviso tra chi si illude di poter dimenticare la morte dei propri figli e chi cerca a tutti i costi la vendetta. Passano una decina d'anni ed eccoci al terzo capitolo del nostro racconto. Stavolta è Indro Montanelli a mettersi dietro la macchina da presa. Il film è I sogni muoiono all'alba, realizzato nel 1960 con l'ausilio tecnico di Mario Craveri ed Enrico Gras. La sceneggiatura è tratta da un dramma teatrale scritto dallo stesso giornalista qualche tempo prima e ambientato in un albergo di Budapest durante i giorni della rivolta che nell'ottobre del 1956 venne schiacciata dall'Urss con l'invio dei carri armati. Protagonisti sono quattro giornalisti italiani inviati nella capitale magiara per raccontare quello storico momento e rimasti intrappolati in albergo a causa dell'incrudelirsi degli scontri tra quanti sono rimasti fedeli a Mosca e quanti invece sostengono il programma riformista di Imre Nagy. Il titolo riprende quello di una canzone che i patrioti ungheresi, ostili alle intromissioni di Mosca, cantavano in quei giorni tremendi e crudeli. Sergio, Franco, Alberto ed Andrea non sono solo quattro giornalisti, sono degli uomini con passioni politiche e umane. Mentre discutono, litigano, si accapigliano, vengono rievocati alcuni snodi cruciali del nostro dopoguerra, le epurazioni nei giornali (evento che aveva riguardato lo stesso Montanelli), le delazioni, i tradimenti. Nella capitale ungherese il sogno di molti patrioti sta per scontrarsi con la dura repressione dei sovietici. «Ci avete rintronato la testa con questi sogni ma la volete guardare in faccia questa realtà?», dice ad un certo punto uno dei personaggi. Montanelli non nasconde la simpatia per i rivoltosi ungheresi. Altrettanto sincero, ma impietoso, è il suo giudizio verso le ipocrisie, le reticenze, le bugie di cui molti, sia fra i giornalisti sia fra i militanti del Pci, si servirono per «giustificare» l'invasione dell'Armata rossa. Anche in questo film, come in quelli di Longanesi e Malaparte, Montanelli vuole aiutare lo spettatore a guardare oltre i luoghi comuni e a raccontare quello che sta succedendo davvero, senza accontentarsi delle versioni ufficiali, né delle verità preconfezionate. Quando molti anni dopo un lettore gli chiese come mai avesse deciso di realizzare I sogni muoiono all'alba, il giornalista di Fucecchio rispose così: «Io non mi proponevo di fare un film spettacolare di bombe e sangue, ma soltanto di dimostrare due cose: che quella rivolta non era nata fuori, ma dentro il Partito comunista, e quali effetti aveva sortito sulla coscienza degli osservatori comunisti (parlo, si capisce, di quelli in buona fede) che si trovarono coinvolti in quell'avvenimento». E infatti I sogni muoiono all'alba è importante oggi proprio perché ci aiuta a capire il peso che gli eventi del 1956 hanno avuto nel nostro Paese. Nonostante gli sforzi di Togliatti di giustificare l'intervento sovietico anche in Italia in molti iniziarono a rendersi conto di quello che significava vivere oltre la cortina di ferro. Dentro al Partito comunista serpeggiava un dissenso che esplose pubblicamente e portò alle prime fuoriuscite. Era iniziato il lungo cammino della sinistra italiana verso la verità sui regimi dei Paesi socialisti. L'ultimo tassello della nostra storia è l'episodio de La Rabbia di Giovannino Guareschi. Un film di montaggio in due parti, una affidata a Pier Paolo Pasolini e l'altra, appunto, all'inventore di Don Camillo. Siamo nel 1963, l'anno di massimo splendore della rinascita italiana, in pieno boom economico. Anche in Italia come nel resto del mondo occidentale si sta aprendo l'era del consumo di massa. Frigoriferi, lavatrici, televisori. La sfida all'Unione sovietica si gioca anche sulla capacità delle democrazie occidentali di diffondere il benessere in modo capillare. Dal punto di vista politico siamo in un clima sospeso tra il rinnovamento portato da Kennedy negli Stati Uniti, gli ambigui tentativi di Krusciov in Urss e il crescere di nuove tensioni razziali e politiche. Guareschi osserva con preoccupazione al nuovo mondo nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale, non ama i giovani che si dibattono freneticamente sulle piste da ballo, la corsa al consumismo, la crisi di istituzioni come la famiglia. Le sue sono le parole di uno scettico radicale: «Tutto è facile. Per farsi una famiglia basta consultare un catalogo di elettrodomestici, c'è una macchina per ogni cosa eccetto purtroppo quella per educare i figli. È facile farsi una famiglia, è facile disfarla. Il benessere che, facendo entrare 13-14 mesi in un anno, ci ha dato il mese corto, ci ha dato anche il matrimonio corto. È l'ora dei miracoli, il miracolo automobilistico, per cui camminare a piedi è diventato un lusso, il miracolo petrolifero per cui dai pozzi emiliani sgorga petrolio russo così l'Italia ha il suo carburante nazionale». Il suo film è una rivisitazione dei grandi rivolgimenti avvenuti dalla fine della guerra al 1963. Guareschi, che è stato imprigionato in un campo di concentramento tedesco, commentando le immagini di piazzale Loreto e il vituperio sui corpi di Mussolini e della Petacci, parla di una «vendetta barbara». Ma non mancano gli affondi pieni di ironia e di sarcasmo, degni dell'inventore di Don Camillo e Peppone, le due maschere simbolo dell'Italia del dopoguerra. A Louis Aragon poeta comunista e stalinista non pentito, Guareschi dice: «Krusciov non gli ha ancora detto quale criminale fosse da vivo l'uomo del Cremlino». Questo film, come gli altri che abbiamo ricordato, non godrà di una eccessiva fortuna al botteghino, forse le verità e le idee di questi quattro grandi intellettuali erano troppo laceranti per l'Italia di quegli anni. La loro lezione di libertà e di coraggio è sempre utile. Per questo sarà giusto ricordare accanto ai loro libri e articoli anche queste quattro opere rimaste per tanto, troppo tempo, nel dimenticatoio.

Piero Buscaroli: l’Italia fa orrore (la Lega meno). I disgusti dell'Indignato Speciale: Fummo fascisti nonostante il Duce. A Budapest c'è il ponte Napolitano. Almirante? Un infortunio. Fini? Uno stupido. Si salva Cota, scrive Stefano Lorenzetto, Domenica 11/04/2010, su "Il Giornale". Per entrare nella casa di Piero Buscaroli a Bologna bisogna piegare il capo, come nella basilica della Natività a Betlemme. Il portone in Strada Maggiore non supera il metro e 50 di altezza. Ci si deve far piccini al cospetto di Dio e Buscaroli, a modo suo, questo è: un dio. Della musica, del giornalismo, della storiografia, della polemica, dell’indignazione. Ed è appunto l’Indignato Speciale a intimorirti, mentre affronti lo scalone che su ogni gradino potrebbe allineare almeno otto persone. Incombe dalla sommità: «Non sarà venuto qui anche lei con l’intenzione di farmi passare per nazista?». L’ultimo è stato un inviato delle pagine culturali della Stampa, «un tipo pieno di capelli gialli, sicuro di sé». Hanno bisticciato subito. «Ha osservato che il libro Beethoven è il mio opus magnus. Ho dovuto correggerlo: guardi che opus è neutro, si dice magnum». Il peggio doveva ancora venire. «Sperava di farmi dire che la mia massima aspirazione era quella di diventare guardiano di Auschwitz. Ma si può? Un vero imbecille. Nel 1943 avevo 13 anni». Non mi è di viatico il ricordo del nostro primo e unico incontro, inizi del 1996, quando, da poco vicedirettore del Giornale, incrociai Buscaroli nella segreteria di redazione. Mi squadrò da capo a piedi: «Tu chi sei? Quello nuovo?». È tornato al lei. «Lo vedremo verso la fine se è degno del tu». Mi sta andando già meglio di Mario Calabresi, il direttore dell’inviato biondo, colpevole di non aver tenuto presente che il padre Luigi fu commemorato da Buscaroli, all’epoca direttore del Roma, il quotidiano di Napoli dell’armatore Achille Lauro, con il conio di una medaglia commissionata allo scultore Francesco Messina (e con una sottoscrizione fra i lettori che raccolse «un bel mucchietto di denari» per la vedova e gli orfani del commissario di polizia assassinato da Lotta continua), e perciò destinatario di una lettera che, fra un «cialtrone» e un «pagliaccio», si chiudeva con un epitaffio: «Senza saluti e tanto schifo». C’era di mezzo Dalla parte dei vinti, il nuovo libro di Buscaroli, Memorie e verità del mio Novecento, 521 pagine di «materie disperatamente difformi», magari non il più caro, certo il più sofferto, «ho fatto diventar matto l’editore, all’ultimo momento volevo sciogliere il contratto, m’è costato un’ischemia moderata, un’ischemia Mondadori», 60 anni ci ha messo a scriverlo, altro che l’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo che ne richiese 18, «però non s’azzardi a chiamarlo autobiografia: non lo è». Giovanni Ansaldo, collaboratore della Rivoluzione liberale di Piero Gobetti e poi direttore del Telegrafo di Livorno di proprietà della famiglia Ciano e del Mattino di Napoli, gl’impartì una lezione che non avrebbe mai dimenticato: «Scriva sempre tutto quel che le preme, non ha idea di come faccia presto la memoria a cancellare particolari importanti: bastano 24 ore». Una perizia calligrafica rivelerebbe la datazione originale, se non l’autenticità, di ciò che giorno dopo giorno, notte dopo notte, Buscaroli ha minuziosamente registrato, da cronista, nei suoi taccuini. Su uno appena cominciato, il 12 giugno 1955, si legge un’annotazione di Leo Longanesi: «Me lo riporti, quando l’avrà finito...». Il fondatore del Borghese, che nello stesso anno assunse Buscaroli come inviato speciale, aveva intuito subito che da quelle pagine sarebbe transitata la Storia. Ed eccola qui, la Storia. Paolo Emilio Taviani che nel 1974 convoca a casa propria il nemico Buscaroli, nella speranza di ingraziarsi Giorgio Almirante e assicurarsi i voti del Msi, e gli rivela come se nulla fosse che «insomma, lei dovrebbe intendermi, dico che certe bombe, quelle attribuite alla sinistra, le abbiamo messe noi», noi chi, ministro? la Dc?, «ma no, noi, ministero degli Interni, mi capisce adesso?». La guerra nel Vietnam, seguita per sei estati: «Io parteggiavo per il Sud Vietnam, la Rsi locale, e per il generale Nguyen Cao Ky, che era stato decorato dai francesi in Algeria, un ufficiale con le palle come gli Stati Uniti non l’hanno visto mai, ed ero stupefatto di come le nuove generazioni crescessero bene in quel bagno di turpi guadagni e traffici immondi, di anno in anno vedevo ragazzine sempre più floride, più alte, più sane, più svelte, e giunsi a una conclusione prezzoliniana, disperante per un moralista: il vizio migliora la specie». La rivolta d’Ungheria: «A Budapest uno dei ponti sul Danubio viene ancor oggi chiamato Napolitano, per non dimenticare che nel 1956 il futuro capo dello Stato italiano proclamò come gli invasori sovietici avessero salvato la pace mondiale. Trent’anni ci ha messo a chiedere scusa». Nella casa-museo di Buscaroli, un dedalo, l’unico modo per non perdersi è memorizzare la posizione dei Cesari nei medaglioni appesi sopra gli architravi, dei mobili stile impero, dei pianoforti, dei dipinti («questa è l’ultima tempera su carta di Mario Sironi, me la regalò la figlia, un fascio stilizzato sormontato dalla penna d’oca degli scrittori, nessuno aveva mai fatto caso alla similitudine»), delle foto d’epoca, del sorprendente ritratto di Osama Bin Laden in una cornice d’argento, soprattutto di alcuni dei 10.000 libri che a ogni passo, a ogni corridoio, a ogni anticamera, a ogni stanza ti guidano, ti assediano, ti soffocano. Nell’ultimo salone, quello con le due sedie Biedermeier appartenute a Richard Wagner, c’è il pianoforte Érard del 1856 su cui suonò Johannes Brahms. «Me lo restaurò Fabbrini, lei sa chi è Fabbrini?». Veramente no. «Male, ora glielo spiego, queste cose un giornalista le deve sapere. Angelo Fabbrini era l’accordatore di Arturo Benedetti Michelangeli, tre anni ci ha messo a rifarlo nel suo laboratorio di Pescara, per portarlo su dalle scale c’è voluto una specie di cingolato leggero, con mezza Bologna ferma giù di sotto a guardare». Compirà 80 anni fra qualche mese ed è come se avesse vissuto non una, ma dieci vite. Tutto il mondo gli è ruotato intorno e lui lì, sull’attenti, irremovibile. «Italia nemica, a fondo, sempre. Era la prima cosa che dicevo ai miei figli appena nascevano», tre volte ha ripetuto quel tragico giuramento. Buscaroli non parla: esonda. Il 5 marzo 1970 fu costretta a occuparsene persino la Pravda - a ogni citazione ti sopraffà col suo dinamismo prensile nello scovare a colpo sicuro il ritaglio giusto da migliaia di agende, faldoni, scartafacci - «ecco qua, queste due paroline in caratteri cirillici significano Piero Buscaroli e qui c’è scritto che sono un mascalzone, mi assicura un esperto di interna corporis bolscevichi che il giornale ufficiale del Pcus mai usava riferirsi agli stranieri con nome e cognome». La Verità moscovita quella volta fece un’eccezione, non solo perché Buscaroli aveva denunciato sul Borghese l’intenzione sovietica di smembrare la Jugoslavia, ma perché se lo meritava: non ha mai stretto la mano a un comunista in vita sua, «e se dovevo andare in posti frequentati da canaglie, prima indossavo i guanti». L’unica volta che si lasciò afferrare «due dita in punta», ovviamente guantate, fu da direttore del Roma, quando, durante un processo nella pretura di Castel Capuano, lo ghermì alle spalle «un certo avvocato Iossa, o Fossa, consigliere comunale del Pci, che mi aveva denunciato per conto di una professoressa comunista e cieca e protendeva la mano piatendo 300.000 lire per rimettere la querela: “Direttore, voi siete umano, siete un signore...”». È vero. Il Buscaroli umano, che non t’aspetti, è quello che alla fine dell’intervista decide di poter tornare a darti del tu. Lo stesso che la domenica delle Palme, accompagnato dai familiari, ha voluto «vedere la destinazione finale» a Monteleone di Roncofreddo, «è un bel cimiterino su un poggio», col geometra Zamagni che esaltava l’erigenda tomba di famiglia come «il sarcofago del fondatore» e col per nulla convinto futuro inquilino che raccomandava: «Né Madonnine piangenti, né simboli cristiani», ma non osava contraddire la figlia Beatrice, critica d’arte, che eccepiva: «Guarda babbo che la mamma vuole la croce».

La questione sepoltura non mi sembra attuale.

«Quello che chiamano Dio sa che scherzo mi ha fatto? Sì, insomma, quel qualcuno che tiene la contabilità ha detto: al Buscaroli abbiamo tolto dalla testa molti nomi, ma dopo un minuto e mezzo glieli restituiamo. Per cui ho affinato l’arte di divagare per 90 secondi».

Non la trovo affatto svaporato.

«Fino al 22 luglio, prima dell’ischemia, avevo una memoria nichelata. Mai smarrito un ricordo. Adesso arrivo davanti all’edicola e non mi sovvengo di come si chiama Il Sole 24 Ore. Non posso mica dire: mi dia il giornale rosa dei ragionieri. Aspetto».

Da dove viene la mitologica asprezza del suo carattere?

«Sono aspro quando voglio. Con quelli che non mi piacciono. Con i bugiardi. Con i comunisti».

Piero il Terribile.

«Lasci perdere il titolo del Foglio. Non mi ci riconosco. Semmai passo per eccessivamente accondiscendente. Mia moglie Maria Grazia ogni tanto mi fa l’elenco di quelli che ho salvato».

In che modo vi conosceste?

«Andando a trovare i nostri padri prigionieri nel carcere di San Giovanni in Monte. Neppure Giampaolo Pansa ha un’idea di che cos’è stata la vita di noi appartati, dispersi in tante tane».

«Vae victis». A lei, da vinto, che guai sono toccati?

«I partigiani hanno tentato tre volte di ammazzarmi. La mia unica preoccupazione era morire bene. Quando arriva quel momento, non reagisci. Ti acquatti e aspetti che tutto finisca. Mi salvarono due ufficiali polacchi che odiavano i comunisti. E poi la distruzione della famiglia. Quattro zii morti. Mio padre Corso, insigne latinista, incriminato per un reato inesistente. Era il miglior amico di Dino Grandi (il ministro che preparò l’ordine del giorno di sfiducia al Duce votato nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943, ndr). Da reggente del fascio di Imola non ebbe alcun ruolo nelle rappresaglie. Lo tenevano in galera dal giugno del 1945. Aveva fatto i calcoli: era sicuro di uscire presto. Il direttore del carcere nell’estate del 1948 lo convocò: “Professore, ho una brutta notizia per lei. Sono arrivati i conteggi: le restano da scontare tre anni”. Il babbo aveva una pressione delirante, 260 di massima, allora non esistevano farmaci. Cadde a terra, colpito da paresi. I conteggi erano sbagliati. A fine anno uscì. Tre mesi dopo era morto. Chiesi la revisione del processo. Fu assolto dalla Cassazione nel 1960».

Dino Grandi è la sua bestia nera.

«Il babbo me l’aveva dipinto come un asino che sbagliava persino a scrivere le parole, roba da non passare la licenza elementare. Nel 1918 era innamorato della sorella maggiore di mio padre, Illiria. Questa mia zia, vedova dell’ingegner Gino Cacciari e nonna di Massimo, il sedicente filosofo già sindaco di Venezia, fino all’ultimo cercò di farmi fare la pace con Grandi. Per meglio dire, era il conte Grandi che invocava disperatamente il mio perdono. Ma quello che pensavo di lui glielo misi per iscritto: “Giudico lei, signor conte, come l’altro conte, il genero (Galeazzo Ciano, marito di Edda Mussolini, ndr), e tutti i soci, fucilati e scampati, per quello che avete fatto; e non per aver ‘tradito il Duce’, come ripetono i fascisti cretini, ma per aver consegnato l’Italia al Badoglio, che la consegnò a tedeschi, inglesi e americani. Senza il 25 luglio, signor conte, non ci sarebbero stati lo sbarco di Salerno e l’infame catena di assassinii che i coglioni chiamano ‘guerra civile’ e fu la guerra inventata e imposta dal partito comunista. Per questo e solo per questo, signor conte, detesto lei e tutti i suoi soci. Voi avete distrutto anche quanto poteva salvarsi, altro che ‘salvare il salvabile’!”».

Grandi la pensava come Indro Montanelli: quando una guerra appare perduta, il male minore è accordarsi col vincitore.

«Quei due erano uguali. A me il feldmaresciallo Albert Kesselring ribadì invece che se il nemico t’impone una resa senza condizioni, non resta che combattere fino in fondo. La Germania e il Giappone seguirono questa via. Fu il maresciallo Pietro Badoglio ad abbandonare l’Italia nelle mani dei nazisti».

Lei non ha grande considerazione di Montanelli. «Lo stimo poco», si legge in Dalla parte dei vinti.

«Montanelli era la copia di Grandi anche in fatto d’ignoranza. Nell’unica pagina che ho letto dei suoi libri sulla storia d’Italia parla della corona ferrea custodita nel Duomo di Monza chiamandola “monile”. Un’ignoranza da far invidia».

Lo accusa d’aver costruito la sua popolarità su un’intervista con Adolf Hitler mai avvenuta e su una condanna a morte emessa dai nazisti, pure questa inventata.

«Da Montanelli non ho mai imparato nulla, se non che i moderati sono peggiori degli estremisti. Ricordo il giorno in cui mi accolse nella redazione del Giornale, allora alloggiata nel Palazzo dell’Informazione in piazza Cavour a Milano, fatto costruire da Benito Mussolini nel 1938 per Il Popolo d’Italia. Nell’atrio mi afferrò un braccio: “Qui Lui diceva... qui Lui faceva... qui Lui scriveva...”. Ma perché mi stringi il braccio? Che c’entro io? Basta! Lo avete glorificato, tradito, ammazzato. Per il Duce non nutro nessun sentimento, se non la pietà. Ti dirò di più, caro Indro: io sono stato fascista nonostante Mussolini, non per Mussolini».

Vorrebbe farmi credere che Montanelli doveva farsi aiutare da Mario Cervi a scrivere i libri di storia perché da solo non ne sarebbe stato capace?

«Da Cervi, da Roberto Gervaso, da Marcello Staglieno. Io non sono mai caduto nella sua rete. Finché una volta, a colazione al ristorante Bice, gli dissi chiaro e tondo: noi non siamo amici. Mi guardò assorto: “Hai ragione, non lo siamo”. E non siamo amici perché tu sei un traditore nato. Avrebbe voluto che fossi io a scrivergli il coccodrillo. Se lo faccio, ti rovino anche da morto, gli risposi. Invece avevo grande stima per Colette Rosselli, la moglie di Montanelli, che non si capacitava di questi miei impeti d’ira: “Sbagli ad arrabbiarti. Non hai ancora capito com’è fatto? Il suo lavoro, il suo articolo, e basta, non c’è altro”. Sa che cosa mi diceva di lui Leo Longanesi? “Quell’Indro finirà nel piscio”».

Oltre a Longanesi, chi sono stati i fari della sua vita?

«Il filosofo Lorenzo Giusso. Il maestro Ireneo Fuser, che fiutò in me un qualche intuito per l’armonia e il contrappunto e mi avviò allo studio dell’organo. Il pittore Ardengo Soffici. Il professor Giovanni de Vergottini, con cui mi laureai in giurisprudenza: m’inoculò la diffidenza per ogni storiografia che non sia incardinata nel diritto. L’anglista Mario Praz, che m’insegnò a distinguere la linea delle epoche, il bello e il brutto, gli stili. E poi Giuseppe Prezzolini, consigliere di tutti i miei comportamenti, il quale 12 anni prima che un erede putativo (Montanelli, ndr) si appropriasse della sua antica testata, disse all’editore Francesco Zuzic: “Oggi l’unico a poter dirigere La Voce forse è Pierino Buscaroli. Avrebbe un grande difetto, però: la scriverebbe tutta lui”. E infine Vittorio Cini. Che persona, che amico, che galantuomo! Lei lo sa che io non sono mai esistito in nessuna manifestazione ufficiale, mi hanno epurato perfino i musicologi?».

Immagino la loro gelosia per lo spessore, anche in senso fisico, dei suoi libri: 1.180 pagine Bach, 1.358 pagine Beethoven...

«Quando Cini scoprì che non m’avevano invitato a un congresso di studi su Ottorino Respighi che si teneva a Venezia sull’Isola di San Giorgio, casa sua, volle portarmici in motoscafo. Giunto il momento di dare il saluto ai convegnisti nel refettorio benedettino dove un tempo vi era la tela delle Nozze di Cana del Veronese, tagliata a pezzi da quel gran ladrone di Napoleone e oggi al Louvre, Cini si finse afono e cedette la parola a me. E quelli furono costretti ad applaudirmi».

Anche Mario Missiroli, direttore del Corriere della Sera dal 1952 al 1961, le ha voluto bene.

«M’insegnò che il giornalista non deve dare al lettore più di un’idea per volta e, se possibile, neanche quella. Era un fascista furioso. Una sera mi prese la mano e mi fece toccare il suo polso: recava la cicatrice di una sciabolata. “Lo senti? È il segno cesareo!”. Gliel’aveva inferto Mussolini in un duello nel 1921. “Sei il più grande”, mi diceva, “potrei fare la tua fortuna”. E in che modo? Assumendomi al Corriere? “Ma come, c’è già quel disgraziato di Montanelli, mica vorrai diventare il numero 2? No, tu devi andare in galera! Per salvare la patria”. Io gli rispondevo: direttore, questa fogna non la salva nessuno, e poi non ne vale la pena, sull’Italia io ci cago. È questo che mi ha sempre unito a Prezzolini: l’odio e il disprezzo per gli italiani».

Ma lei come diventò fascista?

«Non lo ero neanche nell’estate del 1943. Odiavo il sabato fascista, quelle gite assurde nel contado polveroso intorno a Imola, irreggimentati nelle nostre ridicole divise, la camicia nera col fazzoletto azzurro, la medaglietta di Mussolini, tutte cose che mi facevano schifo. Ce l’ho con l’Italia perché, mentre stavamo perdendo le ultime zolle insanguinate della Tunisia, i nostri istruttori durante le marce ci facevano cantare: “È la Marina / l’arma dei fessi / e l’Aviazione / pulisce i cessi”. La precocità è una dote che si perde col tempo. Compivo 13 anni il 21 agosto. Presi la carta da lettera più bella che trovai in casa e scrissi al federale di Bologna, Alfredo Leati. Mi fece rispondere dalla segretaria che non prendeva in considerazione i pareri di un bambino. Cominciai ad aborrire anche i federali. Venti giorni dopo ero rimasto l’unico balilla moschettiere. Fui promosso avanguardista perché non c’era più nessuno».

Siamo all’8 settembre: il proclama di Badoglio, l’armistizio di Cassibile, la Wehrmacht che occupa l’Italia.

«Come faccio a dirle che cosa furono per noi quei giorni? Non c’era mai stato tedeschismo nella nostra famiglia. Mio nonno Pietro era un socialista umanitario che sognava l’invasione della Svizzera e aveva chiamato Corso il primo figlio maschio perché voleva la restituzione della Corsica all’Italia. Mia madre era una Falorsi, i suoi antenati ghibellini avevano combattuto contro i guelfi nella battaglia di Montaperti menzionata da Dante, e aveva perso due fratelli di 22 e 20 anni sul Pasubio nella Strafexpedition del 1916. Un terzo era caduto nella riconquista della Libia. Le restava solo Carlo, il quarto, ferito due volte in Grecia, medaglia d’argento al valor militare, comandante della Scuola ufficiali di Ravenna. L’8 settembre ero a letto con la febbre. Udii un frastuono di pentole che proveniva dalla strada. Le donne urlavano: “È finita la guerra”. Il mio babbo mormorò: “Non sanno che cosa comincia”. Lo zio Carlo si ritrovò da solo con un pugno di uomini. Tutti i comandi militari erano fuggiti a Ortona Mare. Uno dei suoi soldati, preso dalla disperazione, mirò al collo dello zio e lo uccise con un solo colpo, poi si mise il calcio del moschetto fra i piedi e si sparò a sua volta. Ho odiato l’Italia e gli italiani da allora».

Capisco.

«Pochi giorni dopo al ponte sul fiume Santerno mi venne incontro una sagoma nera da Film Luce, due uomini, uno in sella alla motocicletta, l’altro seduto nel sidecar. “I tedeschi! I tedeschi!”. Tutti scappavano. Io solo gli andai incontro. Lasciai cadere la mia bici e feci il saluto romano. L’ufficiale balzò a terra e rispose col saluto romano. Uno scambio di cortesie da cancelleria del Reich. Ecco, mi guardi in faccia: mi fa ancora tremare quel momento. Fu la mia prima decisione da uomo. In quell’istante io diventai ciò che sono. Mi ero schierato. “Nach Ficarolo?”. Poveracci, s’erano solo persi, cercavano la strada per Ficarolo».

È ancora fascista?

«Fummo italiani. Eravamo fascisti per obbedienza, o familiare, o nazionale, o dinastica. Perciò non accetto che mi si dia del nazifascista o, peggio, del nazista, come ha osato apostrofarmi Massimo Cacciari. Feci condannare in un’unica udienza Giorgio Bocca ed Eugenio Scalfari davanti al tribunale di Roma per una simile affermazione. Esordii: signor giudice, non ho mai avuto bisogno di affidare il mio onore a un magistrato, so difendermi da solo, ma questa volta debbo ricorrere a lei, perché “nazista” non è più un giudizio politico, bensì un marchio demonizzante per cancellare una persona, per ridurla al nulla, è il peggio che si possa dire».

Ma Cacciari non si vergogna a portare al polso l’orologio che apparteneva al fratello della madre, fucilato dai partigiani?

«Me lo sono sempre chiesto. Cesare Momo era un tenente che aveva aderito alla Repubblica di Salò. Il comunistino sostiene che lo zio fu ammazzato durante la guerra. Falso! Venne trucidato dieci giorni dopo il 25 aprile, a guerra conclusa, senza alcuna motivazione militare. La distinzione fra strage e macello non è mia, è nel Dizionario di Niccolò Tommaseo, 1851: “Macello s’applica agli animali. Se è per uomini, indica strage più fiera, viene da rea volontà... Il macello va fino alla crudeltà, alla barbarie”. Fu macello, perché vennero massacrati con crudeltà i già vinti e senz’armi».

Che cosa servirebbe per porre fine alla guerra civile?

«La fine del popolo italiano. Non è degno di sopravvivere. La sconfitta della dittatura ha portato alla guerra permanente e alla tirannia del denaro che sta facendo morire la civiltà. Io credo che l’Occidente entro 20 anni sarà finito».

Non c’è speranza.

«La Lega è l’unica salvezza. Può spazzare via la classe dirigente tarlata che ci tiriamo appresso da decenni. Io non voto, sia chiaro. Ma ieri sera a Otto e mezzo su La7 era ospite Roberto Cota. Be’, ho visto una persona diversa, ho ascoltato un modo di ragionare nuovo. È stata una frustata. In quell’uomo parlava un’autenticità che non riscontro in nessun altro politico».

Non è mai troppo tardi.

«L’Italia è stata una finzione che la monarchia e il fascismo hanno potuto solo parzialmente migliorare. Mussolini ha trovato i Savoia e se li è tenuti, ha trovato gli Agnelli e se li è tenuti, ha trovato la Chiesa e se l’è tenuta, anzi l’ha fatta padrona d’Italia. Il fascismo è stato una delusione totale».

E che cosa pensa di Gianfranco Fini, presidente del Senato, secondo il quale il fascismo fu invece «il male assoluto»?

«Si può usare il pensiero per Gianfranco Fini? L’ho sempre spregiato. La gente non sa quant’è stupido. Però io mi considero più stupido di lui, perché insieme con l’ammiraglio Gino Birindelli volevo rovesciare Almirante, al quale scrissi che reputavo la sua presenza il massimo infortunio che potesse toccare al popolo disperso dei fascisti dopo Mussolini. Fini è il vero figlio di Almirante».

Perché questa disistima per Almirante?

«Per il modo indegno con cui sfruttava il suo ruolo di quasi martire. Mi espulse dal Msi accusandomi di non credere nella socializzazione. Io me ne sono sempre fregato degli operai. Pensavo che la Repubblica sociale italiana dovesse solo difendere il passato».

Incluse le leggi antisemite promulgate nel 1938?

«No. Quelle furono un orrore. Un’idiozia prim’ancora che un’infamia».

Però il titolo della Stampa le metteva in bocca una frase terribile: «Non voglio sapere se questo è un uomo».

«Ma per carità! Ho il volto di un individuo che può aver detto un’enormità simile? Nemmeno un cane risponde così. Non ho letto il libro di Primo Levi, tutto qui».

Il politicamente corretto non sa che cosa sia. Sugli omosessuali dichiarò al Corriere: «Sconsiglierei il termine gay. La destra dovrebbe chiamarli correttamente froci o checche. Andrebbero spediti in campo di concentramento».

«Quello fu l’agguato di una tal Latella (Maria Latella, attuale direttore di Anna, ndr). Stravolse il mio pensiero. Dissi che li consideravo degli infelici costretti a vivere come nei lager. È ben diverso. Io ho paura solo della nebbia, non certo degli omosessuali. Esecro chi vorrebbe ergerli a modelli di vita e costruire l’assetto sociale di una nazione sull’omosessualità».

Per lei i trapianti d’organo sono «macelleria di Stato».

«I medici si sono inventati una morte che non esiste, quella cerebrale. La morte è una sola, sa?».

Si considera un perfezionista?

«Non in tutto. Solo in ciò che m’interessa. Nell’Opera 111 di Beethoven, per esempio. E nella scrittura».

Allora perché in Dalla parte dei vinti ha scritto d’essere stato querelato dalla vedova di Mariano Rumor? Al massimo poteva essere la sorella.

«L’ho sposato postumo».

Si dichiara ateo e antireligioso, però suonava Bach nelle cattedrali. La musica non l’ha avvicinata a Dio?

«Non sono né ateo né antireligioso. Già la parola ateo mi fa venire l’orticaria perché mi ricorda Voltaire. Non credo nel monoteismo ossessivo delle tre religioni di Palestina, nel tonitruare d’insopportabili profeti, nell’imposizione di volontà malconosciute, nello scatenacciare porte d’inferni. Non sono né pro Dio, né senza Dio, anche se l’unico in cui credo è il dio Caso. Non ho mai detto ai miei tre figli di non andare in chiesa. Da me avrete imparato almeno la libertà, gli ripeto sempre. Non ho il senso della religione. Ma credo che sia necessaria come instrumentum regni per tutelare l’ordine e i buoni costumi, un modo per disciplinare i popoli. Dio ci vuole. Guai se tutti smettessero di credere in Dio, saremmo finiti. Meno male che c’è Dio».

Si sposò a Santa Maria delle Muratelle.

«Se è per quello sono anche molto amato dai giovani di Comunione e liberazione. Una volta il cardinale Alfredo Ottaviani mi disse: “Non credi in Dio, ma credi nella Chiesa, che c’è!”. Poi soggiunse: “Tu Dio non l’hai ancora conosciuto. Ma lo conoscerai. E finirai sugli altari”. Sono ancora qui che aspetto».

Le è mai capitato di chiedere scusa?

«Tutti i giorni. Nasco dalla giustizia, non quella dei tribunali. È l’unica cosa che è contata davvero qualcosa nella mia vita».

Come vorrebbe essere ricordato?

«Come un buon padre. Ma come un buon padre sul serio, non solo la domenica». (Si ferma). «Ma poi non vorrei nemmeno essere ricordato».

Requiem per Buscaroli, italiano contro. Intellettuale eretico, "fascista deluso", visse sempre dalla parte dei vinti. Litigando con tutti, scrive Camillo Langone, Martedì 16/02/2016, su "Il Giornale". Litigava con tutti, Piero Buscaroli, litigava anche con i suoi estimatori e quindi ha litigato anche con me che lo avevo intervistato in modalità venerante siccome lo consideravo, e lo considero tuttora, un maestro. Litigava con tutti perché tutti coloro che lo circondavano avevano la grave colpa di essere italiani. E per lui i suoi connazionali erano quanto di peggio l'Europa avesse mai generato: «Trattandosi di italiani, non ci si possono aspettare esiti veloci in materie come l'onore nazionale e la morale» scrive in Dalla parte dei vinti che è uno dei suoi libri importanti, miracolosamente pubblicato da Mondadori. Dico miracolosamente perché nemmeno con gli editori andava d'accordo, ci mancherebbe, e perché non è facile trovare una grande casa editrice disposta a pubblicare un simile giudizio sulla resistenza: «Senza il 25 Luglio non ci sarebbero stati lo sbarco di Salerno e l'infame catena di assassinii che i coglioni chiamano guerra civile e che fu la guerra inventata e imposta dal partito comunista». Buscaroli ha odiato gli italiani per oltre settant'anni ovvero dall'Otto Settembre quando appena tredicenne vide disfarsi la nazione. Si trovava a Imola dov'era nato nel 1930 e all'età in cui oggi si ascolta Justin Bieber e si pensa al primo tatuaggio vide morire amici e famigliari e vide tradire Mussolini e Mussolini tradire, o comunque amaramente deludere, e decise di mettersi al fianco del padre Corso, latinista cinquantenne che stoicamente accettò la responsabilità del fascio repubblicano cittadino, scelta che dopo la guerra pagò con anni di carcere. Non la chiamo guerra civile perché altrimenti Buscaroli dall'al di là cataloga come coglione anche me, non la chiamo guerra di liberazione perché non si può chiamare liberazione un'invasione, la chiamo anodinamente Seconda guerra mondiale ed era il tempo delle stragi come quella di Arcevia, paese delle Marche in cui i partigiani comunisti «sterminarono una famiglia di anziane ricamatrici, accusate di essersi fatte ricche col loro lavoro, e quindi nemiche del popolo. Una scena rituale, incredibile e assurda, le anziane cucitrici, i parenti e amici condotti in fila per due a uno spiazzo apposta aperto sulla strada statale, e ivi immolati col dolente assenso del nuovo sindaco e la cittadinanza tutta nascosta, all'italiana, dietro le persiane». Fonte del virgolettato è sempre Dalla parte dei vinti ma di libri ne ha scritti tanti, Buscaroli, e non solo di storia. Era un grande musicologo, anzi, siccome mi sovviene che non voleva essere definito tale mi correggo e lo definisco un grande storico della musica riferendomi al suo libro su Bach, al suo libro su Brahms, al suo libro su Mozart e soprattutto al suo libro su Beethoven che confesso di non avere letto sia perché in quel 2004 ascoltavo Jan Garbarek e Giovanni Lindo Ferretti sia perché la mole, 1.358 pagine, ebbe la meglio sulla mia ammirazione. Paolo Isotta ha definito il gran tomo meraviglioso e questo mi basta, meraviglioso lo sarà senz'altro. Buscaroli aveva studiato organo a Bologna e poi aveva insegnato in vari conservatori, Torino, Venezia, Bologna, trovando il tempo di collaborare col Borghese di Leo Longanesi, uno dei pochi personaggi verso il quale non manifestò mai disprezzo (parlava male perfino di Massimo Cacciari e il perfino non è riferito a un'infondabile intoccabilità intellettuale del filosofo veneziano ma al fatto che, incredibile ma vero, Cacciari era suo cugino). Nei primi anni Settanta fu direttore del Roma, quotidiano che a dispetto del nome veniva pubblicato a Napoli, proprietà del molto controverso e molto autoritario Achille Lauro, a riprova che a Buscaroli davvero non piaceva la vita comoda. In seguito fu critico musicale del Giornale ma io ne scoprii l'esistenza sulle pagine del più seminale dei libri sgarbiani, Dell'Italia, in una sezione dedicata a eccentrici ed esteti quindi tra Franco Maria Ricci, la marchesa Casati e Massimo Listri. Me ne invaghii e corsi a leggere tutto Il poco in quel periodo reperibile in libreria. Ricordo Paesaggio con rovine che aveva un'epigrafe da brivido: «Formica solitaria di un formicaio distrutto / dalle rovine d'Europa, ego scriptor». Parole ovviamente di Ezra Pound e identificazione altrettanto ovvia di Buscaroli, solitario scrittore. E poi La vista, l'udito, la memoria, uscito in una collana molto opportunamente intitolata «La torre d'avorio», dove col suo italiano magistrale impartiva lezioni non solo di storia e di musica, anche di arte. Lo riprendo in mano e ci ritrovo la dedica che mi fece nel buen retiro di Monteleone, sulle colline sopra Cesena. Non scrisse 16 luglio 2002, la data ordinaria, bensì 17 luglio 2.755 u.c. Perché, se ancora non lo si è capito, ieri non è morto un moderno italiano, è morto un antico romano, un uomo che con questa Italia (ma ce ne sono altre?) proprio non poteva andare d'accordo.

Buscaroli, Eco, Magli. Ci sono morti e morti…, scrive Piero Visani il 21 febbraio 2016. Piero Buscaroli, Umberto Eco, Ida Magli: è un febbraio decisamente bisestile per la cultura italiana. Sfortunatamente, è anche assai poco equilibrato, perché si passa dall’esaltazione acritica dell’uno alla “damnatio memoriae” dell’altro, al ricordo vagamente infastidito dell’altro ancora. Non è mia intenzione discutere lo spessore culturale di alcuno dei tre illustri estinti, non ne ho neppure le qualifiche. Mi dispiace solo – e questo è tipicamente italiano – che uno (Eco) muoia da “intellettuale organico”, degno di figurare in una nuova “Accademia d’Italia”; gli altri due muoiano da “underdog” del pensiero, cani sciolti che hanno pagato a carissimo prezzo la loro originalità. Questo fa immediatamente cadere ogni discorso di tipo culturale. Qui, purtroppo, c’è solo politica, la politica totalitaria che accetta un certo tipo di manifestazioni di pensiero e ne boccia irrimediabilmente altre. A mio parere, questo è l’esatto contrario della cultura, perché tutte le manifestazioni del pensiero umano, comunque si manifestino, sono degne del massimo rispetto. Eco aveva espresso posizioni molto radicali in politica, salvo poi finire a cantare le lodi della democrazia totalitaria, ma questo non investe e non può investire il livello qualitativo della sua produzione di pensiero. La cosa vale però anche per Piero Buscaroli e Ida Magli, e invece abbiamo un santo e due reietti. Il che equivale a dire che Ezra Pound e Louis-Ferdinand Céline erano due pessimi scrittori perché fascisti. Nasce il sospetto – non infondato – che spesso si diventi intellettuali celebrati perché organici agli assetti politici del proprio tempo. E’ vero, ma non è una patente culturale, anzi.

Umberto Eco e Ida Magli, considerazioni a margine, scrive Martedì 23 Febbraio 2016, Luigi O. Rintallo su Agenzia Radicale. La morte di due personalità quali Umberto Eco e Ida Magli, spinge a compiere qualche riflessione sulla condizione e sul ruolo svolto dagli intellettuali italianinella società di questi anni. Almeno tre sono gli aspetti da considerare. Il primo concerne la questione dell’autonomia di giudizio e dei modi di espressione della propria militanza politica. Gran parte dell’attività di Umberto Eco si è svolta nell’ambito accademico: autore di saggi che hanno divulgato la semiotica, disciplina prima poco meno che ignota in Italia, egli ha saputo togliere alla figura del professore universitario quella patina di polverosa solennità, contaminando un sapere vasto con la produzione dell’universo mediatico. In questa sua produzione, ha dimostrato acutezza di analisi, spesso anti-conformista, aprendo strade inesplorate e rifornendo allievi e lettori degli strumenti per elaborare un pensiero critico. Detto questo, colpisce come una persona dotata di tutte le capacità intellettuali per esprimere giudizi ponderati, nel descrivere società e politica abbia preferito abbagliare i lettori con fasci di luce monodirezionali che oscuravano il resto e quindi ne falsificavano la percezione complessiva. La cosa può spiegarsi soltanto riferendosi al vincolo esercitato dall’appartenenza, dall’attitudine a schierarsi ereditata dal modello dell’intellettuale organico. L’aver condiviso, con il polo Espresso-Repubblica che ne ospitava gli articoli, la divisione manichea per cui gli avversari sono raffigurati quasi come dei sub-umani, fa calare su Eco il velo di un dubbio irrisolto. A sollevarlo, quel velo, scopriamo quanto pesi il condizionamento dei referenti editoriali, specialmente quando si costituiscono come soggetto politico a tutti gli effetti senza passare per il filtro della normale dialettica democratica. Di ciò si ha un riscontro anche per quel che riguarda Ida Magli. Anche nel suo caso, siamo di fronte a un’autrice che nei suoi studi ha svelato i temi dell’antropologia culturale, scavando in profondità le ragioni della diversità uomo/donna e dando un contributo teorico essenziale al femminismo italiano. Firma prestigiosa de «la Repubblica» negli anni ’70-80, non esitò ad abbandonare quella favorevole tribuna quando la deriva politically correct spinse il giornale a respingere i suoi articoli, che si contraddistinguevano per le posizioni non conformi. Nella logica di contrapposizione manichea, bastò questo fatto per catalogarla automaticamente dall’altra parte della barricata, prescindendo dalla storia di una vita intera: l’ennesima dimostrazione di quali frutti malati abbia prodotto l’avvelenamento dei pozzi della cultura liberale nel nostro Paese. Proprio la denutrizione liberale e, con essa, l’assoluta sordità del mondo intellettuale rispetto a una dimensione individualista e libertaria del vivere sociale, rappresenta il secondo aspetto che va evidenziato. La cultura italiana contiene in sé questa sorta di “buco nero”, per cui è ben difficile scardinare i riferimenti che rimandano da un lato all’egemonia di stampo gramsciano e, dall’altro, ai retaggi del cattolicesimo. Umberto Eco si può dire che ne costituisce la sintesi eccelsa: ex dell’Azione cattolica, approdato nella sinistra prima extra-parlamentare e poi tardo azionista, non è stato mai portatore di un pensiero che fosse per lo meno sfiorato da una visione lontanamente assimilabile a quella del libertarismo. Da parte sua, Ida Magli che pure promosse una consapevolezza nuova delle tematiche di liberazione della donna, ha quindi assunto posizioni anti-europeiste all’insegna di una rivalutazione della dimensione nazionale che mal si concilia con la volontà di riaffermare i diritti della persona universalmente. È pur vero che Ida Magli negli ultimi anni si è battuta per sostenere le parti dei cittadini contro il prevalere delle burocrazie, ma certo è ben difficile che tale difesa possa esercitarsi dentro i confini di un solo Paese. Ultima considerazione riguarda l’assenza, presso gli intellettuali italiani, di una produzione teoretica in proprio. Dai tempi di Croce, non pare si siano più profilati pensatori in grado di dare un’interpretazione complessiva del reale. Abbiamo avuto divulgatori, compilatori e polemisti – come appunto Umberto Eco e Ida Magli – ma finora è mancata la capacità di impegnarsi in una progettualità di ampio respiro.

Il progressismo reazionario di Umberto Eco, ovvero le basi della saggezza del Professore. Nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932, Eco è stato capace di fare il rottamatore negli anni Sessanta e così come di difendere la tradizione negli anni Duemila. Il segreto: 4 solide basi su cui costruire la propria saggezza, scrive Andrea Coccia su “L’Inkiesta” del 5 Gennaio 2016. Da quando, nel 1963, pubblicò alcuni dei suoi saggi più acuminati nella prima edizione dei Diari minimi ed entrò nell'avanguardistico Gruppo 63, sono passati più di cinquant'anni, e Umberto Eco ha fatto parecchia strada. Ha venduto milioni di libri, ha vinto un premio Strega con uno dei più grandi bestseller di sempre, si è visto assegnare 39 lauree honoris causa da altrettante università sparse per il mondo — da New York a Uppsala — ha tenuto lezioni almeno nel doppio delle scuole, ma soprattutto è entrato a gamba tesa in incontentabili dibattiti. Negli anni Sessanta, in quei dibattiti, ci entrava con il piglio progressista del rottamatore e dell'innovatore, prima sdoganando una bella fetta del pop — da Franti del libro Cuore a Mike Bongiorno — poi decretando contemporaneamente nascita e morte del postmoderno con Il nome della rosa; negli ultimi anni, invece, le sue entrate in scivolata sono state caratterizzate da un piglio un po' più, permettetemi il termine, reazionario, il piglio del censore, quello di chi ammonisce, di chi avvisa che, continuando in questa direzione, ci andiamo a sfracellare. La doppia faccia di Eco, quella progressista degli anni Sessanta e quella censoria degli ultimi anni, potrebbe apparentemente sembrare una contraddizione. Ma il cambio della guardia tra il pensiero avanguardistico giovanile e quello retroguardistico senile, non è affatto un cambio, è semplicemente il risultato della strenua fedeltà del Professore a se stesso e al proprio pensiero, intriso da sempre di filosofia medievale e strutturalismo. Proprio dal quel connubio tra la solidità medievale di un Tommaso d'Aquino e quella moderna di un Vladimir Propp, oggi Eco, che festeggia la veneranda età di 84 anni, è un campione di una sorta di progressismo reazionario. Un'etichetta bizzarra e un po' contraddittoria, le cui basi sono le seguenti, tutte legate tra loro.

A. Metodo. Tra i libri più letti di Umberto Eco, subito dopo Il nome della rosa, c'è un saggio che tutti coloro che hanno frequentato un'università negli ultimi quarant'anni hanno avuto per le mani almeno una volta. Si tratta di Come si fa una tesi di laurea, edito da Bompiani nel 1977. Il segreto di ogni solidità, infatti, sta alla base, ovvero alla struttura, e per costruirla ci vuole metodo. Una lezione che Eco ha appreso proprio dai medievali, e che non si è mai stancato di ripetere.

B. Memoria. Esattamente due anni fa, il 3 gennaio del 2014, Eco scriveva su L'Espresso una lettera a suo nipote in cui si raccomandava l'allenamento della memoria attraverso l'imparare “par coeur” qualsiasi cosa, dalla formazione della propria squadra di calcio fino alla Vispa Teresa, se servisse. Da quando abbiamo tutti un computer in tasca a forma di telefono, tendiamo a non ricordarci più nulla, delegando la nostra memoria a una ricerca su Google. Scrive Eco: «Il rischio è che, siccome pensi che il tuo computer te lo possa dire a ogni istante, tu perda il gusto di mettertelo in testa». Ha ragione da vendere, e ammetterlo non significa essere un nostalgico dei tempi dell'Enciclopedia Britannica, ma semplicemente sapere quanto conta avere una base solida di nozioni da cui partire.

C. Pertinenza. Il terzo cardine del progressismo reazionario di Eco è la competenza e uno dei fortini di competenza che più strenuamente difende è la grammatica. Una delle ultime sortite sferrate durante una Lectio Magistralis dal Professore per alleggerire l'assedio al fortino grammaticale è stata quella contro l'uso improprio del Tu, ovvero contro la tendenza degli ultimi anni di dare del Tu a chiunque. Un problema che parte dalla grammatica ma che va ad intaccare tutto il cucuzzaro: «Il problema del Tu generalizzato non ha a che fare con la grammatica ma con la perdita generazionale di ogni memoria storica e i due problemi sono strettamente legati». Memoria, grammatica, pertinenza, competenza. Nel mondo di Eco, ovvero nel mondo della saggezza, tutto si tiene.

D. Competenza. L'ultimo ingrediente della saggezza di Umberto Eco è l'assoluta fedeltà alla competenza, il cui nemico più poderoso, di questi tempi, è proprio quell'internet che spesso il Professore ha attaccato. Ma attenzione, Eco non è di quelli che scambiano il contenuto con il contenitore, e non attacca mai internet in quanto tale, bensì chi su internet ci si perde, chi, pur non sapendo un acca di qualcosa, su quel qualcosa pontifica, o ancor peggio, chi pur non essendo capace di discernere tra una fonte autorevole e una fonte pataccara, affida la costruzione delle basi del proprio pensiero a qualche “scemo del villaggio portatore di verità”. Eco, che nel suo immaginario ha sempre coltivato la fantasia del Complotto, da buon maestro sa che per progredire i maestri servono. E i maestri bisogna saperseli scegliere, se no si resta una flotta di imbecilli che credono a qualsiasi cosa leggono su internet.

La BBC conferma: l’Inquisizione una truffa culturale per colpire la Chiesa. Addio ad uno dei suoi grandi calunniatori, Umberto Eco, scrive il 21 febbraio 2016 antimassoneria. Se oggi pensare al medioevo e alla Chiesa dell’epoca alla maggior parte del popolo poco informato vengono subito in mente roghi, streghe, superstizione e barbarie di tutti i generi lo dobbiamo sicuramente alla massoneria: si sa, sono i vincitori che scrivono la storia, o almeno quella storia ricca di reticenze, omissioni, spesso di vere e proprie falsità; accuse che si continuano a scagliare anche a distanza di molti secoli. Infatti, una ricerca storica al di fuori dei libri di testo ci dà un quadro chiaro -e del tutto diverso come vedremo- da quello cosiddetto ufficiale. Il 19 Febbraio 2016 se ne va uno dei grandi calunniatori e mistificatori del medioevo e soprattutto, della Chiesa e della Santa Inquisizione. E così Umberto Eco pieno di sè fino all’orlo ha dovuto piegarsi anche lui davanti al ciclo naturale della vita, e alla natura come Dio l’ha creata, a cosa gli è servita tanta superbia se anche lui, “filosofo illuminati”, ha dovuto piegarsi-come i tutti i comuni mortali- alla sua ora? Il suo romanzo “Il Nome della Rosa” è uno dei libri più venduti di tutti i tempi insieme al “Codice da Vinci” di Dan Brown e a “50 sfumature di Grigio”, ciò la dice lunga sui gusti dei lettori occidentali, che sembrano chiedano: “ci vuole meno fede e ci vuole più sesso”. Ateo incallito, Eco ha fatto del suo meglio per trascinare il pubblico mondiale in direzione delle sue vedute personali contro la Cristianità, anche se questo ha significato mentire senza scrupoli. Umberto Eco – intervistato dal Corriere in occasione degli eventi di Charlie Hebdo– si schierò in favore della cancellazione di tutte le religioni, portatrici, secondo lui di odio e di distruzione, appoggiando in pieno il piano di dell’Unica Religione Globale in piena sintonia coi signori del potere e della globalizzazione. Non una parola ovviamente sulle cause reali di questi attentati, -che di islamico, a dir la verità hanno poco o nulla,- ma a questi eventi verranno contrapposti quelli della Santa Inquisizione, come dire? Due false flag a confronto. E fu così che anche Eco ha dovuto chiudere gli occhi e passare dall’aldilà, se abbia invocato la Divina Misericordia– l’unica possibilità di salvezza- non lo sapremo mai, ma sappiamo per certo che le sue menzogne, i suoi romanzi e le sue affermazioni continueranno ad essere riprese dai grembiulini (o massoni senza grembiule) che continueranno a servirsene per attaccare ingiustamente la Chiesa Cattolica e i suoi fedeli.  

Introduzione a cura di Floriana Castro Testo in basso tratto da Appuntiitaliani.com. (Le foto riportate nell’articolo sono tratte dal dalla versione cinematografica de “Il nome della Rosa” di Jean-Jacques Annaud. Raffigurano il falso scenario medievale che si è inculcato nella mente del popolo medio: volti raccapriccianti, torture, donne innocenti accusate e scene di sesso tra presunte streghe e monaci, la più grande mistificazione di tutti i tempi). Finalmente un documentario della BBC, una fonte sicuramente non di parte Cattolica, che smonta il mito sulla Santa Inquisizione con il quale la Chiesa Cattolica è stata calunniata per secoli. Tutto falso signori, è tutto falso. La Chiesa non è quel covo di torturatori sadici depressi e maniaci che ha compiuto stragi, anzi, questa accusa torna al mittente, ossia la propaganda rivoluzionaria francese, i protestanti, gli inglesi anglicani che hanno attaccato la Chiesa Cattolica con accuse infamanti coprendo invece i loro misfatti. Ebbene sì, sono loro i torturatori sadici depressi e maniaci che hanno ucciso e torturato civili soprattutto Cattolici in quanto oppositori dei loro regimi. Basti pensare ai 2 milioni di francesi uccisi dalla massonica Rivoluzione Francese, ai Vandeani trucidati, ai Cattolici perseguitati in Inghilterra, facendo 70.000 vittime. Un clima di terrore quotidiano, ghigliottine, carceri, omicidi e genocidi. Questi sono coloro che accusano gli altri di colpe che invece sono le loro. Forza Cattolici, non fatevi intimidire, la Chiesa non deve chiedere scusa di niente e tantomeno bisogna vivere in soggezione per un presunto passato oscuro. Lo stesso Napoleone, invasa la Spagna, credeva di trovare archivi insanguinati ed invece non trovò niente. Forse avrebbe dovuto indagare sui suoi fratelli a Parigi. Vorrei proporvi questo interessante articolo che riassume i nuovi studi storici sulla cosiddetta leggenda dell’Inquisizione Cattolica, uno dei cavalli di battaglia della Massoneria ma soprattutto del Protestantesimo anglosassone fresco di tradimento nei confronti di Roma ed in competizione con l’egemonia del nascente Impero Spagnolo. Altro interessantissimo documento a supporto dei fatti è il documentario della BBC inglese -fonte sicuramente non di parte Cattolica- che dimostra come i fatti storici siano stati ingigantiti e manipolati in chiave anticattolica dalla propaganda protestante. Naturalmente i cavalieri anticattolici si stracciano le vesti e si inneggiano a difensori della dignità umana solo quando si tratta della storia del Cattolicesimo, dimenticandosi invece delle colpe ben più gravi e maggiori per esempio di Lutero che perseguitò i Cattolici e  fece uccidere 100.000 anabattisti, oppure  degli eccidi  di  Cattolici da parte dell’anglicanesimo, e non dimentichiamo i 2.000.000 di francesi, il 10% della popolazione delle Francia  inclusi i 600,000 Vandeani,  uccisi durante la Rivoluzione Francese, la quintessenza della libertà  e della superiorità anticlericale  ed invece dimostratasi la madre di tutte le dittature. E che dire del Comunismo che fece 100 “milioni” di morti nel mondo, dei quali 30 “milioni” solo in Russia, per i quali però non c’è memoria nè si grida allo scandalo? Per non parlare del genocidio armeno e quello in corso di Cristiani in medio oriente. Nessuna menzione riguardo agli eccidi dell’impero Azteco che sacrificava la popolazione con riti propiziatori  in quantità industriale fino a raggiungere i 30.000 morti ogni anno e che giustamente sono stati travolti dagli spagnoli che hanno letteralmente liberato la popolazione locale da tale tirannia satanica, non solo si vorrà vedere quei territori liberati da quel male, ma si accuserà persino il condottiero spagnolo, Hernan Cortes di inciviltà e barbarie contro quel civile e pacifico popolo. Ma si sà, l’unica liberazione accettabile è quella della dittatura liberale che ha portato guerra in Europa negli ultimi tre secoli ed ora   bombarda civili per esportare la falsa democrazia, nel silenzio totale dei sostenitori degli eroi che avrebbero liberato il mondo dalla millantata tirannia della Chiesa Cattolica

Ida Magli o la fallocrazia spiegata alle femministe, scrive Sebastiano Caputo il 22 febbraio 2016 su "Il Giornale". Dopo Costanzo Preve si spegne un’altra voce fuori dal coro. Ida Magli è morta nella sua casa a Roma, all’età di 91 anni. Ad annunciarlo è stato Giordano Bruno Guerri, vicino alla famiglia, che con lei scrisse anche un libro intervista nel 1996Per una rivoluzione italiana. Molti ora la ricordano per quel trittico anti-globalista (La dittatura europea, Dopo l’Occidente e Difendere gli italiani) che con largo anticipo pose le basi moderne del primato politico sull’economico. Ma la Magli era innanzitutto un’antropologa laureata in filosofia con specializzazione in psicologia medica sperimentale alla Sapienza dove ha insegnato fino al 1988. Studiava l’uomo anche se si è sempre impegnata nella difesa delle donne. Il suo libro più affascinante e meno commerciale risulta infatti La sessualità maschile (Baldini&Castoldi) in cui affrontò il tema centrale del potere confutando le banali teorie femministe che hanno sempre parlato di una società maschilista, senza però spiegarne le origini. “Per capire la nostra cultura dovevo capire i maschi, visto che sono stati loro a costruirla. Questa la strada che ho percorso a ritroso. E alla sommità della risalita ho trovato il pene” scrive. In un breve manoscritto Ida Magli si avventura in una tesi scontata quanto illuminante: al principio della nostra civiltà c’è l’organo sessuale maschile. Così il “fallo” dell’uomo viene analizzato non solo come forza simbolica, ma come organo biologico. Il pene, osserva Ida Magli, si erige, si distanzia in certo senso dal corpo e per giunta proietta la sua essenza all’esterno, amplificando la volontà di potenza dell’uomo. Così l’erezione diventa sinonimo di conquista e il getto dello sperma, uno strumento di dominazione. “Fallocrazia” a parte, il sesso femminile era stato già studiato un secolo prima dal giovane scrittore austriaco Otto Weininger che in Sesso e Carattere distingueva l’uomo dalla donna per la sua genialità (intesa come capacità d’inventare e creare). Sul piano biologico “la vagina riduce il sesso femminile alla riproduzione”, che si traduce su quello simbolico all’imitazione. Questa tesi non vuol essere misogina, bensì una constatazione storicamente verificata (Weininger lo riscontra nella musica, nella pittura, nella scrittura, nella filosofia, nella scienza, nella politica), che tuttavia può essere confutata con delle ovvie eccezioni (Caterina di Russia, Rosa Luxembourg, Evita Peron, Simone Weil, Margherita Hack, solo per citarne alcune). Eppure l’ideologia femminista ha voluto rendere questa eccezione, sinonimo di naturalezza, in una regola inscatolata: le quote rosa. Un’emancipazione in realtà solo apparente nella “grande dittatura finanziaria”. L’antropologa Ida Magli ci ha insegnato che le decisioni politiche si prendono in altre sfere di potere perché i Parlamenti non contano più nulla. Bene, vi siete mai chiesti quante donne lavorano tra la City londinese e Wall Street? Poche, forse nessuna. Tutti quei “burocrati, banchieri e faccendieri” che lavorano dietro le quinte sono uomini e hanno il pene.

Hanno ucciso mediaticamente Ida Magli. Non riceverà, Ida Magli, gli onori mediatici che ha ricevuto Umberto Eco per la sua scomparsa, scrive Luigi Mascheroni, Martedì 23/02/2016, su "Il Giornale". Chissà come avrebbe commentato i giornali del giorno dopo, se avesse potuto leggerli. Da antropologa di lungo corso e da intellettuale avvezza ai peggiori difetti del culturame, ne avrebbe fatto un interessante caso di studio di quella particolare distorsione del pensiero e della morale che va sotto il nome di razzismo antropologico. Come definire altrimenti la reazione della stampa italiana - silenzio o giudizi di parte - alla morte di Ida Magli? L'Unità e il Fatto Quotidiano: neppure una riga. La Stampa: una breve di sei righe, in cui si sbaglia anche il titolo dell'ultimo libro (Figli dell'uomo. Duemila anni di mito dell'infanzia, Bur), dicendo che uscirà nei prossimi mesi quando invece è in libreria da novembre. Corriere della sera: un fogliettone in cronaca, che gli nega la dignità della sezione Cultura, in cui si dice che «forse ne ha sparata qualcuna un po' grossa» (ma colei che firma il pezzo è una femminista fuori tempo massimo incarognita con chi, come la Magli, di fronte alle violenze imposte alle donne dagli islamici si chiese giustamente «ma come, abbiamo appena incominciato a emanciparci dai nostri veli, dalle nostre velette e ammettiamo che si torni indietro di secoli?»). E la Repubblica - che pure pubblica un bel pezzo di Marino Niola - incentra il ricordo sulla Magli femminista e di sinistra lasciando solo poche righe alla Magli degli anni Novanta-Duemila, quella che per prima prese dure posizioni contro il mondo musulmano e l'Unione europea. Ecco il punto: perché separare un «prima» e un «dopo» (come ha fatto la migliore intellighenzia su Twitter) e non considerare l'intellettuale come unico, con tutte le sue sfumature? E perché (come si sono sfogati in tanti sui social) ricordarla per la sua militanza femminista e poi consegnare le legittime critiche all'islam a una «deriva xenofoba»? È la formula standard del pensiero corretto: chi si azzarda a denunciare il substrato antidemocratico del mondo islamico o manifesta paura per i flussi migratori ormai completamente fuori controllo, è immediatamente tacciato di islamofobia, o ignoranza, o razzismo. Per i politicamente scorretti non c'è posto. Come non c'è stato posto (ancora meno rispetto Ida Magli) per Piero Buscaroli, uno che ha vissuto dalla parte dei vinti tutta la vita, fin da quando aderì, da ragazzo, alla Rsi: non sono bastati libri magistrali di musicologia e una carriera giornalista straordinaria per una «redenzione» agli occhi dei benpensanti. E così, morto settimana scorsa, è stato ignorato da tutti. Uccidere mediaticamente un irregolare del pensiero, o anche due, non è reato.

Umberto Eco e gli Intellettuali partigiani. Morto lo scrittore Umberto Eco. Il semiologo, filosofo e scrittore noto al grande pubblico per "Il nome della rosa" si è spento ieri sera: aveva 84 anni, scrive Chiara Sarra, Sabato 20/02/2016, su "Il Giornale". È morto ieri sera a 84 anni Umberto Eco, semiologo, filosofo e scrittore, noto al grande pubblico soprattutto per i romanzi Il nome della rosa (1980) e Il pendolo di Foucault (1988). Nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932, nel 1988 aveva fondato il Dipartimento della Comunicazione dell'Università di San Marino e dal 2008 era professore emerito e presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici dell'Università di Bologna e dal 2010 socio dell'Accademia dei Lincei. Eco è autore di molti romanzi di successo, ma anche di saggi di semiotica, linguistica e filosofia. L'ultimo libro, Numero Zero è stato pubblicato nel 2015: ambientato nel 1992, racconta di una redazione di un giornale, ripercorrendo con questo stratagemma narrativo tutte le tappe importanti della storia d'Italia da Tangentopoli a Gladio, passando per P2 e terrorismo rosso. Da ieri sera il ricordo dello scrittore si rincorre sui social, che nonostante la tarda ora in cui è giunta notizia della sua morte, celebrano il grande intellettuale. Sintetico il comunicato di Bompiani: "lutto per la cultura, ci lascia Umberto Eco: Siamo addolorati". Giovanna Melandri aggiunge "Che tristezza la notizia della morte di Umberto Eco. Un grandissimo intellettuale e scrittore, una persona unica e speciale. Mancherà tanto". Anche la cantante Noemi affida le sue sensazioni ai social scrivendo: "Una parte della nostra cultura e letteratura. Ora tocca a noi. Saremo capaci di raccontarci così bene agli Italiani di domani?". "È mancato un grande italiano", nota Ivan Scalfarotto. Ma quello che salta più agli occhi è la quantità di messaggi lasciata da gente qualunque, lettori e studenti formatisi sui suoi libri, che ricordano Eco postando alcune citazioni. La più ricordata è quella che forse meglio rappresenta il motivo per cui uno scrittore non certo facile sia oggi ricordato come una rockstar: "Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni". Profondo cordoglio anche da Matteo Renzi: "Esempio straordinario di intellettuale europeo, univa una intelligenza unica del passato a una inesauribile capacità di anticipare il futuro", sottolinea Renzi, "Una perdita enorme per la cultura, cui mancherà la sua scrittura e voce, il suo pensiero acuto e vivo, la sua umanità", conclude il presidente del consiglio.

Eco, dalla tv ai romanzi fino alle 40 lauree, continua Chiara Sarra. Con la morte di Umberto Eco il mondo della cultura, anche internazionale, perde una delle figure di maggiore importanza. Filosofo e semiologo, fine cultore del Medioevo, padre della semiotica interpretativa, ma anche saggista e professore emerito dell’Università di Bologna. Eco iniziò a interessarsi all’influenza dei mass media nella cultura di massa a partire dalla fine degli anni ’50. Nel 1988 fondò il Dipartimento della Comunicazione dell’Università di San Marino. Dal 2008 era professore emerito e presidente della Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna. Dal 12 novembre 2010 Umberto Eco diventa socio dell’Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze Morali, Storiche e Filosofiche. Figlio di un negoziante, Eco conseguì la maturità al liceo classico "Giovanni Plana" di Alessandria, sua città natale. In gioventù fu impegnato nella Giac (l’allora ramo giovanile dell’Azione Cattolica) e nei primi anni cinquanta fu chiamato tra i responsabili nazionali del movimento studentesco dell’Ac. Nel 1954 abbandonò l’incarico in polemica con Luigi Gedda. Si Laurea in filosofia nel 1954 all’Università di Torino con Luigi Pareyson con una tesi sull’estetica di San Tommaso d’Aquino iniziò a interessarsi di filosofia e cultura medievale, campo d’indagine mai più abbandonato, anche se successivamente e per lunghi anni si dedicò allo studio semiotico della cultura popolare contemporanea e all’indagine critica sullo sperimentalismo letterario e artistico. Nel 1956 pubblicò il suo primo libro, un’estensione della sua tesi di laurea dal titolo Il problema estetico in San Tommaso. Ma è lunga e molto importante la lista dei suoi lavori. Tra i maggiori: nel 1963 pubblica un libro che è diventato nel tempo un classico Diario minimo (Mondadori), volume che raccoglie saggi come Fenomenologia di Mike Bongiorno e Elogio di Franti. E ancora, Apocalittici e integrati (Bompiani) del 1964, altro classico La struttura assente (Bompiani, 1968). Ma la celebrità a livello mondiale arriverà nel 1980 con Il nome della rosa. Un romanzo che farà riscoprire all’Italia e poi al mondo intero, attraverso la formula del giallo, dell’intrigo, del mistero, il meraviglioso mondo medievale. Con Il nome della rosa Eco vincerà il Premio Strega nel 1981 e numerosi riconoscimenti a livello internazionale. Ma al di là dei premi Il nome della rosa ha rappresentato il desiderio di Eco di dare pari dignità a tutte le forme culturali. Dopo Il nome della rosa, sono arrivati Il pendolo di Foucault (1981), L’isola del giorno prima (1994), Baudolino (2000). Fino al più recente Numero zero. Nella sua lunga carriera, nel 1954 vince un concorso della Rai per l’assunzione di telecronisti e nuovi funzionari. Con Eco vi entrarono anche Furio Colombo e Gianni Vattimo. Dal 1959 al 1975 fu condirettore editoriale della casa editrice Bompiani. Nel 1962 pubblicò il saggio Opera aperta che ebbe notevole risonanza a livello internazionale e diede le basi teoriche al Gruppo 63, movimento d’avanguardia letterario e artistico italiano. Nel 1961 iniziò anche la sua carriera universitaria che lo portò a tenere corsi, in qualità di professore incaricato, in diverse università italiane: Torino, Milano, Firenze, infine, Bologna dove ha ottenuto la cattedra di Semiotica nel 1975, diventando professore ordinario. All’università di Bologna è stato direttore dell’Istituto di Comunicazione e spettacolo del Dams, poi ha dato inizio al Corso di Laurea in Scienze della comunicazione. Infine è divenuto Presidente della Scuola Superiore di Scienze Umanistiche che coordina l’attività dei dottorati bolognesi del settore umanistico. Nel corso degli anni ha insegnato anche in varie università straniere tra cui UC-San Diego, New York University, Columbia University, Yale, College de France, Ecole Normale Superieure. Nell’ottobre 2007 si è ritirato dall’insegnamento per limiti di età. In tutta la sua lunga carriera Eco ha ricevuto 40 lauree honoris causa da università europee e americane.

È morto Umberto Eco. Filosofo, semiologo e romanziere, aveva 84 anni. Da "Il nome della Rosa" a "Numero Zero", nei suoi libri lo spirito del tempo, scrive il 20 febbraio 2016 Panorama. Umberto Eco scrittore, filosofo e semiologo, aveva 84 anni. La notizia della sua morte è stata data dalla famiglia a Repubblica. Il decesso è avvenuto alle 22:30 di ieri nell'abitazione dello scrittore. Eco era nato ad Alessandria il 5 gennaio del 1932. Tra i suoi maggiori successi letterari Il nome della rosa del 1980 e Il pendolo di Foucault (1988). Il suo ultimo libro, Anno zero, è stato pubblicato lo scorso anno da Bompiani. Nel 1962 Eco pubblica Opera aperta, analisi di testi letterari in termini strutturalisti a partire da Ulisse di Joyce, che fa discutere e diviene uno dei manifesti della neoavanguardia riunita l'anno dopo nel Gruppo '63. Nel 1980 esce invece il romanzo storico medioevale Il nome della rosa, che suscita consensi internazionali, best seller da oltre 12 milioni di copie. Si svolge tra queste due tappe, meno lontane e diverse di quanto possa apparire, il lavoro di Eco, che aveva festeggiato il 5 gennaio scorso gli 84 anni. Da osservatore ironico e semiologo avvertito oltre che creativo, ha dimostrato in ogni occasione di saper cogliere lo spirito del tempo. Il suo Lector in fabula, saggio del 1979 (non a caso periodo in cui stava scrivendo proprio Il nome della rosa), è appunto il lettore che in un testo, in particolare se creativo, letterario, arriva a far interagire col mondo e le intenzioni dell'autore, il proprio mondo di riferimenti, le proprie associazioni, che possono creare una lettura nuova: ''generare un testo significa attuare una strategia di cui fan parte le previsioni delle mosse altrui''. Un'"opera aperta" è proprio quella che più riesce a produrre interpretazioni molteplici, adattandosi al mutare dei tempi e trovando agganci con scienze e discipline diverse. Una tesi che apparve dirompente in un paese legato alle sue tradizionali categorie estetiche, diviso tra crocianesimo e marxismo storicista. E il discorso di Eco non riguarda, ovviamente solo la forma, la struttura di un'opera, come intesero molti autori di quegli anni, tanto che poco dopo dette alle stampe La struttura assente, che spostava il discorso sulla ricerca semiologica e le sue interazioni. Così, forse, il tentativo più esemplare nel mettere in pratica le sue teorie, è nel 2004 La misteriosa fiamma della regina Loana, romanzo illustrato con foto di libri e riviste, manifesti, tavole di fumetti, che fanno parte del racconto e contribuiscono a far rivivere l'atmosfera dell'epoca (da fine anni '30 alla guerra) a ogni lettore anche con i propri ricordi. Insomma, anche un romanzo di un personaggio e studioso di questo tipo, attento alla cultura di massa e già autore di paradossali e ironiche pagine su aspetti minori della realtà raccolte in Diario minimo negli anni '60, nasce entro questo spettro di riferimenti con una sapienza, non solo costruttiva e intellettuale. E il successo internazionale, col Nome della rosa, di un saggista raffinato, di uno studioso che aveva debuttato laureandosi sui problemi estetici in San Tommaso, finì per suscitare più polemiche delle sue innovative teorie saggistiche. Se in tanti parlano di ''libro geniale e assai notevole'' come sintetizzava Maria Corti, ecco che per Geno Pampaloni c'era ''difetto di genio letterario'', Francesco Alberoni lo definiva ''libro privo di emozioni'' che deve la sua fortuna all'essere divenuto un feticcio di cultura, mentre Stefano Benni ha ''chiuso a pagina trenta, assalito dalla noia''. Poi verranno gli altri romanzi, altri best seller che ne consolidano la fama e stemperano le astiosità: Il pendolo di Foucault nel 1988, L'isola del giorno prima 1994 e Baudolino 2001, La misteriosa fiamma della regina Loana 2004 e l'anno scorso Il cimitero di Praga. Ancora una volta, attraverso la storia nel XIX secolo del tragico e graduale prosperare di quella falsificazione nota come I protocolli dei Savi di Sion, che ispirerà anche Hitler, un romanzo di ampio intreccio, ricco di erudizione divulgata con eleganza e in quella misura che impegna il lettore comune, ma non troppo, introducendolo con sapienza narrativa in una coinvolgente realtà di idee e storica. Fino all'ultimo romanzo sul mondo dei giornalisti e dell'editoria, Numero Zero, uscito l'anno scorso.

Caro Umberto, ci hai lasciato orfani. Era il maestro assoluto nell'arte di vivere la contraddizione, aveva una rara capacità di conciliare in un modo che sembrava armonioso, antinomie in apparenza inconciliabili. Un intellettuale vero, che difficilmente distingue tra il proprio privato e il pubblico. Ecco perché il potere lo temeva. Ecco perché lo rimpiangeremo, scrive Wlodek Goldkorn il 20 febbraio 2016 su "L'Espresso". Chiunque abbia conosciuto Umberto Eco nel cuore suo, oltre a volergli bene, lo temeva. Ed era bello temerlo. Infatti, Eco, nato il 5 gennaio 1932 ad Alessandria e scomparso la sera del 19 febbraio a Milano, è stato prima di tutto un grandissimo intellettuale, ossia l'uomo che dall'alto del suo sapere e della sua esperienza di vita, giudica e si schiera. Un intellettuale vero, ed Eco era uno degli ultimi al mondo ad appartenere a questa categoria, difficilmente distingue tra il proprio privato e il pubblico. Ecco perché lo temeva non solo il potere, ma anche la cerchia dei suoi conoscenti e amici. In realtà, però, Umberto era un uomo mite. Un po' perché sapeva quanto la rabbia fosse faticosa e inutile, ma prima di tutto perché la sua mitezza era il risultato di una profonda riflessione. Detto brutalmente (e con ammirazione), era il maestro assoluto nell'arte di vivere la contraddizione, aveva una rara capacità di conciliare in un modo che sembrava armonioso, le antinomie in apparenza inconciliabili. Era un accademico (senza di lui niente semiologia) e al contempo autore di testi giornalistici, anzi l'uomo che dentro il mondo dei media sapeva muoversi come se tutta la sua vita professionale si fosse svolta nell'ambito del giornalismo. E basti pensare al suo impegno con L'Espresso, alla Bustina di Minerva. Infatti, qui all'Espresso l'abbiamo sempre temuto. Ma l'abbiamo anche pensato come a uno di noi, però un po' migliore, e più colto di tutti noi messi insieme. Come si diceva, Eco era un grande accademico, ma anche l'uomo che spiegò, fu tra i primi a farlo, quanto la cultura popolare, il fumetto in fattispecie, siano spesso anche dei testi dai forti risvolti filosofici (Charles Schulz, il papà dei Peanuts, per il Nostro era un maestro dell'etica). E ancora, con “Il Nome della Rosa” il semiologo si era trasformato in un romanziere: non un semplice scrittore, ma un autore di bestseller (tradotto in quaranta lingue, 30 milioni di copie vendute). Però, si trattava di un bestseller che non assomigliava a tanto ciarpame che va di moda. “Il nome della Rosa”, contiene considerazioni filosofiche che riportano a Tommaso d'Aquino, Aristotele, Guglielmo d'Ockham; tocca la disputa teologica sulla povertà nella Chiesa (e papa Francesco sembra talvolta uscito dalle pagine di quel libro) e ha una struttura stratificata, che si presta a mille letture e infinite interpretazioni. Affascinato dalla molteplicità dei codici e dei significati, Eco ha dedicato molto tempo ed energie allo studio delle varie teorie di cospirazione; quel modo di interpretare il mondo semplificandolo, dandone una versione che possa spiegare in apparenza tutto, ma che riduce il tutto a una narrazione nichilistica e senza speranza, mentre lui cercava invece il desiderio che poi è fondamento di ogni immaginazione e quindi dell'avvenire (cosa è il futuro se non il frutto della nostra immaginazione?). Per capire quell'universo oscuro e pieno di falsità ha scritto “Il cimitero di Praga”, un romanzo in cui risale alle origini dei “Protocolli dei savi saggi del Sion”, dandone una paternità diversa da quella convenzionalmente accreditata. Ma soprattutto, in questo romanzo spiega come tutte le teorie di cospirazione muovano dalla stessa matrice. Declinata poi secondo codici diversi. Eco era una persona che ci ha insegnato la cosa più difficile da comprendere e accettare: che ogni opera crea un linguaggio nuovo, quindi ogni linguaggio porta con se infinite possibilità di interpretazione. Un intellettuale quindi che ha anticipato il postmodernismo? Sì. Ma poi, al contrario di quanto sopra, Eco era un intellettuale moderno; uno che sapeva quanto abbiamo bisogno, ancora, di categorie, gerarchie, ordine, sapere generale e non solo parziale e frammentario, quanto la conoscenza delle nozioni, dei dati e delle date, della storia e della geografia, fossero importanti. O, se vogliamo, ci ha insegnato che per sovvertire il linguaggio (strumento di potere) bisognava prima di tutto padroneggiare il linguaggio. Sì, per lui padroneggiare era importante. Lo dimostra la sua ultima, estrema impresa: La nave di Teseo, una casa editrice nuova. Oltre la contingenza (la nascita di Mondazzoli) dopo essere stato autore di libri e delle parole, Eco voleva esserne anche il padrone. Nel migliore senso della parola: uno che si gioca il tutto per tutto. Ora la Nave di Teseo sta per salpare. Senza di lui, ma con i suoi libri. Nell'epoca della frammentazione del sapere e della infinita riproduzione delle fonti, Umberto Eco è stato uno degli ultimi intellettuali veri, un uomo che cercava di abbracciare la totalità del sapere. Ci lascia orfani.

Casa Pound contro Eco: "Voleva rieducare gli elettori di destra". Simone Di Stefano, vicepresidente di Casa Pound, pubblica su Facebook un epitaffio polemico nei confronti del noto scrittore deceduto ieri, scrive Francesco Curridori, Sabato 20/02/2016, su "Il Giornale". "È morto uno che firmava appelli alla lotta armata per il comunismo, uno che affermava tranquillamente l'inferiorità culturale degli elettori di destra proponendo una loro "rieducazione"...Stile gulag sovietici per intenderci. Ciao Umberto, prova a fare lo spocchioso con Caronte stanotte". È l'epitaffio postato su Facebook che Simone Di Stefano, vicepresidente di Casa Pound, dedica all'intellettuale Umberto Eco scomparso ieri notte a 84 anni. Al militante che gli fa notare che Ecco fosse comunque un valido scrittore, Di Stefano risponde a muso duro: "Tu per lui eri feccia. Comunque Il giudizio 'artistico' è soggettivo, l'arte non conosce colore politico. Però di fronte alla apologia che lo dipinge come una specie di santo è giusto che si sappia cosa pensava veramente".

Umberto Eco spara a zero: "Internet è la patria degli scemi del villaggio". Lo scrittore massacra i social e tutti quelli che li frequentano. Un'uscita infelice che ci affibbia il titolo di "scemi del villaggio", scrive Sonia Bedeschi, Giovedì 11/06/2015, su "Il Giornale". Un tempo quelli che venivano definiti gli "scemi del villaggio" erano personaggi strani, con difetti in evidenza, stravaganti e anche un po' tonti. Ma si sa, i tempi cambiano, le tecnologie fanno il loro corso e dalla carta stampata dal profumo inconfondibile si è lentamente passati al web: internet e i suoi social. Una novità, uno progresso che fa tremare il noto professore Umberto Eco, tanto da consentirgli di entrare a gamba tesa sulla reale funzione di internet, dei social, e dell'uso che ne fanno gli "scemi" che navigano e frequentano. Questa volta Umberto Eco ci va giù pesante, la sua è una provocazione perché in altre occasioni, pur con grande e ironica severità, il professore aveva criticato la rete ma insieme ne aveva esaltato le potenzialità. Infatti aveva dichiarato "Oltre a custodire la memoria storica, gli strumenti multimediali possono essere dei dispositivi per rinforzare la capacità di ricordare". E fin qua tutto bene. Gli anni passano e ora Eco si trova ad avere la bellezza di 83 anni, e il suo pensiero, su internet e social e' decisamente cambiato, in peggio. "I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Di solito venivano subito messi a tacere, ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel". Insomma l'avvento del web e naturalmente chi ci lavora dentro, stando alle sue parole, rappresenterebbero una vera e propria minaccia per l'umanità, addirittura un danno e magari irreparabile. Eppure ricordiamo al sempre noto professore, che ha ricevuto la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” all’Università di Torino, che dietro al "pericolosissimo" internet esistono persone serie, professionali, che lavorano, che si fanno quotidianamente "un mazzo così". E ora non ci venga a dire che con queste sue sparate non voleva certo generalizzare. Perché dopo queste sue dichiarazioni, ammettetelo, ci sentiamo un po' tutti "scemi del villaggio", perché la consultazione di internet e l'interazione attraverso i social occupano buona parte della nostra giornata. Senza fare troppi danni, anzi in molti casi, quelli che lavorano o passano il tempo sul web, sfornano informazione, e spesso e volentieri attendibile. Continua Eco "Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità", ha osservato invitando i giornali "a filtrare con équipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno". Insomma ci sentiamo, credo, un po' tutti offesi da queste raccomandazioni che suonano come una iniezione di terrore, sospetto e sfiducia. Diciamo allora che ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere, dovrebbe stare al passo coi tempi se possibile, dovrebbe accettare l'evoluzione naturale della tecnologia e delle persone. Nessuno di noi naviganti si sente scemo, semplicemente al passo coi tempi. Poi sta a ognuno di noi attivare il buon senso e fare un uso corretto della tecnologia.

Eco, un intellettuale sempre organico (ma solo a se stesso), scrive Vittorio Feltri, Domenica 21/02/2016, su "Il Giornale". La livella arriva per tutti e non ha risparmiato neppure Umberto Eco, morto in casa propria a 84 anni, dopo aver inanellato una serie impressionante di successi editoriali che lo hanno reso famoso nel mondo. Il suo romanzone Il nome della rosa è stato tradotto in un centinaio di lingue e ha venduto 12 milioni (14 secondo qualcuno) di copie, quante ne bastano per arricchire un autore. Se si aggiunge la diffusione notevole di altre sue opere, ad esempio Il pendolo di Foucault, si arriva a una montagna di volumi. Non vogliamo fare i conti in tasca a Eco, ma solo ricordare che egli è stato un intellettuale importante per la cultura italiana del dopoguerra. Non piaceva a chiunque lo avesse letto, ma ciò è normale. Come sempre, anche nel suo caso era ed è la politica a dividere il pubblico tra estimatori e detrattori. Le mode culturali contribuiscono in modo decisivo ad innalzare un uomo ai vertici della considerazione popolare o a farlo sprofondare negli abissi del disprezzo. Umberto è stato bravissimo nella scelta di campo utile a portarlo sull'Olimpo. Pur essendo stato cattolico all'inizio della carriera, non ha esitato a diventare miscredente e a schierarsi a sinistra in tempi in cui i cristiani erano democristiani, cioè gentucola conformista, mentre i laici erano comunisti e quindi degni della massima stima. Non affermiamo che Umberto sia saltato da una sponda all'altra per opportunismo. Probabilmente si è limitato a seguire la propria indole di uomo del giorno. Ma il sospetto rimane, visto che il passaggio da qui a là gli ha giovato parecchio in termini di consenso e di incasso. I laici progressisti negli ultimi 60 anni hanno goduto di grandi agevolazioni: porte aperte, buona stampa, elogi sperticati della corporazione dei cosiddetti intelligenti. Giuseppe Berto, grande scrittore che negli anni Sessanta vinse per sbaglio il Campiello con il Male oscuro, romanzo contro la psicoanalisi, fu dimenticato (e schifato) in fretta, perché genericamente di destra, ossia ostile alle ideologie correnti e di maggior presa nel periodo in cui i suoi libri erano in commercio. Quando tirò prematuramente le cuoia non fu celebrato adeguatamente. Lo stesso dicasi per Giuseppe Prezzolini, snobbato poiché conservatore dichiarato. Vabbè, niente di nuovo né di sensazionale. Eco, a differenza di costoro, condannati al silenzio e all'oblio, seppe inserirsi nel filone giusto riuscendo a suscitare l'attenzione e l'approvazione nei contemporanei affascinati dall'eurocomunismo inventato da Luigi Berlinguer, una teoria fantasiosa eppure in grado di sedurre circa la metà della beota popolazione italiana. Fu bravo a intuire la strada da percorrere per giungere in vetta al gradimento dei cittadini sedicenti illuminati. Ciò non toglie alcun merito allo scrittore alessandrino, anzi accresce la misura della sua abilità di intellettuale (quasi) organico. Umberto non è mai stato contestato da nessuno che avesse i titoli per farlo. Lui stesso a un certo punto confessò che Il nome della rosa, nonostante il boom delle vendite (qualcosa di straordinario) era il suo peggior romanzo. Non saprei dire se avesse ragione o torto; sta di fatto che questo era il suo pensiero, almeno quello manifestato con stupefacente franchezza (a cui sarei portato a non credere). Eco, coerentemente con le posizioni acquisite negli anni della maturità, ha collaborato con l'Espresso e la Repubblica, sui quali ha scritto articoli memorabili, che hanno immancabilmente fatto scalpore. Egli assurse ancor giovane (relativamente) al ruolo di maître à penser, ascoltato e lodato dai compagni di ogni risma. Bisogna dargli atto che non è mai stato banale nelle sue osservazioni. Filosofo, semiologo, linguista e professore universitario, egli fu protagonista di un episodio storico. Dopo aver collaborato assiduamente con Lascia o raddoppia?, il primo programma televisivo della Rai d'antan, Umberto scrisse un saggio clamoroso in cui faceva a pezzi il conduttore della trasmissione: Mike Bongiorno. Un'impennata che rivelava appieno la personalità dello scrittore scomparso, uno che faceva e disfaceva con sorridente e irridente disinvoltura. Ebbi anch'io con lui un garbato scontro. Io sostenni che la destra si era impoverita perché tutti gli intellettuali destrorsi, dal 25 aprile 1945 in poi, si erano trasferiti armi e bagagli nella sinistra, cambiando bandiera senza battere ciglio. Era la verità. Ma Eco mi rispose che i voltagabbana non erano tali in quanto non fascisti, bensì esponenti della destra storica. E avevano semplicemente mutato idea. La sua mi parve una stupidaggine. Ma lui era lui e io ero io. Una replica alla marchese del Grillo. Niente di serio. Vittorio Feltri.

Eco fu il migliore della sinistra che si crede sempre migliore. Incarnò alla perfezione la presunta superiorità antropologica dei progressisti sugli "altri". Rinunciò a capire gli italiani che sognavano una destra liberale preferendo attaccare il mondo berlusconiano, scrive Alessandro Gnocchi, Domenica 21/02/2016, su “Il Giornale”. Nel 2005 Luca Ricolfi scrisse il saggio Perché siamo antipatici. La sinistra e il complesso dei migliori (Longanesi). Il sociologo analizzava la reazione degli intellettuali, più o meno militanti a seconda dei casi, di fronte all'avanzata del berlusconismo. Già nel 1994, dopo la clamorosa sconfitta della gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, si faceva strada la teoria delle due Italie. Una virtuosa, minoritaria e di sinistra. L'altra avida, corrotta, meschina, maggioritaria e di destra. Una colta, amante della lettura. L'altra ignorante, schiava delle televisioni. Tra i molti esempi di questa mentalità, sorda e cieca innanzi al Paese, felice di crogiolarsi nel pregiudizio, Ricolfi citava anche il professore Umberto Eco. In effetti Eco, nel 2001, su Repubblica aveva teorizzato «al meglio» la superiorità antropologica della sinistra, e diviso i cittadini di destra in due categorie. La prima. L'Elettorato Motivato è composto dal «leghista delirante», dall'«ex fascista», e da tutti coloro che, «avendo avuto contenziosi con la magistratura, vedono nel Polo un'alleanza che porrà freno all'indipendenza dei pubblici ministeri». La seconda. L'Elettorato Affascinato «non ha un'opinione politica definita, ma ha fondato il proprio sistema di valori sull'educazione strisciante impartita da decenni dalle televisioni, e non solo da quelle di Berlusconi. Per costoro valgono ideali di benessere materiale e una visione mitica della vita, non dissimile da quella di coloro che chiameremo genericamente i Migranti Albanesi». Marcello Veneziani riassunse in una formula poi ripresa da tutti - incluso Ricolfi - tale modo di vedere le cose: «razzismo etico». Rientrano in questo schema intellettuale, che ha avuto un nefasto influsso sulla vita culturale del Paese, alcune provocazioni del professore: gli appelli contro Berlusconi, lo sciopero dei consumi di prodotti delle aziende di Berlusconi, la promessa (non mantenuta) di abbandonare il Paese in caso di vittoria elettorale di Berlusconi, il paragone tra Hitler e Berlusconi, le rampogne contro il populismo e il fascismo strisciante di Berlusconi. Non sorprende che, a un certo punto, Eco fosse rimproverato da una parte dei suoi compagni di strada (oltre Ricolfi, ricordiamo Franco Cordelli, Erri De Luca, Gianni Vattimo) perché parlava soltanto di Berlusconi, ottenendo l'effetto di renderlo ancora più forte, mentre ignorava le gravi lacune della sinistra. Lui rispose così alle critiche, in un'intervista rilasciata a Dino Messina e pubblicata dal Corriere della Sera: «Guardi, l'Italia nei cinque anni appena trascorsi si è messa sulla strada del declino. Se andiamo avanti così diventiamo definitivamente un Paese da Terzo Mondo. Figurarsi se di fronte a un tale rischio mi metto a parlare della barca di D'Alema, che pure mi permetterebbe di fare delle bellissime battute». Era appena uscito A passo di gambero. Guerre calde e populismo mediatico (Bompiani, 2006) una raccolta di saggi sull'era Berlusconi. Al di là dello sdegnato giudizio etico, c'era poco. A Eco, come a molti altri, mancava la curiosità di scoprire davvero chi fossero e cosa volessero i milioni di italiani che speravano in una svolta liberale. La sua ultima avventura editoriale, la fondazione della casa editrice La Nave di Teseo, appena varata insieme con Elisabetta Sgarbi, rispondeva al desiderio di non pubblicare i suoi ultimi libri con la Mondadori della famiglia Berlusconi, che aveva acquistata Rcs Libri, e con essa la Bompiani, il suo editore storico. Venerdì prossimo La nave di Teseo pubblicherà Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida, libro che nasce dalle Bustine di Minerva, la rubrica di Eco sul settimanale l'Espresso. Si parlerà anche di politici. Almeno uno, sapete già chi è.

La «Nave» della superiorità antropologica, scrive Alessandro Gnocchi, Mercoledì 25/11/2015, su "Il Giornale". Ieri è andato in scena, sulle pagine de la Repubblica, l'eterno ritorno dell'anti-berlusconismo, la malattia senile della sinistra rimasta senza idee. Questa volta il bersaglio è Marina Berlusconi, presidente del Gruppo Mondadori. L'occasione per lucidare le armi impolverate è fornita dalla fondazione di una nuova casa editrice, La nave di Teseo. Al timone ci sarà Elisabetta Sgarbi, che ha rassegnato le dimissioni da Bompiani in seguito alla acquisizione di Rcs Libri (e quindi di Bompiani) da parte del Gruppo Mondadori. Una concentrazione, a suo dire, preoccupante perché viatico alla omologazione della proposta editoriale. Con sé, Elisabetta Sgarbi avrà editor e autori provenienti anch'essi da Bompiani: Mario Andreose, Eugenio Lio, Umberto Eco, Sandro Veronesi, Pietrangelo Buttafuoco, Edoardo Nesi e altri. Due giorni fa, da Segrate era filtrato il dispiacere per questa decisione. Elisabetta Sgarbi rifiutava interpretazioni politiche o ideologiche. Meglio la frammentazione o la concentrazione per rilanciare il settore? La qualità è appannaggio dei piccoli editori, dei grandi o di entrambi? A ciascuno le proprie opinioni. A questo punto, in qualunque Paese al mondo, la parola sarebbe passata al mercato, cioè ai lettori. Ma siamo in Italia, e ci ha pensato la Repubblica a trasformare la questione editoriale in questione ideologica, mettendo il cappello su La nave di Teseo. Per accendere le polveri, bastano le parole di Elisabetta Sgarbi, che racconta dal suo punto di vista il rapporto con Marina Berlusconi: «Non ha capito perché ce ne andiamo. E soprattutto non ha accettato la possibilità di una nostra autonomia editoriale e gestionale». Glossa di Umberto Eco: «Qualsiasi cosa avesse detto, Marina non avrebbe capito». Ieri pomeriggio Elisabetta Sgarbi, in un'intervista al sito IlLibraio.it, ha aggiunto: «Ognuno avrebbe dovuto rinunciare a qualcosa per tenere la Bompiani unita. Ma se si è proprietari del 100% di qualcosa, non si è tenuti a raggiungere accordi». E ha descritto come «svolti nella più assoluta cordialità» gli incontri con «Ferrari, Ernesto Mauri (soprattutto), e una volta con Marina e Silvio». Secondo indiscrezioni, inoltre, i «fuoriusciti» hanno anche provato a comprare Bompiani. Tentativo non realistico. In ogni caso, l'indipendenza del marchio, all'interno del Gruppo, non è mai stata in discussione come suggerisce la storia delle precedenti acquisizioni di Segrate. Chiedere informazioni a Eugenio Scalfari, pubblicato da Einaudi e omaggiato con un Meridiano Mondadori. Comunque a la Repubblica non importa la ricostruzione dei fatti. Importa solo che Marina di cognome faccia Berlusconi perché questo consente di rilanciare un «grande» classico: la superiorità antropologica della sinistra. Ecco la prosa di Francesco Merlo: «E torna la contrapposizione dei tipi, che sono opposti per stile e per educazione, due donne-capitano che non possono stare sulla stessa barca, anzi sulla stessa nave, Elisabetta su quella di Teseo, il fragile e felice legno degli scrittori, e Marina sulla barca dell'industria culturale più grande e più decaduta d'Italia. E infatti l'una parlava di umanesimo cosmopolita e l'altra di azienda, l'una di autori da allevare e l'altra di vendite che non aumentano. Ed Elisabetta fa imbizzarrire Umberto Eco mentre Marina si consulta con Alfonso Signorini». Sono «donne incompatibili e incomunicabili non per ideologia, ma per antropologia». Esistono dunque due specie. Di là ci sono le persone colte, raffinate, disinteressate; di qua gli ignoranti, i rozzi, gli affaristi. Questa grottesca rappresentazione della realtà perseguita l'Italia da vent'anni, svilendo ogni dibattito. L'industria culturale «più decaduta» è la sinistra che vive di pregiudizi.

Ecco cosa pensiamo di Umberto Eco. Il coccodrillo-verità di Libero, scrive Fausto Carioti il 21 febbraio 2016 su “Libero Quotidiano”. De mortuis nihil nisi bonum. Ma se il defunto è l'intellettuale italiano più noto nel mondo c' è anche l’obbligo della verità. Tutta, inclusa quella sgradevole. L' autore del Nome della rosa è stato tante cose. Politicamente parlando è stato l'intellettuale più autorevole tra coloro che hanno diviso l'Italia in due, per venti lunghissimi anni. Da una parte chi studia, legge (preferibilmente Repubblica e Micromega) e ha una coscienza: l'Italia dei giusti. Dall' altra, l'Italia della barbarie: delinquenti, favoreggiatori di delinquenti, subumani della cultura. In parole povere: tutti coloro che hanno votato per Silvio Berlusconi. Una dicotomia che ha fatto di Umberto Eco il grande teorico della inferiorità etico-culturale degli elettori di centrodestra. Il difetto di Eco non era la sua antipatia viscerale per il Cavaliere, che nel 2006 lo spinse ad annunciare la fuga dall' Italia (figuriamoci) se avesse vinto Berlusconi e che è appartenuta e appartiene a tanti, anche a destra e che spocchiosi non sono (non sempre, almeno). Era invece il disprezzo antropologico dell'intellettuale illuminato per milioni di italiani. Quel «razzismo etico» che gli è costato un giudizio durissimo da un intellettuale di sinistra senza paraocchi come Luca Ricolfi. Il quale, ricordando come si comportò nella seconda metà degli anni Novanta la categoria cui lui stesso appartiene, scrisse sulla Stampa: «Fu proprio in quell' epoca che la sinistra, tramortita e incredula di fronte a un elettorato che aveva osato preferirle Berlusconi, iniziò a rivedere drasticamente il proprio giudizio sugli italiani. Visto che non la votavano, e le preferivano quel cialtrone di Berlusconi, gli italiani dovevano essere un popolo ben arretrato, individualista, amorale e privo di senso civico. Una teoria, questa, che raggiunse il suo apice, al limite del ridicolo, con l'appello elettorale di Umberto Eco nel 2001, in cui gli italiani che avessero osato votare Berlusconi venivano descritti con un disprezzo ed un semplicismo che, in una persona colta, si spiegano solo con l'accecamento ideologico». Accecamento ideologico: per un intellettuale, cioè per colui la cui identità e professione sono le idee, l'accusa peggiore. È anche quella che dipinge meglio l'Eco degli scritti politici (chiamiamole pure invettive). Dall' appello firmato nel 1971 contro il «commissario torturatore» Luigi Calabresi - padre del direttore di quella Repubblica che ieri commemorava Eco - agli appelli, alle interviste, a certe "Bustine di Minerva" vergate per l'ultima pagina dell'Espresso. L' apice, ma anche la teorizzazione che ha dato dignità a tanti deliri del progressismo italiano (vale la pena di ripeterlo: intrinsecamente razzisti, perché basati sulla superiorità antropologica dell'homo sinistriensis), è proprio l'appello che Repubblica mise in pagina l'8 maggio del 2001. Tonitruante sin dal titolo: «Non possiamo astenerci dal referendum morale». Lì Eco divideva «l'elettorato potenziale del Polo» in due. C' era l'Elettorato Motivato, del quale facevano parte «il leghista delirante», «l'ex fascista» e quelli che, «avendo avuto contenziosi con la magistratura, vedono nel Polo un'alleanza che porrà freno all' indipendenza dei pubblici ministeri». E poi c' era l'Elettorato Affascinato, composto da chi legge «pochi quotidiani e pochissimi libri», persone che «salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purché ci sia un sedere in copertina». «Che senso ha parlare a questi elettori di off shore», inveiva Eco, «quando al massimo su quelle spiagge esotiche desiderano poter fare una settimana di vacanza con volo charter?». Criminali e gente in malafede, dunque, assieme a ignoranti lobotomizzati dalle televisioni e da un sogno di benessere a buon mercato. Spiriti meschini, paria del suffragio universale, personaggi che nella democrazia illuminista di Eco non avevano diritto alla cittadinanza e probabilmente nemmeno allo status di rifugiato. In quella pagina Eco scrisse anche che, se avesse vinto il Polo, «tutti i giornali, il Corriere della Sera, la Repubblica, la Stampa, il Messaggero, il Giornale, e via via dall' Unità al Manifesto, compresi i settimanali e i mensili, dall' Espresso a Novella 2000, sino alla rivista online Golem», sarebbero finiti nelle mani dello «stesso proprietario», ovviamente Berlusconi. Il quale, come noto, avrebbe vinto nel 2001 e nel 2008 per trovarseli tutti contro: la previsione dello scienziato sociale Eco fu falsificata, ma lo status dell'autore non ne risentì. Non avrebbe mai cambiato idea. Ripubblicò il testo del 2001 in una raccolta del 2006 (anno in cui ovviamente scrisse anche l' ennesimo appello in occasione dell' ennesimo «appuntamento drammatico» elettorale) e in quell' occasione difese gli insulti che cinque anni prima aveva distribuito su metà degli italiani, paragonando se stesso agli intellettuali che resistettero al fascismo: «Come se ai loro tempi si fosse imputato (si parva licet componere magnis) ai Rosselli, ai Gobetti, ai Salvemini, ai Gramsci, per non dire dei Matteotti, di non essere abbastanza comprensivi e rispettosi nei confronti del loro avversario». Il fatto che «oggi Umberto Eco a Ventotene ci va - se lo vuole - in vacanza», come ha scritto lo storico Giovanni Orsina, non pareva scuotere le sue certezze. Nel dibattito elettorale, argomentava Eco in quel gennaio di dieci anni fa, «le critiche all' avversario devono essere severe, spietate, per potere convincere almeno l'incerto». Ma allora è questo il compito dell'intellettuale? Insultare, drammatizzare, umiliare il prossimo affinché voti come lui gli dice di fare? Abitante spocchioso dei quartieri alti della Moralità, quando di mezzo c'era la politica Eco non aveva nulla della leggerezza e dell'umanità di un Edmondo Berselli, per restare nella sinistra colta di matrice bolognese. Una vita di successi, lo status di grande maestro universalmente riconosciuto, ma in fondo Eco è rimasto sempre lo stesso di quel saggio che scrisse a 29 anni, in cui Mike Bongiorno era definito «esempio vivente e trionfante del valore della mediocrità», la rappresentazione di «un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello». Era già tutto lì, nel 1961. Disprezzo per l'italiano medio e accecamento ideologico inclusi. Accecato dall' ideologia, ha sparato ad alzo zero su chi non votava come voleva lui: criminali oppure ignoranti lobotomizzati dalle tv. Il manicheo che teorizzava l'inferiorità etica della destra Umberto Eco nel febbraio del 2011 al Palasharp di Milano chiede le dimissioni di Silvio Berlusconi durante una manifestazione organizzata da Libertà e Giustizia.

La sinistra uccide la cultura, scrive Francesco Maria Del Vigo il 4 febbraio 2016 su "Il Giornale". Qualche giorno fa il Financial Times ha pubblicato un articolo che in Italia non potrebbe mai uscire. Il senso del pezzo è questo: quasi tutti i docenti dei paesi anglosassoni sono di sinistra e il loro pensiero unico distrugge la cultura e pure gli atenei. Sacrosanto. Pare, stando alle statistiche del foglio economico, che il 60 per cento dei professori americani tifi per i Democratici, contro il 40 per cento del 1989. Risultato? Dalle cattedre universitarie si professa un solo punto di vista. Non c’è dibattito. Si vende una sola idea e la si spaccia per verità. Vado per esperienza personale – quindi fallibile – ma in Italia credo che sia peggio. A naso: il 90 per cento dei docenti universitari – e delle superiori – sono di sinistra. Non solo i docenti, anche chi seleziona e scrive i libri di testo. Vi è mai capitato di leggere i tomi di storia o filosofia delle scuole dell’obbligo? Lasciamo perdere Il giudizio su Mussolini e il fascismo – De Felice nella migliore delle ipotesi è citato come un eretico -, ma pure uno come Nietszche viene trattato come una canaglia. Dalle nostre parti vige ancora l’idea che la cultura sia proprietà della sinistra. Quando i giganti della cultura del Novecento – per esempio – sono stati tutti di destra: fosse fascista, reazionaria, conservatrice, repubblicana, liberista, liberale o monarchica. Mishima, Pirandello, Drieu la Rochelle, Heidegger, Schmitt, Fermi, Gentile, Marinetti, D’Annunzio, Junger, Guenon, Evola, Berto, Cioran, Fante, Balla, Prezzolini, Hamsun, Keller, Comisso, Ionesco, Eliot? (E ho citato solo alcuni nomi, i primi che mi sono venuti in mente. Per leggere qualcosa di più preciso consiglio l’articolo “I grandi scrittori? Tutti di destra” di Giovanni Raboni uscito sul Corriere il 27 marzo 2002). Sono stati di sinistra? Sono stati comunisti? No, e ognuno di loro ha detto qualche cosa che oggi sarebbe incappato nella censura del politicamente corretto. E anche se li fossero stati – comunisti, stalinisti o chissà cosa – non ci sarebbe alcun problema… E lì in mezzo – in questa lista assolutamente incompleta e provvisoria – ci sono froci, drogati, blasfemi e alcolizzati. Perchè ci sono centodestre (titolo di un bellissimo dizionario biografico) che fanno da contraltare al pensiero unico di sinistra. E comunque la cultura non è rossa e neppure nera. Non è islamica, nè cattolica, nè apostolica, nè romana. La cultura è cultura. Punto. A prescindere dal colore e persino dalle follie ideologiche che abbia sostenuto. Non ci sono idee o scrittori che non si possano studiare, discutere e criticare. Non c’è nulla di vietato. Il politicamente scorretto è un’impotenza intellettuale contro la quale al momento non è commercializzato alcun Viagra. Se non quello della libertà intellettuale. Che purtroppo non si compra al supermercato. Ma il problema sollevato dal Financial Times – e qualche settimana fa anche dagli accademici di Oxford – merita di essere trasportato in Italia: il politicamente corretto uccide il dibattito culturale. Perché qui da noi il corpo docenti è ancora più radical e fuori dal mondo che negli USA o in Gran Bretagna. E non ci si può mordere la lingua di fronte a un’idea solo perché farebbe sussultare la Boldrini. Poi ci chiediamo perché i nostri titoli di studio non valgono un accidente… Anzi, studiarsi a memoria le banalità che impongono certi libri di testo è una medaglia al demerito. Uno schiaffo alla libertà di pensiero, al sano diritto all’insofferenza e alla claustrofobia verso tutto cioè che è imposto. Ogni volta che conosco qualcuno che abbia raggiunto i massimo voti negli studi classici mi preoccupo e mi sincero che abbia avuto anche altre evasioni intellettuali. Meglio bigiare una lezione e leggersi in un bar – magari pure con una sigaretta in bocca – una pagina di Max Stirner o di Berto Ricci. Di un anarco libertario o di un socialfacista. Magari per poi smontarli. Roba che tra i banchi è giudicata più pornografica di una gang bang di Sasha Grey. E comunque apre di più la mente un filmato su Youporn di uno dei libri di storia imposto dallo stato nei quali le foibe vengono evase in tre righe scarse. E poi – anche in campo sessuale – D’Annunzio a Fiume aveva già fatto tutto… (Alla festa della rivoluzione, Claudia Salaris, Il Mulino). E ricordatevi: quel barbuto con l’eskimo 2.0, gli occhialoni neri e la moleskine in mano che sta seduto accanto a voi in biblioteca non è un intellettuale: probabilmente è un coglione che manda a memoria testi del sessantotto pensando che siano roba nuova. Il futuro, per ora, non è infondo a sinistra. Lì hanno spostato la discarica delle idee.

«Fare film sul potere è duro Sulla sinistra molto di più», scrive Pedro Armocida, Lunedì 15/07/2013, su “Il Giornale”. «Il racconto della politica al cinema non è un fatto scontato. In Italia non si faceva più dai tempi di Rosi o di Petri». E magari, qualche leader della sinistra sinistrata raccontata da Roberto Andò nel suo vivido Viva la libertà ne avrebbe fatto pure volentieri a meno. E invece il regista siciliano ha portato sul grande schermo la storia raccontata nel suo romanzo d'esordio Il trono vuoto (Bompiani) che qualche mese fa ha avuto un buon riscontro anche al botteghino e ha recentemente ottenuto due David di Donatello (sceneggiatura e attore non protagonista, Valerio Mastandrea) e un Nastro d'argento (sceneggiatura) prima dell'uscita in home video in questi giorni. «Sarà un'altra occasione per verificare l'azzardo dell'idea, la bontà di questo progetto, un tappo sulla politica che si è liberato al cinema». Roberto Andò, classe 1959, palermitano adottato dalla Capitale dove mi accoglie in un elegante appartamento nella Prati più vicina al Vaticano mentre squilla il telefono e all'altro capo c'è proprio Rosi, è un caso atipico di regista. Decine le sue regie teatrali e di opere liriche, poi il cinema con tutto il suo lato più intellettuale e complesso (Viaggio segreto, Sotto falso nome) e le sue passioni d'origine (Il manoscritto del Principe ossia Tomasi di Lampedusa al lavoro su Il gattopardo) mentre ora sembra vivere una nuova elettrizzante dimensione di «leggerezza» - come ama definirla - e di incontro con il pubblico: «Questo film mi ha dato la forza di immaginare con libertà attraverso una struttura non conforme. Mi piacerebbe mantenere questo sguardo. Una volta ho letto un'intervista di Bertolucci in cui, dopo un insuccesso, diceva di essersi posto il problema del pubblico. Tutti i registi dovrebbero farlo. Ora questo desiderio è emerso in me perché quando vuoi parlare del tuo Paese devi entrare in contatto con gli spettatori».

Ma, a sinistra, non tutti sono stati così empatici.

«Bè certo, c'è stato chi come Renzi e Veltroni, peraltro recensori positivi del romanzo su Panorama, mi ha fatto arrivare un'adesione entusiasta. Nel corso del tempo sono venute fuori le anime inquiete della sinistra con Civati con cui sono appena stato al suo politicamp a Reggio Emilia dal titolo proprio W la libertà. Mente l'altra parte è rimasta in imbarazzo. So che Bersani l'ha visto da solo a Piacenza».

E D'Alema?

«Silenzio assoluto».

Uno dei suoi «padri» intellettuali, Leonardo Sciascia, ha sempre cercato di raccontare il potere.

«L'affaire Moro era una specie di processo al palazzo dove la politica è sinonimo d'impenetrabilità, di mistero. Dopo Berlinguer i politici hanno sul volto l'angoscia del potere. Lo cercano ma al contempo vorrebbero fuggirgli. Io sono partito da qui ma in direzione del cambiamento. Il film mette insieme vita e politica e lo spettatore s'immedesima nell'idea che nell'esistenza si possa sempre ripartire».

Come nella sua vita?

«A 19 anni ho scritto il mio primo romanzo. Piacque molto a Sciascia ma lo misi nel cassetto e sta ancora lì. Poi sono andato avanti come in una specie di strabismo attraverso discipline diverse. Mai conforme e sempre anomalo, un po' come Toni Servillo, il protagonista di Viva la libertà e ingiustamente non premiato ai David anche se naturalmente sono contento per Valerio Mastandrea».

Come mai, lei che è così «transmediale», non ha mai fatto tv? 

«Mi è stata proposta varie volte ma la narrazione da noi è molto conformistica. Tutto è giocato sullo struggimento privato. Potrei accettare solo se fossi coinvolto nel progetto fin dall'inizio, dalla sceneggiatura».

Intanto continua con l'opera lirica, la sua passione. Ma è una proposta ancora contemporanea?

«Certo, a Torino all'inizio del prossimo anno farò Il flauto magico. L'opera è straordinaria proprio perché propone un paesaggio che lo spettatore pensa di ritrovare sempre uguale ma la scommessa del regista è di cambiarlo sempre. Come quando in Viva la libertà ho inserito la popolare La forza del destino di Verdi che rappresenta perfettamente il carattere dell'italiano e con cui lo spettatore si riconosce, come se galleggiasse dentro un liquido amniotico».

E il teatro?

«Connesso con l'opera. A Palermo il 23 ottobre con Sette storie per lasciare il mondo con Marco Betta, musicista di Viva la libertà, storie di persone che scompaiono, con la novità che lo spettatore vedrà sul palco su due schermi sette film che sostituiscono il libretto».

Cosa risponde a chi dice che la lirica drena molte risorse dello Stato?

«Conosco bene il mondo dell'opera. Ci vorrebbe molto più coraggio da parte dei sindacati che in questo sono molto conservativi. Ci vuole una scossa perché ci sono cose rinunciabili. Un teatro si apre quando c'è uno spettacolo. Invece i costi fissi sono altissimi».

E il sostegno alla cultura? A Taormina ha lanciato un grido di allarme.

«Sono fiducioso nel ministro Bray ma, come diceva Fellini, non possiamo tollerare di prendere i pugni in faccia. La battaglia sul ripristino del tax credit dimezzato alla produzione dei film è sacrosanta. Lo Stato deve preservare un'idea di civiltà e fare delle scelte strategiche. Poi il singolo artista deve costruirsi il suo percorso. Magari senza troppi aiuti si può trovare in una condizione più giusta e stimolante».

Sciascia: «Scrivo solo per fare politica», scrive il “Il Giornale”, venerdì 05/02/2016. Due modi di intendere l'arte. E anche due modi di intendere la politica. Fra Leonardo Sciascia ed Elio Petri la stima correva spedita in entrambe le direzioni, ma con prospettive senza dubbio differenti. Il dato emerge dalla pubblicazione, sulla rivista di studi sciasciani Todomodo (Olschki editore), dell'epistolario fra lo scrittore di Racalmuto e il regista romano. Siamo fra il 1966 e il '67 e il tema del confronto è il film A ciascuno il suo, tratto dall'omonimo romanzo. «Ho fiducia - scrive Sciascia l'8 settembre '66 - che farai un buon film, ma sarà in ogni caso, un film che non avrà niente a che fare col racconto. Il mio personale rammarico (che tu hai già avvertito e dichiarato: e mi riferisco all'intervista pubblicata sul Popolo) riguarda soprattutto la tua intenzione di non fare un film politico. Io scrivo soltanto per fare politica: e la notizia che il mio racconto servirà da pretesto a non farne non può, tu capisci bene, riempirmi di gioia». Due giorni dopo, ecco la risposta di Petri: «Potrei rovesciare il discorso così: volevo fare un film politico non didascalico. Tu credi che quando sullo schermo appariranno i preti, Rosello, i notabili, l'Osservatore Romano, tu credi che il film non sarà politico? Intendiamoci sulle parole, forse faremo prima: io, per politico, intendo ogni film che si presenti apertamente, massicciamente come libello, o come teorema politico, come un'opera sulla cui materia di ricerca, prevalga - incomba - una tesi politica, che in questo senso, è propagandistica». Sciascia comprende ma non si adegua, il 2 ottobre successivo: «Nel mio atteggiamento nei tuoi riguardi non c'è stata altra ragione che quella dell'autore di un libro che ritiene di dover lasciare all'autore del film ogni possibile libertà ma evitando accuratamente di diventarne complice». Il 22 febbraio '67 uscì il film di Petri, e il 10 marzo Sciascia resta sulle proprie posizioni: «La mia previsione che avresti fatto un ottimo film, ma diverso dal libro, si è avverata. E mi piace riconfermare, in tutta sincerità, che non c'è stato tra noi alcun malinteso, né io ho avuto delusione o amarezza dal fatto di scoprire, nella sceneggiatura e ora nel film, che tu hai fatto un'altra cosa». Dieci anni dopo, un altro film di Petri tratto da un libro di Sciascia parrà a tutti decisamente più politico (in senso sciasciano) del primo: Todo modo. Anche questa volta con nel cast Gian Maria Volonté, il più grande attore «politico» d'Italia.

Sciascia, lo scrittore che volle farsi immortale. L’eterno trasformismo. La nascita dell’antipolitica. Il cambio di editori. Una meditazione sull’ars moriendi. L’uscita dei "saggi sparsi" rivela gli aspetti più nascosti dello scrittore siciliano, scrive Piero Melati il 4 febbraio 2016 su “La Repubblica”. Zolfo. Piombo. Inchiostro. Di queste tre elementi è fatta l’immaginaria città di Regalpetra. Del primo elemento, scrive Leonardo Sciascia nel 1975, a proposito della sua nativa Racalmuto: «Tutto ne era circonfuso, imbevuto, segnato». L’aria, l’acqua, le strade: «Scricchiolava vetrino sotto i piedi». Ci si friggeva anche il pesce, nello zolfo. Per circa due secoli la Sicilia ne ebbe il monopolio. Era il petrolio dell’epoca. Nel 1834 l’isola contava 196 miniere. Per oltre un secolo, ci morivano i carusi. A salvarli, più che la legge, fu l’avvento dell’energia elettrica. Il secondo elemento di cui è fatta Regalpetra è il piombo. Quando Sciascia nacque (1921) Racalmuto era il Far West: «Una lite per confini o trazzere fa presto a passare dal perito catastale a quello balistico». Poi c’era la mafia. E infine, ricorda il biografo di Sciascia, Matteo Collura, «le campagne erano un brulicare di doppiette», per via della caccia. Lo stesso Sciascia era stato uno sniper: «Con un fuciletto ad aria compressa, a dieci metri, colpivo la capocchia di uno spillo». L’inchiostro, infine. «Ne ricordo anche il sapore. Forse qualche volta l’ho bevuto». Ed è l’inchiostro della scrittura ad aver trasformato la Racalmuto reale in Regalpetra la fantastica, ad aver trasmutato il piombo in zolfo, e poi lo zolfo in oro. Le parrocchie di Regalpetra, l’esordio che nel 1956 trasformò un comune insegnante in Sciascia, compie sessant’anni. A undici dalla pubblicazione lui spiegò: «È stato detto che nelle Parrocchie sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E l’ho detto anch’io. Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno». Sciascia, dunque, ha scritto un solo libro, sempre dedicato a quel «gomitolo di vicoli» che dista 16 miglia dal mar africano e 68 da Palermo, che ricapitola tutto l’universo. Lo scrittore, nel ‘79, aggiungerà: «La Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani, ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo». Un anno prima Sciascia aveva ultimato un saggio. Lo aveva titolato Fine del carabiniere a cavallo. Il saggio apre il volume di scritti sparsi che Adelphi (con questo stesso titolo) va a pubblicare. Il curatore dell’opera, Paolo Squillacioti, avverte: «Raccogliere tutto Sciascia è molto difficile. Sono infatti quasi 1.400 gli scritti dispersi». Eppure serviranno tutti per conoscere quell’unica storia che Sciascia per tutta la vita scrisse ed ampliò. In un illuminante ritratto di Alberto Savinio, contenuto in questa raccolta, lo scrittore sottolinea: «Sono riuscito a mettere insieme tutti i suoi libri. Ma tutti i suoi libri non fanno “tutto Savinio”: bisognerà raccogliere tutti i saggi, gli articoli e rendersi conto che si tratta, dopo Pirandello, del più grande scrittore italiano di questo secolo».

Sciascia le illusioni di un impolitico. Mai comunista, ma sempre vicino e litigioso con il Pci. Un libro di Emanuele Macaluso. Lo scrittore Leonardo Sciascia in un ritratto di Paolo Galetto, scrive Marcello Sorgi il 12/10/2010 su “La Stampa”. Leonardo Sciascia è diventato un classico, e tutte le sfaccettature della sua complessa personalità artistica, letteraria, intellettuale, sono state ormai sviscerate. Mancava, invece, un’analisi dello Sciascia politico, non solo della sua breve esperienza parlamentare alla Camera con i radicali nel periodo 1979-’83, ma dell’aspetto propriamente e politicamente incisivo della sua opera, in rapporto alla sinistra italiana e in particolare al Pci. A questa lacuna viene ora a porre rimedio il libro di Emanuele Macaluso Leonardo Sciascia e i comunisti (pagg. 160, Feltrinelli), in libreria da domani. Con una tesi che farà nuovamente discutere, a vent’anni dalla scomparsa di uno scrittore già molto discusso in vita. Basandosi sull’amicizia, la conoscenza e la conterraneità durate per quasi mezzo secolo, Macaluso, a lungo dirigente di primo piano del Pci siciliano e di quello nazionale, formula infatti la tesi che Sciascia, pur animato da sincera passione civile, fosse in realtà un impolitico. E che in questa chiave si possano spiegare anche le molte illusioni, e le troppe e repentine delusioni, a cui andò incontro. Sciascia non fu mai comunista, ma nella Caltanissetta della gioventù fu amico di molti comunisti, tra cui lo stesso Macaluso, e portato, come antifascista, ad approssimarsi al Pci. Un Pci che immaginava risolutamente all’opposizione, e nella Sicilia in cui l’alleanza tra mafia e Dc era palpabile, dichiaratamente anti-democristiano. Per lui «potere» e «delitto» erano due entità inscindibili, e in particolare il potere «senza ragioni ideologiche e volto ad assimilare, a degradare e a corrompere perfino le forze che gli si oppongono o che gli si dovrebbero opporre». Una visione così pessimistica, all’inizio degli Anni Settanta, è al centro del Contesto, uno tra i suoi più famosi romanzi, che lo portò diritto in collisione con il Pci. Sciascia aveva intuito, in anticipo sul Berlinguer del «compromesso storico», che la collaborazione con le forze di governo avrebbe portato la sinistra a una degenerazione dei propri valori e dei propri comportamenti. In realtà Sciascia aveva cominciato a prendere le distanze dal partito ancora prima, alla fine dei Cinquanta, ai tempi della famosa «Operazione Milazzo» con cui i comunisti siciliani, alleandosi perfino con il Msi, avevano mandato all’opposizione la Dc. Sul Corriere della Sera era arrivato a definire «di impronta mafiosa» il governo milazzista voluto proprio da Macaluso, che in quegli anni dirigeva il Pci siciliano. Qui salta agli occhi la prima contraddizione dello scrittore, che non nascondeva affatto questo aspetto del suo carattere (volle per sé un curioso epitaffio: «contraddisse e si contraddisse»). Se Sciascia era davvero, e prima di tutto, contrario alla Dc, come non si stancava di ripetere, perché attaccò il Pci l’unica volta che era riuscito a mandarla all’opposizione, e invece, pur restando critico, si schierò con i comunisti al momento del «compromesso»? L’adesione militante (pur senza tessera) dello scrittore alla campagna elettorale del 1975, solo poco tempo dopo le stroncature subite dai giornali e dalla cultura comunista al Contesto, resta inspiegabile per Macaluso, contrario all’accordo con i democristiani soprattutto in Sicilia, dove significava venire a patti con la parte più confinante con la mafia. Eppure, in quell’ambito, Sciascia si muove senza remore: «A chi mi conosce personalmente o attraverso quello che scrivo, appare chiaro che non potevo trovarmi altrove - dice nel discorso che annuncia la candidatura al Consiglio comunale di Palermo, ma rivela la consapevolezza che molti possano non aspettarsela -. Il fatto che io abbia avuto spesso degli attacchi più da sinistra che da destra, da certi luoghi del Pci più che da altri partiti, dimostra che io sono più vicino al Pci che a qualsiasi altro partito». È lo stesso Sciascia che s’è battuto fino ad allora contro le debolezze e le acquiescenze del Pci, che in una famosa polemica con Giorgio Amendola, poi rinnovata con Ugo La Malfa, ha attribuito ai comunisti parte della responsabilità dell’avanzata del Msi e della rinascita di una cultura di destra nel 1972. Ancora, lo stesso Sciascia che aveva criticato i dirigenti comunisti degli Anni Cinquanta, responsabili della svolta milazzista, adesso scopre i «giovani dirigenti» che stanno per allearsi con la Dc paramafiosa di Gioia e di Lima. Ma conoscendone l’integrità morale e l’assoluta buona fede, Macaluso ricorda di aver pronosticato breve durata per quel fragile coinvolgimento, di averne pure parlato con Berlinguer, per metterlo in guardia da una rottura che quando avverrà, di lì a poco, sarà clamorosa. Oltre alla noia delle sedute notturne del Consiglio comunale e all’isolamento che avverte tra i politici di professione, Sciascia, infatti, a un certo punto, si sente usato e preso in giro. Ne verrà un risentimento inesauribile. E un incidente piuttosto imbarazzante tra il segretario comunista e lo scrittore, intanto approdato alla Camera con i radicali. In un pranzo a tre con Renato Guttuso, Berlinguer accennò alla possibilità che le Brigate Rosse, durante il caso Moro, avessero potuto godere di appoggi logistici da parte della Cecoslovacchia. Sciascia utilizzò questa confidenza in Parlamento, nella commissione d’inchiesta sul sequestro. Berlinguer querelò lo scrittore, che a sua volta lo controquerelò, ma fu smentito da Guttuso, schieratosi per disciplina con il leader del partito. Così, oltre al rapporto con il Pci, si ruppe anche l’amicizia tra due grandi siciliani. Gli ultimi anni di Sciascia sono quelli delle famose polemiche sul processo alle Br di Torino, in cui lo scrittore si schierò a favore dei cittadini che si rifiutavano di fare i giurati popolari, condividendone il senso di sfiducia nello Stato, e sui «professionisti dell’Antimafia». Sciascia subì nuovi durissimi attacchi non solo da sinistra, ma dalla parte più militante dei giornalisti, degli intellettuali e della società civile, nonché dai Comitati Antimafia, da cui il Pci non volle mai prendere le distanze per difenderlo. Macaluso descrive un partito ingessato dalla necessità di «non delegittimare la magistratura» e Natta, il successore di Berlinguer, incapace di sviluppare una sua posizione autonoma sui lati oscuri e sugli eccessi del pentitismo. Il racconto della solitudine di Sciascia negli ultimi giorni della sua vita è toccante, come quello dell’addio tra i due vecchi amici. Ma adesso che sono passati vent’anni - conclude l’autore - perché la sinistra non prova a riscoprire Sciascia, sottraendolo all’ingiusta appropriazione che ne sta consumando la destra? 

Leonardo Sciascia, nel 1963 denunciava il cretino di sinistra, scrive il 27 maggio 2009 Iacolare Francesco Saverio. Il grande scrittore siciliano, Leonardo Sciascia, nel 1963 scopriva il verificarsi di un evento senza precedenti: l’ascesi del cretino di sinistra. Fino a quell’epoca, i cretini erano solo di destra.Il grande Leonardo Sciascia diceva: “i cretini di sinistra sono molto più pericolosi di quelli di destra perché alla loro imbecillità si aggiunge il fanatismo per il potere e il disprezzo per il governo”. Sono trascorsi 45 anni e un intellettuale del calibro del prof. Gianfranco Pasquino, molto apprezzato dalla sinistra che conta ha dichiarato:” Alla sinistra riesce bene tenersi stretto il potere”. Accusa il PD di ricusare ogni forma di cambiamento perché quella attuale garantisce, comunque, di conservare il potere che possiede. Pronostica che le prossime elezioni amministrative di maggio di Bologna saranno vinte dal centro destra. Siamo di fronte ad un apparato di mostruosità privo della più elementare forma di dignità. Infatti, la Finocchiaro si dichiara disponibile per la segreteria al posto dell’inutile Veltroni. D’Alema ha la sua televisione e crede di essere il padrone del partito, non sopporta di stare nell’ombra come tale, preferisce il ruolo della prima donna. L’anima comunista non è mai morta nel cretino di sinistra, aveva ragione Leonardo Sciascia. Il momento drammatico di crisi, che offende milioni di italiani nella dignità sociale, è una questione che non appartiene alla sinistra. Essa è sempre contro a prescindere perché non ha cultura di governo, ma solo di potere. In un ‘Italia che vive momenti drammatici di caduta etica e morale, ove l’economia è stata ridotta a squallida operazione finanziaria, priva di produzione reale, solo ricchezza virtuale, la sinistra invece di proporre vie di soluzioni condivise, armata dall’eterno odio, contro chi governa propone lo sciopero generale senza consultare la base, non solo, ma contro la volontà di tutti i sindacati. Questa becera sinistra non è la vera sinistra, questa predica ancora l’odio di classe, nonostante i suoi dirigenti possiedano panfili come Ulisse II e casa a New York. Bravi, Veltroni e D’Alema. Il cretino di sinistra vuole avere sempre ragione. Egli è di una superiorità intellettuale indiscutibile perché ignora l’altro, anzi lo disprezza. La sinistra ha sempre conquistato il potere con l’infallibile arte di fottere il suo interlocutore. Il popolo è sempre stato il paravento sociologico dietro il quale nascondersi compiendo poi le nefandezze del potere. Una sinistra senza dignità che nega perfino il pentimento e la conversione del fondatore del comunismo, che alla fine dei suoi giorni, illuminato dalla Grazia, ha chiesto la presenza di un sacerdote per chiedere il Viatico per l’ultimo viaggio. Questa negazione rappresenta lo sbando totale del cretino di sinistra che abita tra noi. Uno sbandamento provato dall’occupazione delle istituzione che detiene come potere, incapace di governare. I poveri cattolici si sono fatti fagocitare dall’illusione di ciò che non esiste, non si sono ancora resi conto che i loro compagni di viaggio non potranno mai diventare democratici, essi sono privi della cultura dell’alterità, quella cultura che ti permette di riconoscere il volto di chi ti guarda, come il volto del fratello che cerca aiuto. La nostra sinistra non conosce il fratello, conosce il compagno, perché nega l’esistenza del Padre. Oggi cosa resta della sinistra? La squallida ipocrisia di sempre, l’odio per chi non pensa con le loro aberranti categorie mentali, il limite del confronto di chi pensa al di sopra degli schemi, in modo particolare il terrore e la paura con la Trascendenza perché incapaci di un atto di umiltà come quello di Gramsci. L’odio di D’Alema nei confronti di Veltroni è stato evidenziato da E. Scalfari, il quale ha detto che sta lavorando per denigrare il segretario Veltroni. L’amico di merenda di D’Alema, Latorre, accusa Veltroni di praticare una politica fallimentare. Povera sinistra, ma quale sinistra? Quella degli “utili idioti”, una formula inventata da Lenin, ripetuta da Stalin, Gramsci, Togliatti per indicare coloro che dinanzi alla storia hanno firmato un’adesione contraffatta di una stupida disponibilità nel nome del potere. Certo non bisogna cretinizzare tutta la sinistra. Vi sono uomini di grande dignità e intelligenza, questi non vanno confusi con gli attuali qua qua ra qua in cerca del potere. Questi uomini che hanno a cuore la salvaguardia della dignità dei nuovi poveri bisogna rivolgere l’appello di cercare insieme nuove soluzioni possibili per il bene di tutti i bisognosi. Purtroppo la “sensibilità “della ricchezza non incontrerà mai l’ascolto della dignità del povero. Continuare a parlare, oggi, di destra e di sinistra è una grave offesa alle intelligenze a dimensioni planetarie. Noi abbiamo un ferito grave assalito dai briganti sulla strada di Gerico, dobbiamo aspettare il samaritano ,oppure tutti vogliamo essere dei samaritani. Francesco Saverio Iacolare.

Da quello di Sciascia a quello su Twitter, genealogia del cretino moderno, scrive di Guido Vitiello il 19 Novembre 2012 su “Il Foglio”. Non ci sono più i cretini di una volta. Leonardo Sciascia li ricordava quasi con rimpianto: quei bei cretini genuini, integrali, come il pane di casa, come l’olio e il vino dei contadini. La loro scomparsa seguì a breve giro quella delle lucciole, e chissà che tra i due fenomeni non ci sia un nesso misterioso. Poi venne l’epoca della sofisticazione, per gli alimenti come per gli imbecilli: “E’ ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino”, annotava sconsolato in “Nero su nero”. A rendere possibile questa confusione incresciosa, a intorbidare le acque era stata l’improvvisa disponibilità di gerghi intimidatori dietro cui far marciare le banalità più indifese. Sciascia sceglie una data convenzionale, il 1963, anno in cui comincia l’ascesa, a sinistra, di un tipo nuovo di cretino, il cretino “mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare”. Si annunciava la stagione d’oro del cretino dialettico, operaista, maoista, strutturalista, althusseriano, insomma il cretino a cui Paolo Flores d’Arcais e Giampiero Mughini avrebbero eretto il monumento del “Piccolo sinistrese illustrato”. Sciascia era persuaso che il più insidioso mascheramento della stupidità fosse la complicazione non necessaria, l’arzigogolo, e scelse per metafora il berretto di Charles Bovary: Flaubert impiega mezza pagina a descriverne la fattura assai composita, per concluderne che in fin dei conti somigliava alla faccia di un imbecille. Altri tempi, altri cretini. Oggi quel tipo lì lo riconosci a vista, i gerghi non gli fanno più da scudo, anzi ne segnalano a colpo d’occhio la cretinaggine, irraggiandola in ogni direzione come l’evangelica lampada sul moggio. Certo, vanta ancora le sue glorie mondane, scrive i suoi trattati, assiepa i suoi vaniloqui, fonda le sue rivistine, raduna attorno a sé i suoi circoletti (pur predicando, magari, di “moltitudini”), ma tutto sommato è facile impedirgli di nuocere. Sono altri, quelli da cui dobbiamo guardarci. Oggi il cretino, a destra come a sinistra, sembra aver ritrovato la sua originaria semplicità e una perversa concisione. Ma attenzione a non confondersi, è una semplicità contraffatta, una sofisticazione di secondo grado: è il segno che la specie si è evoluta per sfuggire agli artigli dei suoi predatori. Il cretino di buon senso è come quelle mele rosse rosse che per evocare un Eden perduto si servono di tutte le diavolerie della chimica. Ti guarda in faccia e ti dice, che so, “la cultura è un bene comune, come l’aria”, e tu temporeggi dietro un mezzo ghigno contratto, e ti sembra così candido che sei quasi sul punto di assentire, di sciogliere la mandibola e ricambiargli il sorriso, e devi aggrapparti con tutte le forze all’albero maestro del tuo intelletto per non soccombere all’incantesimo e capire che sì, probabilmente hai davanti a te un imbecille. E non è il solo da cui stare in guardia, il cretino di buon senso. Se al tempo di Sciascia la strategia per mimetizzarsi era la blaterazione fantascientifica, la proliferazione cancerosa dei gerghi, la zecca sempre aperta delle parole che coniano altre parole, oggi il cretino si rintana nelle forme brevi. Ecco, sarebbe da prendere quel dibattito soporifero tanto caro ai giornali – “Twitter ci rende stupidi?” – e capovolgerne l’assunto: Twitter ci rende intelligenti. C’è in questo qualcosa di prodigioso, e di terrificante: ci sono cretini certificati, abituali, della cui cretinaggine abbiamo prove da riempirci un dossier, che nel giro breve di quei centoquaranta caratteri riescono non si sa come, per un istante, a ricordarci Karl Kraus, Oscar Wilde, o male che vada Giulio Andreotti. Possibile? L’aforisma, il Witz, che un tempo era un’arma formidabile contro la stupidità di tutte le maniere, è diventata il nuovo rifugio degli imbecilli, la freccia più velenosa nella loro faretra. Eppure non c’è granché da fare. Già che la stupidità ci assalta a tradimento, e senza logica, ne consegue, suggeriva Carlo Cipolla nel suo trattatello sul tema, che “anche quando si acquista consapevolezza dell’attacco, non si riesce a organizzare una difesa razionale, perché l’attacco, in se stesso, è sprovvisto di una qualsiasi struttura razionale”. Il meglio che possiamo fare è metterlo nero su nero. Guido Vitiello

L’oblio su Sciascia politico. Non soltanto i rapporti contrastati col Pci, né la sua elezione con i Radicali. Lo scrittore siciliano divise l’establishment con le domande su giustizia e potere, scrive Gianfranco Spadaccia, già segretario, deputato e senatore del Partito radicale, il10 Luglio 2014 su “Il Foglio”. Pubblichiamo stralci della prefazione di Gianfranco Spadaccia a “La memoria di Sciascia”, collezione di saggi e articoli dello scrittore messicano Federico Campbell (1941-2014), appena pubblicata in Italia da Ipermedium Libri. A quasi un quarto di secolo dalla scomparsa di Leonardo Sciascia, questo libro dello scrittore messicano Federico Campbell ci offre l’occasione di una rilettura critica dell’intera sua opera letteraria e ci invita a una riflessione, oggi più che mai opportuna e necessaria, sull’importanza che essa ha avuto nella letteratura italiana ed europea e nella vita politica e civile del nostro paese. Perché Sciascia è stato durante tutta la sua vita e in tutta la sua opera scrittore politico. Lo è stato più di qualsiasi altro uomo di lettere del suo tempo, più di Italo Calvino, più di Elio Vittorini, più dello stesso Pier Paolo Pasolini. Scrittore politico per eccellenza e non certo per i suoi contrastanti rapporti con il Pci o per essere stato per un breve periodo consigliere comunale a Palermo e poi, nella legislatura 1979-1983, deputato Radicale ma perché tutti i suoi libri – non solo gli articoli, i saggi, i pamphlet ma anche i romanzi e i racconti – sono sempre attraversati dagli interrogativi, dalle gravi questioni etico-politiche che riguardano la vita del paese e il governo della polis: i rapporti fra il Potere (i poteri) e i cittadini, fra lo Stato e il diritto, fra la verità e l’impostura. E’ strano che questa sua qualità di scrittore politico non si ritrovi fra le molte definizioni che di lui sono state date: da quella, perfino scontata, di “scrittore illuminista” per il suo costante riferirsi ai valori dell’Enciclopedia, e in particolare a Voltaire e a Diderot, a quella discussa di “scrittore barocco” (che Belpoliti riprende da Calvino), a quella singolare che Campbell in questo libro riprende da Bufalino di “scrittore secco” per la sua straordinaria concisione letteraria contrapposta a quella di “scrittore umido” che Bufalino attribuiva ad altri letterariamente più ridondanti scrittori e anche a se stesso. E’ come se gli estimatori di Sciascia ritenessero che la sottolineatura della politicità della sua opera potesse concorrere a offuscarne o a sminuirne in qualche misura la grandezza letteraria. Se fosse così si tratterebbe di una preoccupazione sbagliata perché politicità e qualità artistica e letteraria nell’opera di Sciascia vanno di pari passo e si alimentano a vicenda ma sarebbe anche una preoccupazione inutile perché proprio per la sua politicità ogni suo libro ha profondamente diviso sia l’opinione pubblica sia la stessa società letteraria. E’ forse in base a queste preoccupazioni che Piero Citati, pur riconoscendone la qualità e la grandezza, è giunto ad affermare che dalla sua opera bisognerebbe cancellare “l’ultimo Sciascia (allo stesso modo del primo Calvino)” per essersi esposto troppo nell’agone politico. A Citati però bisognerebbe chiedere dove secondo lui comincia l’ultimo Sciascia: comincia con “L’Affaire Moro” o bisogna risalire molto più indietro a “Il Contesto”, a “Todo Modo”, a “Candido”? D’altronde l’autore di questi romanzi non è affatto “l’ultimo Sciascia” perché, dopo “L’Affaire Moro”, scrisse ancora saggi, racconti, romanzi che occupano una parte del secondo volume e quasi per intero il terzo volume delle “Opere complete”, edite da Bompiani e curate da Claude Ambroise. In altra circostanza ho riconosciuto il mio debito nei confronti di Sciascia per l’influenza che i suoi libri hanno avuto nella mia formazione culturale, sentimentale e politica fin da quando, giovanissimo, mi imbattei all’inizio degli anni 60 ne “Le Parrocchie di Regalpetra” e in “Morte dell’Inquisitore”, molto prima dunque che le vicende politiche dei tardi anni 70 e dei primi anni 80 ci facessero trovare dalla stessa parte e perfino nello stesso gruppo parlamentare radicale. Il messicano Campbell, che ha studiato e amato lo scrittore siciliano fino al punto di servirsi anche delle sue lenti per leggere alcuni aspetti della realtà del Messico, conosce perfettamente le sue vicende politiche e letterarie e tuttavia, non influenzato dalle polemiche e dalle strumentalizzazioni italiane che le hanno accompagnate, ci restituisce l’immagine di uno scrittore eretico che in tutta la sua vita si confronta con una realtà siciliana e italiana rimasta, a sinistra non meno che a destra, profondamente controriformista e lo fa seguendo sempre la stessa ispirazione ideale. Ed esprime un’opinione uguale alla mia: “Non c’è opera di Sciascia che non sia politica. E’ un autore politico. E’ uno storico. E’ un romanziere. E’ uno scrittore”. Non c’è soluzione di continuità fra il primo e l’ultimo Sciascia, fra lo Sciascia di “Le parrocchie di Regalpetra”, di “Morte dell’Inquisitore”, del “Giorno della civetta”, di “A ciascuno il suo” e lo Sciascia di “Todo modo”, del “Contesto”, di “Candido”, de “L’Affaire Moro”, fra lo Sciascia di prima della rottura con il Pci e lo Sciascia di dopo la rottura con il Pci. E infatti Alberto Asor Rosa ha spinto il proprio dissenso e la propria censura fino al punto di pretendere di cancellarne l’intera opera dalla storia della letteratura italiana. E un mediocre sociologo che non merita di essere citato, assurto per meriti giustizialisti agli onori della politica, dopo le polemiche sulla mafia dei primi anni Ottanta ha sentito il bisogno di coinvolgere nella propria polemica e nella propria condanna anche il “primo” Sciascia del “Giorno della civetta” e di “A ciascuno il suo”, inventandosi un eccesso di compiacenza nei confronti dei protagonisti mafiosi dei due romanzi con i quali per primo affrontò il tema, fino ad allora negato o misconosciuto, dell’esistenza della mafia e dei rapporti oscuri fra classi dominanti, potere politico e criminalità mafiosa. Con le sue scelte e prese di posizione politiche, ma soprattutto con i suoi libri, Sciascia ha diviso anche il suo campo. E non solo la sinistra, quella sinistra a cui ha fatto sia pure con grande autonomia e spirito critico a lungo riferimento perché in essa si riconoscevano le famiglie dei “carusi” che avevano frequentato le sue lezioni di maestro elementare a Racalmuto e gli operai delle solfare, la cui vita e le cui sofferenze conosceva da vicino per aver frequentato la solfara gestita da suo padre; divise anche il suo campo culturale, l’intellighentia laica, “liberal”, non inquadrata e non inquadrabile negli apparati, sempre oscillante fra il sostegno ai governi centristi o di centro-sinistra e il sostegno offerto al Pci magari attraverso la cosiddetta “sinistra indipendente”. Sciascia, che non amava la parola “intellettuale” a cui preferì sempre quella di letterato o di uomo di lettere, non fu mai, neppure nel periodo di vicinanza al Pci siciliano, intellettuale “impegnato” e tanto meno “organico”. L’unico impegno che concepì, fu nei confronti delle proprie convinzioni e della propria coscienza. Campbell ricorda che, per questo, ebbe come riferimenti Gide che, da comunista, si impegnò nella condanna di Stalin e dello stalinismo e Bernanos che, da cattolico, combatté il sostegno offerto al generale Franco da parte della chiesa cattolica nella guerra civile spagnola. La prima rottura, a lungo maturata tra il colpo di stato cecoslovacco del 1968 (si pensi alla dedica della “Controversia liparitana” ad Alexander Dubcek, indicato con le iniziali A.D.) fino alla proposta berlingueriana del “compromesso storico”, si manifestò pienamente nei confronti della politica della fermezza e al momento delle trattative per la formazione del governo di unità nazionale del 1976 ed esplose durante il “caso Moro”. A causa di essa Sciascia divenne l’obiettivo di una feroce campagna polemica da parte del Pci e degli intellettuali più vicini al Pci, che lo indusse nel 1979 ad accettare la proposta di Marco Pannella di presiedere le liste radicali nelle elezioni politiche. Durante tutto questo periodo trovò però al suo fianco, oltre ai radicali, anche personalità come Norberto Bobbio, Dario Fo, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Bocca per citare solo alcuni dei nomi più significativi. Questa coincidenza di posizioni e questa vicinanza politica vennero però meno quando Sciascia, che non era un garantista a senso unico, si trovò a sostenere negli anni 80 gli stessi princìpi che aveva sostenuto al momento del confronto con il terrorismo rosso e nero, per contrastare i poteri eccezionali che vennero invocati nella lotta alla mafia. Non intendo attribuire a lui sentimenti miei. Parlerò quindi per me. Questa seconda rottura fu particolarmente dolorosa perché avveniva con personalità della sinistra democratica che ci erano state vicine e ci avevano sostenuto nelle nostre lotte per i diritti civili: Bobbio con i suoi scritti filosofici su socialismo democratico e comunismo aveva influenzato fortemente la nostra formazione, Alessandro Galante Garrone aveva fatto parte con Loris Fortuna della presidenza della Lega Italiana del Divorzio, quando fui arrestato per la disubbidienza civile contro il reato d’aborto uno dei primi telegrammi che mi giunse in carcere recava le firme di Dario Fo e Franca Rame. Le posizioni di Sciascia e dei radicali, condotte in difesa dello Stato di diritto e della legalità democratica in condizioni di minoranza, avevano fatto emergere il persistere all’interno della sinistra democratica, liberalsocialista e azionista e anche all’interno del liberalismo italiano di una componente giacobina che da allora in poi ha fortemente influenzato la politica e la magistratura, imponendo soluzioni che sono state definite “giustizialiste” in contrapposizione al garantismo ma hanno poco a che fare con la giustizia e la legalità, anzi hanno nell’ultimo quarto di secolo largamente contribuito a devastarle. E’ significativo che le aspre polemiche che accompagnarono le due rotture fossero innescate da due falsi, che lungi dall’esprimere il suo pensiero ne rappresentavano al massimo una grossolana estremizzazione. Nel 1977/78 gli fu attribuita una frase – “Né con lo Stato né con le Bierre” – che non aveva mai pronunciata (certo non con le Br, ma – era la legittima domanda – “con quale Stato?”). La seconda rottura fu provocata da un articolo sul Corriere della Sera in cui criticava i criteri improvvisamente modificati per la scelta dei capi delle Procure, che dovevano occuparsi di criminalità mafiosa: gli fu rinfacciata la frase “I professionisti dell’antimafia” che non compariva nel testo del suo articolo ed era invece il titolo scelto dalla redazione del Corriere. In entrambi i casi Leonardo Sciascia, al pari dei Radicali, fu accusato nella migliore delle ipotesi di equidistanza fra lo Stato e le Bierre e fra lo Stato e la mafia ma molti si spinsero oltre fino al punto di ipotizzare una vera e propria contiguità con le prime e con la seconda. Imperdonabili infamie se solo si pensi alla distanza siderale che separava l’illuminista Sciascia e i nonviolenti Radicali dal rozzo e violento stalinismo delle Brigate rosse e al fatto che nei primi anni Sessanta era stato nei suoi romanzi il primo uomo di lettere a occuparsi di mafia e della collusione fra essa e il potere. L’illuminista Sciascia, che si scoprì antigiacobino, semplicemente pensava che contro i tentativi eversivi delle Bierre come contro la criminalità mafiosa lo Stato dovesse combattere in nome del diritto e dei propri princìpi costituzionali senza cedere, a causa dell’emergenza, a leggi e politiche eccezionali. Nessuna emergenza può giustificare la sospensione delle libertà individuali come delle garanzie giuridiche e costituzionali, se non a prezzo di un abbassamento dello Stato allo stesso livello dei criminali che deve combattere. Allo stesso modo, durante e dopo il sequestro dell’onorevole Moro, per la sua polemica contro la politica della fermezza fu iscritto d’ufficio nel “partito della trattativa”. In realtà anche a rileggere oggi le parole di Sciascia appare chiaro come fossero rivolte a sollecitare non un cedimento ma una maggiore iniziativa nelle indagini e nei rapporti mediatici nei confronti delle Br, impedita dalla conclamata fermezza della Stato che si traduceva purtroppo in inerzia e nella attesa immobile, fatalistica della morte di Moro. Sciascia infatti non mancò di manifestare la propria opposizione e di denunciare la contraddizione della Dc quando, qualche tempo dopo, i suoi dirigenti accettarono di trattare per la liberazione dell’assessore regionale Cirillo sequestrato in Campania. E mostrò cosa si dovesse intendere per politica di iniziativa nei confronti delle Br quando contribuì invece con i radicali a creare le condizioni per la liberazione di un altro sequestrato, il giudice D’Urso, che avvenne senza cedimenti, senza concessioni, ma attraverso un’iniziativa politica e mediatica e un confronto polemico condotto sotto gli occhi dell’opinione pubblica grazie ai microfoni di Radio Radicale e ad alcuni giornali e telegiornali che ebbero il coraggio di rompere un assurdo silenzio stampa. Quell’iniziativa, nella quale Sciascia si espose senza riserve, ruppe dunque l’unità corporativa dei giornalisti ma provocò anche una rottura fra i brigatisti in carcere e i terroristi che avevano operato il sequestro, che si rivelò determinante per la salvezza del giudice.

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(…) Sciascia scrisse di sé che avrebbe voluto essere ricordato come un uomo che “contraddisse e che si contraddisse”. (…) Quanto al “si contraddisse” sono invece possibili più letture e diverse spiegazioni. (…) Ad esempio a proposito della mafia. Non c’è uno Sciascia intransigente contro la mafia, che diventa improvvisamente lassista o peggio, come è stato insinuato, connivente nei confronti della mafia. Basta rileggere “Il Giorno della civetta” per rendersi conto che il Capitano Bellodi, nel momento in cui ha difficoltà a inchiodare alle sue responsabilità il capomafia Arena, respinge la tentazione delle scorciatoie e condanna con decisione i metodi del Prefetto Mori, adottati durante il fascismo. Al contrario invoca e in qualche modo prefigura più efficaci metodi di indagine che potrebbero consentirgli di risalire alle disponibilità finanziarie, penetrando nelle maglie del segreto bancario, allora un tabù per il nostro sistema giuridico, e di colpire i clan mafiosi nei loro patrimoni, anticipando così molto tempo prima la strada che sarà seguita da Falcone e Borsellino e che porterà, con successo, a celebrare il maxi processo di Palermo contro la Cupola di Cosa Nostra. Muta dunque l’obiettivo polemico – alle connivenze della Dc e dello Stato si sostituisce l’attacco alle strumentalizzazioni politiche dell’antimafia – ma Sciascia continua a muoversi all’interno della medesima ispirazione e convinzione ideale. E anche se, come ho prima sottolineato, non pronunciò e non scrisse mai la frase “I professionisti dell’antimafia”, coloro che lo avevano attaccato, insultato, indicato al pubblico disprezzo, furono gli stessi che, comportandosi proprio come tali, riuscirono a impedire la nomina da parte del Consiglio superiore della magistratura di Giovanni Falcone a capo della Procura nazionale Antimafia. “Io ho dovuto fare i conti, da trent’anni a questa parte – scrisse poco prima di morire in “A futura memoria” – con coloro che non credevano o non volevano credere nell’esistenza della mafia e ora con coloro che non vedono altro che mafia. Di volta in volta sono stato accusato di diffamare la Sicilia o di difenderla troppo; i fisici mi hanno accusato di vilipendere la scienza, i comunisti di aver scherzato su Stalin, i clericali di essere un senza Dio; e così via. Non sono infallibile ma credo di aver detto qualche inoppugnabile verità”. C’è tuttavia per quel “si contraddisse”, io penso, una spiegazione più plausibile e una più intima ragione. “Scrivo su di me, per me e talvolta contro di me – disse a Marcelle Padovani nel libro-intervista La Sicilia come metafora – Prendiamo, ad esempio, la realtà siciliana nella quale vivo: un buon numero dei suoi componenti io li disapprovo e li condanno, ma li vedo ‘con dolore’ e ‘dal di dentro’: il mio ‘essere siciliano’ soffre indicibilmente del gioco al massacro che perseguo. Quando denuncio la mafia, nello stesso tempo soffro poiché in me, come in ogni siciliano, continuano ad essere presenti e vitali i residui del sentire mafioso. Così, lottando contro la mafia, io lotto anche contro me stesso, è come una scissione, una lacerazione. Lo stesso avviene per quanto riguarda la donna siciliana: nel mio modo di descriverla e di condannarla c’è anche una condanna di me stesso. Soffro di dover raccontare della donna di Sicilia nel suo ruolo storico, vale a dire come elemento negativo dell’evoluzione della società insulare, nella sua funzione matriarcale, schiacciante e conservatrice, quale ha pesato sui nostri nonni e padri e quale può pesare ancora oggigiorno. Ma nel momento stesso in cui la giudico, io mi sento responsabile della sua condizione, responsabile atavicamente”. (…) Questo non scalfisce in nulla il suo essere, anche, scrittore illuminista. Ho sempre pensato che la qualità e grandezza di Sciascia sia proprio in questa intima e vitale contraddizione tra l’adesione alla sua terra e alla cultura della sua terra e il suo costante, eretico contrapporvisi in nome di pochi, essenziali valori: la laicità, la democrazia, la tolleranza, una profonda religiosità, la giustizia, il rispetto della dignità umana, la verità. (…)

Alberto Moravia: «L’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza». Un estratto della lettera uscita nella raccolta (Bompiani) "Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto", che nel 1927 lo scrittore mandò al filosofo Andrea Caffi sulla figura dell’intellettuale e il valore dell’esperienza, scrive “L’Espresso” il 4 febbraio 2016. Il filosofo Andrea Caffi, sodale di Chiaromonte, antifascista - «un uomo di valore, erudito e fantasioso», come lo definì lo stesso Moravia - stimola la riflessione dello scrittore, impegnato nella stesura de Gli indifferenti. Caffi vent’anni più grande è un esempio, per Moravia, e sarà non a caso uno dei pochi a leggere in anteprima l’ultima opera. Della figura dell’intellettuale, del valore dell’esperienza, scrive Moravia in questa lettera (qui in estratto) del 1927, pubblicata da Bompiani nella raccolta Se è questa la giovinezza vorrei che passasse presto – Lettere 1926-1940, da poco in libreria e presentata (venerdì 5 febbraio, a Roma al teatro Argentina) da Dacia Maraini. «Sono sull’orlo di una disperazione ormai troppo abituale», scrive Moravia, raccontando «la aridità e la mediocrità della vita di Roma». Lo spaventano «l’intellettualismo e gli intellettuali». «Finora in Italia (l’Italia moderna)», scrive, «non ci sono stati che intellettuali separati dalla vita e dalla sofferenza che essa implica». «Anche i miei desideri sono non dico attenuati ma come anestetizzati da qualche sconosciuto cloroformio», continua, salvo poi interrompere così l’analisi: «Lei», scrive a Caffi, «mi ha fatto parlare di me stesso, l’unica cosa che non dovrei fare - ma ad ogni modo mi lasci dire che l’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza».

Solda, 1 agosto 1927. Mio caro Caffi (...)Quello che Lei dice su me e sul mio avvenire è molto lusinghiero e certo non potrebbe esser più giusto quel che Lei dice sulla maggiore importanza della vita invece che del lavoro – le sue parole vengono a confermare un concetto che fino a poco tempo fa avevo idolatrizzato e che ora, forse per la aridità e la mediocrità della vita di Roma cominciava a vacillare – del resto per dimostrarLe quanto l’idea della vita e della sua vastità mi sia accetta le dirò che poco tempo fa avevo deciso di abbandonare dopo la pubblicazione del mio romanzo la letteratura e di dedicarmi a qualche occupazione meno artistica – quello soprattutto che mi spaventava era l’intellettualismo e gli intellettuali – finora in Italia (l’Italia moderna) non ci sono stati che intellettuali separati dalla vita e dalla sofferenza che essa implica – questo è un grande pericolo: la mia più grande ambizione è non di essere un uomo qualunque ma forse un uomo che nonostante la sua possibile intelligenza non frammetta tra sé e le cose la lente dell’intellettualismo – Come vivere io ancora non so – e certo, finché non avrò qualche scopo più alto che me stesso, quei sacrifici e quelle rinunce di cui Lei mi parla non serviranno a nulla altro se non a far del posto per altre verità – e debbo anche dirle che fino a poco tempo fa il mio più alto ideale umano era l’uomo forte sanguigno e consapevole di Shakespeare o se vogliamo di Balzac – l’uomo completo con tutti i vizi e tutte le virtù – tutto il mio sistema di vita era appoggiato su questo ideale per questo ideale ho fatto diverse e non tutte pure esperienze e perciò quel che a Lei forse era sembrato generosità, non era qualche volta che consapevole e mal intenzionato esperimento – e debbo anche dire che in me c’è ancora una buona dose di irritazione, il resto di una rabbia durata 19 anni – e poi ci sono tante altre cose, le più non belle – anzi posso dire che l’unica cosa che ho di buono è la consapevolezza di questi miei detti difetti – ho visto spesso parecchie persone burlarsi o biasimare senza parerlo le mie vanità e io lo sapevo e le esageravo. Ad ogni modo per ora la questione è di vivere cioè di fare esperienze: certo ora non penso più come due anni fa che l’esperienza sia tutto – ma ne riconosco il valore materiale e documentario... e poi tutte queste sono parole – io ho davanti a me tutte le questioni più dure di conoscenza umana e di elevazione morale e dietro di me solamente qualche piccola vittoria sul tempo e qualche piccolo esperimento – soltanto ecco, tutto è chiaro avanzo e non mi riesce di vedere altra via che quella seguita da tutte le ambizioni – la più grande precarietà è in ogni mia azione – vivo alla giornata e una volta alla settimana almeno sono sull’orlo di una disperazione ormai troppo abituale – anche i miei desideri sono non dico attenuati ma come anestetizzati da qualche sconosciuto cloroformio – è terribile non avere alcun appetito, non esser feroce – sentirsi avvolti da una mediocre ovatta – e certo nulla è più ripugnante che certe mie debolezze femminili direi quasi masochiste. Lei mi ha fatto parlare di me stesso, l’unica cosa che non dovrei fare – ma ad ogni modo mi lasci dire che l’egocentrismo è nulla in confronto dell’indifferenza – e se certi sacrifici non fossero sacrifici ma solamente agevoli distacchi? Lei mi dica delle sue condizioni e di quel che conta di fare – e poi dica anche che cosa intende per “singolarità addirittura brutali” che io svilupperei se non rinunciassi alla vanità terrene – e questo sia detto senza alcuna ironia. Arrivederci per oggi. Una stretta affettuosa di mano. Alberto Pincherle. Copyright Bompiani 2015 

Le persone di sinistra sono più intelligenti? Si Chiede su “La mente è Meravigliosa”. “Tutti i giorni la gente si sistema i capelli, perché non il cuore?” Vi sembra una frase intelligente? Queste parole sono state formulate dalla mente di Ernesto Che Guevara, il famoso rivoluzionario. Ci sono molte altre citazioni epiche di questo mito che sono sopravvissute fino ai giorni d’oggi. Ciò ha forse a che vedere con la sua ideologia di sinistra? Uno studio della Brock University sostiene di sì. Lo studio della Brock University nell’Ontario, Canada. Secondo i risultati ottenuti dai ricercatori della Brock University, nell’Ontario, Canada, coloro che sono meno intelligenti già durante l’infanzia sviluppano un’ideologia di destra e tendenze razziste e omofobe, rispetto alle ideologie di sinistra, che sono più aperte e comprensive. Per giungere a questa conclusione, i ricercatori si sono basati su studi condotti negli anni 1958 e 1970 nel Regno Unito. Questi studi analizzarono il livello d’intelligenza di migliaia di bambini tra i 10 e gli 11 anni, che poi risposero a domande di politica una volta raggiunta l’età di Cristo, 33 anni. Tra le domande poste ai bambini ormai adulti, c’erano questioni riguardo i pregiudizi di vivere affianco a vicini di una razza diversa o sulle preoccupazioni che sorgono quando bisogna lavorare con qualcun altro. Altre domande alle quali dovettero rispondere i soggetti riguardavano l’ideologia politica conservatrice, come rendere più severe le pene dei criminali o mostrare ai bambini la necessità di ubbidire all’autorità. Le persone di sinistra sono davvero più intelligenti? Alcune delle conclusioni a cui sono giunti i ricercatori della Brock University sostengono che i politici conservatori facilitano la nascita di pregiudizi. Basandosi sui risultati delle ricerche inglesi, i ricercatori sostengono che le persone meno intelligenti si localizzano nello spettro della destra politica, perché qui si sentono più sicuri. Secondo i creatori di questo studio, è l’intelligenza innata a determinare il livello di razzismo di una persona, molto più dell’educazione e dell’istruzione. Nemmeno lo status sociale ha un ruolo importante a proposito. Semplicemente affermano che l’ideologia conservatrice è la via giusta per trasformare bambini che hanno difficoltà a ragionare in persone razziste. Le capacità cognitive sono fondamentali per avere una mente aperta. Ciò significa che coloro che hanno capacità cognitive ridotte o molto ridotte tendono ad adottare ideologie conservatrici per la sensazione di ordine che implicano. Questa è un’altra delle conclusioni dello studio. Intelligenza innata. Secondo le ricerche condotte dalla Brock University, tutto ciò significa che l’intelligenza innata ha un ruolo determinante nell’ideologia ultima adottata da un individuo. Questo significa che essere di destra è sinonimo di stupidità? Assolutamente no. Oggigiorno, in tutto il mondo le ideologie politiche sono un po’ ingarbugliate. Niente è più ciò che sembra. Possiamo definire un regime comunista come quello imposto in Corea del Nord di sinistra? Qui, i cittadini si sono abituati a vivere sotto gli ordini di un dittatore che si definisce d’ideologia progressista, ma che manipola i destini di milioni di persone con un pugno di ferro. Esistono altri esempi di paesi in cui si è tentato di stabilire un regime di sinistra e comunista, ma senza successo. Russia o Cuba, per esempio, hanno sofferto terribili repressioni popolari durante la fase della dittatura del proletariato, che alla fine si è trasformata nel mandato di un singolo leader come Stalin o Castro, con accesso limitato alla libertà o al pensiero. Ciò significa che, tra i partiti della sinistra mondiale, c’è gente camuffata che in realtà è di destra? È possibile che nell’ideologia progressista si siano infilate persone poco intelligenti che in realtà sono conservatori? Non esiste una risposta chiara a questo tipo di domande, poiché le ideologie hanno sempre meno peso in un mondo mosso meramente da interessi economici e dei partiti. In realtà, ciò che importa è avere una mente aperta e curiosa. Imparate da tutti coloro che hanno qualcosa da apportarvi nella vita. Se non avete un’intelligenza innata che apra la vostra mente, almeno stimolate la vostra intelligenza emotiva. Siate sensibili a qualsiasi tipo di tendenze e modi di essere e adottate una vita piena e felice. Come diceva Ernesto Che Guevara, se siete in grado di avere capelli splendenti, siete anche capaci di avere un cuore nobile e buono.

Quell'ossessione dello Stato di regolare la nostra vita. In Italia, sul cibo, c'è la stessa ossessione regolamentatrice dell'Unione Sovietica, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". L'idea che si possano, anzi, si debbano, regolamentare i comportamenti sociali, non lasciando il minimo spazio allo spontaneismo individuale e collettivo è l'ossessione di ogni politica. Particolarmente affetto ne è quel filone della politica, eredità del razionalismo settecentesco, che si è storicamente incarnato nella sinistra dopo la Rivoluzione bolscevica e la nascita dell'Unione Sovietica. Ho ritrovato, e osservato, tale ossessione in due Paesi che hanno interpretato la politica da versanti opposti, pervenendo a risultati profondamente diversi. In Unione Sovietica non c'era ambito della società civile che la politica non volesse regolamentare e non regolamentasse. Il risultato era stata l'estrema esasperazione del sistema politico totalitario che aveva soffocato l'intera società civile russa, mentre, di converso, lo spontaneismo sociale promuoveva quella cinese, empirica e sperimentale. In Cina, la convinzione che solo lasciando alla società civile ampi ambiti di autonomia, soprattutto economica, il Paese sarebbe uscito dal dirigismo maoista e decollato verso la modernità e la crescita, ha dato i suoi frutti; oggi, la Repubblica popolare cinese è uno dei Paesi al mondo esemplari di più felice combinazione fra spontaneismo sociale e sviluppo economico, modernizzazione, crescita economica e sociale. Ricordo che, quand'ero in Cina, avevo osservato, e apprezzato lo spirito di iniziativa di certi cinesi, maschi e femmine, che avevano affrontato l'avventura liberista, godendo e approfittando della libertà che la politica lasciava loro di intraprendere e commerciare. Ho ritrovato la stessa ossessione regolamentatrice sovietica, da noi, in Italia, da parte soprattutto di quel filone politico, terreno di sperimentazione, da parte del Partito comunista, che aveva guardato all'Urss come ad un modello da imitare, e, entro certi limiti, da parte della cultura politica e sociale di matrice religiosa, non meno autoritaria di quella comunista. È stata la grande illusione razionalistica prodotta e diffusa dalla Rivoluzione francese con la pretesa di creare, e far crescere, la «società perfetta», dove nulla era lasciato al caso e tutto dipendeva dalla previsione e dalla programmazione politica. Non credo di sbagliarmi dicendo che l'Italia è il Paese al mondo col maggior numero di permessi, licenze, e divieti e anche quello dove queste forme di razionalismo condizionano la società civile e le impediscono di sviluppare autonomamente le proprie potenzialità. Il guaio è che l'ossessione regolamentatrice fa crescere la domanda di regolamentazione, e, quindi, di politica e di burocrazia ogni volta che si rivela inadeguata ad assolvere le funzioni che le sono impropriamente assegnate...Personalmente, sono cresciuto culturalmente all'ombra dell'empirismo anglosassone generatore dell'Illuminismo scozzese che si è distinto dal razionalismo francese proprio grazie al suo scetticismo rispetto alle virtù salvifiche della regolamentazione e della conseguente previsione-programmazione razionalistica. Sono liberale grazie anche a questa formazione culturale della quale sono debitore ad uno dei miei maestri all'Università di Torino di formazione anglosassone e col quale mi sono laureato, Alessandro Passerin d'Entreves, e ho imparato da Norberto Bobbio, l'altro mio grande maestro, a leggere i classici della cultura politica moderna, evitando, allo stesso tempo, di diventare prigioniero del positivismo politico, non meno di quello giuridico, cui era afflitto Bobbio, lui sì convinto erede del razionalismo francese. Grazie a Bobbio, ho letto David Hume e sono entrato in familiarità con l'empirismo anglosassone e l'Illuminismo scozzese. Detesto ogni pretesa previsionale e programmatrice proprio a ragione della loro scarsissima prevedibilità e capacità di programmazione razionale, e coltivo, con l'empirismo, un sano scetticismo sulle capacità razionali dell'uomo. Per intenderci: non vado in giro con la Dea Ragione sulle spalle come amano fare i razionalisti di tutte le tendenze e, in particolare, quelli di formazione transalpina. Ho imparato che il mondo è popolato da individui, ciascuno dei quali persegue i propri fini, con i propri mezzi, che coincidono solo inconsapevolmente con quelli degli altri - attraverso quell'empatia della quale parla Adam Smith nella Teoria dei sentimenti morali - in modo spontaneo ricercando il proprio Utile senza attenersi a calcoli previsionali e programmatici altrui... Se c'è qualcosa - diciamo pure molto! - che non va nella politica italiana è la convinzione si possano regolamentare i comportamenti sociali attraverso permessi, licenze, divieti che, poi, si rivelano l'ostacolo a quello spontaneismo che sta a fondamento della dottrina liberale e della nostra civilizzazione. Mi auguro, come ho scritto recentemente, che Berlusconi faccia iniezioni di empirismo e di liberalismo nella propria cultura politica e in quella di Forza Italia. Ce n'è effettivamente bisogno...

Mille euro al minuto a un comunista. L'ex ministro greco Varoufakis ospite da Fazio per 24mila euro. Il canone serve a questo? Si chiede Alessandro Sallusti su "Il Giornale" del 29/10/2015. Mille euro al minuto. È quanto la Rai ha pagato Yanis Varoufakis, ex ministro delle Finanze greco, per sparare pirlate a «Che tempo che fa», il salotto televisivo personale di Fabio Fazio. Ventidue minuti, andati in onda il 27 settembre, che urlano vendetta. Non è la cifra in sé, 24mila euro appunto, più viaggio aereo pagato in prima classe, ma lo sperpero di denaro pubblico. Con in più la beffa che a staccare l'assegno è stato il più moralista dei conduttori tv a favore del più comunista dei politici europei, quello che aveva fatto accorrere ad Atene a osannarlo una nutrita pattuglia della sinistra italiana a inneggiare agli eroi di Tsipras. Lungi da noi cadere nel facile moralismo. Se uno ha mercato è giusto che incassi il dovuto. Non ci formalizziamo. È che non capiamo che mercato possa avere mister Varoufakis, economista messo al bando sia dall'Europa sia dal suo Paese. Lo hanno cacciato e a quanto risulta, nel suo girovagare per tv e salotti di mezzo mondo, noi italiani siamo stati gli unici a pagare per godere del suo verbo. Il che stride con il pianto, anche quello greco, di chi ci governa e lamenta mancanza di liquidità. Si tolgono soldi ai pensionati e poi, via Rai, si sprecano euro con i comunisti chic. Si sfora il debito e il premier si compra un nuovo lussuoso aereo. Si spendono 3 miliardi per l'emergenza immigrati e non c'è un soldo in più per i terremotati dell'Emilia e gli alluvionati della Campania. Se è così che Renzi e i neo-nominati vertici della Rai pensano di usare i soldi di quella nuova tassa occulta che è il canone in bolletta Enel, allora siamo alla truffa. Sanno gli italiani che la Rai spende due dei loro milioni ogni anno per pagare Fabio Fazio? E sanno che Luciana Littizzetto, spalla del conduttore buonista, è ricompensata con ventimila euro a puntata? Credo che a molti verrebbe voglia di farsi staccare la luce da Renzi, piuttosto che vedere buttati così i propri risparmi. Che tanto, per sapere «Che tempo che fa» basta leggere le previsioni o guardare fuori dalla finestra.

Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia: Caro Dago, le consuete diatribe su quanto o quantissimo vengono pagate le star televisive sono davvero male impostate. Ci sono personaggi della televisione che marchiano a fuoco il programma da loro condotto. Lo faceva Michele Santoro, bravissimo nel suo genere (che non è il mio); lo fa Barbara D’Urso, irresistibile nei confronti del suo pubblico meridiano (i cui gusti sono distantissimi dai miei); lo fa Massimo Giletti, da anni ostinatissimo nel sorreggere lo “share” della domenica pomeriggio di Rai1. Se qualcuno obiettasse sui compensi di personaggi siffatti, io direi che non sanno di che cosa stanno parlando. Se una trasmissione di quelle che ho nominato fa o faceva due punti percentuali di ascolto in più, erano soldoni che venivano dalla pubblicità e che compensavano alla grande i cachet. La televisione funziona così, e quella pubblica e quella privata. Se paghi lautamente un ospite che ti fa scena e “ascolto” sono soldi spesi benissimo, e sta a zero l’invidia (inevitabile) di gente e scribacchini. Il caso Varoufakis è profondamente diverso. E’ figlio di una di una dinamica completamente diversa. Tanto è vero che solo alla Rai e in una televisione giapponese, il noto motociclista è stato trattato talmente con i guanti: e tanto più se stiamo parlando della Rai, di un’azienda in un cui un comune mortale tratta alla morte se avere trenta euro in più o in meno per una prestazione professionale. I 24mila euro netti (e dunque 50mila lordi) pagati all’ex ministro greco hanno tutt’altra logica. Nascono dalla necessità spasmodica di buona parte del palinsesto di Rai3 di “offrire” qualcosa di sinistra al suo pubblico che ne arde. Che di meglio di uno che da ministro greco faceva l’orgogliosissimo nel momento in cui il suo governo e il suo Paese chiedevano all’Europa i soldi di che sopravvivere sino al giorno dopo in ragione dell’Himalaya di debiti che avevano accumulato. Voi ricordate i commenti di tanti al risultato grottesco del referendum greco, all’annuncio che i greci non ne volevano sapere di pagare i loro debiti. Dio che orgogliosi, commentarono subito alcuni quaquaraquà del pronto intervento ideologico. E chi meglio del motociclista, che è poi un gran rivale di Fabrizio Corona quanto a turgore maschile, poteva rappresentare quell’orgoglio in una delle case madri della superiorità razziale della sinistra, ossia la trasmissione garbatamente condotta su Rai3 da Fabio Fazio? L’ho visto quando Varoufakis si è presentato e seduto. Da soli quella posa e quell’atteggiamento valevano i 24mila euro. Dio che cipiglio, Dio che turgore. Fuffa ideologica, la migliore di tutte. Non ha prezzo perché è una merce che ha un pubblico imponente, non meno grande di quello di Barbara D’Urso. Cappello. Che poi la Luciana Litizzetto abbia in quella trasmissione un cachet di 20mila euro a botta, davvero non so giudicare. Io non ho mai riso una volta nella mia vita alle sue battute. La mia compagna Michela sì, quasi sempre. Non so, davvero non so.

Pansa intervista Pansa su “Libero Quotidiano”: "Devo tutto alla guerra".

Caro Giampaolo, come ti senti adesso che hai compiuto gli ottant' anni?

«Tutto sommato, mi sento bene, a parte qualche acciacco inevitabile alla mia età. Ma il resto funziona e non posso che ringraziare il Padreterno. La testa è ancora lucida e la voglia di scrivere tanta. Devo confessare che il piacere di scrivere, invece di diminuire, con l'età è cresciuto. La mattina mi alzo presto e una delle prime cose che faccio è accendere il computer. Poi mi dedico a un articolo, al capitolo di un mio nuovo libro, a una lettera da inviare a un amico. Impegnarmi ogni giorno in questo esercizio mi gratifica molto. E mi ricorda che sono sempre stato un uomo fortunato».

In che cosa consiste la tua fortuna?

«Prima di tutto, nella data di nascita. Sono un ex ragazzo del 1935. L' essere venuto al mondo in quell' anno mi ha regalato molte opportunità. La prima è stata di vedere con i miei occhi il disastro di una guerra mondiale. È iniziata nel 1940 quando avevo cinque anni ed è finita nel 1945 quando mi avviavo a compierne dieci. Quello che ho visto, sia pure con lo sguardo di un bambino, mi ha insegnato che non bisogna mai lamentarsi di quanto ci accade, perché il peggio può sempre arrivare».

Il tuo ricordo più orribile del tempo di guerra?

«I bombardamenti aerei. Casale Monferrato, la mia città, non era un obiettivo strategico, ma aveva due ponti sul Po, uno pedonale e l'altro ferroviario, abbastanza vicini al centro. A partire dall' estate del 1944, gli apparecchi angloamericani tentarono di distruggerli come avevano iniziato a fare con tutti i ponti della Pianura padana. Nella convinzione che, dopo la liberazione di Roma, la guerra stesse per finire e dunque fosse necessario ostacolare la ritirata dei tedeschi. Il ponte pedonale lo colpirono subito, quello ferroviario mai. Per questo i bombardieri alleati ritornavano di continuo all' assalto».

E allora?

«Allora ho nella memoria lo schianto delle bombe. Un rumore da film degli alieni, che si insinuava dentro di te, si impadroniva del tuo corpo e ti faceva temere di morire. Invece l'andare nei rifugi antiaerei durante la notte, per me era divertente. Può sembrare una bestemmia, lo so. Ma da ragazzino precoce mi sentivo attratto dalle donne sempre un po' discinte. Se qualcuno mi chiedesse quando ho cominciato a osservare l'altro sesso, risponderei: nel grande rifugio della marchesa della Valle di Pomaro, situato a cento metri dal nostro appartamento, un palcoscenico straordinario di varia umanità».

Ma non avevi paura?

«Dopo il primo bombardamento sì, ho provato il terrore di essere ucciso. Poi mi sono abituato. Tanti anni dopo, nel leggere quel che era accaduto in Gran Bretagna, ho compreso che l'Italia, soprattutto nelle piccole città, era stata una specie di paradiso. Gli abitanti di Londra e di altri centri inglesi, come Coventry avevano vissuto l'inferno dei continui bombardamenti tedeschi. Gli inglesi stavano assai peggio di noi. Hanno sofferto la fame, da loro il tesseramento è rimasto in vigore sino agli anni Cinquanta. Noi ce la siamo cavata molto meglio».

Che cosa dicevano i tuoi genitori della guerra?

«La consideravano un castigo di Dio e speravano che finisse presto. Ma non hanno mai lasciato trasparire le loro paure con me e a mia sorella Marisa. Mio padre Ernesto, classe 1898, da giovanissimo si era sciroppato gran parte della Prima guerra mondiale, nel Genio radiotelegrafisti della III Armata, quella del Duca d' Aosta. E aveva visto gli orrori di quel conflitto. Gli inutili assalti alla baionetta, i cadaveri straziati dalle cannonate, i tanti feriti, i mutilati, i soldati con la malaria e il colera abbandonati in lazzaretti di fortuna. Era un uomo buono e pessimista, rimasto orfano di padre da bambino, insieme a cinque tra fratelli e sorelle. Mia madre Giovanna, invece, era una donna ottimista. Aveva un negozio di mode in centro, guadagnava tre volte lo stipendio di papà, operaio guardafili delle Poste. Insieme mi hanno insegnato come si deve stare al mondo».

Quando hai scoperto che ti piaceva scrivere?

«Alla conclusione della terza media. Eravamo nell' estate del 1947 e avevo dodici anni e mezzo, poiché nelle elementari avevo fatto insieme la quarta e la quinta. Come premio per un'ottima pagella, papà mi regalò una macchina per scrivere di seconda mano: una Underwood del 1914, fabbricata in America. Ho imparato subito a usarla e mi sono accorto di avere una vocazione: quella di diventare un giornalista. Cominciai presto a collaborare al settimanale della mia città, Il Monferrato. Non mi pagavano, però mi lasciavano fare. Quando sono andato all' università di Torino, a Scienze politiche, ho dedicato tutto il mio tempo alla tesi di laurea. L'argomento era la guerra partigiana tra Genova e il Po. L' avevo iniziata per partecipare a un concorso indetto dalla Provincia di Alessandria. Divenne un malloppo pazzesco, di ottocento pagine».

E che cosa accadde?

«Mi laureai con il massimo dei voti e la dignità di stampa. Era il luglio del 1959 e avevo 23 anni e nove mesi. Nel novembre del 1960 la mia tesi vinse il Premio Einaudi che mi fu consegnato dall' ex capo dello Stato, Luigi Einaudi, nella sua villa di Dogliani, con una cerimonia solenne. Quel premio convinse il direttore della Stampa, Giulio De Benedetti, a convocarmi per capire che tipo ero. Il nostro incontro durò meno di un quarto d' ora. E lui mi assunse, come in seguito fece con altri giovani laureati. Voleva svecchiare la redazione, così mi venne detto».

Un altro colpo di fortuna…

«Sì. Ma anche il risultato di una serie di circostanze che non riguardavano soltanto me. Quando iniziai a lavorare alla Stampa era il gennaio 1961. L' Italia era appena uscita del suo primo boom economico. I grandi quotidiani andavano a gonfie vele. A insidiarli non esisteva la televisione e meno che mai il maledetto web. Vendevano molte copie, raccoglievano tanta pubblicità, avevano la cassa piena di soldi».

Condizioni oggi irripetibili...

«Non c' è dubbio. Gli stipendi erano più che buoni, compresi quelli dei redattori alle prime armi. In compenso bisognava lavorare, o ruscare come diciamo noi piemontesi. Dieci ore di presenza dalle due del pomeriggio a mezzanotte. Nessuna settimana corta. Un rigore assoluto, garantito dai capi servizio, a loro volta onnipotenti. De Benedetti era un dittatore indiscusso. Quando entrava nella grande sala della redazione, tutti ci alzavamo in piedi. Soltanto quando Gidibì ringhiava: "Signori, seduti!", il lavoro riprendeva».

Fammi un esempio del rigore della «Stampa»…

«Eccone uno. Lavoravo da parecchio al notiziario italiano, quando Carlo Casalegno, il giornalista assassinato nel 1977 dalle Brigate rosse, mi chiese una recensione per la terza pagina, quella culturale. Riguardava un libro appena uscito in Italia: Il giorno più lungo di Cornelius Ryan, sullo sbarco alleato in Normandia nel giugno del 1944. La scrissi e la riscrissi con il cuore in gola. La consegnai al direttore e Gidibì la tenne nel cassetto per una settimana. Poi mi convocò e ruggì: "Questa non è una recensione, ma una cattiva cronaca dello sbarco in Normandia". Quindi iniziò a stracciarla in pezzi sempre più piccoli. E li fece nevicare sotto gli occhi».

Poi hai lasciato la «Stampa». Come mai?

«È un altro esempio della fortuna che assisteva un ragazzo del 1935. Negli anni Sessanta, un direttore che apprezzava il tuo lavoro aveva il potere assumerti da un giorno all' altro. Una circostanza irreale se guardiamo ai giorni nostri. Italo Pietra, allora direttore del Giorno, nel 1964 mi offrì un contratto da inviato speciale. Mi chiese: "Dove vuoi essere mandato in servizio: a Voghera o nel Golfo del Tonchino dove sta per cominciare una guerra che si estenderà al Vietnam?". Da monferrino sveglio risposi: "A Voghera, direttore". Pietra sorrise: "Risposta esatta. Ti assumo. Ecco il contratto da firmare. Se dicevi il Tonchino, non ti avrei mai assunto"…».

Quanto sei rimasto al «Giorno»?

«Sino alla fine del 1968. Poi Alberto Ronchey, il successore di Gidibì, mi rivolle alla Stampa, sempre come inviato. La mia base era Milano, una metropoli sconvolta dalla violenza e dagli attentati. Cortei militanti a tutto spiano, l'omicidio dell'agente di polizia Annarumma, la strage di Piazza Fontana, la fine oscura dell'anarchico Pinelli, l'arresto di Valpreda, i primi segni di vita delle Brigate rosse. Ho imparato a conoscere l'Italia, un paese ingovernabile, travolto dall' estremismo politico».

Se non sbaglio, nel 1973 sei passato al «Messaggero» dei Perrone…

«Sì, a fare il redattore capo, un mestiere che non era il mio. Ma la fortuna continuò ad assistermi. Piero Ottone mi volle al Corriere della sera. Ci rimasi sino al 1977, poi Eugenio Scalfari mi assunse a Repubblica, nata l’anno precedente. Rimasi con Barbapapà un'infinità di tempo. Quindi andai all' Espresso con Claudio Rinaldi, ero il suo condirettore. Nel 2008 lasciai il gruppone di Scalfari e mi arruolai nel Riformista di Antonio Polito. Di lì sono passato a Libero, dove sto con grande soddisfazione mia e, spero, del direttore Maurizio Belpietro e dell'editore Giampaolo Angelucci».

In tanti anni di professione, immagino che tu sia stato costretto ad affrontare non poche delle emergenze che hanno tormentato l'Italia. Quale di loro ricordi?

«Almeno tre. La prima è il terrorismo, soprattutto quello delle Brigate Rosse. Oggi non ce ne ricordiamo più, ma è stata una seconda guerra civile durata quasi un ventennio. Con un'infinità di morti ammazzati, centinaia di feriti, allora si diceva gambizzati, e un delitto che ricordo come fosse avvenuto ieri: il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro. Tuttavia l'aspetto peggiore, e infame, di quel mattatoio fu il comportamento di una parte importante della borghesia di sinistra. Eccellenze della cultura, dell'università, del giornalismo, delle professioni liberali. E della politica comunista e socialista. Per anni negarono l'esistenza del terrorismo rosso. Sostenevano che si trattava di fascisti travestiti da proletari. Soltanto qualcuno ha fatto ammenda di quella farsa tragica. Ma pochi, per non dire pochissimi. Molti pontificano ancora e si considerano la crema dell'Italia».

E la seconda emergenza?

«È la corruzione, un cancro che intacca, con una forza sempre più perfida, partiti, aziende, pubblica amministrazione. È un virus che si estende anno dopo anno. Ha avuto un picco al tempo di Mani Pulite o di Tangentopoli. Era il 1992 e allora sembrò che le indagini del pool giudiziario di Milano avessero la meglio. Invece era soltanto una pausa breve. Infatti tutto è ricominciato alla grande. Devo dire la verità? L' Italia è una repubblica fondata sulla mazzetta. Non può consolarci il fatto che tante nazioni siano uguali a noi».

La terza emergenza?

«È il discredito sempre più devastante che ha mandato al tappeto il sistema politico italiano. Per anni ho seguito da vicino e ho raccontato la crisi dei nostri partiti. Li ho visti ammalarsi, peggiorare, arrivare vicini all' estinzione. Adesso mi sembrano malati terminali. Molte parrocchie politiche sono già morte. E altre moriranno. Alla fine resteranno in piedi soltanto pochi personaggi, i più scaltri, i più demagoghi. È facile prevedere che saranno loro a comandare in Italia».

Stai pensando a Matteo Renzi, il nostro presidente del Consiglio?

«Certo, penso al Fiorentino, ma non soltanto a lui. Renzi oggi comanda e temo che continuerà a comandare per parecchio tempo. Avremmo bisogno di un nuovo De Gasperi, ma l'Italia del 2015 è messa peggio di quella del 1948. Allora eravamo un paese senza pace, alle prese con tutti i guai del dopoguerra. Ma avevamo fiducia in noi stessi, voglia di rinascere, capacità di sacrificio, entusiasmo politico, anche faziosità all' ennesima potenza. Oggi siamo una nazione di morti che camminano, non parlano, non si occupano di quello che un tempo veniva chiamato il bene pubblico. Prevale la paura di diventare sempre più poveri».

Come vedi il futuro dell'Italia?

«Buio e tempestoso. Adesso qualche gregario di Renzi dirà che sono un vecchio gufo menagramo, ma è proprio il personaggio del Fiorentino a indurmi al pessimismo. Non è un leader politico poiché non ha la statura intellettuale e umana per esserlo. È soltanto l'utilizzatore finale di una crisi antica della Casta dei partiti, cominciata molti anni fa. Renzi sta dominando su uno scenario di macerie. A lui interessa soltanto il potere. Non è un generoso come sanno esserlo i veri numero uno. È un piccolo demagogo, egoista, vendicativo, che si è circondato di una squadra di yes man incompetenti, pronti a obbedirgli e a seguirlo fino a quando resterà in sella. Nessuno lo scalzerà dalla poltrona e lui seguiterà a vincere per abbandono di tutte le controparti».

Nemmeno il centrodestra riuscirà a scalzare Renzi?

«Ma non raccontiamoci delle favole! Il centrodestra mi ricorda l'ospizio dei poveri della mia città. Sono convinti, o fingono di esserlo, che soltanto loro abbatteranno il Fiorentino. Ma è un pio desiderio, nient' altro. In realtà tutti i capetti di una volta si combattono per spartirsi il poco che è rimasto dell'impero di Silvio Berlusconi. Giocano con il pallottoliere e, sommando una serie di piccoli numeri, si illudono di sconfiggere Renzi. Il loro futuro è persino più nero di quello italiano. Ce lo conferma la crisi drammatica del Cavaliere. Ha un anno meno di me e nel 2016 taglierà il traguardo degli ottanta. Gli auguro di conservare la villa di Arcore e di non sentire che un giorno, all' alba, bussa alla sua porta qualche scherano di Renzi con un'ordinanza di sfratto».

Sei certo che gli oppositori attuali di Renzi non siano in grado di fermarlo?

«Forse potrebbe farcela un'alleanza che oggi sembra una chimera. Quella fra Grillo, Salvini, la Meloni e quanto resta di Forza Italia. Ma nel caso molto improbabile che questo asse prenda forma, chi può esserne il leader? Viviamo in un'epoca che considera la figura del capo un fattore indispensabile per contendere il potere politico, con la speranza di conquistarlo. Però dove sta il nuovo leader del centrodestra? Io non lo vedo».

E del centrosinistra che cosa mi dice?

«Che sta peggio del centrodestra. Quando esisteva ancora la Democrazia cristiana, un anziano deputato doroteo di Caltanissetta mi disse: "Il mio partito ricorda la masseria dello curatolo Cicco: il primo che si alza, pretende di comandare". Non rimpiango di certo la scomparsa del Pci, ma la sua fine ha lasciato un vuoto enorme. Si sta realizzando una profezia del vecchio Pietro Nenni: rischiamo di diventare una democrazia senza popolo. È quello che accade in Italia, pensiamo al grande numero di elettori che non vanno più alle urne».

Nella prima e nella seconda Repubblica tu hai votato sempre a sinistra, se non sbaglio…

«Sì, ho votato per il Pci, per il Psi e per i radicali. Poi non sono più andato a votare, da quando ho scoperto la vera natura della sinistra italiana. Me ne sono reso conto del tutto nel 2003, dopo aver pubblicato il mio libro dedicato a quanto era accaduto dopo il 25 aprile 1945: Il sangue dei vinti. Un lavoro minuzioso, che non ha mai ricevuto una smentita o una querela. Posso definirlo una prova di revisionismo storico da sinistra? Eppure la sinistra italiana, in tutti i suoi travestimenti, mi ha maledetto. E non ha smesso di sputarmi addosso nemmeno quando si è resa conto che quel libraccio aveva un successo enorme. A tutt' oggi ha venduto un milione di copie».

Tu fai il giornalista dal 1961, ossia da cinquantaquattro anni. Ha ancora senso questo nostro mestiere?

«Penso di sì, anche se è diventato una professione proibita ai giovani. Nessuno li assume, i compensi per chi vuole iniziare sono minimi. Ma io sono difeso dalla mia età. A ottant' anni mi protegge un antico imperativo del filosofo tedesco Immanuel Kant. Recita: fai quel che devi, avvenga quel che può».

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: appesero Mussolini perché mancava la tv. Vi siete mai domandati perché nell’aprile 1945 il vertice del Pci decise di appendere a Piazzale Loreto i cadaveri di Benito Mussolini, di Claretta Petacci e di qualche gerarca della Repubblica sociale? Con il trascorrere degli anni, ne sono passati ben settanta, gli storici e i politici hanno offerto molte spiegazioni di quella scelta barbara che qualche leader della Resistenza, come Ferruccio Parri, il numero uno del Partito d’Azione, definì come un esempio ributtante di «macelleria messicana». Ma tutte le ipotesi sono, o sembrano, aperte e spesso in contraddizione. Credo che esista un’unica certezza. La decisione venne presa da Luigi Longo e da Pietro Secchia, i comandanti delle Brigate Garibaldi nell’Italia da liberare. Dopo aver interpellato il leader del Partito comunista, Palmiro Togliatti, ancora fermo a Roma. Ma perché la presero? Gli storici propendono per un’ipotesi: era l’unico modo per dare sfogo alla rabbia di una parte dei milanesi che voleva vedere il Duce accoppato e appeso come una bestia da squartare. Uno spettacolo che serviva anche a spargere il terrore tra i fascisti repubblicani ancora in libertà. Tuttavia in questi giorni emerge un’altra spiegazione, assai bizzarra. La propone un giornalista che cerca di farsi strada nel terreno impervio della guerra civile. È Aldo Cazzullo che l’ha presentata nella propria rubrica su Sette, il periodico del Corriere della Sera. La sua tesi è la seguente. Nell’Italia del 1945 non c’era la televisione. Per far sapere che il Duce era morto, non esisteva altro modo che mostrarlo appeso ai rottami del distributore di Piazzale Loreto. Conosco bene Cazzullo. È un bravo giornalista, sempre attratto dalla storia contemporanea. Era accanto a me a Reggio Emilia nell’ottobre del 2006 quando venni aggredito da una squadra arrivata da Roma su mandato di Rifondazione comunista per impedire un dibattito su un mio libro revisionista. Il comportamento di Aldo fu esemplare. Invece di scappare dall’Hotel Astoria come fece qualcuno, se ne rimase lì tranquillo, aspettando che la buriana finisse. Subito dopo cominciammo a discutere. Adesso ha pubblicato con Rizzoli una storia della Resistenza. Il suo lavoro dovrebbe dimostrare che la guerra partigiana non fu soltanto un affare dei comunisti. È una verità conosciuta da sempre. Allo stesso modo sappiamo che l’attore principale della nostra guerra civile fu il Pci, grazie alle bande Garibaldi, le più numerose, le meglio armate e le più combattive. È curioso che a ricordarlo sia proprio il sottoscritto, autore di un libro come Il sangue dei vinti. Quel lavoro rivelava la sanguinaria resa dei conti sui fascisti sconfitti. Attuata dopo il 25 aprile 1945 quasi sempre dai partigiani rossi. Il sangue dei vinti venne messo all’indice da tutta la pubblicistica di sinistra. Si disse persino che l’avevo scritto per ingraziarmi Silvio Berlusconi. In compenso il Cavaliere mi avrebbe fatto ottenere la direzione del Corriere della Sera! L’insieme delle vendette ebbe come spettatori entusiasti, e talvolta come esecutori, anche tanti italiani che per vent’anni erano stati fascisti e avevano applaudito i discorsi di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia. Ecco un’altra verità che non amiamo ricordare. Non piace neanche a Cazzullo. Lui arriva a definirla «la solita tiritera». Ma non è così. La grande folla accorsa a piazzale Loreto, per sputare sui cadaveri di Mussolini e della Petacci, nei venti mesi della guerra civile si era ben guardata dall’uscire di casa. Osservata con uno sguardo neutrale, la Resistenza fu una guerra condotta da un’esigua minoranza di italiani che si opposero a un’altra minoranza anch’essa esigua, quella dei fascisti decisi a combattere l’ultima battaglia di Mussolini. Questi potevano contare sul sostegno determinante dell’esercito tedesco. Mentre i partigiani avevano soltanto l’appoggio cauto degli angloamericani che risalivano la penisola con grande lentezza. Negli anni successivi al 1945, il Pci seppe sfruttare con accortezza il proprio predominio sul fronte antifascista. «La Resistenza è rossa» divenne lo slogan più urlato nelle celebrazioni del 25 aprile. In due parole descrivevano una realtà. Certo, a resistere c’erano anche militari, sacerdoti, suore, internati in Germania, partigiani cattolici e monarchici. Ma la massa critica, diremmo oggi, era costituita dalle Garibaldi. Le bande del Pci erano le uniche ad avere una strategia a lungo termine: quella di iniziare un secondo tempo destinato alla conquista del potere. E fare dell’Italia un satellite di Mosca. I comunisti furono anche gli unici a giovarsi subito di una storiografia di parte. Basta ricordare Un popolo alla macchia, il libro firmato da Longo, ma scritto su commissione da un altro autore. E la Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia, corretto in più parti dallo stesso Longo. Insieme a questi interventi di marketing, ci fu la conquista dell’Anpi, l’associazione nazionale dei partigiani, che vide l’espulsione dei cattolici e dei capi del Partito d’Azione, primo fra tutti Parri. Oggi, nell’anno di grazia 2015, si scopre che soltanto una minuscola pattuglia dei maturandi, appena il 2,5 per cento, sceglie il tema sulla Resistenza. Perché stupirsene? La crisi della memoria resistenziale è in atto da molto tempo, strozzata dalla retorica, da un’infinita serie di menzogne e dall’opportunismo cinico delle sinistre. Ed è diventata il sintomo più evidente della crisi culturale di quel mondo. Esiste un succedersi implacabile di stagioni politiche. Per prima c’è stata la fase staliniana. Poi quella togliattiana. Quindi la berlingueriana. Chi ha visto l’ultima puntata di Michele Santoro dalla piazza di Firenze, si è reso conto che Enrico Berlinguer viene ancora ritenuto un santo da venerare. Infine il caos legato alla dissoluzione dell’Unione sovietica ha prodotto la svolta di Achille Occhetto e la scomparsa formale del Pci. La mazzata decisiva è venuta nel 1992 da Tangentopoli. Una parte della sinistra, quella di Bettino Craxi, è morta. Mentre i resti del Partitone rosso si sono dispersi in tante piccole parrocchie. Adesso, nel giugno 2015, la crisi culturale è diventata identitaria. Racchiusa in una domanda: chi è di sinistra oggi in Italia? Certo, esiste il Partito democratico, ma è un’accozzaglia di politici, di programmi, di stili di vita e di idee, tutti avvolti in una nebbia che impedisce definizioni credibili. Secondo un intellettuale dem come Fabrizio Barca, autore di un’analisi che ha richiesto mesi di indagini, il Pd è anche un partito zeppo di robaccia criminale. Non mancano i militanti e i dirigenti onesti. Però l’insieme ricorda la folla di Piazzale Loreto che osserva con gli occhi sbarrati non il cadavere di un dittatore, bensì quello di una storia politica. Durata per decenni, ma oggi finita per sempre. Per ultimo ecco l’enigma di Matteo Renzi, il premier di un’Italia che, nel mondo globalizzato del Duemila, non sa più dove dirigersi. Il Chiacchierone di Palazzo Chigi è di sinistra, di destra, di centro o un renzista autoritario e clientelare? Per ritornare a Cazzullo che osserva Piazzale Loreto, oggi la televisione esiste. Ma è in grado soltanto di diffondere ansia, incertezze e non poca paura. Giampaolo Pansa.

"Questa vecchia Italia non è un Paese per giovani storici". L'autore di molti libri fuori dal coro lancia l'allarme: "Se non sei una firma nota, non pubblichi. E le Fondazioni pendono a sinistra", scrive Gianfranco de Turris su “Il Giornale”. La crisi generale si ripercuote in molte crisi particolari. Una di esse è la crisi dell'editoria che purtroppo non è una vuota e interessata lamentela ma una triste realtà, come dimostrano le statistiche che registrano un calo vertiginoso di lettori. Luciano Lucarini, che con la casa editrice Pagine ha al proprio attivo molte riviste di livello universitario, ha deciso di rilanciare una sua testata, Historica , che oggi con il nome di Nova Historica e la direzione di un comitato direttivo di cui è presidente il professor Giuseppe Parlato, è certamente qualcosa di appetibile nell'asfittico panorama delle riviste accademiche. Abbiamo posto alcune domande a Giuseppe Parlato, docente di Storia contemporanea alla Università degli Stati Internazionali di Roma di cui è stato rettore quando si chiamava Università S. Pio V, autore di saggi come La sinistra fascista (Il Mulino, 2000), Fascisti senza Mussolini (Il Mulino, 2006), Mezzo secolo di Fiume (Cantagalli, 2009) e Gli italiani che hanno fatto l'Italia (Eri-Rai, 2011).

Professor Parlato, da docente universitario in Storia contemporanea, come vede la condizione dello storico oggi?

«Per un certo verso, oggi è più facile fare lo studioso di storia, grazie alla tecnologia che ha abbreviato i tempi di lavoro; penso alla comodità, ad esempio, di avere gli atti parlamentari visibili on line da casa, mentre una volta occorreva andare in biblioteca. Per un altro verso, invece, è più difficile, perché la tecnologia riduce l'interpretazione libera, articolata e complessa a favore di quella semplificata e, al limite, banalizzata. In ogni caso, oggi è più facile l'adesione al politicamente corretto, che è l'interpretazione prevalente su internet».

Qual è oggi, secondo lei, il rapporto dei giovani con la storia?

«Si tratta di un rapporto, anche qui, ambiguo. Da un lato i giovani cercano la storia, non si accontentano delle vecchie interpretazioni. Dall'altro, invece, quelli che vorrebbero occuparsene trovano problemi inediti. Nelle università i fondi per la ricerca si sono ridotti e, in ogni caso, è privilegiata la cultura scientifica e tecnica, quella “utile” e spendibile, rispetto a quella umanistica. Le case editrici pubblicano libri ormai a spese degli autori, soprattutto se sono giovani e non ancora famosi. Le riviste scientifiche si sono ridotte di numero e quindi le possibilità di pubblicare sono più scarse. La situazione è ancora più difficile per quei giovani che non appartengono organicamente alla cultura politica della sinistra; infatti uno dei pochi aiuti rimasti alla ricerca è dato dalle Fondazioni culturali, che in maggioranza fanno riferimento alle tradizioni culturali della sinistra. Poche sono quelle di centro, mentre la destra latita, a causa del disinteresse che i suoi capi politici hanno tradizionalmente dimostrato verso la cultura».

Le riviste che trattano di contemporaneità oggi in Italia non sono molte...

«Credo che lo spazio ci sia per una rivista diversa dalle altre, come riteniamo possa essere Nova Historica . La principale differenza è quella della confluenza di tre profili scientifici, la storia politica contemporanea, quella economica e quella delle istituzioni politiche, rappresentata dalla presenza dei quattro direttori, Simona Colarizi, storia contemporanea alla Sapienza, Gaetano Sabatini, storia economica a Roma Tre, Francesco Bonini, storia delle istituzioni politiche alla Lumsa della quale è anche rettore».

Per concludere. È in discussione al Parlamento una cosiddetta «legge sul negazionismo» al grido (di comodo): ce lo chiede l'Europa. Molti studiosi di orientamenti assai diversi hanno sollevato perplessità, dubbi e addirittura allarmi. È veramente qualcosa di necessario e indispensabile? Ci sono pericoli concreti per la ricerca storica svincolata da condizionamenti?

«Il provvedimento ha avuto un iter complesso e faticoso. Prima in commissione sembrava che potesse essere approvato in pochi giorni: il politicamente corretto sembra trovare tutti d'accordo. Invece, proprio gli storici che sono stati ascoltati dai parlamentari hanno espresso - come già negli scorsi anni - perplessità forti e anche opposizioni alla natura del provvedimento, che condanna non soltanto la propaganda di negazionismo o “riduzionismo”, ma anche l'espressione di idee in merito, confezionando una verità ufficiale che offende le vittime che dovrebbero essere tutelate e che penalizza la libera ricerca storica. In aula il provvedimento ha subito diverse modifiche in senso positivo. Ma tali miglioramenti non sono stati sufficienti a fugare il dubbio che questo provvedimento, mentre condanna severamente il reato di propaganda di negazionismo o di “riduzionismo”, condizioni pesantemente la stessa ricerca storica, sancendo per legge una “verità” che non può essere oggetto di revisione. E, si sa, la storia o è revisione o non è».

L’OLOCAUSTO COMUNISTA.

PER NON DIMENTICARE: L’INGIUSTIZIA VIENE DA LONTANO.

Armenia (1915): 1.400.000 (70%) morti

Holodomor (1932-33): 7.000.000 (25%) morti

Shoah (1941-45): 5.200.000 (50%) morti

Persecuzione dei serbi in Jugoslavia(1941-1945): 1.000.000 morti

Cambogia (1975-79): 1.800.000 (40%) morti

Ruanda (1994): 800.000 - 1.000.000 (70-80%) morti

Bosnia (1992-95): 100.000 - 120.000 (6%) morti

America (dal 1492): Da 50 a 114 milioni 80%

Sud Italia (dal 11 maggio 1860): 1.200.000 morti su 7.500.000 abitanti 16%

* La percentuale è calcolata rispetto al gruppo vittima potenziale.

Genocidio dei nativi americani. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Per genocidio dei nativi americani, detto anche genocidio indiano, olocausto americano (in inglese American Holocaust o Indian Holocaust) o catastrofe demografica dei nativi americani, si intende il calo demografico e lo sterminio dei nativi americani (detti anche indiani d'America, pellerossa o, nel centro-sud America, indios e amerindi), avvenuto dall'arrivo dei bianchi alla fine del XIX secolo, periodo in cui, si ritiene che un numero tra i 50 e i 100 milioni di nativi morirono a causa dei colonizzatori, come conseguenza di guerre di conquista, perdita del loro ambiente, cambio dello stile di vita e soprattutto malattie contro cui i popoli nativi non avevano assolutamente difese, mentre molti furono oggetto di deliberato sterminio, poiché considerati barbari. Per altri la cifra supera i 100 milioni di morti in 500 anni, fino ad arrivare a 114 milioni. Diversi sono i motivi, anche se principalmente la causa fu l'obiettivo di impossessarsi delle terre e delle ricchezze dei nativi, spesso giustificando in maniera ideologica o pratica gli stermini; gli stessi nativi aztechi e inca, che praticavano sacrifici umani, spesso però si erano convertiti al cristianesimo e avevano abbandonato questi riti, ma nonostante ciò erano considerati esseri inferiori e spesso da schiavizzare e la stessa sorte toccò ai nativi pacifici. Nel Nordamerica morirono meno nativi che nel resto del continente, ma l'impatto fu più devastante a causa del numero più esiguo. Nel 1890 rimanevano 250.000 individui, e si stima che l'80 % (1 milione) fosse stato sterminato nel crollo demografico tra il 1600 e il 1890. Per questo si suole parlare di genocidio dei nativi americani o genocidio indiano, nonché di etnocidio. Nativi e soprattutto meticci costituiscono però ancora una gran parte della popolazione sudamericana, mentre sono una piccola minoranza nel nord. Il Nuovo Mondo conobbe nel corso del XVI secolo un notevolissimo crollo demografico della popolazione indigena del continente, principalmente dovuto alla diffusione di patologie non curabili quali il vaiolo, l'influenza, la varicella, il morbillo. Queste patologie vennero inconsciamente portate con sé dagli europei e dai loro animali, quando sbarcarono e si stabilirono nel nuovo continente, e poi utilizzate anche in maniera conscia, come armi. Si trattava di malattie pressoché inesistenti in America: mentre le popolazioni di Europa, Asia e Africa avevano sviluppato anticorpi specifici contro di esse, gli indiani si trovarono del tutto inermi di fronte ad esse. Pertanto, questi si ammalarono rapidamente e morirono senza poter fare niente. Si stima che tra l'80% ed il 95% della popolazione indigena delle Americhe perì in un periodo di tempo che va dal 1491 al 1550 per effetto delle predette malattie. Circa un decimo dell'intera popolazione mondiale di allora (500 milioni circa) fu decimato. La prima malattia che si diffuse nel Nuovo Mondo fu causata da una germe dell'influenza dei suini ed ebbe inizio nel 1493 a Santo Domingo e decimò la popolazione (da 1.100.000 a 10.000); nel 1518 comparve il vaiolo ad Hispaniola che si propagò dapprima in Messico, poi in Guatemala e nel Perù; la malattia destabilizzò l'impero inca favorendo la campagna di conquista di Francisco Pizarro ed il massacro della popolazione. Dopo il devastante passaggio del vaiolo e dei conquistadores, fu la volta del morbillo. I metodi di sterminio e segregazioni attuati contro i nativi nordamericani, secondo lo studioso John Toland, vennero presi a modello (assieme al genocidio armeno e altri stermini o forme di razzismo come l'apartheid o il razzismo contro i neri e le minoranze negli Stati Uniti) da Adolf Hitler nell'attuazione dell'Olocausto contro ebrei, rom e altre minoranze etniche e politiche e, in generale, della politica razziale nella Germania nazista. Per lungo tempo lo sterminio dei nativi venne ignorato o sottovalutato dalla storiografia ufficiale, perlomeno fino alla metà del XX secolo. Fin dopo i primi viaggi di Colombo gli spagnoli organizzarono nelle isole caraibiche degli insediamenti stabili e dei governatorati coloniali come a Cuba. Il primo, però, ad organizzare una spedizione di conquista verso la terraferma fu Hernán Cortés. Egli il 18 febbraio 1519 con undici navi, poche decine di cavalli e alcuni pezzi d'artiglieria, partì da Cuba verso l'odierno Messico. Dopo aver sostato sull'isola di Cozumel e aver costeggiato lo Yucatan, fondò sulla costa messicana la piazzaforte di Veracruz. Da lì si mosse alla conquista dell'Impero Azteco e nell'arco di pochi mesi, sfruttando le rivalità e conflittualità tra le varie popolazioni facenti parte dell'impero, entrò a Tenochtitlán, la capitale azteca. L'anno successivo, però, egli dovette lasciare la città per fronteggiare l'attacco mossogli da un altro spagnolo, Pánfilo de Naváez, mandato dal governatore di Cuba Diego Velázquez de Cuéllar, che l'anno prima aveva sconfessato Cortés. Respinto de Naváez, il conquistador dovette rifugiarsi a Tlaxcala, città a lui fedele, a seguito di una ribellione scoppiata nel giugno del '20. Ripresosi e riconquistato il terreno perduto, Cortés entrò definitivamente a Tenochtitlan che ribattezzò Mexico (13 agosto 1521). L'imperatore Montezuma, divenuto un fantoccio nelle mani degli spagnoli, venne assassinato dal suo popolo (o forse dagli spagnoli stessi.), mentre suo fratello Cuitláhuac gli successe per breve tempo, morendo di vaiolo. Infine, il cugino Cuauhtémoc divenne l'ultimo sovrano a difendere la capitale e l'impero, prima di cadere in battaglia. Nei decenni successivi si susseguirono missioni sempre più spesso militari in Centro America, finché dal 1522 le brame dei conquistadores si rivolsero verso un regno sito tra gli altopiani andini e del quale giungevano notizie abbastanza precise sulla sua prosperità e le sue ricchezze minerarie: l'impero inca. Pasqual de Andagoya fu il primo ad arrivare fino a sud dell'attuale Colombia a Puerto de Pinas. Fu però il condottiero e hidalgo spagnolo Francisco Pizarro ad organizzare nel '32 il viaggio di conquista dell'impero inca. Partito da Panama alla fine del '30 con tre navi e quasi centottanta uomini giunse a Túmbez nell'aprile dell'anno dopo. Una volta che ebbe costituito il primo insediamento spagnolo sulla costa pacifica sudamericana (San Miguel de Piura), ripartì alla volta del Biru. Approfittando della guerra civile tra i due fratellastri Atahualpa e Huáscar e utilizzandoli come pedine del proprio disegno strategico, Pizarro soggiogò gli incas, si impossesso dell'ingente tesoro imperiale e spostò la capitale da Cuzco a Villa de los Reyes, ossia l'odierna Lima. Gli anni successivi furono turbolenti, poiché presto gli indigeni si ribellarono al giogo spagnolo guidati da Manco Capac, l'imperatore imposto da Pizarro in sostituzione di Huáscar, da lui precedentemente sostenuto contro Atahualpa (fatto giustiziare da Pizarro), e anche perché tra il condottiero e Diego de Almagro, che lo aveva seguito, nacquero rivalità sfociate in una guerra tra fazioni. La situazione rimase tale anche con i successori dei due, finché nel 1572 il viceré Francisco de Toledo riuscì a catturare e giustiziare l'ultimo imperatore inca Túpac Amaru e a dare una sistemazione definitiva al suo Vicereame. Tra queste due spedizioni, ne furono organizzate di numerose tra il 1522 e il 1526 che portarono all'esplorazione e conquista dell'Honduras, del Guatemala, del Messico meridionale di Tepic e nel '29 nel territorio degli indios chichimecas nel Messico nordoccidentale, che rimase una regione instabile per le ribellioni degli indigeni fino al '600 inoltrato. Lo stesso Cortés organizzò quattro viaggi tra il 1532 e il '39 nello specchio d'acqua che ancora oggi porta il suo nome: Mar de Cortés o Golfo di California. I territori spagnoli del Nuovo Mondo furono organizzati secondo un sistema di tipo feudale. Ai conquistadores la corona spagnola concedeva appezzamenti di terra più o meno grandi (leencomiendas). Il feroce sfruttamento delle popolazioni native provocò un enorme crollo demografico. Furono sterminati così, ad esempio, la maggior parte dei nativi dei caraibi, presto sostituiti dagli schiavi africani, come manodopera a basso costo. I conquistadores si organizzavano in bande armate per conquistare i territori ancora non colonizzati, le loro spedizioni erano chiamate entradas (incursioni), affidate a loro dalla corona e che li rendeva governatori e comandanti generali allo stesso tempo (il cosiddetto adelantado). Il loro potere, però, non era assoluto. Vennero ridotti in schiavitù moltissimi nativi e vennero utilizzate le ricchezze del loro territorio fertile e dal sottosuolo ricchissimo, favorendo di fatto lo sviluppo economico in tutta l'Europa, e non solo in Spagna e Portogallo. I maggiori sostenitori e beneficiari di questa politica di sfruttamento furono infatti il Regno Unito, Spagna, Portogallo Francia e i Paesi Bassi. Sostanzialmente, i colonizzatori crearono un continente dal quale attingere oro, argento (utilizzando la manodopera dei nativi ridotti in schiavitù) e prodotti agricoli da monocolture (installate bruciando le foreste e le coltivazioni presenti prima dell'arrivo di Colombo). Uno dei motivi principali dell'arretratezza era il contrasto allo sviluppo industriale locale operato dalle potenze coloniali. Questa portava le colonie a vendere in Europa materie prime a prezzi bassissimi (ad esempio metalli e fibre tessili), per poi comprare prodotti lavorati (ad esempio armi, tessuti, attrezzature) dagli stessi paesi europei. La gran parte di tali ricchezze si riversavano, quindi, nei paesi produttori di tali beni. Nel 1781 verrà soffocata nel sangue la rivolta dell'ultimo grande capo nativo prima dell'era moderna, Túpac Amaru II. Anche con la fine della schiavitù, nel 1888, la mortalità dei lavoratori era sempre altissima e le proprietà – terriere e non – erano tutte divise tra pochissime famiglie ricche. Di fatto era ancora più conveniente assumere con contratti temporanei tutti i disperati che non potevano trovare cibo che gestirli come schiavi. Successivamente si aggiungerà lo sfruttamento neocoloniale, rivolto anche contro gli stessi ispanici dagli Stati Uniti e dalle multinazionali, e la distruzione di parte della foresta Amazzonica, con la scomparsa di molte tribù di cacciatori-raccoglitori. Sarà solo verso la fine del XX secolo, che gli indios riusciranno, in alcuni paesi come la Bolivia, a ritrovare un certo potere politico e rappresentanza, migliorando le loro condizioni di vita. All'inizio del Cinquecento, mentre gli spagnoli dilagavano nella parte centrale e meridionale del continente, altri europei presero a esplorare le coste atlantiche della sua parte settentrionale. Così fecero l'Inghilterra (con Giovanni Caboto e Sebastiano Caboto) e la Francia (per mezzo di Giovanni da Verrazzano). A quel tempo a nord del Rio Grande si stima che la popolazione indigena non superasse i 12 milioni di persone, riunite in tribù poco numerose e non unite le une dalle altre. I nativi americani, appartenenti alle tribù Algochine e Cherokee, praticavano un'agricoltura rudimentale e si spostavano con le canoe lungo i fiumi. Fra il XVI e il XVII secolo sorsero in Florida, nel New Messico e in California le prime colonie degli spagnoli che provenivano dall'America centrale. Più a nord, i francesi si inoltrarono nel bacino del San Lorenzo dove si stanziarono nelle città di Québec e Montréal. Da qui i francesi penetrarono nell'interno, verso i Grandi Laghi e successivamente verso sud nel bacino del Mississippi, fino a raggiungere la sua foce, dove fondarono la città di La-Nouvelle Orléans (New Orleans). Si ebbero anche guerre con indiani alleati degli inglesi e altri dei francesi. Furono i britannici che richiesero gli scalpi dei nemici uccisi ai nativi, che prima d'allora non aveva questa pratica. Prima di queste guerre, raramente gli indiani erano stati ostili (escludendo il massacro indiano del 1622), e spesso avevano permesso gli insediamenti in cambio di fucili e altri oggetti, non avendo il concetto di proprietà privata. Ben presto però, fra tutti i coloni, prevalsero gli inglesi che giunsero a dominare l'intera fascia costiera, dove un po' alla volta si formarono 13 colonie, il nucleo fondamentale di quelli che un secolo più tardi divennero gli Stati Uniti d'America (1776). I primi tentativi di colonizzare l'America settentrionale non ebbero un grande successo, dato che i nativi americani non si adattavano minimamente ad essere assoggettati come manodopera e il clima non favoriva gli insediamenti. Dopo alcuni tentativi falliti, il primo insediamento inglese stabile fu costruito nell'odierna Virginia e prese il nome di Jamestown. Gli inglesi partirono dalla costa più vicina all'Europa (la East Coast) respingendo progressivamente le popolazioni indigene verso ovest (il cosiddetto Far West). Alcuni politici e intellettuali, come Thomas Jefferson (che paragonò la capacità oratoria del capo Logan/Tah-gah-juta a quella di Demostene e Cicerone), erano interessati alla cultura dei nativi, ma ben presto sorsero i primi conflitti. I nativi più combattivi e più numerosi, come i Sioux e gli Apache, si opposero con le armi, ma gli inglesi e gli americani avrebbero risposto con violenza ancora superiore, spesso ignorando i trattati e massacrando anche donne, vecchi e bambini inermi, come nel massacro di Sand Creek, ad opera di John Chivington, e nel massacro di Wounded Knee. La vittoria più importante dei nativi fu nella battaglia del Little Bighorn, dove Cavallo Pazzo, con l'aiuto di Toro Seduto, annientò il generale George Armstrong Custer e il suo reggimento 7º cavalleria. I capi che resistettero di più furono i celebri Cochise, Toro Seduto e Geronimo; tra gli altri celebri capi di questo periodo si ricordano Piccolo Corvo, Cavallo Pazzo, Nuvola Rossa, Capo Seattle, Capo Giuseppe, Uomo-Teme-I-Suoi-Cavalli, Pioggia Sulla Faccia; alla fine delle guerre in nordamerica (XIX secolo) i nativi rimasti saranno rinchiusi nelle riserve, e otterranno i pieni diritti civili e politici solo nella seconda metà nel XX secolo. Il generale William Tecumseh Sherman fu uno dei maggiori esecutori delle stragi ai danni degli indiani, assieme a Philip Henry Sheridan, sostenitore dello sterminio esplicito dell'etnia nativa, al punto che gli viene attribuita la frase secondo la quale "l'unico indiano buono è l'indiano morto" (in realtà pronunciata dal deputato James M. Cavanaugh). Anche gli indiani nativi del Canada, Prime nazioni, Inuit, Métis, subirono dei massacri e una consistente riduzione di numero da parte dei coloni britannici e francesi, con episodi collegati all'assimilazione culturale protrattisi fino alla seconda metà del XX secolo. "Guerre indiane" è il nome usato dagli storici statunitensi per descrivere la serie di conflitti prima con i coloni, principalmente europei, e poi con gli Stati Uniti, in opposizione ai popoli nativi del Nordamerica. Alcune delle guerre furono provocate da una serie di paralleli atti legislativi, come l'Atto di rimozione degli indiani (primo significativo atto di pulizia etnica contro i nativi nordamericani), unilateralmente promulgate da una delle parti e potenzialmente considerabili alla stregua di guerra civile. I sioux e gli apache, scacciati anche dall'est, allo stremo della sopportazione, reagirono violentemente attaccando e uccidendo anche civili (come negli "attacchi alla diligenza"), in risposta alle stragi indiscriminate ordinate dai generali statunitensi contro i loro accampamenti, e alla colonizzazione forzata dei loro territori. Allora il presidente Ulysses S. Grant si rivolse a Sheridan, sotto la spinta dei Governatori delle pianure, ed egli ebbe carta bianca. Successivamente diverrà comandante in capo dell'esercito al posto di Sherman. Nella campagna d'inverno del 1868–69 attaccò le tribù dei Cheyenne, dei Kiowa e dei Comanche nelle loro sedi invernali, tagliando loro rifornimenti e bestiame e uccidendo ognuno che avesse resistito, conducendo i sopravvissuti indietro nelle loro riserve. Questa strategia proseguì finché i nativi onorarono i trattati che erano stati costretti a sottoscrivere (tuttavia saranno gli stessi bianchi che non li rispetteranno, in futuro). Il dipartimento di Sheridan portò a compimento anche la Red River War, la Ute War e la Black Hills War, che provocarono la morte del suo fido subordinato Custer. Le incursioni dei nativi proseguirono negli anni settanta del XIX secolo e finirono ai primi degli anni ottanta, allorché Sheridan divenne il comandante generale dell'esercito statunitense. Precedentemente vi erano state già sanguinose rivolte come nelle grandi pianure; il numero di Sioux morti nella grande rivolta del 1862 (detta "guerra di Piccolo Corvo", dal capo che la guidò) rimane non documentato ma dopo la guerra 303 nativi furono accusati di assassinio e rapina dai tribunali statunitensi e successivamente condannati a morte. Molte di queste condanne vennero commutate ma il 26 dicembre 1862 a Mankato, in Minnesota, si andò a consumare quella che ad oggi rimane la più grande esecuzione di massa nella storia degli Stati Uniti, con l'impiccagione di 38 Sioux. Nel 1863 i bianchi catturarono il vecchio capo apache Mangas Coloradas; i soldati lo torturarono, prima di ucciderlo, decapitarlo e mutilarlo inviando il teschio all'est, al museo Smithsonian; quest'atto era considerato intollerabile dagli indiani, non solo per l'efferato omicidio, ma anche perché, nella religione apache, un morto decapitato era costretto a vagare senza mai trovare la pace. Fu allora che gli apache, sotto la guida di Cochise, genero del capo ucciso, cominciarono a uccidere e mutilare i bianchi, prendendo spesso gli scalpi. Questi fatti furono utili alla propaganda contro i nativi, cosicché la stragrande maggioranza del popolo appoggiava e partecipava agli stermini dei "barbari pellerossa", spesso ignorando che le vendette erano state causate dai crimini precedenti perpetrati dei bianchi. Furono anche messe taglie e premi per chi uccideva più indiani. The treachery of Lt. Bascom is still remembered by the Chiricahuas' descendants today—they remember it as "Cut the Tent.". Era raro che un guerriero indiano uccidesse donne e bambini dei nemici in guerra, e quando avveniva era per rappresaglia, mentre spesso i soldati lo facevano per affrettare l'estinzione delle tribù native. Si diffuse un'ampia letteratura, fiorente già dal 1700, poi culminata nel cinema western, in cui gli indiani venivano rappresentati come violenti e malvagi per natura. Nel 1864, durante la guerra di secessione americana, avvenne una delle battaglie indiane maggiormente degne di infamia, denominata non a caso il Massacro di Sand Creek. Una milizia locale, al comando di John Chivington (il quale sosteneva l'eliminazione dei nativi, e che essi andavano «scalpati tutti, grandi e piccoli»), attaccò un villaggio cheyenne ed arapaho situato nel sud-est del Colorado ed uccise e mutilò indistintamente uomini, donne e bambini. I soldati, molti di loro ubriachi, stuprarono le donne e fecero il tiro al bersaglio con i bambini. Gli indiani di Sand Creek avevano avuto la rassicurazione dal governo degli Stati Uniti che avrebbero vissuto tranquillamente nella loro area, ma ciò che causò il massacro fu il crescente odio bianco nei confronti dei nativi. Essi avrebbero voluto trattare la pace, ma i loro ambasciatori, spesso sventolanti la bandiera bianca (tra di essi una bambina di sei anni, durante la battaglia), furono abbattuti a vista, e l'accampamento attaccato a tradimento, mentre i guerrieri maschi giovani erano in gran parte assenti (i 3/4 delle vittime furono vecchi, donne e bambini). Pochi opposero una resistenza, peraltro inutile. I prigionieri vennero tutti fucilati, comprese le donne incinte, e pochi furono i superstiti. Chivington fece prendere gli scalpi di molti nativi, e molti soldati asportarono parti di organi genitali per usarli come ornamenti; Chivington farà esibire gli scalpi in pubblico come trofei a Denver. I morti furono tra 60 e 200 nativi e 24 militari. Vi furono anche alcuni soldati che si rifiutarono di partecipare al massacro. I successivi congressi diffusero un appello pubblico contro altri simili carneficine nei confronti degli indiani, ma esso non fece presa nel popolo. Gli indiani della zona, tra cui alcuni superstiti cheyenne, poco inclini a combattere d'inverno e meno bellicosi degli apache, organizzarono un gruppo di 1600 uomini e reagirono saccheggiando alcuni villaggi e distruggendo alcune piste, nonché uccidendo molti coloni e soldati. Nel 1875 l'ultima vera guerra Sioux scoppiò quando la corsa all'oro nel Dakota arrivò alle Black Hills (Colline Nere), territorio sacro per i nativi americani. L'esercito statunitense non precluse ai minatori l'accesso alle zone di caccia Sioux, ed inoltre quando venne chiamato ad attaccare delle bande indiane che stavano cacciando nella prateria, come loro concesso dai precedenti trattati, rispose immediatamente. Più tardi, nel 1890, nella riserva settentrionale dei Lakota, a Wounded Knee nel Dakota del Sud, il rituale della "danza degli spiriti" portò l'esercito a tentare di sottomettere i Lakota. Durante l'assalto vennero uccisi più di 300 nativi americani, per la maggior parte anziani, donne e bambini. Alla notizia dell'assassinio di Toro Seduto, che ormai aveva deposto le armi e lavorava in un circo, la tribù di Miniconjou guidata da Big Foot (Piede Grosso) partì dall'accampamento sul torrente Cherry per recarsi a Pine Ridge, sperando nella protezione di Nuvola Rossa. Il 28 dicembre furono intercettati da quattro squadroni di cavalleria del reggimento agli ordini da Samuel Whitside, che aveva l'ordine di condurli in un accampamento di cavalleria sul Wounded Knee. 120 uomini e 230 tra donne e bambini furono portati sulla riva del torrente, accampati e circondati da due squadroni di cavalleria e sotto tiro di due mitragliatrici. Il comando delle operazioni fu preso dal colonnello James Forsyth e l'indomani gli uomini di Piede Grosso, ammalato gravemente a causa di una polmonite, furono disarmati. Coyote Nero, un giovane Miniconjou sordo, tardò a deporre la sua carabina Winchester, fu circondato dai soldati e, mentre deponeva l'arma, partì un colpo a cui seguì un massacro indiscriminato. Il campo venne falciato dalle mitragliatrici e i morti accertati furono 153. Secondo una stima successiva, dei 350 Miniconjou presenti, ne morirono quasi 300. Venticinque soldati furono uccisi, alcuni probabilmente vittime accidentali dei loro compagni. Dopo aver messo in salvo i soldati feriti, un distaccamento tornò sul campo dove furono raccolti 51 indiani ancora vivi, quattro uomini e 47 tra donne e bambini, presi prigionieri. Tuttavia, già molto prima di questo evento erano già state eliminate le basi per la sussistenza sociale delle tribù delle Grandi Pianure, con lo sterminio quasi completo dei bisonti negli anni 80, dovuto ad una caccia indiscriminata, spesso effettuata proprio per colpire i nativi, che si nutrivano dei bisonti cacciati, ma in quantità minori tali da non estinguerli. Le guerre, che spaziarono dalla colonizzazione europea dell'America del XVIII secolo fino al massacro di Wounded Knee e alla chiusura delle frontiere USA nel 1890, risultarono complessivamente nella conquista, nella decimazione, nell'assimilazione delle nazioni indiane, e nella deportazione di svariate migliaia di persone nelle riserve indiane. Gli eventi trattati costituiscono una delle basi della discriminazione razziale su base etnica, e del problema del razzismo che affliggerà gli USA fin a tutto il XX secolo. Basandosi sulle stime di un censimento del 1894, lo studioso Russel Thornton ha estrapolato alcuni dati essenziali: in particolare, dal 1775 al 1890 almeno 45.000 nativi americani e 19.000 bianchi avrebbero perso la vita. La stima include anche donne, vecchi e bambini, poiché i non-combattenti spesso perivano durante gli scontri di frontiera, e la violenza dei combattimenti non permetteva di risparmiare, né da una parte né dall'altra, le vite dei civili. Calo demografico forzato, emarginazione, segregazione razziale continuarono negli Stati Uniti e nel Canada nella prima e nella seconda metà del XX secolo. Progressivamente, a partire dagli anni '60-'70 consapevolezza civile, pacifismo, un crescente movimento originatosi dalle controculture beat e poi hippy, le lotte per i diritti civili, e soprattutto i movimenti a favore dei cittadini afroamericani, etnia numericamente rilevante in seguito allo schiavismo, mutuarono una visione sempre più condivisa da buona parte della popolazione a favore dei pari diritti di ogni gruppo etnico. I nativi nordamericani, ormai numericamente esigui, contribuirono alla presa di coscienza con azioni di protesta e denuncia degli abusi. La cultura mainstream testimoniò questi cambiamenti nella musica, nella letteratura, nel cinema, ad esempio traslando dal film western classico sullo stile di sentieri selvaggi alwestern revisionista sullo stile di soldato blu, uno dei primi western a schierarsi dalla parte degli Indiani d'America non più descritti come selvaggi sanguinari destinati alla sottomissione o allo sterminio. In Canada emersero i fatti relativi alle scuole residenziali indiane, celebrità e storici nordamericani sposarono la causa dei nativi con azioni di rilevanza pubblica. Una parte degli indiani verrà decimata ancora con la sterilizzazione, spesso coatta, attuata con l'inganno o le minacce, che coinvolgerà 85.000 uomini e donne nativi. La maggior parte degli indiani sopravvissuti visse poi nelle riserve indiane (inizialmente veri campi di concentramento, poi ghetti e luoghi di residenza), dove poterono mantenere i loro costumi, anche se molti si trasferirono nelle città, ma ben pochi ricoprirono ruoli importanti, perlomeno fino a tempi moderni. Theodore Roosevelt diede un simbolico riconoscimento a Geronimo, permettendo all'anziano capo di cavalcare in abiti tribali durante la parata inaugurale del suo mandato presidenziale (1905). Nel 1924 i nativi furono autorizzati a integrarsi e venne loro concesso il diritto di voto, anche se furono soggetti ancora alla segregazione razziale che colpì anche i neri e tutti i non bianchi fino alla firma del Civil Rights Act del 1964 da parte del Presidente Lyndon Johnson, in cui furono rimosse le leggi razziste e anticostituzionali dei singoli stati. Si sono anche avute numerose proteste dalla metà del XX secolo in poi, da parte dei nativi e dei loro simpatizzanti, per il mancato rispetto dei trattati e delle loro richieste politiche e sociali, come l'occupazione di Wounded Knee nel 1973 e la simbolica marcia su Washington. Sempre nel 1973, l'attore Marlon Brando, sostenitore della causa dei nativi, rifiutò di ritirare il premio Oscar ricevuto per la sua interpretazione de Il padrino in segno di protesta, mandando al suo posto una giovane attivista di origine apache, Sacheen-Littlefeather ("Piccola Piuma"), che lesse un comunicato dell'attore. Nel 1980 gli Oglala/Sioux ottennero 100 milioni di dollari per la perdita del territorio delle Black Hills ma i risarcimenti furono rari; talvolta alcuni gruppi di nativi ebbero l'uso di terre, un tempo a loro appartenute, in maniera esclusiva e la licenza per aprire i cosiddetti "casinò indiani". Nel 2007 alcuni Lakota/Sioux, appartenenti ad una frangia minoritaria dell'American Indian Movement e guidati da Russell Means, hanno chiesto la secessione della loro "nazione", comprendente cinque stati federati, dagli Stati Uniti. Tra i motivi della protesta anche il fatto che nella loro comunità vi sarebbero condizioni di vita nettamente inferiori rispetto a bianchi, ispanici e anche molti afroamericani: vi è infatti un'alta percentuale di suicidi tra gli adolescenti, di 150 volte superiore a quella statunitense, una mortalità infantile cinque volte più alta e una disoccupazione che tocca cifre altissime; sono inoltre molto diffusi la povertà, l'alcolismo e la tossicodipendenza, nonostante i programmi governativi volti - almeno formalmente - a tutelare i nativi varati nel corso degli anni. In seguito a questa azione politica e dichiaratamente nonviolenta, è stata proclamata la nascita di uno Stato non riconosciuto, la Repubblica Lakota. La segregazione razziale negli Stati Uniti riguardò sia nativi sia afroamericani che altre minoranze per lungo tempo, e anche molti che si pronunciavano contro (come Teddy Roosevelt) ne erano sostenitori in pratica; furono emanate leggi razziali molto severe in alcuni stati del sud, che precorsero quelle della Germania nazista, escludendo i meticci anche di quarta o quinta generazione (proprio come accadeva ai mulatti) dalla comunità bianca, previa analisi genealogica: « Ad accomunare le due situazioni è in ogni caso la violenza dell'ideologia razzista. Theodore Roosevelt può tranquillamente essere accostato a Hitler. Al di là delle singole personalità conviene non perdere di vista il quadro generale: "Gli sforzi per preservare la purezza della razza nel Sud degli Stati Uniti anticipavano alcuni aspetti della persecuzione scatenata dal regime nazista contro gli ebrei negli anni trenta del Novecento". Se poi si tiene presente la regola per cui nel Sud degli Stati Uniti bastava una sola goccia di sangue impuro per essere esclusi dalla comunità bianca, una conclusione si impone: "La definizione nazista di un ebreo non fu mai così rigida come la norma definita the one drop rule, prevalente nella classificazione dei neri nelle leggi sulla purezza della razza nel Sud degli Stati Uniti".» Quanti fossero i nativi prima della colonizzazione europea delle Americhe è difficile da stabilire: le cifre dell'entità dello sterminio sono ancora al centro di un ampio dibattito storiografico. Secondo le ultime ricostruzioni si tratterebbe del 90% della popolazione indigena morta in meno di un secolo. Secondo quanto afferma lo studioso David Carrasco: «Gli storici sono stati in grado di stimare con una certa plausibilità che nel 1500 circa 80 milioni di abitanti occupavano il Nuovo Mondo. Nel 1550 solo 10 milioni di indigeni sopravvivevano. In Messico vi erano circa 25 milioni di persone nel 1500. Nel 1600 solo un milione di indigeni mesoamericani erano ancora vivi» Le cause di una tragedia di così ampie dimensioni sono molteplici: gli stermini perpetrati dagli invasori, le guerre intestine sovente aizzate da questi ultimi per rendere più facile la conquista con la politica del divide et impera, le nuove malattie, i lavori forzati in stato di semi-schiavitù e non ultimo il senso di smarrimento e di perdita di senso dovuto all'annientamento della loro fede e delle loro tradizioni che portarono talvolta a suicidi di massa. La colonizzazione del Nord e del Sud America presenta delle differenze: i conquistadores spagnoli erano prevalentemente degli avventurieri o degli sbandati che non avevano trovato fortuna in patria. Alcuni praticarono lo stupro sistematico ma i più si unirono con donne indigene di rango superiore e diedero origine alla numerosa popolazione di meticci (mestizos) del Centro e Sud America. Al contrario, gli inglesi arrivavano nel Nuovo Mondo già organizzati in nuclei familiari e questo non favorì l'integrazione della popolazione. Una tattica comune a tutti gli invasori fu la denigrazione dell'avversario: i nativi furono descritti come esseri bestiali, dediti alle più turpi attività, seguaci del demonio e privi di qualsiasi elemento culturale. Queste idee trovarono terreno fertile negli uomini dell'epoca e furono un motore formidabile di motivazione per i conquistadores e le potenze coloniali. Specialmente i sacrifici umani provocavano un profondo disgusto che giustificava ai loro occhi lo sterminio di quelle civiltà. D'altra parte si sottovalutavano le peculiarità culturali e materiali delle civiltà e dei popoli incontrati. Alcuni studiosi ritengono che ci furono numerosi tentativi di occultamento, quasi fino a giorni nostri, di gran parte dei documenti prodotti dai nativi e in alcuni casi persino delle rovine archeologiche. Fu proprio questo, ad esempio, il destino del resoconto del cronista indigeno quechua Guamán Poma de Ayala. Nella sua Primer nueva corónica y buen gobierno, lettera di protesta indirizzata al re Filippo III di Spagna, ripercorre la storia del suo popolo e si lamenta per il destino attuale. Guamán Poma si ritiene testimone oculare dell'ultimo pachacuti, la distruzione che avviene alla fine di ogni ciclo cosmico secondo la mitologia quechua. Il cronista descrive lo stato di caos e le atrocità subite dal suo popolo e sollecita il re ad intervenire per ristabilire una situazione di buen gobierno. Per centinaia di anni di questo straordinario libro non si è saputo nulla, finché l'opera non è stata ritrovata in un archivio a Copenaghen nel XX secolo. Sorte analoga dovette affrontare il cosiddetto Codice Fiorentino, cioè l'ultima redazione, l'unica bilingue (spagnolo e nahuatl) della Historia universal de las cosas de Nueva España, scritta da fra Bernardino de Sahagún. La tattica dell'occultamento e della sistematica umiliazione si è rivelata relativamente semplice con le culture del Nord America perché si presentavano essenzialmente come popolazioni con tradizioni orali e con modi di vita che prevedevano spostamenti pendolari in seguito ai movimenti delle mandrie da cacciare.

Il genocidio dei nativi americani e degli africani: 1607-1890. Tratto da “Il libro nero degli Stati Uniti d’America”. Stima dei civili morti: 90 milioni!!! Tra i genocidi compiuti dagli Usa prima della Seconda guerra mondiale vogliamo citare solo i due che ci sembrano più significativi: lo sterminio dei nativi americani (gli “indiani”) e il massacro del popolo filippino. Tralasciamo, invece, la Guerra di secessione anche se, a detta degli storici, è stata la guerra civile più sanguinosa della storia umana. Sarà un caso? Gli inglesi arrivarono a Jamestown nel 1607. Dal 1610 iniziò lo sterminio dei nativi americani che proseguì fino al 1890, anno in cui il settantesimo cavalleggeri dell’esercito nordamericano massacrò la popolazione Lakota, nel Sud Dakota. Assetati di oro, argento c pellicce, i bellicosi cow-boys a cavallo, armati di fucili, ebbero, gioco facile contro, popolazioni pacifiche che erano armate solo di archi e frecce, e non conoscevano la polvere da sparo, il denaro e la proprietà privata. Voglio riportare qui un brano, che descrive molto bene il lungo calvario attraversato dai nativi dopo essere venuti in contatto con i conquistatori europei: “Dopo lo storico sbarco del 1492, per anni l'Europa, lacerata da sanguinose guerre di religione, non si mostrò molto interessata al nuovo continente. Successivamente la bramosia di possesso, il mito dell'oro, l'interes­se verso nuove terre, la passione per le pregiate pellicce, l'imperativo missionario di "mettere il nuovo continente sotto la protezione di Dio” e il fascino dell'avventura, rappresentarono un micidiale cocktail distruttivo. Ben presto l'insieme di questi elementi si tradusse in atrocità e oscenità di ogni tipo. Una miscela esplosiva che rese via via sempre più manifeste le peggiori disposizioni dell'uomo. Quel misto di avventura e ingordigia funse da propulsore e spinse verso occidente i grandi velieri. Il destino dei nativi americani e delle loro antiche culture (e probabilmente del mondo intero) era segnato: la presunta "civiltà” europea, boriosa e dispotica, ne aveva decretato l'epilogo”. Ma com'è potuto accadere? E cos’è successo realmente? Da dove è scaturita tanta ferocia? Di chi sono le maggiori responsabilità? Si poteva evitare lo sterminio? Ridurre i patimenti? La gran massa di film western descrive la realtà dei fatti oppure fa mistifica? Si può pensare a una verità storica? Se sì, qual è? Tuffiamoci in questa impresa, tentiamo insieme un'analisi...E’ solo agli inizi del 1600 che si colgono i primi segnali di una vera e propria aggressione. Il mercato delle pellicce che giungevano dal continente appena “scoperto” alimentò ben presto, e a dismisura, le vanità degli europei, e fece aumentare così vertiginosamente la richiesta di queste pregiate mercanzie. I furbi avventurieri sbarcati nel Nuovo mondo, cominciarono così a barattare con gli “indigeni del posto” oggetti di scarsissimo valore con pregiate pelli di lontra, e i propri vestiti rabberciati destinati alla pattumiera con le stupende pelli di castoro faticosamente procurate dagli “indiani”. L'America diventa il grande magazzino di pellicce per l’Europa. Agli indiani il compito di riempirlo. Gli europei inoltre fecero conoscere ben presto ai “selvaggi” l'inebriante acquavite - che usavano per stordirli prima delle “trattative” – nonché altre “magiche cose” con le quali cercavano di ingannare gli ingenui abitanti del luogo. I furbi mercanti del vecchio continente fecero di questi espedienti preziosi alleati. La trappola illusoria del vantaggioso baratto disorientò ben presto alcuni fra gli “indiani” più scriteriati. Diverse comunità, che mai avrebbero pensato di dover affrontare, una situazione simile, si trovarono impreparate nel dover lottare contro questo mistificatorio nemico. Il nuovo nemico “rapiva la mente” degli stolti e giungeva a volte sino ad essere più forte del sacro rispetto per la veneratissima Madre di tutte le cose: Madre Natura. Un sacro rispetto, punto focale della cultura indiana, che ogni indiano aveva ben radicato dentro di se, almeno sino a quell’infausto incontro con l’uomo bianco. Madre Natura, prodiga di frutti benedetti, Madre natura, amorosa dispensatrice di ogni bene, Madre Natura, madre di tutti gli animali, anche di quelli da cacciare e uccidere, per reale bisogno, in “confronti” leali e senza inutili sprechi. L’ingannevole rete tessuta dai bianchi arrivò a disorientare, anche se solo temporaneamente, l'ignaro pellerossa che giunse ad affermare: “Il castoro fa le cose per bene: sa fare le pentole, le accette, le lesine, i coltelli ...”. Questo nuovo e ingenuo, slogan coniato dai nativi rende oggi bene l'idea dei “vantaggi” che inizialmente derivarono dal commercio delle pellicce; vantaggi fatali però, che decretarono la condanna a morte di tutte le culture locali. Gli indiani non potevano immaginare che, adottando il pensiero degli europei, avrebbero messo in moto l'ingranaggio, destinato in breve tempo a stritolarli senza alcuna pietà. Gli uroni, gli irochesi e gli indiani delle coste nordoccidentali cercarono di affrontare il disorientamento legato a questa nuova “mania della negoziazione” e dettarono delle regole; ammisero il commercio con i bianchi (purché sobrio e misurato) e l’arricchimento di alcuni componenti della collettività. Il profitto derivante dagli interscambi, però, non doveva generare disuguaglianze, ne marcare differenze di sorta con gli altri membri della comunità; rimaneva perciò decisa mente in vigore il principio della redistribuzione, che anzi doveva essere ulteriormente, rafforzato e sviluppato con nuovi criteri. Ma l’europeo, che primeggiava in astuzia, impose senza indugio l’introduzione di nuovi sistemi commerciali. Le virtuose consuetudini “socio-economiche”, ancestrali per le comunità indiane, finirono così per essere gradualmente distrutte. L’introduzione successiva di nuove e mirate mercanzie snaturò totalmente il modo di vivere indiano e ne segnò definitivamente la caduta. La caccia, il commercio e la distorsione culturale mutarono radicalmente il sistema di vita e l’alimentazione delle tribù che giunsero così a dipendere completamente dagli scaltri europei. Allo stesso modo dell'arricchimento di uno ai danni dell'altro e delle disuguaglianze fra uomini, anche la proprietà fu un principio che sfuggi completamente al nativo, che non riuscì mai a comprendere come si potesse pretendere di acquistare cose che appartenevano a tutti come alberi, fiumi, prati, spiagge o laghi... ma il problema non infastidiva per nulla il bianco, poiché quasi mai si parlava di “comprare”: per lui le nuove terre, erano abbandonate e non sfruttate, e la Bibbia stessa affermava che Dio li aveva guidati in quei luoghi. L’illusione del nuovo vantaggioso rapporto con il bianco però cedette, presto il passo ai reali obiettivi dell’invasore, i nuovi arrivati palesarono le loro vere intenzioni e iniziarono così i maltrattamenti, i “selvaggi” furono trattati come schiavi, si abusò delle loro donne, le trattative non furono più rispettate. Così i poveri malcapitati, terrorizzati e increduli, per sottrarsi alla presenza dei bianchi, si ritirarono nelle foreste interne. Alla iniziale generosità dei nativi, dunque, i bianchi, popolo eletto di Dio, cui era stata affidata “la divina missione”, risposero con avidità e maltrattamenti d'ogni tipo, e non si fecero alcuno scrupolo poiché gli indigeni erano considerati “crudeli, selvaggi, barbari e figli di Satana”. (…) La decimazione delle popolazioni native non avvenne solo con armi più avanzate, ma anche con l’esportazioni delle malattie occidentali per le quali i bianchi conquistatori erano vaccinati. Per un certo periodo l’esercito americano fece addirittura strage di bisonti delle grandi pianure per togliere agli indiani la loro principale fonte di sostentamento e indurli alla resa e alla fame. (…) Il genocidio degli indiani venne accompagnato dalla tratta degli schiavi che venivano costretti a lavorare nelle terre dove prima vivevano i nativi. Una macabra geografia dello sterminio e della schiavitù sostenne la nascente industria occidentale. Dai porti dell’Inghilterra partivano navi che strappavano e sequestravano i neri dall’Africa per ridurli in schiavitù nelle piantagioni americane. Da lì le navi, piene di cotone, salpavano di nuovo l’oceano per rifornire la madrepatria della preziosa materia prima, con la quale si producevano manufatti tessili a buon mercato che, esportati in Estremo Oriente, riducevano il Bengala, la regione più ricca e sviluppata dell’India, alla fame più nera, all’attuale Bangladesh. Nel 1860 si contavano negli Stati Uniti ancora 4 milioni di schiavi. Gli schiavi non morivano solo in schiavitù, ma anche di schiavitù. 2 milioni morirono di stenti o di maltrattamenti, durante il loro trasferimento o durante la loro prigionia. (…) Tratto da: "Il libro nero degli Stati Uniti d'America".

A chi giova la tesi della cosiddetta “unicità” del genocidio ebraico? Scrive Costanzo Preve il 2 settembre 2011.

1. Faccio riferimento a due pagine del Corriere della Sera del 31 agosto e del 1° settembre 2011, con interviste di Stefano Montefiori a Pierre Nora e Claude Lanzmann, e commento dell’intellettuale di regime Pierluigi Battista. Essi si indignano per il fatto che sui manuali francesi di storia la parola “Shoah” sia stata sostituita da termini come genocidio, sterminio ed annientamento, perché temono che dietro questa vaga terminologia ci sia una strategia non certo di “negazionismo”, ma anche soltanto di relativizzazione e di “banalizzazione” (termine usato in Francia) della cosiddetta “unicità” del genocidio ebraico. Il lettore intenda bene. Qui non si ha a che fare con una giusta, legittima e sacrosanta reazione alle tesi “negazioniste”. Qui si intende affermare la tesi mistico-religiosa della cosiddetta Unicità e Imparagonabilità del genocidio ebraico. Si è dunque all’interno di quella costellazione ideologica che a suo tempo Domenico Losurdo definì “giudeocentrismo”, che in quanto tale non ha nulla a che fare con la giudeofilia né con la giudeofobia (termine da preferire a quello di antisemitismo, visto che anche gli arabi musulmani sono semiti). A chi giova questa follia? Non certamente alla memoria storica per le vittime innocenti. Certamente non alla prevenzione di crimini di questo tipo, prevenzione che sarebbe molto più facilitata dalla comparabilità e dall’analogia storica piuttosto che da una mistica unicità. E allora a chi giova?

2. Leggo che la parola “Shoah” in ebraico significa catastrofe, ed indica il genocidio degli ebrei ad opera dei nazisti. E’ preferito al termine “Olocausto” per le implicazioni religiose di quest’ultima parola. Nella lingua armena il termine corrispondente a Shoah, olocausto e genocidio è connotato come Metz Yeghern (Grande Male). Si può visitare il memoriale a Erevan, così come lo Yad Vashem in Israele. Nessun armeno si inquieterà se per caso il termine di genocidio non viene connotato come Metz Yeghern. Ciò che conta è che il genocidio armeno sia riconosciuto come tale, ma gli armeni non pretendono l’Unicità. Perché gli ebrei la pretendono?

3. Una risposta cerca di darla la giornalista ebrea israeliana Amira Hass (Cfr. “Internazionale” n. 582, marzo 2005). Scrive la Hass: “Non ho guardato alla televisione la cerimonia per l’inaugurazione del nuovo museo dell’Olocausto a Gerusalemme. Per quanto potesse essere commovente ascoltare testimonianze così simili a quelle dei miei genitori, ho preferito vedere un film. Non volevo assistere al modo in cui lo stato di Israele ha sfruttato la storia della mia famiglia e del mio popolo per una grande campagna di pubbliche relazioni … la morte di sei milioni di ebrei è la più grande risorsa diplomatica di Israele”. Non si poteva dire meglio. Esattamente come Amira Hass, quando cominciano alla televisione le cerimonie sulla Memoria cambio immediatamente canale, e spero che questa onesta ammissione non venga presa per una manifestazione di antisemitismo latente, inconscio, eccetera. Riconosco totalmente il “fatto” del genocidio ebraico. Riconosco le tesi storiografiche sulla distruzione dell’ebraismo europeo. Come molti della mia generazione, mi sono formato moralmente su “Se questo è un uomo” di Primo Levi. E’ quasi umiliante dover ribadire queste ovvietà. Non sopporto, e ho il diritto di non sopportarlo, la cerimonializzazione religiosa della legittimazione del sionismo fatta passare per rispetto della memoria storica. E tuttavia, l’impostazione di Amira Hass non mi convince del tutto. Possibile che tutto questo ambaradan sia rivolto solo a legittimare la costruzione di numerose colonie sioniste in Cisgiordania, la cacciata di contadini palestinesi e la distruzione dei loro ulivi? Non si spara con un cannone contro una mosca. Ci deve essere dell’altro. Vediamo cosa, ma prima apriamo due parentesi.

4. A fine Ottocento, la corrente filosofica chiamata “storicismo” stabilì la differenza fra discipline dette nomotetiche e discipline dette idiografiche. Le discipline nomotetiche (fisica, chimica, biologia, eccetera) stabiliscono “leggi” matematizzabili e sperimentabili, e quindi falsificabili, nei rapporti tra fenomeni. Le discipline idiografiche (storia, storiografia, eccetera) indagano il particolare storico irripetibile (in greco idion), per cui ogni avvenimento è unico e fa storia a sé. In questa sede non ci interessa discutere se e in che misura gli storicisti avessero ragione o torto contro i loro avversari positivisti e marxisti positivisti. Qui interessa solo ricordare che ogni fenomeno storico per principio è unico, e quindi idion. Anche il genocidio ebraico, come del resto quello armeno, è quindi unico, in quanto avvenuto con modalità uniche (ad esempio il carattere industriale delle deportazioni e l’accompagnamento ideologico razzista, eccetera). Ma non è questa l’unicità storiografica cui vanno in cerca Nora e Lanzmann, ed il loro schiavetto ideologico Battista. Per costoro Unico significa Superiore a qualunque altro, Imparagonabile, così come per i religiosi Mosè, Gesù e Maometto sono unici e imparagonabili. A chi giova?

5. A suo tempo, mi sono occupato analiticamente del genocidio degli armeni, che ho studiato con cura (Cfr. “Eurasia”, 3, 2009). Non ho qui lo spazio per motivarlo, ma assicuro il lettore che si tratta di un genocidio al 100%, qualunque siano le categorie e i parametri concettuali usati per definire il fenomeno. Il testo principale di riferimento è quello di Vahakn N. Dadrian, Storia del genocidio armeno, Guerini e Associati, 2003. Anche molti storici turchi concordano con la tesi del genocidio, fino a poco tempo fa ancora punita per legge in Turchia. Ebbene, c’è anche un testo di un certo Guenter Lewy (Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso) che con mille artifici sofistici estratti dalla storiografia turca (lingua che peraltro Lewy non conosce, come non conosce l’armeno – immaginiamoci uno storico americanista che non legge l’inglese!) nega in tutti i modi che ci sia stato un genocidio armeno, e parla solo di massacro o di serie di massacri. Che cosa succederebbe se uno storico europeo negasse il genocidio ebraico, e concedesse soltanto che ci sono stati una serie di massacri? Si griderebbe all’antisemitismo e si farebbe anche appello a leggi contro il negazionismo. Invece questo signore può scrivere quello che vuole ed essere pubblicato da Einaudi, semplicemente perché gli armeni non sono protetti dalla diffamazione. Si può andare avanti così? A mio avviso no. Vittime possono diventare a lungo termine gli ebrei stessi. La palese adozione di due pesi e due misure non può che ingenerare fastidio, irritazione, ed infine rivolta contro il Politicamente Corretto. Oggi il Politicamente Corretto dispone di un vantaggio basato sul silenziamento conformistico e totalitario di tutte le voci dissenzienti, ma questo non potrà durare per sempre. Ma arriviamo al cuore del problema.

6. Ho ricordato poco sopra che secondo ebrei onesti ed illuminati come Amira Hass o l’americano Norman Finkelstein, il genocidio ebraico è ideologicamente utilizzato per legittimare non solo il sionismo in sé (fu anche una tesi di Roger Garaudy, ingiustamente accusato di antisemitismo), ma anche la continua violazione del diritto internazionale (insediamenti in Cisgiordania, eccetera). Questo mi sembra ovvio, e può essere negato soltanto dal cinismo, dalla malafede e dalla disinformazione. E tuttavia, non sta ancora qui il cuore della tesi religiosa della Unicità Imparagonabile. Ci può aiutare il corsivista del Corriere della Sera Pierluigi Battista. Non dimentichiamoci che il Corriere della Sera, in piena continuità tra Ferruccio De Bortoli e Paolo Mieli, è stato all’origine della santificazione dell’anti-islamismo di Oriana Fallaci, fenomeno simile (anche se ovviamente non eguale, idion) alle campagne anti-ebraiche di Giovanni Preziosi degli anni Trenta in cui si scrisse che, anche ammesso che i Protocolli dei Savi di Sion fossero un falso commissionato dalla polizia zarista, questo non conta nulla, perché il contenuto resta vero! Scrive Battista, nel contesto della sua approvazione dello sdegno di Nora e Lanzmann: “Il rimpicciolimento simbolico di Auschwitz è l’esito doloroso e paradossale di un’Europa che dimentica facilmente l’orrore da cui è venuta”. Riflettiamo su questa frase assiro-babilonese, basata sulla concezione assiro-babilonese (e nazista) di responsabilità collettiva, lontanissima dalla concezione greca di responsabilità individuale (ogni persona ha infatti un’anima propria, psychè). Di quale Europa va cianciando Battista? Personalmente ho 68 anni, essendo nato nel 1943, e non mi considero assolutamente responsabile per l’orrore hitleriano e per altri orrori consimili. Io non vengo da nessun “orrore”, per usare il linguaggio ieratico di Battista. Ognuno è responsabile solo per le proprie azioni. Gli ultimi nazisti vivi sono novantenni. Solo chi è condannato all’ergastolo ha scritto: “Fine Pena, Mai”. Quando finirà l’espiazione per l’Europa? Settant’anni non sono sufficienti? I mongoli a Baghdad ottocento anni fa hanno passato a fil di spada mezzo milione di persone. Forse che sbarcando a Ulan Bator devo ricordarlo al doganiere facendogli abbassare il capo? Lo scopo di Battista è quello di inchiodare per sempre l’Europa al suo presunto “peccato originale”, in modo che venga punita in saecula saeculorum con le basi nucleari americane e con la perdita di ogni indipendenza politica e culturale. Fatto che con la memoria storica propriamente detta non ha nessun rapporto. Torino, 2 settembre 2011.

Costanzo Preve è un filosofo e saggista italiano, frequente contributore alla rivista “Eurasia”.

Il giorno della memoria non c’è per gli altri genocidi. Dagli armeni ai gulag, dai cambogiani a Rwanda e Srebrenica. Quanti massacri subiti dai cristiani che nessuno ricorda, scrive il 27 gennaio 2016 Marco Castoro. Il giorno della memoria è sacro. Serve a ricordare gli orrori dell’Olocausto e dei campi di concentramento. Un martirio di 6 milioni di ebrei. La pagina più brutta del Novecento. Una tragedia che non deve essere mai dimenticata. Ma quello subito dagli ebrei non è l’unico genocidio compiuto a danno di innocenti. Uomini, donne e bambini colpevoli solo di appartenere a una razza, a un’etnia o di essere dissidenti. Di Hitler nella storia ce ne sono stati diversi. Proviamo a dare un’occhiata solo all’ultimo secolo, tralasciando gli eccidi compiuti dagli Antichi Romani, dagli Egiziani, dagli Ottomani, dai grandi imperatori, dai barbari e dai conquistadores come Cortés nei confronti di indigeni, aztechi e indios in primis. Il secolo comincia con il genocidio del popolo armeno di fede cristiana. Deportazioni in massa, oltre un milione e mezzo di morti uccisi dai turchi, seppure Erdogan non abbia mai ammesso il massacro. Anzi ogni qualvolta che uno Stato ha provato a ricordarlo si è rischiato l’incidente diplomatico. I russi eliminati durante la dittatura comunista di Stalin sono stati 20 milioni. Il genocidio dei gulag. I cristiani hanno pagato a caro prezzo nel mondo la scelta di abbracciare la fede del Vangelo. Anche in Cina a inizio Novecento il tributo di vittime fu elevato durante la ribellione dei Boxer. Ma i cristiani uccisi in Senegal furono ancora di più. Quasi 2 milioni a causa del blocco imposto dal governo di Khartum all’arrivo degli aiuti umanitari destinati al Sudan meridionale. Sono stati i regimi dittatoriali a compiere stragi di interi popoli. Hitler e Stalin hanno avuto diversi emulatori. Tra purghe e lavori forzati si stimano almeno 48 milioni di cinesi caduti sotto il regime di Mao. Un milione i comunisti indonesiani eliminati sul finire a cavallo tra gli anni ’60 e ‘70. Tra il 1975 e il 1979 il regime di terrore voluto dai Khmer rossi di Pol Pot fu responsabile di un milione di cambogiani morti. L’America Latina ha un’alta percentuale di morti anche con i regimi del Novecento, non solo sotto i colpi dei conquistadores. Un milione i desaparecidos delle dittature militari a fine XX secolo. Negli ultimi anni non potremo mai scordare quanto accaduto in Rwanda, Burundi, Iraq e a Srebrenica. Guerre tra tribù indigene e i vergognosi eccidi criminali compiuti sugli iracheni da Saddam Hussein e dal generale serbo Ratko Mladic durante la guerra in Bosnia ed Erzegovina nei confronti dei musulmani bosniaci. Una data, l’11 luglio del 1995, che in pochi ricordano perché non c’è nessun giorno della memoria per questo eccidio. Come per tutti quelli che hanno visto il martirio dei cristiani.

GENOCIDIO DEL POPOLO MERIDIONALE ITALIANO. No al negazionismo per il genocidio del popolo meridionale, scrive Pietro su "Medioevo sociale" il 19 ottobre 2013. Se si fa una legge sul negazionismo (che io non condivido ma anzi avverso) chiedo che dovrà comprendere la tutela di porrajmos cioè dell'olocausto dei rom-sinti che non dovrà essere negata o sottovalutata. Non è accettabile la dottrina della cosiddetta unicità del Male Assoluto che riguarderebbe soltanto la Shoah. Il Male assoluto si è riversato sugli ebrei ma anche sui rom e su tantissimi altre persone. Inoltre chiedo che venga incluso l'eccidio che l'Esercito Italiano fece nel Sud Italia dal 1861. Perirono un milione di meridionali che, rapportato alla popolazione di oggi, è come se uccidessero tre milioni di persone. Nel grande genocidio della popolazione meridionale spicca il massacro di PonteLandolfo dove i Sabaudi uccisero 400 persone per rappresaglia. 40 bersaglieri erano stati uccisi in battaglia. Uno ogni dieci come alle Fosse Ardeatine. Hitler non si è inventato niente. Il lager di Fenestrelle con la scritta: Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce" che non è altro che l'anticipazione della scritta di Auschwitz: Arbeit macht frei (il lavoro rende liberi). A fenestrelle molti meridionali vi lasciarono la vita dopo inenarrabili sofferenze dissolti nella calce viva. Il nazismo è nato in Piemonte nella Casa Savoia...

11 maggio 1860: inizia lo sterminio del Popolo Duosiciliano. Non erano mille, erano 702, scrivono Salvatore Brosal e Duccio Mallamaci su "Onda Sud" l'11 maggio 2015. Violenti malfamati, protetti militarmente dagli Inglesi e finanziati dalla massoneria mondiale ebraica, che ancora oggi finanzia terroristi, tagliatori di teste e cannibali dell'Isis e di Al Qaeda! Quegli avventurieri di allora avevano a capo un Criminale di nome Giuseppe Garibaldi, ladro di cavalli, a cui avevano mozzato le orecchie in Argentina perché beccato in flagranza di reato. Un'orda barbarica, dunque, scese dal Piemonte. "Parlavano una strana lingua e bestemmiavano in continuazione! Donne stuprate, uomini e bambini uccisi e trucidati! Interi paesi bruciati e rasi al suolo! Ogni ricchezza venne saccheggiata..." i crimini commessi da detta legione straniera dei massonici ebraici rothschildiani avventurieri provenienti dal Piemonte, dalla Lombardia, ma anche dall'Inghilterra, Francia, Ungheria, Polonia, Stati Uniti, Canada e perfino Turchia, contro il popolo meridionale, sono INENARRABILI: e furono talmente EFFERATI che ancora oggi vengono taciuti. Altro che fratelli d'Italia!... Fisicamente e moralmente non siamo nemmeno parenti alla lontana con simili canaglie. Quante menzogne, quanti massacri... e quanto sangue e quante lacrime hanno versato i nostri padri, le nostre madri ed i nostri antenati, e quante ne stiamo ancora versando ancora oggi per questa "Italia" falsa, bugiarda e criminale, che è completamente all'opposto della vera nostra Italia. Tu che conosci la verità sei pregato di divulgarla, e di farla conoscere a tutti. Cerca le verità sepolte e riportale alla luce e falle rivivere nella mente e nel cuore tuo e di tutti i tuoi cari. Divulgale a chi le ignora. Il Regno delle due Sicilie era il terzo Stato più ricco ed avanzato al mondo. L'Unità massonica ebraica rothschildiana d'Italia distrusse la vera e migliore Italianità ed il buon rapporto fra tutti gli stessi Italiani di buona volontà. Prima dell'Unità da noi ci si cibava di Bellezza fra arte e cultura in quei palazzi, che erano i più belli d'Europa. Francesco II di Borbone profetizzò che non ci sarebbero rimasti neanche gli occhi per piangere. Francesco II di Borbone profetizzò che non ci sarebbero rimasti neanche gli occhi per piangere. Infatti è e sarà così con questa maledetta falsa Unità, da ora e per le generazioni a venire. Il Regno delle Due Sicilie e la Serenissima Repubblica di Venezia, distrutti nel 1861, insieme alla Sardegna. La Dalmazia e l'Istria distrutte alla fine del secondo conflitto mondiale, l'italianissima Corsica data in pasto alla ferocia degli aguzzini massonici ebraici rothschildiani francesi, Briga e Tenda e la Contea di Nizza cedute alla stessa Francia. L'isola di Malta assoggettata alla massoneria ebraica inglese. Tutto ciò dimostra che la classe dirigente massonica, ebraica rothschildiana, in Italia, come in Inghilterra, come in Francia e come in tutto il resto del mondo, allora come adesso e come sempre, ha seminato, semina e seminerà solo morte e desolazione. Fece, fa e farà sempre versare tanto sangue innocente per i suoi lerci e criminali interessi. A suo tempo, l'Invasione armata distruttrice, la conquista militare violenta e lo sfruttamento coloniale e schiavistico portarono al disastro ed allo sterminio la buona parte del Popolo Duosiciliano: Infatti, su quasi 7,5 milioni di abitanti di allora:

- Dal 1860 al 1875, quasi 50.000 giovani e forti, la meglio gioventù del Sud, militari del Regio Esercito del Regno delle Due Sicilie, furono sterminati non soltanto sui campi di battaglia, ma ancor più numerosi nei feroci campi di concentramento e sterminio come Fenestrelle, e tantissimi altri situati per lo più in Piemonte, ma sparsi anche per tutto il resto d'Italia!

- Inoltre, dal 1860 al 1980, nel giro di 20 anni, con la guerra al brigantaggio furono massacrati, passandoli per le armi e carcerandoli brutalmente più di 100.000 civili. Complessivamente furono sterminate 1,2 milioni di persone, a causa di fame, freddo, malattie e persecuzioni causate soprattutto con:

- La legge marziale, che spesso veniva proclamata per intere regioni, impediva alla gente di uscire anche solo per procurarsi da vivere e, o recarsi al lavoro fuori paese o anche solo fuori casa.

- La legge Pica, tirannica e sanguinaria, istigava ad uccidere anche per semplici sospetti, contadini, pastori, vecchi, donne e bambini, impedendo loro di recarsi liberamente a procurarsi da vivere lavorando nelle campagne o sulle montagne. Non si poteva più andare fuori casa portando armi, anche insignificanti, come coltelli da cucina per tagliare il pane, falci, tridenti ed altri arnesi simili da lavoro. Era vietato perfino portare con sé anche cibo. Chi veniva sorpreso con vivande al seguito, veniva fucilato senza processo, col pretesto che detto cibo fosse per i briganti. I boscaioli, ad esempio, non potevano usare neanche l'ascia per i loro soliti lavori.

- La coscrizione militare obbligatoria aveva sottratto, al sostentamento delle famiglie, i giovani che erano indispensabili per i lavori di ogni genere nei campi e nelle officine, costringendoli a 5 e 10 anni di ferma nelle caserme, tenendoli semincarcerati o impegnati sul terreno nella barbara guerra senza fine contro i propri conterranei che si erano dati al brigantaggio. Tanti e tanti giovani del Sud furono fatti morire a decine di migliaia nelle varie guerre irredentiste, imperialiste e coloniali in Italia e dappertutto nel resto del mondo.

- La criminale ed affamatrice "tassa sul macinato" aveva portato i prezzi delle granaglie e delle altre derrate alimentari più popolari, come il pane, a livelli proibitivi per la popolazione sempre più artificiosamente impoverita e ridotta in miseria ed alla fame vera e propria.

- Tutto l'oro e l'argento del Banco di Stato di Napoli e del Banco di Stato di Sicilia, per un valore di circa 450 milioni di ducati, fu confiscato, razziato senza rimborso, portato ed utilizzato solo per gli interessi dei boss massoni ebrei rothschildiani nel triangolo industriale di Torino, Milano-Genova, creato "ex novo" nel nord Italia, dove prima non c'era assolutamente nessunissima attività economica industriale avanzata.

- Le industrie di stato minerarie, estrattive, siderurgiche e militari di Mongiana, Ferdinandea e Bivongi, le industrie di stato meccaniche e ferroviarie di Pietrarsa, i cantieri navali statali di Castellammare di Stabia, furono chiuse, smontate, rubate, razziate, portate via per essere rimontate più a Nord, specie a Terni, La Spezia, Genova, Torino, Milano, Brescia e Bergamo sempre nell'interesse dei pochissimi che se ne erano impossessati con la prepotenza e l'inganno.

- I beni della chiesa che ammontavano allora a circa due terzi di tutti i beni immobili del paese, furono confiscati e svenduti ad una borghesia avida e senza scrupoli, che a differenza della chiesa stessa che si accontentava al massimo di piccole decime, sfruttava invece i contadini ed i pastori fino al midollo, senza neanche dar loro la possibilità di avere di che mangiare per sé e per la propria famiglia.

- La maggior parte del popolo, che lavorava la terra, da proprietario divenne colono e schiavo, proletarizzato dal nuovo dittatoriale Stato, che si chiamava Regno d'Italia, ma che era, ed è ancora adesso, il principale nemico del Popolo Italiano, in particolare del Popolo dell'Italia del Sud.

- In sostanza di fronte a tanta miseria, a tante morti, a tante persecuzioni ed odiose angherie, la scelta che il nuovo e tirannico Stato massonico ebraico rothschildiano, in accordo criminale con la massoneria ebraica rothschildiana globale, diede al Popolo Duosiciliano solo questa scelta: "Brigante!... o... Emigrante!"... per cui...

- Dal 1860 fino al 1875 andarono via dalla nostra terra 4 milioni di persone.

- Dal 1860 fino al 1914 ne andarono via 18 milioni.

- Dal 1860 fino ai nostri giorni ne sono andate via 36 milioni, e stanno continuando ad essere costrette, da politiche volutamente antipopolari, ad emigrare ancora adesso a centinaia di migliaia ogni anno. Si tenga presente che la popolazione meridionale attuale ammonta a 35 milioni in Italia, di cui una parte notevole vive anche al nord. In conclusione, questa particolare Unità d'Italia, voluta nell'esclusivo e fazioso interesse di una classe dirigente massonica, ebraica, rothschildiana, criminale, usuraia, estorsiva, razzista, assassina e nemica del Popolo Italiano in generale e del Popolo Italiano Meridionale in particolare, è stata un vero e proprio crimine contro l'umanità, tale e quale come l'attuale Unione Europea che, guarda caso, viene portata avanti a presente proprio dalle stesse identiche forze massoniche, ebraiche rothschildiane del 1860 e di quasi tutti i periodi successivi che arrivano fino ai nostri giorni, con gli stessi metodi diabolici e le stesse caratteristiche criminali di ieri, di oggi e di sempre. La lotta contro l'attuale dittatura e tirannia antipopolare massonica ebraica rothschildiana che adesso si spaccia per "europea", tale quale come una volta si spacciava per "italiana", è in realtà una lotta contro lo stesso nemico principale di sempre dei nostri antenati e di tutti i popoli d'Europa e del mondo intero, ad eccezione, ovviamente, dell'unico e solo "divino popolo eletto" del satanico Rothschild! Vi è quindi un'importantissima ed essenziale continuità di identità culturale, sociale, etnica e storica tra la classe dirigente che oppresse e sterminò i nostri padri ed i nostri antenati dal 1860 in poi e quella classe dirigente attuale, contro cui dobbiamo fare i conti ancora adesso proprio noi, perché anche a presente, essa di nuovo vuole opprimere e sterminare non solo noi stessi ma anche i nostri figli, nipoti e pronipoti per tenere il mondo tutto per sé e per la propria "divina eletta progenie". Questa cognizione, allora, della lotta senza tregua, che si è svolta e si svolge e si svolgerà sempre di generazione in generazione tra noi ed i nostri tradizionali talmudici e diabolici nemici principali di sempre, deve spingerci ad essere più preparati idealmente e materialmente per potere resistere e contrattaccare in maniera più adeguata contro il nemico principale di sempre, senza più commettere le ingenuità e gli errori dei nostri pur amatissimi padri ed antenati, onde potere finalmente vincere e ribaltare positivamente e completamente una volta per tutte, o per lo meno per un bel pezzo, la nostra situazione e quella del nostro popolo nel suo complesso. (Salvatore Brosal - Duccio Mallamaci)

I Savoia e il Massacro del Sud, di Antonio Ciano scrive Rocco Biondi il 21/09/2012. Al Piemonte non interessava per niente l’Unità d’Italia. Al Piemonte interessava la conquista delle ricchezze del Sud, delle sue riserve auree, delle sue fabbriche. Per avvalorare questa affermazione Ciano apre il suo libro con delle tabelle statistiche. Nel 1860, anno dell’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte, le monete di tutti gli Stati italiani ammontavano complessivamente a 668,4 milioni, dei quali ben 443,2 (66,31% del totale) appartenevano al Regno delle Due Sicilie; il Regno di Sardegna/Piemonte ne possedeva solo 27,0 milioni. Dal primo censimento del Regno d’Italia, tenutosi nel 1861, risulta che nelle province napoletane e siciliane la popolazione occupata nell’industria era 1.595.359, nell’agricoltura 3.133.261, nel commercio 272.556, mentre in Piemonte, Liguria e Sardegna (messi insieme) era rispettivamente di 376.955 (industria), 1.501.106 (agricoltura), 119.122 unità (commercio). La città più popolosa era Napoli con 447.065 abitanti, Torino di abitanti ne aveva 204.715, Roma 194.587. Nella Conferenza Internazionale di Parigi del 1856 fu assegnato al Regno delle Due Sicilie il premio di terzo paese del mondo, dopo l’Inghilterra e la Francia, per sviluppo industriale. Oggi – scrive Ciano nel suo libro – abbiamo due Italie, una del Nord ed una del Sud, una ricca ed una povera. Rispetto al 1860 si sono invertiti i ruoli. Il Nord ha rubato tutto al Sud, che fu invaso militarmente e colonizzato. Ora è tempo di cambiare. Il Sud ha bisogno di liberarsi del colonialismo instaurato dalla borghesia del Nord; ha bisogno di liberarsi del sistema fiscale impostogli dal Piemonte nell’Ottocento; ha bisogno della sua piena autonomia per far sprigionare la fantasia imprenditoriale dei suoi abitanti. Ma il Sud prima di separarsi dovrà chiedere al Nord il conto dei danni subiti, che sono tanti. Il libro di Ciano, scritto nel 1996, conserva ancora oggi la sua validità e la sua freschezza d’invettiva contro i soprusi compiuti dai Piemontesi per imporre con la forza agli abitanti del Sud una unità non voluta e non sentita. Il 1861 è un anno che ogni Meridionale deve ricordare, non per la pseudo unità imposta con la forza, ma perché quell’anno i Savoia iniziarono il massacro del Sud. Cannoni contro città indifese; baionette conficcate nelle carni di giovani, preti, contadini; donne violentate e sgozzate; vecchi e bambini trucidati. Case e chiese saccheggiate, monumenti abbattuti, libri bruciati, scuole chiuse. La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. Dal 1861 al 1871, scrive Ciano, un milione di contadini furono abbattuti; anche se i governi piemontesi su questo massacro non fornivano dati, perché nessuno doveva sapere. Il brigantaggio fu un grande movimento rivoluzionario e di massa, che lottò contro l’invasione piemontese. I briganti furono partigiani che difendevano la loro patria, la loro terra, il loro Re Borbone e la Chiesa cattolica. Dovevano essere annientati perché si opponevano alle mire colonialistiche dei piemontesi. Generali ed ufficiali piemontesi furono dei criminali di guerra, che praticarono lo sterminio di massa. I contadini dovevano essere fucilati; imprigionarli non era conveniente, perché, se in galera, lo Stato doveva provvedere al loro sostentamento. Il Sud sta pagando ancora lacrime e sangue. L’ultimo Re Francesco II, partendo da Gaeta il 14 febbraio 1861, disse: “Il Nord non lascerà ai meridionali neppure gli occhi per piangere”. Nel 1861 il Sud è stato invaso dalle truppe piemontesi, ed oggi, anche se in modo diverso, continua ancora ad essere invaso. Scrive Ciano: «Una volta i generali savoiardi fucilavano i nostri contadini, oggi, massacrano le nostre menti con le televisioni i cui proprietari sono i liberal massoni di ieri. Non è cambiato niente». E’ giunto il momento – scrive ancora Ciano – di dire basta e di chiamare a raccolta tutti i meridionali sensibili e orgogliosi. E’ il momento di compattarci, di rivalutare la nostra storia, di processare l’invasione piemontese del 1860-61, di processare coloro che fucilarono, imprigionarono, deportarono un milione di contadini del Sud etichettandoli briganti. Più amara della sconfitta è stata la falsa storia raccontata dai prezzolati sabaudi, scrive Lucio Barone nella prefazione del libro. Tutto ciò che apparteneva al Piemonte veniva glorificato e tutto ciò che era borbonico veniva additato al pubblico disprezzo. Ispiratrice e suggeritrice della politica italiana di quegli anni fu la massoneria inglese, che aveva come obiettivo la costituzione di un nuovo ordine mondiale che non prevedeva più la presenza della Chiesa cattolica. Per l’Italia questo compito fu assegnato al Piemonte e a casa Savoia. Alla massoneria, infatti, appartenevano i cosiddetti padri della patria che diedero vita alla cosiddetta unità d’Italia: Giuseppe Mazzini, Camillo Benso di Cavour, Giuseppe Garibaldi. “Nord ladro” è il titolo del capitolo che introduce la rassegna delle grandi opere industriali presenti nel Sud prima dell’unificazione al Piemonte. La Campania nel 1860 era la regione più industrializzata del mondo. Il Reale Opificio meccanico e politecnico di Pietrarsa, con i suoi mille operai specializzati, era il fiore all’occhiello dell’industria partenopea; lì si producevano, con tecnologie avanzate, treni e locomotive. In Castelnuovo operava la Real fonderia con 500 operai, a Torre Annunziata la Real Manufattura delle armi con 500 operai, a Castellamare il Cantiere Navale con 2.000 operai. A Mongiana in Calabria erano presenti le Ferriere, con 1.500 operai e stabilimenti a Pazzano e Bigonci; quattro altiforni producevano 21.000 quintali di ghisa. Sempre in Calabria, nello Stabilimento metalmeccanico di Cardinale, 200 operai specializzati producevano 2.000 quintali di ferro. Altri centri siderurgici e meccanici erano sorti a Fuscaldo (Calabria), Picinisco (Terra di Lavoro), Picciano (Abruzzo), Atripalda (Avellino). In Puglia, a Lecce, Foggia, Spinazzola, vi erano officine che producevano macchine agricole. Ma quasi in ogni paese del Sud nacquero piccole industrie, che costituirono il nerbo dell’economia del Regno delle Due Sicilie. Di notevole importanza erano le industrie per la lavorazione del cuoio e per la produzione di colori, della pasta alimentare, delle maioliche, di vetri, cristalli, cappelli, acidi, cera, corallo, metalli preziosi, stoviglie, saponi, mobili, strumenti musicali. Nel 1860 – scrive Ciano – i settentrionali scannarono il Sud. Oggi, che non c’è più niente da scannare, paghi chi non ha mai pagato, paghi il Nord che ha sempre rubato. Il Sud ha pagato un prezzo enorme alla causa unitaria: un milione di morti, tra fucilati, incarcerati, impazziti, deportati; 20 milioni di emigranti le cui rimesse sono state dilapidate dal Nord; tutti i risparmi dei Meridionali rapinati dal Nord. E i pennivendoli di regime continuano a scrivere libri di storia menzogneri, sperando di poter continuare a mettere un velo sull’intelligenza umana, di voler continuare a nascondere le miserie del Nord, gli eccidi perpetrati dagli invasori piemontesi, le prepotenze dei liberal massoni di ieri e di oggi; e soprattutto vogliono farci dimenticare che il Sud era ricco e che il Nord era pezzente. La parte centrale del libro è dedicata alla descrizione dei massacri operati dai piemontesi nei paesi di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi oggi in provincia di Benevento, distanti fra loro circa 5 chilometri. Nel 1861 il primo aveva 5 mila abitanti ed il secondo 3 mila; oggi il numero degli abitanti sia nell’uno che nell’altro paese è dimezzato. Come in un diario vengono annotati e commentati i tragici avvenimenti che portarono nell’agosto del 1861 alla distruzione dei due paesi. Per capire con quale spirito i piemontesi erano venuti nel Meridione, basta leggere il contenuto di un bando che un capitano dei bersaglieri piemontesi aveva fatto affiggere per le vie di un paese. Eccolo: «1) Chiunque tratterà o alloggerà briganti sarà fucilato. 2) Chiunque darà segno di tollerare o favorire il più piccolo tentativo di reazione sarà fucilato. 3) Chiunque verrà incontrato per le vie interne o per le campagne con provvigioni alimentari superiori ai propri bisogni, o con munizioni da fuoco per ingiustificato uso, sarà fucilato. 4) Chiunque, avendo notizie dei movimenti delle bande non sarà sollecito di avvisare il sottoscritto, verrà considerato nanutengolo o come tale fucilato». I piemontesi vennero ad imporre la loro inciviltà con i fucili. E i meridionali si opposero. Preferirono la macchia al nuovo padrone piemontese, preferirono gli stenti, i sacrifici, la morte. Pontelandolfo, Casalduni, Campolattaro insorsero, abbatterono le insegne savoiarde ed issarono nuovamente le bandiere borboniche. In quei giorni caldi di agosto, il Sud era quasi libero dal gioco piemontese. Le truppe sabaude venivano regolarmente battute dai partigiani-briganti. I popoli meridionali – scrive ancora Ciano – sono sempre stati civili, non hanno mai invaso territori altrui e sono diventati belve quando hanno visto insidiate le loro donne e la loro libertà. Il generale piemontese Cialdini, da Napoli, diede ordini precisi di stroncare col sangue qualsiasi accenno o fermento di ribellione. Una compagnia, composta da quaranta bersaglieri e quattro carabinieri, fu mandata a ristabilire l’ordine piemontese a Pontelandolfo. Anche per l’inesperienza del loro comandante Bracci, furono tutti fucilati. In un sommario processo furono giudicati colpevoli per aver invaso un regno pacifico senza dichiarazione di guerra e per aver fucilato migliaia di contadini e di giovani renitenti alla leva piemontese. Erano le 22,30 dell’11 agosto 1861. La rappresaglia piemontese scattò rabbiosa. Un generale piemontese sentenziò: «Per ogni soldato ucciso moriranno cento cafoni». Una prima colonna di piemontesi, composta da 900 bersaglieri, si diresse verso Pontelandolfo, un’altra colonna, composta da 400 uomini, si diresse verso Casalduni. Era l’alba del 14 agosto 1861. E cominciò la mattanza. Spararono contro vecchi, donne e bambini, sorpresi nel sonno. Diedero fuoco a tutte le case. I paesi divennero un immenso rogo. Uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla, saccheggi. Il massacro durò l’intera giornata. Non si è mai saputo quanti furono i morti di Pontelandolfo, di Casalduni e degli altri paesi vicini. Certamente furono migliaia. E così i piemontesi fecero l’unità d’Italia. Antonio Ciano, I Savoia e il Massacro del Sud, Grandmelò, Roma, 2a Ediz. Ottobre 1996, pp. 256.

Sapevate che da noi ci fu un genocidio? La tesi di Pino Aprile nel nuovo libro «Carnefici» Viaggio in un Risorgimento crudele e feroce tra idee e commenti, scrive Lino Patruno il 2 giugno 2016 su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ora la conferma: fu genocidio. Sappiamo cosa avvenne qualche anno fa, quando Pino Aprile lo scrisse per la prima volta nel suo libro bestseller Terroni sull’unità d’Italia. Una sollevazione della casta accademica che tentò di ridicolizzarlo perché addirittura parlò di metodi nazisti ai danni del Sud. Ma che dice, come osa. Ora non solo lo ripete. Non solo titola esplicitamente il suo nuovo libro Carnefici (Piemme, pag. 465, euro 19,50). Ma ci aggiunge tutte le prove. Aggiunge cioè quanto nessuno storico di professione si è finora degnato di cercare ma che c’era. E che getta una luce ancòra più cupa e inquietante su quel Risorgimento accompagnato da tante trombe ma da poca verità. Un lavoro improbo, come era prevedibile e come dimostrano le pagine sofferte anche per il lettore tra una mole immane di documenti. Perché non è che tu vai alla caccia di qualcosa di molto compromettente e indegno per i vincitori e lo trovi così. Fra archivi reticenti allora e più inaccessibili di Fort Knox ora. Fra manomissioni, cancellazioni, alterazioni, reticenze per camuffare quella che fu fatta passare per una liberazione del Sud quando fu invece una feroce occupazione militare. Con sprezzo di ogni rispetto dei diritti umani. E l’aggravante che avveniva non contro un nemico ma contro un popolo altrettanto formalmente italiano. Bisognava fare l’Italia, è vero. Ma per farla, secondo Aprile, l’odio e l’arbitrio andarono ben al di là di ogni raffronto tranne quello, appunto, del nazismo. Perché centinaia di migliaia di italiani del Sud furono fucilati, uccisi, incarcerati, deportati, torturati oltre che derubati. E le cifre dicono che non fu solo lotta al brigantaggio. Ma un metodo applicato sempre e ovunque. Una unità nata in un dolore che non risparmiò nessuna famiglia meridionale. Che è rimasto nella loro vita come un sottofondo che le segna ancòra oggi. E che svela un segreto terribile per un Paese che non ha voluto finora aprire la porta della sua stanza della vergogna. Dal 1765 alla sua caduta, nel Regno delle Due Sicilie la popolazione era sempre cresciuta. Negli ultimi cinquant’anni, di 50mila l’anno. In sei anni fra il 1862 e il 68, invece, i morti superarono i nati. Ma il dato più impressionante è che mancano all’appello di qualsiasi censimento e di qualsiasi conto incrociato non meno di 600mila persone (un milione secondo la rivista Civiltà cattolica): che fine hanno fatto? Una su dieci. Come se fossero scomparse le attuali città di Bari, Taranto e Brindisi. E, fatte le proporzioni, come se oggi sparissero dal Sud 2 milioni di abitanti. Non c’era ancòra in quegli anni l’emigrazione che fu l’unica alternativa alla miseria un paio di decenni dopo. Non erano morti di brigantaggio né di scontri militari conosciuti. Quei 600mila furono fatti sparire. Non può essere altro, scrive Aprile, che la somma di ciò che non si è mai saputo: arbitrarie stragi segrete, fucilazioni non registrate, finiti di stenti in carcere senza che se ne seppe più nulla, svaniti in campi di concentramento senza lasciare tracce, volatilizzati in sconosciuti luoghi di deportazione. O scomparsi per suicidi indotti dalla disperazione. Compresi quei 5mila militari all’anno dichiarati morti per misteriose cause indipendenti dal servizio, poco meno di tutti gli italiani vittime nelle guerre di indipendenza. E’ stato questo il prezzo della cosiddetta liberazione. Del «supremo bene» della nuova patria senza neanche il coraggio della verità. Desaparecidos come nelle più atroci dittature contemporanee. Ma senza una plaza nella quale le madri li potessero invocare. E senza una sanzione per i responsabili anzi onorificenze per il buon lavoro fatto. Un genocidio, insiste Aprile, se genocidio è lo sterminio di massa pianificato da uno Stato. Se genocidio è la cancellazione di una economia, di una cultura, di una gente e della sua colpa di appartenere a un gruppo nazionale diverso. Quando ci si poteva arrivare senza il «necessario dolore» se non fosse stata anche una non necessaria umiliazione di sangue e di disprezzo per i vinti. Ai quali poi si è inferta l’ulteriore condanna del silenzio. Così le tombe di chi vinse sono archi di trionfo. E per gli sconfitti neanche un ceppo di ricordo. Ma si può fare la pace soltanto facendo la pace con la storia, la vera storia, come ha scritto lo scrittore turco Hasan Cemal memore del negato sterminio degli armeni da parte del suo Paese. La pace fondata sulla giustizia che ancòra manca in Italia. Anche perché prima o poi la storia racconta. E se non è la storia, come dicevano i nostri vecchi, quando una cosa nessuno te la vuole dire, allora la terra si crepa, si apre. E parla. Un giorno, conclude Aprile, in uno o l’altro luogo del martirio, arriveranno migliaia di terroni, ognuno con una pietra o un fiore. E li lasceranno lì da soli, se gli italiani non volessero farlo insieme. E su ogni mattone, il nome di un paese distrutto, e ogni fiore per ogni giovane vita andata. Per diventare poi nomi di strade e piazze, per avere una data sul calendario. Unico modo per rifare davvero l’Italia, per riparare al «supremo sacrificio» con cui non fu fatta allora.

Il Sud è una colonia interna: 32 domande per chi non ci crede, scrive Francesco Pipitone il 15 settembre 2014 su "Vesuvio On line". Questo non è articolo, non è un testo tradizionale in cui cerco di spiegare la mia visione di uno o più fatti, un insieme di parole atte a dimostrare una tesi. Leggerete una serie di domande rivolte a chi non ci ascolta, a chi ci liquida come raccontatori di frottole, di nostalgici di un tempo che è andato e non c’è più, un tempo dove il Mezzogiorno d’Italia era indipendente ed era fautore della propria sorte. L’Unità d’Italia era un passo da compiere, o forse no, non è questa la cosa essenziale: essa è avvenuta, inutile pensare a quale sarebbe la situazione odierna senza le azioni militari nell’allora Regno delle Due Sicilie, tuttavia dopo oltre 150 anni è innegabile che un’identità nazionale non ci sia, che non ci sia un popolo italiano veramente unito. “Abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”, è questa una delle frasi dove si scorge maggiormente il supremo errore, quello di voler manipolare alcuni milioni di persone e renderli un corpo unico, quello di aver fatto una nazione senza i propri abitanti – dovevano essere gli italiani a fare l’Italia, non il sangue. A prescindere dalle trame della storia, dal 1861 ad oggi l’operato delle classi dirigenti italiane via via susseguitesi hanno fatto scelte che hanno portato alla prosperità di una parte della penisola a scapito dell’altra e, come da titolo, ecco 32 domande (ma sarebbero potute tranquillamente essere di più) per chi non crede che il Sud sia una colonia interna:

1) Qual è l’area più ricca del Paese?

2) Dove sono più aeroporti?

3) Dove sono più treni?

4) Dove arriva l’Alta Velocità?

5) Dove sono più autostrade?

6) Dove funzionano meglio i trasporti pubblici?

7) Dove sono più scuole?

8) Dove vengono offerti più servizi ai cittadini?

9) Dove si trovano più asili nido?

10) Dove c’è meno disoccupazione?

11) Il Sud ha i due terzi delle coste italiane, perché non vengono costruite infrastrutture?

12) Emigrano di più i Meridionali o i Settentrionali?

13) Sapevi che prima dell’Unità il Sud non aveva mai conosciuto l’emigrazione come fenomeno?

14) In quale parte del Paese c’è una migliore copertura ADSL?

15) Dove hanno sede legale le maggiori imprese italiane?

16) Lo sai che il 94% di quello che spendi va al Nord?

17) Lo sai che più del 90% dei fondi della cassa per il Mezzogiorno è stato dirottato alle grandi aziende del Nord?

18) Quando si parla del Sud in giornali e TG nazionali, quali sono i temi affrontati?

19) Lo sai che prima dell’Unità Napoli era principale città italiana?

20) Lo sai che Garibaldi si pentì di aver conquistato le Due Sicilie?

21) Lo sai che secondo dati ufficiali, Milano, Roma, Torino, Bologna e Firenze sono più pericolose di Napoli? In questa classifica Napoli è 36esima, le altre città elencate sono tra le prime sette posizioni.

22) Lo sai che al Nord, secondo dati ufficiali, vengono fatti più incidenti stradali? Perché al Sud si paga molto di più per l’assicurazione?

23) Lo sai che la spazzatura della Terra dei Fuochi proviene quasi tutta dal Nord?

24) Lo sai che la Pianura Padana è la zona più inquinata d’Europa? Perché i Media non ne parlano come per la Terra dei Fuochi?

25) Lo sai che in Basilicata c’è il petrolio, viene estratto, e l’unica cosa di cui “beneficiano” i Lucani sono inquinamento e tumori?

26) Lo sai che vogliono trivellare l’Irpinia nonostante sia una zona altamente sismica, oltre a essere un punto cruciale dove scorre l’acqua che arriva nelle case di milioni di persone che abitano tre regioni?

27) Lo sai che anche in Calabria sono stati sotterrati rifiuti, e il disastro potrebbe essere maggiore rispetto alla Terra dei Fuochi?

28) Lo sai che in Basilicata si sono verificati dodici incidenti nucleari, e sono stati riscontrati livelli di radioattività simili a quelli di Fukushima?

29) Lo sai che a Gela, in Sicilia, la percentuale di neonati nati con malformazioni è almeno sei volte superiore alla media nazionale? È una zona di raffinerie come tutta la Sicilia, ma, guarda un po’, la benzina costa più che al Nord.

30) Hai mai sentito i media nazionali parlare dell’Ilva di Taranto e del gruppo Riva? Se sì, quanto approfonditamente?

31) Perché lo Stato Italiano ha posto il segreto, negli anni Novanta, sul disastro nella Terra dei Fuochi?

32) Ti bastano queste domande a farti riflettere, o sei ancora convinto che dire che il Sud è una colonia interna non abbia fondamento alcuno?

I Bersaglieri in festa a Palermo. E le centinaia di palermitani scannati nel 1866? Scrive Ignazio Coppola su "I Nuovi Vespri" il 29 maggio 2016. Certo che le autorità cittadine di Palermo non hanno molta memoria storica. Hanno invitato i Bersaglieri a festeggiare in città – non si capisce bene che cosa – proprio nell’anno in cui noi ricordiamo i 150 anni della ‘Rivolta del Sette e mezzo’, quando le truppe dei Bersaglieri, al comando del generale Raffaele Cadorna, per conto dei Savoia, repressero nel sangue una giusta rivolta contro i predoni piemontesi che stavano affamando la Sicilia. Dei bersaglieri ricordiamo anche le stragi di Genova e, soprattutto, la strage di Pontelandolfo e Casalduni. Dal 23 al 29 Maggio Palermo – oggi è l’ultimo giorno di questa ‘festa’ – con il coinvolgimento delle istituzioni locali, sindaco in testa ed autorità militari, tra sfilate, manifestazioni, esibizioni di fanfare, annulli postali, inaugurazioni di monumenti commemorativi e corse a passo di carica che hanno assordato la città, si è svolto il 64° Raduno Nazionale dei bersaglieri. Si tratta quegli stessi bersaglieri eredi e discendenti di quei militari che, nel 1866, esattamente 150 anni fa, in occasione della "Rivolta del Sette e Mezzo" (una rivolta puntualmente ignorata dalla storiografia ufficiale), uccisero centinaia di palermitani per conto di casa Savoia! Insomma, un bel modo per ricordare, a Palermo, la "Rivolta del Sette e mezzo!". Le cronache raccontano che, nel reprimere la rivolta, i bersaglieri agli ordini del generale Raffaele Cadorna – che nel nome del re galantuomo mise in stato d’assedio Palermo – attraversando a passo di carica la città e, con le baionette innestate, misero a ferro e a fuoco la capitale della Sicilia, massacrando ed uccidendo centinaia e centinaia di rivoltosi e quanti capitavano loro a tiro. Del resto, i nostri “eroi” bersaglieri non si comportarono meglio – anzi si comportarono peggio – quando, ancor prima dei fatti di Palermo del 1866, nell’Aprile del 1849, agli ordini del generale Alfonso La Marmora, fondatore qualche anno prima del corpo, furono mandati dal re “galantuomo” a reprimere la rivolta di Genova che voleva rendersi indipendente dal Regno di Sardegna. In quell’occasione il corpo speciale dei bersaglieri fece di tutto e di più. “In quei drammatici giorni la soldataglia sabauda si abbandonò alle più meschine azioni contro la popolazione civile, violentando donne ed uccidendo padri di famiglia e fratelli che si opponevano allo scempio, sparando alle finestre alla gente che vi si affacciava e correndo per le strade al grido: Denari, denari o la vita, a cui fecero seguito irruzioni e predazioni. Neppure i luoghi sacri vennero risparmiati e le argenterie razziate; i prigionieri, anche quelli che si erano arresi, vennero uccisi o stipati in celle anguste e costretti addirittura a dissetarsi della propria urina. Così scriveva l’allora re di Sardegna, Vittorio Emanuele, per ringraziarlo, al comandante dei bersaglieri La Marmora: “Mio caro generale vi ho affidato l’affare di Genova perché siete un coraggioso. Non potevate fare di meglio”. I genovesi, che “i piemontesi non potevano fare di meglio”, se lo ricordarono e non dimenticarono per lungo tempo le barbarie, i saccheggi e le ruberie commesse dai fanti piumati a danno della loro città e avendo memoria di tutto questo fu per lungo tempo consuetudine che le famiglie genovesi non inviassero i figli a prestare servizio militare nei bersaglieri. Solo qualche anno fa i genovesi hanno consentito al corpo dei bersaglieri di potere mettere piede nella loro città. Ma quello che superò tutti in barbarie ed atrocità si verificò il 4 agosto del 1861, quando il generale Enrico Cialdini, sempre in nome del re galantuomo, si rese protagonista – insieme con il corpo speciale di Bersaglieri agli ordini del Maggiore Negri – della strage di Pontelandolfo e Casalduni, di due paesi della provincia di Benevento. Saprete certo quello che fecero i nazisti per rappresaglia nell’estate del 1944 a Marzabotto e Sant’anna di Stazzena definito dal mondo civile un crimine contro l’umanità. Ebbene, i bersaglieri di Cialdini a Pontelandolfo e Casalduni, per rappresaglia, fecero anche di peggio di quello che fecero i nazisti 83 anni dopo. I nazisti, in quel lontano Agosto del 1944, uccisero e massacrano gli abitanti di Marzabotto e di Sant’Anna lasciando però in piedi le abitazioni dei due paesi. I bersaglieri, a Pontelandolfo e Casalduni, dopo avere ucciso e massacrato tutti gli abitanti – uomini, vecchi, donne e bambini – non lasciarono alcuna abitazione in piedi bruciando tutte le case dei due paesi. Le chiese furono assaltate, le case furono dapprima saccheggiate per poi essere incendiate con le persone che ancora vi dormivano. In alcuni casi, i bersaglieri attesero che i civili uscissero delle loro abitazioni in fiamme per poter sparare loro non appena fossero stati allo scoperto. Gli uomini furono fucilati mentre le donne (nonostante l’ordine di risparmiarle) furono sottoposte a sevizie o addirittura vennero violentate appunto come avevano fatto 12 anni prima a Genova i bersaglieri di Alfonso La Marmora. “Ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora”. Così scriveva il maggiore Negri per rendicontare a Enrico Cialdini la conclusione dell’eccidio. E saranno poi i bersaglieri di Emilio Pallavicini a ferire sull’Aspromonte il “disubbidiente” Giuseppe Garibaldi nell’agosto del 1862 e a rendersi protagonisti, a loro volta, dell’eccidio di Fantina (un paesino della provincia di Messina) in cui furono trucidati senza pietà alcuni volontari in fuga dall’Aspromonte che avevano avuto la sventura di seguire il nizzardo. Non va dimenticata, in questo lungo corollario di orrori, la repressione della rivolta che va sotto il nome della “Rivolta dei Cutrara” effettuata a Castellammare del Golfo il 1 gennaio del 1862 dai bersaglieri del generale Quintino che, oltre a trucidare vecchi e donne, misero al muro e fucilarono una bambina di solo nove anni, Angelina Romano. E poi ancora che dire di un’altra strage dimenticata, compiuta dal corpo dei bersaglieri ad Auletta, un paese in provincia di Salerno, nel luglio del 1861, dove furono uccisi ed imprigionati centinaia e centinaia di cittadini. L’elenco delle stragi dimenticate in cui furono tristemente protagonisti i fanti piumati è molto lungo e potrebbe continuare. Per una maggiore e più puntuale informazione al riguardo vi rimando alla lettura del libro di recentissima pubblicazione di Pino Aprile che, nel descrivere e documentare gli eccidi che furono compiuti nel Sud del paese agli albori dell’Unità d’Italia e in cui i bersaglieri furono tristemente protagonisti primari, non poteva scegliere titolo migliore Carnefici – Ecco le prove. Ecco perché, alla luce di tutti questi eccidi e massacri perpetrati agli albori dell’Unità d’Italia e nel nome del re galantuomo, ai bersaglieri di oggi che ritualmente celebrano i loro i raduni, come in questi giorni a Palermo, mi sento di dare il mio sommesso consiglio: ossia quello di ritrovare la memoria dei crimini contro l’umanità commessi nel Sud e in Sicilia dai loro antesignani. Sarebbe a questo punto opportuno che, tra feste, celebrazioni, sfilate e commemorazioni trovassero pure il tempo di chiedere scusa per i tanti eccidi e crimini commessi in passato dal “glorioso” corpo dei bersaglieri. Iniziando a chiedere scusa alla città di Palermo che, come già ricordato, fu teatro, nel Settembre del 1866 della "Rivolta del sette e mezzo" dove furono commessi, al pari di altri paesi del Mezzogiorno, eccidi e massacri e dove in questi giorni di Maggio si svolge il 64° raduno dei Bersaglieri. Palermo aspetta ancora queste scuse.

Carnefici di Pino Aprile. Pino Aprile, giornalista, già vicedirettore di Oggi, e pugliese d’origine, ritorna ad un tema già affrontato in precedenza, quello del conflitto tra Nord e Sud. Con Carnefici, ritorna all’ultima pagina di Terroni in cui aveva spiegato ai lettori come centocinquant’anni non fossero stati sufficienti a risolvere il problema di un divario tra regioni del Nord e del Sud Italia. Ma se così è stato, è accaduto perché non si è voluto risolvere l’eterna questione meridionale: troppi interessi la caratterizzano da sempre. Le Due Germanie, pur divise da un muro, in vent’anni sono tornate ad essere una sola Germania. Perché in Italia questo non è accaduto? Partendo da questo grande interrogativo, Pino Aprile continua una fredda analisi della situazione. Carnefici è un’analisi di una sorta di rapporto di dipendenza che si è creato tra Nord e Sud, rendendo il meridione assolutamente succube del settentrione. Si diventa dipendenti dei propri carnefici e così è accaduto ad una parte d’Italia che non può far altro che fare la parte della vittima, mentre il Nord si diverte a prendere il ruolo di chi comanda, di chi lavora meglio e in modo più efficace. La verità non è questa, sono solo maschere che ci si abitua a portare. Questo ce lo ricorda Pino Aprile in Carnefici.

«Io so. So tutti i nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove». È il cuore di un celeberrimo atto d’accusa di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul Corriere della Sera. Anche Pino Aprile sa. Sa tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero “meridionali”. Lo ha appreso con stupore e sgomento, e lo ha raccontato in un libro spartiacque, Terroni, che ha aperto una breccia irreparabile sulla facciata del trionfalismo nazionalistico. Se mancavano ancora prove, ora le ha trovate tutte, al termine di un’incalzante e drammatica ricerca durata cinque anni. E sono le prove di un genocidio. Perché è questo l’ordine di grandezza che emerge dall’incrocio dei risultati dei censimenti disposti dai Savoia (nel 1861 e nel 1871) e dei dati delle anagrafi borboniche: un genocidio. Centinaia di migliaia di persone scomparse è la cifra della strage di italiani del Sud compiuta per unificare l’Italia. Si scopre, così, di come venivano rasi al suolo paesi interi, saccheggiate le case, bruciati vivi i superstiti. Si apprende come avvenivano i rastrellamenti degli abitanti di interi villaggi, e li si sottoponeva a marce forzate di decine di chilometri, e a torture. Ci si imbatte in fucilazioni a tappeto di centinaia di persone. L’Italia “liberata” è stata nella realtà dei fatti un immenso Arcipelago Gulag, di cui ora si può ricostruire la mappa e l’organizzazione: deportazioni, campi di concentramento, epidemie. Sono atrocità degne della ferocia dell’Isis. Per molto meno, sono stati processati e condannati ufficiali e gerarchi nazisti. Ma in Italia, invece, agli autori di quei crimini di guerra sono andate medaglie, promozioni e, talvolta, piazze e strade dedicate in quegli stessi paesi che insanguinarono. Monumenti ai carnefici. Con pagine di rara potenza, appassionate e documentate, forte di reperti e fonti che per troppo tempo sono stati celati, Pino Aprile svela il vero volto di molti dei presunti eroi della storia Patria, ed evidenzia le ripercussioni di questa tragedia negata e cancellata. È questa la sua opera fondamentale, la più sconvolgente e ambiziosa. Quella dopo la quale davvero non si potrà più dire: io non sapevo. "Io so. So tutti i nomi e so tutti i fatti di cui si sono resi colpevoli. Io so. Ma non ho le prove". È il cuore di un celeberrimo atto d'accusa di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul "Corriere della Sera". Anche Pino Aprile sa. Sa tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero "meridionali". Lo ha appreso con stupore e sgomento, e lo ha raccontato in un libro spartiacque, "Terroni", che ha aperto una breccia irreparabile sulla facciata del trionfalismo nazionalistico. Se mancavano ancora prove, ora le ha trovate tutte, al termine di un'incalzante e drammatica ricerca durata cinque anni. E sono le prove di un genocidio. Perché è questo l'ordine di grandezza che emerge dall'incrocio dei risultati dei censimenti disposti dai Savoia (nel 1861 e nel 1871) e dei dati delle anagrafi borboniche: un genocidio. Centinaia di migliaia di persone scomparse è la cifra della strage di italiani del Sud compiuta per unificare l'Italia. Si scopre, così, di come venivano rasi al suolo paesi interi, saccheggiate le case, bruciati vivi i superstiti. Si apprende come avvenivano i rastrellamenti degli abitanti di interi villaggi, e li si sottoponeva a marce forzate di decine di chilometri, e a torture. Ci si imbatte in fucilazioni a tappeto di centinaia di persone. L'Italia "liberata" è stata nella realtà dei fatti un immenso Arcipelago Gulag, di cui ora si può ricostruire la mappa e l'organizzazione: deportazioni, campi di concentramento, epidemie.

“Carnefici”: l’indicibile genocidio dei meridionali. Il nuovo libro di Pino Aprile, scrive Raffaele Vescera il 7 maggio 2016.  Se le parole sono pietre, il termine genocidio è un macigno. Pesante da scagliare per chi lo lancia, difficile da digerire per chi lo riceve. Ancora più greve se la parola genocidio, come fa Pino Aprile nel suo nuovo libro “Carnefici”, viene usata per definire l’annessione violenta del Regno delle Due Sicilie al Piemonte. Annessione, tale è stata, non unità, visto che gli stessi re sabaudi, conquistando il Sud con inenarrabili atrocità, si vantavano di aver allargato il Regno del Piemonte, piuttosto che aver fatto l’Italia. Allora, se di macigno si tratta, proviamo a dargli una misura, un peso: che cos’è un genocidio, e quando è consentito l’uso di questa parola? Perché lo sterminio degli Ebrei è stato immediatamente definito come un genocidio nella stessa Germania che l’ha compiuto, mentre quello degli Armeni, a distanza di un secolo, è ancora negato dallo Stato turco, che processa chi ne parla? La storia, com’è noto, la scrivono i vincitori, se in Europa avesse vinto la follia di Hitler, lo sterminio di sei milioni di esseri umani, sarebbe stato sminuito, negato e rimosso dalla storiografia ufficiale, e i partigiani sarebbero ancora oggi chiamati “banditen”, come i resistenti all’occupazione del Sud, prima ai francesi e poi ai piemontesi, sono chiamati briganti, lazzari, sanfedisti, straccioni. Hitler ha perso, e per gli ebrei c’è giustizia storica. Gli Armeni hanno perso, e per il milione di Armeni sterminati in Turchia, non c’è verità. Pino Aprile c’informa che la definizione di “genocidio” si deve all’avvocato polacco Raphael Lemkin, la cui famiglia fu coinvolta nell’Olocausto, dai nazisti: si intende per genocidio un «piano coordinato di azioni differenti che hanno come obiettivo la distruzione dei fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali attraverso la distruzione delle istituzioni politiche e sociali, dell’economia, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali o della religione, della libertà, della dignità, della salute e perfino della vita degli individui non per motivazioni individuali ma in quanto membri di un gruppo nazionale». Il Mezzogiorno d’Italia in seguito all’occupazione violenta dell’esercito piemontese, subì tutto questo? Lo stesso Antonio Gramsci, un secolo fa, scrisse: “Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d’infamare col marchio di briganti.” Tuttavia, nonostante le significative dichiarazioni di alcuni tra i maggiori uomini di cultura, di ieri e di oggi, quali Paolo Mieli e altri, la storiografia ufficiale, gestita dai baroni universitari di scuola liberal-massonica, negano, seppure al loro interno molte crepe si siano aperte. La loro critica al cosiddetto revisionismo del Risorgimento, nel migliore dei casi, è quella dell’insufficienza di prove documentali sull’enorme numero dei morti di parte meridionale, da noi quantificato in centinaia di migliaia, nei peggiori dei casi parlano di “pura invenzione”, poiché, pur ammettendo un piccolo numero di morti in campo meridionale, le atrocità sarebbero state commesse da parte dei briganti, piuttosto che da quella piemontese. Come mettere sullo stesso piano chi difende la propria terra e un invasore straniero? Analizziamo le condizioni del genocidio definite da Lemkim. Il libero Stato delle Due Sicilie fu privato delle sue istituzioni politiche e sociali, sostituite non da nuove ma da quelle già in uso in Piemonte, lo stesso accadde per la sua economia, fu distrutto il tessuto industriale e mercantile del Mezzogiorno per favorire la crescita di quella del Nord. Altresì distrutta la cultura e la dignità dei Meridionali, che pur appartenendo ad un popolo faro di civiltà da tre millenni, si videro bollati dai conquistatori come selvaggi e incivili, letteralmente “peggio degli affricani”, con due effe, come gentilmente ci descrivevano gli arroganti e vieppiù incolti ufficiali piemontesi nei loro grossolani rapporti, e come tuttora siamo classificati con epiteti insultanti. Stesso disprezzo ha subito la nostra lingua e il nostro sentimento di appartenenza ad uno Stato, quello del Regno di Napoli, in auge da sette secoli, dagli svevi di Federico II alla dinastia dei Borbone, riconosciuto nel mondo come civilissimo, tenendo conto dei canoni del tempo, si capisce. Tutto questo è stato ampiamente indagato e dimostrato mediante vasta documentazione da storici ed economisti, lo stesso Pino Aprile ce ne dà conto nel suo best seller Terroni, un saggio che, nelle sue sconvolgenti rivelazioni sulle atrocità compiute dall’esercito piemontese in dieci anni di guerra di conquista del Sud, mascherata da guerra al brigantaggio, ha cambiato la stessa percezione identitaria dei Meridionali, favorendo un processo di autostima. Ma tutto ciò viene giustificato dai risorgimentalisti come il prezzo da pagare al “progresso” al nuovo mondo che avanzava. Chissà se la raccontano allo stesso modo agli indiani d’America sopravvissuti allo sterminio operato dai nostri “civilissimi” bianchi. Manca però l’ultimo passo, quello decisivo per giustificare l’uso della definizione genocidio, ovvero quello della privazione della salute e della vita degli individui, non in quanto colpevoli di qualcosa, ma perché appartenenti ad un gruppo nazionale. Al di là dei singoli episodi di atrocità compiuti contro i cosiddetti briganti e contro l’inerme popolazione, va dunque dimostrato che da parte sabauda vi fu un piano preordinato di sterminio. Il nuovo saggio di Pino Aprile “Carnefici” colma la lacuna con una poderosa mole documentale, rintracciata attraverso minuziose ricerche archivistiche, sui singoli episodi di sterminio ma soprattutto sugli scompensi demografici, risultanti dalla comparazione dei censimenti di prima e dopo l’unità d’Italia. Su una popolazione di poco più di sette milioni di persone, a distanza di pochi anni mancava all’appello quasi mezzo milione di abitanti, in tempi in cui nessuno emigrava dal Sud, cui va aggiunta la mancata crescita demografica, in una terra la cui popolazione cresceva regolarmente da sempre. Con i “nati mancati” Il numero dei “desaparecidos” sale a circa il dieci per cento della popolazione meridionale. E’ come se di colpo oggi sparissero dal Sud due milioni di abitanti. La seconda volta che vi fu decrescita della popolazione al Sud accadde a causa della prima guerra mondiale, combattuta più di tutto dai meridionali usati come carne da macello, combinata con l’epidemia spagnola. La terza volta è oggi, in virtù dell’avanzato stato di impoverimento e disoccupazione del Mezzogiorno. Certo, se si sommano i morti delle fucilazioni immediate “sul campo” ai paesi distrutti per rappresaglia con lo sterminio dei loro abitanti, anche donne, bambini e anziani, alla carcerazione di un numero enorme di uomini, detenuti senza accusa e senza processo e lasciati morire di stenti e malattie nelle patrie galere, come lo stesso Crispi dovette ammettere, e alle deportazioni dei militari dell’esercito borbonico, per i quali, riempiti i lager subalpini come Fenestrelle, si cercava “una landa desolata in Patagonia”, i conti dello sterminio tornano. Non ci fu famiglia meridionale che non fu coinvolta dal massacro, anche quella mia, e quella vostra. Senza contare i milioni di uomini successivamente emigrati nelle Americhe per sfuggire alla miseria e alle vessazioni provocate dal nuovo Stato italiano. Il nuovo lavoro di Pino Aprile, di 468 pagine, edito da Piemme, è dunque un libro “necessario” affinché nessuno possa più negare o possa dire “io non sapevo”. Fu genocidio, ora ci sono le prove, e tanto basti affinché il popolo meridionale presenti il conto dei misfatti allo Stato italiano. I morti non si possono certo restituire alla vita, ma la loro dignità sì. C’è un solo modo per farlo: lo stato italiano riconosca il genocidio e chieda scusa ai Meridionali, come lo stato americano ha fatto con i suoi abitanti originari. Senza verità non ci può essere Unità, un paese civile non si può fondare sulla menzogna. Si cambino i testi scolastici e si formino i giovani sul rispetto della Storia e dei loro padri.

Giuseppe Garibaldi, mercenario dei due mondi. Scritto da Alessandro Lattanzio, il 24/6/2011 su “Aurora”. Per mettere un pietra tombale sul mito di Garibaldi. I festeggiamenti per il 200° anniversario della nascita di Giuseppe Garibaldi, e per il 150° anniversario dallo sbarco a Marsala e dalla proclamazione della cosiddetta Unità d’Italia, pur con tutto lo stantio corteo di corifei e apologeti, non hanno suscitato dibattiti né analisi sul processo di unificazione dell’Italia. Questi eventi non sono diventati occasione per affrontare i nodi della storia italiana, o meglio italiane. Niente di niente. Neanche gli atenei o le accademie, né ricercatori e né docenti, hanno avuto il coraggio di affrontare, in modo serio e complessivo, la natura del processo storico italiano che va dall’Unità ad oggi. Anzi, il General Intellect italiano, a ennesima dimostrazione della sua subalternità e del suo provincialismo, ha solo prodotto qualche raccolta di ‘memorie’ dei garibaldini, veri o presunti poco importa, spacciandola come lavoro storico e di analisi storica. Nulla di più falso, poiché ogni vero storico sa che la memorialistica è altamente inaffidabile; e l’Italia è la patria delle ‘memorie’ scritte per secondi fini politico-personalistici. Inoltre, voler costruire la storia patria raccogliendo le memorie di una parte sola, che ha una memoria… appunto parziale, ha più il sapore dell’opera di indottrinamento e della retorica, piuttosto che della onesta e disinteressata ricerca storica. Capisco che in questi anni di disfacimento nazionale, di contestazione dell’Italia quale nazione unica, e dell’italianità quale sentimento patriottico, alcuni settori ideologicamente e strumentalmente legati al cosiddetto risorgimento sentano il bisogno di ravvivare un patriottismo nazionale che almeno salvaguardi la concezione, attualmente propagandata nelle scuole e nei media, che si ha della storia italiana. Soprattutto proprio quella riguardante il periodo della costituzione della sua statualità unitaria. Ma il fatto è che, con il riproporsi di schemi patriottardi e di affabulazioni devianti, non si renda proprio un buon servizio neanche alla storia dell’Italia. La figura di Giuseppe Garibaldi, in tal caso, è centrale; non in quanto super-uomo o eroe di uno o più mondi. Ma in quanto strumento di forze superiori, ma non sto parlando della Storia con la S maiuscola, ma più prosaicamente di mercati, risorse, capitali, commerci, banche e finanza, ecc. Insomma, delle regole e dinamiche dettate dai rapporti di forza tra potenze coloniali, tra i nascenti imperialismi, l’equilibrio tra potenze regionali e mondiali. E in questo contesto deve essere inserita, appunto, la figura di Garibaldi. Lasciamo agli affabulatori e agli annebbianti i raccontini sull'eroe dei due mondi e sul Cincinnato di Caprera. Partiamo, quindi, dall’analizzare il ruolo e la posizione dell’obiettivo principe della più notoria spedizione dell’avventuriero nizzardo: la Sicilia. La Sicilia, granaio e giardino del Regno di Napoli (o delle Due Sicilie), oltre ad avere una economia agricola abbastanza sviluppata, almeno nella sua parte orientale, ovvero una agrumicoltura sostenuta e avanzata, necessaria ad affrontare il mercato internazionale, sbocco principale di tale tipo di coltura; possedeva una forte marineria, assieme a quella di Napoli, tanto da essere stata una nave siciliana la prima ad inaugurare una linea diretta con New York e gli Stati Uniti d’America. Marineria avanzata per sostenere una avanzata produzione agrumicola destinata al commercio estero, come si è appena detto. Capitalismo, altro che gramsciana arretratezza feudale. Ma il fiore all’occhiello dell’economia siciliana era rappresentata da una risorsa strategica, all’epoca, ovvero lo zolfo. Lo zolfo e i prodotti solfiferi, erano estremamente necessari per il nascente processo di industrializzazione. Lo zolfo veniva utilizzato per la produzione di sostanze chimiche, come conservanti, esplosivi, fertilizzanti, insetticidi; oltre che per produrre beni di uso quotidiano, come i fiammiferi. Era insomma il lubrificante del motore dell’imperialismo, soprattutto di quello inglese. Con la rivoluzione nella tecnologia navale, ovvero la nascita della corazzata, e la diffusione delle ferrovie in Europa, e non solo, ne fanno montare la domanda e, quindi, la necessità di sempre maggiori quantità di acciaio, ferro e ghisa. Perciò, i processi produttivi connessi richiedono sempre più ampie quantità di zolfo; cosi come la richiedono l’economia moderna tutta, industriale e commerciale. Tipo quella dell’Impero Britannico. La Sicilia, alla luce dei mutamenti epocali che si vivevano alla metà dell’800, diventa un importante obiettivo strategico, un asset geo-politicamente e geo-economicamente cruciale. Difatti l’Isola possedeva 400 miniere di zolfo che, all’epoca, coprivano circa il 90% della produzione mondiale di zolfo e prodotti affini. Come poteva, l’Isola, essere ignorata dai centri strategici dell’Impero di Sua Maestà? Come potevano l’Ammiragliato e la City trascurare la posizione della Sicilia, al centro geografico del Mediterraneo, proprio mentre si stava lavorando per realizzare il Canale di Suez? La nuova via sarebbe divenuta l’arteria principale dei traffici commerciali e marittimi dell’Impero Britannico. Come potevano ignorare tutto ciò i Premier e i Lord, gli imperialisti conservatori e gli imperialisti liberali, i massoni e i missionari d’Albione? Come? E come potevano dimenticare che, all’epoca, il Regno di Napoli e le marinerie di Sicilia e della Campania, marinerie mediterranee, fossero dei temibili concorrenti per la flotta commerciale inglese? Come potevano? Il General Intellect dell’imperialismo inglese, il maggiore dell’epoca, non poteva certo ignorare e trascurare simili fattori strategici. Loro no. Semmai a ignorarlo è stato tutto il circo italidiota dei cantori del Peppino longochiomato e barbuto. Tutti i raccoglitori di cimeli garibaldineschi, più o meno genuini, non hanno mai avuto il cervello (il cervello appunto!) di capire e studiare questi trascurabili elementi. La Sicilia è terra di schiavi e di africani, barbara e senza storia, non vale certo un libro che ne spieghi anche solo il valore materiale. Così vuole la vulgata dei nostrani storici accademici; o di certe ‘storiche’ contemporanee venete che, invece delle vicende dell’assolata terra triangolata, preferiscono dedicarsi alle memorie della masnada di mercenari vestiti delle rosse divise destinate, non a caso, agli operai del mattatoio di Montevideo. Tralasciando la biografia e gli interessi dei fratelli Rubattino, che attuarono quella vera e propria False Flag Operation detta Spedizione dei Mille, giova ricordare che Garibaldi, dopo la riuscita missione (covert operation), venne accolto presso la Loggia Alma Mater di Londra. Vi fu una festa pubblica, di massa, che lo accolse a Londra e lo accompagnò fino alla sede centrale della massoneria anglo-scozzese. La più grande pagliacciata a cui abbia mai assistito scrisse un testimone diretto dell’evento. Un tal Karl Marx. Giuseppe Garibaldi venne scelto da Londra, poiché si era già reso utile alla causa dell’impero britannico. In America Latina, quando gli inglesi, tramite l’Uruguay, favorirono la secessione della provincia brasiliana di Rio Grande do Sul dall’impero brasiliano, alimentandola guerra civile in Brasile, Garibaldi venne assoldato per svolgere il ruolo di raider, ovvero incursore nelle retrovie dell’esercito brasiliano. Il suo compito fu di sconvolgere l’economia dei territori nemici devastando i villaggi, bruciando i raccolti e razziando il bestiame. Morti e mutilati tra donne e bambini abbondarono, sotto i colpi dei fucili e dei machete dei suoi uomini. Durante quelle azioni, Garibaldi ebbe la guida delle forze navali riogradensi. “Il 14 luglio 1838, al comando della sua nave, la Farroupilha, affrontò la navigazione sull’Oceano Atlantico, ma a causa del mare in tempesta e dell’eccessivo carico a bordo, la Farroupilha si rovesciò. Annegarono sedici dei trenta componenti dell’equipaggio, tra cui gli amici Mutru e Carniglia; il nizzardo fu l’unico italiano superstite.” Dimostrando, così, il suo vero valore sia come comandante militare, che come comandante di nave. Per la sua inettitudine e crudeltà, tanti di coloro che lo circondavano morirono per causa sua. Il compito svolto da Garibaldi rientrava nella politica di intervento coloniale inglese nel continente Latinoamericano; la nascita della repubblica-fantoccio del Rio Grande do Sul, rientrava nel processo di controllo e consolidamento del flusso commerciale e finanziario di Londra verso e da il bacino del Rio de la Plata; la regione economicamente più interessante per la City. Escludere l’impero brasiliano dalla regione era una carta strategica da giocare, perciò Londra, tramite anche Garibaldi, al soldo dell’Uruguay, provocò la guerra civile brasiliana. La borghesia compradora di Montevideo era legata da mille vincoli con l’impero inglese. Ivi Garibaldi svolse sufficientemente bene il suo compito. Divenne un bravo comandante militare, sia grazie ai consigli di un carbonaro suo sodale, tale Anzaldo, e sia perché si trovò di fronte i battaglioni brasiliani costituiti, per lo più, da schiavi neri armati di picche. Facile averne ragione, se si disponeva della potenza di fuoco necessaria, che fu graziosamente concessa dalla regina Vittoria. Ma alla fine la guerra fu persa, e nel 1842 Garibaldi si rifugiò in Uruguay, dove ottenne il comando della insignificante flotta locale. “Il diplomatico inglese William Gore Ouseley lo assolda assieme ad altri marinai per fare razzie e impedire i traffici marini degli stati latinoamericani. Erano tutti vestiti con camicie rosse.”  Tentò di pubblicare il Legionario Italiano, ma la sua distribuzione venne vietata in Uruguay: si era attirato l’odio della popolazione locale; per i continui massacri di inermi cittadini veniva visto come il demonio. E’ grazie agli articoli di quel giornale, da lui stesso pubblicato, che nacque la leggenda dell’Eroe dei due mondi. Tra l’altro, l'anticlericale Garibaldi, nel 1847 scrisse al cardinal Gaetano Bedini, nunzio in Brasile, per “offrire a Sua Santità (Pio IX) la sua spada e la legione italiana per la patria e per la Chiesa cattolica” ricordando “i precetti della nostra augusta religione, sempre nuovi e sempre immortali” pur sapendo che “il trono di Pietro riposa sopra tali fondamenti che non abbisognano di aiuto, perché le forze umane non possono scuoterli”. La sua proposta di mettersi al soldo del cupolone venne respinta. Qualche anno dopo, l’eroe dei due mondi venne richiamato a Londra, distogliendolo dal suo ameno lavoro: il trasporto di coolies cinesi, ovvero operai non salariati, da Hong Kong alla California. La carne cinese era richiesta dal capitale statunitense per costruire, a buon prezzo, le ferrovie della West Coast. Garibaldi si prodigava nel fornire l’‘emancipazione’ semischiavista agli infelici cinesi, in cambio di congrua remunerazione dai suoi presunti ammiratori yankees. Coloro che richiesero l’intervento di Garibaldi, in Sicilia, effettivamente furono due siciliani, Francesco Crispi e Giuseppe La Farina. Crispi venne inviato a Londra, presso i suoi fratelli di loggia, per dare l’allarme al gran capitale inglese: Napoli stava trattando con una azienda francese per avviare un programma per meccanizzare, almeno in parte, le miniere e la produzione dello zolfo. Il progettato processo di modernizzazione della produzione mineraria siciliana, avrebbe alleviato il popolo siciliano dalla piaga del lavoro minorile semischiavistico delle miniere di zolfo. Ma i baroni proprietari delle miniere, stante l’alto margine di profitto ricavato dal lavoro non retribuito, e timorosi che l’interventismo economico della ‘arretrata amministrazione borbonica’, potesse sottrarre loro il controllo dell’oro rosso, decisero di chiedere l’intervento britannico, allarmando Londra sul destino delle miniere di zolfo. Non fosse mai che lo stolto Luigi Napoleone potesse controllare il 90% di una materia prima necessaria alle macchine e alle fornaci del capitale imperiale inglese. Tutto ciò portò alla chiamata alle armi del loro eroe dei due mondi. E i ‘carusi’ delle miniere solfifere devono ringraziare Garibaldi, e i suoi amici anglo-piemontesi, se la loro condizione semischiavista si è protratta fino agli anni ’50 del secolo scorso. Le due navi della Rubattino, della Spedizione dei Mille, arrivarono a Marsala l’11 maggio 1860. Ad attenderli non vi erano unità della marina napoletana o una compagnia del corpo d’armata borbonico, forte di 10000 uomini, stanziata in Sicilia e comandata dal Generale Landi. In compenso era presente una squadra della Royal Navy, la Argus e l‘Intrepid, posta nella rada di Marsala, a vigilare affinché tutto andasse come previsto. I 1089 garibaldini, di cui almeno 19 inglesi. In realtà, erano solo l’avanguardia del vero corpo d’invasione; tra giugno e agosto, infatti, sbarcò in Sicilia un’armata anglo-piemontese di 21000 soldati, per lo più mercenari anglo-franco-piemontesi, che attuarono, già allora, la tattica di eliminare qualsiasi segno di riconoscimento delle proprie forze armate. Il corpo era costituito, in maggioranza, da carabinieri e soldati piemontesi, momentaneamente posti in congedo o disertori riarruolati come volontari nella missione d’invasione, e anche da qualche migliaio di ex zuavi francesi, che avevano appena esportato la civiltà nei villaggi dell’Algeria e sui monti della Kabilya. Anche nei pressi di Pachino, sbarcò un piccolo corpo di spedizione garibaldino, costituito da 150 uomini, che trasportavano in Sicilia i quattro cannoni acquistati a Malta dagli sponsor inglesi dell’invasione. Inoltre, erano presenti dei veri e propri volontari/mercenari, finanziati per lo più dall’aristocrazia e dalla massoneria inglesi; si trattava di un misterioso reggimento di uomini in divisa nera, comandati da tal John Dunn. Infine, i 21000 invasori furono protetti da ben quaranta tra vascelli e fregate della Mediterranean Fleet della Royal Navy. Il primo scontro a fuoco, tra garibaldini e l’8.vo battaglione cacciatori napoletani, del 15 maggio, si risolse ufficialmente nella sconfitta di quest’ultima. Fatto sta che nella breve battaglia di Calatafimi, a fronte delle perdite dell’esercito napoletano, che ebbe una mezza dozzina di feriti, i garibaldini vennero letteralmente sbaragliati, subendo circa 30 morti e 100 feriti. In realtà, nella mitizzata battaglia di Calatafimi, i soldati napoletani che cozzarono con l’avventuriero Garibaldi dovettero sì abbandonare il campo, ma perché il comandante di Palermo, generale Landi, aveva loro negato l’invio di rifornimenti e di munizioni, costringendo la guarnigione borbonica non solo a smorzare l’impeto con cui affrontarono i garibaldini, ma anche ad abbandonare il terreno, quindi, lasciando libero Garibaldi nel proseguire l’avanzata su Palermo. L’armata di Landi, di circa 16000 uomini, era accampato nei pressi di Calatafimi, ma il generale napoletano preferì ritirarsi e rinchiudersi a Palermo. A Palermo, il 28 maggio 1860, dopo due gironi di scontri presso Porta Termini, nell’allora periferia della capitale siciliana, contro un centinaio di soldati napoletani, i garibaldini entrarono in città. Il comandante della guarnigione borbonica, Generale Lanza, sebbene avesse il comando di ben 24000 uomini e fosse sostenuto dall’artiglieria della pirofregata Ercole, li fece invece asserragliare nel palazzo del governatore, e quando parte delle truppe napoletane respinsero i garibaldini, arrivando a cento metri dal posto di comando di Garibaldi, ricevettero l’ordine di ritirata dal Lanza stesso, che l’8 giugno decise di consegnare la città agli anglo-garibaldini. Contribuì alla decisione, probabilmente, la consegna da parte inglese di un forziere carico di piastre d’oro turche. La moneta franca del Mediterraneo. Il 31 maggio, a Catania, sebbene i garibaldini occupassero la città, nell’arco di ventiquattrore vennero sloggiati dalle truppe napoletane comandate da Ruiz-Ballestreros. Ma anche costui ricevette l’ordine di ritirata dal comandante della piazza di Messina, generale Clary, che a sua volta, col pieno appoggio del corrotto e fellone ministro della guerra di Napoli, Pianell, abbandonò Messina il 24 luglio. Rimase a resistere la cittadella, che cadde quando cedette anche Gaeta. L’avanzata dei garibaldini, rincalzati dal corpo d’invasione che li seguiva, incontrò un ostacolo quasi insormontabile presso Milazzo. Qui, il 20 luglio, la guarnigione napoletana impose un pesante pedaggio ai volontari di Garibaldi. Infatti la battaglia di Milazzo ebbe un risultato, per Garibaldi, peggiore di quella di Calatafimi. A fronte dei 120 morti tra i napoletani guidati dal Colonnello Beneventano del Bosco, le ‘camicie rosse’ al comando del primo luogotenente di Garibaldi, Medici, subirono ben 800 caduti in azione. La guarnigione napoletana si ritirò, in buon ordine e con l’onore delle armi da parte garibaldina! Ma solo quando, all’orizzonte sul mare, si profilò una squadra navale anglo-statunitense, con a bordo una parte del vero e proprio corpo d’invasione mercenario, e dopo che la pirocorvetta ex-napoletana Veloce, ribattezzata Tukory, al comando del disertore Amilcare Anguissola, bombardasse parte delle truppe napoletane schierate sulla spiaggia. Inoltre, le navi napoletane, lasciarono che il corpo anglo-piemontese sbarcasse alle spalle della guarnigione nemica di Milazzo. Va sottolineato che i vertici della marina borbonica, come quelli dell’esercito napoletano, erano stati corrotti con abbondanti quantità di oro turco e di prebende promesse nel futuro regno unito sabaudo. Così si spiega il comportamento della marina napoletana, che alla vigilia dello sbarco di Garibaldi, sequestrò una nave statunitense carica di non meglio identificati soldati (i notori mercenari), ma che subito dopo la rilasciò. Così come, nello stretto di Messina, la squadra napoletana (pirofregata Ettore Fieramosca, pirocorvette L’Aquila e Fulminante) evitò di ostacolare, ai garibaldini, il passaggio del braccio di mare, permettendo a Garibaldi e a Bixio, a bordo dei piroscafi Torino e Franklin (battente bandiera statunitense), di sbarcare il 18 agosto, a Mileto Porto Salvo, in Calabria. La guarnigione di Reggio si arrese senza sparare un colpo, mentre il generale napoletano Briganti venne fucilato a Mileto dalla sua truppa, per fellonìa. Dal reggino in poi, fu una corsa fino all’entrata ‘trionfale’ a Napoli, dove Garibaldi fece subito assaggiare il nuovo ordine savoiardo: i suoi ufficiali fecero sparare sugli operai di Pietrarsa, poiché si opponevano allo smantellamento delle officine metalmeccaniche e siderurgiche fatte costruire dall'arretrata amministrazione borbonica. Certo, il regno delle Due Sicilie era fu reame particolarmente limitato, almeno sul piano della politica civica, ma nulla di eccezionale riguardo al resto dei regni italiani. Di certo fu che la monarchia borbonica, dopo il disastro della repressione antiborghese della rivoluzione partenopea del 1799, avviò una politica che permise il prosperare, nell’ambito della proprio apparato amministrativo e di governo, degli elementi ottusi, malfidati e corrotti. Condizione necessaria per poter perdere, in modo catastrofico, la più piccola delle guerre. In seguito ci fu la battaglia del Volturno, già perduta dai borbonici, poiché presi tra due fuochi: i mercenari di Garibaldi a sud e l’esercito piemontese a nord. E quindi l’assedio di Gaeta e Ancona, e poi la guerra civile nota come Guerra al Brigantaggio. Una guerra che costò, forse, 300000 vittime. Prezzo da mettere in relazione con i 4000 morti, in totale, delle tre Guerre d’Indipendenza italiane. Solo tale cifra descrive la natura reale del processo di unificazione italiana. La Sicilia, in seguito, venne annessa con un plebiscito farsa; poi nel 1866 scoppiò, a Palermo, la cosiddetta Rivolta del Sette e mezzo, che fu domata tramite il bombardamento dal mare della capitale siciliana. Bombardamento effettuato dalla Regia Marina che così, uccidendo qualche migliaio di palermitani in rivolta o innocenti si riscattò dalla sconfitta di Lissa, subita qualche settimana prima e da cui stava ritornando. Poco dopo esplose, a Messina, una catastrofica epidemia di colera, la cui dinamica stranamente assomigliava alla guerra batteriologica condotta dagli yankees contro gli indiani nativi d’America. Migliaia e migliaia di morti in Sicilia. Tralasciamo di spiegare il saccheggio delle banche siciliane, che assieme a quelle di Napoli, rimpinguarono le tasche di Bomprini e di altri speculatori tosco-padani, ammanicati con le camarille di Rattazzi e Sella; la distruzione delle marineria siciliana; lo stato di abbandono della Sicilia per almeno i successivi 40 anni; la feroce repressione dei Fasci dei Lavoratori siciliani; l’emigrazione epocale che ne scaturì. Infine un novecento siciliano tutto da riscrivere, dall’ammutinamento dei battaglioni siciliani a Caporetto alle vicende del bandito Giuliano, uomo forse legato al battaglione Vega della X.ma MAS, e che fu al servizio degli USA e del sionismo; per arrivare alla vicenda del cosiddetto Milazzismo e a una certa professionalizzazione dell'antimafia (che va a braccetto con quella di certo antifascismo) dei giorni nostri. Garibaldi, una volta sistematosi a Caprera, aveva capito che la Sicilia e il Mezzogiorno d’Italia, non gli avrebbero perdonato ciò che gli aveva fatto. Rendiamoci conto di una cosa; Garibaldi non agiva in quanto massone, ma in quanto agente dell’impero inglese. Tra l’altro come afferma Lucy Riall, Garibaldi era una aderente alla setta cristologica di Saint Simon. Ora, come spiega benissimo lo Storico dell’Economia Paul Bairoch, la setta cristologica (nemica del papato) guidata dal guru Saint Simon, aveva come scopo occulto il favoreggiamento dell’imperialismo londinese. Nel saggio di Bairoch, Economia e Storia Mondiale Garzanti, a pag. 38 si può leggere: “Quel che i protezionisti francesi (…) chiamarono Coup d’état fu rivelato da una lettera di Napoleone III al suo ministro di stato. Ciò rese pubblici i negoziati segreti, che erano cominciati nel 1846, con l’incontro a Parigi tra Richard Cobden (apostolo inglese del libero scambio, legato all’industria inglese) e Michel Chevalier, seguace di Saint Simon e professore di economia politica. Il trattato commerciale tra Inghilterra e Francia venne firmato nel 1860 (notare la data), e doveva durare 10 anni. Fu trovato il modo di eludere la discussione al parlamento (francese), che probabilmente sarebbe stata fatale per il progetto di legge. Perciò un gruppo di teorici riuscì a introdurre il libero scambio in Francia e, di conseguenza, nel resto del continente, contro la volontà della maggior parte di coloro che guidavano i diversi settori dell’economia. La minoranza a favore del liberoscambismo, che era energicamente sostenuta da Napoleone III (un vero utile idiota, NdR), il quale era stato convertito a questa dottrina durante le sue lunghe permanenze in Inghilterra e che vedeva le implicazioni politiche del trattato. Il trattato anglo-francese, che fu rapidamente seguito da nuovi trattati tra la Francia e molti altri paesi, condusse a un disarmo tariffario dell’Europa continentale… Tra il 1861 e il 1866, praticamente tutti i paesi europei entrarono in quella che fu definita ‘la rete dei trattati di Cobden’.” Garibaldi, seguace della setta di SaintSimon, a sua volta legata ai circoli dominanti inglesi, effettuò l’azione contro il Regno delle Due Sicilie, con il preciso scopo sia di possedere un’Isola (la Sicilia) strategica sia sul piano geo-economico che geo-strategico, ma anche di eliminare un concorrente, Napoli, che aveva le carte in regola per non cadere nella rete di Cobden. Il resto, sulle gesta di Garibaldi, dell’assassino schiavista Nino Bixio, ecc., è solo fuffa patriottarda italidiota.

Ernesto "Che" Guevara: la verità rossa e la verità vera, scrive “Cumasch”. La storia dovrebbe essere oggettiva, ma in realtà alcuni aspetti vengono da sempre distorti e adattati alle convinzioni ideologiche di chi li tratta. In un paese che si definisce antifascista (ma non evidentemente anticomunista...) certi aspetti "scomodi" del Comunismo sono da sempre ignorati. La Storia ne è piena: i massacri delle Foibe, i massacri dei 20.000 soldati italiani nei Gulag Sovietici su ordine di Togliatti, ecc.. La storia di Ernesto Guevara rappresenta forse il più grande falso storico mai verificatosi. Tutti conoscono la storia "ufficiale" del Che. Chi non ha mai sentito parlare del "poeta rivoluzionario?" Del "medico idealista"? Ma chi conosce le reali gesta di questo "eroe"? Da tempo immemore il volto leonino di Ernesto “Che” Guevara compare su magliette e gadgets, in ossequio all’anticonsumismo rivoluzionario. La fortuna di quest’eroe della revoluçion comunista è dovuto a due coincidenze: 1) – “Gli eroi son sempre giovani e belli” (La locomotiva – F. Guccini); come ironizzò un dirigente del PCI nel ’69, se fosse morto a sessant’anni e fosse stato bruttarello di certo non avrebbe conquistato le benestanti masse occidentali di quei figli di papà “marxisti immaginari”. 2) – l’ignoranza degli estimatori di ieri e di oggi. Il “Che”, infatti, viene associato a tutto quanto fa spettacolo nel grande circo della sinistra: dal pacifismo antiamericano alle canzoni troglodite di Jovanotti «sogno un’unica chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa». Meglio allora fare un po’ di chiarezza sulla realtà del personaggio: Ernesto Guevara De la Serna detto il “Che” nasce nel 1928 da una buona famiglia di Buenos Aires. Agli inizi degli anni 50 si laurea in medicina e intanto con la sua motocicletta gira in lungo e in largo l’America Latina. In Guatemala viene in contatto con il dittatore Jacobo Arbenz, un approfittatore filosovietico che mantiene la popolazione in condizioni di fame e miseria, ma che gira in Cadillac e abita in palazzotti coloniali. A causa dei forti interessi economici degli Usa in Guatemala, viene inviato un contingente mercenario comandato da Castillo Armas a rovesciare il dittatore. Il “Che”, anziché sacrificarsi a difesa del “compagno”, scappa e si rifugia nell’ambasciata argentina; di qui ripara in Messico dove, in una notte del 1955, incontra un giovane avvocato cubano in esilio che si prepara a rientrare a Cuba: Fidel Castro. Subito entrano in sintonia condividendo gli ideali, il culto dei “guerriglieri” e la volontà di espropriare il dittatore Batista del territorio cubano. Sbarcato clandestinamente a Cuba con Fidel, nel 1956 si autonomina comandante di una colonna di “barbudos” e si fa subito notare per la sua crudeltà e determinazione. Un ragazzo non ancora ventenne della sua unità combattente ruba un pezzo di pane ad un compagno. Senza processo, Guevara lo fa legare ad un palo e fucilare. Castro sfrutta al massimo i nuovi mezzi di comunicazione e, pur a capo di pochi e male armati miliziani, viene innalzato agli onori dei Tg e costruisce la sua fama. Dopo due anni di scaramucce per le foreste cubane, nel ’58 l’unità del “Che” riporta la prima vittoria su Batista. A Santa Clara un treno carico d’armi viene intercettato e cinquanta soldati vengono fatti prigionieri. In seguito a ciò Battista fugge e lascia l’Avana sguarnita e senza ordini. Castro fa la sua entrata trionfale nella capitale accolto dalla popolazione festante. Una volta rovesciato il governo di Batista, il Che vorrebbe imporre da subito una rivoluzione comunista, ma finisce con lo scontrarsi con alcuni suoi compagni d'armi autenticamente democratici. Guevara viene nominato “procuratore” della prigione della Cabana ed è lui a decidere le domande di grazia. Sotto il suo controllo, l’ufficio in cui esercita diventa teatro di torture e omicidi tra i più efferati. Secondo alcune stime, sarebbero stati uccise oltre 20.000 persone, per lo più ex compagni d’armi che si rifiutavano di obbedire e di piegare il capo ad una dittatura peggiore della precedente. Nel 1960 il “pacifista” GUEVARA, istituisce un campo di concentramento ("campo di lavoro") sulla penisola di Guanaha, dove trovano la morte oltre 50.000 persone colpevoli di dissentire dal castrismo. Ma non sarà il solo lager, altri ne sorgono in rapida successione: a Santiago di Las Vegas viene istituito il campo Arca Iris, nel sud est dell’isola sorge il campo Nueva Vida, nella zona di Palos si istituisce il Campo Capitolo, un campo speciale per i bambini sotto i 10 anni. I dissidenti vengono arrestati insieme a tutta la famiglia. La maggior parte degli internati viene lasciata con indosso le sole mutande in celle luride, in attesa di tortura e probabile fucilazione. Guevara viene quindi nominato Ministro dell’Industria e presidente del Banco Nacional, la Banca centrale di Cuba. Mentre si riempie la bocca di belle parole, Guevara sceglie di abitare in una grande e lussuosa casa colonica in un quartiere residenziale dell’Avana. E' facile chiedere al popolo di fare sacrifici quando lui per primo non li fa: pratica sport borghesissimi, ma la vita comoda e l’ozio ammorbidiscono il guerrigliero, che mette su qualche chilo e passa il tempo tra parties e gare di tiro a volo, non disdegnando la caccia grossa e la pesca d’altura. Per capire quali "buoni" sentimenti animassero questo simbolo con cui fregiare magliette e bandiere basta citare il suo testamento, nel quale elogia «l’odio che rende l’uomo una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere». Sono queste le parole di un idealista? Di un amico del popolo? Se si, quale popolo? Solo quello che era d'accordo con lui? Guevara si dimostra una sciagura come ministro e come economista e, sostituito da Castro, viene da questi “giubilato” come ambasciatore della rivoluzione. Nella nuova veste di vessillifero del comunismo terzomondista lancia il motto «Creare due, tre, mille Vietnam!». Nel 1963 è in Algeria dove aiuta un suo amico ed allievo, lo sterminatore Desirè Kabila (attuale dittatore del Congo) a compiere massacri di civili inermi! Il suo continuo desiderio di diffusione della lotta armata e un tranello di Castro lo portano nel 1967 in Bolivia, dove si allea col Partito comunista boliviano ma non riceve alcun appoggio da parte della popolazione locale. Isolato e braccato, Ernesto De La Serna viene catturato dai miliziani locali e giustiziato il 9 ottobre 1967. Il suo corpo esposto diviene un’icona qui da noi e le crude immagini dell’obitorio vengono paragonate alla “deposizione di Cristo”. Fra il sacro e il profano la celebre foto del “Che” ha accompagnato un paio di generazioni che hanno appeso il suo poster a fianco di quello di Marylin Monroe. Poiché la madre degli imbecilli è sempre incinta, ancora oggi sventola la bandiera con la sua effige e i ragazzini indossano la maglietta nel corso di manifestazioni “contro la guerra”. Come si fa a prendere come esempio una persona così? Possibile che ci siano migliaia di persone (probabilmente inconsapevoli della verità) che sfoggiano magliette con il suo volto? In quelle bandiere e magliette c'è una sola cosa corretta: il colore. Rosso, come il sangue che per colpa sua è stato sparso. In un film di qualche anno fa Sfida a White Buffalo, il bianco chiede al pellerossa: «Vuoi sapere la verità rossa oppure la verità vera?». Lasciamo a Gianni Minà la verità rossa, noi preferiamo conoscere la verità vera.

La legge Pica del 1863, ovvero la “licenza di uccidere i meridionali”, scrive Giovanni Pecora. Secondo il re sabaudo Vittorio Emanuele II dall’Italia meridionale si “alzava un grido di dolore” che lui, notoriamente di buon cuore e generoso, non poteva non ascoltare. E così mandò avanti Garibaldi con i suoi Mille improbabili liberatori che, a suo avviso, sarebbero bastati per accendere il fuoco della ribellione al tiranno Borbone. Ed in effetti all’inizio fu così, e molti cittadini di idee liberali accolsero Garibaldi come un angelo liberatore, mentre molti ufficiali dell’esercito borbonico, precedentemente comprati dall’opera di intelligence posta in essere segretamente da Cavour, facevano in modo che i soldati di re Francesco II non ostacolassero in alcun modo l’invasione e gli insorti. Bastarono poche settimane per far comprendere ai liberali ed al popolo meridionale che Garibaldi non veniva a portare la libertà, ma semplicemente a sostituire un re con un altro re. Ma ormai era troppo tardi, perchè a consolidare la conquista del Regno delle Due Sicilie erano già arrivati i bersaglieri ed i fanti dell’esercito piemontese, che prima sparavano e poi controllavano chi avessero davanti, fossero anche donne, bambini o vecchi inermi. Per la retorica risorgimentale i “fratelli d’Italia” ci abbracciavano per liberarci dal medioevo borbonico. Francamente già posta in questi termini sembrerebbe più un’amara barzelletta che altro, visto che per mille versi il Regno delle Due Sicilie era almeno vent’anni avanti rispetto al resto d’Italia, Piemonte compreso. E questo era ed è sotto gli occhi di tutti. Basta guardare le pubblicazioni del tempo ed i documenti originali, e non i libri falsificati dalla retorica risorgimentale. Ma a volte, proprio per evitare che appaia un racconto di parte, è addirittura sufficiente mostrare I FATTI, oppure ciò che scrivono e dicono testi che non possono certamente essere definiti “filo-meridionalisti”.

I FATTI. Nel 1863, dopo già ben due anni erano passati di presunti “baci ed abbracci” con i meridionali liberati, il clima era talmente “idilliaco” qui al Sud che il governo neo-italiano ha dovuto far promulgare al re sabaudo lo stato d’assedio per le regioni meridionali, autorizzando così la sospensione delle leggi civili ed il passaggio al codice penale di guerra. Si promulga così la cosiddetta “Legge Pica“, dal nome del deputato abruzzese che la formulò, che per oltre due anni trasformò le regioni meridionali in un immenso campo di combattimento, o meglio ancora in un enorme lager dentro il quale i soldati del re sabaudo, i “piemontesi”, con la scusa della lotta al brigantaggio uccisero, stuprarono, squartarono, sgozzarono, misero a ferro e fuoco interi paesi causando migliaia e migliaia di morti innocenti.

E ci vollero ben ancora almeno sette anni per piegare definitivamente tutte le sacche di resistenza dei partigiani lealisti al re Borbone sulle montagne abruzzesi, lucane, campane, pugliesi, calabresi, e siciliane. Basterebbe questo per capire l’enorme montagna di menzogne che ha accompagnato per 150 anni la storia del risorgimento italiano. Altro che “fratelli d’Italia”… Poi ci testimonianze – involontarie – che veramente sono al di sopra di ogni sospetto, come ad esempio quelle tratte dal sito dell’Arma dei Carabinieri, “fedelissima” per definizione al re Savoia. Ecco cosa si legge nel sito ufficiale dell’Arma: “La legge Pica permise la repressione senza limiti di qualunque resistenza: si trattava, in pratica, dell’applicazione dello stato d’assedio interno. Senza bisogno di un processo si potevano mettere per un anno agli arresti domiciliari i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti fiancheggiatori di camorristi e briganti. Nelle province dichiarate infestate da briganti ogni banda armata di più di tre persone, complici inclusi, poteva essere giudicata da una corte marziale. Naturalmente alla sospensione dei diritti costituzionali (il concetto di diritti umani di fatto ancora non esisteva) si accompagnarono misure come la punizione collettiva per i delitti dei singoli e le rappresaglie contro i villaggi“. Non c’è bisogno di alcun commento, mi pare. Vediamo allora cosa invece scrive Wikipedia, l’enciclopedia online, a proposito della legge Pica: “La legge 1409 del 1863, nota come legge Pica, dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica, fu approvata dal parlamento della Destra storica e fu promulgata da Vittorio Emanuele II, il 15 agosto di quell’anno. Presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”, la legge fu più volte prorogata ed integrata da successive modificazioni, rimanendo in vigore fino al 31 dicembre 1865. Sua finalità primaria era porre rimedio al brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno, attraverso la repressione di qualunque fenomeno di resistenza.

Contesto preesistente. Il provvedimento legislativo seguiva, di circa dodici mesi, la proclamazione, da parte del governo, dello stato d’assedio nelle province meridionali, avvenuta nell’estate del 1862. Con lo stato d’assedio si era voluto concentrare il potere nelle mani dell’autorità militare al fine di reprimere l’attività di resistenza armata: coloro i quali venivano catturati con l’accusa di brigantaggio, fossero essi sospettati di essere ribelli o parenti di ribelli, potevano essere passati per le armi dall’esercito, senza formalità di alcun genere. Nella seduta parlamentare del 29 aprile 1862, il senatore Giuseppe Ferrari affermava: «Non potete negare che intere famiglie vengono arrestate senza il minimo pretesto; che vi sono, in quelle province, degli uomini assolti dai giudici e che sono ancora in carcere. Si è introdotta una nuova legge in base alla quale ogni uomo preso con le armi in pugno viene fucilato. Questa si chiama guerra barbarica, guerra senza quartiere. Se la vostra coscienza non vi dice che state sguazzando nel sangue, non so più come esprimermi». Per contro, coloro che riuscivano ad evitare il plotone di esecuzione non potevano più essere processati dai tribunali militari e divenivano soggetti alla giustizia ordinaria, che, in base alle variazioni apportate, nel 1859, al codice penale piemontese, non prevedeva più l’applicazione della pena di morte per i reati politici. La legge Pica, dunque, sospendendo, in sostanza, la garanzia dei diritti costituzionali contemplati dallo statuto Albertino, aveva l’obiettivo di colmare questo “vuoto”, sottraendo i sospettati di brigantaggio ai tribunali civili in favore di quelli militari.

Brigantaggio e camorrismo. La legge Pica, il cui titolo era Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette, si attesta come la prima disposizione normativa dello stato unitario in cui viene contemplato il reato di camorrismo. Oltre ad introdurre il reato di brigantaggio, infatti, la legge 1409/1863, disciplinò in tema di ordine pubblico riferendosi anche alle azioni delittuose commesse della nascente criminalità organizzata. Inoltre, la legge Pica introdusse, per la prima volta, la pena del domicilio coatto, ponendosi, per questi due aspetti, come antesignana dell’ampia produzione normativa connessa ai reati di mafia che caratterizzerà il XX secolo. Legiferando, però, su proto-mafie e brigantaggio attraverso un’unica norma, il parlamento italiano accostava impropriamente il mero banditismo all’attività di brigantaggio politico propria della resistenza partigiana antiunitaria e legittimista.

Le disposizioni normative. In applicazione della legge Pica, dunque, venivano istituiti sul territorio delle province definite come “infestate dal brigantaggio” (individuate dal Regio decreto del 20 agosto 1863) i tribunali militari, ai quali passava la competenza in materia di reati di brigantaggio. Il nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone. Veniva concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso. Le pene comminate ai condannati andavano dall’incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione. Veniva punito con la fucilazione (o con i lavori forzati a vita, concorrendo circostanze attenuanti) chiunque avesse opposto resistenza armata all’arresto, mentre coloro che non si opponevano all’arresto potevano essere puniti con i lavori forzati a vita o con i lavori forzati a tempo (concorrendo circostanze attenuanti), salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati. Coloro che prestavano aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere, invece, puniti con i lavori forzati a tempo o con la detenzione (concorrendo circostanze attenuanti). Veniva punito con la deportazione chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come bande brigantesche. Erano, invece, previste delle attenuanti per coloro i quali si fossero presentati spontaneamente alle autorità. Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al brigantaggio. La legge prevedeva, inoltre, la condanna al domicilio coatto per i vagabondi, le persone senza occupazione fissa, i sospetti manutengoli, camorristi e fiancheggiatori, fino ad un anno di reclusione. Nelle province definite “infette”, venivano istituiti i Consigli inquisitori (i cui componenti erano il Prefetto, il Presidente del Tribunale, il Procuratore del Re e due cittadini della Deputazione Provinciale) che avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d’arresto o, in caso di resistenza, uccisi: l’iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d’accusa. In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base ad esso, però, chiunque avrebbe potuto avanzare accuse, anche senza fondamento, anche per consumare una vendetta privata. La legge, inoltre, aveva effetto retroattivo: in altre parole, era possibile applicare la legge Pica anche per reati contestati in epoca antecedente la promulgazione della legge stessa. Attraverso le successive modificazioni, la legge Pica fu estesa anche alla Sicilia, pur essendo assente sull’isola il grande brigantaggio legittimista che caratterizzava le province napoletane. In particolare, l’obiettivo del governo era combattere il fenomeno della renitenza alla leva militare: divennero, infatti, perseguibili i renitenti, i loro parenti e, persino, i loro concittadini (attraverso l’occupazione militare di città e paesi). Alla sospensione dei diritti costituzionali, dunque, si accompagnavano misure come la punizione collettiva per i reati dei singoli e il diritto di rappresaglia contro i villaggi: veniva introdotto il concetto di “responsabilità collettiva”.

Contesto sociale e politico. Già durante la fase di discussione, fu avanzata l’ipotesi che la proposta del Pica avrebbe potuto dare adito ad errori ed arbitri di ogni sorta: il senatore Ubaldino Peruzzi, infatti, notò come il provvedimento fosse «la negazione di ogni libertà politica». Al pugno di ferro prospettato dalla Destra storica, il Senatore Luigi Federico Menabrea rispose, invece, con una proposta totalmente alternativa. Il Menabrea, come soluzione al malcontento popolare e alle insurrezioni che seguirono l’annessione delle Due Sicilie al Regno d’Italia, propose di stanziare 20 milioni di lire per la realizzazione di opere pubbliche al Sud. Il piano del Menabrea, però, non ebbe alcun seguito, poiché il parlamento italiano preferì investire nell’impiego delle forze armate. In generale, infatti, la lotta al Brigantaggio, impegnò un significativo “contingente di pacificazione”: inizialmente esso constava di centoventimila unità, quasi la metà dell’allora esercito unitario, poi scese, negli anni successivi, prima, a novantamila uomini e, poi, a cinquantamila. Dunque, nonostante le criticità del provvedimento legislativo fossero state apertamente denunciate, la legge fu ugualmente approvata, ma già dai suoi stessi contemporanei furono riconosciuti gli abusi e le iniquità a cui essa diede adito. In sostanza, la legge Pica non faceva alcuna distinzione tra briganti, assassini, contadini, manutengoli, complici veri o presunti. A tal proposito, nel 1864, Vincenzo Padula scriveva:  «Il brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti». La legge Pica, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti tali: per effetto della legge 1409/1863 e del complesso normativo ad essa connesso, fino a tutto il dicembre 1865, si ebbero 12.000 tra arrestati e deportati, mentre furono 2.218 i condannati. Nel solo 1865, furono 55 le condanne a morte, 83 ai lavori forzati a vita, 576 quelle ai lavori forzati a tempo e 306 quelle alla reclusione ordinaria. Nonostante tale rigore, la legge Pica non riuscì a portare i risultati che il governo si era prefissi: l’attività insurrezionale e il brigantaggio, infatti, perdurarono negli anni successivi al 1865, protraendosi fino al 1870.

CONCLUSIONE.

L’agosto 1863 un proclama di Vittorio Emanuele venne affisso in tutte le città, paesi, borgate del Mezzogiorno. Era la legge Pica contro il “brigantaggio”. Praticamente l’autorità militare assumeva il governo delle province meridionali. La repressione diventava, a questo punto, ancora più  acre e feroce di quanto non fosse stata fin allora. La legge Pica rimase in vigore fino al 31 dicembre 1865. Fu presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa” e, dall’opposizione parlamentare di sinistra valutata e combattuta come una violazione dell’art. 71 dello Statuto del Regno poiché il cittadino “veniva distolto dai suoi giudici naturali” per essere sottoposto alla giurisdizione dei Tribunali Militari e alle procedure del Codice Penale Militare. La legge passò comunque a larga maggioranza. La ribellione doveva essere stroncata “col ferro e col fuoco!”. Per effetto della legge Pica, a tutto il 31 dicembre 1865, furono 12.000 gli arrestati e deportati, 2.218 i condannati. Nel solo 1865 le condanne a morte furono 55, ai lavori forzati a vita 83, ai lavori forzati per periodi più o meno lunghi 576, alla reclusione ordinaria 306. Le carceri erano piene, fitte, zeppe fino all’inverosimile“. (Ludovico Greco,”Piemontisi, Briganti e Maccaroni” – Guida Editore, Napoli, 1975).

Renzi si indigna: «Un regalo squallido». Però i veri antisemiti stanno a sinistra. Il premier condanna l'iniziativa con un tweet ipocrita Ma il 25 aprile la Brigata ebraica fu cacciata dal corteo, scrive MMO, Domenica 12/06/2016, su "Il Giornale". «Trovo squallido che un quotidiano italiano regali oggi il Mein Kampf di Hitler. Il mio abbraccio affettuoso alla comunità ebraica. #maipiù». Così Matteo Renzi su Twitter va all'attacco del Giornale per la scelta di regalare il Mein Kampf con il primo volume della collana sulla storia del Terzo Reich. Ma il cinguettio del premier suona ipocrita, considerato che proprio nella sinistra italiana c'è un problema irrisolto - e difficilmente dichiarato - con l'antisemitismo, come testimoniano le puntuali quanto vergognose contestazioni della Brigata ebraica ai cortei del 25 aprile (salutati al grido di «assassini» e «fascisti» a Milano poco più di un mese fa), per dirne una.

Il capogruppo di Forza Italia di Quarrata Ennio Canigiani ci scrive (La voce di Pistoia del 22 aprile 2016): "Si resta sbalorditi difronte alla notizia diffusa ieri dalla stampa secondo cui un coro di 50 bambini della scuola elementare Casa degli Angeli Custodi di Agliana, canterà l’inno partigiano 'Bella Ciao' durante le celebrazioni del 25 aprile, in programma all’auditorium di Pistoia. Niente in contrario a cantare una canzone che evoca le gesta di eroici partigiani se questa viene intonata da un gruppo di nostalgici combattenti, ma far cantare una canzone che certamente è un simbolo politico di parte a dei bambini per di più di una scuola che si rifà alla dottrina cristiana, è veramente incredibile. La guerra di liberazione ci riporta ormai a un’epoca triste che ha visto lo stesso popolo italiano diviso e lacerato al suo interno, una pagina violenta e triste della nostra storia. Oggi, a distanza di 70 anni, c’è bisogno di un ricordo e di valori condivisi, non è accettabile che vi sia chi ancora profonde ideologie a mani piene, usando dei piccoli innocenti e riaprendo vecchie ferite. Un ultimo pensiero va alla scuola elementare degli Angeli Custodi di Agliana: possibile che una istituzione cattolica come essa è, non abbia trovato una canzone diversa per celebrare questo avvenimento? Tra le centinaia di canzoni di ispirazione cristiana, non ce n'era una che inneggiasse alla fratellanza e all’amore?".

Olocausto provocato dai Nazisti e dai fascisti? Una menzogna a metà. Si censura la parte riguardante i comunisti. Dustin Hoffman choc: "I miei parenti ebrei uccisi dai comunisti". Nel corso di uno show, il premio Oscar ha scoperto il tragico passato della sua famiglia ucraina, vittima della polizia sovietica e dei gulag, scrive Eleonora Barbieri, Sabato 12/03/2016, su "Il Giornale". «Questa è una storia terribile, non è una bella cosa da raccontare ai bambini...». Sarà anche per questo che Dustin Hoffman ha dovuto aspettare fino a 78 anni, per scoprire la verità sulla storia della sua famiglia. Su quel nonno e quei bisnonni di cui suo padre Harry non gli aveva mai parlato, sui quali aveva come eretto un muro. Dietro quel muro c'era la tragedia di un popolo e di un mondo, e anche di una famiglia intera e di un ragazzo in particolare: perché il nonno Frank e il bisnonno Sam Hoffman sono stati sterminati in Russia, anzi in Unione Sovietica, nei primi anni dopo la Rivoluzione; e la bisnonna, Libba, è stata imprigionata in un gulag per cinque anni, prima di riuscire a fuggire e arrivare sull'altra sponda dell'oceano, prima in Argentina e poi, finalmente, a Ellis Island. Era il 1930, Libba Hoffman aveva già 62 anni. I referti medici dicono: affetta da «demenza senile». La donna aveva perso il braccio sinistro, era quasi cieca. Era sopravvissuta a un campo di sterminio, di quelli che servivano a punire i nemici della Rivoluzione. Perché i signori Hoffman erano ebrei. Oggi Hoffman lo dice: «Sono ebreo... Sì, sono ebreo». Ha scoperto tutto grazie a una trasmissione televisiva della Pbs, Finding Your Roots, letteralmente «Scoprendo le tue radici». Ed è stato in diretta, l'altra sera, mentre il conduttore Henry Louis Gates Jr gli raccontava che cosa avevano scoperto sulla sua bisnonna coraggiosa e indistruttibile, che l'attore si è messo a piangere: «Loro sono sopravvissuti perché io fossi qui». La bisnonna Libba era, semplicemente, «un'eroina». Una donna che a 53 anni aveva visto sparire, nel giro di pochi mesi, il figlio e il marito. Era andata così: Frank Hoffman si era già trasferito in America, a Chicago, dall'Ucraina, il suo paese d'origine. Però poi gli erano arrivate le notizie di quei pogrom, quei massacri in cui finivano gli ebrei, ed era accaduto anche a Belaya Tserkov, la sua città. Perciò Frank Hoffman, che in America aveva una vita e anche un figlio (cioè il padre di Dustin Hoffman) era tornato a casa, per salvare i suoi genitori. Tempo di rimettere il piede in patria ed era sparito. Qualche mese dopo, lo stesso destino era toccato al padre Sam. Entrambi erano stati arrestati e poi uccisi dalla Ceka, la polizia segreta dei bolscevichi. Libba non si era data per vinta. Come racconta un trafiletto in un giornale russo del 1921, Libba aveva cercato di corrompere un agente della Ceka, probabilmente per sapere qualcosa del destino del marito e del figlio: e così era finita in una campo di concentramento. Anche se aveva già più di cinquant'anni, Libba era riuscita a sopravvivere. Il lavoro duro, le sofferenze, le condizioni di vita estreme non l'avevano piegata, nonostante tutto. Era fuggita in Argentina. E poi era arrivata in America, a Chicago, dove era morta nel 1944, a 76 anni. Di tutto questo, di questa storia di sacrifici e dolore e separazioni che è intrecciata a una storia molto più grande e altrettanto terribile, Dustin Hoffman non sapeva niente. «Mio padre era ateo» ha raccontato l'attore. Di ebraismo non si parlava, di religione non si parlava in casa sua. Non si parlava, soprattutto, della famiglia paterna, con la quale «non c'erano rapporti» (i suoi si erano trasferiti a Los Angeles). Oggi lui prova a capire. Quelle lacrime che significano? Commozione, certo. «Orgoglio», come ha detto lui, per una donna, la sua bisnonna, che ha dato la vita e anche di più per essere libera, e non si è lasciata piegare dall'orrore, dalla dittatura, dalla perdita dei suoi amori. Anche affetto per il padre, quello che aveva eretto un muro di dimenticanza: «Forse era semplicemente che non voleva fare sapere ai bambini, alla famiglia, perché è tutto così atroce. Magari mio padre, chi lo sa, ha pianto, si è aggrappato alle gambe di suo padre, gli ha gridato: Ti prego, papà, non andare... Povero papà». Oggi, dice Hoffman, «a chi mi chiede: chi sei?, rispondo: sono un ebreo». Certe parole vanno esibite, «portate sulla manica». Bisogna «fare un annuncio», scoprirle, come certe verità di famiglia, anche se non sono delle belle favole da raccontare ai bambini.

"Questa è la democrazia dei rossi, non ci fate ridere ma pena". A scriverlo su Twitter l’1 marzo 2016 è Matteo Salvini dopo la contestazione a Bologna da parte dei soliti "rossi" che hanno appeso il manichino che lo ritrae con tanto di maglietta verde padano a testa all'ingiù come Mussolini.

LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

Strage di Vergarolla: quando si usava il tritolo per cacciare gli italiani, scrive Marco Fornasir il 18/08/2016 su "Il Giornale". La strage di Vergarolla, avvenuta domenica 18 agosto 1946, è forse la più sanguinosa (circa 100 vittime) fra quelle dell’Italia repubblicana. Volutamente nascosta per oltre cinquant’anni, viene finalmente portata alla luce in tutti i suoi aspetti grazie al libro del direttore de L’Arena di Pola Paolo Radivo. Un’esplosione potente squarciò la spiaggia di Vergarolla alle 14:15 di domenica 18 agosto 1946. La terra tremò per una vasta area e i vetri delle case di Pola andarono in frantumi, come le speranze di mantenere Pola in territorio italiano. Sessantaquattro sono le vittime identificate e sepolte, ma circa cento persone furono spazzate via da quello che ancor oggi a fatica viene identificato come un attentato contro la popolazione italiana e, perfino dagli attuali vertici della Comunità italiana di Pola, viene derubricato a semplice incidente. Quell’esplosione, tragicamente simile al fungo atomico di Hiroshima, ebbe anche lo stesso effetto di quelle bombe micidiali. Si può dire che l’attentato di Vergarolla, come avvenne in Giappone, costrinse la popolazione alla resa: in quel periodo a Parigi erano in corso i negoziati per definire lo status dei territori italiani in Istria e in Dalmazia. L’italianissima Pola faceva sentire quasi quotidianamente la sua voce per manifestare la volontà di rimanere parte integrante di una ancora acerba Repubblica Italiana, magari sotto forma di enclave. Quella strage fiaccò definitivamente il morale dei nostri connazionali e da allora ci fu un lento e inesorabile abbandono di ogni speranza, fino alla firma del Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) e all’esodo. A settant’anni di distanza, dopo alcuni libri che hanno riacceso le luci su quel grave e criminale episodio, è stato realizzato finalmente uno studio approfondito che prende in esame tutti gli aspetti della tragedia. Il volume è: La strage d Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive (editore Libero Comune di Pola in Esilio – LCPE), l’autore è il direttore del mensile L’Arena di Pola Paolo Radivo, figlio di istriani. Inoltre è stato realizzato, sempre con il contributo determinante dell’LCPE, il documentario di Alessandro Quadretti L’ultima spiaggia. Pola fra la strage di Vergarolla e l’esodo. Ambedue sono importanti strumenti per capire cosa è effettivamente successo in quella tragica domenica d’agosto. Il corposo volume di Radivo conta ben 648 pagine ed è uno studio completo sulla vicenda, il documentario riporta anche le testimonianze dei pochi testimoni sopravvissuti, forse l’ultima occasione di sentire dalle voci di chi c’era la verità dei fatti. Ma chi non ha mai sentito parlare di questa strage, per intenderci più sanguinosa di quella della stazione di Bologna, ha necessità di alcuni particolari e di inquadrare i fatti nel periodo storico. Terminate ufficialmente le ostilità, Pola era rimasta territorio italiano sotto amministrazione alleata. Il maresciallo Tito pretendeva di acquisire anche l’italianissima Pola nella neonata Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia (dal 1963 Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia) e la Conferenza della Pace di Parigi era in corso. Va sottolineato che il delfino di Tito Milovan Gilas, poi caduto in disgrazia, in una intervista rilasciata al quindicinale fiumano Panorama (21 luglio 1991) dichiarò: «Nel 1946 io ed Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana… bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto.» In questo contesto si svolsero quella domenica di agosto le gare natatorie della Pietas Julia, evento che attirò sulla spiaggia di Vergarolla buona parte della gioventù italiana di Pola e dintorni, compresa la squadra del Centro Sportivo Proletario, filo-jugoslava, che vinse una delle gare e lasciò la zona verso l’ora di pranzo. Al momento dell’esplosione (14:15) erano presenti sulla spiaggia solo italiani, per lo più giovanissimi con le rispettive famiglie. A esplodere furono degli ordigni (di vario genere, per lo più bombe di profondità) che erano stati disinnescati e accatastati sulla spiaggia. Erano 12, 28 o 32, a seconda dei documenti del Governo Militare Alleato, e non potevano assolutamente esplodere da soli. Tanto che i ragazzini vi salivano a cavalcioni e le signore vi stendevano ad asciugare i teli da mare e i costumi da bagno. Per esplodere quegli ordigni avrebbero dovuto essere nuovamente riattivati e poi innescati, quindi in nessun modo si trattò di un incidente ma di un vero e proprio attentato. E la testimonianza di Claudio Bronzin, all’epoca un ragazzino, squarcia il muro di silenzio: ricorda che sua zia Rosmunda vide un uomo vestito (cosa un po’ strana d’estate) che aggiuntava dei fili elettrici presso la catasta dei residuati. E’ probabile che quell’uomo, mai identificato, sia stato l’esecutore materiale della strage, magari utilizzando l’attrezzatura delle vicine miniere di carbone dell’Arsa. Il risultato della strage fu impressionante: oltre ai 64 cadaveri identificati anche se disintegrati (di una signora fu ritrovato solo un dito con la fede, piccolo ma determinante dettaglio, di uno dei figli del dottor Micheletti fu rinvenuta solo una scarpetta) ci furono circa una quarantina di altri sventurati che persero la vita in quello scoppio. Probabilmente uomini e donne che scappavano dai territori istriani occupati dai titini e che non erano mai stati registrati come domiciliati a Pola per paura di ritorsioni contro le loro famiglie rimaste in zona B. Basandosi sulle ossa e i resti umani reperiti, il dottor Micheletti stimò insieme a un dottore inglese che i morti totali avrebbero potuto essere compresi tra 110 e 116. In una relazione ufficiale il dottor Chiaruttini dichiarò che ci furono circa 100 morti. Pola fu annientata, il suo spirito e quello dei suoi abitanti fu completamente distrutto. Le autorità jugoslave incolparono subito il governo alleato di scarsa sorveglianza, mentre a Pola il muro di omertà ha coperto e continua a coprire mandanti ed esecutori. Da qualche anno spuntano testimonianze che portano inequivocabilmente nella direzione dell’attentato, ma ancora la prova regina non c’è (come non c’è per molte altre stragi più recenti). Il nome che ricorre più frequentemente è quello di Ivan (Nini) Brljafa, un partigiano dell’Istria interna che a Pola ebbe poi anche qualche incarico locale dal governo jugoslavo. Brljafa si suicidò nel 1979 in seguito alla scoperta di un tumore ai reni, ma pare che lasciò un biglietto in cui confessava di aver agito su ordine di Albona (sede all’epoca di un comando dei servizi segreti jugoslavi). Altri testimoni raccontano che il giorno dopo il massacro due polesani avrebbero festeggiato insieme ai due attentatori in una trattoria di Monte Castagner, mentre dieci giorni dopo quattordici polesani brindarono alla strage in un’osteria di Monte Grande. Ma anche qui nessuna pistola fumante. Però, grazie al libro di Radivo che compara gli articoli dell’epoca con i documenti successivamente rinvenuti e ulteriori testimonianze, sono venuti alla luce numerosi elementi, soprattutto per quello che riguarda i movimenti delle truppe alleate e delle truppe titine in zona subito prima dell’attentato. E anche ciò che avvenne subito dopo viene esaminato in profondità. Inoltre vengono messi a fuoco molti dettagli che riguardano i soccorsi dopo l’esplosione, l’assistenza ai feriti e il penoso momento dei funerali cittadini. Tra tutti emerse la figura del dottor Geppino Micheletti (cugino del noto filosofo goriziano Carlo Michelstaedter) che operò consecutivamente fino a tarda sera tutti i feriti gravi, anche dopo aver saputo che i suoi figli Carlo e Renzo erano stati spazzati via dall’esplosione. Solo a tarda sera si recò a Vergarolla alla ricerca dei resti di uno dei due. Fu decorato con la medaglia d’argento al valor civile. Lui rimase a Pola fino al settembre 1947, quando partì per l’esilio, dicendo che mai avrebbe potuto curare qualcuno con il sospetto di curare un criminale coinvolto nella strage.

Da quanto detto non si può che arrivare al negazionismo sulle foibe.

Al Magazzino 18 sembrava di stare ad Auschwitz. Parla il coautore dello spettacolo teatrale. Bernas: "Revisionismo? Questo tema era stato occultato dalla storia ufficiale", scrive Gabriele Antonucci su “Il Tempo”. «La storia non deve essere di nessuno, ma la verità deve essere di tutti». Così il giornalista e scrittore Jan Bernas, esperto di geopolitica e di storia, ha spiegato l’urgenza artistica della genesi di «Magazzino 18», spettacolo scritto insieme a Simone Cristicchi. Un’idea accarezzata per vent’anni dal regista Antonio Calenda, che ha trovato finalmente compimento grazie ai fortunati incontri con Cristicchi e con Bernas, contattato dal cantante dopo aver letto il suo libro «Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani». Lo spettacolo, dopo il trionfale debutto a Trieste, ha ricevuto grandi consensi in tutta Italia per l’equilibrio del testo, la sensibilità di Cristicchi e la regia emozionante di Calenda. «Magazzino 18» diventerà un libro, che uscirà a febbraio per Mondadori, corredato dalle foto realizzate dall'autore all’interno del silos dove sono ancora accatastati i beni lasciati dagli esuli italiani in fuga. Per Bernas entrare al Magazzino 18 «è stata un’esperienza incredibile, mi ha ricordato l’atmosfera del campo di concentramento di Auschwitz. Prima di tutto è necessario un permesso speciale per entrare. Una volta dentro, sono rimasto colpito da un salone enorme, pieno di sedie accatastate una sopra l’altra. Dietro ognuna è riportato il nome e il cognome del proprietario. Una stanza è piena di giocattoli, un’altra di libri, registri e perfino di lettere d’amore. Fa venire i brividi». Quanto alle polemiche sullo spettacolo, l’autore se le aspettava, «ma non così forti, violente e preconcette. Le critiche più odiose sono quelle che sono arrivate prima che lo spettacolo andasse in scena o, dopo il debutto, da chi non l’aveva neanche visto. In "Magazzino 18" non diamo colpe, è semplicemente un atto di educazione alla memoria». Per Jan la parola foiba non è soltanto un tabù, ma «una semplificazione simbolica di una vicenda molto più complessa e articolata. Le foibe, in realtà, sono la punta dell’iceberg, visto che in quel periodo tanti italiani sono morti di crepacuore, chi a seguito dell’internamento, chi morto dentro, rimanendo a Pola o a Fiume». Sono state numerose le difficoltà nello scrivere un testo che affrontava una materia così delicata. «»È stato più duro che scrivere un libro. Quando devi raccontare sopra un palcoscenico avvenimenti così poco conosciuti non puoi dare nulla per scontato, né dal punto di vista storico né da quello drammaturgico. Devi condensare una vicenda complessa in meno di due ore». Sulle accuse di revisionismo, lo scrittore mostra di avere idee chiare: «Se per revisionismo intendiamo che per la prima volta in Italia viene rappresentato a teatro un argomento così occultato, allora lo è. Se con quel termine indichiamo una mistificazione storica a favore di una sola parte, non lo è certamente. È stato difficile realizzare uno spettacolo equilibrato: sarebbe stato molto più facile scrivere un testo di parte». Bernas si è accostato all’esodo degli italiani dalla Jugoslavia fin da giovanissimo. «Quando ero al liceo già mi interessavo di storia. Un giorno chiesi alla mia insegnante: "Come mai sono partiti tutti quegli italiani dall'Istria?" "Perché erano tutti fascisti". Non mi sono accontentato di quella secca risposta e ho iniziato una ricerca di molti anni che mi ha condotto a visitare quei luoghi, a conoscere e a intervistare decine di esuli». Grandi emozioni gli ha riservato la prima dello spettacolo a Trieste, dove era stata allarmata perfino la Digos per il rischio di scontri tra opposte fazioni politiche: «Quella sera c’era una tensione molto forte, ma l’applauso di un quarto d’ora con il pubblico in piedi, gli anziani esuli in lacrime che ci hanno abbracciato, l’inno nazionale cantato alla fine da tutta la sala sono stati i migliori regali che io, Cristicchi e Calenda potessimo ricevere».

Ma quanto tempo deve ancora passare perché il dramma dell’esilio giuliano-dalmata e la tragedia delle foibe diventino memoria per tutti? Si chiede Federico Guiglia su “Il Tempo”. Memoria è quel luogo del nostro animo dove il ricordo dell’orribile pagina di storia, che si è scritta sul confine nord-orientale italiano soprattutto dal ’43 al ’47, può ancora ferire gli anziani testimoni, commuovere i giovani che non conoscevano, far riflettere un’intera nazione chiamata a custodire per sempre un capitolo di sé per troppi anni rimosso. Ed è incredibile che a Simone Cristicchi, artista di valore di una generazione del tutto estranea alla vicenda, venga oggi scagliato l’anatema di «propaganda anti-partigiana» per lo spettacolo profondo e delicato, esattamente com’è lui, dedicato all’esodo di trecentocinquantamila connazionali. Come ormai si sa o si dovrebbe sapere, essi furono costretti ad abbandonare la terra in cui erano nati o cresciuti per evitare, nel migliore dei casi, di perdere la loro identità italiana. Anzi, italianissima, tipica della gente di confine, lontana da Roma e perciò amante di un amore travolgente verso la nazione italiana. Nel peggiore dei casi, gli esuli fuggivano per evitare la fine orrenda dei ventimila infoibati, uccisi o torturati dai partigiani comunisti di Tito con la sola «colpa» d’essere italiani. Senza dimenticare l’esproprio dei loro beni, che spesso erano il frutto di sacrifici che si tramandavano di padre in figlio, perché in Istria, Fiume e Dalmazia si parlava italiano dalla notte dei tempi. Dunque, è stata un’epopea triste. È stata una fuga per la vita di chi, da quel giorno, da quell’ultimo imbarco verso la madre-patria, avrebbe perduto tutto, fuorché la dignità. La dignità di raccontare quel che era successo, ma senza piangersi addosso. La dignità di ricominciare daccapo in Italia o all’estero, perché una parte notevole degli esiliati è partita due volte: la prima dalla propria terra verso la propria patria. La seconda dalla patria verso il mondo. L’Australia, il Canada, l’America, sempre portandosi nel cuore quel dramma silenzioso e quasi inconfessabile, tanto tremendo era stato. Portandoselo, il lutto collettivo, con straordinaria civiltà. È un esodo che non ha prodotto alcun atto di violenza per reazione o per vendetta, a differenza di altri esodi sradicati ed espulsi in tante parti dell’universo. Di più. Questi nostri fratelli mai hanno mostrato né fatto valere rancore nei confronti di chi li aveva cacciati da casa loro. Chiedevano e chiedono solo «giustizia». Le loro lacrime mai hanno riempito gli studi televisivi, a cui per anni i sopravvissuti e le loro famiglie si sono sottratti con discrezione. Anche nel dolore essi hanno dato prova di un’italianità esemplare: gente che non protestava, che non dava la colpa agli altri dei propri e terribili guai subìti, che non s’inventava partiti per lucrare voti sulla sofferenza. Solamente e nient’altro che un grande, infinito rispetto, dunque, possiamo noi oggi restituire ai vivi e ai morti, chiedendo scusa d’essere arrivati così tardi a «comprendere» e a «condividere» la vicenda. È quel che ha fatto Simone Cristicchi con lo spettacolo «Magazzino 18», andando a spulciare, per poi narrare, le cose senza nome e senza numeri, ma da oggi con nuova anima, abbandonate dagli esiliati in quel disperato magazzino di Trieste. Cristicchi ha dato voce e senso a una storia che è rimasta muta per decenni. L’artista, che non ha ancora trentasette anni, ha potuto e saputo più degli storici paludati, perfino, che poco o niente hanno voluto ricordare di quell’esodo alla frontiera, voltando per anni la testa e la penna dall’altra parte. Il giovane Cristicchi ha potuto e saputo più dei politici navigati, mondo al quale non appartiene. E si vede, e si sente: libero artista in libero Stato. Un mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il 10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei territori italiani. Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della memoria. Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata dal «Tempo», con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente incomprensibile. La verità non può far male, neanche settant’anni dopo. Neanche quand’è raccontata con forza e dolcezza per non dimenticare.

Che le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga sui libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito editoriale, zero commemorazioni ufficiali. Achille Occhetto, l'ex leader comunista, in un'intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto gli eccidi con cinquant'anni di ritardo. È vittima della sua stessa disinformazione? Scrive  Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Quei massacri di migliaia di italiani a fine guerra sui confini orientali sono stati nascosti e negati talmente a lungo da apparire quasi una leggenda. Forse per questo Achille Occhetto, ex segretario del Pci, che con il suo partito ha contribuito a far credere che non esistessero, afferma candidamente in un’intervista: “Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la svolta della Bolognina. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza”. D’altronde è stato l’ultimo leader dei comunisti italiani, maestri nella propaganda e nel distorcere la verità. E perciò può essere rimasto vittima della sua stessa disinformazione se ha scoperto un pezzo di storia solo nel 1989. Oppure continua a mentire come hanno fatto i suoi compagni per quasi mezzo secolo, raccontando che gli esuli dell’Istria, Fiume e Dalmazia non erano semplici italiani in fuga dalle stragi comuniste ma fascisti che scappavano per i loro misfatti. Un messaggio che aveva già fatto presa nel 1947. C’è un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola con migliaia di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono stipati come bestie su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18 febbraio, arriva alla stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per distribuire pasti caldi agli esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una folla con bandiere rosse (toh, i compagni di Occhetto?) che prende a sassate il convoglio, mentre dai microfoni è diramato l’avviso “se i profughi  si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno è costretto a ripartire. Questo il clima. La propaganda comunista e la mistificazione della realtà, come sappiamo, hanno influenzato non poco la cultura italiana del secondo Novecento. Ma è stato impossibile seppellire la memoria: troppi profughi, troppi testimoni e quella destra che alimenta i ricordi. E poi c’è Trieste, che Occhetto conosce bene, città decorata con la medaglia d’oro al valore militare dal capo dello Stato, nella cui motivazione c’è scritto “…subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a manifestare attivamente il suo attaccamento alla Patria…”. Tutti sapevano delle foibe, anche se era scomodo e sconveniente parlarne. Per questo motivo facciamo fatica a credere che il prode Achille l’abbia saputo così tardi. Fosse stato per il Pci, probabilmente non se ne sarebbe mai parlato, ma per fortuna è stato sconfitto dalla storia. E al grande libro dei fatti è stata aggiunta quella pagina strappata.

Pianse Achille Occhetto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, seppellì il Partito comunista italiano dando vita al Pds, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Può sembrare incredibile, ma è lo stesso Occhetto quello che oggi si commuove per lo spettacolo teatrale “Magazzino 18” con il quale Simone Cristicchi ha messo in scena le foibe e l’esodo istriano, giuliano e dalmata. Quei drammi che proprio la sinistra italiana, per molti decenni, non ha voluto vedere per non dover fare i conti con sé stessa e perché ottenebrata dall’ideologia, adesso inteneriscono colui che pose la prima pietra per la costruzione della sinistra postcomunista.

Occhetto, come giudica lo spettacolo di Cristicchi?

«Davvero molto bello. Trasmette un grande pathos per via di vicende drammatiche nelle quali i torti e le ragioni non stanno tutti da una parte. Si è lontani da una visione manichea. Anche se da un punto di vista della vicenda storica, infatti, nel grande capitolo del ’900, tra fascismo e antifascismo le colpe stanno dalla parte del primo, occorre dire, e nello spettacolo di Cristicchi ne ho trovato traccia, che lo stalinismo ha “macchiato” le idealità dello stesso antifascismo».

Dunque Cristicchi, nel raccontarci che gli esuli non erano fascisti ma italiani che fuggivano da una dittatura, ha usato un metro di giudizio oggettivo?

«Non c’è dubbio. Cristicchi ci dice che, al di là delle affermazioni ideologiche con le quali si combattono delle battaglie politiche, ci furono anche molti antifascisti che si ingannarono, perché non capirono fino a che punto si stava vivendo il dramma di un popolo e non uno scontro fra nostalgici del fascismo e non, come invece una certa propaganda cerca di far vedere».

C’è chi a Cristicchi vorrebbe togliere la tessera onoraria dell’Anpi.

«Un’iniziativa totalmente sbagliata. Il pezzo teatrale di Cristicchi inquadra tutta la vicenda nel torto storico fondamentale del fascismo. L’autore ci dice, fin dall’inizio, che se non ci fosse stato quel tipo di guerra e soprattutto quel tipo di odio nazionalistico che aveva suscitato le reazione dell’altra parte, probabilmente non si sarebbe arrivati a quel punto. Poi, naturalmente, mette in evidenza come anche la sinistra allora non capì fino in fondo quel dramma umano. Non fummo messi nelle condizioni di vedere che cosa realmente accadeva, di capire il reale dramma che si nascondeva oltre i pretesti ideologici».

“Magazzino 18” ha provocato uno “strappo” fra quanti sostengono che il negazionismo è da respingere sia a “destra” che a “sinistra”, e quanti continuano a ritenere che il male del fascismo non è uguale a quello, spesso definito “presunto”, compiuto ai danni degli esuli. Foibe comprese.

«Non si può negare la drammatica realtà delle foibe. Forse ci furono degli antifascisti jugoslavi onesti che rimasero impigliati in quelle vicende, si possono fare delle analisi articolate quanto si vuole, ma il dato di fatto è indubbio».

Per decenni questo capitolo della nostra storia è rimasto sconosciuto.

«Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la “svolta della Bolognina”. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza».

Com’è stato possibile?

«Di fronte a una storia del ‘900 segnata dai gradi delitti e dalla conculcazione delle libertà da parte del nazifascismo, probabilmente si è cercato di non vedere, e di non ricercare, qualche cosa che poteva addolorarci. Il fatto che quella ricerca venisse poi svolta dalla parte fascista, ha provocato una reazione di tipo ideologico dall’altra parte. Il merito dello spettacolo di Cristicchi, ecco perché mi stupisco di certe posizioni, è che ha portato una vicenda drammatica e umana lontano dal furore degli opposti ideologismi, per ricollocarla nella sua drammatica realtà storica».

Lei ha pianto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, sancì la fine del Pci, ora si commuove assistendo alla messa in scena dell’esodo istriano. Se lo sarebbe mai immaginato?

«Ogni fatto umano, raccontato nella sua tensione reale, è destinato a commuovere. Non penso sia una commozione che fuoriesca da quell’orizzonte morale e ideale per cui mi sono commosso leggendo il Diario di Anna Frank o le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Ho ritrovato, sotto un segno diverso, lo stesso dramma pagato da innocenti».

La «guerra civile culturale» in Italia non è mai finita, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Se intorno a un cantante che mette in scena la «verità storica» sull’esodo istriano, giuliano e dalmata che «condannò» migliaia di italiani alla fame, alla sete e alla morte, si produce ancora uno «squarcio storico», allora siamo ancora lontani da una «storia condivisa». Con «Magazzino 18» andato in scena a Trieste, Simone Cristicchi racconta la verità stabilita dai documenti storici. La verità di italiani, non di fascisti, in fuga dalle «speciali purghe» titine e in cerca dell’agognata libertà. Una verità che a quanto pare può essere raccontata solo dopo una preventiva revisione del «copione» da parte dei «depositari» della verità. E se da una parte la onlus Cnj ha annunciato di aver raccolto qualche centinaio di firme di aderenti all’Anpi per chiedere che a Cristicchi venga ritirata la tessera onoraria dell’associazione dei partigiani, dall’altra c’è chi, fra i rappresentanti dei partigiani, nello spettacolo storico-teatrale di Cristicchi vede una ventata di verità. È il caso di Elena Improta, vicepresidente Anpi Roma, a cui abbiamo chiesto un commento sulla vicenda.

La vicenda Cristicchi ha riaperto una ferita che in realtà non si era mai chiusa. Che posizione ha l’Anpi sulla polemica innescata da «Magazzino 18»?

«Le posizioni nell’associazione non sono univoche. Mi sono informata, ho letto tutto e poi ho parlato con persone che hanno visto lo spettacolo di Cristicchi. Si tratta di iscritti al Partito democratico, persone che hanno avuto parenti deportati ad Auschwitz. Gente, insomma, vicina alla Resistenza e alla lotta di Liberazione. Ebbene, tutti mi hanno riferito che in quello spettacolo non hanno trovato assolutamente nulla di sconvolgente e che si tratta di una polemica assolutamente ideologica. Cristicchi ha solo voluto evidenziare che vanno condannate tutte le forme di violenza che hanno segnato la nostra storia. Non ci possiamo più nascondere».

Qualcuno, come la onlus Cnj, vorrebbe addirittura togliere la tessera onoraria dell’Anpi al cantante per aver ricordato le foibe e il destino di quegli esuli.

«Quelle associazioni e quegli esponenti territoriali dell’Anpi che hanno sottoscritto l’appello contro Cristicchi per il ritiro della tessera perché nel suo spettacolo ha ricordato le foibe, mi sembrano fuori dal mondo. Non c’è nulla di sconvolgente in quelle dichiarazioni. Ricordare quello che furono le foibe non è uno scandalo e nulla toglie al valore della Resistenza e alla lotta partigiana. Se memoria dev’essere, si ricordi tutto. È arrivato il momento di riconoscere che chi scappava da Tito non era fascista, ma cercava la libertà come la cercavano i nostri partigiani. Mi chiedo se chi ha rilasciato certe dichiarazioni abbia realmente visto lo spettacolo di Cristicchi. Il "negazionismo" va condannato a 360 gradi, anche quello sulle foibe».

C’è chi nell’Anpi ha una posizione molto rigida e si accoda alla richiesta di Cnj.

«Le opinioni di chi persegue rigidamente i valori dell’Anpi sono univoche nel senso che ricordano solo la violenza fascista, riconoscono e condannano solo quella, non quella delle foibe. Sto parlando della parte "conservatrice" che fa riferimento o che è vicina ai Comunisti italiani e a Rifondazione comunista. Sbagliano e lo ripeto. Ricordare le foibe non vuol dire negare la Resistenza o la lotta partigiana».

Accanto a Elena Improta c’è Mario Bottazzi, ex combattente partigiano ora nel comitato provinciale dell’Anpi romana. Va oltre, Bottazzi, e si chiede perché non si debbano ammettere nell’Anpi anche persone legate alla destra più moderna e antifascista. Sul «caso Cristicchi» abbiamo sentito anche Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi che si chiede: «Chi, come e quando ha deciso di dare la tessera ad honorem a Cristicchi? In ogni caso l’Anpi toglie le tessere solo in casi eccezionali, solo in presenza di gravissimi fatti di indegnità». Sottolinea, il presidente dell’Anpi, che «si occuperà della cosa, lo farà la sezione locale, per verificare di che spettacolo parliamo e di questa tessera ad honorem. Sarà una verifica seria e non improvvisata». E poi prosegue: «In genere sono per rispettare le manifestazioni d’arte, prenderle per quelle che sono e poi discutere. Certe cose non si affrontano a picconate, vanno rispettate. Se poi uno fa uno spettacolo per negare l’esistenza delle camere a gas, allora ci si arrabbia. Se invece affronta qualcosa che è ancora oggetto di discussione, è diverso». Infine Smuraglia ammette che su quegli esuli italiani in fuga da una dittatura perché in cerca della libertà e non in quanto fascisti, «è arrivato il momento di discutere seriamente, di affrontare l’argomento nelle sedi opportune».

Cristicchi: "Canterò e reciterò le foibe. E già mi insultano". Il cantautore porta a teatro il dramma giuliano-dalmata: "A 50 anni di distanza è ancora un argomento scomodo", scrive Francesco Cramer  su “Il Giornale”.

Perché questo tema?

«Per emozionare e illuminare delle storie rimaste al buio».

Di cui pure lei sapeva poco?

«Pochissimo. A scuola il dramma degli esuli istriani e dalmati non viene raccontato».

Eppure lei ha fatto studi umanistici.

«Liceo classico a Roma. Ma, come molti, da ragazzino davanti alla targa "Quartiere giuliano-dalmata" mi chiedevo chi fosse il signor Giuliano Dalmata».

Un capitolo di storia che dovuto studiare da solo?

«Sì. Ringrazio la mia curiosità e la mia sete di sapere».

Quando è nata l'idea dello spettacolo?

«Un anno fa, in una libreria di Bologna, mi ha colpito un libro di Jan Bernas: "Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani". L'ho divorato».

Poi?

«Ho contattato l'autore su facebook: "Dobbiamo parlarci...". Siamo diventati amici e abbiamo cominciato ad approfondire la cosa».

Da lì è partita l'idea di raccontare a teatro le storie narrate nel libro?

«Sì. Poi ho chiesto di poter visitare il Magazzino 18 di Trieste, inaccessibile al pubblico. Lì ho varcato la porta della tragedia».

Il Magazzino 18: l'immenso deposito di cose mai ritirate dagli esuli istriani.

«Impressionante la tristezza di quel luogo. C'è di tutto: quaderni di scuola, posate, bicchieri, armadi e sedie; montagne di sedie».

Da qui il titolo dello spettacolo: Magazzino 18. Cosa vedremo a teatro?

«Le vicende umane di una pagina nera e dimenticata, attraverso il personaggio principale: un archivista del ministero degli Interni inviato al magazzino a mettere ordine».

E attraverso gli oggetti emergeranno le storie vere?

«Sì, in sei o sette brani con altrettante canzoni. Tutti episodi drammatici e commoventi».

Ci anticipi qualcosa.

«Ci sarà la storia della tragedia dei comunisti di Monfalcone, partiti per la Jugoslavia per costruire il "Sol dell'avvenire". Solo che dopo il loro arrivo Tito ruppe con Stalin e venne accusato di deviazionismo. Per i comunisti di Monfalcone non ci fu scampo: furono considerati nemici e molti finirono nel gulalg di Goli Otok-Isola calva».

Una faida tra compagni.

«Certo. Un sopravvissuto racconta: "Sono stato utilizzato come utile idiota della storia e ho contribuito a far andar via i miei connazionali. Solo dopo ho capito"».

Lei sa che raccontare queste vicende è politicamente scorretto?

«Lo so bene. Su twitter e facebook sono arrivati i primi insulti. Qualcuno mi ha pure dato del traditore».

Traditore? E perché?

«Perché il mio spettacolo "Li romani in Russia", dove racconto il dramma dei soldati italiani inviati dal Duce sul fronte sovietico, mi ha affibbiato la patente di uomo di sinistra».

Invece?

«Invece a me interessa raccontare cose accadute. La verità è che siamo un Paese ancora intossicato dall'ideologia; che tanti danni ha fatto nel passato. Tra cui strappare alcune pagine di storia del nostro popolo».

Che lei vuole riattaccare.

«Certo. La mia vuole essere un'opera di educazione alla memoria. Per non dimenticare. Mai».

Cristicchi: «Io e la mia compagnia siamo stati insultati». Il cantante parla dalla sua pagina Facebook e risponde a chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18», scrive Carlo Antini su “Il Tempo”. Simone Cristicchi prende la parola in prima persona. E lo fa dalla sua pagina Facebook. Il cantautore romano risponde a chi lo contesta. A chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18» (che dovrebbe andare in onda in seconda serata il 10 febbraio su Rai1) perché colpevole di essere antipartigiano. Cristicchi è un artista coraggioso e non si fa intimorire dalle minacce. Neppure da chi ha chiesto la sua espulsione dall’Associazione Nazionale Partigiani. «La tessera mi è stata donata dall’Anpi stessa nel 2010 come attestato di riconoscenza per lo spettacolo con il Coro dei Minatori di Santa Fiora - ha scritto Cristicchi sul suo Facebook - A quanto mi risulta, qualche mese fa la richiesta è già pervenuta all’Anpi, che ha risposto "No" al ritiro della tessera. Ora un’oceanica folla (un centinaio di firmatari) ci sta riprovando, con la benedizione del CNJ, che continua a violare leggi sulla privacy pubblicando mie corrispondenze private sul loro sito». Ma Cristicchi denuncia anche veri e propri episodi di violenza e intimidazione subìti negli ultimi mesi. «Senza pensare al fatto che io e la mia compagnia abbiamo subìto insulti e una sospetta ruota squarciata durante il tour in Istria - conferma il musicista - Bel modo di esporre le proprie idee! Complimentoni». Alla lunga prende il sopravvento la rabbia e la voglia di mettere in luce le contraddizioni del movimento. «Detto questo, se da una parte è deludente constatare cotanta presunzione, sono quasi contento che stiano uscendo allo scoperto questi atteggiamenti, le loro critiche campate in aria e la valanga di menzogne sul mio spettacolo. Così mostrano il loro vero volto, in fondo non così diverso dagli estremisti di destra che loro si vantano di "combattere". Si. Indossando le magliette "I love foiba". Da antifascista, sono schifato da tutto ciò. La tessera gliela rispedisco io! In posta prioritaria. Altrimenti, senza tante chiacchiere, si facciano loro uno spettacolo con la loro "sacrosanta" verità. In fondo, ma molto in fondo, siamo un paese democratico, no?»

Cristicchi racconta le foibe "Ora mi danno del fascista". Il cantautore porta in scena un musical sugli orrori dei comunisti titini e l'esodo degli italiani dalmati. "Sfido l'estrema sinistra: venite a vedermi", scrive di Simone Paliaga su “Libero Quotidiano”.

«"Chi è Giuliano Dalmata?" si chiede in una battuta del musical, confondendo due aggettivi per un nome e cognome, il funzionario inviato da Roma a catalogare il materiale dei profughi italiani provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia. Probabilmente questi sono gli stessi pensieri che balzano alla mente quando a Roma ci si imbatte nel Villaggio giuliano dalmata», ci racconta Simone Cristicchi. In questi giorni che la parola negazionismo rimbalza ovunque il cantante si trova a Trieste per inaugurare il Salone del libro dell’Adriatico Orientale Bancarella (17-22 ottobre con oltre cento incontri) e per togliere il velo a una storia negata e dimenticata da anni. Si tratta di un altro negazionismo di cui pochi si ricordano: l’esodo di 300 mila italiani dalle terre italiane di Istria e Dalmazia alla fine della Seconda guerra mondiale a causa dell’occupazione jugoslava e con il beneplacito inglese. Per riportarlo al centro dell’attenzione al Politeama Rossetti di Trieste il 22 ottobre, con repliche fino al 27, verrà presentato in anteprima nazionale lo spettacolo di Simone Cristicchi e Jan Bernas Magazzino 18, per la regia di Antonio Calenda.

Cristicchi, prima che le venisse in mente di scrivere il musical sapeva di questo episodio storico?

«Vagamente. È un argomento che non si studia a scuola. L’ho conosciuto attraverso un libro che ho trovato a Bologna. Si tratta di “Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani” (Mursia) di Jan Bernas  che poi è diventato il coautore del musical. Tra quelle pagine ho trovato testimonianze di coloro che hanno vissuto l’esodo, il controesodo di molti monfalconesi poi andati in Jugoslavia e finiti a Goli Otok… Questi fatti nessuno li conosce».

Che cosa è il Magazzino 18?

«Mi trovavo a Trieste per fare delle ricerca sulla Seconda Guerra mondiale e ho sentito dell’esistenza di un deposito dove si trovano accatastate le masserizie degli esuli, il Magazzino 18. Dopo un po’ di traversie sono riuscito a visitarlo. E mi è sembrato di rivedere Ellis Island, l’isola dove gli emigrati italiani venivano tenuti in una sorta di quarantena prima di poter sbarcare negli Stati Uniti».

Perché ha pensato di ricavare uno spettacolo dalle vicende dell’esodo?

«Perché è una storia che merita di essere raccontata. Non è stato un lavoro di poco conto. Tra ricerche e scrittura mi ci è voluto un anno di fatiche. Prima ho cominciato a lavorare al testo e poi ne sono uscite anche le canzoni… Si tratta di un musical civile con una scenografia imponente, un coro, un’orchestra. Un lavoro che senza l’aiuto del teatro stabile non avrei potuto realizzare».

Cosa ha provato quando è entrato per la prima volta nel Magazzino 18?

«Avevo l’impressione di trovarmi in un luogo quasi sacro… era ricolmo degli oggetti degli italiani che erano stati costretti a lasciare le loro terre in Istria e Dalmazia. Mobili, poltrone, attaccapanni, tutto insieme. I numeri della tombola si trovavano a fianco di un cuscino. Su ogni sedia era appiccicato il nome del proprietario… era come se questi oggetti parlassero. Avevo l’impressione si essere immerso in una atmosfera fiabesca. In questo magazzino era finito il contenuto di un’intera città. È per questo che ho deciso di ambientare il musical dentro quelle pareti, dentro quel Magazzino».

La canzone che lo racconta ha scatenato una valanga di polemiche…

«Quando l’ho pubblicata sono rimasto colpito dalla quantità di critiche dell’estrema sinistra che mi sono piombate addosso. Se prima per i temi che toccavo mi consideravano di sinistra a un tratto sono diventato un fascista. Io invece sono un artista, voglio raccontare storie. Non mi interessano questi giochi politici. Mi sento libero di occuparmi delle storie che voglio. Più mi attaccano e più io mi incaponisco. Sfido queste persone che mi accusano. Spero vengano a teatro e si ricredano. Nel testo non c’è niente di revanscista. È equilibrato e intende raccontare un pezzo dimenticato della nostra storia di italiani».

Chi ha strumentalizzato questa vicenda penalizzandone la diffusione?

«La strumentalizzazione politica è stata fatta dall’estrema destra come dall’estrema sinistra. Negli anni Settanta gli uni lo hanno impiegato come mezzo di propaganda mentre a sinistra provavano a giustificarlo. Ma il giustificazionismo è pericoloso. Si può finire con avallare qualsiasi cosa».

Cosa ha provato la gente non ideologizzata… quella che non sta né da una parte né dall’altra?

«Una reazione di vergogna. Un po’ quella che ho provato io quando ne sono venuto a conoscenza per la prima volta. Ci si chiede come sia possibile che questa tragedia sia stata rimossa dalla nostra attenzione, che se ne trovino scarse tracce anche nei manuali scolastici…».

Ha intenzione di continuare in questo filone artistico?

«Certo. È un linguaggio ideale per raccontare la nostra storia. Il teatro civile attira un pubblico di intellettuali mentre la musica  è più coinvolgente. Dai bambini agli anziani, tutti possono godere dello spettacolo e imparare qualcosa sulla storia italiana. E se dovesse funzionare questo spettacolo potrei anche continuare, magari occupandomi del Risorgimento».

Foibe: il giorno del ricordo. L’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno del Ricordo nel 2007, userà queste parole: «Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe e va ricordata la “congiura del silenzio”, la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali».

Foibe, la verità dopo tanto silenzio, scrive Aldo Quadrani su “Viterbo Post”. Il Circolo Reale riportò alla luce la tragedia nel 1997. Gabbianelli la ricordò. Il 10 febbraio, l’Italia celebrerà il giorno del ricordo una ricorrenza civile nazionale istituita con legge del 30 marzo 2004 per non dimenticare le migliaia di Italiani trucidati dall’odio comunista, gettati nelle cavità carsiche, chiamate foibe. Nella nostra città, ma anche in gran parte d’Italia, di questo dramma non se ne ebbe notizia per tanti anni, grazie anche alla connivenza di una certa politica. Dobbiamo arrivare al 6 novembre 1997 quando il Circolo Reale della Tuscia in un pubblico convegno portò alla ribalta questo doloroso evento ed in quella occasione emerse la proposta di dedicare un pubblico sito a questi martiri. Ma si dovette attendere sino al 1999 e precisamente il 16 ottobre, giorno in cui venne intitolata la piazza esterna a Porta Faul ai “Martiri delle Foibe Istriane” grazie alla determinazione dell’allora sindaco Giancarlo Gabbianelli e dell’ allora assessore Antonio Fracassini. Chi era presente forse ancora ricorda la toccante e bellissima cerimonia con tante testimonianze di profughi e parenti di infoibati. Ma anche Viterbo dette il suo contributo di sangue come scoprì, a seguito di indagini, l’allora consigliere comunale Maurizio Federici: il ventenne Carlo Celestini conobbe la tremenda fine della sua vita in un Foiba e a lui fu dedicato il cippo che a tutt’oggi si erge nella piazza. Purtroppo i viterbesi, anche della provincia, che perirono in siffatte condizioni furono molti, come accertarono in seguito lo stesso Federici coadiuvato da Silvano Olmi. Con la nascita della festività nazionale c’è ora un Comitato denominato “10 febbraio” che magistralmente porta avanti annualmente il ricordo dei nostri martiri. Quest’anno la commemorazione avverrà con due giorni d’anticipo, domenica 8 febbraio alle ore 11,30 presso il Piazzale Martiri delle Foibe Istriane, per dar modo ai nostri Cittadini di poter partecipare e ricordare chi morì per la sola colpa di essere Italiano.

E allora le foibe? Si chiede Adriano Scianca su “Il Primato Nazionale”. È capitato una volta a chi scrive di telefonare, per ragioni professionali, a una delle tre maggiori università romane a ridosso della Giornata del Ricordo in onore delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata. Alla domanda su quali iniziative avesse preso l’ateneo per ottemperare agli obblighi di legge che prevedono pubbliche iniziative in occasione del 10 febbraio, il funzionario dell’università, sensibilmente imbarazzato, si affrettò a precisare: “Guardi, noi abbiamo anche un dipartimento di studi ebraici”. Al che fu chiaro che il passacarte di turno confondeva la Giornata del ricordo (10 febbraio) con il Giorno della Memoria (27 gennaio) e che evidentemente no, la sua università non aveva organizzato alcuna iniziativa per ricordare i connazionali trucidati nelle cavità carsiche. Volendo, l’aneddoto evidenzia anche una stortura nel rapportarsi alla stessa commemorazione del 27 gennaio (che c’entra il fatto di ricordare l’Olocausto con il fatto di avere un dipartimento di studi ebraici?), ma non infieriamo ulteriormente. A quanto pare, il ricordo è una cosa più complicata di quanto qualcuno immaginasse. Non basta istituire una giornata ad hoc per riattivare una memoria interrotta, se non si va a lavorare sulle ragioni di quella interruzione. Certo, magari la Rai domani sera trasmetterà “Il cuore nel pozzo”, la melensa fiction cerchiobottista in cui non si parla di comunisti e in cui gli esuli cantano “O sole mio”, tipico canto del confine orientale. Ma il ricordo vero è un’altra cosa e la classe intellettual-mediatica italiana si guarda bene dall’accostarvisi, in quanto erede spirituale di chi infoibò, torturò, stuprò, cacciò i nostri connazionali, di chi non li fece sbarcare nelle stazioni a cui approdavano dopo l’esodo, di chi gettava il latte destinato ai neonati affamati in terra, con gesto di scherno e sadismo, di chi ha imposto che per anni sulle foibe cadesse un velo di vergognoso silenzio. E dopo aver lasciato per anni il ricordo in mano a un pugno di patrioti solitari, che hanno tenuto viva la memoria per anni in mezzo all’indifferenza complice, oggi si denunciano quei pochi perché strumentalizzerebbero la storia. Non scordiamo, del resto, che poco tempo fa una mediocre personalità dello spettacolo, paracadutata per meriti familiari in prima serata, poteva lanciare il tormentone “E allora le foibe?” (cosa semplicemente inconcepibile in relazione a ogni altra grande tragedia del Novecento) come a sottolineare che chi ha a cuore il martirio delle terre del confine orientale è forse troppo invadente, insistente, petulante, dovrebbe darsi una calmata. Come se di foibe si parlasse in continuazione, come se l’argomento avesse ormai stancato, fosse un fatto assodato, come se non se ne potesse più. E forse, per alcuni, è così. Perché le foibe ricordano la loro eterna colpa e quindi quel nome è per loro insopportabile. Un motivo in più per continuare a pronunciarlo: e allora le foibe?

Il 10 febbraio, data della ratifica dei trattati di pace del 1947, si ricordano gli eccidi in Istria e Venezia-Giulia. 10 febbraio 2015. A 70 anni dai massacri del 1945, scrive Edoardo Frittoli su “Panorama”. La serie di eccidi noti come i massacri delle foibe possono essere divisi in due distinti periodi: gli "infoibamenti" del settembre-ottobre 1943 e le stragi del 1945, che in alcuni casi si protrassero fino al 1947. Non si conosce esattamente ad oggi il numero esatto delle vittime. La storiografia attuale comprende una forbice stimata tra i 5000 e i 12.000 morti. Al di là degli approcci ideologizzati dalla letteratura del dopoguerra e del silenzio sotto il quale passarono gli anni della Guerra Fredda e della Jugoslavia "non allineata" di Tito, sembrano essere all'origine dei massacri una serie di gravi concause, alcune risalenti a decenni antecedenti i fatti. Le popolazioni della Venezia-Giulia, dell'Istria e della Dalmazia a cavallo tra il secolo XIX e il XX  erano caratterizzate dalla dualità etnico-linguistica italiana e slava. Quest'ultima, originariamente rurale, si trovava in una posizione socio culturale più bassa rispetto agli italiani, che costituivano una sorta di borghesia urbanizzata. Tra la fine dell'800 e la Grande Guerra i movimenti nazionalisti slavi, specie in Dalmazia, furono apertamente sostenuti dall'Impero Asburgico in funzione anti-italiana. La vittoria del 1918 portò all'occupazione di tutta la Venezia Giulia, dell'Istria e dalla Dalmazia. Quest'ultima fu alla fine negata all'Italia dalla "Dottrina Wilson", e Roma ottenne solo Zara e alcune isole. Da questa situazione tra gli irredentisti italiani nacque il mito della "vittoria mutilata", ripresa totalmente dal fascismo che si affacciava al potere. Dopo il 1922 inizia il processo di "fascistizzazione" attraverso la proibizione dell'uso delle lingue slave, l'esclusione dalle cariche pubbliche dei cittadini di origine non-italiana e la conseguente attribuzione a soli cittadini italiani dell'istruzione pubblica. Con l'aggressione italo-tedesca del 1941 la geografia di Slovenia, Croazia e Dalmazia fu riscritta. L'Italia procedette all'annessione di Lubiana e gran parte dell'attuale Slovenia. La Croazia passò sotto il regime filofascista di Ante Pavelic. Gli eventi bellici fecero poi precipitare la situazione. Nel 1943 i partigiani jugoslavi erano impegnati nella lotta contro i tedeschi e gli italiani quando arrivò l'8 settembre e il conseguente sbandamento del Regio esercito. Proprio a seguito dell'armistizio si colloca la prima ondata di assassinii legati alle foibe. Nei mesi precedenti, la lotta antipartigiana condotta dagli italiani e dagli alleati tedeschi aveva portato ad alcuni gravi episodi di repressione, sfociati in veri e propri massacri tra la popolazione civile. In Croazia Ante Pavelic, alleato dell'Asse, perseguì violentemente i partigiani, gli ebrei e gli zingari. Parecchi prigionieri sloveni erano stati portati nel campo di concentramento di Gonars, in Friuli. Così come i partigiani jugoslavi furono internati da Pavelic nel campo di concentramento di Jasenovac. All'indomani del' 8 settembre parte del territorio istriano era caduto in mano ai partigiani jugoslavi, i quali compilarono liste di presunti collaborazionisti del regime fascista, che comprendevano frequentemente nomi estranei alle istituzioni nazifascisteo all'esercito. Spesso si trattava di civili italiani ritenuti "in vista" dalla popolazione slava. Gli arrestati, condotti a Pisino, furono fucilati e infoibati. Altri massacrati nelle miniere della zona. Si trattava di circa 600 persone, trascinate e gettate nelle foibe spesso ancora vive, legate tra loro da un filo di ferro collegato a pesanti massi. Nel dicembre 1943 i tedeschi riprendono l'Istria, nell'offensiva che porterà i territori della Venezia-Giulia, Istria e Dalmazia a costituire la cosiddetta zona d'Operazioni del Litorale Adriatico (OZAK) di fatto annessa al Terzo Reich. Qui cominciarono ad operare a fianco dei tedeschi i reparti italiani della RSI (Guardia Nazionale Repubblicana, il reggimento Alpini "Tagliamento", reparti delle Brigate Nere) che si macchiarono di ulteriori tragici episodi di repressione. Ad appesantire il bilancio contribuirono i bombardamenti alleati della zona costiera e l'avanzata dei titini che tra l'autunno del 1944 e la primavera del 1945 riconquistarono la Venezia-Giulia puntando rapidamente su Trieste. L'arrivo degli uomini di Tito segnò la fine anche per gli italiani che avevano fiancheggiato gli jugoslavi nella lotta contro fascisti e nazisti. La polizia segreta di Tito, l'OZNA, comprese negli elenchi dei nemici dello stato comunista di Jugoslavia anche molti elementi facenti parte del CLN. La furia vendicatrice degli uomini di Tito si riversò anche su elementi del clero locale che non si erano macchiati di collaborazionismo. Nella primavera del 1945 furono sterminati nelle foibe migliaia di persone, non solo italiane, non solo membri delle milizie fasciste del Litorale Adriatico. Anche gruppi di Sloveni che si opponevano alla futura Jugoslavia comunista, anche membri di formazioni politiche "non allineate" quali gli Autonomisti istriani, i cui vertici furono barbaramente assassinati. Neppure i membri della Resistenza italiani di ritorno dai campi di concentramento furono risparmiati. Alla tragedia si aggiunse tragedia in quanto i titini, vicini alla vittoria finale, parevano non limitarsi all'acquisizione territoriale della Venezia-Giulia. Essi ritenevano che la vittoria militare coincidesse con quella della rivoluzione sociale comunista. La classe borghese in quelle zone era tradizionalmente identificata con la popolazione italiana tout court , al di là delle appartenenze politiche. Nei mesi del caos che precedettero la fine della guerra molte furono anche le morti dovute a rappresaglie locali, vendette personali o questioni legate a beni e proprietà. Particolarmente cruenta fu la situazione di Trieste e Gorizia all'arrivo dei titini.  Oltre alla eliminazione fisica e all'occultamento nelle foibe del Carso, molti furono gli italiani e in genere gli oppositori di Tito ad essere internati nel terribile lager di Borovnica, nel quale i prigionieri furono massacrati dopo orribili torture fisiche. Sembrava in sostanza che la rappresaglia in quelle zone non si sarebbe arrestata con la fine della guerra, ma che sarebbe proseguita al fine di garantire il nuovo stato jugoslavo contro ogni tipo di opposizione. Cosa che in Italia non si verificò in quanto la Resistenza non si identificherà mai, come in Iugoslavia, con una nuova realtà nazionale (La Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia) in continuità con il movimento resistenziale. Il massacro di migliaia di vite umane nella profondità delle foibe fu messo a tacere praticamente subito. L'inizio della Guerra Fredda vide le mire del maresciallo Tito ridimensionate con la costituzione del TLT di Trieste (zona libera). Nel 1948 poi avviene lo strappo tra Belgrado e Mosca. Sia il PCI che il governo ritennero prudente non riaprire la questione delle foibe.  Il governo e le istituzioni per evitare di affrontare la questione dei crimini di guerra compiuti dagli italiani in un contesto internazionale molto teso. Così come ambiguo rimarrà l'atteggiamento dei comunisti italiani tra il 1945 e il 1948. Questi avevano avvallato l'ingresso dei titini nella Venezia Giulia, acconsentito a tutte le rivendicazioni territoriali jugoslave dal 1945 in avanti. Fino al 1948, anno della rottura tra Stalin e Tito e alla ratifica dei trattati di pace a Parigi il 10 febbraio 1947. Poi il grande silenzio internazionale ha coperto per decenni le imboccature delle depressioni carsiche e il loro contenuto di morte.

La tragedia delle Foibe: 60 anni di silenzio. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali. Scopriamoli insieme, scrive Nicolamaria Coppola su “Quotidiano Giovani”. È stato un tabù per decenni: non una riga sui libri di scuola, nessuna pubblicazione storica nel grande circuito editoriale, niente commemorazioni ufficiali. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali: innanzitutto la necessità, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, del blocco occidentale di stabilire rapporti meno tesi con la Jugoslavia in funzione antisovietica; cause politiche dal momento che il PCI non aveva interesse a evidenziare le proprie contraddizioni sulla vicenda e le proprie subordinazioni alla volontà del comunismo internazionale; un silenzio da parte dello Stato Italiano che voleva sorpassare tutto il capitolo della sconfitta nella guerra da poco conclusasi. Solo in quest'ultimo decennio il dramma delle foibe è tornato alla ribalta, e nonostante le polemiche ideologiche si è cominciato a fare luce sulla tragedia. Dal 2005 si commemorano, nella “Giornata del Ricordo” il 10 febbraio, le vittime dei massacri delle foibe, ma sono ancora pochi gli Italiani che sanno effettivamente di cosa si tratti e cosa abbiano rappresentato per la generazione del dopoguerra. Secondo un sondaggio commissionato dall'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, solo il 43% dei nostri connazionali sa cosa siano le foibe e ancora più bassa è la percezione sul significato dell'Esodo giuliano-dalmata (22%). Il 46% dei giovani ha una cognizione abbastanza chiara della tragedia, ma i dubbi e le incertezze sono ancora tanti. Le foibe sono delle cavità naturali con ingresso a strapiombo presenti sul Carso, la zona montuosa compresa tra Trieste, la Slovenia, l'Istria e la Dalmazia, usate per occultare i cadaveri di un numero non preciso di persone. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale i partigiani comunisti di Tito gettarono- infoibarono - in queste profonde voragini migliaia di persone, alcune dopo averle fucilate, altre ancora vive, colpevoli o di essere italiane o di essere contrarie al regime comunista. La prima ondata di violenza esplose subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 tra l'Italia guidata dal Generale Badoglio e le truppe anglo-americane: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicarono contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Li consideravano “nemici del popolo”, accusandoli sia di non essere comunisti e, quindi, ostili a Tito, sia, soprattutto, di aver contribuito, allorquando il regime fascista impose in tutto il Venezia Giulia una violenta politica di snazionalizzazione, all'eliminazione delle minoranze serbe, croate e jugoslave in quella regione. Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba: qui gli aguzzini, non paghi dei maltrattamenti già inflitti, bloccavano i polsi e i piedi tramite filo di ferro ad ogni singola persona con l’ausilio di pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre tramite il di ferro. I massacratori si divertivano, nella maggior parte dei casi, a sparare al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba spingendo con sé gli altri. La violenza aumentò nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupò Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito, al grido di «Epurare subito», «Punire con severità tutti i fomentatori dello sciovinismo e dell’odio nazionale», si scatenarono di nuovo contro gli italiani, e a cadere dentro le foibe furono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. L'ondata di violenza non risparmiò neppure le popolazioni slovene contrarie al progetto politico comunista jugoslavo, le quali, oltre che infoibate, vennero deportate nelle carceri e nei campi di prigionia, tra i quali va ricordato quello di Borovnica. Questa carneficina, che testimonia l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti, finì il 9 giugno 1945, quando Tito e il generale Alexander tracciarono la linea di demarcazione Morgan che prevedeva due zone di occupazione, la A e la B, dei territori goriziano e triestino, confermate dal “Memorandum di Londra” del 1954. È la linea che ancora oggi definisce il confine orientale dell’Italia. La persecuzione degli Italiani, però, durò almeno fino al 1947, soprattutto nella parte dell'Istria più vicina al confine e sottoposta all'amministrazione provvisoria jugoslava. Secondo lo storico Enzo Collotti, parlare delle foibe significa «chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell'arco di un ventennio con l'esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari e sociali concentratesi, in particolare, nei cinque anni della fase più acuta della Seconda Guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell'odio, delle foibe, dell'esodo dall'Istria». Le foibe sono state il prodotto di odi diversi: etnico, nazionale e ideologico. «Furono la risoluzione brutale di un tentativo rivoluzionario di annessione territoriale», ha sintetizzato lo storico triestino Roberto Spazzali. «Chi non ci stava, veniva eliminato».

IL SILENZIO SULLE FOIBE: UN GENOCIDIO CELATO DA OMBRE, scrive Giuseppe Papalia su “Secolo Trentino”. Foibe. Probabilmente a molti questa parola direbbe ancora poco se l’argomento non fosse stato portato alla ribalta dell’opinione pubblica, istituendo una giornata della memoria, meritata quanto agognata e ancora oggi criticata e strumentalizzata dalle diverse fazioni politiche che ne recriminano l’accaduto. Il 10 febbraio di ogni anno, infatti, si ricorda questo terribile genocidio ancora impresso nella mente di molti, di quell’Italia del dopoguerra travolta dalla miseria e dalla fame. Di quel paese coinvolto in una crisi identitaria radicale, non solo politica ma quasi metafisica. In cui la guerra e la persecuzione erano solo i sintomi di una guerra ormai ultima, la prova, che negli anni a venire avrebbe gettato una luce cruda su quanto accaduto. Quella luce che in molti oggi sembrano non voler riesumare, nonostante i corpi riesumati in quelle fosse furono circa 11000, comprese le vittime recuperate e quelle stimate, più i morti nei campi di concentramento jugoslavi. Una riflessione scaturisce in merito a quella storia vissuta eppure dimenticata dai più, impressa tuttavia nelle menti delle generazioni che l’hanno vissuta sulla loro pelle l’8 settembre del 1943, quando i territori istriani, giuliani e dalmati, dapprima sotto l’influenza tedesca, venivano in seguito occupati dai partigiani comunisti di Tito. Titini che, comunemente ai partigiani comunisti italiani, non solo nutrivano il progetto di avanzare in un paese ormai stremato e inerme (segnato dalla caduta del fascismo) recriminandone la conquista territoriale, ma addirittura rivelarono ben presto quell’odio etnico che li animava. L’intenzione di “de-italianizzare” i territori occupati con metodi terribili fu presto svelata. Metodi che nulla avevano da invidiare a quelli nazisti adottati nei confronti di popoli innocenti e che nulla centravano con i fatti accaduti nell’Europa della grande guerra e dei crimini di guerra. Così, occorre oggi ricordare, che Italiani senza particolare distinzione di sesso, età o fazioni politiche, erano prelevati e poi eliminati con l’unica colpa forse, di non aver partecipato attivamente a piani espansionistici di Tito, che costrinse ben 350000 persone a  fuggire dalle loro terre e altre 11000, a essere uccise con modalità di una ferocia inaudita. Nella sola foiba di Basovizza, furono rinvenuti 2000 cadaveri. Nonostante in molti abbiano portato il tema alla considerazione dell’opinione pubblica, sorge spontanea una riflessione. Possibile che solo ora, dopo settantanni di macabra storia celata e quasi dimenticata, se non addirittura strumentalizzata a piacere dalle diverse fazioni politiche, possiamo ritenerci soddisfatti dell’istituzione di una giornata della memoria e (addirittura) dell’uscita di un film sull’avvenimento di tale fatto?  E pensare che la cinematografia e tutte le varie ricorrenze istituite ad hoc, non si sono fatte aspettare più di tanto per quel che concerne la Shoah. Per quale motivo? Che le foibe fossero meno importanti? O probabilmente perché nonostante tutto, ancora oggi, le foibe non sono ancora entrate nella cosiddetta “memoria condivisa” di un popolo (quello italiano) che ne fu vittima oltre che carnefice? Come scrisse il grande giornalista Indro Montanelli, “sicuramente il silenzio sulle foibe oggi si spiega facilmente, considerando che la storiografia italiana del dopoguerra era di sinistra, la quale apparteneva certamente al comunismo slavo e di cui era succube e ne curava gli interessi. Di questo quindi non si poteva parlare poiché della morte di tante persone ne risentiva la coscienza. Ammesso che ce ne fosse una, in nome di una resistenza che altro non era che una guerra civile tra italiani stessi.” Forse occorrerà domandarsi cosa, al cospetto dei quei tragici avvenimenti, viene oggi ricordato nell’immaginario collettivo comune. Di quel macabro periodo in cui tutto pareva che fosse quasi un nodo, che prima o poi sarebbe certo venuto al pettine.

Foibe: anche decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi, scrive “Imola Oggi”. Cinquanta sacerdoti tra le vittime delle foibe. Il racconto di Piero Tarticchio, parente di un sacerdote martire di quel periodo. La storia delle foibe è legata al trattato di pace firmato a Parigi il 10 Febbraio 1947, che impose all’Italia la cessione alla Jugoslavia di Zara – in Dalmazia –, dell’Istria con Fiume e di gran parte della Venezia Giulia, con Trieste costituita territorio libero tornato poi all’Italia alla fine del 1954. Dal 1947 al 1954 le truppe jugoslave di Tito, in collaborazione con i comunisti italiani, commisero un’opera di vera e propria pulizia etnica mettendo in atto gesti di inaudita ferocia. Sono 350.000 gli Italiani che abbandonarono l’Istria, Fiume e la Dalmazia, e più di 20.000 le persone che, prima di essere gettate nelle foibe (cavità carsiche profonde fino a 200 metri), subirono ogni sorta di tortura. Intere famiglie italiane vennero massacrate, molti venivano legati con filo spinato a cadaveri e gettati nelle voragini vivi, decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi. Nella sola foiba di Basovizza sono stati ritrovati quattrocento metri cubi di cadaveri. Per decenni questa barbarie è stata nascosta, tanto che l’agenzia di stampa “Astro 9 colonne”, nel fare un conteggio dei lanci di agenzia pubblicati dal dopoguerra ad oggi sul tema delle foibe, ha scoperto che fino al 1990 erano stati poco più di 30. Negli anni Novanta l’attenzione per il tema è aumentata: oltre 100 fino al 1995, l’anno successivo i lanci sono stati ben 155. Negli anni recenti ogni anno ce ne sono stati addirittura più di 200. Dopo anni di silenzio la vicenda è arrivata in Parlamento, e con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 è stato istituito il ”Giorno del Ricordo”, per conservare la memoria della tragedia delle foibe. Calcolare esattamente il numero delle vittime è difficile, ma sono stati almeno 50 i sacerdoti uccisi dalle truppe comuniste di Tito. Interpellato da ZENIT, Piero Tarticchio, che all’epoca dei fatti aveva sette anni, ha ricordato la tanta gente che partecipò al funerale del suo parente don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino e attivo nell’opera caritativa di assistenza ai poveri, ucciso il 19 settembre del 1943 e sepolto il 4 novembre. Il sacerdote venne preso di notte dai partigiani jugoslavi, insultato e incarcerato nel castello dei Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo averlo torturato, lo trascinarono presso Baksoti (Lindaro), dove assieme a 43 prigionieri legati con filo spinato venne ucciso con una raffica di mitragliatrice e gettato in una cava di bauxite. Tarticchio ha raccontato a ZENIT che il 31 ottobre, quando venne riesumato il cadavere, si vide che in segno di scherno gli assassini avevano messo una corona di filo spinato in testa a don Angelo. Don Tarticchio viene oggi ricordato come il primo martire delle foibe. Un’altra delle vittime fu don Francesco Bonifacio, un sacerdote istriano che per la sua bontà e generosità veniva chiamato in seminario “el santin”. Cappellano a Volla Gardossi, presso Buie, don Bonifacio era noto per la sua opera di carità e zelo evangelico. La persecuzione contro la fede delle truppe comuniste era tale che non poté sfuggire al martirio. La sera dell’11 settembre 1946 venne preso da alcune “guardie popolari”, che lo portarono nel bosco. Da allora di Don Bonifacio non si è saputo più nulla; neanche i resti del suo cadavere sono mai stati trovati. Il fratello, che lo cercò immediatamente, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie false. Per anni la vicenda è rimasta sconosciuta, finché un regista teatrale è riuscito a contattare una delle “guardie popolari” che avevano preso don Bonifacio. Questi raccontò che il sacerdote era stato caricato su un’auto, picchiato, spogliato, colpito con un sasso sul viso e finito con due coltellate prima di essere gettato in una foiba. Per don Francesco Bonifacio il 26 maggio 1997 è stata introdotta la causa di beatificazione, per essere stato ucciso “in odium fidei”. In “odium fidei” fu ucciso il 24 agosto del 1947 anche don Miroslav Buselic, parroco di Mompaderno e vicedirettore del seminario di Pisino. A causa della guerra in molte parrocchie della sua zona non era stato possibile amministrare la cresima, così don Miroslav accompagnò monsignor Jacob Ukmar per amministrare le cresime in 24 chiese diverse. I comunisti, però, avevano proibito l’amministrazione. Alla chiesa parrocchiale di Antignana i comunisti impedirono l’ingresso a monsignor Ukmae e don Miroslav. Nella chiesa parrocchiale di Pinguente una massa di facinorosi impedì la cresima per 250 ragazzi, lanciando uova marce e pomodori, tra insulti e bestemmie. Il 24 agosto nella chiesa di Lanischie, che i comunisti chiamavano “il Vaticano” per la fedeltà alla chiesa dei parrocchiani, monsignor Ukmar e don Milo riuscirono a cresimare 237 ragazzi. Alla fine della liturgia i due sacerdoti si chiusero in canonica insieme al parroco, ma i comunisti fecero irruzione, sgozzarono don Miroslav e picchiarono credendolo morto monsignor Ukmar, mentre don Stjepan Cek, il parroco, riuscì a nascondersi. Alcuni testimoni hanno raccontato che prima di essere sgozzato don Miloslav avrebbe detto “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Al funerale i comunisti non permisero ai treni pieni di gente di fermarsi, nemmeno nelle stazioni vicine. Al processo i giudici accusarono monsignor Ukmar e il parroco di aver provocato gli incidenti, così il monsignore, dopo aver trascorso un mese in ospedale per le percosse ricevute, venne condannato ad un mese di prigione. Il parroco fu invece condannato a sei anni di lavori forzati. Su don Milo, il tribunale del popolo sostenne che non era provato che “fosse stato veramente ucciso”. Poteva essersi “suicidato a scopo intimidatorio”. Le prove erano però così evidenti che l’assassino venne condannato a cinque mesi di prigione per “troppo zelo nella contestazione”. Nel 1956, in pieno regime comunista la diocesi avviò segretamente il processo di beatificazione di don Miloslav Buselic, ed è diffusa ancora oggi la fama di santità di don Miro tra i cattolici d’Istria.

Crimini titini: cinquanta i sacerdoti infoibati, da Bonifacio a Bulesic, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo d’Italia”. È stato solo con la legge del 2004 che ha istituito il Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, per iniziativa del deputato triestino Roberto Menia, che la maggioranza degli italiani ha saputo cosa successe alla frontiera nordorientale negli anni Quaranta. Ventimila gli italiani uccisi, infoibati, oltre 350mila le popolazioni che dovettero forzosamente abbandonare l’Istria e la Dalmazia spinti dalla furia dei partigiani comunisti di Tito. Fu un genocidio in piena regola, che ha rispettato tutti i canoni: prima lo sterminio indiscriminato delle popolazioni residenti in un determinato territorio, tanto da costringere i superstiti ad abbandonarlo, poi l’occupazione di quel territorio e la confisca – meglio: il ladrocinio – delle terre e delle case ai proprietari legittimi. Ferite queste, insieme con gli assassinii di massa, che non sono mai state rimarginate. Tra gli infoibati, ossia le persone gettate, spesso vive, nelle depressioni carsiche chiamate foibe, ci furono persino sacerdoti. E anche questo è stato appreso recentemente, poiché per decenni su quella vicenda calò una pesantissima cortina di silenzio con la complicità del debole governo democristiano che non voleva dispiacere alla Jugoslavia ma che soprattutto non voleva rinunciare all’apertura a sinistra, che poi realizzò. Sembra che i sacerdoti assassinati in questo modo siano stati non meno di cinquanta, alcuni dei quali a tutt’oggi sconosciuti e alcuni dei quali di cui non è mai stato trovato il corpo. Come accadde per don Francesco Bonifacio, torturato e assassinato dai titini, che è stato proclamato beato il 4 ottobre 2008 nella chiesa di San Giusto a Trieste da Benedetto XVI. 62 anni dopo i fatti. Francesco Bonifacio era nato nel 1912 a Pirano, oggi in Slovenia, e per la sua bontà era stato soprannominato el santin. Nel 1946 era cappellano a Villa Gardossi, un grosso comune agricolo nell’entroterra, e fu lì che fu sorpreso da quattro “guardie popolari”, nome dietro cui si nascondevano i feroci assassini titini, i quali lo derisero, poi picchiarono selvaggiamente,lo lapidarono, lo spogliarono e lo finirono a coltellate prima di gettarlo in una foiba, detta di Martines, che non lo ha mai più restituito. Il fratello, che lo cercò immediatamente avendo saputo che cosa fosse successo, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie. Molti anni dovettero passare prima che si facesse luce sulla vicenda. Vennero fuori i testimoni che raccontarono le atrocità di quelle ultime ore. Ma la cortina di silenzio era già scesa, di lui non si parlò più per anni. Nel 1957 il vescovo di Trieste, Santin, avviò la causa di beatificazione, ma la pratica restò ferma per 40 anni, a riprova del fatto che sulla foibe doveva calare il silenzio per sempre. Solo Benedetto XVI, recentemente, ha avuto il coraggio di dichiarare Bonifacio ucciso in odio alla Fede. A Bonifacio si è aggiunto, nel settembre del 2013, il nome di Miro Bulesic, assassinato dai partigiani rossi nell’agosto del 1947 nell’Istria settentrionale. Bulesic è stato beatificato nell’Arena di Pola nel corso di una commovente cerimonia, nel corso della quale si è appreso che nelle diocesi croate negli anni Quaranta furono trucidati ben 434 sacerdoti, tra secolari e regolari, più altri 24 morti per le torture e le sevizie in carcere. Quel 24 agosto 1947, nel corso delle cresime nella chiesa di Lanisce, esponenti comunisti irruppero nell’edificio di culto, distrussero tutto, misero a ferro e fuoco la chiesa stessa e bastonarono selvaggiamente don Miro, gettandolo contro il muro e alla fine sgozzandolo con un coltello. Il responsabile, individuato, fu poi assolto. Ma la mattanza dei religiosi era cominciata molto prima: nel settembre 1943 i partigiani jugoslavi di notte sequestrarono don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino, e lo gettarono nelle carceri del castello di Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo qualche giorno venne portato Lindaro insieme con altre 43 persone, legate insieme col filo spinato, e colpito da raffiche di mitra e gettato in una cava di bauxite. Quando don Angelo fu riesumato si vide che gli assassini gli avevano messo sulla testa una corona di spine fatta di filo spinato. Tra i sacerdoti uccisi e infoibati vanno ricordati anche don Alojzij Obit del Collio, che scomparve nel gennaio del 1944, don Lado Piscanc e don Ludvik Sluga di Circhina, assassinato insieme con altri 13 loro parrocchiano nel febbraio dello stesso anno, don Anton Pisk di Tolmino, scomparso e poi verosimilmente infoibati ad ottobre 1944, don Filip Tercelj di Aidussina, sequestrato dalla polizia segreta jugoslava nel gennaio 1946 e successivamente scomparso, don Izidor Zavadlav di Vertoiba, arrestato e fucilato il 15 settembre 1946, e molti altri rimasti ancora senza nome.

 “Rosso Istria”, a rischio il film sulle foibe?, scrive Marco Minnucci su “Il Giornale”. Rosso Istria, il dramma del confine orientale del dopo guerra è il titolo del lungometraggio del regista Antonello Belluco, presentato a fine gennaio a palazzo Moroni, Padova. Il film sarà prodotto da Venice Film ed Eriador Film, sostenuti dalla Regione Veneto, con il suo fondo del cinema e dell’audiovisivo, con la collaborazione del Comune di Padova, della Treviso Film Commission e dell’ANVG (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia). Il capoluogo veneto sarà il teatro delle riprese che punteranno l’obiettivo sul 1943 anno in cui, per le popolazioni civili Istriane, Fiumane, Giuliane e Dalmate, si consuma la tragedia per mano dei partigiani di Tito spinti da una furia anti-italiana. Che il lungometraggio metta in risalto la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, barbaramente violentata e uccisa nel 1943 dai partigiani titini, è già scritto nel titolo, infatti era proprio Istria Rossa (il rosso è relativo alla terra ricca di bauxite dell’Istria) il titolo della tesi di laurea che Norma Cossetto stava preparando nell’estate del 1943 con il suo relatore, il geografo Arrigo Lorenzi. La Cossetto girava in bicicletta per i paesi dell’Istria, visitando luoghi, biblioteche, chiese, alla ricerca di archivi che le consentissero di sviluppare la sua tesi di laurea, che purtroppo non vedrà mai la luce perchè la studentessa verrà massacrata per la sola colpa di essere italiana. Non è un tema nuovo per Belluco, figlio di esuli, che già a novembre dello scorso anno era uscito con il film Il segreto di Italia, sulla strage compiuta dai partigiani nel 1945 a Codevigo; un film che non aveva mancato di suscitare aspre polemiche, che videro in prima fila l’ANPI di Padova. Chissà se anche in questa “opera seconda” Belluco inciamperà in quelle operazioni di boicottaggio che hanno rallentato e impedito la distribuzione del film nelle sale cinematografiche? Questa volta Belluco non sarà solo, poiché a dargli manforte ci sarà la collaborazione del cantautore Simone Cristicchi, anche lui presente alla conferenza padovana; l’autore di “Magazzino 18” sarà il compositore delle musiche che accompagneranno “Rosso Istria”. Quella tra Belluco e Cristicchi è una solidarietà artistica che, prima di sfociare in questa collaborazione, era già stata esternata dal cantautore romano sulla sua pagina Facebook con un post in cui sottolineava le similitudini tra l’ostruzionismo che aveva colpito il suo “Magazzino 18” e il “Segreto di Italia” e concludeva con questo messaggio d’ incoraggiamento: “Per fortuna, esiste una forma di promozione che nessuno può censurare. Si chiama “passaparola”. E allora…in bocca al lupo Antonello, e coraggio!” Non resta che augurarci che questa volta si faccia silenzio in sala ma, soprattutto, che ci sia una sala.

Io, minacciato per il mio spettacolo sulle Foibe”, scrive in un a intervista a Simone Cristicchi  “Il Giornale”.

In questi ultimi anni stai raccogliendo il testimone di Giorgio Gaber, porti in tournée in tutta Italia i tuoi spettacoli di teatro-canzone. In questi giorni sei in scena con “Magazzino 18″, uno spettacolo sulla tragedia delle Foibe che è al centro di polemiche secondo me vergognose. Che cos’è il Magazzino 18 e che cosa ti ha spinto a raccontare questa pagina tragica della storia d’Italia?

«Magazzino 18 è un luogo realmente esistente che si trova nel Porto Vecchio di Trieste, un hangar dove venivano messe le merci delle navi in transito; in questo magazzino n. 18 si trovano invece le masserizie degli esuli istriani, fiumani e dalmati, che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale furono costretti ad abbandonare le loro terre. Sono oggetti di vita quotidiana – letti, armadi, cassapanche, foto, ritratti – che ci raccontano una tragedia cancellata per tanti anni dalla storia e dalla memoria, io la chiamo “una pagina strappata dai libri di storia”. Ogni oggetto racconta la storia di una famiglia, di un vissuto, di un tessuto sociale strappato e mai più ricomposto. Con questo spettacolo ho cercato di ricomporre la loro storia dimenticata e di raccontarla a chi, come me fino a pochi anni fa, non ne era assolutamente a conoscenza».

È una pagina nascosta per 50 anni dai libri di storia, una cosa vergognosa. Come ti spieghi questo dividere ancora i morti in ‘morti di serie A’ e ‘morti di serie B? È vero che hai ricevuto delle minacce perché metti in scena uno spettacolo sulle Foibe?

«Lo spettacolo in realtà non è soltanto sulle Foibe, che sono un piccolo capitolo di una storia più complicata. Le persone che mi hanno criticato sono di estrema destra e di estrema sinistra, nessuno si è sottratto alla lapidazione di chi cerca di fare giustizia, di dare voce a chi non l’ha avuta per tanti anni; tutte queste critiche sono arrivate da persone che non hanno nemmeno avuto il buon gusto di vedere lo spettacolo, quindi mi scivolano addosso».

Non capisco perché ti attacchino sia da destra che da sinistra…

«Da sinistra perché è uno spettacolo “da fascisti”, da destra perché probabilmente avrei dovuto essere più incisivo in alcuni particolari di questa storia, quando invece il mio spettacolo vuole tendere a una pacificazione tra le parti e forse invece alcuni esponenti dell’estrema destra non cercano il dialogo. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, non accettano alcune cose e cercano sempre lo scontro. Non ho scritto questo spettacolo con Ian Bernas per creare ulteriori scontri e offese a questa gente».

La tua è sempre stata una musica di denuncia, ho sempre i brividi quando ascolto “Ti regalerò una rosa”. Tornando a un tema che hai affrontato anche in un tuo spettacolo, chi sono oggi i veri pazzi della nostra società?

«Probabilmente i veri pazzi sono i sognatori, quelli che credono che oggi si possa rifare una nuova Italia e cambiare un po’ il mondo, con una partecipazione attiva alla vita politica e sociale. I veri pazzi sono quelli che continuano a sognare e che non si lasciano soffocare da tutto quello che sta accadendo in questo momento».

Che cosa pensi della protesta dei Forconi, che proprio in queste ore stanno paralizzando molte piazze per protestare contro la linea del Governo?

«Non ho seguito bene la questione perché in questo momento sono in tournée in Croazia, posso dire che a volte sono delle valvole di sfogo difficili da gestire, ma che ci si deve aspettare… quando le persone sono soffocate a un certo punto esplodono in qualche modo. La mia paura è che questo tipo di manifestazioni possano portare a delle violenze, e quando c’è la violenza si passa sempre dalla parte del torto».

Tu sei sempre rimasto OFF, anche dopo il successo hai sempre imposto una tua linea artistica e autorale precisa fregandotene del mercato ufficiale, sei perfettamente in linea con il nostro magazine. Che consiglio ti senti di dare ai giovani artisti che cominciano questa carriera e che ci leggono su ilgiornaleOFF?

«Il consiglio che posso dare è quello di coltivare una curiosità per il mondo senza avere delle ideologie preconcette, di affidarsi all’istinto perché molto spesso ci guida verso mete a cui non avremmo mai pensato, come è successo a me: sono passato dal fumetto alla canzone, poi dalla canzone al teatro e alla scrittura, il 4 febbraio uscirà anche il libro di “Magazzino 18″, con tutti i racconti che ho raccolto in questi anni. Bisogna mantenere le antenne puntate e presentarsi al grande pubblico con una maturità quasi già acquisita, non arrivare da debuttanti e sentirsi però debuttanti sempre, per tutto il proprio percorso».

Vite negate, massacri, falsità. Anche la verità fu infoibata. Oggi la "Giornata del ricordo" per celebrare gli italiani cacciati e uccisi da Tito dopo la guerra. Una tragedia che nella gerarchia del dolore sta sempre dietro le vittime delle dittature fasciste, scrive Stefano Zecchi su “Il Giornale”. Cos'era accaduto sulle coste orientali italiane dell'Adriatico dopo la guerra? Niente di rilevante, avrebbero voluto rispondere chi governava l'Italia e chi da sinistra faceva l'opposizione. Soltanto un nuovo confine segnato con un tratto di penna sulla carta geografica dell'Europa. Vite negate. Amori, amicizie, speranze sconvolte, sentimenti calpestati, che per pudore, in silenzio, lontano da occhi inquisitori, l'esule arrivato dall'Istria, dalla Dalmazia, da Fiume chiudeva nel dolore, forse sperando che questo dignitoso comportamento lo aiutasse ad essere accolto da chi non ne gradiva la presenza. Si chiudeva così il cerchio dell'oblio, e una pesante coltre di omertà si distendeva sopra le sconvenienti ragioni degli sconfitti. La Storia non apre le porte agli ospiti che non ha invitato. Sceglie i protagonisti e i comprimari, anche se gli esclusi si sono dati tanto da fare. Esuli, allora, con la nostalgia del ritorno, con il dolore dell'assenza. L'esule dei Paesi comunisti non è mai stato troppo gradito; le sue scelte giudicate con sospetto. Nella gerarchia morale della sofferenza, egli rientra stentatamente, sì e no, agli ultimi posti, molto indietro rispetto agli esiliati delle dittature fasciste e dei sanguinari regimi latino-americani. In una intervista a Panorama del 21 luglio 1991, Milovan Gilas dichiarava tra l'altro: «Nel 1946, io e Edward Kardelij andammo in Istria a organizzare la propaganda anti italiana ... bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto». Gilas era il braccio destro di Tito, l'intellettuale del partito comunista jugoslavo; Kardelij era il teorico della «via jugoslava al comunismo», punto di riferimento dell'organizzazione della propaganda anti italiana. Dunque, due protagonisti di primissimo piano del partito comunista jugoslavo impegnati a cacciare con «pressioni di ogni tipo» gli italiani dalle loro case, dal loro lavoro, dalle loro terre. Tra le pressioni di ogni tipo ci furono il terrore e il massacro: una pulizia etnica. A migliaia gli italiani, senza nessun processo, senza nessuna accusa, se non quella di essere italiani, venivano prelevati di notte, fatti salire sui camion e infoibati o annegati. Non si saprà mai quanti furono ammazzati. A decine di migliaia: una stima approssimativa è stata fatta sulla base del peso dei cadaveri che venivano recuperati dalle foibe; nulla si sa degli annegati. E poi gli esuli: oltre 350mila, che lasciarono tutto, pur di rimanere italiani e vivi. Accolti in Italia con disprezzo, perché solo dei ladri, assassini, malfattori fascisti potevano decidere di abbandonare il paradiso comunista jugoslavo. Ricordo bene quando a Venezia arrivavano le motonavi con i profughi: appena scesi sulla riva, erano accolti con insulti, sputi, minacce dai nostri comunisti, radunati per l'accoglienza. Il treno che doveva trasportare gli esuli giù verso le Marche e le Puglie, dai ferrovieri comunisti non fu lasciato sostare alla stazione di Bologna per fare rifornimento d'acqua e di latte da dare ai bambini. Alla gente che abitava l'oriente Adriatico, fu negato dal nostro governo il plebiscito che avrebbe dimostrato come in quelle terre la stragrande maggioranza della popolazione fosse italiana. Prudente, De Gasperi pensava che l'esito del plebiscito avrebbe turbato gli equilibri internazionali e interni col PCI. A quel tempo, Togliatti aveva fatto affiggere questo manifesto a sua firma: «Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e collaborare con esse nel modo più stretto». Per esempio, sostenendo, come voleva il Migliore, che il confine italiano fosse sull'Isonzo, lasciando a Tito Trieste e la Venezia Giulia. I liberatori comunisti non potevano essere degli assassini: e così, sotto lo sguardo ipocrita dell'Italia repubblicana, con la vergognosa collaborazione degli storici comunisti, disposti a scrivere nei loro libri il falso, quella tragedia sparisce, non è mai accaduta. Ma il cammino trionfale della Storia dei vincitori si distrae e la verità incomincia ad affiorare. Non si dice con ottimismo che il tempo è galantuomo? Stavolta sembra di sì. Il 10 febbraio (giorno della firma a Parigi nel 1947 del trattato di pace) viene istituita nel marzo 2004 la «Giornata del ricordo», per celebrare la memoria dei trucidati nelle foibe e di coloro che patirono l'esilio dalle terre istriane, dalmate, giuliane. Ci sono voluti sessant'anni per incominciare a restituire un po' di verità alla Storia: adesso sarebbe un bel gesto che il nuovo Presidente della Repubblica onorasse questa verità ritrovata, recandosi al mausoleo sulla foiba di Basovizza per chiedere scusa alle migliaia di italiani dimenticati, offesi, umiliati, massacrati soltanto perché volevano rimanere italiani.

I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe. Il coordinatore dell'Anpi veneto riconosce che molti perseguitati italiani non erano fascisti ma oppositori del nuovo regime comunista e illiberale, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Si scusa con gli esuli in fuga dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia per l'accoglienza in patria con sputi e minacce dei comunisti italiani. Ammette gli errori della facile equazione profugo istriano uguale fascista e della simpatia per i partigiani jugoslavi che non fece vedere il vero volto dittatoriale di Tito. Riconosce all'esodo la dignità politica della ricerca di libertà. Maurizio Angelini, coordinatore dell'Associazione nazionale partigiani in Veneto, lo ha detto a chiare lettere venerdì a Padova, almeno per metà del suo intervento. Il resto riguarda le solite e note colpe del fascismo reo di aver provocato l'odio delle foibe. L'incontro pubblico è stato organizzato dall'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia con l'Anpi, che solo da poco sta rompendo il ghiaccio nel mondo degli esuli. Molti, da una parte e dall'altra, bollano il dialogo come «vergognoso». Angelini ha esordito nella sala del comune di Padova, di fronte a un pubblico di esuli, ammettendo che da parte dei partigiani «vi è stata per lunghissimi anni una forte simpatia per il movimento partigiano jugoslavo». Tutto veniva giustificato dalla lotta antifascista, compresa «l'eliminazione violenta di alcune centinaia di persone in Istria - le cosiddette foibe istriane del settembre 1943; l'uccisione di parecchie migliaia di persone nella primavera del 1945 - alcune giustiziate sommariamente e precipitate nelle foibe, soprattutto nel Carso triestino, altre - la maggioranza - morte di stenti e/o di morte violenta in alcuni campi di concentramento jugoslavi soprattutto della Slovenia». Angelini ammette, parlando dei veri disegni di Tito, che «abbiamo colpevolmente ignorato la natura autoritaria e illiberale della società che si intendeva edificare; abbiamo colpevolmente accettato l'equazione anticomunismo = fascismo e ascritto solo alla categoria della resa dei conti contro il fascismo ogni forma di violenza perpetrata contro chiunque si opponeva all'annessione di Trieste, di Fiume e dell'Istria alla Jugoslavia». Parole forti, forse le prime così nette per un erede dei partigiani, poco propensi al mea culpa. «Noi antifascisti di sinistra - sottolinea Angelini - non abbiamo per anni riconosciuto che fra le motivazioni dell'esodo di massa delle popolazioni di lingua italiana nelle aree istriane e giuliane ci fosse anche il rifiuto fondato di un regime illiberale, autoritario, di controlli polizieschi sulle opinioni religiose e politiche spinti alle prevaricazioni e alle persecuzioni». Il rappresentante dei partigiani ammette gli errori e sostiene che va fatto di più: «Dobbiamo riconoscere dignità politica all'esodo per quella componente di ricerca di libertà che in esso è stata indubbiamente presente». Gli esuli hanno sempre denunciato, a lungo inascoltati, la vergognosa accoglienza in Italia da parte di comunisti e partigiani con sputi e minacce. Per il coordinatore veneto dell'Anpi «questi ricordi a noi di sinistra fanno male: ma gli episodi ci sono stati e, per quello che ci compete, dobbiamo chiedere scusa per quella viltà e per quella volgarità». Fra il pubblico c'è anche «una mula di Parenzo» di 102 anni, che non voleva mancare. Il titolo dell'incontro non lascia dubbi: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti, siamo italiani e crediamo nella Costituzione». Italia Giacca, presidente locale dell'Anvgd, l'ha fortemente voluto e aggiunge: «Ci guardavamo in cagnesco, poi abbiamo parlato e adesso ci stringiamo la mano». Adriana Ivanov, esule da Zara quando aveva un anno, sottolinea che gli opposti nazionalismi sono stati aizzati prima del fascismo, ai tempi dell'impero asburgico. Mario Grassi, vicepresidente dell'Anvgd, ricorda le foibe, ma nessuno osa parlare di pulizia etnica. Sergio Basilisco, esule da Pola iscritto all'Anpi, sembra colto dalla sindrome di Stoccolma quando si dilunga su una citazione di Boris Pahor, scrittore ultra nazionalista sloveno poco amato dagli esuli e sulle vessazioni vere o presunte subite dagli slavi. Con un comunicato inviato al Giornale, Renzo de' Vidovich, storico esponente degli esuli dalmati, esprime «perplessità di fronte alle prove di dialogo con l'Anpi» che farebbero parte di «un tentativo del Pd di Piero Fassino di inserire i partigiani nel Giorno del ricordo dell'esodo». L'ex generale, Luciano Mania, esule fiumano, è il primo fra il pubblico di Padova a intervenire. E ricorda come «solo due anni fa a un convegno dell'Anpi sono stato insultato per un quarto d'ora perché avevo osato proporre l'intitolazione di una piazza a Norma Cossetto», una martire delle foibe. In sala tutti sembrano apprezzare «il disgelo» con i partigiani, ma la strada da percorrere è ancora lunga e insidiosa.

«QUEL SILENZIO ASSORDANTE SULLE FOIBE». Il comunismo e il terrore, l'intervento del Nuovo Psi di Qualiano su “Interenapoli”. Qual è il vero motivo di sessanta anni di silenzio sulle foibe? Chi ci ha guadagnato da questo silenzio? Quante carriere, politiche, universitarie, sono state costruite da questi assordanti silenzi? L’accesso agli archivi di Mosca, un tempo segreti, ha consentito la stesura di un bilancio delle vittime del comunismo spaventoso, addirittura quattro volte superiore a quello delle vittime del nazismo: il più colossale caso di carneficina politica della storia. A tutt’oggi c’è ancora chi ritiene improponibile un accostamento dei due regimi rifacendosi alla differente ispirazione iniziale: mentre il nazismo fu una dottrina dell’odio e i suoi crimini,pertanto prevedibili e legati alla sua stessa essenza, il comunismo è spesso considerato una dottrina di liberazione, di amore per l’umanità e i suoi delitti considerati a mo’ di errori, incidenti, deviazioni. Tale argomentazione è a dir poco artificiosa in quanto prevedeva in entrambi i casi lo sradicamento di una parte della società. L’utopia di una società senza classi e l’illusione di una razza pura esigevano l’eliminazione di individui che si riteneva,ostacolassero la realizzazione del progetto. Per questo il richiamo all’umanità del comunismo è servito spesso a dare una legittimazione superiore all’uso del “terrore”. Il principio umanitario della politica consiste nel non considerare nessun uomo superiore moralmente ad un altro. Il nazismo è considerato il regime più criminale del secolo, mentre il comunismo in virtù dell’alleanza dello stalinismo con le principali democrazie mondiali ne ha ricavato spesso un credito morale che non ha mai cessato di sfruttare: l’antifascismo. In virtù di questo valore i crimini comunisti sono diventati un indiscutibile strumento di legittimazione. Contrapporre la democrazia al fascismo permise al sistema comunista di presentarsi come “democratico” in quanto antifascista. In tale contesto si inserisce la complicità del comunismo italiano che in Italia ha peccato di gravi menzogne e di una palese incapacità di attuare un vero processo revisionistico. La volontà di palesare una superiorità morale del “comunista” rispetto agli altri non comunisti ha portato all’atteggiamento del PDS durante il periodo di tangentopoli che ha comportato la eliminazione di una intera classe dirigente nazionale. Il cinismo comunista fu accompagnato, insieme alla liquidazione a all’infoibamento di una intera classe dirigente ad un trasformismo mal celato complice un uso parziale della Giustizia che certamente non esaminò con eguale severità i finanziamenti illeciti di ogni partito, compresi i finanziamenti moscoviti all’ex partito comunista. La ragione del fallimento del tentativo degli “ex” comunisti di usurpare il socialismo liberale e la politica di Craxi risiede proprio nella incapacità di ripensare alla propria storia, ripudiando gli errori commessi e scavando fino infondo la tragedia e i crimini del comunismo. E’per questo che la riabilitazione della figura di Bettino Craxi non può venire da Fassino e dal DS. L’Europa dei totalitarismi e dell’uomo moralmente superiore all’altro uomo, perché politicamente diversi deve restare dietro di noi ma non può essere né dimenticata, ne sottaciuta perché non dobbiamo e non possiamo dimenticare. Il ricordo di ciò che copre di vergogna l’essere umano può impedire di ripercorrere la stessa strada dell’odio. La nostra gioventù è figlia di quei mali e deve diventare testimone dei valori della democrazia e della tolleranza. La tendenza al regime trova sviluppo dove c’è ignoranza e laddove non vengono insegnati i valori di una vita libera. Mafia, camorra e terrorismo dovrebbero essere sperati da anni, mentre a Scampia e in tutta la provincia di Napoli si muore e si uccide tutti i giorni e la corruzione riesce a trovare ampi spazi anche nelle istituzioni Il pluralismo culturale è stato il protagonista dello sviluppo politico, sociale ed economico del nostro paese e dell’intera Europa. “Le vittime della violenza non hanno colore politico”, è ciò che spesso si ascolta da chi forse cerca un alibi dimenticando che proprio l’odio politico ha provocato quelle vittime.

E non basta. Cristicchi contestato a Firenze durante lo spettacolo sulle foibe. Una cinquantina di persone sul palco contro «Magazzino 18» sull’esodo istriano del 1947. Il cantante: “Nessuno dei manifestanti ha visto la rappresentazione”, scrive “La Stampa”. «Nessuno dei manifestanti ha ritenuto fosse importante assistere in prima persona a ciò che erano venuti a contestare per scoprire se stavano dicendo o no la verità». Così il cantante Simone Cristicchi, sulla sua pagina Facebook, ha commentato la contestazione di giovedì sera al Teatro Aurora di Scandicci, dei gruppi «Noi saremo tutto» e «Firenze antifascista» prima del suo spettacolo «Magazzino 18» sull’esodo istriano del 1947. Una cinquantina di persone sono salite sul palco e hanno esposto lo striscione con la scritta «La storia non è una fiction. Non ricordiamo tutto» davanti a circa 800 persone accorse per l’evento. «Abbiamo rivendicato - si legge in una nota del movimento - la volontà di non trasformare la storia in una fiction. Questa volta a giocare sporco è Simone Cristicchi, che con il suo spettacolo mette in scena il peggior revisionismo storico volto a legittimare il nazionalismo italiano anti-slavo». Sul posto sono arrivate diverse pattuglie dei carabinieri ma i contestatori se ne erano già andati, senza creare ulteriori problemi. «Lo spettacolo - ha detto Patrizia Coletta, direttore di Fondazione Toscana Spettacolo - racconta pezzi di vita di una storia controversa, trattata da Cristicchi con molta delicatezza e rispetto dei vari punti di vista. Non è uno spettacolo di parte». «Dispiace solo che tra il pubblico - ha scritto il cantante sulla sua pagina Facebook - ci siano stati molti esuli, offesi oltremodo da questa ridicola pagliacciata». Al riguardo è intervenuto anche Giovanni Donzelli, Presidente del Gruppo regionale di Fratelli d’Italia, esprimendo «solidarietà all’autore e a esuli». «L’irruzione di ieri - si legge in una nota di Donzelli - allo spettacolo di Cristicchi sulle Foibe avvenuta a Scandicci è disumana, non doveva essere consentita».  Le polemiche non si placano e rimbalzano in Rete. Ma Cristicchi tira dritto e ribadisce: «Surreale che io debba dare delle spiegazioni a della gente che nemmeno ha avuto il buongusto di vedere lo spettacolo. No? E comunque - per questi “ultimi arrivati” - sono mesi che scrivo e rilascio interviste su Magazzino 18. Facile prendersela con me. Idea! Perché non provate a porre le vostre rimostranze direttamente agli esuli istriani fiumani e dalmati? Avreste il coraggio di guardarli in faccia?».  

Lo sfogo di Cristicchi: «Vado sul palco con la Digos in sala». «Spero che una cosa del genere non accada mai più». L'artista ancora scosso dalla contestazione subìta l’altra sera a Scandicci dal suo «Magazzino 18», scrive Carlo Antini su “Il Tempo”. «Spero che una cosa del genere non accada mai più». Simone Cristicchi è ancora scosso dalla contestazione subìta l’altra sera a Scandicci dal suo «Magazzino 18». Per venti minuti lo spettacolo è stato sospeso e i contestatori sono saliti sul palco srotolando uno striscione con la scritta: «La storia non è una fiction». Le foibe, dunque, continuano a far paura e a scatenare dure reazioni. Stasera, intanto, Cristicchi sbarcherà al Teatro Vittoria di Roma con «Mio nonno è morto in guerra». Lo spettacolo è diverso ma la cornice storica resta la seconda guerra mondiale. Cristicchi afferma di stare tranquillo. Quello che lo preoccupa è il clima di tensione respirato a Scandicci. «Si è sfiorata la rissa - racconta l’artista - Mi è dispiaciuto soprattutto per gli anziani presenti in sala. Uno di loro stava per avere un infarto. È stato un gesto violento nei confronti degli spettatori che hanno pagato il biglietto». Il cantante svela anche un retroscena della serata toscana. «Mi ha colpito la reazione di una vecchia esule istriana - prosegue - Si è alzata per andare a parlare con i contestatori. Alcuni di loro le hanno risposto che la signora non conosce la storia». Anche per fare chiarezza, in questi giorni viene pubblicato da Mondadori il libro «Magazzino 18 - Storie di esuli», in cui compaiono stralci del testo non compresi nella messinscena. «Il libro è importante perché aggiunge altri aneddoti sull’intera vicenda - spiega Cristicchi - Il testo teatrale è stato arricchito con l’aiuto di altri testimoni. Storie che non hanno trovato spazio nello spettacolo teatrale. Ci sono le vicende legate alla Risiera di San Sabba. È una storia che parla di dolore e ogni dolore ha la sua dignità». A chi lo accusa di non parlare dei crimini commessi dai nazifascisti o di criminalizzare la resistenza, Cristicchi risponde: «Ho puntato i riflettori anche sul processo di italianizzazione e sui crimini compiuti durante la seconda guerra mondiale. Senza contare che nello spettacolo definisco la lotta di liberazione sacrosanta, necessaria e giusta. Quello che non faccio è giustificare le foibe. Porto sul palco le parole degli esuli». Come se non bastasse, tutta questa attenzione nei confronti di «Magazzino 18» costringe lo spettacolo di Cristicchi ad andare in scena ogni sera con la Digos in sala. «Ogni sera è la stessa cosa con le forze dell’ordine che presidiano i teatri - prosegue - L’altra sera a Scandicci ho recitato con grande nervosismo. Anche ieri sera a Bergamo c’era la polizia e la Digos. Se penso che cose del genere non sono accadute neppure in Slovenia o a Trieste. Gli sloveni hanno fatto addirittura commenti positivi». La serata di oggi si avvicina. Al Teatro Vittoria di Roma andrà in scena «Mio nonno è morto in guerra». Stesso protagonista ma, probabilmente, minori tensioni. «Non sono preoccupato - conclude Cristicchi - Nello spettacolo di Roma ci sono anche storie di partigiani e della resistenza». In attesa di lunedì 10 febbraio, quando la Rai manderà in onda «Magazzino 18». Chissà che nel Giorno del Ricordo Cristicchi non accetti anche l’invito del Consiglio comunale di Firenze e partecipi alla seduta.

Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata in commemorazione delle vittime dell'Olocausto perpetrato dai nazisti tedeschi. In Italia di questo evento ne parlano tutti abbastanza, a volte anche a sproposito. Giusto per essere diverso io parlo degli altri olocausti.

Bisognerebbe andare a vedere ogni volta se la storia ci viene raccontata nel modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio lavoro. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o revisionare. E di questo parlarne con i leghisti e con chi nel profondo del suo cuore è razzista.

Parliamo delle foibe e la cultura rosso sangue della sinistra comunista.

La senatrice di Bergamo (Bergamo, non Trieste, sic!) Alessandra Gallone chiede che non si nasconda più la verità sulle foibe ed è firmataria con altri della richiesta di una commissione d'inchiesta sulle stragi del '43. «Oggi celebriamo un ricordo: il ricordo delle foibe, quell’immane tragedia che toccò il nostro popolo dell’Est, gli italiani di Trieste, di Quarnaro, dell’Istria, della Dalmazia, di Fiume e di tutti i luoghi ceduti. Significò per loro l’abbandono della propria terra – terra italiana, finita nel territorio della ex Iugoslavia – ma soprattutto sopruso, devastazione, morte. In quelle fosse comuni c’è un pezzo d’Italia e uno dei pezzi d’Italia cui più dobbiamo rispetto. Furono oltre 10.000 gli italiani che trovarono una morte orribile in quelle orribili fosse per mano dei partigiani nazionalisti comunisti iugoslavi, italiani colpevoli di essere italiani, mentre gli altri venivano strappati via dalle loro case e dalle loro terre, costretti a fuggire per scampare alle persecuzioni, eppure restando determinati nella volontà di rimanere italiani. Il genocidio di questi italiani – perché di una vera pulizia etnica si trattò – fu condotto senza distinzioni politiche, di censo, di sesso, di religione o di età. Furono arrestati cattolici ed ebrei, dipendenti privati ed industriali, agricoltori, pescatori, vecchi, bambini e soprattutto carabinieri, poliziotti e finanzieri servitori dello Stato. Gli eccidi del ’43 e del dopoguerra compiuti contro migliaia di inermi ed innocenti al confine orientale dell’Italia furono un vero crimine contro l’umanità, al pari di altri stermini compiuti e che ancora oggi vengono perpetrati in altre parti del mondo. Fu una guerra civile; e il furore ideologico e le vendette personali diedero vita alla pagina più triste della storia italiana. In questo quadro vanno inserite le vicende degli esuli, che hanno vissuto un duplice dramma: l’essere costretti ad abbandonare la propria casa vedendo trucidare i loro parenti e, subito dopo, l’essere accolti con indifferenza e in molti casi con ostilità da quella stessa Italia dalla quale avevano sperato di ricevere un abbraccio solidale. Per sentirci vicini a quanti hanno sofferto lo sradicamento, il minimo che possiamo fare è cercare di porre rimedio attraverso una obiettiva ricognizione storica e una valorizzazione di identità culturali di lingua e di tradizioni che non possono essere cancellate. Ma ciò che ancora mi sorprende è che nonostante sia trascorso così tanto tempo, il tempo necessario per ristabilire l’oggettività storica, il racconto di quei tragici avvenimenti non si trovi per nulla, o quanto meno non sia sufficientemente riportato nei libri di scuola dei nostri figli. Perché? Cosa dobbiamo ancora nascondere?»

Un mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il 10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei territori italiani. Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della memoria. Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata dal «Tempo», con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente incomprensibile.

Che le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga sui libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito editoriale, zero commemorazioni ufficiali. Achille Occhetto, l'ex leader comunista, in un'intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto gli eccidi con cinquant'anni di ritardo.

C’è un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola con migliaia di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono stipati come bestie su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18 febbraio, arriva alla stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per distribuire pasti caldi agli esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una folla con bandiere rosse (toh, i compagni di Occhetto?) che prende a sassate il convoglio, mentre dai microfoni è diramato l’avviso “se i profughi  si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno è costretto a ripartire. Questo il clima. La propaganda comunista e la mistificazione della realtà, come sappiamo, hanno influenzato non poco la cultura italiana del secondo Novecento.

E quello che è successo nel risorgimento e dell’unificazione dell’Italia di cui ha festeggiato i primi centocinquant’anni di vita nel 2011, chi ne parla?

Ma è stato sempre così. Le future generazioni non devono dimenticare. Tutti noi non dobbiamo dimenticare.

Milano, mozione leghista a Palazzo Marino: "Mettete al bando i partiti comunisti". Il documento è stato presentato dai consiglieri comunali Bastoni, Lepore e Iezzi: "E' arrivato il momento di equiparare per difetto i crimini compiuti dal comunismo a quelli commessi dal nazismo", scrive Oriana Liso su “la Repubblica” Il consigliere leghista Massimo Bastoni Una mozione non si nega a nessuno. I consiglieri comunali ne depositano sugli argomenti più disparati, spesso su temi molto distanti dalle questioni legate alla vita della città. Massimiliano Bastoni, Luca Lepore e Igor Iezzi, tre consiglieri comunali della Lega Nord a Palazzo Marino, hanno deciso di occuparsi della "messa al bando dei partiti comunisti": si intitola così la mozione che hanno depositato due giorni fa, chiedendo che il consiglio comunale di Milano impegni il sindaco e la giunta a "intervenire presso le sedi opportune (parlamento e governo) per sollecitare la messa al bando di quei partiti italiani che richiamano simboli e si rifanno a dottrine comuniste". La spiegazione di questa richiesta è molto articolata. E ha come premessa che "sono ormai passati 26 anni dalla caduta dei regimi comunisti dell'Europa centrale e orientale e che il crollo delle dittature rosse ha rappresentato la fine di un incubo per alcune popolazioni che finalmente hanno potuto assaporare il gusto della democrazia e della libertà". Per i tre consiglieri del Carroccio (manca soltanto la firma del capogruppo Alessandro Morelli) va combattuta la "nostalgia del comunismo", ideologia che "è stragista e si alimenta tramite una feroce dittatura costruita su principi demagogici". Poi citano i morti causati dal comunismo, "circa 100 milioni di vittime tra esecuzioni, decessi nei campi di concentramento, vittime della fama e delle deportazioni", un numero che "è decisamente superiore a quello dei morti dell'ideologia nazista, e ricordano che il Consiglio d'Europa, nel 2006, ha approvato la risoluzione 1481 sulla condanna internazionale dei crimini del comunismo. Ma i consiglieri del Carroccio (ormai sempre più alleato elettorale di Forza Nuova) esaminano anche il comunismo italiano, ricordando che "è stato fiancheggiatore del Pcus sovietico, che ha aggredito e offeso gli esuli istriani e che ha sterminato un numero spaventosamente grande di italiani completamente innocenti e senza alcun processo, negli anni che hanno seguito la fine della seconda guerra mondiale, e ha venduto la libertà del nostro paese ai soviet" e che, infine, "ha generato e mantenuto una rivoluzione sotterranea e perenne che a sua volta ha generato il terrorismo rosso". Per tutte queste ragioni, insomma, ritengono che "sia giunta ormai l'ora, anche in Italia, di equiparare per difetto i crimini compiuti dal comunismo (male peggiore del XX secolo) a quelli commessi dal nazismo. E che quindi sia "necessario mettere al bando tutti i partiti italiani che richiamo e si rifanno a questa metastatica cancrena ideologica, seminatrice di vessazioni, di terrore e di morte in molte parti del mondo". Al bando, quindi, potrebbero finire Rifondazione, ma anche il Partito comunista (guidato da Marco Rizzo). Mozione depositata: bisognerà vedere se e quando verrà messa in calendario per la discussione in aula.

Non chiamateli eroi. L’elenco delle ausiliarie uccise dai partigiani dopo che si erano arrese, scrive “Quelsi”.

Amodio Rosa: 23 anni, assassinata nel luglio del 1947, mentre in bicicletta andava da Savona a Vado.

Antonucci Velia: due volte prelevata, due volte rilasciata a Vercelli, poi fucilata.

Audisio Margherita: Fucilata a Nichelino il 26 aprile 1945.

Baldi Irma: Assassinata a Schio il 7 luglio 1945.

Batacchi Marcella e Spitz Jolanda: 17 anni, di Firenze. Assegnate al Distretto militare di Cuneo altre 7 ausiliarie, il 30 aprile 1945, con tutto il Distretto di Cuneo, pochi ufficiali, 20 soldati e 9 ausiliarie, si mettono in movimento per raggiungere il Nord, secondo gli ordini ricevuti. La colonna è però costretta ad arrendersi nel Biellese ai partigiani del comunista Moranino. Interrogate, sette ausiliarie, ascoltando il suggerimento dei propri ufficiali, dichiarano di essere prostitute che hanno lasciato la casa di tolleranza di Cuneo per seguire i soldati. Ma Marcella e Jolanda non accettano e si dichiarano con fierezza ausiliarie della RSI. I partigiani tentano allora di violentarle, ma le due ragazze resistono con le unghie e con i denti. Costrette con la forza più brutale, vengono violentate numerose volte. In fin di vita chiedono un prete. Il prete viene chiamato ma gli è impedito di avvicinare le ragazze. Prima di cadere sotto il plotone di esecuzione, sfigurate dalle botte di quelle belve indegne di chiamarsi partigiani, mormorano: “Mamma” e “Gesù”. Quando furono esumate, presentavano il volto tumefatto e sfigurato, ma il corpo bianco e intatto. Erano state sepolte nella stessa fossa, l’una sopra l’altra. Era il 3 maggio 1945.

Bergonzi Irene: Assassinata a Milano il 29 aprile 1945.

Biamonti Angela: Assassinata il 15 maggio 1945 a Zinola (SV) assieme ai genitori e alla domestica.

Bianchi Annamaria: Assassinata a Pizzo di Cernobbio (CO) il 4 luglio 1945.

Bonatti Silvana: Assassinata a Genova il 29 aprile 1945.

Brazzoli Vincenza: Assassinata a Milano il 28 aprile 1945.

Bressanini Orsola: Madre di una giovane fascista caduta durante la guerra civile, assassinata a Milano il 10 maggio 1945.

Buzzoni Adele, Buzzoni Maria, Mutti Luigia, Nassari Dosolina, Ottarana Rosetta: Facevano parte di un gruppo di otto ausiliarie, (di cui una sconosciuta), catturate all’interno dell’ospedale di Piacenza assieme a sei soldati di sanità. I prigionieri, trasportati a Casalpusterlengo, furono messi contro il muro dell’ospedale per essere fucilati. Adele Buzzoni supplicò che salvassero la sorella Maria, unico sostegno per la madre cieca. Un partigiano afferrò per un braccio la ragazza e la spostò dal gruppo. Ma, partita la scarica, Maria Buzzoni, vedendo cadere la sorella, lanciò un urlo terribile, in seguito al quale venne falciata dal mitra di un partigiano. Si salvarono, grazie all’intervento di un sacerdote, le ausiliarie Anita Romano (che sanguinante si levò come un fantasma dal mucchio di cadaveri) nonché le sorelle Ida e Bianca Poggioli, che le raffiche non erano riuscite ad uccidere.

Carlino Antonietta: Assassinata il 7 maggio 1945 all’ospedale di Cuneo, dove assisteva la sua caposquadra Raffaella Chiodi.

Castaldi Natalina:Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.

Chandrè Rina, Giraldi Itala, Rocchetti Lucia: Aggregate al secondo RAU (Raggruppamento Allievi Ufficiali) furono catturate il 27 aprile 1945 a Cigliano, sull’autostrada Torino – Milano, dopo un combattimento durato 14 ore. Il reparto si era arreso dopo aver avuto la garanzia del rispetto delle regole sulla prigionia di guerra e dell’onore delle armi. Trasportate con i loro camerati al Santuario di Graglia, furono trucidate il 2 maggio 1945 assieme ad oltre 30 allievi ufficiali con il loro comandante, maggiore Galamini, e le mogli di due di essi. La madre di Itala ne disseppellì i corpi.

Chiettini (si ignora il nome): Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.

Collaini Bruna, Forlani Barbara: Assassinate a Rosacco (Pavia) il 5 maggio 1945.

Conti – Magnaldi Adelina: Madre di tre bambini, assassinata a Cuneo il 4 maggio 1945.

Crivelli Jolanda: Vedova ventenne di un ufficiale del Battaglione “M” costretta a denudarsi e fucilata a Cesena, sulla piazza principale, dopo essere stata legata ad un albero, ove il cadavere rimase esposto per due giorni e due notti.

De Simone Antonietta: Romana, studentessa del quarto anni di Medicina, fucilata a Vittorio Veneto in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Degani Gina: Assassinata a Milano in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Ferrari Flavia: 19 anni, assassinata l’ 1 maggio 1945 a Milano.

Fragiacomo Lidia, Giolo Laura: Fucilate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme ad altre cinque ausiliarie non identificate, dopo una gara di emulazione nel tentativo di salvare la loro comandante.

Gastaldi Natalia: Assassinata a Cuneo il 3 maggio 1945.

Genesi Jole, Rovilda Lidia: Torturate all’hotel San Carlo di Arona (Novara) e assassinate il 4 maggio 1945. In servizio presso la GNR di Novara. Catturate alla Stazione Centrale di Milano, ai primi di maggio, le due ausiliarie si erano rifiutate di rivelare dove si fosse nascosta la loro comandante provinciale.

Greco Eva: Assassinata a Modena assieme a suo padre nel maggio del 1945.

Grill Marilena: 16 anni, assassinata a Torino la notte del 2 maggio 1945.

Landini Lina: Assassinata a Genova l’1 maggio 1945.

Lavise Blandina: Una delle tre ausiliarie trucidate nel massacro delle carceri di Schio il 6/7 luglio 1945.

Locarno Giulia: Assassinata a Porina (Vicenza) il 27 aprile 1945.

Luppi – Romano Lea: Catturata a Trieste dai partigiani comunisti, consegnata ai titini, portata a a Lubiana, morta in carcere dopo lunghe sofferenze il 30 ottobre 1947.

Minardi Luciana: 16 anni di Imola. Assegnata al battaglione “Colleoni” della Divisione “San Marco” attestati sul Senio, come addetta al telefono da campo e al cifrario, riceve l’ordine di indossare vestiti borghesi e di mettersi in salvo, tornando dai genitori. Fermata dagli inglesi, si disfa, non vista, del gagliardetto gettandolo nel Po. La rilasciano dopo un breve interrogatorio. Raggiunge così i genitori, sfollati a Cologna Veneta (VR). A metà maggio, arriva un gruppo di partigiani comunisti. Informati, non si sa da chi, che quella ragazzina era stata una ausiliaria della RSI, la prelevano, la portano sull’argine del torrente Guà e, dopo una serie di violenze sessuali, la massacrano. “Adesso chiama la mamma, porca fascista!” le grida un partigiano mentre la uccide con una raffica.

Monteverde Licia: Assassinata a Torino il 6 maggio 1945.

Morara Marta: Assassinata a Bologna il 25 maggio 1945.

Morichetti Anna Paola: Assassinata a Milano il 27 aprile 1945.

Olivieri Luciana: Assassinata a Cuneo il 9 maggio 1945.

Ramella Maria: Assassinata a Cuneo il 5 maggio 1945.

Ravioli Ernesta: 19 anni, assassinata a Torino in data imprecisata dopo il 25 aprile 1945.

Recalcati Giuseppina, Recalcati Mariuccia, Recalcati Rina:  Madre e figlie assassinate a Milano il 27 aprile 1945.

Rigo Felicita: Assassinata a Riva di Vercelli il 4 maggio 1945.

Sesso Triestina: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.

Silvestri Ida: Assassinata a Torino l’1 maggio 1945, poi gettata nel Po.

Speranzon Armida: Massacrata, assieme a centinaia di fascisti nella Cartiera Burgo di Mignagola dai partigiani di “Falco”. I resti delle vittime furono gettati nel fiume Sile.

Tam Angela Maria: Terziaria francescana, assassinata il 6 maggio 1945 a Buglio in Monte (Sondrio) dopo aver subito violenza carnale.

Tescari -Ladini Letizia: Gettata viva nella foiba di Tonezza, presso Vicenza.

Ugazio Cornelia, Ugazio Mirella: Assassinate a Galliate (Novara) il 28 aprile 1945 assieme al padre.

Tra le vittime del massacro compiuto dai partigiani comunisti nelle carceri di Schio (54 assassinati nella notte tra il 6 ed il 7 luglio 1945) c’erano anche 19 donne, tra cui le 3 ausiliarie (Irma Baldi, Chiettini e Blandina Lavise) richiamate nell’elenco precedente. In via Giason del Maino, a Milano, tre franche tiratrici furono catturate e uccise il 26 aprile 1945. Sui tre cadaveri fu messo un cartello con la scritta “AUSIGLIARIE”. I corpi furono poi sepolti in una fossa comune a Musocco. Impossibile sapere se si trattasse veramente di tre ausiliarie. Nell’archivio dell’obitorio di Torino, il giornalista e storico Giorgio Pisanò ha ritrovato i verbali d’autopsia di sei ausiliarie sepolte come “sconosciute”, ma indossanti la divisa del SAF. Cinque ausiliarie non identificate furono assassinate a Nichelino (TO) il 30 aprile 1945 assieme a Lidia Fragiacomo e Laura Giolo. Al cimitero di Musocco (Milano) sono sepolte 13 ausiliarie sconosciute nella fossa comune al Campo X. Un numero imprecisato di ausiliarie della “Decima Mas” in servizio presso i Comandi di Pola, Fiume e Zara, riuscite a fuggire verso Trieste prima della caduta dei rispettivi presidi, furono catturate durante la fuga dai comunisti titini e massacrate.

Esecuzioni, torture, stupri Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega, scrive Giampaolo Pansa su "Il Giornale". C'è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell'introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro. Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della liberta. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile.

Foibe, 300 fascisti di Salò ricevono la medaglia per il Giorno del Ricordo. Le onorificenze concesse dal governo per celebrare le vittime delle Foibe. Tra i commemorati decine di repubblichini, di cui 5 accusati di uccisioni, torture e saccheggi, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Medaglie di onorificenza «in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria» per circa 300 combattenti di Salò (tra cui almeno 5 criminali di guerra accusati di avere torturato e ucciso a sangue freddo). Partiamo dall’inizio. Le decorazioni sono state concesse dai governi a partire dal 2004 in memoria delle vittime delle foibe come previsto dalla legge istitutiva del Giorno del Ricordo. La promosse l’esecutivo Berlusconi su proposta di un gruppo di parlamentari: in prevalenza Fi e An, ma non mancavano esponenti Udc e del centrosinistra. Oltre alla conservazione della memoria, il testo disciplina la consegna delle medaglie ai familiari delle vittime sino al sesto grado. Onorificenze estese a chiunque, tra Friuli e Slovenia, sia stato ucciso «per cause riconducibili a infoibamenti». Ovvero, nel periodo che va dall’8 settembre a metà del 1947, a seguito di «torture, annegamenti, fucilazione, massacri, attentati in qualsiasi modo perpetrati». Con queste «maglie» assai larghe, tra i commemorati sono stati inseriti profili controversi. Stando almeno a carte provenienti dalla Jugoslavia ma anche dall’Italia. Nell’elenco di coloro che hanno ricevuto quello stemma «in vile metallo» - così lo definisce il provvedimento che alla Camera venne approvato con soli 15 voti contrari e all’unanimità al Senato - compaiono cinque nominativi che secondo i documenti conservati a Belgrado, presso «l’Archivio di Jugoslavia», sono «criminali di guerra». Gente che - anche prima dell’8 settembre, raccontano quelle carte - a seconda dei casi ha ucciso e torturato civili italiani e jugoslavi, ammazzato a sangue freddo, incendiato case, saccheggiato, ordinato fucilazioni di partigiani e segnalato gente da spedire nei lager in Germania. Si tratta del carabiniere Giacomo Bergognini, del finanziere Luigi Cucè, dell’agente di polizia Bruno Luciani, dei militi Romeo Stefanutti e Iginio Privileggi e del prefetto Vincenzo Serrentino (il cui nome è citato anche nel relazione della commissione d’inchiesta parlamentare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). I primi tre, raccontano fonti diverse, sia italiane sia slave, «scomparsi» o «dispersi» a partire dai primi giorni del maggio 1945, verosimilmente gettati nelle foibe. Il quarto «ucciso da slavi». Il quinto «infoibato». Il sesto, prefetto a Zara (occupazione nazista, amministrazione Rsi) catturato dai partigiani di Tito e fucilato nel 1947 dopo essere stato condannato da un tribunale jugoslavo. Uno scenario, questo dei combattenti Rsi ricordati dalle medaglie, emerso per caso dopo che lo scorso 10 febbraio al capitano dei bersaglieri Rsi Paride Mori - ucciso il 18 febbraio 1944 «in un agguato organizzato dai partigiani titini, quelli con cui stava combattendo aspramente da mesi» per stare alle parole del figlio Renato - per mano del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio è stata dedicata la medaglia del Giorno del Ricordo. All’Anpi e in altre associazioni antifasciste si sono accorti però che Mori era sì un bersagliere. Ma repubblichino (il neologismo coniato da Radio Londra). Circostanza di cui si appreso solo dopo che dal comune di Traversetolo, nel Parmense, dove il soldato era nato, il sindaco ha deciso di revocare la dedica di una strada al bersagliere di Salò inizialmente passata nell’indifferenza. Da qui in poi, polemiche a non finire. A seguito delle quali è arrivato il mezzo ripensamento di Delrio che in un tweet ha chiarito che «se la commissione che ha vagliato centinaia di domande ha valutato erroneamente, il riconoscimento dovrà essere revocato». Appunto: una decisione che potrebbe essere presa già lunedì 23, quando il gruppo di esperti (10 in tutto: tra cui rappresentanti degli studi storici della Difesa, degli Interni e della Presidenza del consiglio e da storici delle foibe) prenderà in mano il dossier Mori. Che però potrebbe rivelarsi il meno problematico. L’elenco aggiornato dei riconoscimenti circa 300 persone. Solo alcuni solo civili spariti nelle Foibe perché vittime di rappresaglie titine. E altri - i casi eventualmente da riconsiderare, una cifra che oscilla tra i 270 e i 300 a seconda delle fonti - militari inquadrati nelle formazioni di Salò. Carabinieri dell’esercito regio confluiti nella Rsi. Al pari di poliziotti e finanzieri. Militi, volontari nella Guardia Nazionale Repubblicana. Fascisti «idealisti e patrioti» come il capitano Mori che - è il ricordo del figlio - risulta «essersi opposto ai rastrellamenti ordinati dai tedeschi: lui combatteva i titini, non gli italiani». Ma nella lista ci sono almeno 5 criminali di guerra, secondo quanto stabilito dalla giustizia jugoslava. Il carabiniere Bergognini - era l’8 agosto 1942 - partecipò a un raid nell’abitato di Ustje, in Slovenia. Case incendiate, famiglie radunate nel cimitero, picchiate. Sino a che 8 uomini «vennero presi, torturati di fronte a tutti e uccisi con il coltello o con il fucile». Il finanziere Cucè spedì nei lager e fece fucilare «diversi patrioti antifascisti» torturando gente così come fecero l’agente Luciani e i militi Privileggi e Stefanutti. Testimonianze (che sono riferite ai loro reparti) raccontano di «occhi cavati, orecchie tagliate, corpi martoriati, saccheggi nelle case». Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone nella città di Zara, di cui era prefetto. Vicende, queste delle efferatezze commesse dai fascisti medagliati, ricostruite da due storici in lavori diversi: Milovan Pisarri (italiano che vive a Belgrado) e Sandi Volk (italiano della minoranza slovena). Pisarri - lavori sulla Shoah e uno in uscita sul Porrajmos, l’Olocausto dei nomadi - ha raccolto i dossier sui criminali di guerra italiani studiando documenti a Belgrado, all’Archivio Jugoslavo. Scuote la testa, ora: per le mani si è ritrovato non solo le accuse basate sulle testimonianze delle vittime. Ma anche « fascicoli in italiano, ordini e disposizioni provenienti soprattutto dall’esercito regio in rotta nei Balcani». Materiale «ancora da studiare, importantissimo». Volk si è invece occupato del conteggio dei repubblichini commemorati nel Giorno del Ricordo. «Con quelli di quest’anno si arriva a 300. Il 90 per cento apparteneva a formazioni armate al servizio dei nazisti dato che il Friuli dopo l’8 settembre era divenuto “Zona d’Operazioni Litorale adriatico”, amministrata direttamente dai tedeschi e non facente parte della Rsi». Le formazioni fasciste «non potevano avere nemmeno le denominazioni che avevano a Salò ed erano alle dirette dipendenze dell’apparato nazista». L’elenco asciutto delle motivazioni racconta tanto: anche di scelte devastanti, meditate, che legano caso, ideali ed eroismo. Quella del carabiniere Bruno Domenico, ad esempio. Che l’8 settembre (il giorno dell’armistizio, dunque Salò deve ancora nascere) nella stazione dell’Arma di Rovigno, in Istria, «rifiuta di consegnare le armi ai partigiani comunisti italo croati». Lo incarcerano assieme ad altre 16 persone: e di lui non si sa più nulla. Almeno 56 sono i finanzieri di Salò medagliati per il Ricordo. I loro nomi compaiono sul sito delle Fiamme Gialle: tutti dispersi, verosimilmente uccisi da «partigiani titini» o «bande ribelli». Spiccano le storie del maresciallo Giuseppe D’Arrigo: viene a sapere che la brigata che comanda è stata interamente catturata. Al che indossa la divisa e raggiunge i titini, per stare vicino ai suoi uomini trattandone magari la liberazione. Ma viene fucilato il 3 maggio 1945. La stessa sorte toccata a Giuseppe D’Arrigo che si unisce ai partigiani jugoslavi intenzionato a combattere i tedeschi: ma pure lui viene passato per le armi. Ennio Andreotti viene catturato dai tedeschi dopo l’8 settembre. In qualche modo si libera il 1° settembre 1944. Da questo giorno risulta disperso. «Fu presumibilmente catturato dai partigiani titini e soppresso».

Foibe, le 300 medaglie a fascisti Salò. La rabbia dell'Anpi: «Inammissibile. Legge sul Ricordo da sospendere». L'associazione dei partigiani: le onorificenze sono state concesse applicando la legge «in contrasto con i valori, princìpi e norme della Costituzione». Indagine sui dossier, continua Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Quelle 300 medaglie concesse dai governi in carica dal 2004 ai 300 combattenti di Salò per il «Giorno del Ricordo» dedicato alle vittime delle Foibe? Un fatto «grave e inammissibile» secondo l'Anpi (Associazione nazionale partigiani d'Italia). Le onorificenze sono state date applicando la legge - (la 92 del 2004 che ricorda le Foibe) - «in netto contrasto con i valori, princìpi e norme della Costituzione». Per questo occorre sospendere gli effetti del provvedimento, revocare i fregi già concessi dopo aver avviato «un'indagine accurata». La vicenda è emersa dopo che si scoperto che una delle medaglie date «in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria» era per un bersagliere della Repubblica Sociale di Salò, il capitano Paride Mori. «Un fascista idealista che non si è macchiato di nessuna colpa» è la testimonianza del figlio. Nell'elenco dei medagliati — circa 300: nella quasi totalità militari della Repubblica sociale di Salò — compaiono però altri nomi. Imbarazzanti assai. Soprattutto quello di un criminale di guerra sia per la giustizia italiana che quella jugoslava: ovvero il prefetto di Zara Vincenzo Serrentino (il cui nome è citato anche nel relazione della commissione d’inchiesta parlamentare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone. Catturato dai partigiani di Tito, venne fucilato nel 1947 dopo essere stato condannato da un tribunale jugoslavo. Stando inoltre a carte provenienti da Belgrado, dall'«Archivio di Jugoslavia» - l'archivio di Stato della ex Jugoslavia - ci sono altri quattro criminali di guerra tra i medagliati della foibe: si tratta del carabiniere Giacomo Bergognini, del finanziere Luigi Cucè, dell’agente di polizia Bruno Luciani, dei militi Romeo Stefanutti e Iginio Privileggi. Colpevoli, a seconda dei casi, di saccheggi, uccisioni a sangue freddo, torture. Le parole dell'Anpi sono tranchant: «Nessun riconoscimento – né per questa legge né per altre – può essere attribuito a chi militò per la Repubblica Sociale Italiana, in nome di una presunta pacificazione. Non c’è nulla da “pacificare”; c’è solo da rispettare la storia e la Costituzione, nata dalla Resistenza». Per questo la richiesta alla Presidenza del Consiglio è perentoria: bisogna «sospendere temporaneamente l’applicazione della legge sul Ricordo - (che, in sintesi, regola celebrazioni e consegna delle medaglie) e dar luogo a una indagine accurata sulle concessioni passate». Richiesta per cui l'associazione partigiana «svolgerà ogni azione necessaria». Parole, quelle dell'Anpi, cui si associa anche Giovanni Paglia, deputato di Sel, per il quale la consegna delle medaglie a «criminali di guerra riconosciuti» basterebbe a «rivedere l'intero impianto della legge e nel frattempo a liquidare l'attuale commissione» che ha valutato le richieste delle onorificenze. «Intanto, tuttavia, potrebbe bastare farla riunire - conclude Paglia - e farle adottare i provvedimenti dovuti a tutela della nostra memoria».

Foibe, le medaglie ai fascisti vanno “ritirate”. Ecco chi processa il Giorno del Ricordo, scrive Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Dopo le polemiche sulla medaglia al capitano dei bersaglieri Rsi Paride Mori prosegue l’offensiva culturale contro la legge che istituisce la Giornata del Ricordo norma che prevede anche la consegna delle medaglie ai familiari delle vittime sino al sesto grado. Onorificenze estese a chiunque, tra Friuli e Slovenia, sia stato ucciso «per cause riconducibili a infoibamenti». La polemica contro Paride Mori fu sollevata dall’Anpi ed ora il Corriere rincara la dose, sottolineando che sono 300 i casi di onorificenze accordate a "Fascisti" da riconsiderare. 300 medaglie ai fascisti che non vanno giù agli storici contro le foibe. “L’elenco aggiornato dei medagliati per il Ricordo comprende più di 1000 persone – scrive Alessandro Fulloni su "Il Corriere della Sera"  – Molti di questi sono civili spariti nelle Foibe perché vittime di rappresaglie titine. E altri – i casi eventualmente da riconsiderare, una cifra che oscilla tra i 270 e i 300 a seconda delle fonti – militari inquadrati nelle formazioni di Salò”. Fulloni sostiene poi che nell’elenco delle medaglie “sospette” ci sarebbero anche 5 “criminali di guerra”. Ma chi lo ha stabilito? La giustizia jugoslava, e tanto gli basta.  Ma ancor di più Fulloni prende per oro colato le affermazioni dello storico Milovan Pisarri, il quale si sarebbe preso la briga si spuntare uno a uno i nomi degli ex militi Rsi che hanno ricevuto le onorificenze. In pratica si tratta di uno storico talmente super partes da definire la legge che istituisce la Giornata del Ricordo un episodio di “revisionismo di Stato” e non gli va giù che la Repubblica nata dalla Resistenza possa addirittura “premiare” dei fascisti. Un’offensiva contro la Giornata del Ricordo. Dei combattenti della Rsi che hanno ricevuto onorificenze da quando c’è la legge sulle vittime delle foibe (2004) si è occupato anche un altro storico molto “imparziale”: si tratta di Sandi Volk, uno che sostiene che la ricostruzione delle vicende delle foibe è viziata da “mistificazione” ideologica al servizio del neoirredentismo di destra. Si comincia con il dare spazio alle tesi di chi vorrebbe ancora occultare la verità sulle foibe per arrivare dove? Magari a chiedere di sopprimere la legge sulla Giornata del Ricordo?

Via la medaglia al fascista Mori. Grazie all’Anpi rivive l’odio di 70 anni fa, continua Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Insignito di una medaglia alla memoria nel giorno del Ricordo, il 10 febbraio, quando l’Italia rende omaggio alle vittime delle foibe, il fascista Paride Mori è oggi al centro di un’anacronistica polemica che, per i catacombali testimoni del decrepito antifascismo, dovrebbe imbarazzare Palazzo Chigi e la presidente della Camera Boldrini. Mori non fu una vittima degli infoibatori comunisti (morì in un agguato dei partigiani il 18 febbraio del 1944) ma comunque un italiano valoroso, che fece parte del Battaglione Mussolini dei bersaglieri che dopo l’8 settembre del 1943 difese il territorio italiano dall’invasione delle truppe di Tito. Opera assai meritoria ma non abbastanza per la parte che dalle infamie del maresciallo Tito fatica a prendere le doverose distanze. In un libro la storia e la vita di Paride Mori. Come racconta Alberto Zanettini in un libro dedicato a Paride Mori era il 9 settembre 1943 quando a Verona “alcuni ufficiali decisero di formare un Battaglione di Bersaglieri volontari, intitolato a “Benito Mussolini”, al quale aderirono in breve tempo, circa quattrocento uomini, il più giovane aveva 15 anni e il più anziano ne aveva 60 … il tenente Paride Mori era tra questi volontari”. “Per circa 20 mesi sopportarono le imboscate, la fame, il freddo, in numero molto inferiore al nemico, stimato ad uno a dieci, ma nonostante ciò resistettero e riuscirono a mantenere saldi alcuni confini nazionali che altrimenti sarebbero passati in mano alle orde comuniste di Tito. Poi il 30 aprile del 1945, a guerra finita, i bersaglieri si arresero ai partigiani di Tito con la garanzia di aver salva la vita e di poter raggiungere da subito le proprie case. Ma i comunisti di Tito non mantennero fede alle promesse, i bersaglieri furono imprigionati, torturati e fatti morire di fame e di stenti, i cadaveri, invece di seppellirli, li gettavano nelle buche che servivano da latrine per i prigionieri. I pochi sopravvissuti fecero rientro in Italia il 27 giugno 1947”. Che Mori non fosse un sanguinario nazista si evince dalle lettere alla moglie e al figlio, cui scriveva: “Come vedi io faccio il bravo soldato e servo la Patria con le armi ben salde nel pugno e tu devi fare il bravo ragazzo amando l’Italia, perlomeno quanto l’ama il tuo Papà e prepararti a servirla quando sarai grande”.

REVISIONISMO STORICO.

Revisionismo storiografico. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Che cosa è la storia se non un gioco su cui tutti si sono messi d'accordo?» (Napoleone Bonaparte, Memorie). Nel settore accademico della storiografia, il revisionismo è il riesame critico di fatti storici sulla base di nuove evidenze o di una diversa interpretazione delle informazioni esistenti, considerando tutte le parti politiche e sociali in causa come testimoni importanti. L'uso negativo del termine revisionismo si riferisce invece all'illegittima manipolazione della storia per scopi politici, quali il negazionismo dell'Olocausto. Inoltre occorre non confondere il revisionismo a tutti gli effetti con lapseudostoria, il revisionismo politico, il negazionismo e le teorie del complotto.

Savoia, l’adesione al fascismo non cancella i meriti della dinastia. Esce una nuova edizione del saggio «Casa Savoia nella storia d’Italia» in cui Luigi Salvatorelli demolisce ogni aspetto della Casa Reale. Un giudizio forse eccessivo, scrive Giuseppe Galasso il 21 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il destino dei Savoia tra gli storici ha finito con l’essere infelice quanto il loro destino politico, deciso dal referendum che nel 1946 instaurò in Italia la Repubblica. Non è accaduto spesso che una casa reale, perduto il trono, abbia conservato un aplomb e una dignità regale, quali che ne fossero le prospettive di un ritorno in auge. L’esilio di Umberto II fu dignitoso, in Portogallo, dove cento anni prima si era già ritirato il nonno di suo nonno, Carlo Alberto. Per i figli di Umberto — dalle vicende amorose di Beatrice a quelle di vario genere e di assai dubbia qualità dell’erede Vittorio Emanuele, per non parlare del figlio di quest’ultimo, Emanuele Filiberto, con la sua notorietà televisiva — non è stato così. Luigi Salvatorelli, «Casa Savoia nella storia d’Italia» (Edizioni di Storia e Letteratura, con un’introduzione di Gabriele Turi, pp. 126, euro 12). Tutto ciò non toglie che la Casa di Savoia resti in Europa una delle famiglie reali, in trono o non più in trono, di più antica ascendenza storica. Per l’Italia, in particolare, essa ha rappresentato per 6 o 7 secoli un protagonista fra gli altri della storia del Paese. In ultimo, dal 1848 in poi e fino al 1946, con l’unificazione e con la loro promozione a re d’Italia, i Savoia divennero addirittura un punto nodale della storia nazionale. Il che indusse buona parte degli storici italiani a costruire un profilo della storia nazionale radicalmente inficiato da un doppio errore di prospettiva. Il primo era che la storia d’Italia, in particolare dal Mille in poi, si fosse svolta all’insegna univoca ed evidente di un destino fatalmente unitario. L’unità avrebbe rappresentato la logica motrice della storia italiana, i cui vari periodi, manifestazioni e protagonisti dovevano essere rappresentati e giudicati a seconda del loro contributo alla realizzazione della fatale unità del Paese. Il secondo era che quale interprete del supposto destino unitario si raffigurava, fin da quando se ne può parlare, più o meno dal Mille, per l’appunto la Casa di Savoia. Annidati sulle loro rocche alpine del versante francese e di quello italiano, i conti e poi duchi di Savoia erano venuti facendosi strada nella Valle del Po, dalle Alpi al Ticino, adottando decisamente, dopo una iniziale incertezza e duplicità, la direttrice padana, e quindi italiana, della espansione alla quale miravano. Così, nel Cinquecento avevano trasferito la loro capitale da Chambery a Torino, avevano adottato l’italiano quale lingua ufficiale e diplomatica e avevano continuato la loro marcia padana in uno sforzo consapevolmente volto ad assicurare all’Italia e agli italiani l’indipendenza dagli stranieri, dominanti per secoli nella penisola. Appena poi si era parlato di «risorgimento», i Savoia se ne erano fatti portabandiera e la denominazione di «padre della patria» adottata per Vittorio Emanuele II aveva perciò sancito con un doveroso riconoscimento storico-politico la millenaria missione assolta da Casa Savoia. Contro entrambe queste prospettive insorse nel 1944, in un opuscolo al quale non mancò un largo ascolto, Luigi Salvatorelli (Casa Savoia nella storia d’Italia, ora riedito dalle Edizioni di Storia e Letteratura, con introduzione di Gabriele Turi). Nelle sue pagine i Savoia sono rigorosamente dipinti come una dinastia di mediocri personalità, caratterizzate da un’insaziabile avidità di nuovi domini, da un mai smentito opportunismo nel cercare di soddisfarla, da una costante meschinità dei calcoli politici ispirati da un tale criterio di azione, dalla più completa indifferenza alle direzioni geografiche e a ogni possibile motivazione ideale o anche soltanto ideologica dei loro disegni espansivi. Collocati sul crinale delle Alpi, e legati all’ambito franco-borgognone, si erano concentrati sull’Italia solo perché il consolidamento della monarchia francese e la stabilizzazione della confederazione svizzera avevano drasticamente sbarrato ogni varco per un’espansione oltralpe. Per Salvatorelli, insomma, nulla, invero, i Savoia avevano avuto a che fare con le ragioni intime e, per così dire, sorgive della storia d’Italia; con il travagliato processo di maturazione ideale e culturale, prima ancora che politico, al quale diamo il nome di Risorgimento, e nel quale essa si era inserita solo in ultimo, secondo le sue tradizioni di opportunismo, ma senza un’adesione intima o un impulso proprio e genuino. Molte delle deficienze e delle meschinità della storia dello Stato unitario nato dal Risorgimento erano dipese da questo rapporto surrettizio fra la nuova Italia e la vecchia dinastia. La finale acquiescenza, solidarietà e complicità col fascismo, che aveva sovvertito il regime liberale e calpestato le già faticate e faticose libertà fino ad allora conquistate, aveva costituito la prova del nove dell’egoismo dinastico e, insieme, della inguaribile meschinità storico-politica dei Savoia, di cui Vittorio Emanuele III era stato il degno rappresentante. Come già detto, Salvatorelli aveva scritto in un momento di grande, accesa passione politica. La liquidazione dei Savoia rappresentava un obiettivo politico a sé, al di là della stessa scelta di allora fra monarchia o repubblica. Un discorso sui Savoia nella storia d’Italia poteva essere un buon contributo per orientare su una larga base storica la scelta degli italiani nel 1946. La genesi politica dell’opuscolo e gli intenti polemici di Salvatorelli rendono, quindi, conto dell’asprezza dei suoi giudizi, per cui sembra quasi, a volte, che sul trono sabaudo non si succeda via via una serie di sovrani fatalmente diversi ma segga sempre lo stesso Savoia. Molti episodi e aspetti delle vicende sabaude non ricevono un apprezzamento persuasivo. In linea generale, appare difficile accogliere il giudizio di sostanziale estraneità dei Savoia alle radici e alle logiche della storia d’Italia. Già almeno dal secolo XIII in poi l’Italia appare il teatro principale della loro storia, ed è semmai il trasferimento della loro capitale a Torino tre secoli dopo ad apparire un atto tardivo rispetto a un orientamento emerso già da tempo, per quante incertezze o ritorni si siano poi avuti nel seguirlo e realizzarlo. E, in sostanza, è facile constatare che le mende rintracciate nei Savoia si ritrovano pure in qualsiasi altra dinastia o Stato italiano prima dell’unificazione. Invece, la scelta costituzionale del 1848, con l’accettazione di una prassi politica molto lontana da quelle anteriori, fu solo dei Savoia, né la finale, tenace adesione e complicità fascista può portare a una totale vanificazione del precedente ruolo dei Savoia nella storia italiana, in particolare del Risorgimento. Con tutto ciò l’opuscolo del Salvatorelli non rimane soltanto un documento della battaglia politica combattuta in Italia fra il 1943 e il 1946 pro o contro la monarchia. L’autore era troppo storico di vocazione e buon conoscitore della storia italiana per fare delle sue pagine tutte solo un atto di accusa. Il suo rifiuto di vedere la storia d’Italia come marcia progressiva e univoca verso un fatale destino di unità è irrefutabile, e bisogna dire che tuttora non tutti gli storici italiani mostrano di averlo davvero e in tutto assimilato. E altrettanto irrefutabile è la sua demitizzazione della storia sabauda, con la congiunta riduzione delle sue dimensioni a quelle di uno Stato italiano, giunto solo nel Seicento a un ruolo comparabile a quello che da secoli esercitavano Milano e Roma, Firenze e Napoli, Genova e Venezia, e con una tradizione dinastica non illustrata da personalità di particolare fascino storico e personale né prima né dopo l’unità italiana.

La lunga marcia revisionista dei vinti. 25 aprile. In Italia, il «crollo del Muro» è stato l’episodio usato per demonizzare l’antifascismo. E per equiparare i «rossi» ai «neri», scrive Angelo d'Orsi il 25 aprile 2015 su “Il Manifesto”. Che il 1989 abbia cambiato la carta geopolitica del mondo è acclarato, al di là dei giudizi di merito. Non è altrettanto evidente che quell’evento – il cosiddetto «crollo del Muro», e i susseguenti avvenimenti sino allo scioglimento dell’Urss alla fine di dicembre 1991 – comportò conseguenze culturali rilevanti, a loro volta foriere di esiti politici. Prima fra tutte, l’ondata revisionistica, che ha attaccato tutto il plurisecolare ciclo rivoluzionario, dalla Bastiglia, alla Rivoluzione d’Ottobre, al biennio rosso post Grande guerra, sino alla rivoluzione antifascista, cercando sistematicamente di svilirne il significato prima e poi di ribaltare il giudizio storico su ciascuno di questi eventi. Ribadiamo intanto la distinzione tra revisione e revisionismo. La prima è una pratica ineludibile della ricerca storica, ossia la correzione, l’aggiunta, l’integrazione sulla base di nuovi documenti, o del perfezionamento delle tecniche della ricerca, o, infine, della capacità soggettiva dei singoli studiosi di porre domande nuove; mentre il revisionismo è un orientamento culturale, che nasce sul terreno della storiografia, si allarga, e, progressivamente, si trasforma in una ideologia politica. Se in Francia il revisionismo ha preso di mira soprattutto la Grande Révolution del 1789, in Italia e Germania, le potenze sconfitte nella Secondo conflitto europeo, esso ha affrontato essenzialmente il nodo «fascismo, antifascismo, Resistenza». In Germania Ernst Nolte non attese l’89, aprendo la controversia sul cosiddetto «passato che non passa», volta a durare a lungo, che, nelle sue intenzioni, doveva cancellare il senso di colpa dei tedeschi, rovesciando la frittata: la colpa originaria era dei bolscevichi, a cui semplicemente il nazismo aveva dato una risposta, per la quale l’Europa tutta doveva esprimere gratitudine, anziché riprovazione, a Hitler, a dispetto dei suoi «eccessi», condannabili, per aver fermato il comunismo. Anche il padre del revisionismo di casa nostra, Renzo De Felice, aveva avviato per tempo il proprio cammino, fin dal primo volume della sua monumentale biografia di Mussolini, a metà degli anni Sessanta. Da allora fu una corsa in discesa, prima verso il giustificazionismo, poi verso una vera e propria rivalutazione del fascismo. Se confrontiamo le due principali esternazioni pubbliche dello storico l’Intervista sul fascismo, del 1975, e Rosso e nero, del 1995, capiamo bene la fuoruscita del revisionismo, dalla storiografia alla politica. In quei vent’anni v’è, appunto, lo spartiacque del 1989: il «crollo»; in Italia, la Bolognina. La battaglia contro l’asserita «egemonia» della sinistra aveva segnato intanto un primo punto a suo favore con la pubblicazione di un’opera importante di uno studioso di fede democratica, con un passato partigiano, Claudio Pavone, Una guerra civile, che appare nel 1991. Benché quel grosso volume parlasse di tre distinte guerre, quella di liberazione nazionale, quella sociale, ossia di classe, e, infine, la guerra civile, fu quest’ultima a cancellare le altre due, con la destra che gongolava: «Noi lo dicevamo! Fu una guerra civile… Avete dovuto attendere che fosse un nome “di sinistra” a scriverlo, per crederci?». Ovviamente l’utilizzo del libro di Pavone si limitava pressoché esclusivamente al titolo, sebbene l’autore spiegasse che quello era soltanto il sottotitolo, mentre il titolo da lui proposto all’editore (Bollati Boringhieri), era Saggio storico sulla moralità della Resistenza. Si trattò comunque di un’apertura di credito, sia pure involontaria, verso quell’ambigua espressione («guerra civile»), che ha senso fino a un certo punto: era evidente, ad esempio, che la guerra sociale era anche una guerra civile, e che comunque enfatizzare il concetto implicava l’idea che vi fosse un’equa divisione di forze e altresì una equiparabile legittimità dei combattenti. Mentre così non era né sul primo piano, né sul secondo. L’uso ideologico del libro di Pavone produsse effetti direttamente politici. Luciano Violante, nel discorso di insediamento alla presidenza della Camera (aprile 1996), accreditò i «ragazzi di Salò». Marcello Pera, ancor prima di diventare presidente del Senato, sostenne che era tempo di finirla con la «Repubblica nata dalla Resistenza». Insomma, a dispetto degli studi rigorosi portati avanti da storici seri, fu il revisionismo a prevalere, con lavori di seconda o terza mano, e soprattutto sui media. Diventò una moda la polemica contro la «vulgata antifascista», insistendo sul carattere minoritario dei resistenti, sulla distinzione tra fascismo e nazismo, e soprattutto menando furiosi colpi ai comunisti italiani, colpevoli «a prescindere». Infine cominciarono a circolare due parole d’ordine: la «morte della patria» (l’8 settembre ’43) e la «zona grigia», divenendo presto uno stucchevole mantra. Se con la prima si dava il colpo decisivo allo stesso avvio della Resistenza, insinuando che la patria vera fosse quella monarco-fascista, con l’altra, la «zona grigia», si lodavano gli italiani che non si schierarono, che avevano come unico scopo sopravvivere, indifferenti alla contesa tra «rossi» e «neri». I revisionisti distribuirono «equamente» torti e ragioni: nasceva la retorica della «memoria condivisa», in nome di una «pacificazione» adeguata al clima postcomunista e neoliberale. Era ormai avviata la contronarrazione della Resistenza. L’antifascismo, tanto più se di matrice comunista, era sul banco degli imputati. La lotta armata veniva additata come un insieme di azioni inutili, quando non addirittura controproducenti. Poi, la polemica revisionistica investì le «vendette» del post-25 aprile. Il soffermarsi sui «crimini» dei partigiani (idest, comunisti), implicava una totale disattenzione ai contesti: in Italia, come altrove, all’indomani della fine del conflitto, vi furono regolamenti di conti spiegabili alla luce degli eventi e dei contesti. Invece, ora della lotta partigiana rimaneva soltanto il sangue: quello dei vinti, per riprendere il titolo del primo volume di Giampaolo Pansa, che da allora diede avvio a una saga antiresistenziale; il suo successo fu una prova della raggiunta egemonia del revisionismo, nella sua forma più estrema, il «rovescismo». L’anti-Resistenza divenne un prodotto a fini commerciali, oltre, e forse prima ancora, che politici. Il punto di non ritorno in questa vicenda fu l’istituzione, nel marzo 2004 con voto condiviso, del «Giorno del ricordo»: la narrazione delle foibe, divenne il cuore della costruzione di un senso comune antiresistenziale, anti-antifascista e soprattutto anticomunista. Sbaglierebbe a considerare tutto ciò un fenomeno italiano. E ancor più se pensasse che si tratta di materiale per la futura storia della cultura. Basti uno sguardo all’Europa, dove accanto alla rinascita di movimenti politici di destra estrema, o dichiaratamente neofascisti e neonazisti, abbiamo potuto vedere in questi ultimi anni prese di posizione istituzionali agghiaccianti, a partire dalle ultime polacche, che hanno negato addirittura il ruolo dell’Armata Rossa nella liberazione del Campo di Auschwitz; o alla legislazione ungherese che sta non solo «riscrivendo» la storia del paese, a uso di un’affiliazione ideologica al più estremo neoliberismo, ma sta applicando misure punitive verso coloro che abbiano avuto qualsiasi tipo di connessione col comunismo; o, ancora all’Ucraina, dove addirittura i neonazisti sono al potere, accanto a forze «liberali», con la connivenza di Usa e Ue, e si vietano addirittura i simboli del comunismo, e immagino, presto si riaccenderanno i roghi dei libri. Un elenco di miserie intellettuali che sono tuttavia vittorie politiche. E tutto ciò, ricordiamolo, è anche esito del revisionismo, scatenato, nella sua ultima versione «rovescista», precisamente dal crollo del 1989. Oggi celebrare il 70° della Liberazione dovrebbe implicare forse innanzi tutto l’avvio di una controffensiva culturale. Vogliamo provarci?

COME I COSIDDETTI VINCITORI BOLLANO I REVISIONISTI.

Dal revisionismo al rovescismo. La Resistenza (e la Costituzione) sotto attacco. Pubblichiamo un capitolo dal volume "La storia negata. Il revisionismo e il suo uso politico", a cura di Angelo del Boca (Neri Pozza Bloom, pag. 384, € 20), scrive Angelo d’Orsi. Nell’ottobre 2006, il giornalista Giampaolo Pansa pubblicava un volume che avrebbe dovuto essere legato strettamente al precedente, fortunatissimo Sangue dei vinti, un’opera beneficiata da uno spettacolare lancio del sistema mediatico, con notevolissime, immediate ricadute sul piano politico. Se quel libro voleva essere la rivelazione di fatti tenuti nascosti per sei decenni – tale il messaggio che sostanziò la campagna propagandistica – i successivi del medesimo autore, apparivano quasi dei metalibri, complemento polemico rispetto al primo, stazioni di una personale via crucis dell’autore: lo scrivano – il «pennarulo», per dirla en napolitain – travestitosi da studioso di storia, sfidava i professionisti della ricerca, non soltanto producendo un risultato di enorme successo, e, grazie a esso, ergendosi a loro accusatore, con sonori squilli di trombe e roboanti rulli di tamburi di guerra. L’imputazione? Essere professionalmente non all’altezza del compito, e addirittura nascondere per fini ideologici, o peggio, spinti da conformismo politico (vittime o complici; magari i soliti «utili idioti» della vecchia propaganda anticomunista), nei confronti del «politicamente corretto», ossia della «verità di partito», o quanto meno «di parte»; essi, nella requisitoria di Pansa, avrebbero per decenni nascosto la vera, intera verità di cui pure erano o potevano essere a conoscenza. Non casualmente, dopo avere polemizzato, già nelle aspre tenzoni legate al Sangue dei vinti, contro l’angusta pedanteria di professori che pretendevano addirittura l’indicazione delle fonti su cui egli aveva «lavorato», l’autore andava rivendicando la propria formazione storica, avvenuta all’Università di Torino, con una tesi sulla Resistenza nelle sue zone, l’Alessandrino. Ho detto via Crucis, in quanto in realtà tutta l’operazione-Pansa, oltre ad avere un significato, prima di tutto, bassamente commerciale, era una delle tante rese dei conti che nel sottobosco intellettuale italiano si andavano consumando relativamente ad appartenenze o a militanze nell’area vicina o contigua alle forze politiche della tradizione operaia, socialista, comunista. Insomma, «revisionando» i risultati della ricerca sulle «questioni scottanti» legate alla Resistenza, e ancor piú al post 25 aprile, l’autore sembrava esercitare il suo commiato, aspro ed egolatrico, dalla sinistra, accusata di essere, in sostanza, disonesta, retrograda, succube dell’occhiuto, nefasto esercizio dell’egemonia gramsciano-togliattiana. Un tema assai caro a una sovrabbondante pubblicistica, passata dall’era craxiana a quella berlusconiana, che, via via piú convinta della giustezza della battaglia contro la pretesa egemonia comunista, ne ha fatto una sorta di leitmotiv. Benché, con eccesso di malizia, forse, vi fu chi sospettò allora che le ambizioni di Pansa fossero di tipo politico, o di giornalismo «che conta» (direzione Corriere della Sera, ad esempio), in realtà il giornalista Pansa era parte – divenuta subito prediletta dai media di area di centrodestra – di una non piccola, anche se non estesa, conventicola: i rovistatori della Resistenza, che hanno la specialità, o endogena, o insufflata dalla committenza politico editoriale, di raschiare nelle pieghe della storia, per snidare il nascosto, ma soltanto se questo sia passibile di uso politico e mercantile, e, soprattutto, se questo «nascosto» emani odore di putrescenza, o sia in grado, appunto, di rovesciare, ribaltare, le acquisizioni storiografiche: ossia la «storia di sinistra», quella che De Felice e i suoi adepti bollarono, con sussiegoso disdegno, come «vulgata antifascista», e poi, semplicemente, «vulgata». E poiché nella maggior parte dei casi la putrescenza è assente, la si inventa, o meglio si condisce con il proprio putridume interiore i fatti, a partire da una impostazione che, come è stato osservato, è prima che anticomunista, «anti-antifascista». Non casualmente, fu sempre pratica corrente di De Felice di non citare mai i lavori dei suoi antagonisti, cioè coloro che venivano deietti nell’inferno della storiografia «ideologica», ossia «di sinistra»: il che, a prescindere dai contenuti della querelle, costituisce già un errore di prospettiva. La storiografia non può essere individuata come «di destra» o «di sinistra», ma soltanto come buona o cattiva, vale a dire seriamente fondata, o meno. Insomma, l’accusa di ideologismo, proveniente dalla sponda revisionistica, andrebbe semplicemente ribaltata su chi la scaglia. E, in ogni caso, appare segno di debolezza – oltre che di insopportabile arroganza – il voler evitare di confrontarsi con ipotesi interpretative e impostazioni metodologiche diverse dalle nostre.

Dunque, eccoci alla ricerca sistematica della storia «nascosta», la storia «negata», la storia «menzognera», la storia «sequestrata», la storia «violentata»…, ossia la storia che mostrerebbe (questa la reductio ad unum) il ruolo nefasto, esercitato appunto dal Partito comunista italiano, e dai tanti suoi utili idioti, gli intellettuali «organici», espressione con cui nel disinvolto quanto grottesco lessico revisionistico, vengono etichettati tutti coloro che al PCI erano stati legati, anche indirettamente, coloro che pubblicavano presso casa Einaudi, oltre che sotto le insegne canoniche delle Edizioni Rinascita e, poi, degli Editori Riuniti. L’idea sottesa a questo tipo di atteggiamento e di procedura, è – se vogliamo nobilitarli – che la storia fino a un certo momento sia stata «ostaggio» della cultura di sinistra, a sua volta egemonizzata dal PCI. Costoro, gli intellettuali (non solo gli storici) di sinistra, sotto l’occhiuta regia di Togliatti e, in seguito, del togliattismo, sarebbero stati «i padroni della memoria». Via via che il clima politico generale andava cambiando, e diveniva un fatto concreto lo «sdoganamento» del neofascismo (ormai, nella versione corrente, «postfascismo»), tra gli anni Ottanta e i Novanta, ossia tra Craxi e Berlusconi, i revisionisti prendevano coraggio, occupavano spazi (in particolare si segnalano le pagine, non solo quelle culturali, del Corriere della Sera, foglio in cui ha imposto la linea, su queste tematiche, Ernesto Galli della Loggia), e facevano proseliti, nella loro crociata, che, oltre che anti-antifascista, sostanzialmente era anticomunista, o meglio ancora, in termini piú generali, antirivoluzionaria (benché il termine possa apparire desueto). Il revisionismo ha posto sotto attacco, in effetti, a partire dagli anni Sessanta, tutto il ciclo delle rivoluzioni, da quella Francese a quella Bolscevica, fino alla Resistenza, nella quale fu presente, come una componente importante, l’istanza rivoluzionaria, di un cambiamento epocale, e di un sovvertimento sociale a favore delle classi subalterne. Associandosi all’anticomunismo, questo revisionismo, anche nella versione estrema, portato avanti da giornalisti, ma anche da storici, giungeva a sostenere che tutto quello che sappiamo in merito a fascismo, antifascismo, Resistenza, è menzogna, o perché fondata sulla falsità, o perché basata sull’occultamento; responsabili delle menzogne e dei nascondimenti della verità, sono «i comunisti», da Gramsci fino ai suoi pronipoti, con un particolare accanimento su Togliatti, presentato, spesso e volentieri, egli stesso come un soggetto storico su cui esercitare l’arte speciosa del rovesciamento, e come ispiratore delle trame storiografiche negatrici della verità, infine rimessa a posto dai Pansa e sodali, i vendicatori della storia. Dunque, se quello che si sa è menzogna, si tratta di costruire una «verità alternativa». E piú si urlano le verità alternative, piú esse sono costruite in modo plastico, condite possibilmente da eros e thanatos, piú si allarga il bacino d’utenza. Piú i libri smerciano le copie, piú aumentano i «passaggi» televisivi (con un rapporto di reciproco beneficio tra l’una cosa e l’altra), piú il ceto politico se ne occupa, e un prodotto cartaceo diviene strumento di lotta politica. Non è un caso che il successo dell’«operazione Pansa» sia stato preparato da un lungo lavorio, che parte almeno dagli anni Ottanta, volume dopo volume della mastodontica biografia mussoliniana di Renzo De Felice. Che De Feliceabbia dei meriti, è fuori discussione, ma che il suo lavoro avesse anche un fine politico, è altrettanto indubbio, e del resto lo stesso studioso si è incaricato con prese di posizione pubbliche, specie nelle due note interviste, rilasciate a distanza di un ventennio, di trarre risultati politico-ideologici a una ricerca presentata sempre come «disinteressata». E senza quel lavoro, e quegli impulsi ideologici, il revisionismo all’italiana non avrebbe avuto cittadinanza. De Felice, dunque, a partire dai primi anni Sessanta, quando venne allo scoperto come studioso del fascismo, aveva reiteratamente etichettato il proprio metodo nei termini classicamente positivistici del minatore che scava nelle latebre del passato, portandone alla luce i tesori (i documenti), aggiungendo, ad abundantiam, di essere assolutamente «obiettivo», dimenticando l’avvertenza salveminiana: «lo storico che si dichiara obiettivo o è uno sciocco, o un uomo in malafede, quasi lupo travestito da agnello». Salvemini invitava alla «probità»: dichiarare le proprie passioni, innanzi tutto, e prendere «le contromisure nei loro confronti». Il che significa essere onesti, sul piano intellettuale, e rigorosi sul piano del metodo. Ma, nella biografia del duce, contraddicendo il proprio assunto, fin dal primo volume (1965), De Felice aveva operato un pieno ricupero alle glorie patrie del figlio del fabbro romagnolo, sconnettendo, nel prosieguo del lavoro, il cattivo nazismo dal fascismo («che non era poi cosí male», come si espresse, all’ingrosso, uno dei grands commis di questo apparato ideologico, Giuliano Ferrara), usando (e abusando) la categoria della «modernizzazione» oltre che, ovviamente, di quella del «consenso». Categorie che, nell’analisi del fascismo sono del tutto lecite, ma da usarsi con cautela. E senza enfatizzare né l’una, né l’altra; soprattutto, senza recidere i nessi tra fascismo (movimento e regime) e l’uso della violenza, della sopraffazione, dell’intimidazione. E il sostegno a Mussolini giunto da poteri non propriamente modernizzatori come il Vaticano. Ma ritorniamo a Pansa, e al revisionismo, inteso come teoria e pratica della revisione programmatica, che sarebbe giunto alla sua estremizzazione, il rovescismo, agli inizi degli anni Duemila, ma che aveva palesato già vent’anni prima il suo obiettivo, che ancor prima che culturale era direttamente politico; ad ogni modo, esso non si collocava affatto nell’alveo delle problematiche storiografiche, né aveva un intento conoscitivo. A seguito di una intervista (al Corriere della Sera), in cui De Felice invitava a lasciar cadere la retorica dell’antifascismo, vi fu chi – Alessandro Galante Garrone, tra i primissimi – comprese quale fosse il punto d’arrivo, di un combinato disposto, che metteva accanto, come pezzi di una batteria, revisionismo (pseudo)storiografico e proposte politico istituzionali (erano gli anni della annunciata Grande Riforma, della vaticinata Seconda Repubblica). L’obiettivo di tanto fuoco, in vero, era la Costituzione Repubblicana, cui si voleva metter mano, per un «adeguamento», che ricordava, nella sostanza, la medesima operazione che in termini storiografici si pretendeva di compiere rispetto al ventennio fascista e al biennio resistenziale. Tra De Felice, in specie l’ultimo De Felice, e Pansa, il rapporto sussiste ed è indiretto; fra i due esiste naturalmente una distanza siderale, ma il nesso v’è, e il secondo non sarebbe pensabile senza il primo. Diretta invece la filiazione dal primo degli pseudostorici della Resistenza chiamata sbrigativamente «guerra civile», il giornalista repubblichino Giorgio Pisanò; ma Pansa s’inseriva nel solco tracciato da divulgatori disinvolti quali Arrigo Petacco, Silvio Bertoldi, e un nugolo di altri che non sempre hanno avuto il beneficio del grande successo di pubblico, ossia del massiccio sostegno mediatico. Proprio tale successo, impossibile del resto in epoca preberlusconiana, faceva di Pansa, a partire dal 2003, il principe dei rovistatori. L’obiettivo perseguito da costoro è, come dicevo, la ricerca del sensazionale, o ancora meglio del maleodorante, del putrescente: e, se non c’è, lo si inventa, lo si amplifica, e lo si sbatte in prima pagina. Che questa operazione sia fatta senza alcun criterio storico, senza le cautele minime di qualsivoglia studioso, poco importa. Se gli autori di libri di tal fatta, vendono, troveranno editori disposti a scommettere su di loro, giornali, radio e televisioni pronti a parlarne, e un pubblico abilmente stuzzicato e quindi incuriosito, non dei fatti, cosí come si sono effettivamente svolti, ma delle notizie (il giornalismo attuale ci ha abituato a una perfetta disconnessione fra le due parole, un tempo legate consequenzialmente: le notizie come la fotografia e radiografia, quando si va un po’ oltre i dati empirici, dei fatti accaduti). Quel pubblico, in sostanza, viene convogliato verso il misterioso, verso il segreto, verso il maligno, verso l’erotico, verso il sadico, verso il macabro: ossia verso ciò che suscita attenzione di massa, che eccita interesse della radio e soprattutto della televisione; ebbene allora il risultato è conseguito. Del resto, l’obiettivo massimo – raggiunto da Pansa– è che la propria opera diventi un film o uno sceneggiato TV. Ho affermato che la filiazione del Pansa «storico» della Resistenza e del primissimo dopoguerra, ci porta a un attivista neofascista, già militante della RSI, giornalista e politico nel MSI (di cui fu rappresentante al senato per un ventennio), Giorgio Pisanò. Nella sua febbrile attività volta a screditare l’antifascismo, e a riabilitare il duce, e il fascismo in generale, costui negli anni Cinquanta pubblicava un’opera a suo modo capitale, che fissava lo stilema interpretativo della Resistenza nei termini di guerra civile. A tale fonte a dir poco inquinata, si abbeverarono i rovistatori di cui sopra, Pansa per ultimo, ma con maggiore dovizia. Ma vediamo chi è il revisionista numero uno, in fatto di «storiografia» sulla Resistenza, Giorgio Pisanò. Ci affidiamo a una fonte inequivoca, un suo libro autobiografico-memorialistico. La decisione di restare nel campo repubblicano (la RSI, insomma) dopo l’8 settembre, viene motivata dall’autore come difesa della «sua dignità di italiano» e de «l’onore della bandiera» di fronte al «rovesciamento di fronte» del Regno (12). Fu il 27 aprile 1945, il giorno in cui l’autore dichiara di aver incontrato per la prima volta i partigiani (salvo smentirsi quando racconta di essere stato catturato da un partigiano durante una missione di spionaggio nell’agosto 1944: Ero affascinato. Finalmente li vedevo. Lontani, ma li vedevo. Per tutto il periodo della guerra civile non li avevo mai incontrati, tranne quei due, feriti, nell’ospedale di Grosio, pochi giorni prima. Ma quelli erano bloccati in un letto e mi erano sembrati solo due poveri ragazzi spauriti. Raccontarlo oggi che, a sentire le loro storie e a vedere i loro film, si potrebbe giustamente ritenere che i partigiani noi li avessimo dappertutto, anche sotto il letto, può sembrare assurdo. Eppure avevo girato il territorio della RSI in lungo e in largo, di giorno e di notte, ero stato al fronte, avevo superato le linee attraverso zone partigiane, avevo anche partecipato a rastrellamenti, ma i partigiani non li avevo proprio mai visti. Dunque, presenza evanescente, quella partigiana. O se si vuole, poiché non si facevano vedere, v’era da sospettare che non esistessero. E quando finalmente si materializzano, rivelano la loro pochezza. Ponte Valtellina era sí in mano ai partigiani. Ma appena ci videro, scapparono via. Non ci fu nemmeno bisogno di sparare. Quei pochi che furono raggiunti dai nostri ragazzi, gettarono le armi a terra e alzarono le braccia. Vennero liquidati a calci nel sedere. Nonostante questo brillantissimo successo militare, il 28 aprile la colonna fu costretta alla resa dalla caduta della RSI e del duce, fucilato quello stesso giorno. Pisanò e camerati fatti prigionieri furono trasferiti nel carcere di Sondrio: Novemila metri tra una folla urlante, che inveiva, ci sputava addosso, ci aggrediva a ogni passo. Noi eravamo i delinquenti, noi gli assassini, noi i traditori, noi che indossavamo ancora il grigio verde e avevamo avuto per bandiera un tricolore, quel tricolore che non vedevo piú perché attorno a me c’erano solo bandiere inglesi, americane, e bandiere rosse, un uragano di bandiere rosse. In carcere, Pisanò e gli altri hanno modo di meditare. Non certo autocriticamente. L’apologetica del fascismo e del duce ha avuto inizio: La visione di Mussolini appeso per i piedi ci tormentava tutti. Ne parlammo a lungo. Cercammo di immaginare che cosa poteva avere sofferto moralmente e fisicamente negli ultimi istanti della sua vita quell’uomo che per tanti anni aveva lottato e lavorato nell’illusione di fare grande e potente il popolo italiano. E nel valutare l’immensità della tragedia vissuta e sofferta da lui, ognuno di noi poté concludere che il proprio dramma personale, al confronto, era ben poca cosa. Durante la detenzione di Sondrio molti dei prigionieri vengono giudicati dal Tribunale del Popolo e poi giustiziati o condannati a lunghe pene detentive: I processi celebrati davanti alla Corte d’Assise di Sondrio vennero considerati un vero e proprio spettacolo. La folla si accalcava per vedere le belve in gabbia e per ascoltare gli sproloqui oratori di tanti bravi signori che, fascistissimi fino al giorno prima, ora si agitavano per accusare i loro camerati di ieri delle colpe piú ignobili e infamanti. L’autore evita accuratamente qualsiasi analisi delle condanne del Tribunale, dei fatti per cui gli imputati erano alla sbarra, delle procedure, avvalorando, senza onere di prova, la tesi delle uccisioni sommarie di «onesti» fascisti. Lo schema che sarà fatto proprio da Pansa è tutto qui. L’onere della prova spetta al lettore, semmai, non certo all’autore (in un dibattito pubblico al rimprovero mossogli da chi scrive di non indicare le fonti della sua «ricostruzione», costui rispose: «Professore, ma lei non si fida?». E alla risposta ovviamente negativa, replicò con una singolare proposta: inviare i dieci migliori allievi a fare ricerca sui luoghi di cui egli si era occupato per verificare se il suo racconto fosse o meno attendibile…). Pisanò, grande e ineguagliato modello per Pansa, avendo svolto attività spionistica, fu oggetto dell’attenzione non solo degli inglesi (che lo arrestarono), ma altresí della magistratura italiana: ma l’imputato non le riconosce titolo a giudicarlo, giacché si tratta di italiani, come lui; e come lui hanno perso la guerra. Dunque – questa la logica del revanscista Pisanò – non possono giudicare altri italiani. Nel finale del libro, affiora il lato buono, quello conciliazionista, o delle «memorie condivise», tema ed espressione entrate in circolazione sull’onda lunga del revisionismo soft negli ultimi dieci-quindici anni. Quando ripenso a quei giorni, mi domando se gli antifascisti abbiano mai compreso l’enorme errore commesso nel volerci perseguitare in quella maniera. E sono costretto a rispondermi che, evidentemente, non se ne resero conto né allora né dopo. Loro, è chiaro, furono succubi delle loro paure, dei loro incubi ventennali, della loro stessa propaganda; ci vollero considerare tutti in blocco una banda di criminali, di pazzi furiosi, di avventurieri prezzolati, di poveri dementi dal cervello offuscato. Non capirono, o non vollero capire, che quelle centinaia di migliaia di italiani che si erano stretti intorno a Mussolini chiedendo solo di combattere per riscattare l’onore della patria, erano stati mossi da un impulso ideale, da un senso di ribellione, da una volontà di rinnovamento che non avevano alcun precedente nella nostra storia. Non capirono che noi giovani, specialmente noi giovani, ci eravamo battuti perché avevamo visto nella Repubblica sociale, nelle nuove leggi, nei suoi ordinamenti, la possibilità di ricostruire una nuova Italia e una nuova Europa. Non capirono che noi ci eravamo battuti per una Italia che ancora doveva sorgere. […] Se solo uno di quei cervelloni tornati alla ribalta ci avesse detto: «Ragazzi, vi siete battuti in buona fede. Avete perso. Possiamo tentare di realizzare insieme, anche sotto forme diverse da quelle che vi erano state indicate, quel mondo nuovo che avevate sognato», ebbene, sono certo che quel tale ci avrebbe raccolti intorno a lui, pronti a rimboccarci le maniche per ricostruire l’Italia. Eccoci, insomma all’apologetica dei «ragazzi di Salò», destinata ad ampia fortuna politica. Il revisionismo rovescistico sulla Resistenza e sul processo che porta alla Repubblica, attraverso la Carta Costituzionale, se non nasce direttamente dal revanscismo nostalgico, gli si collega e a esso attinge: è, in sostanza, un figlio, magari spurio, del neofascismo. Le contiguità, piú che le affinità, emergono chiaramente con un’altra opera data alla luce dallo stesso Pisanò, in sodalizio familiare, a distanza di decenni, l’opera piú vicina ai pretesi scoop di Pansa, dedicata a quello che ormai è divenuto usuale chiamare «triangolo della morte». Su quest’opera, lasciando cadere tutta la sovrabbondante produzione antecedente di Pisanò, vale la pena soffermarsi, brevemente, anche perché le rivelazioni pansesche sono relative essenzialmente al post 25 aprile, precisamente come il racconto autobiografico. La tesi degli autori è che la frattura tra fascisti e antifascisti non comunisti «non sarebbe sfociata, solo per volontà di costoro, nella barbarie e nelle efferatezze della guerra civile», in quanto «consapevoli dell’esito finale del conflitto (vittoria scontata degli Alleati) ed erano entrambi propensi ad un passaggio dei poteri il piú possibile indolore»; di conseguenza la spirale di violenza è da imputare alla «compagine di terroristi» che sarebbe stata scatenata dal PCI. In tale quadro, la provincia di Reggio Emilia diventa il laboratorio in cui il PCI «sperimentò con maggior successo, fra il 1943 e il 1945, l’azione rivoluzionaria tendente a trasformare l’Italia, uscita sconfitta dalla guerra, in una repubblica popolare di tipo sovietico». Nella ricostruzione dei Pisanò, i fascisti tentano in ogni modo di evitare risposte violente e rappresaglie (e quando avvengono, esse vengono attribuite immancabilmente ai tedeschi) alle efferatezze dei terroristi rossi, che molto spesso si rivelano essere ladri e briganti sotto mentite spoglie. Il PCI si distingue per il cinismo con cui ricorre alla violenza pur di raggiungere i suoi obiettivi rivoluzionari; a tali scopi i dirigenti comunisti cercano in ogni maniera di far precipitare l’Italia in una guerra civile che nessuno vuole (meno che mai i fascisti) in modo da avere un terreno fertile per la loro azione politica eversiva. Come nel caso dei fratelli Cervi, il PCI persegue crudelmente chiunque al suo interno non sia allineato alle strategie della dirigenza; dalla ricostruzione di questa vicenda, paradigmatica per gli autori, si scoprono le macchinazioni dei rossi che portarono all’eliminazione dei fratelli Cervie di altri partigiani. Il momento del dominio comunista sulla sponda antifascista della guerra civile scavalca le categorie della politica e, per quanto ammantato di frenesia rivoluzionaria, assume anche i contorni di un momento di follia al potere. In questa parte del libro dedicata ai Cervi, estremamente dettagliata, non esiste nota o riferimento alcuno. Una delle poche fonti richiamate viene presentata in questo modo: Ciò che stiamo per rivelare non è scritto su nessuno degli innumerevoli libri che la storiografia antifascista ha prodotto per decenni per alimentare il mito dei Cervi. È scritto, però, in una testimonianza raccolta dagli autori di questo libro e rilasciata loro da uno dei pochi componenti l’UPI (Ufficio politico investigativo) della questura di Reggio sopravvissuti al 25 aprile. È una testimonianza (riferita esclusivamente a vicende accadute nel Reggiano durante la guerra civile) che si compone di 80 cartelle (62 manoscritte e 12 dattiloscritte) che gli autori custodiscono nel loro archivio, e che quindi rendono in parte pubblica rispettando la volontà del testimone a mantenere l’anonimato. Naturalmente le fonti autentiche (tra cui la testimonianza dello stesso Alcide Cervi) e le versioni documentate dell’«impareggiabile storiografia stalinista applicata alla guerra civile» vengono rigettate senza pietà. Ovviamente, non facendo ricorso ad alcuna analisi documentale o metodologica. Altri casi di «epurazioni» interne alla Resistenza e d’irresponsabili azioni terroristiche; quest’ultime finiscono col coinvolgere i civili nelle rappresaglie tedesche. Ma la provincia di Reggio nonostante l’azione terroristica dei guerriglieri si mantenne sempre disciplinata e operosa, compatibilmente con l’eccezionalità del momento, agli ordini delle autorità repubblicane, potendo contare inoltre su un numero altissimo di aderenti alla RSI. E questo grazie alla instancabile attività di Giovanni Caneva […]. Caneva, infatti, cercò anche di attenuare con ogni mezzo gli orrori della guerra civile, intervenendo quasi sempre per impedire l’esecuzione di partigiani catturati e condannati a morte. Le azioni violente dei partigiani continuarono oltre il 25 aprile del 1945; a dimostrazione gli autori citano «venti episodi presi a caso fra migliaia dello stesso tipo, che provano il clima di “giustizia sommaria” instaurato dai comunisti». L’infiltrazione comunista nel reggiano era diventata tale, nel dopoguerra, da arrivare a un vero controllo sulla polizia di Stato. Mentre in Parlamento il PCI sedeva «responsabilmente» a livello periferico manteneva il suo apparato militare impiegandolo segretamente per i suoi scopi; il PCI, sostengono gli autori, in un affondo politico, negli anni Settanta avrebbe continuato su questo doppio binario utilizzando le Brigate rosse in luogo dei partigiani. Nella provincia di Modena, invece, si manifestò subito e piú concretamente «una vera reazione anticomunista in seno all’antifascismo» grazie a una consistente presenza democristiana nel «mare rosso» della Resistenza. Ciononostante, «scomparso di scena il fascismo senza l’arrivo delle truppe alleate, anche da una Resistenza “bipolare” (almeno sulla carta) come quella modenese, sarebbe potuta scaturire solo una “repubblica dei soviet”». Nel Modenese erano attivi anche altri partiti (Partito d’azione, PSIUP), ma il mito dell’antifascismo «unitario», insomma, naufragò subito. Di fronte ai comunisti che andavano dritti per la loro strada, sfruttando fino in fondo lo stato di guerra per puntare alla rivoluzione di classe, gli esponenti degli altri partiti, posti nella necessità di esprimere un progetto politico capace di rifondare lo Stato oltre il fascismo superando la politica marxista, denunciandone il pericolo e smascherandone la sfida filosovietica lanciata con le armi, chinarono chi piú chi meno la testa e si piegarono, fingendo di starci, al gioco dell’«unità ciellenista» targata Mosca. Per debolezza o per viltà, l’antifascismo non comunista rinunciò a esprimere «una valida e chiara alternati va sottratta all’ipoteca comunista», condannandosi cosí a essere «non solo succube ma anche zimbello della strategia del PCI». Guardando alle istituzioni repubblichine, gli autori – ça va sans dire – esprimono apprezzamento per l’operato delle autorità politiche (in specie i podestà) e della burocrazia della RSI: altro che «canaglie». Se mai il fascismo venne onorato nel momento supremo della tragedia è evidente che lo fu an che e soprattutto da questi oscuri addetti alla macchina statale, che si erano formati durante il ventennio di Mussolini e che rimasero al loro posto fino all’ultimo, facendosi massacrare e dando una testimonianza di senso del dovere e dello Stato che meritava da tutti gli italiani, nei decenni successivi, un riconoscimento un po’ piú degno del solo che moltissimi di loro ebbero allora: esecuzioni sommarie e fosse senza nome sparse sull’Appennino. Se si apprezza la Repubblica Sociale, la Repubblica di Montefiorino, l’interessante esperimento di democrazia spontanea, dal basso, scaturita dalla lotta partigiana, non può che esser additata all’esecrazione. Essa «visse la sua breve stagione all’insegna della megalomania e della “giustizia popolare”, ossia della follia sanguinaria. Tutto, sulla carta, venne ingigantito ed enfatizzato. Con una sola eccezione: le violenze di ogni genere, le uccisioni e le stragi indiscriminate eseguite in nome della “giustizia proletaria” che, purtroppo, anticiparono il “triangolo della morte”». E, esercitando i comunisti non solo il dominio militare, ma l’egemonia, era quasi ovvio che quel «clima di “repubblica popolare”», «contagiò» i non comunisti. Fu un’orgia di sangue. Bastonature, «predazioni», rapine, sequestri, stupri, uccisioni, fucilazioni di massa, sevizie, efferatezze di ogni genere furono il vero elemento caratterizzante della «liberazione» di Montefiorino, preludio alla «liberazione» dell’Emilia. […] Ma la cornice nella quale avvenne il fenomeno […] fa assomigliare l’esperimento molto piú all’incubo di un manicomio criminale che all’effervescenza di un laboratorio politico. In chiusura, come nella parte sul Reggiano, il catalogo degli orrori: l’elenco di «altre cento storie maledette». Reggio, Modena, ed ecco il terzo corno del triangolo, Ferrara. Rispetto ai precedenti le vicende sono meno approfondite «poiché quest’opera vuole fornire soprattutto gli elementi essenziali per una corretta rilettura storica e politica di quel periodo e poiché le province di Reggio Emilia e Modena risultano emblematiche al riguardo». Dopo l’8 settembre il Ferrarese, grazie al fascismo repubblichino («repubblicano», per gli autori), visse nella calma piú assoluta alcune settimane. Ma tanta tranquillità non poteva essere bene accetta dai comunisti. Questi ultimi, infatti, grazie alla loro esperienza rivoluzionaria, erano in grado di valutare l’importanza strategica del possesso politico di una provincia come quella di Ferrara, «serbatoio umano» di prim’ordine con i suoi 160.000 braccianti agricoli, ed entrarono ben presto in azione. Da qui il PCI s’impegnò, come altrove, a far saltare tutte le ipotesi di tregua tra antifascisti non comunisti e fascisti. Ottenuta la guerra civile, i partigiani si diedero al massacro e ai regolamenti di conti come nelle altre provincie anche dopo il 25 aprile. Da ultimo, nella parte finale del libro, è trattata la provincia di Bologna: il triangolo diventa quadrangolo, a dispetto del titolo dell’opera. La vastità del dramma causato dalla guerra civile in provincia di Bologna eguaglia, per numero di vittime e di atrocità, quella registrata in provincia di Modena, lasciando al Bolognese solo un triste primato, la piú terribile rappresaglia eseguita dai tedeschi sul territorio italiano: Marzabotto. Questa tragedia «cominciò a maturare fin dai primi mesi del 1944 allorché la “brigata” comunista “Stella rossa” cominciò a dar segni di vita», impegnando le truppe tedesche nella zona. «Chi fece le spese della situazione fu, come al solito, la popolazione civile, abbandonata dai partigiani rossi alla mercé delle truppe rastrellatrici». Durante il rastrellamento nazista di Marzabotto i partigiani non fecero nulla per difendere la popolazione e anzi, quando non erano impegnati negli omicidi degli elementi non graditi alla dirigenza comunista, si diedero alla fuga verso i territori controllati dagli alleati. Nei processi successivi alla strage il PCI si impegnò, attraverso un «largo spiegamento di testimoni falsi», a nascondere le responsabilità della «Stella rossa». Qui siamo davanti a un altro leitmotiv revisionistico: le colpe dei partigiani, vale a dire da un canto la loro irresponsabilità (eseguire attentati contro i nazisti e i saloini, non curandosi delle conseguenze: il caso di via Rasella, come si sa, è l’esempio emblematico; e proprio su di esso una menzogna clamorosa è diventata moneta corrente sui giornali e alla televisione, con personaggi incuranti dei documenti, che ripetono e ribadiscono la responsabilità degli attentatori); dall’altro canto, i partigiani vengono regolarmente accusati di essere vili. Insomma, gente che lancia il sasso e nasconde la mano, pronta a mettersi in salvo, lasciando alla mercé del nemico i civili inermi. In appendice al volume, dulcis in fundo, si ha una lista di tutte le vittime menzionate nel testo, senza beneficio di prova alcuna. Del resto, i documenti, le fonti, la letteratura critica, il metodo, le tecniche della ricerca… che saranno mai? I Pisanò forniscono, in definitiva, senza saperlo, fin dagli anni Cinquanta, un repertorio perfetto del «metodo» revisionistico, a cui si abbevereranno i tanti rovistatori della Resistenza, i quali rientrano in una categoria piú ampia, che sembra inesauribile. Ora – sia detto una volta per tutte, benché per gli specialisti si tratti di un’ovvietà – esiste una differenza essenziale tra la revisione, momento irrinunciabile del lavoro del ricercatore storico, e il revisionismo, che definisco come l’ideologia e la pratica della revisione programmatica. Se l’una ha un valore eminentemente storiografico, l’altro si colloca in un ambito sostanzialmente politico: qual è infatti il compito dello storico? Quello, nobile e problematico, di accertare la verità dei fatti, sulla base dei documenti («pas de documents, pas d’histoire»: senza documenti non c’è storia, ci ha insegnato la grande tradizione metodologica francese), i quali vanno opportunamente trattati, onde accertarne l’autenticità, la provenienza e la veridicità (esistono documenti autentici che raccontano frottole e documenti falsi che dicono verità), opportunamente «interrogati» e «sollecitati», e infine interpretati. In tal modo, sulla base della scoperta di nuove fonti – documenti fino ad allora sconosciuti – o del perfezionamento di tecniche di ricerca, o dell’emergere di sensibilità nuove, si procede a quell’incessante lavoro di «revisione», che è anima del lavoro storiografico. La conoscenza che cosí si può rag giungere è il prodotto collettivo di individui singoli e di intere generazioni; tutti coloro che fanno ricerca possono portare i loro mattoni a questo edificio, correggendo, integrando il già costruito, o facendo salire il livello della costruzione, piano dopo piano. Il revisionismo vuole invece pregiudizialmente «revisionare», possibilmente ribaltare, le conoscenze acquisite, partendo dal presupposto che quello che abbiamo appreso finora siano «bugie»: sintomatico in tal senso il titolo del Pansa che ha fatto seguito alSangue dei vinti, o di pamphlet tanto di studiosi come Piero Melograni, o di mestieranti come Sandro Fontana, nei quali troviamo una serie di grottesche «rivelazioni» partorite tutte dalla fertile inventiva degli autori: la tesi di fondo è che la storia, intesa comehistoria rerum gestarum, è zeppa di «bugie». E perché mai? Semplice: perché la verità è stata «sequestrata» o addirittura «imprigionata» dalla cultura di sinistra, egemonizzata dal PCI, gramscian-togliattiano. E finalmente, in epoca liberata dall’egemonia della sinistra, le menzogne vengono smascherate, e cadono i «miti», grazie precisamente, prima alla meritoria opera di ricercatori coraggiosi, non soggetti al ricatto di partito, o alle pressioni della cultura dominante, o non corrivi alla «vulgata». Cosí il defeliciano Pasquale Chessaspiega la «vulgata»: È nel «legittimismo» antifascista, visto dall’angolazione ciellinista e partigiana, l’origine di quella vulgata storiografica che ha tramandato l’immagine politica della Resistenza come lotta di popolo contro il nemico nazifascista, escludendo dal perimetro della memoria condivisa la Resistenza come «guerra civile» in luogo del piú politicamente corretto «guerra di liberazione nazionale». L’introduzione nella storia «ufficiale» del concetto di «guerra civile», sebbene puramente descrittivo, rifletteva infatti un’imbarazzante equivalenza politica fra i «ribelli» e i «ragazzi di Salò», un’improponibile simmetria morale. Secondo questo ennesimo giornalista con aspirazioni da storico, la storiografia e la memorialistica «partigiana» sono da sempre impegnate in una «straordinaria partita per il controllo della Resistenza»; partita «viva ancora oggi, per stabilire un nesso irresolubile fra la Resistenza e la Repubblica dei partiti fondata sulla Costituzione antifascista. Che la storiografia, in questa storia, abbia finito per giocare un ruolo politico, è il discrimine teorico individuato da Renzo De Felice nella cosiddetta vulgata». E Chessa, naturalmente, sponsorizza la memoria condivisa, la storia completa, e respinge la polemica antirevisionistica, con grande semplicità, o forse con semplicismo, quasi ingenuo. «Le memorie di partigiani e saloini sono rimaste finora separate, incomunicabili, senza mai potersi incrociare nella ricostruzione storica della molteplicità di guerre che hanno attraversato il paese nel pieno degli anni Quaranta». E in modo del tutto corrivo ai modi e agli stessi tic verbali dell’ondata postdefeliciana, l’autore parla di «storia dei vincitori», accusandola non solo di aver praticato la rimozione di un passato indicibile sommerso dalla necessità politica di legittimare l’antifascismo, e con esso il PCI, nella nuova storia del paese, quanto l’uso calunnioso del concetto di revisionismo storico che sovrappone i risultati della nuova ricerca storiografica con la maschera del nemico. Dichiarando di rifiutare la richiesta della «storia condivisa», respinge altresí l’idea della «memoria divisa» (alludendo per esempio a Sergio Luzzatto), l’autore asserisce la necessità di «cercare la strada per arrivare a una storia completa» (Pansa parlerà di «completismo») che sappia raccontare i fatti cosí come sono accaduti piuttosto che sottometterli alle ricostruzioni volute dalla politica e dall’ideologia e financo dalla morale e dall’etica». La guerra partigiana dunque deve diventare – o ritornare a essere – «guerra civile», come categoria interpretativa fondamentale. Guerra civile: ma l’operazione è stata già compiuta con il libro di Claudio Pavone. Allora (siamo agli inizi degli anni Novanta), tanti poterono esclamare: l’avevamo sempre detto! Qui un’osservazione si impone: pur essendo coscienti che l’editore (Bollati Boringhieri) per ragioni, come suol dirsi, «squisitamente editoriali», operò un’inversione fra sottotitolo originario (Saggio sulla moralità della Resistenza) e titolo del libro di Pavone (Una guerra civile), va tuttavia rilevato che quel titolo appariva comunque corrivo alla nuova aura storiografica, culturale, politica. E come tale fu usato – naturalmente, non piú che il titolo, sia per la mole impegnativa del volume, sia perché comunque l’autore aggiungeva alla guerra civile due altri conflitti: quello sociale (la Resistenza come moto di liberazione dei subalterni) e quello nazionale (italiani contro stranieri occupanti). Se uno storico proveniente dall’area della sinistra, già partigiano, ha etichettato il biennio ’43-45 nei termini di guerra civile, vuol proprio dire che avevamo ragione noi: cosí argomentato dai rovistatori. Nella corsa ad accaparrarsi la primazia nell’uso di quell’espressione, e nella valanga revisionistico-rovescistica che seguí alla pubblicazione dell’opera di Pavone– una sintesi magistrale, peraltro – non ci si interrogò sul senso stesso di «guerra civile»: anche se fosse, come fu, in parte, nel senso letterale, di conflitto intestino fra connazionali, lo scontro tra partigiani e repubblichini – guerra civile, appunto – quale lo scandalo? Le guerre civili sono guerre solitamente provviste di motivazioni piú forti, piú «convincenti», e, in definitiva, sono piú lecite moralmente di qualsiasi altro conflitto armato. Il libro di Pavone, invece, grazie anche alla provenienza politica dell’autore, divenne la prova provata che quella era stata «soltanto» una guerra civile; ossia, un’oscenità inammissibile. La cui colpa, come si constatò dallo tsunami di pubblicazioni (di giornalisti-storici) e dichiarazioni (di politici), ricadeva nella sostanza sui comunisti, che avevano irretito i partigiani, di cui si minimizzava l’entità numerica e soprattutto il significato militare della loro azione; anzi, si arrivò a rovesciare addirittura i meriti in demeriti. E le stragi nazifasciste vennero tutte interpretate come (legittime, in fondo) reazioni alle provocazioni dei partigiani (comunisti), ai loro attacchi scriteriati, alle loro inutili azioni: inutili come inutile fu tutta la guerriglia antifascista del ’43-45. L’Italia, naturalmente, fu liberata dagli Alleati. Oggi il revisionismo è diventato moneta corrente, ormai nella sua versione estrema, quella rovescistica. Il «rovescismo», infatti, può essere definito la fase suprema del revisionismo. Quest’ultimo filone è il cavallo di battaglia di Pansa, la sua gallina dalle uova d’oro. Senza alcun rispetto per i piú elementari principi del lavoro storiografico, egli sta ormai perseguendo da anni un sistematico rovesciamento di giudizio sul ’43-45. Naturalmente, ciò non sarebbe possibile senza editori che sollecitano libri di tal genere, libri che rovescino quello che si sa… altrimenti chi comprerebbe un altro libro sulla Resistenza? Bisogna almeno sostenere che i comunisti hanno nascosto – nell’ipotesi piú benigna – una fetta della Resistenza: i comunisti intesi come classe politica, ma anche i comunisti intesi come storici e intellettuali. Dunque, ecco farsi strada la Resistenza cancellata o negata; quella dei non comunisti; un filo che sarebbe poi stato dipanato fino ai primi anni dell’immediato post 25 aprile, sempre insistendo sulla tesi che i comunisti hanno schiacciato i non comunisti, quand’anche loro alleati nella guerra di Liberazione. Dall’alto delle loro centinaia di migliaia di copie, i rovescisti irridono agli accademici pignoli, magari «invidiosi» del loro successo, i quali – niente di meno – vorrebbero le note a piè di pagina. Ma le note non sono altro che la possibilità offerta al lettore di verificare quello che scriviamo, se non vogliamo rimanere nel regno della fiction: chi ci legge deve poter fare il nostro stesso percorso, al limite andando a frugare negli stessi archivi dove noi abbiamo lavorato, e controllare se ci siamo inventati i documenti, o li abbiamo alterati… Per i rovescisti questa è inutile noiosaggine professorale. Dobbiamo fidarci del loro intuito, o – come Pansa procede – delle loro ricostruzioni fatte sulla base di racconti altrui, o di «travaso» di libri in altri libri. Cosí Benedetto Croce, che molti decenni or sono denunciava le «pseudostorie». Nulla di nuovo sotto il sole, in un certo senso. Per raccontare la storia non basta scrivere, perdipiú con il ricorso furbesco a un piano di comunicazione che mescola l’invenzione narrativa (se cosí vogliamo chiamarla) e la pretesa di «raccontare i fatti»: per tal via ogni contestazione di metodo e di merito è impossibile. L’autore ha la risposta pronta. Se lo cogli in fallo, egli può sempre rispondere che la sua è «libera ricostruzione», e che non si può pretendere l’esattezza. Da questo punto di vista, almeno, il buon Pisanò era meno ambiguo. Ma veniamo all’analisi sia pur succinta del primo libro rovescistico di Pansa, direttamente ispirato nelle fonti, nel metodo, e nel risultato da Pisanò e compagnia. Come già accennato, siamo davanti a un’operazione scientificamente inaccettabile. Nulla ha a che fare con le criti che che a siffatte opere sono state mosse in nome della political correctness, a cui invece l’autore ha facilitato la strada con una serie di dichiarazioni e di interventi all’inizio soltanto sgradevoli, poi davvero grevi, anche se va detto che egli fu «provocato» da alcuni attacchi assai polemici, i quali forse hanno avuto il torto di confondere il discorso storiografico con quello del sospettato fine politico e/o personale dell’autore. È ovvio che lo studioso di storia non debba preoccuparsi dei possibili utilizzi politici del suo lavoro, ai quali egli è estraneo; non deve chiedersi «a chi giova?», perché la verità giova a tutti; e dunque se il suo lavoro è indirizzato, come dovrebbe, alla ricerca della verità, egli non può fermarsi davanti a questioni di opportunità, di interessi, di convenienze. La verità è un grande edificio collettivo, a cui ciascun ricercatore, in ogni epoca, in ogni parte del mondo, può recare il suo piccolo o grande mattone; e la costruzione procede per aggiustamenti successivi, correzioni, revisioni, sulla base di nuove fonti che nel corso del tempo si rendono disponibili, ovvero grazie al perfezionamento delle stesse tecniche di ricerca; o, infine (in realtà, innanzi tutto), sulla base della capacità che ciascuna generazione, ciascun singolo studioso, ha di porre domande ai documenti, di sollecitare problematicamente la storia. Non occorrono titoli accademici per fare questo; e dunque Pansa che, come ricordato, ha studi storici nel suo passato remoto, e ha avuto buoni maestri (politicamente ineccepibili: Guido Quazza innanzi tutti gli altri), non deve essere maltrattato perché non siede in cattedra. Cosí come non deve essere attaccato anche quando si giudichi il suo libro «utile al nemico»; ciò naturalmente non impedisce inquietanti interrogativi sul momento politico in cui il libro apparve, caratterizzato da goffe riabilitazioni del fascismo e da sciagurate minimizzazioni della Resistenza, con tentativi di equiparazione di partigiani e repubblichini, con le dubbie proposte di celebrazione dei morti, e cosí via. L’autore, piuttosto, va messo sotto accusa, storiograficamente parlando, per altre ragioni, squisitamente inerenti il mestiere di storico. Trattasi di mestiere che richiede un bagaglio di metodo e uno strumentario tecnico che Pansa a dispetto della vantata ascendenza quazziana, non ha affatto, neppure in minima misura. Egli avverte il lettore che tutto è vero, che tutto è documentato, che tutto è stato riscontrato. Peccato che nessun elemento venga fornito in tale direzione. La disonestà del libro consiste proprio in questo: che ha la pretesa di essere uno studio storico, ma ha l’alibi della letteratura. E in tal modo l’autore si costruisce una sorta di barriera difensiva preventiva. In effetti, il libro è costruito in maniera ambiguamente narrativa, con due personaggi, l’autore, che come in un metaracconto si presenta in veste di ricercatore della verità storica, e un personaggio – l’unico di fantasia, precisa Pansa– che svolge il ruolo di Virgilio che accompagna Dante nell’Inferno della Resistenza, o meglio del post 25 aprile. Livia, tale il nome del personaggio, è una bibliotecaria che guida il «noto giornalista» nella sua indagine, e in un gioco delle parti che viene piuttosto stucchevolmente ripetuto capitolo dopo capitolo, nel libro si passano in rassegna una serie di casi, specie nell’Italia settentrionale, di «vendette» – parola-chiave del racconto, parola che implica un evidente giudizio di (dis)valore – perpetrate dai vincitori (i resistenti) ai danni dei vinti (i repubblichini), il cui sangue (come il titolo indica senza esitazioni: il sangue in copertina è stato un indubbio elemento di richiamo per una larga fetta di pubblico) viene appunto versato, anche quando, come si suggerisce o si dichiara sovente nelle pagine di Pansa, si tratti di sangue innocente. Nella sua pretesa di mostrare, come egli ha dichiarato ripetutamente, «l’altra faccia della medaglia», l’autore finisce per dare un’immagine del partigianato assai simile a quella della peggiore pubblicistica neofascista e nostalgica fin dai primi anni del post 1945. Non a caso una parte cospicua delle fonti, che vengono menzionate nel corso delle conversazioni tra la bibliotecaria e il giornalista che si vuole anche storico, sono appunto di quel genere. Pisanò, ripeto, è il fiume: Pansa è uno dei rivoli che ne discende. E il libro di Pansa, che vorrebbe ristabilire una «verità negata», si riduce a quell’accennato travaso da altri libri, senza alcuna verifica sull’attendibilità dei racconti in essi contenuti. E quando in numerosi casi appaiono discrepanze tra una fonte e un’altra, l’autore sceglie sulla base di «ritengo», «mi pare», «sembrerebbe». Nell’insieme, il risultato confonde due piani: la moralità degli individui e quella della causa per la quale essi combattono. È evidente, e noto, che tra i partigiani e tra gli stessi antifascisti vi furono personaggi moralmente discutibili (per usare un eufemismo) e fra i saloini vi furono giovani in buona fede, i migliori dei quali, peraltro, si avvidero piú o meno per tempo dell’errore che stavano commettendo e passarono dall’altra parte. Ma sulla differenza e la distanza tra la causa degli uni (la liberazione d’Italia, e per larga parte dei resistenti anche un suo rinnovamento politico e sociale) e quella degli altri (il fascismo e la sudditanza alla Germania hitleriana) non vi possono essere dubbi su quale fosse la parte giusta. Del resto tutti i casi qui proposti – una serie di nomi di uomini e donne fascisti, o sospetti tali, uccisi, talora barbaramente, dopo il 25 aprile, da uomini e donne della Resistenza, o sospetti tali, in una galleria degli orrori, in cui c’è del vero, sia ben chiaro – sono tappezzati di formule vaghe, di asserzioni che possono essere accettate in una chiacchierata in poltrona fra amici, non stampate in un libro che, questa l’aggravante, si propone (ça va sans dire) di «far luce su una pagina buia della nostra storia». E mentre è calcata la mano sulla crudeltà dei partigiani che perpetrano le loro nefandezze, quella mano diventa lieve quando si accenna alle cause scatenanti di tali azioni. Sembra emergere tutt’al piú, come sfondo, l’eterna nequizia degli esseri umani, la loro ferinità che altro non aspetta che un’occasione quando non addirittura un pretesto per scatenarsi. E il contesto storico in cui quei fatti (anche dandoli per accertati) avvennero? Nulla o quasi. Anzi, di tanto in tanto, emerge la «colpa» dei comunisti, che soffiano sul fuoco, che incitano alla «mattanza» (la parola ricorre piú volte): comunisti che per libidine vendicativa dietro la quale s’indovina una strategia del terrore per condizionare gli sviluppi della vita italiana, lasciano fare, proteggendo gli assassini, o fanno essi stessi in prima persona. Ora, la storiografia seria su questo drammatico (ma quanto importante per noi tutti!) periodo della storia italiana, che non ha dovuto aspettare le «ricerche» di Pansa per produrre risultati, oltre a mettere in luce gli elementi costitutivi della situazione (come dimenticare il biennio di orrore, quello sí di sangue e di morte, della RSI? Come parlare di «vendetta» o di «mattanza» senza tener conto di quello che l’ha immediatamente preceduta?), ha al contrario sottolineato la prudenza della leadership comunista, a cominciare da Palmiro Togliatti. E anche se ci sono stati momenti iniziali, le giornate immediatamente successive al 25 aprile, in cui si lasciò fare, giustificando gli indubbi eccessi – Pansa ha ripetutamente sottolineato la citazione di Giorgio Amendola che legittimava il furore giacobino – d’altro canto non v’è dubbio che si sia trattato di un fenomeno, che, opportunamente storicizzato, rivela caratteri in qualche modo di inevitabilità, dato appunto il contesto; e i suoi numeri furono limitati, rispetto ad analoghe situazioni di «rivalsa» dei vincitori sui vinti. Si aggiunga che (Pansa non ci offre alcun elemento nuovo) la situazione era oggettivamente di difficilissima governabilità e gli stessi comandi alleati ebbero la netta sensazione che molti di quei delitti – giacché delitti vi furono – erano privi di qualsiasi motivazione politica, a cui invece erano attribuiti. Infine, secondo uno stile proprio di suoi colleghi che si pongono a far «storia», e che ormai si può chiamare la storia secondo Porta a Porta (il programma TV dove imperversa un altro “gigante” della verità storica e ormai anche della pubblica opinione) egli premette al suo racconto una precisazione che ci informa sulla esiziale concezione opinionistica della storia: «Dopo tante pagine scritte, anche da me, sulla Resistenza e sulle atrocità compiute anche dai tedeschi e dai fascisti, mi è sembrato giusto far vedere anche l’altra faccia della medaglia». Il problema è che la storia non è un confronto di opinioni, non è il salotto televisivo, la storia non è un tavolo da ping-pong (di’ la tua che poi dico la mia); la storia è affar serio, che si fa in modo scientifico e ha il solo scopo di accertare la verità, seguendo tecniche consolidate. Con una premessa sottintesa che deve essere quella dell’onestà intellettuale (un documento scomodo, una verità inquietante per la mia parte politica non deve essere rimosso o corrotto o ignorato…): qui ancora dovrebbe ricorrere il richiamo a Salvemini, con il suo incitamento alla «probità»: dichiarare le proprie passioni, e prendere le contromisure nei loro confronti. Che significa innanzitutto lavorare sui documenti e lavorare correttamente, secondo le regole del metodo storico. All’accusa di revisionismo, Pansa inizialmente rispose, in svariate interviste, con un altro «ismo», di cui possiamo ritenere sia l’inventore: il già accennato «completismo» (salvo però scrivere nell’avvertenza che il suo «non pretende di essere un racconto completo e non lo è»). Il suo libro aveva la pretesa di riempire i buchi della storia, buchi che naturalmente sarebbero intenzionali: la sinistra, egemone in storiografia (?), succube dei diktat del Partito comunista, avrebbe «rimosso», «censurato», «negato». In seguito, in modo via via piú aggressivo fino a diventare becero e volgare, il giornalista ormai coccolato da una larga parte dei media, e dello stesso sistema politico, ma diventando via via beniamino della destra, che dal suo lavoro ha tratto linfa per spingersi ad attaccare i fondamenti dell’Italia repubblicana, con disegni di legge, ora (provvisoriamente?) accantonati, di equiparazione giuridica, anche ai fini del trattamento di quiescenza, dei combattenti dell’una e dell’altra parte. Beffardamente, nel messaggio indirizzato «Al lettore», con cui si apre il volume, l’autore afferma pacato che il proprio intento «era di costruire un libro sereno». Basti leggere, ad apertura casuale, per rendersi conto di quanta serenità spiri tra le pagine di Pansa: non ho spazio qui per procedere, ma chi voglia è invitato ad assaggiare quelle pagine. E dopo Il sangue dei vinti, dopo La Grande Bugia (le maiuscole sono nell’originale), Pansa dà alle stampe un terzo volume nel quale il narciso si presenta nei termini della vittima. Il percorso a ben vedere è consequenziale. La verità è stata nascosta per decenni; sono i comunisti ad averla nascosta; arrivano gli Zorro della storia, e svelano «l’altra faccia», che ovviamente gronda sangue; ma allora una cortina di ferro si leva contro di loro, ostracizzandoli, demonizzandoli, scomunicandoli. Sono i «professori», gli «intellettuali», almeno quelli veteromarxisti, gramsciani fuori moda, togliattiani impenitenti, che ancora seguono vecchi schemi, o subiscono antiche censure, e si fanno censori a loro volta. Il comunismo è morto, ma i suoi effetti (attraverso la perniciosa arma dell’egemonia), sono ben presenti e vivi, insomma. Ed ecco costoro farsi nientemeno che «gendarmi della memoria»: essi tengono ben chiusa sotto chiave la memoria della guerra civile, pretendendo di avere l’esclusiva di parlarne. Come se, appunto (il modello talk show), la storiografia fosse un campo di opinioni. Ed ecco la grande bouffe di «verità scomode» che il nostro intrepido eroe porta allo scoperto, incurante del pericolo della scomunica. O peggio. Del resto il volume secondo e terzo della tetralogia (Pansa ha un illustre predecessore in Benedetto Croce!), sono dedicati al resoconto di recensioni, presentazioni, boicottaggi organizzati da codesti gendarmi; ma la morale è che la verità si afferma malgrado tutto questo, e lo dimostrano le centinaia di migliaia di copie che si sono smerciate di questi tomi. In ogni caso, il leitmotiv è la Resistenza come «mito», costruito ad arte dai comunisti, e protetto nel corso del tempo, nascondendo le migliaia di morti inutili che specie dopo il 25 aprile si sarebbero prodotte. E come per le Foibe, e la fobia da foiba, come è stato scritto, su cui si è scatenata da un ventennio una campagna sistematica di menzogne (e mezze verità, che sono menzogne ancora piú dannose), Pansa dà le cifre, del tutto arbitrarie, conteggiando intorno ai ventimila ammazzati nella «resa dei conti», dopo la caduta del fascismo. Una «mattanza», appunto, che non solo non corrisponde alle sole cifre attendibili a disposizione (moltiplicandole per 10 o 15), ma dimentica, o finge di dimenticare i contesti in cui le violenze avvenivano, e che nella gran parte dei casi erano esecuzioni comminate dai Tribunali del Popolo. Un fatto anche vero, estratto dal contesto che lo ha generato, perde ogni significato e valore probatorio. Ma tant’è. Pansa ha imboccato una strada che lo porta a diventare, alla fine, il paladino del revisionismo estremo, ma via via in termini piú bolsi, autistici, grottescamente autoapologetici quanto volgarmente ingiuriosi verso i co siddetti «gendarmi». Precisiamo, comunque, che è ben vero che sul tema della «resa dei conti», vi siano state reticenze, è noto; e ampiamente spiegato, nell’ambito della vicenda non soltanto storiografica e culturale, ma politica dell’Italia repubblicana. Quelle reticenze sono in parte spiegabili non con l’intento di nascondere i morti, ma semmai di sottacere il ruolo di Palmiro Togliatti artefice di un perdono generalizzato su cui molto è stato eccepito, anche recentemente, in termini piuttosto aspri. Ossia, il condono togliattiano va esattamente contro la tesi dei comunisti assassini programmatici. In definitiva, come non ricordare che non da ieri la storiografia sulla Resistenza e sullo stesso fascismo ha avviato un processo di radicale rinnovamento? Di esso cui il libro di Claudio Pavone, già richiamato qui, nei primi anni Novanta era l’esito e non certo l’avvio, che invece si colloca tra gli anni Sessanta e Settanta. E polemizzare oggi sulla storia che «nasconde» la verità – dunque anche sui limiti della Resistenza e dell’antifascismo – perché condizionata dal comunismo, è ridicolo. Ricerche come quella di Hans Woller hanno già detto pacatamente, e seriamente, documentatamente, quello che v’era da dire sul tema. E opere collettive quali l’Atlante storico della Resistenza o il Dizionario della Resistenza, che nascono direttamente o indirettamente dal lavoro di scavo condotto nei decenni dalla rete degli Istituti Storici locali del Movimento di Liberazione in Italia, sono assai lontane da opere pur meritorie, ma in cui l’agiografia era robustamente presente come la pur preziosissima e meritoria Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza. Il problema è che la storia, quella vera, mira precisamente alla maggiore esattezza possibile, in quanto scienza, il cui compito è avvicinarsi in uno sforzo continuo alla verità. I rovescisti vogliono fare colpo, vendere libri, far parlare di sé. E ci riescono: proprio nella misura in cui annunciano che la loro verità è diversa, è altra, è il rovescio di quella assodata. Quel che è grave è, al di là della falsificazione della storia (e in particolare di una storia che ha fondato il nostro presente, per quel che di buono è rimasto in esso, sul piano istituzionale) il risultato complessivo, per cosí dire «teorico» del loro «lavoro»: una totale perdita di significato della storia, e la nascita di una specie di senso comune nel quale c’è posto per tutti, trasformando l’arena della ricerca in un infinito talk show, una situazione in cui la ricerca diventa opinione (avete detto la vostra, ora diciamo la nostra), e tutte le opinioni hanno la medesima legittimità. Tutto viene equiparato, e le ragioni degli individui sono confuse con le ragioni delle cause per cui si battono. Norberto Bobbio rivolse a De Felice e ai suoi adepti una domanda che rimase senza risposta: «E se avessero vinto loro?». Se avesse prevalso il nazifascismo, insomma? Davvero la causa dei resistenti può essere equiparata a quella dei «ragazzi di Salò»? Il «sangue dei vinti»?! E quello dei partigiani? E quello degli italiani mandati al macello da Mussolini? V’è chi sostiene, in buona fede, che oggi non sia piú il caso di stare a distinguere. Un già richiamato giornalista fedelissimo dell’armata defeliciana ha scritto di recente, in un’opera illustrata, non ignobile, peraltro: Come testimoniano le memorie sia postume sia coeve, chi sceglierà di combattersi nella guerra fratricida ha visto nell’8 settembre il giorno tanto della nemesi quanto della rivelazione. Poco importa in sede storica distinguere, con un criterio etico o politico, le ragioni ignobili dalle motivazioni nobili, contrapporre la spinta ideale alla necessità materiale. Perché, senza arrivare a un appiattimento di tutte le posizioni, nella leggenda delle origini della guerra civile il caso si coniuga con il destino, lo stato di necessità con le spinte ambientali, le tendenze dell’animo con le scorciatoie esistenziali, il retroterra culturale e le inclinazioni caratteriali. Eppure quelle lanciate a guisa di provocazione da Bobbio sono domande che lasciano indifferenti i rovescisti, i quali anzi, dal successo commerciale, mediatico e politico del loro piú recente eroe (Pansa), hanno ricavato nuovo vigore: Pansa, dal canto suo, inserendosi in un altro fortunato filone pseudostorico (quello accennato della «denuncia» delle bugie della storia, ossia degli storici «di sinistra», ossia «comunisti»), è passato dalla «ricostruzione fattuale» alla polemica verso i suoi «avversari», dai quali naturalmente non ha accettato di essere demolito sul piano storiografico, e l’ha «buttata in politica», soluzione comodissima, ben nota. E preso da una sorta di ybris ha prodotto i successivi indigeribili centoni autoreferenziali, insultanti verso persone e falsificatori verso i fatti. Risposte all’insegna di un’aggressività che hanno messo allo scoperto accanto alle debolezze metodologiche, quelle caratteriali dell’autore; il quale, in un imbarazzante crescendo, si è spinto fino all’autobiografismo esplicito, in chiave autoapologetica (ovvio!), sfidando platealmente il pubblico degli storici di professione: il successo ha suscitato il classico delirio di onnipotenza, voltato in pura provocazione. E con orgoglio si è proclamato, nell’ultimo (per ora) capitolo della sua saga personale, Il revisionista. Mentre nei precedenti la foto dell’autore occupava l’intera ultima di copertina, qui egli è asceso agli onori della prima. L’idea, anzi l’ossessione di fondo, dei revisionisti è accanto a quella volta a «rivedere», quella di raccontare l’altra faccia della storia, quella nascosta (la storia come la luna, insomma), e, così, di colmare vuoti che sono politici: nel senso che i soliti comunisti avrebbero impedito che si scavasse, si accertasse e, infine, che si raccontasse. Giornalisti, scrittori, poligrafi, e qualche studioso professionale giunto spesso per vie imperscrutabili a cattedre universitarie, si sono dati un gran da fare in tale direzione. Per esempio, un testimone con doti da narratore, Carlo Mazzantini, oltre a un romanzo memorialistico su Salò (dall’evidente tratto apologetico), che ha avuto un notevole successo, ci ha regalato un’altra opera, dove il testimone si fa, ahinoi, anche storico, con risultati imbarazzanti. Anche lui, Mazzantini, canonicamente, si propone di riempire «un vuoto di venti anni», «riempirlo non di condanne o di lodi, ma di uomini, di presenze umane, di sentimenti, entusiasmi, dedizioni e anche di calcoli, di opportunismi e di viltà». Retroterra è, classicamente, il consenso totale degli italiani al regime prima della dichiarazione di guerra di Mussolini: consenso totale e partecipato tranne che per «una esigua minoranza di uomini integerrimi che il fascismo non era riuscito a catturare. […] Di quelli ostinati, tetragoni che anche se tutti dicono sí, loro continuano a scuotere il capo e dire no. […] Ma questi non erano l’Italia»; ma l’Italia «che il fascismo aveva conquistato e dalla quale era stato conquistato» era un’altra, dove «io e i miei coetanei eravamo nati, e altro non avevamo conosciuto, e nella quale sono compresi anche coloro che “dopo”, o anche in quel momento, dissentivano o dissentirono, ma non fecero niente per manifestare quel dissenso». E su questo almeno parzialmente all’autore si può dare ragione. Ma il suo filo lo conduce altrove: Si può allora condannare cosí senza appello, come pura dabbenaggine e incoscienza quella esaltazione guerresca, del popolo italiano di allora […]? Cosí come sarebbe giusto dire che solo per leggerezza e ingenuità, quel popolo si sia gettato nelle braccia del tiranno, mosso solo da vanità e ambizione personale? No. Quell’Italia del 10 giugno del ’40, cosí turgida di spiriti nazionalisti, percorsa, fra sventolio di bandiere e fracasso di fanfare, da ondate di orgoglio, non si era abbrancata dietro il suo Capo senza ragioni. Perciò la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943. Per noi patriottelli di diciassette, diciotto anni, fu il trauma di un meteorite che aveva centrato la terra. Il crollo di un mondo. La cancellazione del pianeta in cui eri nato. Tutto quello che c’era, tutto quello che eri stato, che avevi vissuto, tutto ciò che ti era stato insegnato e ti connotava permettendoti di tenerti in piedi insieme agli altri, era stato spazzato via. E adesso tu che fai? Chi sei? Dove vai? Con chi stai? No, non credo che i giovani di oggi possano capire. Quella caduta fu vissuta da migliaia di giovani come un fatto personale, un’offesa diretta a ognuno di essi: l’assassinio proditorio del padre. Conseguentemente, l’8 settembre si manifestò in quei ragazzi «il disgusto di quanto era accaduto, di quanto avevamo vissuto sulla nostra pelle, di quanto ci aveva lacerato dentro. […] Di fronte a questo, noi, quei ragazzi, dicemmo con disperazione: No». Un pugno di eroi, insomma, che si oppone allo sfascio in nome del vero fascismo: «solo con quei compagni potevi usare liberamente anche quelle parole che nello sfacelo, nella miseria che avevi attorno suonavano assurde, risibili – fedeltà alla parola data, onore, dignità militare». Poi l’esecrabile, l’inimmaginabile: la guerra civile. «Mai immaginato di poterci scontrare con altri italiani. Che ci fosse gente che avrebbe scelto di “passare al nemico”. E spararci addosso». E qui ha inizio il tema caro ai rovistatori degli ultimi decenni: i crimini, prima, durante e dopo il biennio ’43-45: crimini, naturalmente, addebitabili tutti, o quasi tutti, agli antifascisti, e tra loro, essenzialmente, ai comunisti. Sicché dopo «tutta la catena degli agguati, le imboscate, le rappresaglie, le esecuzioni sommarie, gli incendi», ecco «il massacro post bellum. La resa dei conti». E il buon Mazzantini non trova di meglio che citare il titolo del libro di Pansa, rendendo un omaggio untuoso all’autore: «Insomma Il sangue dei vinti. Che un uomo coraggioso e onesto, ma che solo la sacra unzione dell’antifascismo ha reso attendibile, ha potuto raccontare dopo cinquantotto anni essendo creduto». Non manca l’atto d’accusa ai comunisti, egemoni nel movimento partigiano (presentato nei soliti termini piú che riduttivi): tra le loro colpe quella inestinguibile di aver giustiziato il duce, che invece avrebbe dovuto avere un processo regolare. Tanto piú che non sarebbe corretto «accollare poi a Mussolini la illegalità diffusa, il radicalismo, le atrocità del periodo repubblichino». Egli è inerte e assente, e non conta nulla. E cosa accadde allora, nel territorio della RSI? Una «guerra fratricida», «guerra per bande da una parte e dall’altra», condotta da «capi locali, nuovi capitani di ventura, che decidono e agiscono di propria iniziativa». Quella guerra fratricida sarebbe continuata, riemergendo per esempio negli anni di piombo, «in cui gli eredi spirituali di quell’Uomini e no e della “rossa primavera” proclameranno che “ammazzare non è reato”». Mazzantini ritiene che il 25 aprile non sia data di tutti, e non sia una buona data, in sostanza. Della ricorrenza si è occupato, nell’anno del sessantennale, uno storico di professione, di area di centrodestra, con un repertorio di memorie della Resistenza, interessante, ma dalle linee non chiarissime, che comunque può fornire qualche spunto sulla genesi di revanscismi postfascisti e revisionismi rovescistici; anche se, al riguardo, sono da leggere le precedenti pagine di Sergio Luzzatto, ferocemente (e giustamente) critico delle tesi delle «memorie condivise», pur senza fare sconti alla parte che della Resistenza si è fatta interprete privilegiata. Ma, come ha scritto lo stesso studioso, recensendo uno dei tanti Pansa: Naturalmente, è vero che la Resistenza ha avuto i suoi lati oscuri. È vero che la Liberazione ha avuto le sue pagine nere. È vero che il PCI ha avuto le sue doppiezze. Ma appunto, queste sono cose che gli storici seri sono venuti studiando e scrivendo da almeno quindici anni. È per merito loro, non certo per merito di Pansa e del circuito mediatico dei suoi ammiratori, che noi possiamo coltivare adesso un’idea antiretorica della Resistenza. E che ci possiamo sentire tanto piú debitori verso chi la Resistenza ha avuto il coraggio di fare, vincendo l’ignavia e consegnandoci un’Italia libera. Che l’attacco alla Resistenza, e all’antifascismo, e in vero alla stessa fondazione della Repubblica, con quel suo straordinario documento fondativo che è la Costituzione scritta nel 1946-47, provenga da un manipolo di mestieranti della penna, è non solo fastidioso, ma offensivo, proprio per la mancanza di serietà nel loro modo di procedere. Si legga, in conclusione, cosa scrive un altro giornalista (casualmente anch’egli del Corriere della Sera), aduso a incursioni storiografiche, nella premessa a un suo libro di «denuncia» degli orrori del comunismo…Sono tutte storie vere. Nel senso che i luoghi, la maggior parte dei nomi e delle situazioni corrisponde a fatti precisi. Ma sono anche tutte false, dal momento che una storia non puoi raccontarla basandoti soltanto su un documento, altrimenti la tradisci. Bisogna fare in modo che ognuna abbia una sua forma, tocchi un suo culmine drammatico, altrimenti dopo tanti anni non potrebbe mai riuscire ad attraversare il muro dell’indifferenza e del silenzio. Fiction mischiata alla ricostruzione. Con quali criteri? Sulla base di quali fonti? E con quanto fondamento? Insomma, nel clima di deriva pseudostorica, tutto si può dire, impunemente. Non è «storia», ma sul mercato del senso comune conta infinitamente di piú. E contro di essa, oggi, si tenta non solo di resistere, ma, finalmente, di passare al contrattacco; il volume in cui compaiono queste mie considerazioni rapsodiche, ne è un segnale incoraggiante.

Non potendolo più scomunicare, i media hanno fatto passare sotto silenzio il ventesimo dalla morte. De Felice, ignorato dalla sinistra. Anche se è stato il più grande storico del fascismo, scrive Gianfranco Morra su "Italia Oggi” il 31 maggio 2016. Venti anni fa, il 25 maggio, moriva Renzo De Felice, il nostro più grande storico del fascismo.

Ma chi lo ricorda ancora? Sia il fascismo che il comunismo sono scomparsi, ma la cultura egemone è ancora piena dei luoghi comuni della sinistra e non gli può perdonare l'onestà intellettuale e il pathos morale, che lo hanno indotto a rompere la cappa di piombo della «vulgata marxista», di quegli intellettuali del Pci che lo perseguitarono per tutta la vita. Con una accusa ridicola: è un «revisionista» (un termine staliniano!). Ma cosa aveva fatto di male? La storiografia, se vuole essere vera, non può che essere un continuo revisionismo. La ricerca della verità storica, sempre ardua, è ostacolata dalle ideologie, che, quando trionfano, fossilizzano in schemi artificiali e accademici la ricchezza e la complessità degli eventi, ne fanno delle polpette propagandistiche per una scuola di regime. Come era anche l'università di Roma, quando vi insegnò negli anni duri della crescita del Pci e della contestazione studentesca, sino alla precoce scomparsa nel 1996, a 67 anni. Questo ex-comunista «traditore», aperto da Chabod e Croce al liberalismo, fu perseguitato non solo nei suoi studi, la sua abitazione subì un attentato incendiario. Come Socrate, divenne per il Pci (lui diceva «la baracca resistenziale») un «corruttore dei giovani». Timido e un po' balbuziente, fu eroicamente fedele alla sua missione: «lo storico può contestare tutto e tutti, ma solo dopo aver capito; il fascismo va rivisitato, ristudiato, con maggiore distacco e serenità critica possibile». E con una fatica immane di ricercatore negli archivi egli riuscì a penetrarlo a fondo. Certo, anche le sue opere, come tutte, sono discutibili e revisionabili, ma sempre documentatissime e spassionate. Negli otto volumi di Mussolini e il fascismo (oltre 7000 pagine!) l'analisi, rigorosa ed estenuante, prevale sulla sintesi, quasi volesse lasciare al lettore le conclusioni. Ma altre opere, brevi e di larga divulgazione (come Intervista sul fascismo del 1975 e Rosso e nero del 1995), hanno dato delle chiavi importanti per un giudizio globale su questo movimento «rivoluzionario», che era stato scelto dagli italiani con le elezioni. Nato a sinistra come «socialismo nazionale» e anticlericale, doveva trasformarsi in un «regime» concordatario che guardava a destra, con tutti i suoi apparati e istituzioni, liturgie e spettacoli, manipolazione della scuola e dell'informazione, culto della personalità e nazionalizzazione delle masse. Di fatto fu sostenuto dalla quasi totalità degli italiani fra il 1929 e il 1936, compresa gran parte degli intellettuali che si redimeranno nel Pci. Il Duce mirava certo al totalitarismo, evidente nella sua pretesa di «creare un uomo nuovo», ma ne fu frenato da tre poteri forti: la monarchia, la Chiesa e l'industria. Cosa che non accadde a Hitler e Stalin. Il fascismo fu un regime autoritario e tirannico, un totalitarismo cercato e mancato, che solo quando quei tre poteri entrarono in crisi rispolverò la rivoluzione nella Repubblica Sociale, ormai nelle mani dei tedeschi occupanti: «tra fascismo italiano e nazismo le differenze sono enormi» (Intervista). Era naturale che contro di lui si scatenasse l'inquisizione comunista, quella «mentalità di intolleranza, sopraffazione ideologica, squalificazione dell'avversario, che l'antifascismo ha ereditato dal fascismo» (ivi). Non giovò a De Felice, l'atteggiamento dei gruppi postfascisti, che ne tessevano gli elogi, in quanto cercavano di leggere nelle sue pagine una legittimazione del Msi, quando invece fu sempre e decisamente antifascista. Ma non lo fu per calcolo o, peggio ancora, per mestiere, lo fu per convinzione interiore. Oggi sia il fascismo che il comunismo appartengono al passato. Ma gli atteggiamenti di fanatismo politico e di lettura ideologica della storia non sono perciò finiti. Si pensi alla recente polemica tra la Boschi e l'Anpi, o all'indignazione degli antifascisti per la mostra di Salò sulle sculture del Ventennio. E ancor più alla difesa, per metà sentimentale e per metà comica, dell'antifascismo, della resistenza e della Costituzione per indurre a votare no al referendum. Nella speranza di vietare ogni innovazione in una situazione politica tanto sfasciata e paralitica. Esattamente come De Felice lamentava che facevano i comunisti: «Il discorso sul fascismo è fatto in termini squisitamente politici, con uno schematismo e una carica demoniaca» (ivi). Non solo con lui. Accadde anche ad un altro storico di quegli anni, Armando Saitta, antifascista del Partito d'Azione e cattedratico a Pisa. Autore di un diffusissimo manuale di storia per le scuole medie superiori, venne inquisito e condannato dal Nuovo Santo Uffizio. Nel 1975 l'Editrice La Nuova Italia apportò arbitrariamente delle modifiche «politicamente corrette» nella ristampa dell'ultimo volume sulla storia contemporanea. Massimo Fini disvelò la truffa su L'Europeo e Saitta fece causa all'editore Tristano Codignola per questi «falsi a favore del conformismo di sinistra». E la vinse.

Il revisionismo? C’è quello buono e quello cattivo...Ridimensionare i bombardamenti di Dresda è accettabile. Ma toccare Cefalonia è scandaloso. E perché non riconoscere l'oltraggio di Piazzale Loreto? Scrive Gianfranco de Turris, Martedì 4/05/2010, su "Il Giornale". Il 28 aprile Stefania Craxi ha dichiarato: «Trascorso il 65° anniversario della liberazione, non vi è stato nessuno ad aver avuto il coraggio politico e l’onestà intellettuale di compiere un gesto simbolico e importante volto a restituire agli italiani la verità della loro storia: recarsi a Piazzale Loreto per un atto di cancellazione dell’atroce oltraggio inflitto al cadavere di Mussolini». Parole che avrebbero dovuto provocare interventi di politici e intellettuali, e che invece sono state confinate in un trafiletto anonimo sui quotidiani, a parte le accuse di provocazione e revisionismo. Eppure Stefania Craxi ha avuto il coraggio di ripetere quanto il revisionista per eccellenza, Giampaolo Pansa, mi disse in un’intervista sei anni fa: non potendo esistere alla fine di una guerra civile una «storia condivisa», vi sia almeno una «storia accettata» da ambo le parti, sicché Ciampi vada a deporre una corona di fiori a Piazzale Loreto come atto di conciliazione nazionale, sul luogo della oscena «macelleria messicana», come la definì Ferruccio Parri. La proposta cadde nel silenzio. Affermare che non è vero che il 25 aprile è una ricorrenza nazionale fatta propria da tutti come vuole l’ufficialità, non è revisionismo revanscista ma semplice constatazione dei fatti. Una riconciliazione nazionale non può avvenire se non si riconoscono anche gli errori e gli orrori della fazione vincente oltre che di quella soccombente. Come si fa? Si prenda esempio da quanto è avvenuto nei giorni scorsi fra Russia e Polonia. Dopo 70 anni la Russia ha desecretato i documenti in cui Beria, il capo della NKVD, dava l’ordine di fucilare 25mila militari e civili polacchi. Dopo anni di negazioni ufficiali, la Russia ammette una verità che già da tempo era accertata. È così che si giunge a una riconciliazione fra due popoli. In Italia un passo in questa direzione non è stato mai effettuato e nessuna ammissione «ufficiale» è stata fatta da parte dei politici nei confronti degli eccidi, accertati anche da sentenze, compiuti dai partigiani dopo il 25 aprile. Chi li documenta è uno sporco revisionista che infanga «l’onore della resistenza». Nei suoi alti discorsi il presidente Napolitano dice molte cose oneste, eccetto questa. Egli si reca sui luoghi di tanti eventi collegati alla guerra civile, eccetto su quelli che hanno avuto come martiri militari della RSI. Questo non sarebbe revisionismo, termine che del resto non viene sempre respinto a priori si badi bene, ma accettato quando fa comodo. Infatti, siamo proprio sicuri che gli storici ortodossi siano aprioristicamente contrari a qualsiasi revisionismo in sé? Oppure che, al contrario, accettino il deprecabile revisionismo solo quando fa comodo? Vediamo. Un primo esempio riguarda l’orrore delle foibe. Il dato inoppugnabile è che nei crepacci carsici vennero gettati migliaia di italiani, proprio perché italiani. È questa la storia accertata, l’«ortodossia». Chi vi si oppone con tesi giustificazioniste sia sul numero dei morti che sulle intenzioni di quella che fu una vera «pulizia etnica» anti-italiana, è dunque un «revisionista». Ad esempio, libri come Operazione foibe di Claudia Cermigoi (Kappa) o Foibe. Una storia d’Italia dello sloveno Joze Pirjevec (Einaudi). Ma questo è un revisionismo ben accetto dagli storici di sinistra. Altro esempio. Una commissione di storici tedeschi dopo molti anni di indagini ha stabilito che i morti causati da tre giorni di incursioni dei bombardieri alleati su Dresda (13-15 febbraio 1945) non furono tra i 100 e i 250mila, come si era scritto sinora, ma «appena» 25mila. Cifra senza dubbio enorme, ma non come la precedente. La commissione ha frugato nelle anagrafi, nei registi cimiteriali, fra le testimonianze ecc., ma avrà calcolato il numero dei profughi tedeschi delle regioni orientali che si erano ammassati a Dresda e che nessun registro elencava? Non si sa, ma la nuova cifra è stata ben accetta dagli storici ortodossi, senza alcuna indignata accusa di revisionismo perché si basa su documenti e lava in parte l’onta dei bombardamenti terroristici ordinati dal maresciallo inglese Harris, “il Macellaio” Harris, per colpire deliberatamente la popolazione e fiaccarne il morale. Però, insulti e ostracismi si sono avuti nei confronti di Massimo Filippini che nei suoi vari libri sui fatti di Cefalonia, ha potuto dimostrare sulla base di documenti inediti, che i tedeschi non fucilarono migliaia di soldati italiani (almeno 9000 come si è sempre scritto), ma «solo» 250 ufficiali (tra cui suo padre) e che meno di 2mila furono invece i caduti italiani nella battaglia sull’isola contro la Wehrmacht dopo l’8 settembre. Questo invece sì, che è revisionismo «cattivo», perché fa cadere un mito. Ovvia conclusione: non è il «revisionismo» in sé che fa straparlare certi politici e certi storici, ma solo quello che sconvolge la vulgata imposta dalla cultura della sinistra ortodossa (ma ormai anche da certa destra neo-antifascista). Invece, un altro tipo di «revisionismo» viene accettato senza problemi perché la rafforza, oppure edulcora eventi sino a quel momento indifendibili.

REVISIONISMO. IL LINCIAGGIO DI RENZO DE FELICE.

Facciamo il partito per governare l'Italia, scrive Benito Mussolini il 9 ottobre 1921 (pubblicato il 30/08/2016 su "Il Giornale"). "Il fascismo, o meglio quella parte di fascismo che pretende di fare della politica, dimostrerà dunque - dopo avere avuto in dispregio sommo le nominologie e i nominalismi ed aver avuto il coraggio di chiamarsi rivoluzionario e reazionario, democratico ed aristocratico - dimostrerà dunque di essere schiavo di folle terrore davanti a una parola: «partito»? Siamo davanti a una parola diabolica che non bisogna impiegare? Siete pregati, cari contraddittori, di non riportarvi al 1919, poiché il confronto mancherebbe di ogni qualsiasi serietà. Nel 1919, il fascismo si riduceva ad un pugno, veramente un pugno, di uomini di tutti i partiti: c'erano socialisti, repubblicani, anarchici, sindacalisti, democratici. In queste condizioni, il fascismo, raccogliendo uomini di tutti i partiti, non poteva essere che un antipartito. È di un'evidenza cristallina. Ma in questi due anni di tempestose battaglie è accaduto nel fascismo un fenomeno di esodo di taluni elementi, un fenomeno di entrata, quasi invasione, di altri. C'è stato un travaglio formidabile di selezione in mezzo a noi. Gli avvenimenti precipitavano a poco a poco le situazioni. Avendo il fascismo, sin dal 1919, preso netta posizione contro la politica estera rinunciataria, ci fu un primo esodo: quello dei democratici wilsoniani. Successivamente, avendo il fascismo osteggiato taluni scioperi politici di ferrovieri e impiegati statali, se ne andarono dalle nostre file tutti gli elementi che non avevano potuto bruciare i ponti dietro il loro passato di sovversivi più o meno estremi. Naturalmente gli elementi che si perdevano da una parte, si riguadagnavano dall'altra. Non si può affermare che questo travaglio di chiarificazione sia compiuto, mentre è in corso la crisi provocata dal trattato di Roma; ma è certo che oggi il vecchio conglomerato del 1919 è scomparso e il fascismo è venuto via via assumendo una sua precisa e inconfondibile individualità. Rendersi conto di questo processo, che ha avuto conseguenze nell'organizzazione interna dei Fasci (si sono costituite ovunque le Federazioni provinciali, si sono ovunque elaborati degli statuti, si sono diffusi i distintivi, ecc., ecc.), significa convincersi che il partito è già un fatto compiuto, forse già troppo compiuto e che è puerile ostinarsi a negare questa vivente realtà. Un altro elemento della situazione da porre nel dovuto rilievo è il seguente. Il fascismo non ha limitato la sua azione al campo strettamente politico-militare, ma ha straripato nel campo economico-sociale, tentando di creare un movimento sindacale e cooperativo. Questo movimento perirà se il fascismo non si darà l'organizzazione di partito. La nostra profezia è facile perché i segni abbondano. La ragione fondamentale - e trascuriamo le minori altre, come quella del fascismo parlamentare - del partito è questa: quando un movimento da contingente - qual era il fascismo nel 1919 - diventa trascendente; quando assume caratteri di finalismo, esso diventa partito. O altrimenti decade e muore. Io comprendo l'antipatia per la parola «partito», poiché essa, specie in Italia, suscita impressioni di chiesuola, di inquisizione, di dogmatismo e di camorra; ma quest'antipatia non basta a giustificare un atteggiamento di pregiudiziale opposizione. Partito pur si chiamava quel Partito d'Azione, che, durante il Risorgimento, mantenne viva, colla vita e colle opere, la fede nella redenzione nazionale; partito non aveva timore di definirsi quel Partito della Destra Storica, che tracce così profonde ha lasciato dal '60 al '70 nella storia italiana. Noi abbiamo il torto di guardare solamente ai partiti socialisti o ai democratici. Ci fa ribrezzo il demagogismo dei primi e l'inconsistenza degli altri. Ma ecco, proprio in Italia, un partito, quello Repubblicano, che ha un secolo di vita ed è certamente, per il glorioso e sanguinoso contributo dato alla causa italiana dal 1821 al 1918, degno di ogni rispetto e ammirazione; il che aumenta il nostro rammarico di vederlo accodato, sotto le suggestioni dell'ora, a quel sovversivismo antieducativo che Giuseppe Mazzini, a suo tempo, acerbissimamente fustigò. Signori, che vi aggrappate ad una pregiudiziale, quella dell'antipartito ad ogni costo, siete pregati di considerare che il partito non è sempre e necessariamente un soffocatore dell'ideale. Lo spirito fascista, se esiste, non evapora costringendolo nel partito. Al contrario! Il bolscevismo - idea che ha infiammato milioni di uomini in ogni parte del mondo - è diffuso, sostenuto, predicato da un «partito», organizzato e sottoposto ad una disciplina ferrea. Il clericalismo, quando ha voluto «agire» nella storia contemporanea, si è dato anima e corpo di partito. Credere che la bellicosità fascista debba soffrirne, è assurdo. Gli altri partiti, dai comunisti ai cattolici, hanno costituito le loro squadre d'azione, di difesa e di avanguardia, copiando il fascismo. Se questo è stato possibile in partiti più o meno antifascisti, perché non dovrebbe essere possibile nel fascismo divenuto partito? Nella natura e nella storia, si va sempre da un indistinto ad un distinto; da un amorfismo caotico ad una differenziazione sempre più precisa. Più si sale nella scala, e più ciò risulta evidente. Individualità significa differenziazione. Più è sviluppato l'organismo e più è differenziato. Il fascismo non può sfuggire a questa legge di bronzo e non deve quindi nutrire ansie e preoccupazioni di natura squisitamente misoneistica e conservatrice-reazionaria, ostinandosi a chiamarsi «movimento» quando è già «partito», ostinandosi in un'ambiguità ormai insostenibile. Il partito è un gesto di coraggio. È un segno di giovinezza e di vitalità. È un fatto di fede, poiché dimostra che il fascismo può accingersi ad un lavoro positivo in vista del raggiungimento di mediati e immediati ideali; e questo smentirà in pieno tutti coloro che non ci ritengono dotati di altre virtù all'infuori di quelle d'ordine pugilistico. È tempo di tracciare il solco di divisione attorno alla nostra città quadrata. Questo e non altro è il partito. Questo significa salvare il fascismo in ciò che ha di vivo e immortale e prepararlo al compito supremo di domani: il governo della nazione. 9 ottobre 1921".

La deriva fascista. Da rivoluzione a conservazione. Gli studi di Renzo De Felice mostrano come la classe dirigente fiancheggiatrice del regime ne erose la carica innovativa, scrive Francesco Perfetti, Sabato 16/01/2016, su "Il Giornale". Man mano che Renzo De Felice si avvicinava alla conclusione della sua opera su Mussolini e sul fascismo, ne apparivano sempre più evidenti la forza innovativa e la carica dirompente rispetto ai discorsi sviluppati fino ad allora dalla storiografia. Non si trattava di questioni di poco conto: il carattere «rivoluzionario» della cultura e della personalità di Mussolini; la coesistenza del «fascismo movimento» e del «fascismo regime» con anime diverse e per certi versi opposte; la dimensione e la durata di un massiccio «consenso» anche di fronte alla guerra; il carattere più autoritario che totalitario del regime; il riconoscimento di profonde differenze tra fascismo e nazionalsocialismo e via dicendo. A tali conclusioni De Felice era pervenuto proprio perché aveva relegato in soffitta i discorsi ideologici sul fascismo. Un grande studioso di storia della storiografia, Walter Maturi, scrisse, riferendosi alla prima fase di studi di De Felice, quella relativa al periodo rivoluzionario tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, che questo «giovane d'ingegno vivo e acuto» aveva «molto mordente critico» ed era «intransigente come un domenicano» pronto a fulminare con critiche impietose quanti usassero a sproposito il termine «giacobino». L'osservazione coglieva nel segno non tanto nella descrizione di un De Felice intellettualmente polemico e rissoso, quanto nella caratterizzazione di uno studioso che, già ai suoi esordi, rifiutava l'uso acritico di termini nella fattispecie, «giacobino» al di fuori del loro significato originario. Uno dei risultati più importanti della ricerca storiografica di De Felice sul fascismo è stato l'aver reinserito a pieno titolo quel periodo nella storia d'Italia sgombrando il campo da tutti i discorsi che tendevano a presentarlo come un momento inspiegabile di follia collettiva. Il fascismo, com'egli ben dimostrò, aveva avuto origine dal primo conflitto mondiale e dalla crisi del dopoguerra: una crisi caratterizzata dalla scissione tra «paese reale» e «paese legale», dall'ideologizzazione delle masse, dal tracollo di modelli culturali tradizionali e dalle spinte di forti processi di mobilitazione sociale. Il ventennio fascista, nell'analisi di De Felice, si sviluppò all'insegna di una dialettica tra il «vecchio» fascismo, quello «premarcia» e intransigente, desideroso non solo di partecipare alla gestione del potere ma di porsi come alternativa al sistema, e la vecchia classe dirigente tradizionale e «fiancheggiatrice», che non voleva sovvertire radicalmente il sistema, ma rafforzarlo e rivitalizzarlo secondo una ammodernata versione del sonniniano ritorno allo Statuto. Durante il ventennio, dunque, il fascismo, nella forma, riuscì a fascistizzare la classe dirigente fiancheggiatrice, ma, nella sostanza, quest'ultima finì per privare il fascismo della sua carica rivoluzionaria, trasformandolo in proprio strumento e facendolo rientrare, per usare le parole di De Felice, «in larga misura nell'alveo della tradizione conservatrice». Nell'ultima fase della parabola storica del ventennio, peraltro, l'equilibrio su cui si reggeva quel compromesso andò incrinandosi. Ci furono, quindi, la guerra e la catastrofe con tutto quello che esse comportarono. Il popolo italiano, poi, si trovò, coinvolto nella guerra civile, a vivere un vero e proprio dramma tra fascisti e partigiani. Le pagine dedicate da De Felice a questo capitolo della crepuscolare vicenda storica del fascismo sono tra le più belle, intense e significative di tutta la sua opera. Lo sono sia perché sfatano miti consolidati, sia perché offrono le chiavi per una migliore comprensione del futuro politico del Paese all'indomani del conflitto. Premesso che la Resistenza era stata un «grande evento storico» che nessun revisionismo avrebbe mai potuto negare, De Felice ne ridimensionò la leggenda che voleva presentarla come un movimento popolare di massa, ricordando che le sue fila, a eccezione di alcune limitate zone, si ingrossarono soltanto alla vigilia della capitolazione tedesca, quando cioè la vittoria degli Alleati era cosa certa. Ma, soprattutto, smontò la «vulgata» storiografica resistenziale. Questa, secondo lo studioso, era stata costruita per ragioni ideologiche, allo scopo cioè di «legittimare la nuova democrazia con l'antifascismo», ed era stata utilizzata per scopi politici al fine di «legittimare la sinistra comunista con la democrazia». La verità, secondo De Felice, è che comunisti e azionisti nella convinzione che l'Italia postfascista non dovesse avere nulla a che fare non soltanto con l'Italia fascista ma anche con quella liberale e prefascista nutrivano propositi realmente rivoluzionari. La Resistenza, in altre parole, veniva concepita come il vero, e forse unico, fatto rivoluzionario della storia dell'Italia unitaria. Il che spiega diverse cose. In primo luogo spiega perché le formazioni militari politiche di orientamento comunista e azionista guardarono male le altre componenti della Resistenza, cioè sia le formazioni autonome, sia quelle che avevano preferito porsi sotto il patronato di cattolici e liberali per sottrarsi alle inframmettenze e alla sotterranea ostilità dei partiti di sinistra. In secondo luogo spiega perché il Pci sostenesse con energia il proposito dell'unità della Resistenza a guida comunista: la «democrazia progressiva» teorizzata da Palmiro Togliatti era a esso funzionale. Secondo De Felice i comunisti italiani, pur in quella contingenza, erano al servizio di Mosca: per loro la «svolta di Salerno», ovvero la politica di collaborazione con la monarchia dopo il rientro di Togliatti dall'Urss, così come la teoria della «democrazia progressiva» non erano altro che mosse tattiche. La scelta del terrorismo, del tutto priva di utilità sul piano militare, era funzionale alla strategia comunista proprio per riaffermarne il ruolo egemonico all'interno di una Resistenza che sempre più finiva per caratterizzarsi come «guerra di classe» e non come «movimento nazional-patriottico». Il terrorismo, secondo De Felice, serviva soprattutto a provocare la reazione dei fascisti e dei tedeschi e quindi a suscitare l'indignazione popolare e a scoraggiare ogni tentativo di pacificazione. Esso, poi, serviva a creare attorno ai Gap comunisti che lo usavano contro obiettivi simbolici è il caso dell'assassinio di Giovanni Gentile «un alone di forza e di onnipotenza» e ad esaltare «agli occhi della gente l'attivismo, l'efficienza e lo sprezzo del pericolo dei comunisti» rispetto alla «passività» delle altre componenti della Resistenza. Il lungo percorso storiografico effettuato da De Felice con la sua ricerca su Mussolini iniziato con lo studio della crisi dell'Italia liberale all'indomani della prima guerra mondiale e proseguito con la ricostruzione delle vicende del ventennio fascista e l'analisi della catastrofe del regime trova, così, la sua conclusione alle soglie dell'Italia repubblicana. Lasciando al lettore tutti gli elementi necessari per formulare un giudizio etico-politico.

Il regime fascista? Fu una rivoluzione non conservatrice. Renzo De Felice per primo studiò a tappeto anche i documenti del Ventennio. E arrivò a conclusioni "eretiche" per la sinistra, scrive Francesco Perfetti, Sabato 28/11/2015, su "Il Giornale". In uno dei suoi ultimi corsi universitari era il gennaio 1991 Renzo De Felice, raccontando agli studenti come e perché aveva cominciato a interessarsi di fascismo, parlò del proprio stato d'animo di studioso alle prime armi. Si era ritrovato ad ascoltare dai suoi maestri discorsi carichi di passionalità e a leggere opere che sembravano, tutte, scritte da una generazione troppo partecipe degli eventi. Gli era sembrato di assistere non a un dibattito storiografico ma a un confronto tra posizioni personali: «Ricorderò sempre che a me giovane neolaureato, che cominciava a muoversi in questo ambiente di studi storici la discussione sulla prima guerra mondiale (dalla quale discendeva poi la discussione sul fascismo) apparve come una discussione fra protagonisti. Sembrava che ci si trovasse nella stessa situazione del 1914-1915. Anche studiosi di notevole statura cercavano, sì, di trovare addentellati di tipo storico, ma in realtà discutevano come avevano discusso fra loro nel 1914-1915. Erano tipici fino ad apparire a noi più giovani, che li ascoltavamo, quasi come macchiette due storici, Luigi Salvatorelli e Piero Pieri, uno neutralista giolittiano, l'altro interventista democratico. Le loro discussioni assumevano subito toni estremamente eccitati, che, per un verso, spiegano l'impatto che ancora avevano certi problemi e quanto erano tuttora sentiti, e, per un altro verso, mostrano il collegamento che più o meno correttamente, non nella sostanza ma nella forma, veniva stabilito fra le vicende della prima guerra mondiale e il sorgere del fascismo in Italia. Ma, al di là di questo, quelle discussioni mostravano l'impossibilità di fare effettivamente la storia di un periodo non ancora concluso: a quell'epoca la prima guerra mondiale era finita da decenni e anche la seconda si era conclusa, il fascismo e il nazismo erano stati sconfitti, tuttavia non si poteva dire che, nella seconda metà degli anni quaranta e negli anni cinquanta, il periodo storico che aveva caratterizzato l'Europa, oltre che l'Italia, per trenta e più anni, fosse un periodo concluso». La nascita della nuova Italia, democratica e antifascista, costruita sul mito legittimante dell'«unità della Resistenza» a guida comunista, non aveva segnato, se non in apparenza, la chiusura di un ciclo storico: del fascismo non era lecito né opportuno parlare se non in termini generali e con un giudizio aprioristicamente negativo. La voglia di conoscere la verità aveva spinto il giovane storico a dedicarsi allo studio della vicende contemporanee che ancora facevano discutere i suoi maestri. Del fatto che l'impresa non fosse facile egli era consapevole come, ancora, ribadì ai suoi studenti in quella ricordata conversazione: «Credo che sia inevitabile che un periodo storico non possa essere visto dai contemporanei, da coloro che lo hanno vissuto anche quando si tratta di storici di grande valore in una prospettiva effettivamente di tipo storico. Finché il periodo non è chiuso, finché non si è aperta una nuova fase storica, è molto difficile affrontare certi problemi con quel minimo di oggettività che, bene o male, è sempre necessario per chi voglia fare storia, per chi voglia affrontare la ricostruzione in termini storici della realtà di un periodo e quindi offrirne una spiegazione in termini storici». Quando cominciò a interessarsi di fascismo De Felice fu subito guardato con sospetto. Come era mai possibile che un giovane studioso volesse affrontare un tema tabù, come quello del fascismo, del quale, in fondo, non si poteva e non si doveva che dir male? Come era possibile, poi, che egli decidesse, per la prima volta, di prendere in considerazione documenti archivistici, memorie, materiali, insomma, ufficiali di parte fascista? Queste domande, retoriche all'apparenza, erano, in realtà, il frutto di una mentalità antistorica, cresciuta e cullata all'insegna dell'ideologia, una mentalità che rifiutava l'idea stessa che il fascismo, «male assoluto», potesse essere preso in considerazione come un «problema storico». De Felice, come avrebbe ricordato Piero Melograni, pur vivendo in un paese nel quale «egemonizzavano il mondo della cultura» ebbe «la fortuna di non vivere in una nazione comunista, altrimenti non sapremmo quale sarebbe stato il suo destino»: del resto soltanto l'intervento nel momento di più intensa aggressione mediatica e politica alle sue tesi, in particolare quelle sul «consenso» del paese al fascismo di un comunista della statura di Giorgio Amendola lo salvò da un vero e proprio linciaggio. Eppure, sempre per usare le parole di Melograni, il fatto stesso di «vivere in una nazione fortemente ideologizzata rese il suo lavoro difficile e al tempo stesso appassionante» dandogli, in un certo senso, «la soddisfazione di comportarsi come un eroe della verità in un mondo in cui questi eroi erano davvero pochi». Per la prima volta, suscitando scandalo, De Felice utilizzò, quei documenti di parte fascista che i sostenitori della «vulgata» ritenevano «intoccabili». Pur sottoponendoli al vaglio critico proprio di uno studioso cresciuto sui banchi della grande storiografia italiana, De Felice ne sostenne la rilevanza nella presunzione che per capire un fenomeno storico fosse necessario analizzarlo «dall'interno» e non guardarlo con le lenti della ideologia. Tale approccio consentì a De Felice di leggere criticamente tutta la precedente letteratura storiografica sul fascismo. Ma gli consentì, anche, di giungere a conclusioni, ormai generalmente acquisite, sul collegamento, per esempio, fra la genesi del fascismo e lo sconvolgimento, non soltanto politico ma anche morale e psicologico, provocato dalla Grande Guerra. E gli consentì, ancora, di far capire come e perché il consenso al regime oltre che al suo capo sotto forma di «mussolinismo» abbia potuto radicarsi e durare a lungo. Uno dei punti emersi dal lavoro di De Felice e, comprensibilmente, irritante per l'egemonica cultura storiografica gramsci-azionista, fu proprio sulla base dell'analisi della fenomenologia del consenso la conclusione che il fascismo rappresentava un tipo di regime diverso rispetto a quelli conservatori e autoritari. Questi ultimi, infatti, avevano sempre teso a demobilitare ed escludere le masse dalla partecipazione attiva alla vita politica «offrendo loro dei valori e un modello sociale già sperimentato nel passato» cui veniva «attribuita la capacità di impedire gli inconvenienti e gli errori di qualche recente parentesi rivoluzionaria». Il fascismo, invece, puntò a suscitare in esse «la sensazione di essere costantemente mobilitate, di avere un rapporto diretto con il capo (tale perché capace di farsi interprete e traduttore in atto delle loro aspirazioni) e di partecipare e contribuire non a una mera restaurazione di un ordine sociale di cui sentivano tutti i limiti e l'inadeguatezza storica, bensì a una rivoluzione dalla quale sarebbe gradualmente nato un nuovo ordine sociale, migliore e più giusto di quello preesistente e, soprattutto, mai sperimentato prima». Conclusioni innovative, certo, e storiograficamente rivoluzionarie ma inoppugnabili.

La storia libera dall'ideologia Ecco il fine del "revisionismo". Il fascismo fu un fenomeno contiguo al leninismo in cui convivevano movimento e regime. La Resistenza? Coinvolse la minoranza del Paese, scrive Giampietro Berti, Venerdì 06/11/2015, su "Il Giornale". La storiografia, per natura, non può che essere revisionista, se per revisionismo s'intende il continuo esame dei giudizi precedenti a fronte delle nuove acquisizioni della ricerca. Ciò è banale. Come aveva giustamente sentenziato Benedetto Croce, la storia è sempre storia contemporanea, dato che ogni generazione rilegge il passato in base al presente. Poiché questo muta - cioè mutano i valori, gli interessi, gli orientamenti - allora non può non mutare anche il giudizio storico. Ha scritto Marc Bloch: «il passato è, per definizione, un dato non modificabile, ma la conoscenza del passato si trasforma e si perfeziona incessantemente». Premettiamo queste elementari considerazioni alla nostra riflessione sul revisionismo storiografico di Renzo De Felice perché egli era sostanzialmente concorde con tali premesse. A più riprese affermò infatti che la ricerca storiografica doveva rimanere «estremamente aperta a tutte la più varie suggestioni interpretative e pronta a non scartare aprioristicamente nessuna ipotesi». Si dimostrava perciò molto tiepido verso ogni forma di generalizzazione astratta incline a filosofeggiare sulla storia, mentre era propenso ad un lavoro storico fondato su una minuziosa e scrupolosa ricerca. Questa doveva essere fondata sulle fonti - soprattutto inedite - in grado di portare sempre più avanti la conoscenza storica, la quale doveva attenersi soprattutto alla successione cronologica degli eventi, rifiutando una spiegazione causale; insomma, un'indagine la più neutra possibile. Quando intraprese la sua grande ricerca sul fascismo lo stato dei lavori risultava profondamente condizionato da un giudizio politico radicalmente negativo e da una condanna morale senza appello. Le interpretazioni maggiori possono essere riassunte così: il fascismo era stato una parentesi, una «malattia morale» (interpretazione liberale: Croce); il fascismo era stato l'«autobiografia della nazione» (interpretazione democratico-radical-progressista: Gobetti); il fascismo era stato il braccio armato della borghesia per arrestare l'avanzata del movimento operaio e socialista (interpretazione marxista: Gramsci, Togliatti, ecc.). Insomma in tutti i casi la ricerca storica sul fascismo discendeva dai canoni politici e morali dell'antifascismo. Ora De Felice, consapevole della complessità e anche dell'eterogeneità del fenomeno, voleva rifuggire da ogni idea generalizzante; intese, invece, avviare degli studi in grado di portare il fenomeno fascista «ad una misura esclusivamente storica», sottraendolo ad ogni preoccupazione di altro genere e ad ogni sistematicità». Precisò che la sua ricerca non perseguiva «finalità politiche che non competono allo storico». Il suo voleva essere un approfondimento critico, escludendo che ciò portasse «a una sorta di revisionismo storiografico» diretto «alla riabilitazione del fascismo e del suo capo». Naturalmente non possiamo non osservare -per inciso- che questa separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore diventa di difficile attuazione quando si affrontano i problemi storici, dal momento che i fatti sono sterminati e il compito degli storici consiste, per l'appunto, nel decidere innanzitutto quali sono importanti e quali no. E con ciò gli stessi storici immettono, inevitabilmente, un giudizio di valore. Di qui l'ovvia conclusione, e cioè che lo storico sceglie i suoi fatti. Detto questo, entriamo nel merito delle più importanti acquisizioni della ricerca defeliciana, sottolineando, per quanto ci riguarda, che essa ha dato un contributo fondamentale a quel giudizio storico di natura liberale che valuta sostanzialmente equivalenti i totalitarismi rossi e neri. Il fascismo fu un fenomeno rivoluzionario che affondava le sue radici nella tradizione giacobino-blanquista -dunque di sinistra- e ciò lo rendeva per certi versi contiguo al leninismo. In tutti i casi la sua natura eclettica non era classificabile come un fenomeno puramente reazionario, ma piuttosto come un insieme di componenti socialiste, corporative e nazionali e questo lo differenziava alquanto dalle dittature di destra. Aveva lo sguardo rivolto al futuro perché voleva forgiare l'«uomo nuovo», diversamente dal nazismo il cui sguardo era rivolto al passato, dato che intendeva ripristinare l'«uomo ariano». Mussolini rimase sempre, in sostanza, un rivoluzionario, anche quando il fascismo passò da «movimento» a «regime». Certamente il fascismo fu anche una reazione al movimento operaio e socialista sostenuta da una parte del padronato, ma la sua vera natura non va ricercata nella piccola borghesia, ma nell'avvento dei ceti medi volti a spodestare la vecchia classe dirigente; il suo totalitarismo risultava imperfetto perché non riuscì ad eliminare la monarchia e, soprattutto, la Chiesa (di qui la sua diversità dal comunismo e dal nazismo), anche se una maggiore accentuazione totalitaria può essere registrata nella seconda metà degli anni '30. Ovviamente il fascismo, il nazismo e il comunismo erano costitutivamente propensi alla creazione di una società organica, la cui profonda natura andava ravvisata senz'altro nel rifiuto della modernità laica, edonistica e individualistica prodotta dal capitalismo ed espressasi ideologicamente nella «democrazia dei moderni» costituita sulla divisione liberale fra sfera pubblica e sfera privata. Sebbene inizialmente confuso e contraddittorio, il fascismo espresse una sua specifica identità ideologica e una sua cultura. Esso però fu indisgiungibile dal mussolinismo e ciò spiega le diverse fasi biografiche della sua storia, così come vengono presentate anche dai titoli dei vari volumi defeliciani: il rivoluzionario, il fascista, il duce, l'alleato. Vi fu un sostanziale consenso al regime, specialmente dopo il Concordato. Il consenso era riscontrabile più nei ceti popolari che nella borghesia. Il razzismo si manifestò tardi e va visto più come un fatto di importazione, che come un elemento costitutivo. La Resistenza coinvolse una minoranza della popolazione, mentre la maggioranza cercò di sopravvivere in una «zona grigia». Questo non significava assolutamente sottovalutare la sua importanza, né tantomeno disprezzarla. La Resistenza, affermò De Felice, «era stata un grande evento storico». Come si vede, siamo di fronte a un rovesciamento delle precedenti interpretazioni. Soprattutto per la storiografia di sinistra -di gran lunga maggioritaria- era inaccettabile che il fascismo avesse avuto una originaria matrice rivoluzionaria di sinistra, che godesse di un ampio e innegabile consenso, che la Resistenza, infine, non potesse essere considerata propriamente un fenomeno popolare. Di qui le interminabili polemiche contro il suo lavoro e la sua persona, che oggi appaiono per quello che furono: faziose, ideologiche e prive, in gran parte, di vera sostanza storica. Qualunque sia il giudizio che si vuole dare su De Felice, la ricerca storiografica sul fascismo da allora non poté più prescindere dalla sua opera (gigantesca).

Sangue, insulti, risate. Ecco il "film" dell'orrore di Piazzale Loreto. Uno scioccante e in parte inedito dossier fotografico nel libro di Garibaldi e Moriconi, scrive Rino Cammilleri, Sabato 13/08/2016, su "Il Giornale". «Voi italiani esto brava gente», dice il partigiano russo al colonnello Sermonti nel film del 1965. Sarà. L'attuale buonismo cattocomunista confermerebbe l'immagine, ma la verità è che abbiamo il Peccato originale pure noi. Come tutti. L'intellettuale romeno Mircea Eliade, viste le foto di piazzale Loreto, ci qualificò di «servi» e «traditori». Non aveva visto la fotina pubblicata poco tempo fa su queste stesse colonne a corredo di un articolo di Matteo Sacchi sulla «pista americana». Data 28 aprile 1945 e mostra gli abitanti del borgo di Azzano in posa, sorridenti, donne e bambini compresi, accanto alla larga macchia di sangue che colava dal camion pieno di cadaveri di fascisti crivellati. Cioè, quelli ammazzati a Dongo con Mussolini e la Petacci. Quando i corpi furono portati a Milano e appesi per i piedi alla pompa di benzina di Piazzale Loreto, qualcuno aveva già provveduto a togliere le mutande alla Petacci, così che lo spettacolo risultasse più suggestivo. Fu un prete, don Giuseppe Pollarolo, a fermare pietosamente con una spilla di sicurezza la gonna di Claretta, interrompendo lo strip-show. Un teatrino tra lo splatter e il burlesque che fece schifo perfino all'antifascista e capo partigiano Ferruccio Parri, il quale coniò il celebre termine «macelleria messicana». Indro Montanelli, invece, ebbe a dire che se lui fosse stato messicano avrebbe rigettato tale definizione. Lui l'aveva vista, quell'expo milanese, con gente che sputava sui morti e ci orinava sopra. E aggiunse, molti anni dopo, di ancora vergognarsi di «appartenere a gente capace di simili infamie». Cioè, italiani. Perché quella, disse, «fu una classica giustizia di piazza italiana». Fu un altro prete, il Beato cardinale arcivescovo di Milano, Ildefonso Schuster, a intervenire affinché quei quarti di carne appesi fossero tolti alla vista. Dovette insistere più volte, arrivando a minacciare di farlo di persona, ma solo con gli Alleati (stranieri) riuscì nel suo intento di pietà cristiana. Due giornalisti, Luciano Garibaldi e Emma Moriconi, rievocano l'episodio in un libro pieno di foto e particolari inediti o poco noti, Mussolini. Sangue a Piazzale Loreto (Herald Editore, pagg. 200, euro 18). Perché proprio là? La storia è risaputa. In quel luogo un vecchio graduato tedesco veniva con un furgoncino a distribuire latte alle mamme milanesi, nonché farina e qualcosa da mangiare a gente che stringeva la cinghia da ormai troppo tempo. Lo chiamavano «il Carlùn» e i rifocillati avevano avuto l'umanissimo torto di affezionarsi a quel pacioccone che strideva con l'immagine dell'occupante straniero e spietato. Così, l'8 agosto 1944 una bomba stile via Rasella mandò all'altro mondo lui, il latte e tutti quelli che in quel momento si affollavano attorno al suo furgone. Theodor Saewecke, colonnello della Gestapo, andò in bestia e pretese l'applicazione della rappresaglia decimale: quindici morti, centocinquanta fucilati. Mussolini stesso fece pressioni su Hitler e questi consentì a ridurre la proporzione alla scala 1:1. Due giorni dopo, nel medesimo piazzale, 15 partigiani vennero passati per le armi dagli uomini della Brigata Muti. Ma il Cln Alta Italia se la legò al dito. Preso e sparato Mussolini, 15 gerarchi dovevano accompagnarlo nel Walhalla, in ricordo dei 15 di Piazzale Loreto. E vendetta fu fatta, come sappiamo, il 29 aprile 1945. Solo che dei «quindici gerarchi» solo alcuni erano gerarchi. Uno, per esempio, era un aviatore, il capitano Pietro Calistri, a cui era stato dato uno strappo sul camion dell'ex Duce. E poi c'erano il fratello di Claretta, Marcello, nonché l'ormai pensionato Achille Starace. I due autori del libro hanno voluto riportare all'inizio un brano in reverente memoria di tutti i caduti della guerra civile, sia quelli della Resistenza che quelli della Rsi. Auspicando una «vera e necessaria» riconciliazione nazionale. Dopo 71 anni buonsenso vorrebbe che fosse il caso, finalmente. Neanche i nostalgici di Napoleone resistettero tanto. Ma non in Italia. Qui ci vuole un braccio di ferro istituzionale per impedire che, ancora nel 2016, vengano assegnate medaglie d'oro a responsabili di stragi inutili e perpetrate su inermi a guerra finita. Italiani, brava gente. Peccato che sia dai tempi di Romolo e Remo che si scannano tra loro.

La storia libera dall'ideologia. Ecco il fine del "revisionismo". Il fascismo fu un fenomeno contiguo al leninismo in cui convivevano movimento e regime. La Resistenza? Coinvolse la minoranza del Paese, scrive Giampietro Berti, Venerdì 06/11/2015, su "Il Giornale". La storiografia, per natura, non può che essere revisionista, se per revisionismo s'intende il continuo esame dei giudizi precedenti a fronte delle nuove acquisizioni della ricerca. Ciò è banale. Come aveva giustamente sentenziato Benedetto Croce, la storia è sempre storia contemporanea, dato che ogni generazione rilegge il passato in base al presente. Poiché questo muta - cioè mutano i valori, gli interessi, gli orientamenti - allora non può non mutare anche il giudizio storico. Ha scritto Marc Bloch: «il passato è, per definizione, un dato non modificabile, ma la conoscenza del passato si trasforma e si perfeziona incessantemente». Premettiamo queste elementari considerazioni alla nostra riflessione sul revisionismo storiografico di Renzo De Felice perché egli era sostanzialmente concorde con tali premesse. A più riprese affermò infatti che la ricerca storiografica doveva rimanere «estremamente aperta a tutte la più varie suggestioni interpretative e pronta a non scartare aprioristicamente nessuna ipotesi». Si dimostrava perciò molto tiepido verso ogni forma di generalizzazione astratta incline a filosofeggiare sulla storia, mentre era propenso ad un lavoro storico fondato su una minuziosa e scrupolosa ricerca. Questa doveva essere fondata sulle fonti - soprattutto inedite - in grado di portare sempre più avanti la conoscenza storica, la quale doveva attenersi soprattutto alla successione cronologica degli eventi, rifiutando una spiegazione causale; insomma, un'indagine la più neutra possibile. Quando intraprese la sua grande ricerca sul fascismo lo stato dei lavori risultava profondamente condizionato da un giudizio politico radicalmente negativo e da una condanna morale senza appello. Le interpretazioni maggiori possono essere riassunte così: il fascismo era stato una parentesi, una «malattia morale» (interpretazione liberale: Croce); il fascismo era stato l'«autobiografia della nazione» (interpretazione democratico-radical-progressista: Gobetti); il fascismo era stato il braccio armato della borghesia per arrestare l'avanzata del movimento operaio e socialista (interpretazione marxista: Gramsci, Togliatti, ecc.). Insomma in tutti i casi la ricerca storica sul fascismo discendeva dai canoni politici e morali dell'antifascismo. Ora De Felice, consapevole della complessità e anche dell'eterogeneità del fenomeno, voleva rifuggire da ogni idea generalizzante; intese, invece, avviare degli studi in grado di portare il fenomeno fascista «ad una misura esclusivamente storica», sottraendolo ad ogni preoccupazione di altro genere e ad ogni sistematicità». Precisò che la sua ricerca non perseguiva «finalità politiche che non competono allo storico». Il suo voleva essere un approfondimento critico, escludendo che ciò portasse «a una sorta di revisionismo storiografico» diretto «alla riabilitazione del fascismo e del suo capo». Naturalmente non possiamo non osservare -per inciso- che questa separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore diventa di difficile attuazione quando si affrontano i problemi storici, dal momento che i fatti sono sterminati e il compito degli storici consiste, per l'appunto, nel decidere innanzitutto quali sono importanti e quali no. E con ciò gli stessi storici immettono, inevitabilmente, un giudizio di valore. Di qui l'ovvia conclusione, e cioè che lo storico sceglie i suoi fatti. Detto questo, entriamo nel merito delle più importanti acquisizioni della ricerca defeliciana, sottolineando, per quanto ci riguarda, che essa ha dato un contributo fondamentale a quel giudizio storico di natura liberale che valuta sostanzialmente equivalenti i totalitarismi rossi e neri. Il fascismo fu un fenomeno rivoluzionario che affondava le sue radici nella tradizione giacobino-blanquista -dunque di sinistra- e ciò lo rendeva per certi versi contiguo al leninismo. In tutti i casi la sua natura eclettica non era classificabile come un fenomeno puramente reazionario, ma piuttosto come un insieme di componenti socialiste, corporative e nazionali e questo lo differenziava alquanto dalle dittature di destra. Aveva lo sguardo rivolto al futuro perché voleva forgiare l'«uomo nuovo», diversamente dal nazismo il cui sguardo era rivolto al passato, dato che intendeva ripristinare l'«uomo ariano». Mussolini rimase sempre, in sostanza, un rivoluzionario, anche quando il fascismo passò da «movimento» a «regime». Certamente il fascismo fu anche una reazione al movimento operaio e socialista sostenuta da una parte del padronato, ma la sua vera natura non va ricercata nella piccola borghesia, ma nell'avvento dei ceti medi volti a spodestare la vecchia classe dirigente; il suo totalitarismo risultava imperfetto perché non riuscì ad eliminare la monarchia e, soprattutto, la Chiesa (di qui la sua diversità dal comunismo e dal nazismo), anche se una maggiore accentuazione totalitaria può essere registrata nella seconda metà degli anni '30. Ovviamente il fascismo, il nazismo e il comunismo erano costitutivamente propensi alla creazione di una società organica, la cui profonda natura andava ravvisata senz'altro nel rifiuto della modernità laica, edonistica e individualistica prodotta dal capitalismo ed espressasi ideologicamente nella «democrazia dei moderni» costituita sulla divisione liberale fra sfera pubblica e sfera privata. Sebbene inizialmente confuso e contraddittorio, il fascismo espresse una sua specifica identità ideologica e una sua cultura. Esso però fu indisgiungibile dal mussolinismo e ciò spiega le diverse fasi biografiche della sua storia, così come vengono presentate anche dai titoli dei vari volumi defeliciani: il rivoluzionario, il fascista, il duce, l'alleato. Vi fu un sostanziale consenso al regime, specialmente dopo il Concordato. Il consenso era riscontrabile più nei ceti popolari che nella borghesia. Il razzismo si manifestò tardi e va visto più come un fatto di importazione, che come un elemento costitutivo. La Resistenza coinvolse una minoranza della popolazione, mentre la maggioranza cercò di sopravvivere in una «zona grigia». Questo non significava assolutamente sottovalutare la sua importanza, né tantomeno disprezzarla. La Resistenza, affermò De Felice, «era stata un grande evento storico». Come si vede, siamo di fronte a un rovesciamento delle precedenti interpretazioni. Soprattutto per la storiografia di sinistra -di gran lunga maggioritaria- era inaccettabile che il fascismo avesse avuto una originaria matrice rivoluzionaria di sinistra, che godesse di un ampio e innegabile consenso, che la Resistenza, infine, non potesse essere considerata propriamente un fenomeno popolare. Di qui le interminabili polemiche contro il suo lavoro e la sua persona, che oggi appaiono per quello che furono: faziose, ideologiche e prive, in gran parte, di vera sostanza storica. Qualunque sia il giudizio che si vuole dare su De Felice, la ricerca storiografica sul fascismo da allora non poté più prescindere dalla sua opera (gigantesca).

Così iniziò il linciaggio di De Felice. Il suo studio sul Duce dimostrò il consenso degli italiani al regime. Gli intellettuali di sinistra non glielo perdonarono, scrive Claudio Siniscalchi, Mercoledì 04/11/2015, su "Il Giornale". «Non penso sia esagerato sostiene Emilio Gentile affermare che Renzo De Felice è forse lo storico italiano del Novecento più noto in Italia e nel mondo». Non c'è nulla di esagerato. È la verità. Così come è incontrovertibile un'altra verità. Lo storico italiano più importante del Novecento è stato vittima di un'ostilità a tratti feroce, prolungata, che non si è placata neppure con la morte. Lo scontro fra la storiografia di sinistra e De Felice prende avvio con il 1965, data della pubblicazione del primo tassello della biografia di Mussolini: il «rivoluzionario». Tesi troppo innovativa per l'epoca. Mussolini un «rivoluzionario»? Ma scherziamo! La «vulgata antifascista», come De Felice definiva la storiografia dominante di stampo marxista, spesso collaterale al Pci, avvertì immediatamente il pericolo. Nel ventennio successivo alla fine della Seconda guerra mondiale, il Partito comunista aveva esercitato una egemonia sulla cultura italiana, riuscendo a condizionare anche larghi settori della cultura cattolica e liberal-democratica. Era giunto il momento di scardinare questa «vulgata». E De Felice la scardinò. Pezzo a pezzo. Lo fece attraverso migliaia di pagine dattiloscritte, battendo i tasti di una vecchia Olivetti portatile. Lavorando come un monaco, unendo artigianato e arguzia, la ridusse in poltiglia. Innanzitutto sotto il peso dei suoi volumi su Mussolini, sempre più densi, ai quali si unirono altre pubblicazioni e iniziative collaterali, e con l'aggiunta del suo magistero intellettuale. Il fuoco di sbarramento contro De Felice partì da subito. All'inizio assunse la fisionomia del fuocherello. Ma mentre la biografia di Mussolini cresceva a dismisura, diventando mastodontica, le fiammelle si trasformavano in incendio. Contro di lui si scatenò una campagna pubblicistica, storiografica, universitaria, politica tambureggiante e aggressiva. Al primo volume del Mussolini De Felice ne fece seguire altri due: stavolta sul «fascista» (1966-1968). Il punto di non ritorno arrivò con il 1974, anno della pubblicazione del primo volume di Mussolini «il duce», dedicato agli «anni del consenso» (1929-1936). Un tomo di novecentocinquanta pagine zeppe di documenti e note, corredato da una corposa appendice. L'obiettivo storiografico di De Felice era «comprendere» il fascismo non «condannarlo». Per la «vulgata» la questione del «consenso» era vitale. Gli italiani non avevano mai espresso alcun «consenso» nei confronti di Mussolini, che si era impossessato del potere con la forza e l'inganno. Occorreva reagire, poiché stava aprendosi la breccia decisiva. Dopo 10 anni di ricerche attorno al pianeta Mussolini, il vento delle polemiche investì De Felice. E lui giocò d'anticipo. Un altro mattone della storia del fascismo e dell'Italia fascista era stato piazzato. Ma per mettere definitivamente le carte in chiaro aveva bisogno di uno strumento agile. Lo trovò nell'intervista sul fascismo rilasciata ad un brillante storico americano, Michael A. Ledeen. Un volumetto essenziale 115 pagine uscito presso Laterza nel luglio del 1975. Una bomba! Un successo editoriale, a dicembre giunto alla quinta edizione. Le «vestali della vulgata» persero il controllo, riempiendo le pagine dei giornali di indignati commenti. Si poteva far finta di ignorare, o rintuzzare blandamente, la tesi che il fascismo fosse un regime «rivoluzionario». Ma la questione del «consenso» era troppo. Il sociologo Franco Ferrarotti su Paese sera rimproverò De Felice di considerare il fascismo un capitolo concluso del Novecento. Grave errore, perché De Felice con la sua idea di «fascismo marmorizzato» non vedeva le diramazioni politiche e le relative conseguenze politiche sull'Italia del 1975. Trattare il fascismo asetticamente, alla maniera di De Felice, era un errore. L'interpretazione defeliciana venne bollata da Leo Valiani, sul Corriere della sera, di insensibilità morale. Paolo Alatri sul Messaggero imputò a De Felice incompetenza storiografica. Il colpo più duro lo assestò Nicola Tranfaglia. Su Il giorno scrisse che nell'intervista De Felice sosteneva tesi pericolose, capaci di indurre nelle giovani generazioni gravi guasti. La rivista Italia contemporanea promulgò addirittura un appello contro la «storiografia afascista» e il «qualunquismo storiografico» di De Felice, «ritenendoli indizio di un orientamento storiografico e culturale che ormai scopre apertamente i suoi risvolti politici, travasando nel campo storiografico le strumentalizzazioni della teoria degli opposti estremismi». Insomma, per farla breve, dietro le tesi di De Felice si nascondevano oscure mire politiche. A partire dalla riabilitazione storica del fascismo. In realtà De Felice metteva nero su bianco verità oggi consolidate. Ma che all'epoca erano, per il settore dominante della cultura storica e politologica italiana, insopportabili. De Felice divenne così il mostro da abbattere; l'intellettuale da emarginare. Nasce da lì, da quell'astiosa polemica, il ritratto del pericoloso «revisionista». Lo «scandaloso biografo» di Mussolini subì contestazioni di ogni genere. Giornali, riviste, saggi, cattedre universitarie: tutto venne impiegato contro De Felice. Chi scrive è stato suo studente nei primi anni '80 a Scienze politiche all'Università La Sapienza di Roma, e ricorda il diffuso fastidio di molti studenti, le frequenti interruzioni delle lezioni con domande polemiche, fogli e cartelli denigratori nelle bacheche, sino alle aperte contestazioni. Ormai gravemente malato lo storico subì un attentato incendiario nella sua casa di Roma, a Monteverde. La schiera degli avversari di De Felice era composita. E rumorosa. Ma De Felice non se ne preoccupò. Il prestigio suo e delle sue ricerche cresceva in Italia e all'estero. Quello intellettuale e morale dei suoi avversari si sbriciolava. A rileggere certe sciocchezze scritte su De Felice viene da sorridere. Sotto le macerie del crollo del comunismo c'è rimasta la «vulgata», le sue bugie e la sua arroganza. Dopo l'intervista sul fascismo De Felice iniziò ad intervenire su due piani: quello solito della ricerca sui documenti; e quello della presenza mediatica. Lo fece con l'intervista a Giuliano Ferrara per il Corriere della sera nel 1987; con il libro Rosso e Nero con Pasquale Chessa nel 1995; con l'appoggio incondizionato a François Furet per il suo saggio Il passato di un'illusione nel 1995. Scatenando sempre risposte astiose, ma sempre più prive di credibilità. Oggi De Felice è un «classico», un «maestro», un intellettuale da ammirare per l'impegno nella difesa del proprio lavoro e della propria indipendenza. Balbuziente, De Felice non balbettò mai al cospetto dei suoi avversari. La qualità della ricerca ha fatto diventare giustamente Renzo De Felice lo storico italiano più importante del XX secolo. Ma un ruolo essenziale lo hanno avuto anche il coraggio e l'onestà intellettuale.

Renzo De Felice ha battuto sul campo l'egemonia di sinistra. La sua battaglia contro le letture ideologiche del passato ha segnato in profondità l'Italia. I suoi studi sono una pietra miliare, scrive Francesco Perfetti, Domenica 22/05/2016, su "Il Giornale". A vent'anni dalla prematura scomparsa di Renzo De Felice, il 25 maggio 1996, il lascito dello storico che ha legato il suo nome al rinnovamento degli studi sul fascismo è ancora attuale. La sua battaglia per liberare la ricerca storica dai condizionamenti ideologici ha prodotto frutti e ha inciso in profondità sul tessuto della società civile anche se, periodicamente, ricompaiono vecchie e logore tesi che, soprattutto su certi argomenti, sono il frutto della pertinace volontà di utilizzare la storia per fini di natura politica. Quando, verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso, De Felice, dopo essersi a lungo occupato delle vicende dell'Italia napoleonica e giacobina, decise di studiare la figura di Benito Mussolini e il regime fascista, la situazione della storiografia tanto italiana quanto internazionale sull'argomento era ancora largamente condizionata dalla passione politica. Erano trascorsi venti anni o giù di lì dalla conclusione del secondo conflitto mondiale, ma la cultura politica del Paese e quindi anche, in particolare, la ricerca storiografica era tributaria dell'egemonia radical-marxista che aveva imposto quella che lo studioso, in seguito, avrebbe definito icasticamente una «vulgata», cioè a dire una lettura ufficiale della storia d'Italia in funzione legittimante della repubblica «democratica e antifascista». In questo quadro il fascismo era visto come un «blocco unitario» che, per i liberali, testimoniava della «malattia morale» che aveva colpito l'Europa e, in particolare, l'Italia all'inizio del secolo, mentre, per i marxisti, rappresentava una specie di «controrivoluzione preventiva» innescata dalle forze reazionarie mobilitate contro il pericolo della rivoluzione. Non mancava, poi, chi lo interpretava, con un approccio denigratorio di tutta la storia nazionale, come il punto di arrivo dei difetti, dei vizi, delle tare che si erano stratificati sulla storia di un Paese che, per dirlo con Piero Gobetti, non aveva conosciuto la forza rigeneratrice della Riforma protestante. A Renzo De Felice, che si era formato alla scuola di Delio Cantimori e di Federico Chabod, tutti questi discorsi interpretativi non potevano che apparire astratti e inadatti a penetrare nel fondo di un fenomeno storico complesso e irriducibile a unità. Del resto, per una personalità come la sua, al fondo profondamente liberale una personalità che era stata vaccinata contro le tossine ideologiche del marxismo proprio da un brevissimo periodo di impegno politico nelle file del Pci le spiegazioni dei fatti storici in chiave politica, e soprattutto in chiave di legittimazione del potere, erano, oltre che fuorvianti, anche eticamente scorrette. Verso la conclusione dei suoi studi sul fascismo, alla vigilia della sua scomparsa, De Felice illustrò il meccanismo attraverso il quale la «vulgata», che aveva il proprio punto di forza nell'idea della «unità della Resistenza» a guida comunista, divenne il principio legittimante della «repubblica antifascista» e sanzionò, di fatto, una egemonia culturale radical-marxista. Al di là del progetto politico, e delle sue conseguenze sulla società italiana, questa «vulgata» era falsa, sia perché tendeva a negare o sottovalutare il rilevante contributo alla lotta contro il fascismo da parte di forze non comuniste, sia perché presupponeva che il fascismo fosse una realtà unitaria, un blocco compatto, quasi un Moloch reazionario, privo di cultura e nemico della cultura, amante della violenza per la violenza. Non è un caso che De Felice, in una celebre intervista rilasciata a un quotidiano e destinata inevitabilmente a suscitare un'ondata di polemiche, abbia sottolineato l'opportunità di togliere dalla carta costituzionale le norme, ormai desuete, che riguardavano il fascismo e il carattere antifascista della Costituzione. Era un modo sia per riaffermare la necessità di una separazione fra storia e politica sia per ribadire la convinzione che, morto e sepolto il fascismo come evento storico, i valori della libertà e della democrazia erano ormai entrati a far parte del patrimonio culturale della popolazione. Era, ancora, un modo per richiamare l'attenzione sul fatto che la legittimazione del potere non può, né deve, essere costruita attraverso l'uso strumentale e politico della storia. Negli anni durante i quali si occupò del fascismo un trentennio circa De Felice smontò, poco alla volta e pezzo per pezzo, l'impostazione storiografica della «vulgata». Inserì il fascismo nel quadro della profonda trasformazione della società italiana prodotta dalla guerra mondiale e lo presentò come un movimento presto diventato punto di attrazione e di riferimento dei ceti medi emergenti alla ricerca di una rappresentanza politica che fosse equivalente al loro peso nella vita politica e sociale del Paese. Analizzò la composizione dei fasci di combattimento, prima, e del Pnf, poi, studiò le biografie dei suoi esponenti, ne sviscerò idee e programmi facendo vedere come il fascismo, sin dalle origini, avesse diverse, e talora contraddittorie, anime. Vi confluirono, infatti, in una sintesi singolare che non avrebbe potuto esistere senza la Grande Guerra, uomini provenienti dall'interventismo rivoluzionario e dall'interventismo nazionalista, di sinistra e di destra per così dire, che si ritrovarono insieme nella difesa e nella rivendicazione dei sacrifici compiuti in guerra. Altro che movimento unitario! Passando, poi, allo studio della storia del regime, quale andò costruendosi e realizzandosi gradualmente dopo la svolta autoritaria seguita al delitto Matteotti, De Felice tratteggiò il conflitto latente tra le varie anime del fascismo, ricostruì in dettaglio il dibattito teorico che accompagnò le principali scelte legislative in campo istituzionale, ripercorse le vicende della politica estera italiana nel gioco delle grandi potenze del tempo, individuò e descrisse i meccanismi di costruzione del consenso che toccò il suo apice durante la prima metà degli anni Trenta. E, dopo, raccontò la crisi del regime e la guerra civile. Il tutto, sempre, con estremo equilibrio e senza indulgere alle passioni politiche. Man mano che uscivano i volumi della biografia di Mussolini (che, in realtà, era una vera e propria storia del fascismo) e le numerose ricerche collaterali, molti luoghi comuni accreditati sia dalla politica sia da una storiografia succube della «ragion politica» crollarono, tra moti di protesta e di indignazione, come castelli di carta. E, oggi, anche molti dei suoi avversari del tempo sono stati costretti a rivedere le loro posizioni e a considerare, comunque, l'opera storiografica di Renzo De Felice come un punto d'arrivo della ricerca storica. La lezione di De Felice è, prima di tutto, metodologica. Uno degli ultimi, se non proprio l'ultimo, esponente della grande tradizione storiografica italiana che coniuga lo «storicismo» di stampo idealistico con il «realismo storiografico», De Felice si è preoccupato di «capire» il fascismo senza, naturalmente, simpatizzare con esso: lo ha fatto studiandolo, per così dire, anche «dall'interno» attraverso l'analisi dei documenti, pur ufficiali, e la memorialistica. La sua finalità era, insomma, quella di comprendere e spiegare il fascismo e la sua natura ricostruendone le fasi e la storia complessiva. La sensibilità storiografica di De Felice lo portò a fare tesoro degli stimoli provenienti anche dalla grande letteratura internazionale, sia storica che sociologica e filosofica: dagli studi di Gino Germani sulla mobilitazione sociale a quelli di Juan J. Linz sull'autoritarismo e sul totalitarismo, dalle osservazioni di Augusto Del Noce sul carattere filosofico della storia contemporanea ai lavori di George L. Mosse sulla «nazionalizzazione delle masse» e sull'importanza della storia culturale fino alle grandi opere di François Furet sulle metamorfosi dell'illusione rivoluzionaria e via dicendo. Il tutto, naturalmente, nella convinzione che il compito dello storico sia quello non di servire una qualunque ideologia politica, ma di raccontare come i fatti si sono realmente svolti.

L'ostilità per De Felice? Un esempio sinistro di uso politico della storia, scrive Francesco Perfetti, Sabato 21/11/2015, su "Il Giornale".  Il termine «revisionismo» ha una lunga storia. Divenne popolare grazie a Eduard Bernstein, il quale lo utilizzò nel 1899 per sostenere la necessità di rivedere le tesi di Marx messe in crisi dal mancato verificarsi delle condizioni che avrebbero dovuto portare al crollo del capitalismo. Venne subito condannato dai sacerdoti dell'ortodossia marxista ed entrò a far parte del lessico marxista come un'ingiuria infamante. Dopo la rivoluzione russa e la costruzione del «paradiso terrestre», venne utilizzato per liquidare quanti mettevano in dubbio il primato ideologico di Lenin. Durante il «terrore» staliniano, l'accusa di «revisionismo» non fu solo infamante: trasformò l'avversario in «nemico oggettivo», in criminale irrecuperabile da eliminare per il futuro della società comunista. Nel corso di un faccia a faccia con Norberto Bobbio, Renzo De Felice sintetizzò questo processo ricordando come all'origine dell'uso negativo del termine «revisionismo» ci fosse stato proprio il comunismo: «Sono le polemiche fra le varie correnti del pensiero marxista che l'hanno fatto diventare un'offesa mortale. Chiunque metteva in discussione la linea vincente del partito, chiunque pretendeva di discutere i fondamenti della teoria marxista diventava automaticamente un pericolo politico. Per questo revisionismo è diventato un termine spregiativo. Chi non ricorda il revisionista Bernstein o il rinnegato Kautsky? Il momento cruciale fu costituito dalla vittoria dei bolscevichi sui menscevichi, che portò con sé la critica a tutti i socialismi che non riconoscevano la supremazia ideologica del partito di Lenin. Con Stalin il revisionismo diventa addirittura un crimine contro lo stato guida, il comunismo in un paese solo, l'internazionalismo proletario». De Felice non si curò mai troppo della definizione di «storico revisionista» che i suoi avversari gli avevano cucito addosso per demonizzarlo e ottenerne l'emarginazione dalla comunità storiografica. Ma fece bene a rammentare le origini del «revisionismo» perché, in tal modo, smascherò il carattere ideologico dell'accusa di riscrivere la storia stravolgendo o capovolgendo risultati e interpretazioni acquisite. Che l'accusa fosse ideologica è evidente, quanto meno perché intendeva preservare la purezza di una vulgata storiografica, cioè un'interpretazione «canonica» o ufficiale della storia, debitrice, nell'Italia repubblicana e antifascista, dell'egemonia culturale marxista e azionista. La sua virulenza si vide nel linciaggio morale cui venne sottoposto lo studioso e nella richiesta di allontanarlo dalla cattedra. Poco importa che molte delle sue tesi dalla distinzione tra fascismo regime e fascismo movimento all'individuazione del ruolo dei ceti medi emergenti, dal riconoscimento dell'esistenza di un consenso diffuso alla precisazione delle differenze tra fascismo e nazionalsocialismo siano, ormai, patrimonio acquisito della più avvertita storiografia internazionale. Poco importa che alcuni di coloro che, all'epoca, furono tra gli «aggressori» neghino l'aggressione pur ribadendo la «pericolosità» delle tesi dello studioso che avrebbero avuto una implicita valenza politica portando sia alla riabilitazione e rivalutazione del fascismo sia allo «sdoganamento» culturale e politico dell'estrema destra e alla sua legittimazione. Quel che conta è che De Felice venne arruolato d'imperio nelle schiere revisioniste, senza curarsi della sua insofferenza per tale etichetta. Più volte egli fece notare come la sua storiografia non si muovesse alla ricerca di «assurdi revisionismi». Sosteneva che «qualsiasi storico è un revisionista», come lo fu Tito Livio rispetto a Polibio, ma solo nella misura in cui «comincia il suo lavoro dal punto in cui sono arrivati i predecessori, per completare e modificare, aggiungere e cambiare, chiarire e approfondire». Nel suo caso, la ricostruzione del fascismo non aveva «niente di revisionistico», si limitava a «riempire buchi nello studio dei fatti» con lo studio di documentazione prima sconosciuta o ignorata: «per lungo tempo ci si è basati su un numero limitato di fonti e testimonianze. A un certo punto si è sentita la necessità di andare più a fondo, di entrare dentro la realtà del fascismo, che fino ad allora veniva presentato come una monade compatta. Così si è capito che al contrario essa fu fatta di tante cose: uomini, gruppi di interesse, situazioni storiche in evoluzione, idee e utopie. Solo sulla base di questi dati reali oggi si può cominciare a giudicarlo e criticarlo». La posizione di De Felice è chiara. Cionondimeno i nemici accostarono al suo nome e alla sua opera quell'aggettivo «revisionista» che lo ha notato con ironia Sergio Romano «conteneva una nota di biasimo, era pronunciato a bocca storta e suggeriva implicitamente ai lettori la stessa cautela che i preti raccomandano ai loro allievi nel momento in cui debbono autorizzare la lettura di un libro interdetto». L'utilizzazione dell'aggettivo «revisionista» per l'opera di De Felice fu un esempio paradigmatico di «uso politico della storia» effettuato in malafede. Anche perché i guru della sinistra radical-marxista dimentichi che i discorsi di tipo «revisionista» avevano avuto origine dalle loro parti con i piagnistei di Piero Gobetti e Antonio Gramsci sul Risorgimento tradito o incompiuto crearono un'assurda e ambigua comunità ideale di «revisionisti» nella quale inserirono, indistintamente e senza discernimento critico, da una parte, i «negazionisti» che sostenevano l'irrilevanza dell'Olocausto o mettevano persino in dubbio i campi di sterminio nazisti, e, dall'altra parte, studiosi come Ernst Nolte, François Furet, Andreas Hillgruber, Zeev Sternhell, oltre a Renzo De Felice. Questi ultimi erano studiosi veri che hanno consentito alla storiografia, ognuno a suo modo, di fare salti di qualità. Eppure anche per essi, secondo De Felice, la qualifica di «revisionista» avrebbe dovuto essere usata, per dir così, con le molle. Era stato accreditato, infatti, un «concetto generale» di «revisionismo» responsabile di una surrettizia demolizione dei valori etici dell'antifascismo e della Resistenza. Su di esso De Felice si limitò ad osservare: «questi discorsi sul revisionismo come entità unitaria, come una specie di mostro che ha come obiettivo la distruzione di tutta una serie di valori etici, culturali, politici dell'antifascismo, francamente non mi convincono». E aggiunse: «questo revisionismo unico e indirizzato a comuni obiettivi è un argomento del tutto polemico, non ha un fondamento». Ma i professionisti della crociata anti-defeliciana hanno continuato a brandire come un'arma, nei confronti del biografo di Mussolini, l'accusa di «revisionismo». Senza rendersi conto che si trattava, ormai, di un'arma spuntata.

Così De Felice ha battuto l'ideologia. "Mussolini e il Fascismo" ha aiutato il Paese a cambiare e a ripensare il suo passato recente, scrive Francesco Perfetti, Sabato 14/11/2015, su "Il Giornale". Una volta, già al culmine della sua notorietà e al centro delle polemiche, Renzo De Felice affermò che il difetto maggiore della storiografia contemporaneistica italiana era quello di essere affetta da una sindrome di eccessiva sicurezza. Aggiunse, con una battuta, che lo storico non deve rimanere attaccato come un'ostrica al suo guscio se non vuole trasformarsi in un teologo o in un politico. Lo storico precisò non dovrebbe fornire interpretazioni precotte da sottoporre all'adorazione del pubblico, ma dovrebbe invece procedere ad acquisizioni continue senza curarsi del fatto che tali acquisizioni possano rivelarsi scomode e mettere in discussione giudizi storiografici apparentemente consolidati. Poche battute che a leggerle come devono esser lette sono una garbata lezione di metodologia storiografica. De Felice si era già scontrato, agli inizi della sua carriera di studioso, quando si occupava di giacobinismo italiano e di albori di Risorgimento, con i custodi di una «verità storica rivelata» che, nella fattispecie, si rifaceva alla forte tradizione storiografica giacobina e marxista sulla Rivoluzione Francese e sulle sue conseguenze: una tradizione egemone nella cultura politica italiana (e, forse, anche europea) del tempo. Le sue ricerche sul triennio giacobino in Italia, apparse in piena guerra fredda e tutt'altro che in linea con la versione ufficiale radical-marxista del fenomeno, scatenarono un vero e proprio putiferio. Talune sue affermazioni vennero considerate eresie politicamente «pericolose» soprattutto laddove finivano per sottolineare il carattere utopistico e messianico di alcuni filoni radicali dell'illuminismo e per suggerire una sorta di ideale continuità fra la «democrazia diretta» di Rousseau e la «democrazia totalitaria» del ventesimo secolo. L'ostracismo contro De Felice fu massiccio e, se di esso non v'è memoria al di fuori degli ambienti accademici, ciò fu dovuto al fatto che l'argomento attorno al quale si concretizzò, il giacobinismo italiano, era un tema elitario. Le cose, com'è noto, cambiarono a partire dalla metà degli anni sessanta, quanto De Felice scelse, come peculiare terreno d'indagine, il fascismo: un argomento, cioè, che si riallacciava per certi versi agli studi precedenti, ma che a distanza di qualche decennio, appena, dalla fine del regime e in un paese nel quale l'antifascismo era stato scelto come valore fondante della carta costituzionale era comprensibilmente delicato. Fino ad allora, del fascismo, si avevano visioni molto diverse, talora suggestive e cervellotiche, comunque tutt'altro che «storiche» nel senso proprio del termine. Aveva avuto successo, sia pure elitario, la cosiddetta interpretazione «liberale», quasi prerogativa esclusiva dell'alta cultura europea, secondo la quale il fascismo sarebbe stato la «malattia morale» che aveva colpito la civiltà europea. Accanto ad essa s'era diffusa la cosiddetta interpretazione «marxista» la quale, pur attraverso diversi e tortuosi percorsi argomentativi, concludeva nell'idea che il fascismo fosse il «canto del cigno», l'ultimo sussulto cioè della declinante e fatiscente civiltà capitalista, ovvero, se lo si preferisce, una «controrivoluzione preventiva» per ritardare l'inevitabile trionfo del comunismo. E poi c'era stata quella «interpretazione radicale» che aveva presentato il fascismo come la cartina di tornasole rivelatrice delle tare ereditarie e dei difetti stratificatisi nella storia del Paese. Si potrebbe proseguire a lungo e De Felice, in effetti, l'avrebbe fatto, più avanti, in un volume, intitolato Le interpretazioni del fascismo, che metteva a confronto queste e altre visioni del fenomeno, tutte peraltro parziali. Di fronte a tutti questi approcci, De Felice si rese conto che del fascismo cosa esso fosse realmente stato, quale rapporto avesse davvero avuto con Mussolini e via dicendo si riusciva a capire ben poco. Ogni discorso interpretativo si rivelava inadeguato a cogliere una realtà cangiante. De Felice fu colpito da una affermazione di Angelo Tasca scrittore, storico e polemista ma anche militante politico tra i fondatori del partito comunista poi divenuto feroce antistalinista secondo la quale «definire il fascismo è anzitutto scriverne la storia». Questa affermazione, contenuta in un bel libro di Tasca dal titolo Nascita e avvento del fascismo, De Felice la fece sua, assumendola come guida per ricostruire, del fascismo, in dettaglio gli avvenimenti, le idee, i propositi. Si trattava di una precisa scelta metodologica, alla quale De Felice sarebbe rimasto incrollabilmente fedele. Uno studioso che ne fu amico oltre che collega, Piero Melograni, disse che, con tale scelta, De Felice si era liberato dall'ideologia ed era diventato un filologo a tempo pieno. Ecco le sue parole: «Alcuni furono cavalieri dell'ideologia, ma Renzo De Felice fu un cavaliere della filologia. La filologia è la ricerca della verità, mentre l'ideologia è la ricerca delle illusioni. La ricerca arricchisce le nostre conoscenze se ha come fine la verità. L'ideologia, al contrario, tende a difendere un castello, molto spesso un castello in aria, ci impoverisce e fa regredire la conoscenza. Per questa ragione porrei De Felice dalla parte del progresso e dei progressisti, mentre definirei i suoi avversari reazionari». Al di là di quel tono, volutamente ma garbatamente, provocatorio, la battuta di Melograni sul connotato anti-ideologico della ricerca storiografica di De Felice è esatta. Come, pure, è esatta un'altra sua osservazione: «De Felice, quando è stato storico del fascismo e dell'antifascismo, ha aiutato tutti a cambiare, sia nella destra, sua nella sinistra». Meglio, e più lapidariamente, non si poteva sintetizzare il lascito morale ed etico-politico, oltre che storiografico, di Renzo De Felice.

La deriva fascista. Da rivoluzione a conservazione. Gli studi di Renzo De Felice mostrano come la classe dirigente fiancheggiatrice del regime ne erose la carica innovativa, scrive Francesco Perfetti, Sabato 16/01/2016, su "Il Giornale". Man mano che Renzo De Felice si avvicinava alla conclusione della sua opera su Mussolini e sul fascismo, ne apparivano sempre più evidenti la forza innovativa e la carica dirompente rispetto ai discorsi sviluppati fino ad allora dalla storiografia. Non si trattava di questioni di poco conto: il carattere «rivoluzionario» della cultura e della personalità di Mussolini; la coesistenza del «fascismo movimento» e del «fascismo regime» con anime diverse e per certi versi opposte; la dimensione e la durata di un massiccio «consenso» anche di fronte alla guerra; il carattere più autoritario che totalitario del regime; il riconoscimento di profonde differenze tra fascismo e nazionalsocialismo e via dicendo. A tali conclusioni De Felice era pervenuto proprio perché aveva relegato in soffitta i discorsi ideologici sul fascismo. Un grande studioso di storia della storiografia, Walter Maturi, scrisse, riferendosi alla prima fase di studi di De Felice, quella relativa al periodo rivoluzionario tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, che questo «giovane d'ingegno vivo e acuto» aveva «molto mordente critico» ed era «intransigente come un domenicano» pronto a fulminare con critiche impietose quanti usassero a sproposito il termine «giacobino». L'osservazione coglieva nel segno non tanto nella descrizione di un De Felice intellettualmente polemico e rissoso, quanto nella caratterizzazione di uno studioso che, già ai suoi esordi, rifiutava l'uso acritico di termini nella fattispecie, «giacobino» al di fuori del loro significato originario. Uno dei risultati più importanti della ricerca storiografica di De Felice sul fascismo è stato l'aver reinserito a pieno titolo quel periodo nella storia d'Italia sgombrando il campo da tutti i discorsi che tendevano a presentarlo come un momento inspiegabile di follia collettiva. Il fascismo, com'egli ben dimostrò, aveva avuto origine dal primo conflitto mondiale e dalla crisi del dopoguerra: una crisi caratterizzata dalla scissione tra «paese reale» e «paese legale», dall'ideologizzazione delle masse, dal tracollo di modelli culturali tradizionali e dalle spinte di forti processi di mobilitazione sociale. Il ventennio fascista, nell'analisi di De Felice, si sviluppò all'insegna di una dialettica tra il «vecchio» fascismo, quello «premarcia» e intransigente, desideroso non solo di partecipare alla gestione del potere ma di porsi come alternativa al sistema, e la vecchia classe dirigente tradizionale e «fiancheggiatrice», che non voleva sovvertire radicalmente il sistema, ma rafforzarlo e rivitalizzarlo secondo una ammodernata versione del sonniniano ritorno allo Statuto. Durante il ventennio, dunque, il fascismo, nella forma, riuscì a fascistizzare la classe dirigente fiancheggiatrice, ma, nella sostanza, quest'ultima finì per privare il fascismo della sua carica rivoluzionaria, trasformandolo in proprio strumento e facendolo rientrare, per usare le parole di De Felice, «in larga misura nell'alveo della tradizione conservatrice». Nell'ultima fase della parabola storica del ventennio, peraltro, l'equilibrio su cui si reggeva quel compromesso andò incrinandosi. Ci furono, quindi, la guerra e la catastrofe con tutto quello che esse comportarono. Il popolo italiano, poi, si trovò, coinvolto nella guerra civile, a vivere un vero e proprio dramma tra fascisti e partigiani. Le pagine dedicate da De Felice a questo capitolo della crepuscolare vicenda storica del fascismo sono tra le più belle, intense e significative di tutta la sua opera. Lo sono sia perché sfatano miti consolidati, sia perché offrono le chiavi per una migliore comprensione del futuro politico del Paese all'indomani del conflitto. Premesso che la Resistenza era stata un «grande evento storico» che nessun revisionismo avrebbe mai potuto negare, De Felice ne ridimensionò la leggenda che voleva presentarla come un movimento popolare di massa, ricordando che le sue fila, a eccezione di alcune limitate zone, si ingrossarono soltanto alla vigilia della capitolazione tedesca, quando cioè la vittoria degli Alleati era cosa certa. Ma, soprattutto, smontò la «vulgata» storiografica resistenziale. Questa, secondo lo studioso, era stata costruita per ragioni ideologiche, allo scopo cioè di «legittimare la nuova democrazia con l'antifascismo», ed era stata utilizzata per scopi politici al fine di «legittimare la sinistra comunista con la democrazia». La verità, secondo De Felice, è che comunisti e azionisti nella convinzione che l'Italia postfascista non dovesse avere nulla a che fare non soltanto con l'Italia fascista ma anche con quella liberale e prefascista nutrivano propositi realmente rivoluzionari. La Resistenza, in altre parole, veniva concepita come il vero, e forse unico, fatto rivoluzionario della storia dell'Italia unitaria. Il che spiega diverse cose. In primo luogo spiega perché le formazioni militari politiche di orientamento comunista e azionista guardarono male le altre componenti della Resistenza, cioè sia le formazioni autonome, sia quelle che avevano preferito porsi sotto il patronato di cattolici e liberali per sottrarsi alle inframmettenze e alla sotterranea ostilità dei partiti di sinistra. In secondo luogo spiega perché il Pci sostenesse con energia il proposito dell'unità della Resistenza a guida comunista: la «democrazia progressiva» teorizzata da Palmiro Togliatti era a esso funzionale. Secondo De Felice i comunisti italiani, pur in quella contingenza, erano al servizio di Mosca: per loro la «svolta di Salerno», ovvero la politica di collaborazione con la monarchia dopo il rientro di Togliatti dall'Urss, così come la teoria della «democrazia progressiva» non erano altro che mosse tattiche. La scelta del terrorismo, del tutto priva di utilità sul piano militare, era funzionale alla strategia comunista proprio per riaffermarne il ruolo egemonico all'interno di una Resistenza che sempre più finiva per caratterizzarsi come «guerra di classe» e non come «movimento nazional-patriottico». Il terrorismo, secondo De Felice, serviva soprattutto a provocare la reazione dei fascisti e dei tedeschi e quindi a suscitare l'indignazione popolare e a scoraggiare ogni tentativo di pacificazione. Esso, poi, serviva a creare attorno ai Gap comunisti che lo usavano contro obiettivi simbolici è il caso dell'assassinio di Giovanni Gentile «un alone di forza e di onnipotenza» e ad esaltare «agli occhi della gente l'attivismo, l'efficienza e lo sprezzo del pericolo dei comunisti» rispetto alla «passività» delle altre componenti della Resistenza. Il lungo percorso storiografico effettuato da De Felice con la sua ricerca su Mussolini iniziato con lo studio della crisi dell'Italia liberale all'indomani della prima guerra mondiale e proseguito con la ricostruzione delle vicende del ventennio fascista e l'analisi della catastrofe del regime trova, così, la sua conclusione alle soglie dell'Italia repubblicana. Lasciando al lettore tutti gli elementi necessari per formulare un giudizio etico-politico.

Così il regime fascista diede voce (politica) alla piccola borghesia. I ceti medi emergenti non avevano mai avuto una vera rappresentanza: ci pensò Mussolini a fornirgliela, scrive Francesco Perfetti, Sabato 12/12/2015, su "Il Giornale". Nella celebre Intervista sul fascismo, rilasciata nel 1975 allo storico americano Michael Arthur Ledeen, Renzo De Felice sintetizzò la sua posizione interpretativa sul fascismo propriamente detto, quello italiano, e sul «fenomeno fascista», in generale. Il linguaggio divulgativo e la stessa tecnica dell'intervista consentirono allo studioso il quale, dopo la pubblicazione di Gli anni del consenso 1929-1936, stava già lavorando al tomo dedicato a Lo Stato totalitario 1936-1940 di fissare alcuni punti fermi cui era giunta la propria ricerca e di sottolinearne così, sia pure implicitamente, la portata rivoluzionaria in campo storiografico. Le tesi contenute nell'intervista, infatti, dimostravano l'inconsistenza delle conclusioni di gran parte della storiografia precedente che, condizionata da una visione ideologica e moralistica, partiva dall'idea che il fascismo fosse stato soltanto un movimento brutale e violento, incolto e nemico della cultura, profondamente reazionario. La distinzione operata da De Felice tra fascismo movimento e fascismo regime modificava tutti quei discorsi che presupponevano la convinzione che il fascismo fosse un fenomeno unitario da valutarsi en bloc. Essa, infatti, non soltanto enucleava fasi o momenti della vicenda storica del fascismo ma ne individuava e caratterizzava le componenti. Il fascismo movimento rappresentava «una costante della storia del fascismo», un «filo rosso» che collegava il marzo 1919 all'aprile 1945 ed esprimeva «quel tanto di velleità rinnovatrice, di interpretazione di certe esigenze, di certi stimoli, di certi motivi di rinnovamento». Esso insomma, individuava «la vitalità del fascismo» laddove il fascismo regime ne costituiva «per certi aspetti la negatività» in quanto risultato della politica di un Mussolini capo del governo, che faceva «del fatto fascismo solo la sovrastruttura di un potere personale, di una dittatura, di una linea politica». Dalla distinzione tra fascismo movimento e fascismo regime discendeva, poi, l'idea della esistenza di una componente rivoluzionaria di sinistra all'interno del fascismo, retaggio del sindacalismo rivoluzionario e dall'influenza di questo su Mussolini e su parte del nucleo dirigente del movimento fascista. Questo fascismo movimento era, secondo De Felice, «in gran parte l'espressione di ceti medi emergenti» ovvero di quei ceti che, «essendo diventati un fatto sociale», cercavano di ottenere peso, potere e partecipazione politica. Man mano che si andavano ingrossando le sue file e pur aprendosi a tutti gli ambienti sociali, il fascismo si era caratterizzato sempre più «in senso piccolo-borghese». In tal modo esso era diventato «il più importante punto di riferimento e di attrazione per quei settori della piccola borghesia che aspiravano ad una propria maggiore partecipazione e direzione della vita sociale e politica nazionale, settori che non riconoscevano più alla classe dirigente tradizionale e a quella politica in specie né la capacità né la legittimità di governare, e, sia pur confusamente, contestavano anche l'assetto sociale che essa rappresentava». Ancora più dirompente di questa analisi centrata sulla distinzione tra fascismo movimento e fascismo regime apparve il discorso sulle differenze tra fascismo e nazionalsocialismo: discorso non solo indigesto ma eretico per quanti volevano vedere nei due regimi manifestazioni di un medesimo fenomeno e consideravano l'alleanza italo-tedesca come un esito obbligato. Per De Felice c'era, tra i due movimenti o regimi, una differenza di natura si potrebbe ben dire culturale: il nazionalsocialismo guardava al passato remoto, al recupero della tradizione dei valori germanici in contrapposizione al mondo moderno; il fascismo faceva propria l'idea di «progresso» e postulava la creazione di un «uomo nuovo». Non era una differenza da poco: il fascino di Sigfrido e degli eroi della mitologia nordica contrapposto alle seduzioni della modernità e dell'utopismo rivoluzionario. C'erano, ancora, differenze profonde sul ruolo del partito, perché il fascismo perseguì la depoliticizzazione del Pnf e la sua subordinazione allo Stato, mentre il nazionalsocialismo si fondò proprio sulla preminenza del partito sullo Stato. Infine c'era una diversità nel grado di realizzazione del totalitarismo, dal momento che il regime nazionalsocialista fu uno Stato totalitario nel senso proprio del termine, mentre quello fascista non perse mai alcuni caratteri dello Stato di diritto. Tutto ciò spiegava anche come e perché Mussolini e il fascismo (o gran parte di esso) non avessero nutrito grande simpatia per Hitler e il suo movimento, almeno fino a quando, dopo la guerra di Etiopia e la guerra di Spagna, la situazione internazionale aveva finito di fatto per imporre una sorta di «rovesciamento delle alleanze», peraltro non da tutti ben digerito. Prima di allora, l'attività diplomatica dell'Italia fascista si era mossa, pur con una diversità di «stile», lungo le linee direttrici dell'Italia postunitaria e liberale. Del resto, la «politica del peso determinante», teorizzata da Dino Grandi per indicare la necessità che l'Italia dovesse far valere il suo «peso specifico» nella bilancia dei rapporti internazionali, altro non era se non una traduzione aggiornata della classica «pendolarità» della politica estera italiana dell'età postrisorgimentale. L'Italia fascista, insomma, era più proiettata verso la ricerca di accordi e di collaborazione con i suoi alleati all'epoca della Grande Guerra, in particolare con la Gran Bretagna, che non con i nazionalsocialisti, come si era potuto verificare in più occasioni, a cominciare dall'invio delle divisioni italiane al Brennero all'epoca della crisi per il primo e non riuscito tentativo di Anschluss. Questa lettura della politica estera del fascismo proposta da De Felice nella sua opera principale non poteva, naturalmente, che apparire eretica a quanti, storici e non, sulla base di una semplificazione ideologica, si ostinavano a leggere la storia del fascismo come quella di una dittatura incolta e brutale votata inevitabilmente alla guerra per la guerra. Ma era (ed è, tuttora) una lettura aderente ai fatti e capace di spiegare, per esempio, la logica ma anche i limiti, le illusioni, le ingenuità e, quindi, il fallimento dell'idea mussoliniana di imbarcarsi furbescamente nel 1940 in una «guerra parallela» cioè in una guerra «breve» da combattersi non «con» i tedeschi né «per» i tedeschi ma «a fianco» dei tedeschi.

Il viaggio solitario di De Felice nel Paese del "tutti a casa". Lo studioso capì per primo che fu l'andamento delle vicende belliche, non l'antifascismo, ad allontanare la nazione dal regime fascista, scrive Francesco Perfetti, Sabato 19/12/2015, su "Il Giornale". Dall'ultimo scorcio degli anni '80, mentre stava preparando i volumi dedicati a Mussolini l'alleato, Renzo De Felice cominciò a riflettere sempre più sul tema della nazione. Voleva capire in qual modo potesse essere maturato il processo di delegittimazione del regime che, iniziato prima della guerra con la stipula dell'alleanza con la Germania e l'adozione della politica razziale, aveva portato alla catastrofe. Si rese presto conto che determinante, ai fini del tracollo, era stato il cattivo andamento delle operazioni belliche: ben poco, infatti, aveva pesato l'antifascismo. Il regime aveva cominciato a vacillare quando si era diffusa la convinzione - sull'onda delle pessime notizie militari che continuavano a giungere e soprattutto a seguito dei bombardamenti alleati sulle principali città italiane - che le sorti del conflitto erano ormai segnate. Si succedettero, a cascata, il collasso del fronte interno, la crisi militare e politica del luglio 1943, la caduta di Mussolini, la costituzione del governo Badoglio, l'armistizio e il trauma dell'8 settembre 1943.Proprio questa data assunse, agli occhi di De Felice, un valore simbolico, di catastrofe nazionale destinata a riflettersi sul futuro del Paese anche in epoca post-fascista. Quel giorno divenne per lui una cartina di tornasole rivelatrice della debolezza etico-politica del popolo italiano: allora si consumò la «morte della patria» e iniziò un processo di «svuotamento del senso nazionale». Si vide, infatti, come la maggioranza del Paese - dalla borghesia agli operai - non optasse, se non in minima parte, per precise scelte politiche o di impegno civile, ma cercasse di non rimanere coinvolta e di non prendere una posizione chiara attestandosi in una sorta di «zona grigia», preoccupata di sopravvivere alla tempesta. Era stato, forse per primo, un grande giurista e fine scrittore, Salvatore Satta, in un saggio intitolato De Profundis, a parlare, con riferimento all'8 settembre, di «morte della patria» e quindi, implicitamente, di morte della nazione, nella misura in cui la nazione identifica il vincolo di appartenenza a una realtà etico-politica. Poi, a sottolineare l'entità dello sbandamento morale e del disastro materiale, erano venuti il cinema si pensi a Tutti a casa di Comencini e la letteratura. Le pagine, per esempio, ciniche e sofferte, dedicate da Curzio Malaparte nel romanzo La pelle alla giornata dell'8 settembre sono inquietanti, con quella rappresentazione plastica di ufficiali e soldati i quali, alla notizia dell'armistizio, facevano a gara «a chi buttava più eroicamente le armi e le bandiere nel fango». Una rappresentazione conclusa da Malaparte con l'amara e moralistica riflessione: «è certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra sono tutti buoni, non tutti sono capaci di perderla». Per De Felice il giorno dell'armistizio, l'8 settembre 1943, diventò «la data simbolo del male italiano», la data che rimetteva in discussione «il carattere stesso di un intero popolo». Quel trauma non aveva avuto precedenti. L'altra data tragica della storia contemporanea italiana, quella della sconfitta di Caporetto, era stata riassorbita dal Paese e dalla classe dirigente e si era annullata nella grande offensiva finale di Vittorio Veneto. Nel caso dell'8 settembre le cose si svolsero altrimenti. Erano venuti meno, secondo De Felice, gli «anticorpi» perché «il monopolio fascista del patriottismo», realizzato con l'identificazione del «primato della nazione col primato del regime», aveva minato fin dalle origini quella «mitologia della nazione» creata da Mussolini e precipitata il 25 luglio. Il fascismo-regime aveva puntato sulla carica emotiva del sentimento nazionale come strumento per «accelerare la nazionalizzazione delle masse, per omogeneizzare la borghesia, per integrare nello Stato fascista quei ceti che erano stati esclusi dallo Stato liberale, per alimentare il consenso in pace e la mobilitazione in guerra». Il disastroso andamento del conflitto, prima, e la disfatta militare, poi, travolsero, insieme al regime, anche l'idea di nazione «come valore unificante di tutti gli italiani». Questa analisi di De Felice che collega l'idea della «morte della patria» all'indebolimento etico-politico del Paese si connette alle riflessioni dello studioso sulla crisi dell'idea di nazione e alle sue considerazioni sulla crisi funzionale della democrazia nella società contemporanea, in particolare nell'Italia post-fascista. Nel dopoguerra si affermò una vulgata storiografica, preoccupata di «legittimare con la vittoria antifascista il nuovo Stato» e «depurare dai veleni del nazionalismo la politica del dopoguerra e la ricostruzione democratica». La guerra fredda aggiunse alla dicotomia fascismo-antifascismo quella comunismo-anticomunismo. Tutto ciò ostacolò in Italia la costruzione di una democrazia compiuta basata sul confronto fra destra e sinistra, sull'alternanza fra moderati e progressisti, sul ricambio delle classi dirigenti. La democrazia italiana nacque, insomma, bloccata. Per questo De Felice, alla metà degli anni '90, poco prima della morte, riconobbe che in Italia si registrava una situazione di «crisi di democrazia» non tanto, com'era avvenuto in epoca pre-fascista e fascista, nel senso che i «valori democratici» fossero contestati, ma nel senso che la democrazia italiana non assolveva a tutte «le nuove necessità del paese». Pur rimanendo «sempre l'unico sistema valido», per lui, essa andava riformata perché non riusciva a tenere «il passo con la situazione, con il progresso tecnologico, con lo sviluppo economico, con la necessità di rapide decisioni, con il tecnicismo di scelte efficaci». La prima cosa da fare sarebbe stato, però, il recupero del sentimento della nazione. A chi gli obiettava che l'idea di nazione era stata surrogata, dopo l'8 settembre 1943, dal cosiddetto «patriottismo della Costituzione» come fondamento della nuova repubblica democratica, De Felice rispondeva che «senza la Nazione non ci può essere Costituzione» perché i valori che danno corpo e sostanza al «patriottismo della Costituzione» sono espressi non da un'astrazione giuridica ma dalla storia, dalla cultura, dalle vicende del Paese. Il sentimento nazionale, l'idea di nazione, era dunque, per De Felice, la premessa essenziale e ineludibile per un'autentica e compiuta realizzazione dello Stato democratico. Discendono da qui le affermazioni, contenute in particolare negli ultimi tomi dell'opera su Mussolini e il fascismo, su natura e significato della Resistenza, sul rapporto tra antifascismo e Resistenza, sulle origini del sistema partitocratico italiano, sulla prima repubblica. Affermazioni che non erano dettate da retropensieri di natura politica, ma concludevano un lungo, coerente e sofferto itinerario di ricerca storiografica, che ha sempre avuto presenti i temi di nazione e democrazia.

Quella guerra civile che venne travestita da "guerra di classe". Altro che "secondo Risorgimento", la Resistenza non fu un movimento di massa, scrive Francesco Perfetti, Giovedì 24/12/2015, su "Il Giornale". L'ultimo tomo dell'opera di Renzo De Felice su Mussolini e il fascismo fu pubblicato postumo nel 1997 con il titolo La guerra civile 1943-1945 come secondo volume di Mussolini l'alleato 1943-1945. Esso è rimasto incompleto per la morte dell'autore, ma alcune delle tesi in esso contenute o che avrebbero dovuto essere dimostrate o sviluppate nelle parti non ancora scritte dell'opera furono anticipate in un piccolo libro-intervista dal titolo Rosso e Nero (1995), importante sia per le suggestioni interpretative proposte, sia per certe indicazioni metodologiche di ricerca storiografica, sia, ancora, per i chiarimenti sulla posizione «revisionista» dell'autore stesso. Eppure, malgrado la sua incompiutezza, il volume su La guerra civile 1943-1945 è da considerarsi uno dei più importanti della serie, se non addirittura dei più belli, almeno dal punto di vista dell'importanza dei risultati della ricerca e della corposità del discorso interpretativo che stabilisce un nesso fra passato e presente. Da un punto di vista contenutistico esso tratta del periodo che va dalla caduta del regime ai primi travagliati mesi di esistenza della Rsi e affronta temi scottanti: la prigionia di Mussolini, la sua liberazione da parte dei tedeschi, la catastrofe nazionale dell'8 settembre 1943, la contrapposizione tra fascisti, repubblicani e partigiani, il dramma vissuto dagli italiani durante la guerra civile, le vicende della Rsi dall'autunno 1943 alla primavera 1944. Particolarmente intense sono le pagine in cui De Felice analizza il significato e gli effetti dell'armistizio dell'8 settembre sullo stato d'animo e sui comportamenti delle masse e dell'esercito. Quella data, l'8 settembre 1943, assume per lui un forte valore simbolico quello della «morte della patria» e dello «svuotamento del senso nazionale» e diventa una cartina di tornasole rivelatrice della debolezza etico-politica del popolo italiano. La dissoluzione dell'esercito «come neve al sole» dopo la diffusione della notizia dell'armistizio ha il suo riscontro nello stato d'animo complessivo del Paese e in particolare della borghesia, un ceto che in gran parte aveva creduto in larga misura nel fascismo e nell'immagine dell'Italia da esso proposta e che era stata provata dagli effetti devastanti di tre anni di guerra. Proprio il desiderio di uscire finalmente dall'incubo della guerra un desiderio «ingenuo e irrazionale quanto si vuole» ma «non per questo meno potente» è la chiave per comprendere le reazioni della grande maggioranza degli italiani alla notizia dell'armistizio. Ma il desiderio di veder finire l'incubo della guerra si accompagnava a «un sentimento diffuso di paura e di incertezza» che, per molti, si traduceva non già nell'idea di una «scelta di campo», quanto piuttosto «nella preoccupazione della propria sopravvivenza» e nel desiderio di «defilarsi rispetto a tutti» nell'attesa che giungessero la fine dei sacrifici e la pace. Sono intense e drammatiche le pagine in cui De Felice dimostra come, dopo la nascita della Rsi, la maggioranza del Paese, ancora una volta, cercasse di non rimanere coinvolta dagli avvenimenti e di assestarsi in una sorta di «zona grigia» che includeva individui appartenenti a tutti i ceti sociali, dalla borghesia alla classe operaia, preoccupati solo di sopravvivere. Sui motivi della ricomparsa di Mussolini sulla scena politica, De Felice sposa la tesi per cui questi, pur riluttante, avrebbe accettato di riassumere il potere nella convinzione, in primo luogo, che solo così sarebbe stato possibile evitare che Hitler facesse dell'Italia occupata una sorta di Polonia e, in secondo luogo, che la sua presenza avrebbe potuto rendere meno pesante il regime di occupazione e impedire l'annessione di territori italiani al Reich. Con la nascita della Rsi tali obiettivi vennero, almeno in parte, raggiunti, ma i costi furono elevati: la «guerra civile», per esempio, insanguinò le regioni occupate dai tedeschi, dividendo profondamente gli italiani e scavando solchi di odio che avrebbero condizionato la vita italiana nei decenni successivi. Inoltre, la Resistenza che, senza la Rsi, avrebbe avuto «un carattere essenzialmente nazional-patriottico, di lotta di liberazione contro l'occupante tedesco» fu egemonizzata dai comunisti che la caratterizzarono come una «guerra di classe». Detto questo sui «costi» politici della creazione della Rsi, De Felice contesta duramente la qualifica di «secondo Risorgimento» per la lotta di liberazione degli anni 1943-1945: questa gli appare storicamente inconsistente perché gli «ideali civili» (sintesi di «nazione», «patria», «libertà») del Risorgimento e le forze politiche che ne erano state protagoniste erano, in gran parte, diversi da quelli che caratterizzarono il cosiddetto «secondo Risorgimento». La Resistenza, per De Felice, contrariamente all'immagine veicolata dai custodi della vulgata antifascista, non fu affatto un «movimento popolare di massa» se non in alcune limitate zone e le sue file si ingrossarono soltanto nelle settimane immediatamente precedenti la capitolazione dei tedeschi, quando cioè la vittoria degli Alleati era considerata ormai certa. Della Resistenza (e della sua memoria) si impadronirono comunisti e azionisti che mal sopportavano le formazioni autonome per i quali essa era un fatto rivoluzionario, anzi il vero fatto rivoluzionario della storia dell'Italia unitaria. Il che spiega, secondo De Felice, l'importanza attribuita, anche nel dopoguerra, dal Partito comunista alla «unità della Resistenza» e, soprattutto, alla «unità delle sinistre» nel quadro di un disegno rivoluzionario che nel concetto di «democrazia progressiva» elaborato da Togliatti aveva il suo cavallo di Troia.Per quanto incompiuto, l'ultimo volume dell'opera di Renzo De Felice è, dal punto di vista della interpretazione storiografica della storia nazionale più recente, fondamentale per comprendere anche talune caratteristiche dell'Italia postfascista, costruita sul mito della Resistenza unitaria e a guida comunista e per spiegare, altresì, come e perché la vulgata storiografica non sia più sostenibile. 

REVISIONISMO. IL LINCIAGGIO DI GIAMPAOLO PANSA.

Cronache con rabbia. I primi ottant'anni ​di Giampaolo Pansa. Maestro di giornalismo, proveniente di sinistra, ha raccontato con successo la verità sulle stragi partigiane e la Rsi. Storici e intellettuali? Si sono infuriati, scrive Stefano Zurlo, Giovedì 1/10/2015, su "Il Giornale". Sua nonna Caterina, analfabeta, quando gli voleva fare una confidenza, scandiva poche parole: «Non si può cantare in tutti i cortili». Per Giampaolo Pansa, che oggi taglia il traguardo degli ottant'anni, quella frase è diventata un po' un marchio di fabbrica. Una bussola che l'ha portato per paradosso, lui figlio della cultura giacobina piemontese e poi icona di tanta sinistra, a svoltare e svoltare ancora sfuggendo a dogmi e etichette comode ma asfissianti. Se c'è una cifra nella biografia di Pansa è la liberta che impedisce di incasellarlo una volta per tutte. Oggi, nel gioco evergreen delle bandierine, molti lo considerano un uomo di destra e questo, nell'Italia dei muri e delle ideologie che non cadono, è il miglior complimento ma a metà perché Pansa è solo Pansa. Molto studio, grande curiosità, memoria prodigiosa e occhi sgranati su un mondo che non finisce di stupirlo. Il talento, precoce, si manifesta già in prima media quando il bambino riempie da solo, alla domenica pomeriggio, un giornaletto che si chiama Nero stellati, come la squadra della sua Casale: maglia nera con stella bianca. Giampaolo, cronista di calcio, compone su un foglio protocollo che poi distribuisce in classe ottenendo in cambio cicche e caramelle. È solo il prologo di una parabola strepitosa. Va a Torino, all'Università, e subito sintonizza le antenne: alla prima lezione di storia delle dottrine politiche il professor Luigi Firpo sciocca gli studenti parlando per un'ora dell'educazione sessuale dei giovani aztechi. Tema crudo e lontanissimo da quello del corso dedicato agli scritti giovanili di Carl Marx sulla Gazzetta Renana. Firpo finisce e Pansa alza subito la mano; segue un breve dialogo con la conclusione di Firpo che non ammette discussioni: «L'argomento non c'entra niente ma l'ho fatto per dimostrare che qui comando io e faccio quello che mi pare». Messaggio ricevuto. Pansa annuisce ma non si adegua. Lui, figlio di un operaio, guardafili del telegrafo di Alessandria, si muove con disinvoltura in quel pantheon di teste d'uovo, proiezione dell'Italia giacobina. Quella che si considera la parte migliore del Paese e guarda dall'alto in basso il popolo che arranca. Chiede la tesi ad Alessandro Galante Garrone, altro monumento della nostra cultura, e scrive un saggio lunghissimo sulla Guerra partigiana fra Genova e il Po. Il testo vince il premio Einaudi e verrà pubblicato da Laterza. È l'incipit di una carriera sfolgorante che potrebbe portare la giovane promessa nel santa sanctorum dell'intellighenzia subalpina. Ma lui cambia registro e torna alla sua vocazione di cronista: il 1° gennaio 1961 entra come praticante alla Stampa, redazione Province. Una scrivania anonima che non gli basta. Il 9 ottobre 1963 il disastro del Vajont segna la sua carriera: alla sera, dopo aver chiuso in tipografia la prima edizione, Pansa viene inviato a Longarone in compagnia di un inviato navigato come Francesco Rosso. In macchina, con l'autista come usava allora, Rosso si calca il borsalino sugli occhi e dorme. Pansa, invece, resta sveglio e giunto, infine, nei pressi di Longarone riceve una sorta di battesimo del fuoco da un vecchio collega, Guido Nozzoli, che gli chiede: «Hai mai visto la guerra?». Alla risposta negativa, l'altro replica secco: «Vai avanti e la vedrai». Il primo pezzo ha un incipit semplice e memorabile: «Scrivo da un paese che non c'è più». Da incorniciare come quello, celeberrimo di Tommaso Besozzi sul bandito Giuliano: «Di sicuro c'è solo che è morto». Poi i suoi articoli e le sue inchieste non si contano più: da Piazza Fontana allo scandalo Lockeed che contribuisce a scoperchiare insieme a Gaetano Scardocchia. Pansa è il principe degli inviati speciali ma anche questo vestito dopo un po' è da buttare. Eccolo a Repubblica, dove sarà vicedirettore, poi collaboratore di lusso nel Panorama di Claudio Rinaldi e condirettore all' Espresso ferocemente anti-berlusconiano ancora con Rinaldi, e poi nella stagione più levigata di Giulio Anselmi. La sua rubrica, Il Bestiario, inventata a Panorama e traslocata poi all' Espresso, entra nell'immaginario collettivo, i suoi graffi si fissano nel tempo e diventano quasi didascalie da antologia di alcune maschere della politica nazionale. Ritratti corrosivi e inarrivabili. Fausto Bertinotti è il Parolaio rosso, ma il sarcasmo sintetico dello scrittore dà il meglio fotografando l'inciucio, nella Bicamerale, fra Berlusconi e D'Alema. Nasce il Dalemoni che aprirà un filone inesauribile della satira. Potrebbe pure bastare, ma alla non più verde età di sessantotto anni lo studente modello di storia torna a sgomitare e si apre la strada, mandando all'aria poltrone e allori. Nel 2003 esce Il sangue dei vinti, che poi è quello dei fascisti massacrati senza pietà e senza regole nelle settimane successive alla fine della Guerra. Dopo aver osservato con la lente d'ingrandimento i tic e le smorfie dei notabili democristiani e socialisti riuniti a congresso, Pansa si butta su chi la voce l'ha persa nel 1945. Lui, che arriva dall'altra parte, racconta la mattanza di quei mesi, i silenzi, le vergogne inconfessabili di chi è stato protetto troppo a lungo dallo scudo di una presunta superiorità morale. Gli danno del revisionista, del traditore, del venduto. Lui non fa una piega. Gira tutto lo stivale a presentare quel volume e quella pagina di storia che era stata strappata dai sacri testi. Lo contestano, gli gridano insulti, lui scrive e scrive ancora: Sconosciuto 1945 e La Grande bugia. Sempre per Sperling & Kupfer. Sempre con la lente d'ingrandimento e con il piccone in mano. La sua parrocchia lo rinnega, si ritrova a firmare per il Riformista e poi per Libero. Continua a produrre titoli, storie e controstorie, con un ritmo da catena di montaggio. A febbraio pubblica per Rizzoli La destra siamo noi, ovvero il Belpaese da Scelba a Salvini. Attualità e profondità. Ma è già oltre con un altro volume: L'Italiaccia senza pace, sempre per Rizzoli, uno zibaldone di episodi e vicende del Dopoguerra accostati dall'occhio zingaro e acutissimo di uno dei più grandi giornalisti di sempre. Ancora più grande perché leale. Vicinissimo al potere, sempre lontano dai potenti.

Il linciaggio di Pansa: a sinistra era un dio a destra è un infame. Per anni i salotti di sinistra hanno acclamato Pansa come un dio. Ma da quando non dice più quello che piace loro, lo hanno relegato tra i reietti della penna, scrive Vittorio Feltri su Il Giornale. Giampaolo Pansa, noto giornalista che ha lavorato alla Stampa, al Giorno, al Corriere della Sera, alla Repubblica, all'Espresso, al Riformista (ora è a Libero), ha scritto un altro libro: La destra siamo noi. Ne ha pubblicati tanti e ne ho perso il conto. Il titolo dell'ultimo fa capire subito il contenuto: pendiamo tutti da qualche parte, dipende dai momenti e dalla convenienza. Giampaolo è stato povero. Da ragazzo era molto studioso, obbediente alla famiglia e si è laureato con una tesi pubblicata da Laterza (che è un editore e non il numero delle scopate messe a segno in un sol giorno dall'autore). Finita l'università trovò subito un posto in redazione e cominciò l'attività di cronista, quella in cui è riuscito meglio. Si è guadagnato da vivere con le virgole, ha svirgolato per anni e anni e seguita a svirgolare come un pazzo. Credo che per lui riempire fogli di parole sia come bucarsi per un drogato: non può farne a meno. Senza la «roba» nero su bianco, Pansa non campa. Se sta tre ore senza picchiettare sui tasti, va in crisi di astinenza. Il mestiere di scrivere è il peggiore. Quando ti dedichi a esso, ti ammali di una malattia grave, pensi che la tua esistenza abbia un senso solo se la racconti; altrimenti non ha significato, sei morto. Giampaolo è stato un maestro inimitabile di giornalismo finché ha dato l'impressione di essere di sinistra, stando cioè dalla parte dei vincitori, sempre di moda. I suoi articoli sul Corriere e sulla Repubblica erano considerati gioielli, giustamente. Egli in effetti si era inventato un modo di narrare i fatti italiani e le gesta dei protagonisti talmente originale da piacere a chiunque, anche a coloro che lo invidiavano. Per lustri e lustri fu indicato al popolo come il più bravo della categoria. Poi, dato che il tempo è democratico, invecchiò e iniziarono per lui i guai. Guai si fa per dire. Poiché non era direttore (l'unica figura professionale non soggetta a licenziamento per questioni anagrafiche), fu cortesemente invitato a sloggiare dall' Espresso, testata che fornisce a chi vi lavora il certificato di autentico progressista. Se ne andò in pensione, ma non smise di scrivere. E furono libri, uno dietro l'altro, uno più dissacrante dell'altro e, per giunta, di successo. Il sangue dei vinti ebbe sui lettori un effetto clamoroso: quelli di destra lo apprezzarono, soddisfatti di constatare che finalmente uno scrittore dicesse il contrario rispetto alla vulgata sinistrorsa; quelli di sinistra, automaticamente, lo condannarono con una sentenza inappellabile: Pansa si è rovinato, è diventato fascista. Da quel momento, il maestro è stato collocato fra i reietti della corporazione degli scribi, espulso dall'elenco degli autori di qualità, meritevole di uscire dal club dei grandi maestri e di entrare in quello dei cattivi maestri. I libri di Giampaolo si vendono, eccome se si vendono, ma sono giudicati dagli intelligentoni merce avariata. La vicenda di quest'uomo talentuoso e perbene è paradigmatica dell'imbecillità italiana; il tuo voto in pagella non dipende da ciò che fai, bensì dalla consorteria cui appartieni. Pansa di sinistra era un dio; Pansa di destra è una grandissima testa di cazzo. I cittadini (non solo italiani) hanno opinioni variabili, tanto è vero che una volta votano di qua e un'altra di là, ma si arrogano il diritto di dare della banderuola ai giornalisti che mutano fede pur non avendone una e che si limitano a osservare la realtà con spirito laico, riferendo ciò che vedono e sentono, filtrando il tutto attraverso il proprio spirito critico. Una realtà complessa e in continuo divenire la cui valutazione non può avvenire sempre con lo stesso metro, ma necessita di costanti revisioni e aggiornamenti. Non c'è nulla di statico a questo mondo, tantomeno il cervello degli uomini che s'imbottisce quotidianamente di nuove informazioni e, perché no, suggestioni. Pansa, che conosco da 40 anni, non è mai stato fermo nelle proprie convinzioni come un paracarro; è stato ed è un coltivatore di dubbi, disponendo di un'intelligenza superiore alla media. Quando era di sinistra aveva qualche pensiero di destra; ora che dicono sia di destra ha qualche inclinazione a sinistra e la manifesta senza ipocrisia. Non fosse che per questo, Giampaolo è da ammirare. Uno della cui onestà bisogna fidarsi. La sua prosa non è contraddittoria; è frastagliata, ricca di umori e di amori. Va accettata per quello che è: lo specchio del casino nel quale ci dibattiamo in Italia da secoli.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: Ma il Caselli aggredito dai No Tav si fida di questa sinistra? Ho sempre avuto stima e simpatia per il magistrato Gian Carlo Caselli. Per una serie di motivi a cominciare dalle origini famigliari abbastanza simili alle mie e dall’età che lo vede in vantaggio di poco: tra un paio di mesi compirà 76 anni. Lui ha origini alessandrine, io monferrine. Noi del Monferrato non siamo mai andati troppo d’accordo con i mandrogni. Ma esistevano altri fatti a renderci vicini. I nonni contadini a Fubine, il papà operaio, la laurea a Torino. Oggi Caselli è in pensione, ma ha conservato la figura asciutta e il carattere forte di quando dava la caccia al terrorismo rosso. All’inizio degli anni Settanta era giudice istruttore a Torino. E dobbiamo pure a lui se le prime Brigate rosse, quelle fondate e capeggiate da Renato Curcio, furono sconfitte. Il mitico Renè venne catturato. L’unico errore dei magistrati fu di rinchiuderlo nel piccolo carcere di Casale Monferrato. Per la moglie Mara Cagol si rivelò uno scherzo entrare in quella prigione e portarsi via il marito, senza sparare un colpo. Caselli è sempre stato un coraggioso. Le Br miravano anche ai magistrati. A Genova, nel giugno 1976, accopparono il procuratore generale Francesco Coco e i due carabinieri che lo scortavano. Penso che pure Caselli rischiasse la pelle. Ma una volta fatto il proprio dovere a Torino, nel 1992, dopo l’assassinio di Giovanni Falcone, si candidò all’incarico di procuratore capo a Palermo e si trasferì lì per un bel po’ di anni, comportandosi con onore. Insomma, siamo di fronte a un uomo che ha fatto tanto per la nostra sicurezza. Gli italiani gli debbono molto. Voglio dirlo adesso che la magistratura sta declinando come il resto del paese. E non si può fingere che gli uomini e le donne in toga siano senza responsabilità. Perché questi brevi cenni sul percorso di Caselli? Perché accade che Gian Carlo sia preso di mira da gruppi di antagonisti violenti. A cominciare dai guerriglieri anti Tav e per finire ai loro compagni di Firenze, non vogliono che lui parli in pubblico. L’hanno preso di mira e non smetteranno. Caselli e i suoi tanti sostenitori non s’illudano. Mi sembrano vane le lezioni di democrazia che lui tenta di impartire a certe bande. L’ultima è apparsa venerdì sul Fatto quotidiano. Il dotto articolo di Caselli era intitolato: «Il bavaglio. La storia riscritta dagli squadristi». Uno sforzo inutile. Spiegare al sordo che è sordo non serve a nulla: lui non ti sentirà. Lo dico perché sono passato anch’io per le stesse forche caudine imposte a Caselli. Con la differenza che lui viene difeso, sia pure inutilmente, dalle molte sinistre. Il Pansa, invece, fu lasciato solo, tanto da essere costretto a rinunciare di parlare in pubblico. Ossia a uno dei diritti che la Costituzione garantisce a tutti, specialmente a chi fa politica, ai magistrati ormai fuori carriera, a chi scrive sui giornali e pubblica libri. La mia colpa erano proprio i libri. Nel 2003 avevo pubblicato «Il Sangue dei vinti», una ricostruzione senza errori di quanto era accaduto in Italia dopo il 25 aprile 1945. Era un libro che abbatteva il muro di omertà che aveva sempre nascosto la sorte dei fascisti sconfitti. E per questo ebbe subito un successo imprevisto e strabiliante. I violenti rossi dell’epoca lì per lì non se ne accorsero, forse perché non leggono i giornali e non frequentano dei luoghi chiamati librerie. Se ne resero conto soltanto tre anni dopo. Così, a partire dall’ottobre 2006, cominciarono a darmi la caccia, non appena pubblicai un altro dei miei lavori revisionisti, «La Grande bugia». Il primo assalto lo sferrarono il 16 ottobre 2006. Una squadra capeggiata da un funzionario di Rifondazione comunista, arrivata apposta da Roma con un pulmino, cercò di impedire la prima presentazione in un hotel di Reggio Emilia. Mentre stava per iniziare il dibattito tra me e Aldo Cazzullo, generosa firma del Corriere della sera, la squadra ci aggredì. Ci lanciarono contro copie del libro, poi tentarono di coprirci con un lenzuolo tinto di rosso, che recava la scritta «Triangolo rosso, nessun rimorso». Volevano farci scappare, ma a tagliare la corda furono gli aggressori, cacciati dalla reazione del pubblico. Il giorno successivo ero atteso in una grande libreria di Bassano del Grappa. Ma nella notte i balilla rossi avevano bloccato con il silicone le serrature degli ingressi. Una squadra di fabbri lavorò a lungo per liberarle. Allora tentarono di entrare e di leggere un loro proclama, ma la polizia lo impedì. Il giorno dopo, a Castelfranco Veneto, nuovi fastidi. L’indomani mi riuscì di parlare a Carmignano sul Brenta, protetto da agenti della polizia guidati dal capo della squadra mobile di Padova. Era un dirigente giovane, intelligente ed esperto. Mi avvisò che in Veneto avrei incontrato dappertutto gli stessi problemi. Aggiunse: «Comunque verrà sempre difeso da noi. Conosciamo bene questi gruppi e li terremo a bada». Fu allora che mi posi un problema di etica pubblica. Chiesi a me stesso: «Quale diritto ho di mobilitare reparti di polizia e di carabinieri per proteggere le presentazioni dei miei libri? Le forze dell’ordine hanno compiti ben più importanti, dal momento che tanta gente è vittima di furti, rapine, scippi, aggressioni». Se ci ripenso a nove anni di distanza, sono ancora convinto che fosse una domanda sensata. E altrettanto fu la risposta che mi diedi. Studiai l’agenda e mi resi conto che erano previsti una trentina di incontri per la «Grande Bugia». Ne annullai quattordici, in città come Bologna, Ferrara, Piacenza, Parma, Crema, Treviso, Vicenza, Padova, Valdagno. A decidermi furono le parole di un amico: «Tu vieni nella mia libreria, protetto dai poliziotti. Presenti il tuo libro, poi riparti. Ma noi restiamo qui, senza difese». A qualcuno capitò di vedersi sfasciare la vetrina. A una grande libreria emiliana spararono un colpo di rivoltella contro una vetrina. L’aspetto più sgradevole della faccenda stava nel fatto che in quegli stessi momenti c’erano giornali che mi attaccavano per i miei libri revisionisti, tentando di farmi il vuoto attorno. Si andava da Liberazione, il quotidiano rifondarolo, alla Stampa di Torino e a Repubblica, passando per una serie di giornali provinciali del Gruppo Espresso. Alla Stampa c’era un collega che non mi poteva soffrire. Voglio farne il nome perché oggi conta più di allora: Massimo Gramellini, il socio televisivo di Fabio Fazio. Era un vicedirettore della «Bugiarda», così la chiamavano gli operai torinesi. E arrivò a telefonarmi con arroganza melliflua per sapere se avevo letto la pagina contro di me, vantandosi di averla confezionata con le sue manine. Dopo l’assalto di Reggio, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, stilò un comunicato in mia difesa. Ricevetti in via privata le telefonate di Romano Prodi, Piero Fassino e Walter Veltroni. Sul versante della sinistra furono i soli a farsi vivi. Sono campato lo stesso e i miei libracci hanno sempre avuto molti lettori. Ma l’esperienza di allora mi induce a rivolgere una domanda a Gian Carlo Caselli: ti fidi ancora delle sinistre italiane che oggi ti portano sugli scudi? Con l’aria che tira, e sotto i bombardamenti pesanti del Cremlino renzista, avranno bisogno di raccattare tutti i voti possibili. Tu conti per uno soltanto. Prima o poi ti molleranno, a favore delle bande che occupano gli atenei. Troppo tollerate e persino blandite.

L'ipocrisia dei "no Cav". Giornalismo malato da una guerra civile. L’odio nei confronti di Berlusconi trasuda sulla stampa di sinistra che rivendica anche la propria egemonia culturale, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Su «Carta straccia» Giampaolo Pansa offre di giornali e giornalisti di oggi uno spettacolo spesso grottesco, ma più spesso desolante. Che il giornalismo italiano sia diverso da quello degli altri Paesi è un fatto storico: per lo più scritto con pretese letterarie e molta retorica supponente si sta trasformando sempre più in una brodaglia di violenza e imprecisione che lascia spesso sbalorditi i colleghi stranieri: «Davvero potete scrivere usando il condizionale senza prove? Da noi ci sbatterebbero in galera…». A nessuno, mai, nel Regno Unito o negli Stati Uniti, in Francia o in Svizzera, ma neanche in Polonia o in Romania, verrebbe in mente di inserire (come è accaduto in questi giorni) nell’articolo di un cattedratico un lungo brano ignoto all’autore ma spacciato come autentico e difendere poi un tale arbitrio come libertà d’informazione. Non sono di quelli che esaltano il giornalismo «anglosassone» immaginato come asettico e impersonale, ma ho un grande rispetto per il giornalismo americano e britannico e per il modo accurato in cui trattano i fatti anche quando le testate si schierano politicamente: del resto in quei Paesi la pagina dei commenti è di competenza dell’editore, perché il direttore si deve preoccupare soltanto delle notizie e curare che siano complete e corredate dalle fonti. Quel giornalismo, che non è certo esente da difetti, ha però prodotto antidoti e anticorpi che ancora funzionano bene, attraverso scandali e processi sulla cattiva informazione. Walter Lippmann, che influenzò il presidente Wilson alla fine della Grande Guerra e che morì criticando Lyndon Johnson per la politica bellicosa nel Vietnam, creò la parola «stereotipo» – oggi si direbbe «politicamente corretto» – per indicare il pericolo delle opinioni automatiche e moralmente prefabbricate. Fu lui del resto a dire che «la salute della società dipende dalla qualità delle informazioni che riceve» affermazione non contestabile ma priva di riscontro in Italia. Lippmann ricordava anche che la notizia e la verità non sono la stessa cosa e questo perché l’informazione e la comunicazione non sono la stessa cosa: spacciarle l’una per l’altra produce una forma di giornalismo che si vieta di pensare, anticipando così, come ha scritto Marco Bardazzi su «Ttl», il monito di Hannah Arendt: «quando gli uomini rinunciano a dire quel che pensano, spesso smettono anche di pensare». Da noi, peccato, niente Hannah Arendt e niente Walter Lippmann, ma tutt’al più un composto Umberto Eco che nel suo «Costruire il nemico» riconosce che Julien Assange, la primula rossa di WikiLeaks, ha finalmente certificato che il re è nudo ponendo la stampa di fronte alla responsabilità di decidere, senza ricorrere a Internet, che cosa sia reale e meriti di essere stampato. Di «Carta Straccia» condivido il giudizio positivo su Antonio Padellaro direttore del Fatto Quotidiano, e su Marco Travaglio come fenomeno di straordinaria efficacia e qualità, a prescindere dalle differenze di opinione. Del resto è stato proprio il direttore del Fatto Quotidiano a dire a Laura Cesaretti, sul Giornale del 1° novembre 2010, che «la sinistra ha una grande suscettibilità nei confronti della libertà di stampa. Una suscettibilità che può raggiungere livelli insopportabili, in-sop-por-ta-bi-li!». E lo stesso Padellaro, ricorda Pansa, considerò la campagna sulla casa di Montecarlo un’operazione giornalistica efficace e ineccepibile. Anche a me la nascita e il successo del Fatto hanno entusiasmato al di là della linea politica, perché quel successo dimostra che esistono segmenti di opinione pubblica in attesa di essere rappresentati sia sui giornali che in politica. Ma ecco che mi imbatto, fra i documenti di «Carta straccia» in alcune parole di Marco Travaglio che ignoravo, pubblicate sul blog di Beppe Grillo e che, sorpresa, esaltano e rivendicano il diritto all’odio. Così: «Chi l’ha detto che non posso odiare un politico? Chi l’ha detto che non posso augurarmi che il Creatore se lo porti via al più presto? Non esiste il reato di odio». Che cosa rispondere? Che è vero, il reato di odio non esiste sui codici, ma dovrebbe esistere nelle coscienze. Oggi l’odio trasuda dalle pagine stampate di entrambi i fronti, ma con una sperimentata prevalenza dell’odio di sinistra, che è più antico, raffinato e velenoso. Sul Giornale io stesso alcuni anni fa denunciai la categoria degli «odiatori professionisti», come nuova mutazione giornalistica: gente che non attacca soltanto con le notizie, ma che incita all’odio e, di conseguenza, alle sue applicazioni pratiche. Una volta rivendicato il diritto di esprimere l’odio, è difficile prendere le distanze da atti di violenza come il famoso duomo sulla faccia di Berlusconi, a causa del quale Sabina Guzzanti è stata violentemente attaccata avendo lei, antiberlusconiana, espresso disagio alla vista del sangue. Ma la pratica dell’odio e del disprezzo non è una novità fra giornalisti e intellettuali: ricordo che quando da giornalista certificavo che Francesco Cossiga non era affatto matto (come voleva invece il comitato degli intellettuali che seguivano le indicazioni di Eugenio Scalfari) amici e colleghi cominciarono a cambiare marciapiede quando mi vedevano. Ricordo Tullio de Mauro, il celebre linguista, che mi sibilò: «Ma che cazzo scrivi Paolo? Ma non ti vergogni?». E non mi rivolse più la parola. Il giornalismo è da molto tempo al limite della guerra civile latente, sicché berlusconismo e antiberlusconismo sono diventate due categorie del cattivo spirito dei tempi, uno Zeitgeist al limite della malattia mentale. Ma, ancora una volta, non si tratta di una novità dovuta alla discesa in campo dell’uomo descritto come il «Grand Villain», o «Caimano» perché prima di Berlusconi esistevano altri «grand villain» contro i quali la stessa macchina da guerra funzionava attaccando Bettino Craxi e Andreotti, e prima ancora Forlani e Fanfani senza escludere Aldo Moro. Anche allora, con appena una misura di maggior pudore, il clima era quello di una guerra civile giornalistica agli ordini di quella politica è sempre stata coltivata con genialità da personalità della sinistra estremamente colte e raffinate anche se crudeli, come Palmiro Togliatti (sotto lo pseudonimo di «Roderigo de Castilla») o geniali e letterarie come «Fortebraccio» (Mario Melloni). La sinistra nata dai lombi del Pci si presenta poi sempre come un unico campione etico rivendicando di conseguenza una egemonia culturale che interviene alla fine sulle carriere, i finanziamenti, i premi, i festival, le legittimazioni e le delegittimazioni. E questo è un mestiere che il giornalismo di destra, per sua colpa o per un suo limite genetico, non ha mai saputo o voluto correggere, limitandosi a protestare in maniera inconcludente e anche un po’ isterica. L’Italia che Pansa descrive in «Carta Straccia» è un caso grave ma non unico perché l’egemonismo giornalistico di sinistra è universale dagli Stati Uniti alla Francia dove il politico italiano di sinistra Dario Franceschini può veder pubblicato il suo ottimo romanzo presso un editore come Gallimard, cosa che difficilmente potrebbe accadere ad un politico di centrodestra di pari valore. E così nella letteratura: se Gabriel Garcia Marquez, ritenuto di sinistra e amico personale di Fidel Castro, ebbe il Nobel per la letteratura nel 1982, il vecchio e cieco Jorge Luis Borges, accusato di essere un reazionario aspettò invano per tutta la vita. E infatti ha fatto discutere l’anomalia grazie alla quale il premio Nobel sia andato nello scorso ottobre a Mario Vargas Llosa, considerato di destra ma nato a sinistra, autore col figlio anche di un folgorante «Manual del Perfecto idiota Latino-Americano» che ha spellato il giornalismo sinistrese del suo mondo. In Italia, Paese da cui scaturiscono o sono scaturiti cattolicesimo, fascismo e il più influente partito comunista occidentale, la sostituzione del giornalismo con la propaganda è stata una strada obbligata: soltanto da noi si poteva inventare l’espressione «linea editoriale» per giustificare nel servizio pubblico televisivo l’uso di un linguaggio di propaganda, la censura e l’eccesso, sia di sinistra che di destra. La «verità» stessa, come premessa dell’informazione corretta e completa, in Italia è relegata al rango di «arroganza». Ed è questo il motivo per cui, senza dover aspettare Berlusconi, i politici italiani hanno sempre avuto nei confronti del giornalismo un atteggiamento padronale creando il ridicolo fenomeno del politico «di riferimento», padrino-padrone che promette carriere e direzioni nei telegiornali «d’area». Ci fu un tempo in cui Giampaolo Pansa ed io chiudevamo di notte la seconda edizione di Repubblica in tipografia. Una notte arrivarono in redazione, piangendo disperati, i parenti di alcune persone morte avvelenate. Li ascoltammo e Pansa disse: «Avete ragione, è una tragedia immane, guardate qui: “familia” nel titolo senza la “g”! Santo cielo, che catastrofe…». Mentre i parenti delle vittime se ne andavano stizziti per la nostra insensibilità ci precipitammo a correggere il titolo. Un episodio minimo, che però Pansa e io ricordiamo ogni volta che ci parliamo perché contiene forse la misura dell’aneddoto buffo, del mestiere minore, la corsa in tipografia, i casi della vita, quel modo semplice e casuale che costituiva la cifra del nostro mestiere. Eravamo in fondo dei proletari della notizia e appartenevamo a una generazione che si poteva permettere un giornalismo tutt’altro che neutrale, anzi schierato e combattivo, ma usando sempre e soltanto rigorosamente i fatti.

Giampaolo non ha nessuna intenzione di accedere - come molti suoi coetanei - a una vecchiaia omaggiata e sacrale, scrive Luca Telese su “Il Fatto Quotidiano. Non aspira a entrare nel novero dei vecchi saggi che invecchiano bene, centellinano il talento e le esternazioni, amano farsi benvolere da tutti, si risparmiano molto e si fanno celebrare di più. Nel suo ultimo libro, per esempio, Pansa spara su Fabio Fazio, su Ezio Mauro, su Nichi Vendola, su Michele Santoro sul nemico (di sempre!) Giorgio Bocca e tanti altri (ma, stranamente, parla bene di questo quotidiano). E risparmia la destra. Il fatto è che Giampaolo Pansa ha scritto un altro libro sul giornalismo (si intitola Carta Straccia), e ha - diciamo la verità - un caratteraccio: gli piace che nella sua scrittura si indovini il ghigno dei cattivi del cinema francese in bianco e nero, un Jean Gabin marsigliese tutto sangue e inchiostro. In questa parte della sua vita, per dire, Pansa ama farsi nemici, tirare freccette al curaro su alcuni bersagli privilegiati, fra cui svetta Repubblica, il quotidiano che lo ha consacrato. Non è elegante, ma lui se ne frega. Giampaolo è romantico, passionale, viscerale vendicativo, ma anche cameratesco: ora è a Libero, e "i due mastini" della coppia di direzione si trovano effigiati in un capitolo celebrativo che li mostra un po' canaglie, ma simpaticissimi. Pansa, temo, ci seppellirà tutti con uno sberleffo o con una scudisciata a mezzo stampa. Giampaolo, in fondo - se passi ai raggi X la sua bibliografia di ben 45 tomi - ha scritto praticamente trenta libri su due soli argomenti: il giornalismo (e la propria vita); e poi la Resistenza e il fascismo (prima e dopo "il ciclo dei vinti"), su cui ha cambiato clamorosamente idee. Non lo nega, anzi. Ma l'amore ne esaltava la Resistenza e l'eroico partigiano "Infuriato", il ciclo dei vinti è dedicato alla demolizione della Resistenza (prima "quella comunista", poi tutte "le altre"). Insomma, questi libri Pansa li ha scritti raccontando sempre la stessa storia (e talvolta persino gli stessi aneddoti) ma virandoli in maniera diversa, in nome di un revisionismo esistenziale che è uno dei motivi per cui una sterminata tribù di lettori almanacca i suoi libri. Meravigliosa contraddizione: un titolo dispregiativo per officiare il culto della stampa. Anche in questo libro, per esempio, c'è la storia del suo binocolo Zeiss, c'è la redazione de La Stampa conosciuta da ragazzo, e raccontata anche ne Il Revisionista (2009), ma pure nel ''Romanzo di un ingenuo'' (2000) che è stata la sua prima autobiografia. C'è di nuovo l'intervista a Enrico Berlinguer che è stata già raccontata in ''Ottobre addio'' (1982) e - ancora - ne Il Revisionista (2009). E così c'è da esser certi che arriveranno anche un altro libro e un altro ritorno, perchè Pansa riscrive se stesso cambiando continuamente lo scenario che gira intorno,la fissità del demiurgo che scruta il mondo nel circo immaginario del suo Bestiario. Giampaolo è meticoloso, a volte maniacale. Un altro, in un capitolo dedicato alla demolizione sistematica e feroce di Fazio non metterebbe mai una frase come questa: "Non mi ha mai voluto nel suo salotto per una colpa imperdonabile: il mio presunto anti-antifascismo, attestato dai libri che andavo scrivendo sulla guerra civile. Però aveva accolto col tappeto rosso quel collaudato fascista di Fini". Fazio non lo ha voluto e lui ratatatà - squaderna la sua arma più micidiale, l'archivio. Una volta me lo fece vedere, senza compiacimento, come un chirurgo che apre la teca dei bisturi. Un garage della sua casa di San Casciano, un arsenale pronto per essere usato a ogni occorrenza, contro chiunque: "Ho una cartellina anche su di te", e rideva. Pansa è un vecchio cronista cresciuto nella religione del "cartaceo": ritaglia anche le lettere dei lettori. Oppure estrae dal garage la raccolta de ''Il dito nell'occhio'', la rubrica che 15 anni fa Nichi Vendola teneva su Liberazione, infilando una antologia antidalemiana: "Massimo è gravemente atlantico", "cinicamente spoglio di dolore", "goffamente demagogico", "con una spocchia da statista neofita", "livido come i neon del metrò". Conclusione dell'autopsia: "12 anni fa il deputato Vendola era un polemista dal pensiero violento e dal linguaggio stridulo". In fondo ''Carta straccia'', il potere inutile dei giornalisti italiani (Rizzoli, 427 pagine 19.50) è la fusione di uno strumento perfetto e di un umore sulfureo. E' un viaggio nel garage di San Casciano con intenzioni contundenti, ed effetti sorprendenti. Ad esempio nel capitolo su Il Fatto, che dopo tre pagine sugli strafalcioni dei giornali italiani e un paio di scotennamenti senza rete ti potresti stupire: "Nella Grande crisi della carta stampata un solo giornale si rivelò capace di andare contro la corrente: Il Fatto".A Giampaolo questo giornale non piace, ma dopo aver tratteggiato i medaglioni di "Beriatravaglio" (copyright di Staino) e di Antonio Padellaro, rende un onore delle armi al successo ottenuto: "Di chi era il merito? Prima di tutto del direttore, Padellaro. Poi della star del giornale, Travaglio. Infine della redazione". Memorabile l'episodio di un collega di La Repubblica - unico non citato per nome - che propone una brillante intervista al segretario del Psdi Luigi Longo. Il giorno dopo Pansa, all'epoca vicedirettore riceve questa telefonata di Longo: "Ho letto l'intervista. Mi sembra molto fedele, rispecchia bene il mio modo di considerare il momento politico. Ha un solo difetto. Io non ho mai dato nessuna intervista". Per colpire Bocca (per lui ha la stessa passione che Achab ha per Moby dick) estrae dal'articolo una "intervista doppia" del 1980 sul terrorismo raccolta da un giovanissimo Lucio Caracciolo. Bocca sosteneva che i covi delle Br erano una invenzione, Pansa che le Br erano attive dal 1971. Sul quotidiano di Mauro un intero capitolo, e una sentenza feroce: "Perché non fare di La Repubblica una vera formazione politica? I militanti c'erano. I Soldi pure. Anche il leader non mancava. Era un direttore-segretario caparbio, aggressivo, più carismatico di moti big della casta partitica".

Giampaolo Pansa è uomo di furori, non di convenienze, scrive Stefano Di Michele su “Il Foglio”. Pure di rancori, ma non di ipocriti ritegni. E nemmeno di malafede. Forse si è sentito ferito, Pansa – anzi, sicuramente è stato ferito. Una ferita non medicata, la sua, né dagli amici che furono né dai compagni che l’amarono – ché loro, soprattutto, si fecero assalitori. Piuttosto, ognuno a versare sale, su quella ferita, a lanciare stupide accuse, ad attruppare becere squadracce iperdemocratiche (l’iperdemocrazia essendo la china che conduce prima a un’eccessiva considerazione di sé, quindi al fanatismo) per impedirgli di presentare i suoi libri su quella che lui – con ostinazione sempre più ostinata ogni volta che qualcuno gliela rinfaccia – chiama la “guerra civile”. Si è aperta con “Il sangue dei vinti” la seconda vita (da scrittore di gran successo) di Pansa. E con “Il sangue dei vinti” ha avuto inizio la seconda esistenza (di gran disdegno) di Giampaolo agli occhi dei suoi detrattori. Quelli fanatici e offesi, lui cocciuto. E il suo sarà, c’è da pensare, il secondo paradosso giornalistico-politico di quest’Italia da Seconda Repubblica e di ancestrali collere. Se Montanelli, icona del giornalismo di destra, è finito sugli altari davanti ai quali compie riti gente di ogni sfumatura di sinistra, probabilmente tra cento anni (nei giorni caldi della Ventinovesima Repubblica), quando Pansa non ci sarà più, sarà lui, antica icona del giornalismo di sinistra, issato sull’altare davanti al quale s’aduneranno manipoli di destrorsi incontinenti. Essendo uomo di carattere, Pansa ne ha uno pessimo – e la mai sopita intelligenza delle cose (movente, opportunità, aggressori) lo costringe a una tignosa, divertita e (magari) dolente ricapitolazione.+Perché fa i conti con i suoi nemici, Pansa, e fa anche i conti con se stesso. Un pugno di anni, e un intero orizzonte è mutato. E in fondo, come è stato con il suo precedente libro “Il revisionista”, anche questo “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli), è un altro pezzo della sua resa dei conti – con l’antico universo che l’ha amato e poi espulso; con se stesso, che quell’universo ha prima attraversato e poi rinnegato. E’ un libro divertente, perfido, feroce – scritto divinamente, quindi scritto da Pansa. Ma le oltre quattrocento pagine, alla fine, lasciano un senso di amarezza: nell’area della sinistra decente e civile, che il Pansa che fu rimpiange, ma lo stesso ama il Pansa che è, innanzi tutto. E forse, nello stesso autore. Perché il libro è scanzonato, “libraccio carogna” come piace dire a lui, che marcia e macina – facce, parole, giudizi impertinenti. Ma non è un libro sul giornalismo e sui giornalisti: non così ampio, non così riduttivo. E’ un libro su Pansa e sul suo mondo di giornali e giornalismo. Su ciò che fu (con qualche eccesso di sottovalutazione, e forse qualche giudizio ingeneroso) e su ciò che è (con qualche eccesso di partecipazione, e forse qualche giudizio eccessivamente generoso). Una sorta di (nuova) autobiografia professionale, dove Pansa getta via quel che ancora conservava di ricordi affettivi sul fondo di un polveroso cassetto, e abbraccia – con la generosità di sempre, quella che ogni giovane cronista che ha avuto a che fare con lui ha sperimentato – il nuovo mondo: Belpietro invece di Scalfari, Feltri invece di Bocca “l’uomo di Cuneo” (in realtà da un pezzo, al posto di Bocca chiunque andava bene), e Lerner e l’Ingegnere e la ex direttrice dell’Espresso, e la Gruber, ed Ezio Mauro, e la Concita – per tacer, senza tacere, di quel Fazio lì… Ha invece pagine bellissime, commoventi, quando ricorda vecchi colleghi come Gaetano Scardocchia e Gianni Rocca. Fino all’eruzione finale: mai votato il Cav!, Pansa – solo i cretini pensano che le persone intelligenti possano cambiare idea facendo mercato di se stessi – ma se continuano a fargli girare i santissimi… Gran libro di cenere e furie – e pernacchie e (qua e là) persino risate.

Non lasciatevi ingannare dal titolo, Il revisionista, in uscita da Rizzoli (pagine 474), scrive Rino Messina su “Il Corriere della Sera”. Questo non è l'ennesimo libro di Giampaolo Pansa sulla guerra civile italiana. È l'autobiografia di un giornalista che, quando si svolgeva la mattanza raccontata nel Sangue dei vinti, aveva dieci anni. E che è cresciuto a Casale Monferrato, zona di Resistenza, in una famiglia operaia, assorbendo i racconti sulla guerra e l'amore per la cultura: «I miei sapevano che l'unica possibile emancipazione era studiare e non mi facevano mai mancare libri, penne, quaderni». In uno dei brani più commoventi il padre Ernesto confida a suo figlio, da poco entrato alla «Stampa» di Torino: «Ora che scrivi per i giornaloni anche i signori mi salutano». Come fa un libro che contiene queste storie private a non essere definito un'autobiografia? Eppure Giampaolo Pansa nella prefazione dice d'essersi limitato a tracciare il suo percorso di Revisionista. Successi, ma anche attacchi e insulti, a cominciare da quando nel 2002 pubblicò I figli dell'Aquila e soprattutto nel 2003 quando firmò Il sangue dei vinti, un saggio vicino al traguardo del milione di copie. «Il vero motivo per cui l'ho scritto - confida Pansa - è ringraziare le persone che mi hanno apprezzato perché avevo dato loro voce. L'Italia degli sconfitti che prima del Sangue dei vinti non avevano diritto di partecipare al discorso pubblico. A loro ho voluto raccontare il mio percorso di giornalista che ha avuto la fortuna di incontrare tanti maestri. Tra i giornalisti che non appartengono alla sua cerchia, io credo di essere quello che meglio capisce Silvio Berlusconi. E sa perché? Perché sono nato nel 1935, un anno prima di lui, e capisco le paure e le angosce di un settantenne, ma ne condivido anche l'entusiasmo e il percorso generazionale». Il revisionista non è un libro provocatorio, a tesi, né il racconto di una sola parte italiana. È la storia di un percorso e degli incontri che hanno segnato un uomo. La Gianna, la prima fidanzatina di Giampaolo, la prima con cui abbia fatto l'amore. Ricevendone una lezione straordinaria. Gianna era una di quelle ragazze che erano state rapate a zero dopo il 25 aprile: suo padre era un fascista ucciso per vendetta e a lei era toccata quell'umiliazione. Poi Luigi Firpo, il geniale professore alla facoltà di Scienze politiche, Alessandro Galante Garrone e Guido Quazza, i due storici che seguirono la tesi di laurea di Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, un malloppo di circa mille pagine che conteneva documenti e testimonianze di prima mano e che sarebbe uscito nel 1967 da Laterza. Guido Quazza usava tenere una scheda sui suoi laureandi. Sulla tesi di Pansa scrisse: «Importante lavoro per la vastità della ricerca... È sempre presente il principio dell'audiatur et altera pars». Siamo nel 1959 e questo è un riconoscimento straordinario: ascoltare sempre l'altra voce. La lezione di Gianna era un seme che cresceva. Quella tesi avrebbe vinto uno dei due premi Luigi Einaudi: sarebbe stato il salvacondotto per entrare subito nel mondo del giornalismo, alla «Stampa» diretta da Giulio De Benedetti. Da «ciuffettino», così era soprannominato il rigoroso direttore del quotidiano torinese, a «barbapapà» Eugenio Scalfari, Il revisionista di Pansa è anche una galleria di direttori e colleghi, ritratti impietosi e affettuosi, in cui la critica non fa mai velo alla gratitudine. Leggete per esempio questo omaggio a Giorgio Bocca, diventato in questi anni l'arcinemico di Pansa in difesa di una Resistenza che ha sentito tradita dal suo più giovane collega: «Giorgio era il primo dei miei maestri indiretti. I giornalisti che leggevo con la matita in mano per prendere appunti e imparare come si doveva scrivere un buon articolo. Avevo recensito con entusiasmo un libro che raccoglieva i suoi reportage italiani. Lui mi aveva ringraziato con un biglietto e io ero andato di corsa a Milano per conoscerlo». Nel 1964, auspice Bocca, era arrivata la chiamata al «Giorno» diretto da Italo Pietra, partigiano e uomo di fiducia di Enrico Mattei. Nella stanza delle riunioni ogni mattina il direttore entrava rivolgendo, tra l'ironico e il minaccioso, questa domanda ai colleghi: chi di voi ha bruciato la mia casa sul monte Penice nel rastrellamento dell'agosto 1944? Perché il gruppo dirigente del «Giorno» era formato per metà da giornalisti che avevano fatto la Resistenza e per metà da saloini che avevano combattuto dall'altra parte, chi nella X Mas, chi nelle Brigate Nere, chi nella Guardia repubblicana. Anche in questo episodio è evidente che «il revisionismo» è il filo conduttore del racconto, ma il genere letterario è quello dell'autobiografia, sull'esempio fortunato del Provinciale di Giorgio Bocca. Trovi lo stesso stupore, la stessa potenza narrativa, tratti simili di sensualità, entusiasmo, stupore della scoperta. A volte di delusione e di stizza. Sentimenti evidenti nel capitolo «Il libertino» dedicato a Eugenio Scalfari, di cui riconosce la tenacia geniale del fondatore di imprese, ma al quale non risparmia pagine amare e impietose. «Via via - scrive Pansa - diventò la statua di se stesso. Con la barba di un biancore marmoreo... Quando morì Rocca (che con Pansa era stato vicedirettore della "Repubblica") nella cerimonia al cimitero del Verano, andai a stringere la mano a Eugenio. Ma lui se ne restò seduto e sembrò non riconoscermi». Pansa ne rimase stupito e addolorato: attribuisce questo atteggiamento all'uscita dei suoi lavori revisionisti, non apprezzati dal fondatore di «Repubblica». Nel libro c'è anche spazio per ritratti di politici, da Giorgio Almirante a Enrico Berlinguer, e soprattutto un invito al revisionismo, a raccontare le verità scomode, anche sugli anni di piombo, la stagione sanguinosa degli anni Settanta che continua a esalare veleni, come dimostrano le scritte contro Luigi Calabresi comparse in questi giorni a Torino. Giampaolo Pansa, che oggi collabora al «Riformista» ma soprattutto scrive libri, a 73 anni è felice della sua vita e continua a dirsi fortunato. Tuttavia ha qualche rimorso: «Non aver fatto abbastanza per difendere Calabresi come avrei dovuto». E qualche delusione: «Non aver mai ricevuto l'invito da una scuola di giornalismo, dove insegnano perfetti sconosciuti. Ma forse le scuole sono in mano alla sinistra e non invitano uno come me bollato a destra. Ma io avrei qualcosa da dire ai giovani: per esempio che il mestiere di giornalista non si impara, ma si ruba, e che il talento serve a ben poco senza l'umiltà e lo spirito di sacrificio».

Giampaolo Pansa, il revisionista impenitente, scrive Gabriele Testi su “Storia in Rete”. Il revisionista che non si pente. Anzi. L’autore che più di ogni altro ha attaccato in Italia miti storiografici del Novecento e l’Accademia, sta per tornare con un libro destinato a rinverdire le polemiche scatenate da «Il Sangue dei Vinti». Le tesi di Pansa? «Il PCI di Togliatti voleva l’Italia satellite dell’Urss»; «la politica di oggi non è interessata a fare i conti con la Storia»; «I miei critici? Scappano…»; «Le celebrazioni? Non mi piacciono mai»; «Il miglior leader italiano? De Gasperi»; «Gli italiani? Non hanno futuro se continuano così…». Forse perché non vogliono avere un passato? C’è sempre una prima volta, anche per Giampaolo Pansa. Quella del giornalista piemontese al Festival Internazionale della Storia di Gorizia, dunque allo stesso tempo su un terreno e in un territorio particolarmente delicato per ogni forma di rivisitazione e di analisi storiografica, non è passata inosservata. Anzi. La dialettica con un pubblico tanto attento quanto sensibile alle vicende degli italiani vissuti (e morti) oltre il Muro, in particolare comunisti di fede stalinista fuggiti in Jugoslavia e diventati «nemici del popolo», e lo scontro verbale con il moderatore Marco Cimmino non saranno dimenticati facilmente dalle parti di Gorizia. L’occasione si è comunque rivelata perfetta per una chiacchierata con un autore che, in polemica con gli accademici italiani e i «gendarmi della memoria» non arretra di un metro sul piano del confronto scientifico su quei temi, il tutto alla vigilia del compleanno che il primo ottobre gli farà oltrepassare la soglia dei tre quarti di secolo e della pubblicazione di un ultimo lavoro che lo riporterà in autunno nei panni a lui del revisionista. È lui stesso a raccontarlo a «Storia in Rete» in un’intervista esclusiva in cui si mescolano Resistenza e Risorgimento, eredità del PCI, meriti e demeriti democristiani, una visione organica della nostra società e le differenze esistenti fra i giovani di oggi e quelli le cui scelte avvennero con la Guerra.

Considerato il soggetto dei suoi ultimi due libri, considera ormai chiusa la parentesi dedicata alla Guerra Civile italiana?

«No, tant’è vero che in novembre uscirà con la Rizzoli un mio nuovo libro sulla Guerra Civile. Il titolo è: “I vinti non dimenticano”. Non è soltanto il seguito del “Sangue dei vinti” e dei miei libri revisionisti successivi. Insieme a vicende che coprono territori assenti nelle mie ricerche precedenti, come la Toscana e la Venezia Giulia, c’è una riflessione più generale, e contro corrente, sul carattere della Resistenza italiana. Dominata dalla presenza di un unico partito organizzato, il PCI di Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Pietro Secchia. Che aveva un traguardo preciso: conquistare il potere e fare dell’Italia un Paese satellite dell’URSS».

È rimasto fuori qualcosa – un’osservazione, una storia, un nome – che le piacerebbe aggiungere o correggere?

«Non ho niente da correggere per i miei lavori precedenti. E voglio dirvi che, a fronte di sette libri ricchi di date, di nomi, di vicende spesso ricostruite per la prima volta, non ho mai ricevuto una lettera di rettifica, dico una! E non sono mai stato citato in tribunale, con qualche causa penale o civile. Persino i miei detrattori più accaniti, tutti di sinistra, non sono mai riusciti a prendermi in castagna. Mi hanno lapidato con le parole per aver osato scrivere quello che loro non scrivevano. Però non sono stati in grado di fare altro».

E a proposito di «aggiungere»?

«Come voi sapete meglio di me, nella ricerca storica esistono sempre campi da esplorare e vicende da rievocare. In Italia questa regola vale ancora di più a proposito della Guerra Civile fra il 1943 e il 1948. Parlo del ’48 perché considero l’anno della vittoria democristiana nelle elezioni del 18 aprile la conclusione vera della nostra guerra interna. I campi da esplorare sono molti, anche perché della guerra tra fascisti della RSI e antifascisti non vuole più occuparsene nessuno. I cosiddetti “intellettuali di sinistra” hanno smesso di scriverne perché si sono resi conto che il loro modo di raccontare quella guerra non regge più, alla prova dei fatti e dei documenti. Nello stesso tempo, le tante sinistre italiane non hanno il coraggio di ammettere quella che ho chiamato nel titolo di un mio libro “La grande bugia”. Se lo facessero, perderebbe molti elettori, ossia quella parte di opinione pubblica educata a una vulgata propagandistica della Resistenza. Sul versante di destra constato la stessa reticenza. Un tempo esisteva il MSI, in grado di dar voce agli sconfitti. Oggi i reduci di quell’esperienza, parlo soprattutto del gruppo nato attorno a Gianfranco Fini, si guardano bene dal rievocare il tempo della Repubblica Sociale Italiana. Infine, il Popolo della Libertà ha ben altre gatte da pelare. E a Silvio Berlusconi della Guerra Civile non importa nulla. Di fatto, sono rimasto quasi solo sulla piazza. Questo mi rallegra come autore, però mi deprime come cittadino. Sono ancora uno di quelli che non dimenticano una verità vecchia quanto il mondo: il passato ha sempre qualcosa da insegnare al presente e anche al futuro».

Che cosa risponde a chi nega valore ai suoi libri perché «poco scientifici»? È davvero soltanto una questione di note a margine?

«Mi metto a ridere! Rido e me ne infischio, perché la considero un’accusa grottesca. Questa è l’ultima trincea dei pochi “giapponesi” che si ostinano a difendere una storiografia che fa acqua da tutte le parti. A proposito delle note a piè di pagina, ricordo che tutte le mie fonti sono sempre indicate all’interno del testo, per rispetto verso il lettore e per non disturbarlo nella lettura del racconto. Per quanto riguarda i cattedratici di storia contemporanea, il mio giudizio su di loro è quasi sempre negativo. Ci sono troppi docenti inzuppati, come biscotti secchi e cattivi da mangiare, nell’ideologia comunista. Il Comunismo è morto in gran parte del mondo, ma non all’interno delle nostre università. L’accademia che ho conosciuto nella seconda metà degli anni Cinquanta era molto diversa…».

Com’è un libro di storia «scientifico»? Perché non si toglie lo sfizio e glielo fa? Oppure bisogna necessariamente scriverlo da una cattedra universitaria?

«Se per libro scientifico si intende una ricerca storica fondata su fonti controllate e che racconta fatti veri o comunque il più possibile vicini alla verità, questo è ciò che ho sempre fatto. Anche il libro che uscirà a novembre, se vogliamo usare una parola pomposa che non mi appartiene, è a suo modo un’opera scientifica. Lo è perché l’ho pensato a lungo, ci ho lavorato molto e sono pronto ad affrontare ogni contraddittorio. Ormai la storiografia accademica “rossa” non vuole fare contraddittori con i cani sciolti come me perché ha paura di essere messa sotto. Si nascondono, fanno come le lumache. Mia nonna diceva: “lumaca, lumachina, torna nella tua casina”. Non si fa così: si tengano le loro cattedre sempre più inutili, cerchino di insegnare qualcosa a studenti altrettanto svogliati. Dopodiché quello che posso fare per loro è pagare le mie tasse fino all’ultima lira, come ho sempre fatto. In fondo, io sono tra i finanziatori della ricerca storica universitaria».

A proposito di revisionismo: come giudica quello sul Risorgimento (quello neo-borbonico, ma anche la nostalgia cripto-leghista che ha in mente il Regno Lombardo-Veneto austriaco)?

«Quando ero studente diedi anche un esame di storia del Risorgimento. Non mi ricordo più con chi. Mi appassionava, però confesso di non avere un interesse per quel periodo storico. Mi rendo conto, com’è accaduto per tutte le fasi cruciali, che bisognerebbe andare a vedere anche lì se la storia ci viene raccontata nel modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio lavoro di giornalista politico, per cui mi è difficile trovare qualcuno che mi entusiasmi anche tra i leader partitici. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o revisionare. Ma se un partito come la Lega Nord si mette di mezzo e pretende di riscrivere la storia, io me ne ritraggo inorridito…».

Ci fu anche allora, indubbiamente, una guerra civile che prese il nome di «brigantaggio». Ha mai pensato di occuparsene?

«Sul brigantaggio ho letto parecchio, recentemente anche un romanzo bellissimo che racconta di un episodio in Calabria o Campania, adesso non ricordo, della lotta contro i piemontesi. Ritengo che questo fenomeno fosse una forma di resistenza delle classi dirigenti del Mezzogiorno nei confronti dei Savoia per quella che era un’occupazione militare. Lo Stato unitario è certamente nato sul sangue di entrambe le parti, perché non è che i piemontesi siano andati con la mano leggera al sud, e lo dico parlando da piemontese. Del resto, le guerre sono sempre state fatte in queste modo: le vincono non soltanto coloro che hanno la strategia più intelligente, ma anche chi non usa il guanto di velluto. Basti vedere come sono stati i bombardamenti alleati in Italia durante la Seconda guerra mondiale, un altro argomento che gli storici dell’antifascismo e della Resistenza non hanno granché affrontato e che io credo di avere chiarito bene nel prossimo libro, per di più alla mia maniera. Ormai ho imparato che i conflitti bellici sono mattatoi pazzeschi. Ricordo che da bambino vidi passare sulla mia testa, a Casale Monferrato, le “fortezze volanti” americane che andavano a bombardare la Germania. In un primo tempo a scaricare esplosivo sui tedeschi erano gli aerei inglesi del cosiddetto Bomber Command, guidati da questo Harris [sir Arthur Travers Harris, maresciallo dell’aria della RAF, 1892-1984, soprannominato “Bomber Harris” NdR] che anche dai suoi era stato battezzato “Il macellaio” [per la leggerezza con cui mandava a morire i suoi equipaggi NdR]. Anch’io avrei potuto essere un bambino bombardato in Italia, ma grazie a Dio non abitavo vicino ai due ponti sul Po che attraversavano la mia città. Queste sono le guerre. È chiaro che se poi, una volta che sono finite, ci si mettono di mezzo i faziosi che pretendono di raccontarle alla loro maniera, secondo gli interessi di una parte politica, allora non ci si capisce più nulla…».

Come si esce dalle divisioni del passato? Ancora oggi l’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, tessera dei giovani: queste cose hanno senso per lei?

«No, e io sono stato uno dei primi a raccontarlo in qualche mio articolo e anche in un libro. Una sera mi trovavo a Modena, dove mi ero recato a presentare uno dei miei lavori revisionisti, e mi accorsi che sui quotidiani locali c’erano delle pagine pubblicitarie a colori, dunque costose, e delle locandine in cui si invitavano i ragazzi a iscriversi all’ANPI. Tutto questo non ha senso o, meglio, lo ha se si pensa che l’Associazione è oggi un partito politico, minuscolo e molto estremista. Secondo me tutto ciò non ha senso, però se vogliamo capire il fenomeno bisogna dire che l’ANPI è uno strumento nelle mani della Sinistra radicale o, diciamolo meglio, affinché non si offendano, una sua componente: è chiaro che se dovesse fare affidamento soltanto sugli ex partigiani, anche su quelli delle classi più giovani del ’25, ’26 e ’27, oggi i soci sarebbero tutti ultraottantenni. Hanno bisogno di forze fresche e hanno trasformato un’organizzazione di reduci, assolutamente legittima, in un club quasi di partito. Siamo in una situazione di sfacelo delle due grandi famiglie politiche, prima è toccato al centrosinistra e ora sta accadendo per una specie di nemesi al centrodestra, e possiamo immaginarci quanto poco conti l’ANPI in questo scenario. Quando l’Italia diventerà ingovernabile e nessuno sarà in grado di gestirla, ci renderemo conto di come certi leader politici non possano fare nulla».

Come spessore dei personaggi, chi vince tra la Prima e la Seconda Repubblica? E, fra i grandi statisti del passato, chi ci servirebbe oggi?

«È una bella domanda, che però richiede una risposta complicata. Come ho scritto nella prefazione de “I cari estinti”, tanto per citare un mio libro che sta avendo un grande successo, sono un nostalgico della Prima Repubblica. Non ricordo chi lo abbia detto, se Woody Allen o Enzo Biagi, personaggi agli antipodi fra di loro, ma “il passato ha sempre il culo più rosa”. Io sono fatalmente portato a ritenere che i capi partito della Prima Repubblica avessero uno spessore più profondo, diverso, migliore di quelli di oggi, anche se in quel periodo furono commessi degli errori pazzeschi. Prima che quella classe politica si inabissasse per sempre e la baracca finisse nel rogo di Tangentopoli – non tutta naturalmente, perché il PCI fu graziato dalla magistratura inquirente – negli ultimi quattro-cinque anni si accumulò un debito pubblico folle, che è la palla al piede che ci impedisce di correre e, soprattutto, diventa una lama d’acciaio affilata che incombe sulle nostre teste. Non ho mai votato la DC, anche perché sono sempre stato un ragazzo di sinistra, ma ho una certa nostalgia della “Balena Bianca”. Il grande merito della Democrazia Cristiana fu di vincere le elezioni del 18 aprile, perché se nel 1948 avesse prevalso il Fronte Popolare, non so che sorte avrebbe potuto avere questo Paese. Secondo me ci sarebbe stata un’altra guerra civile, se non altro per il possesso del nord Italia, anche se poi la storia non si fa con i “se”. Per fortuna, lì si impose Alcide De Gasperi in prima persona. Ero molto giovane, ma quello è un leader al quale ho visto fare grandi cose nei rapporti con gli elettori. Ma pure i leader dell’opposizione a vederli da vicino erano cosa altra da adesso. Anche di Enrico Berlinguer, che era una specie di “santo in terra”, mi resi subito conto di che pasta fosse da un punto di vista politico, più che umano. Quando lo intervistai per il “Corriere della Sera”, alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, mi disse che si sentiva molto più al sicuro sotto l’ombrello della NATO che non “protetto” dal Patto di Varsavia. Queste risposte eterodosse sull’Alleanza Atlantica e il PCI non le pubblicò “l’Unità”, censurando di fatto il segretario del Partito, perché avevano suscitato i malumori dell’ambasciata dell’URSS a Roma. Però gli stessi concetti mi furono ribaditi dal leader comunista, senza battere ciglio, anche in televisione durante una tribuna elettorale. Evidentemente, tutto ciò non doveva finire su “L’Unità”, che era letta come il Vangelo dai militanti comunisti, mentre in tivù si poteva dire qualsiasi cosa».

Secondo lei chi è stato il più grande? E perché?

«Io direi che oggi ci servirebbe un uomo molto pratico ed energico come Amintore Fanfani, che ha curato i nostri interessi sotto molti aspetti, oppure un temporizzatore tranquillizzante come Mariano Rumor. Con tutto il rispetto per la sua figura e la fine che ha fatto, non so invece se ci occorrerebbe un Aldo Moro. A sinistra ci vorrebbe un tipo come Craxi, diciamoci la verità: Bettino aveva un grande orgoglio di partito, ma non pendenze storiche che sarebbero state sconvenienti da mostrare come accadeva a molti leader del PCI. In conclusione, ci servirebbe un leader democratico e liberale in grado di imporsi con autorità e autorevolezza per mettere fine a questa guerra civile di parole di cui in Italia non ci rendiamo troppo conto e che diventa sempre più violenta. Il più grande di tutti resta comunque De Gasperi, un uomo affascinante, brillante e capace: se non sbaglio fece sette governi, si ritirò a metà dell’ottavo per il venir meno della fiducia e fu per undici mesi segretario della DC prima di morire nel 1954. È stato il politico che ha concesso a me e a voi, in un giorno d’estate del 2010, di procedere in quest’intervista senza paura di dire come la pensiamo».

Come giudica, anche da piemontese, il modo con cui l’Italia si appresta a «festeggiare» i primi centocinquant’anni di vita nel 2011 e le dimenticanze su Cavour in questo 2010?

«Vi dirò una cosa: io sono contrario alle celebrazioni, anche le più oneste. Non servono a nulla, se non a far girare un po’ di consulenze, a far lavorare qualche storico, vero o presunto che sia, gli architetti, qualche grafico e chi si occupa di opere pubbliche per tirar su mostre, ripristinare un museo e via dicendo. Non me ne importa nulla e non sono affatto d’accordo. Chi vuole approfondire la storia del Risorgimento, trova già tutto: basta che vada in una buona libreria e si faccia consigliare da qualche bravo insegnante, magari di liceo, che spesso è anche più competente di tanti docenti universitari…».

Che popolo sono gli italiani? È giusto dire che dimenticano tante cose belle e si accapigliano a distanza di secoli sempre sulle stesse cose?

«Io ho un’idea abbastanza precisa di come siamo: un popolo in declino, che non è all’altezza delle nazioni con le quali dovremmo confrontarci. L’Italia è un Paese di “serie B”, che presto scenderà in “serie C”, con una squadra di calcio che non combina più nulla da un sacco di anni. La gente è sfiduciata e non vuole più saperne della politica, anche per come è la politica oggi. I giovani sono in preda ai “fancazzismi” più esasperati e affollano le università per lauree assurde, vere e proprie anticamere della disoccupazione. A un sacco di ragazzi se chiedi che cosa vogliono fare da grandi, non sanno risponderti, perché non vogliono nulla. Questo è un Paese per vecchi che diventano sempre più vecchi e io mi metto in cima alla lista, perché a ottobre di anni ne avrò settantacinque. Quand’ero giovane l’Italia era un contesto più generoso e che osava, baciato da miracoli economici successivi, in cui il figlio di un operaio del telegrafo e di una piccola modista, allevato da una nonna analfabeta come Giampaolo Pansa, poteva andare all’università, laurearsi e fare il giornalista, che era la cosa che avrebbe sempre voluto fare. Adesso l’Italia è un deserto di speranze, ma anche i giovani non si accontentano mai. Oggi se ho bisogno di un idraulico, di un falegname o di un elettricista, o trovo dei signori ultracinquantenni, o mi affido a giovani molto bravi che quasi sempre sono extracomunitari. Vallo a spiegare ai ragazzi italiani che gli studi universitari non garantiscono più nulla…».

Pansa: ogni italiano è figlio di un fascista. Per oltre vent'anni nessuno si oppose al regime del Duce. Solo la conduttrice de "Le invasioni barbariche" sembra ignorarlo, scrive Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”. Mi ha fatto tenerezza la signora Daria Bignardi nel corpo a corpo con un deputato grillino, Alessandro Di Battista. Era in diretta su La7 per le sue Invasioni barbariche e tentava di mettere in difficoltà il grillino sul padre fascista. Deliziosa ingenuità quella di madamin Bignardi. Risultava chiaro che nessuno le aveva spiegato che per vent’anni, dal 1922 al 1943, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Benito Mussolini, gli hanno obbedito e si sono fatti accoppare per lui. Fino alla notte del 25 luglio, quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nel mio piccolo, sono stato anch’io un fascista, essendo venuto al mondo il 1° ottobre 1935, in pieno regime mussoliniano. Il giorno successivo alla mia nascita, la sera del 2 ottobre, dal balcone di palazzo Venezia il Duce annunciò all’Italia di aver dichiarato guerra all’Etiopia. Per volere di Benito, il discorso venne trasmesso in tutto il Paese, nelle piazze dove milioni di persone stavano in religiosa attesa del suo verbo. Tra i tantissimi raccolti nella piazza principale della nostra città, doveva esserci anche mio padre Ernesto, operaio delle Poste con la mansione di guardafili del telegrafo. E in quanto dipendente statale precettato per l’adunata in onore dell’attacco al maledetto Negus, al secolo Hailè Selassiè. Però mio padre in piazza del Cavallo non ci andò. Gli era appena nato un figlio, il primo, e questo evento gli sembrava un motivo più che valido per restare accanto alla moglie, mia madre Giovanna. Devo ricordare che in quel tempo le donne partorivano in casa con l’assistenza di una levatrice, ossia di un’ostetrica. Così aveva fatto Giovanna, urlando un paio d’ore poiché ero grosso e lungo. E non volevo saperne di uscire dalla sua pancia. Il giorno successivo, era il 3 ottobre, due della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale si presentarono in casa nostra e chiesero a Ernesto perché mai non fosse andato anche lui in piazza ad ascoltare il Duce. Mio padre spiegò che gli era appena nato un figlio. «Maschio o femmina? », domandarono i militi. «Maschio», rispose Ernesto. E i militi, una coppia di bonaccioni in divisa e camicia nera, si congratularono: «Ottimo! Anche lui diventerà un soldato della Patria fascista». Mio padre gli offrì un bicchiere di Barbera che bevvero alla salute di mia madre e dell’inconsapevole sottoscritto, addormentato nella culla. E l’ispezione finì lì. A vestire la divisa di soldato del Duce non feci in tempo perché il regime cadde molto prima. In compenso, il 1° ottobre 1941, giorno del mio sesto compleanno, divenni un Figlio della lupa. Era il gradino iniziale della scala inventata per la gioventù del regime. A sette anni, in seconda elementare, si restava sempre Figli della Lupa. A otto si diventava Balilla. Si chiamava Balilla anche il giornaletto che leggevo, una specie di concorrente del Corrierino dei piccoli. Lì avevo imparato chi erano i nemici dell’Italia. Re Giorgetto d’Inghilterra. Il ministro Ciurcillone. Rusveltaccio Trottapiano, presidente americano, che ubbidisce alla signora, la terribile Eleonora. Ma i più pericolosi erano i russi che si ammazzavano tra di loro. Il terribile Stalino, l’Orco rosso del Cremlino, dice urlando come un pazzo alle guardie del palazzo: i compagni qui segnati siano tutti fucilati! Nell’estate del 1943, conclusa la seconda elementare, i miei genitori decisero di mandarmi alla colonia montana delle Regie Poste di Alessandria. Era un luogo triste, nascosto fra alture basse vicine a Biella, dove pioveva sempre. Le giornate si aprivano con l’alza bandiera e le preghiera del Balilla, recitata a turno da uno dei ragazzini: «Signore, benedici il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie. E poiché l’hai donato all’Italia, fallo vivere a lungo per la Patria e fa’ che tutti siano degni di lui...». Ogni mattina, dopo il caffelatte, cominciava l’ora di dottrina fascista. Ed era l’unica vera attrazione della giornata. Il merito andava all’insegnante: una ragazzona maestosa, un trionfo di capelli rossi e un seno stupefacente, figlia del capostazione della nostra città. Era una cliente della modisteria di mia madre e aveva fatto impazzire il panettiere del negozio accanto. Quando andavo a comprare il pane, il fornaio mi domandava: «Le hai viste quelle tette? Darei mille lire per poterle pastrugnare! ». Ma la maggiorata dai capelli rossi non badava alle occhiate dei maschi, tanto meno alle nostre di ragazzini troppo arditi. E per tenerci a bada, escogitava ogni giorno una preghiera per il Duce. A me ne toccò una che recitava: «Gioventù italiana di tutte le scuole, prega che la Patria non manchi al suo radioso avvenire. Chiedi a Iddio che il ventesimo secolo veda Roma centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per le genti del mondo». Un mese dopo, era la fine del luglio 1943, tutto sembrò sparire con la caduta del Duce. In piazza si videro molte manifestazioni di giubilo, ma la maggior parte della gente se ne restò a casa. La guerra iniziata nel 1940, e i tanti ragazzi morti su troppi fronti, stavano allontanando dal fascismo un numero sempre più grande di italiani. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscere di essere stato un fascista senza pentimento. E di aver sostenuto con entusiasmo un regime che adesso ci aveva portato al disastro. Il nostro fascismo esistenziale lo si constatò sino in fondo in due momenti terribili che confermarono la natura crudele della dittatura di Mussolini. Il primo, nel 1938, fu il varo delle leggi razziali contro gli ebrei. Il secondo l’inizio delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di migliaia di israeliti, quando l’Italia del centro e del nord stava sotto la Repubblica sociale, un regime sostenuto dai tedeschi. Mi rammento bene quel che accadde in quei momenti. Per il motivo che non accadde nulla. Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile. Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell’indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia. Per tutto questo mi sembra grottesco che nell’Italia del 2014 qualcuno chieda a qualcun altro: tuo padre era fascista, tuo nonno portava la camicia nera? La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Oggi la mia speranza è che lo sfacelo della nostra classe politica non metta in pista qualche nuovo signore autoritario che ci obblighi a innalzare la bandiera voluta da lui. Il colore non importa. Però mi domando quanti accetterebbero di sventolarla. E temo che anche stavolta non sarebbero pochi.

Prima di “Bella ciao” la canzone più nota era “Eia eia alalà”. La cantavano gli italiani sbarcati in Albania per spezzare le reni alla Grecia. Poi i Figli della Lupa e i piccoli Balilla. “La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo” scrive Giampaolo Pansa che quell’Italia l’ha vissuta e poi l’ha raccontata per demolire soprattutto la mitizzazione arbitraria della guerra civile. Perché l’Italia è stata una nazione in grandissima parte attratta dal Fascismo, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943 quando un gruppo di gerarchi, e non un’insurrezione popolare, mandò a gambe all’aria il Duce. Nell'Italia del Duemila può presentarsi l'avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini? Anche oggi siamo un paese strozzato da una crisi pesante, con una casta di partiti imbelli e un possibile conflitto tra ceti diversi. Sono queste assonanze con gli anni Venti del Novecento che hanno spinto Giampaolo Pansa a scrivere "Eia eia alalà", un antico grido di vittoria riesumato dallo squadrismo fascista. Il racconto inizia con la lotta di classe esplosa tra il 1919 e il 1922, guidata dai socialisti e sconfitta dall'inevitabile reazione della borghesia. Il nero nacque dal rosso: l'estremismo violento delle sinistre non poteva che sfociare nella marcia su Roma di Mussolini, il primo passo di una dittatura ventennale. La ricostruzione di Pansa ruota attorno a un personaggio esemplare anche se immaginario: Edoardo Magni, un agrario padrone di una tenuta tra il Monferrato e la Lomellina. Coraggioso ufficiale nella Prima guerra mondiale, finanziatore delle squadre in camicia nera, all'inizio convinto della necessità di una rivoluzione fascista ma via via sempre più disincantato. Sino a diventare un sostenitore del leader squadrista dissidente Cesare Forni, ritenuto da Mussolini un nemico da sopprimere. Magni è il protagonista di un dramma a metà tra il romanzo e la rievocazione storica, gremito delle tante figure che attorniano il Duce, una nomenclatura potente descritta con realismo. In Eia eia alalà Pansa accompagna il protagonista nello scorrere degli anni e nella sfiducia crescente verso il regime. Abbiamo di fronte un ricco signore alle prese con tante incertezze e molti amori: Marietta, Rosa, Anna, Elvira e infine Marianna. Sarà questa giovane donna ebrea incontrata nel ghetto di Casale a fargli scoprire lo sterminio degli israeliti della città, con un viaggio tormentato che alla fine la condurrà a una decisione inaspettata. Grazie alle ricerche di Marianna, Magni conosce una dopo l’altra le storie degli ebrei uccisi ad Auschwitz. Nell’indifferenza gelida dei tanti che si voltavano dall’altra parte e fingevano di non vedere. Eia eia alalà è anche l’affresco di un’Italia che assomiglia non poco a quella di oggi: distratta, egoista e forse pronta ad accettare nuove tragedie.

.. Pansa: "Vi racconto l'Italia in cui tutti, o quasi, gridavano Eia Eia Alalà". Nel suo nuovo libro Giampaolo Pansa autore del «Sangue dei vinti» ricostruisce l'ascesa del fascismo e il consenso di massa al regime. Che molti dimenticano..., scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Si chiama Eia Eia Alalà ed è in libreria da oggi. Se non bastasse il titolo (a caratteri cubitali rossi in stile molto littorio), ci pensa il sottotitolo a spiegare che cosa si può trovare in questo volume (Rizzoli, pagg. 378, euro 19,90) a firma Giampaolo Pansa: Controstoria del fascismo. Pansa infatti, usando l'artificio del romanzo - «a me il lettore piace acchiapparlo per la coda, non annoiarlo a colpi di saggio» - mette i puntini sulle «i» della storia italiana della prima metà del '900 per spiegare che cosa sia stato e come sia nato il Ventennio mussoliniano. Il suo espediente narrativo è partire dalla sua terra e raccontare attraverso le vicissitudini del possidente terriero Edoardo Magni (personaggio di fantasia, ma nel libro ce ne sono molti realmente esistiti) come l'Italia sia diventata, convintamente, fascista. E lo sia rimasta a lungo. Non c'è bisogno di dire, viste le scomode verità venute a galla con i suoi precedenti libri (a partire da Il sangue dei vinti) e il tema, che la polemica è garantita. E che qualche gendarme della memoria, per usare un'espressione dello stesso Pansa, avrà qualcosa da dire.

Dunque, Eia Eia Alalà. L'urlo di una generazione?

«Non sai quante volte l'ho sentito gridare quando ero bambino ed ero un Figlio della Lupa. Ho anche una foto in cui, piccolissimo, facevo il saluto romano, davanti al monumento ai Caduti. Non ho fatto in tempo a diventare balilla, però. Il regime è caduto prima. E per quanto in casa dei gerarchi sentissi dire peste e corna. Il sottofondo della vita degli italiani era quello lì».

Per questo l'hai scelto come titolo?

«In parte, volevo anche un titolo che cantasse. Che rendesse l'idea di quello che a lungo il regime è stato per gli italiani. L'avventura del fascismo è stata legata all'idea di vincere, di migliorare il Paese. Rende l'idea di quella giovanile goliardia che affascinò molti. Un fascino che iniziò a incrinarsi solo con le orribili leggi razziali e crollò definitivamente solo con gli orrori della guerra».

Non molti hanno voglia di ricordare che il fascismo ebbe davvero una presa collettiva. Tu invece questo lo racconti nel dettaglio...

«Ho voluto fare un racconto senza il coltello tra i denti. Che cosa rimprovero io a storici, anche molto più bravi di me che di solito scrivono su Mussolini? Ma di avere una partecipazione troppo calda, schierata. Io, anche grazie all'invenzione di un personaggio come Magni, invece ho cercato di fare un racconto neutrale. Per chi c'era è un'ovvietà che il fascismo ebbe un consenso di massa. Tutti erano fascisti tranne una minoranza infima. Gli antifascisti erano una scheggia microscopica rispetto a milioni di italiani. Gli italiani ieri come oggi volevano solo un po' di ordine... E Mussolini glielo diede. Ai più bastò».

Tu attribuisci molte responsabilità ai socialisti che favorirono involontariamente il successo del fascismo, regalandogli il potere... A qualcuno verrà un colpo!

«La guerra perpetua tra rossi e neri creava sgomento. Gli scioperi nelle città, ma soprattutto nelle campagne crearono il caos... Si minacciò la rivoluzione senza essere capaci di farla davvero. Si diede l'avvio alle violenze senza calcolare quali sarebbero state le reazioni. E per di più, esattamente come la sinistra attuale, i socialisti erano perpetuamente divisi. Pochi capirono quanto fosse grave la situazione. Tra questi Pietro Nenni, il quale a proposito della scissione comunista del 1921 scrisse: "A Livorno è cominciata la tragedia del proletariato italiano"».

Però qualche responsabilità la ebbe anche la borghesia italiana, o no?

«Noi non avevamo la tradizione liberale di altri Paesi. Ed eravamo in una situazione economica terribile che a tratti mi ricorda quella di oggi. C'erano dei partiti-casta in cui la gente non si riconosceva e lo scontro tra ceti (o classi) era alle porte... Il nero è nato dal rosso, la paura ha fatto allineare gli italiani come vagoni ferroviari dietro a Mussolini. Non per obbligo, nonostante le violenze degli squadristi. Sono stati conquistati dalla grande calma dopo la marcia su Roma. L'italiano dei piccoli centri, delle professioni borghesi, voleva soltanto vivere tranquillo. Avuta la garanzia di una vita normale e dello stipendio a fine mese, di chi fosse a palazzo Chigi o a palazzo Venezia gli importava poco».

Qualunquismo?

«L'Italia continuava a essere soprattutto un Paese agricolo. Lo sciopero agrario del 1920 rischiò di paralizzare la campagna. Le leghe rosse impedendo la mungitura, nel libro lo racconto, minacciarono di far morire le mucche... Da lì nacque un fascismo virulento e tutto particolare che poi si prese la rivincita. Il fascismo è stato il ritratto di gruppo degli italiani. C'era dentro di tutto. C'erano molte forze vitali e diverse. Poi il criterio dell'obbedienza cieca, pronta e assoluta che tanto propagandava Starace fece sì che nel cerchio di persone più vicine al Duce si andasse verso una triste selezione al ribasso».

In Eia Eia Alalà descrivi la parabola triste di molti fascisti «diversi».

«La scollatura tra italiani e regime iniziò con le leggi razziali, non prima. Lì inizio il male assoluto, la vergogna. Una delle figure più tragiche del libro è Aldo Finzi. Di origine ebraica, aviatore, fascista della prima ora, poi messo ai margini e fucilato alle Fosse Ardeatine. Poi è arrivata la guerra e la rimozione di massa».

Ma davvero vedi così tante assonanze tra l'oggi e l'avvento del fascismo?

«È possibile non vederle? L'unica variante è il terrorismo internazionale. Ed è una variante peggiorativa».

“All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino” scrive Federico Guiglia del Messaggero.

«Ma quel grido lo sentivo di continuo», ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore. Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. «Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato», riprende il filo del discorso. «Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone «Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza», eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo». «Il nero nacque dal rosso» è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al vero edicolante di Pansa citato in prefazione).

Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

«Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte».

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?

«A ogni azione corrisponde una reazione. È quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partito comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto sul loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. È un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia».

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?

«La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. È proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana».

Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?

«Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato Il Sangue dei vinti, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea – poi pubblicata da Laterza – sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui».

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.

«Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte».

"A 10 anni dal "Sangue dei vinti" lotto ancora con le bugie rosse". Il giornalista che per primo ha raccontato gli orrori della guerra civile ha scritto una nuova prefazione al suo "classico". E ci racconta perché, scrive Matteo Sacchi su “Il Giornale”. Dieci anni fa un grosso sasso, quasi un meteorite, precipitò da grande altezza nel piccolo stagno della storiografia italiana. Uno stagno dove a gracidare erano, chi meglio chi peggio, più o meno sempre gli stessi, e da un bel po'. A lanciarlo un «non professionista», in senso accademico, della Storia: il giornalista Giampaolo Pansa. Con il suo Il sangue dei vinti (Sperling&Kupfer) riproponeva il tema delle uccisioni sommarie praticate dai partigiani durante la guerra civile, dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. E non solo. Metteva per la prima volta in luce i virulenti strascichi di quello scontro. Le numerosissime esecuzioni sommarie proseguite sino al 1948. Soprattutto in quello che era conosciuto come il «Triangolo della morte» che aveva per vertici Castelfranco Emilia, Piumazzo e Mazzolino. E spesso a morire non erano solo i fascisti, ma chiunque venisse visto come d'ostacolo a una futura rivoluzione comunista. Il libro, come è noto, fu subito aggredito dai "guardiani della memoria" partigiana. Spesso senza nemmeno una lettura sommaria, a prescindere. Oggi a dieci anni di distanza, seppure molto a fatica, la percezione sul tema è cambiata. Ecco perché a questa nuova edizione (Sperling&Kupfer, pagg. 382 euro 11,90) Giampaolo Pansa ha aggiunto una nuova prefazione in cui si leva qualche sassolino dalla scarpa: «"Arrendetevi siete circondati!". Urla così Beppe Grillo... Il suo grido di battaglia mi sembra adatto a descrivere una situazione molto diversa. Anche gli avversari dei miei libri sulla guerra civile sono nei guai. Hanno scelto di farsi circondare da se stessi, rifiutando qualsiasi revisionismo sull'Italia tra in 1943 e il 1945. E dovrebbero arrendersi alla sconfitta». Ne abbiamo parlato con lui.

Ma a dieci anni dal Sangue dei vinti che sensazione ha provato a tornare su quelle pagine?

«Io ho scritto moltissimi libri e di norma non li rileggo mai dopo che ho licenziato le seconde bozze... Ho fatto così anche col Sangue dei vinti: l'ho tenuto lì come fosse il libro di un altro. Rileggendolo ora, quando l'editore mi ha chiesto di ripubblicarlo mi sono reso conto davvero di quanto sia gonfio di sangue, di esseri umani citati per nome e per cognome, di morti terribili. È per questo che ho accettato la ripubblicazione, penso possa avere un senso per i giovani, per chi aveva dieci anni quando è uscito la prima volta e ora ne ha venti... Credo possa raccontare molto anche a questa Italia di oggi cosa sia stato quel conflitto civile che è durato sino al '48. Perché io sono convinto che la guerra intestina sia finita con il 18 aprile del 1948 quando De Gasperi, vincendo le elezioni, mise il Paese su un binario di tranquillità».

All'uscita il libro provocò il finimondo. Se lo aspettava?

«No, si fece molto più "rumore" di quanto all'epoca potessi prevedere. Forse in un certo senso perché il mio libro dimostrava che era errato il principio secondo cui la Storia la fanno soltanto i vincitori. Quella dei vincitori è una storia bugiarda. Solo che questo era inaccettabile per molti, e in parte è inaccettabile ancora oggi. C'era e c'è chi pensa che i fascisti avessero un solo dovere: quello di stare zitti, senza nemmeno poter ricordare i propri morti. Ma soprattutto non scrivere. Ma io non volevo una storia di parte, a me interessavano i fatti, raccontare che l'Italia rischiò di diventare l'Ungheria del Mediterraneo».

E Lei arrivava da sinistra...

«Sì, io non mi chiamavo Giorgio Pisanò. Io di Pisanò ho sempre avuto grandissima stima: è stato un pioniere in questi studi. Ma Giorgio veniva delegittimato perché veniva dal mondo del fascismo... era chiaramente un intellettuale di destra».

Alla fine Il sangue dei vinti è diventato un ciclo. Lei è rimasto a lungo in questo filone.

«Il ciclo è iniziato per essere precisi col libro precedente, I figli dell'Aquila, e poi è proseguito con altri titoli come Sconosciuto 1945, La grande bugia, I gendarmi della memoria. E se io sarò ricordato per qualcosa credo che lo sarò proprio per il ciclo del Sangue dei vinti. Me ne accorgo perché le persone mi fermano per ringraziarmi... Certo se vado in una zona dove dominano i centri sociali è l'opposto. Io dovuto smettere di andare a parlare in pubblico. Per fortuna i libri buoni si fanno strada da soli...».

Ecco, allora partendo dal tuo titolo parliamo anche dei “gendarmi della memoria”. Nell'introduzione cita Sergio Luzzatto, che con Lei era stato molto duro, e ora a causa del suo Partigia è finito sotto il tiro incrociato di altri gendarmi...

«Già quando presentai I figli dell'Aquila a Genova Luzzatto mi sottopose a un assalto verbale non indifferente... Ora lui ha scritto Partigia. Io l'ho letto e per me non racconta una storia diversa da molte altre... Certo per uno come lui significa rimangiarsi un atteggiamento che prima non ha mai voluto cambiare. Mi ha dato anche atto di aver scritto i miei libri con rispetto della verità... Ovviamente, però, appena si è messo fuori dal giro dei "gendarmi della memoria", non gliel'hanno perdonata. Infatti cosa è accaduto? Sebbene in modo più soft di come fecero con me, gli sono andati tutti addosso. Ho letto le cose velenose scritte da Gad Lerner, che credo non abbia neppure aperto il saggio. Lo ha demolito senza pietà. Anche con Il sangue dei vinti iniziarono il fuoco di sbarramento sette-otto giorni prima di avere il libro a disposizione. Ne cito due per tutti: Giorgio Bocca e Sandro Curzi... Ma non è elegante far polemica con chi non c'è più. Qualcuno arrivò a dire che avevo scritto Il sangue dei vinti per compiacere Berlusconi che mi avrebbe poi ricompensato con la direzione del Corriere della Sera... Cose deliranti. Provocate da code di paglia chilometriche. Eppure i gendarmi sanno bene che queste cose sono accadute. Io ho ricevuto in dieci anni 20mila lettere che provano quei fatti».

Faccio l'avvocato del diavolo. Non hai mai pensato che le sue inchieste siano state sfruttate, a destra, anche politicamente?

«C'è una destra fatta di persone che hanno subìto per decenni il silenzio. Sono contentissimo di averli aiutati. Ma la destra politica non aveva molti mezzi culturali per sostenere queste battaglie. Già nella Prima Repubblica si diceva che la Dc pensava agli affari, mentre il Pci ai mezzi di propaganda culturale. Le cose non sono cambiate di molto. Io non sono mai stato invitato da Fabio Fazio, e sappiamo quanto questo possa contare per un libro. Ma in fondo questo è niente. Contiamo quante cattedre di Storia contemporanea sono affidate a docenti di sinistra... Ed è una materia fondamentale».

Quanti anni ci vorranno per arrivare a un giudizio equanime su questo periodo?

«Prima o poi succederà. La Storia è una talpa che scava, prima o poi esce fuori. La verità emergerà, ammesso che si abbia ancora interesse a cercarla».

La nostra storia. Illusi e disillusi dal fascismo nel nuovo libro di Giampaolo Pansa, scrive Dino Messina su “Il Corriere della Sera”. Fascismo «autobiografia della nazione», come sostenne Piero Gobetti, oppure parentesi della storia italiana, come scrisse Benedetto Croce? Dopo aver letto il nuovo libro di Giampaolo Pansa “Eia eia alalà”, edito da Rizzoli (pagine 376, euro 19,90), abbiamo rafforzato la convinzione che avesse ragione Gobetti. Attraverso il punto di vista di un personaggio di invenzione, Edoardo Magni, proprietario terriero tra il Monferrato e la Lomellina, Pansa racconta in forma di romanzo, in pagine ricche di fatti reali, di colpi di scena (e anche di sensualità), il dramma di un popolo all’indomani del primo conflitto mondiale. Un Paese, soprattutto al Nord, dilaniato dallo scontro tra le potenti organizzazioni sindacali, un Partito socialista massimalista, e una classe borghese timorosa che l’Italia potesse fare la fine della Russia bolscevica. In questa vicenda, come sa chi ha nozioni di storia (l’autore cita i classici di Renzo De Felice e di Emilio Gentile), ebbero un ruolo fondamentale i reduci della Grande guerra, gli ufficiali che avevano combattuto per più di tre anni e che si trovarono spaesati nella nuova Italia. Reduce è il protagonista immaginario del romanzo, così come lo erano tanti personaggi storici realmente vissuti. A cominciare da Cesare Forni, tenente d’artiglieria tra i primi ad aderire ai Fasci di combattimento, protagonista della reazione agraria, a capo dei manipoli che misero a ferro e fuoco Milano con gli assalti alla sede dell’«Avanti!» e a Palazzo Marino. Un ras locale che presto si mise in contrasto con il regime, al punto da subire un’aggressione davanti alla stazione di Milano dagli stessi sgherri di Mussolini (Amerigo Dumini, in primis) che sequestrarono e uccisero Giacomo Matteotti nel giugno 1924. Due terzi del libro di Pansa sono dedicati agli albori e all’avvento del fascismo, prima che diventasse regime. È la storia di un’illusione e di una rapida disillusione, almeno per i protagonisti messi a fuoco da un grande giornalista che si è saputo reinventare come scrittore, sia di libri importanti di storia (checché ne abbia scritto qualche accademico con la puzza al naso) come “Il sangue dei vinti”, in cui ha messo in luce il lato oscuro della Resistenza, sia di romanzi come questo. La forza di “Eia eia alalà” sta anche in una narrazione della storia del fascismo, o meglio della sua «controstoria», come recita il sottotitolo, da un punto di vista locale, quello delle terre attorno a Casale Monferrato dove Pansa è nato nel 1935 e a cui ha dedicato pagine importanti. Scontri sociali e intrighi politici sono raccontati in maniera del tutto originale: voce narrante, si diceva, è il latifondista Magni, finanziatore di Forni e sempre impegnato in avventure amorose. Le sue emancipate e spregiudicate amanti hanno il ruolo di fargli aprire gli occhi sulla reale natura del regime. Attorno al protagonista si muovono figure realmente vissute come il quadrumviro Cesare Maria Vecchi o i conti Cesare e Giulia Carminati. Uno dei quadretti più spassosi è l’incontro galante fra l’avvenente contessa Giulia e un Mussolini assetato di sesso. Il Duce viene ritratto nei momenti privati, ma anche nelle stanze del potere, circondato da carrieristi e affaristi di cui ha bisogno e che non lo contrastano quasi mai, anche nelle scelte più sciagurate. L’atto conclusivo dell’affresco disegnato da Pansa riguarda le leggi razziali. Davanti alla persecuzione degli ebrei, all’indifferenza degli italiani per la sorte di quei ragazzi che non potevano più frequentare le scuole, dei professori che non potevano più insegnare, dei professionisti cacciati dai loro studi, la disillusione del protagonista diventa totale. Edoardo, un fascista in buona fede, un pavido che non ha mai saputo reagire alle nefandezze del regime, assomiglia ai milioni di italiani che, anche per quieto vivere, applaudirono il Duce e che dopo vent’anni si accorsero del disastro.

Pansa: «Partiti in crisi, sembra l’Italia prima del fascismo», scrive Antonella Filippi su “Il Giornale di Sicilia”. Non serve neppure scavare troppo: le analogie tra l'Italia di oggi e quella del primo dopoguerra, tra il 1919 e il 1922, vengono a galla con facilità. Estrema. Crisi economica, partiti inaffidabili come la casta di governanti litigiosi e inconcludenti, conflitti sociali. Deve essere un paese infrangibile il nostro, capace di resistere a tutto, se ancora, dopo quasi cent'anni, annaspa ma resiste. Nel suo ultimo libro Giampaolo Pansa, racconta quell'Italia cercando questa, contraddice teoremi, avanza ipotesi, ci consegna certezze. Sarà per questo che il suo “Eia Eia Alalà” (ed. Rizzoli), antico grido di vittoria adottato dallo squadrismo fascista, è già un best-seller. Una “controstoria del fascismo” nascosta in un romanzo. Pansa: «A un mese dall'uscita, delle 70 mila copie stampate è già stato venduto il 30%. Per aggirare la noia del saggio, ho usato l'escamotage del romanzo e ho cercato di rendere attraente la storia: Edoardo Magni è un personaggio di fantasia, un possidente terriero, prima sostenitore della rivoluzione fascista ma a poco a poco sempre più disincantato, fino a supportare il dissidente squadrista Cesare Forni che, invece, è realmente esistito. Tante incertezze quelle di Magni, accanto a una sfilza di amor che si chiamano Marietta, Rosa, Anna, Elvira. E Marianna: è lei ad aprirgli gli occhi sulle deportazioni degli ebrei ad Auschwitz». Questo paese e i suoi abitanti resistono a tutto, impermeabili a governi e crisi… «L'Italia è stata in grandissima parte attratta dal fascismo: tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo. Tutti hanno adorato Mussolini e gli hanno obbedito, almeno fino alla notte del 25 luglio 1943. Dopo la marcia su Roma, Mussolini aveva un potere assoluto: il 99% degli italiani era fascista, sbaglia chi sostiene che l'Italia non voleva la dittatura. Il Duce ha commesso errori imperdonabili, avallando le leggi razziali, alleandosi con Hitler ed entrando in guerra: se non lo avesse fatto sarebbe morto nel suo letto, e non a gambe per aria, accanto alla Petacci. Come il generale Franco che tenne la Spagna fuori dalla guerra».

Lei viene accusato di revisionismo…

«E ne sono felice, anzi vorrei esserlo ancora di più. L'accusa viene da vecchi accademici di sinistra, a fronte di un dato incontestabile: in una guerra civile ci sono due antagonisti, uno nero e uno rosso, e i caduti si trovano da entrambe le parti, non solo da quella rossa. Il mio libro “Il sangue dei vinti” ha venduto un milione di copie, e ancora la gente mi fa i complimenti per quello sguardo differente sulla guerra e i suoi morti. Essere un revisionista per me è un vanto: la storia non si può tenere sottovetro, vengono fuori nuovi archivi, si chiariscono dei misteri, emergono personaggi ritenuti secondari».

Cosa ha in comune l'Italia odierna con quella che preparò la dittatura?

«Il nostro era un paese povero, fatto di un'economia agraria. L'Italia di allora, come quella di oggi, era stremata da una crisi economica forte, scoppiata subito dopo la fine di una guerra durata tre anni, che aveva fatto un gran numero di vittime e che aveva cambiato profondamente la società italiana. Allora, come oggi, il sistema dei partiti era screditato. Ed era esploso quello che ora è latente, cioè il conflitto tra ceti. Queste simmetrie mi hanno colpito».

Quella sua convinzione che «il nero nasce dal rosso» è la risposta alla domanda: chi, dopo il mattatoio delle trincee, ha fatto nascere il fascismo?

«Dimostro che il padre del fascismo è il sinistrismo parolaio, quello degli slogan, quello violento che non poteva non sfociare nella marcia su Roma di Mussolini, primo atto verso una dittatura lunga vent'anni. Lo sciopero agrario del 1920 paralizzò le campagne. Esercitando uno strapotere dispotico, le leghe rosse arrivarono a impedire la mungitura, a timbrare le mani dei bovari, minacciando di far morire le mucche. Esplose l'odio di classe: concime che farà spuntare la pianta dello squadrismo. La sinistra si è uccisa da sola, non potevano non aspettarsi una reazione della borghesia agraria».

La nostra è una democrazia debole.

«Si sta costruendo una situazione istituzionale anomala, con un partito unico, senza opposizione: così la democrazia va in tilt. La democrazia, come la giustizia, si regge se i due piatti della bilancia sono in equilibrio o si alternano. Renzi egemonizza, procede a colpi di annunci, promesse mai realizzate, spese per cui non ci sono i fondi. L'Italia è ammalata, è come una persona che rischia una grave crisi, anche se non è esattamente in coma».

Potrebbe allora ri-presentarsi l'avventura autoritaria di un nuovo Benito Mussolini?

«Il rischio non è immediato ma c'è: con gli errori che sta commettendo, la sinistra potrebbe rendersi complice della nascita di una nuova dittatura».

L'innamoramento di Berlusconi per Renzi cosa nasconde?

«Servirebbe uno psicanalista per capirci qualcosa. Berlusconi ha la sua veneranda età: io ho solo un anno più di lui ma non ho la pretesa di dirigere un partito, preferisco stare a casa, scrivere, leggere, guardare il calcio in tv. Berlusconi ha un partito che mia nonna Caterina definirebbe “ai piedi di Cristo”, cioè spappolato, in grande difficoltà: se pensa che Renzi possa essere il suo figlioccio, sbaglia di grosso. Lui ha 78 anni, il premier 39, c'è un abisso di energie, forze. E Renzi se ne frega, cerca di utilizzare Berlusconi come stampella. L'unico punto misterioso è il rapporto di entrambi con Denis Verdini, da dove derivi a Verdini tutto questo potere, non è mai stato scandagliato, raccontato. Per capire se si muove per Berlusconi, come credo possibile, o per Renzi, come qualcuno sospetta».

Vivere è anche conservare i propri ricordi: lei ne mette tanti nel libro

«Io sono stato un orgoglioso figlio della Lupa e, solo per pochi mesi, non sono riuscito a diventare un balilla, come succedeva in terza elementare. In questo libro c'è molto della zona in cui ho vissuto, quella padana, tra Piemonte e Lombardia, ci sono i racconti delle donne che avevo accanto. Mia madre aveva un negozio, una modisteria, sulla via principale di Casale, guadagnava più di mio padre che era un capo operaio delle Poste. Io facevo i compiti in negozio e ascoltavo le chiacchiere con le clienti pettegole: quei discorsi mi tornano sempre alla memoria quando scrivo un libro. Ricordo i ponti bombardati di Casale e la mamma che, per alleggerire la tensione, diceva: “Oggi non si può morire perché dobbiamo mangiare le frittelle”. I bombardamenti sono stati a lungo tra i miei incubi».

Tasselli di verità: piccoli spiragli di luce sugli ultimi giorni di Mussolini. Da Pisanò a Pansa, i tentativi di raccontare la storia senza pregiudizi: ma la nebbia è ancora fitta, scrive Emma Moriconi su “Il Giornale d’Italia”. Ci sono vicende della storia che restano, seppure dopo molto tempo, avvolte dal mistero. Una nebbia fitta che sembra non si possa riuscire a dipanare in nessun modo. Poi, qualche volta, affiora qua e là qualche momento di luce: ma si tratta di piccoli varchi nell’oscurità. La verità, la luce piena, forse non arriverà mai. Nel corso di questi lunghi mesi abbiamo tentato di eviscerare molti aspetti delle vicende patrie che non hanno, nel tempo, trovato la giusta collocazione o che, quando sono stati chiariti ed è riuscita ad emergere la verità, si è cercato di inscatolare a dovere affinché non avessero la giusta risonanza. L’editoria, sia scolastica che non, viaggia a compartimenti stagni: è quasi impossibile reperire certi testi, per esempio. Ce ne accorgiamo quando andiamo alla loro ricerca e ci rendiamo conto che spesso si deve sapere con una certa sicurezza cosa si sta cercando, e nemmeno così è facile trovarli. In compenso, gli scaffali sono pieni di altra roba, quella si che è facile da reperire …Per sollevare un po’ di polverone sui temi scottanti della nostra storia è dovuto arrivare Giampaolo Pansa: il suo egregio lavoro di ricomposizione delle sorti di questo popolo è diventato in breve un varco nel muro del silenzio e della menzogna. Lo ha potuto fare, lui, che nasce di sinistra. Si, perché prima di lui c’è stato un altro giornalista-scrittore che ne ha dette e ne ha scritte di ogni sorta, ma i suoi volumi sono un po’ più difficili da trovare e da diffondere: si chiamava Giorgio Pisanò, ma era un fascista. E, siccome quando a scrivere è un fascista, si può serenamente far finta di nulla, quasi come se non esistesse, se a scrivere è invece uno che nasce e cresce a sinistra e ad un certo punto della sua vita decide di aprire la sua mente e di guardare oltre gli steccati imposti da decenni di demagogia, quello diventa il “nemico” da colpire, il bersaglio perfetto. Pansa non se ne cura, naturalmente, e continua nel suo lavoro di analisi di un’epoca la cui immagine storica esce distorta rispetto alla realtà: il suo recente “Eja Eja Alalà” sarà presto oggetto di un approfondimento su queste pagine. Raccontare la storia, insomma, “da fascista” è difficile, perché c’è questa tendenza diffusa ad ignorare questo tipo di voce, anche quando vengono raccontate verità eclatanti. Quando invece a parlare di “verità nascoste” sono personaggi appartenenti alla “sinistra”, essi vengono attaccati, additati, apostrofati in ogni modo, ma di certo sulle loro parole non cala il silenzio: di questi si deve per forza parlare, e meno male. La scorsa estate il quotidiano Il Giornale ha pubblicato una serie di articoli a firma di Roberto Festorazzi che fanno il punto su alcune novità emerse da documenti e testimonianze recenti: il tema è, ancora una volta, gli ultimi giorni di Mussolini e la sorte delle carte che il Duce portava con sé. Anche su questo spicchio di storia aleggia un alone di mistero, e la ragione è del tutto evidente: tutto ciò che poteva chiarire certi aspetti, e che poteva in qualche modo “riabilitare” la figura di Mussolini e del Fascismo andava fatto sparire. Abbiamo parlato a lungo (e ancora non abbastanza, però) della morte del Duce, delle ore che precedettero quell’evento, di chi orbitava intorno a lui in quei giorni e dei tanti stravolgimenti operati contro la verità di quelle ore. Un argomento sul quale torneremo a tempo debito, facendo un passo alla volta nel tentativo di ricostruire quegli strani meccanismi che andarono ad incastrarsi in quei giorni di primavera del 1945. Eppure le due vicende – la morte di Mussolini e le borse scomparse – sono indissolubilmente legate. Questa premessa è necessaria per il lavoro che ci attende nei prossimi giorni, durante i quali riepilogheremo ai nostri lettori le informazioni di cui Festorazzi è venuto in possesso. Incontreremo, nel piccolo speciale che seguirà, una serie di personaggi che, a vario titolo, sono stati attori di quel dramma: parleremo del famoso carteggio Mussolini – Churchill, dei documenti relativi alla famiglia Savoia, di misteriosi “viaggi” e di carte scomparse. Si tratta di un piccolo tassello che va a comporre l’intricato puzzle di quei giorni, un mosaico che, però, probabilmente resterà incompiuto.

“Il segreto di Italia”? Niente recensioni, è un film fascista, scrive  “L’Ultima Ribattuta”. Non sarà un capolavoro destinato all’Oscar. Ma certamente è un film di grande sentimento che squarcia, anche sul grande schermo, quelle malefatte della Resistenza che fino ad oggi erano rimaste confinate solo nei libri dei “fascisti” e di Giampaolo Pansa. Fino a poco tempo fa, quando tornavano d’attualità le stragi e i massacri compiuti dai partigiani dopo la fine della guerra, si scatenava puntualmente la bagarre: gli intellettuali antifascisti si facevano intervistare, uno dopo l’altro, nel tentativo di demonizzare chi aveva osato dissacrare la Resistenza. “Bella ciao” non poteva in alcun modo essere contraddetta. Perfino un giornalista di sinistra, ma onesto e perbene come Pansa, appunto, ha conosciuto linciaggi mediatici di ogni tipo e il boicottaggio dei suoi libri di denuncia. I vecchi e i nuovi sostenitori dell’ANPI sono arrivati ad impedirgli anche la presentazione dei volumi in varie librerie d’Italia. Non si poteva parlare neppure di guerra civile (come aveva fatto lo storico di sinistra Claudio Pavone), ma solo della “gloriosa lotta di Liberazione”. Ora che questa messa in scena non regge più e anche le nuove generazioni hanno imparato a distinguere e separare il grano dal loglio in tema di Resistenza, la tecnica è cambiata. Meglio rifugiarsi nel silenzio, nell’indifferenza. Così “Il segreto di Italia”, del coraggioso regista Antonello Belluco, non ha potuto usufruire di recensioni da parte di quasi tutti i media: giornali, televisioni (anche se “Porta a Porta” e “Sky Tg 24″ hanno accennato ai buoni contenuti del film) e radio. E nemmeno i cinema, eccezion fatta per il “Fiamma”, hanno voluto proiettare la pellicola. Soltanto qualche trafiletto qua e là, un po’ di interviste a Romina Power (unica attrice nota del cast) e poco altro. Lo stesso “Corriere della Sera” ha relegato la recensione nelle pagine locali della costola “Corriere del Veneto”. Meglio non urtare la suscettibilità dei militanti antifascisti ancora in servizio permanente effettivo. Eppure, le stragi di Codevigo (al confine delle province di Padova e Ravenna), compiute nel maggio del 1945, hanno visto le esecuzioni di centinaia di vittime, anche solo colpevoli di avere avuto simpatie fasciste. Non venne celebrato alcun processo. Uomini, donne e bambini vennero fucilati dai partigiani della “Brigata Garbaldi” sulle sponde del fiume Brenta. Soltanto 110 i corpi ritrovati, ma 365 i dispersi. Persone non “soltanto” uccise. Su alcune donne ci furono accanimenti. Seviziate, violentate e trucidate. Sono stati tanti i tentativi di boicottaggio della pellicola. Ma alla fine, almeno per una volta a prezzo di grandi sacrifici per riuscire a produrla, la verità ha avuto la meglio sul silenzio e la censura. E il film merita di essere visto.

Romina e i partigiani cattivi. Domani all’Adriano il film e il dibattito sulla strage Sul palco l’attrice americana e il regista Belluco, scrive Dina D’Isa su “Il Tempo”. Uno degli episodi più gravi tra quelli avvenuti nell’Italia nordorientale nei giorni a cavallo della resa incondizionata in Italia delle forze tedesche e fasciste repubblicane, effettiva dal 3 maggio 1945, diventa ora un film. La storia dell’eccidio di Codevigo, avvenuto tra il 28 aprile 1945 e la metà di giugno dello stesso anno, fu l’esecuzione sommaria di un numero compreso tra 114 e 136 tra militi fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), delle Brigate Nere (BN) e civili: questo il tema del film «Il segreto d’Italia» di Antonello Belluco con Romina Power (da giovedì nei cinema) che domani sera sarà all’anteprima del film (al cinema Adriano di Roma) preceduto da un dibattito nel quale sarà presente, oltre al regista, un testimone sopravvissuto a quella strage. La lavorazione del film ha subito diversi arresti: raccontare un crimine partigiano non è stato certo facile, considerando che i partigiani sono considerati sempre eroi. Ma stavolta, dopo 70 anni, la storia, le verità occultate per anni verranno a galla, anche grazie a questa pellicola di Belluco, con il soggetto scritto da Gerardo Fontana, ex sindaco di Covedigo a cui il film è dedicato dopo la sua scomparsa durante le riprese. Romina Power trasporta il pubblico indietro nel tempo, nell’Italia della guerra civile per ricordare la sua storia d’amore sullo sfondo dell’eccidio: lei a 15 anni (interpretata dall’esordiente Gloria Rizzato) era innanorata di un diciottenne, Farinacci Fontana (interpretato da Alberto Vetri), che realmente è stato una delle vittime della strage. «Il segreto di Italia», il nome della protagonista, affonda le radici in un avvenimento del suo lontano passato che, per tutta la vita, le aveva impedito di tornare nel luogo dove è nata. Ma, dopo 55 anni dagli Stati Uniti arriva a Covedigo per il matrimonio della nipote e dovrà per forza fare i conti con i suoi ricordi. «Il mio personaggio si chiama Italia - ha anticipato la Power - Una donna che ha il coraggio di affrontare i fantasmi del passato e di tornare a 70 anni nel suo paese. È stato molto emozionante rievocare questa persona che ha una ferita nell’anima, se la porta dietro dall’età di 15 anni. Dopo 7 anni (dal 2007) sono tornata al cinema perché mi è stato finalmente offerto un film interessante, commovente, profondo, trattato con delicatezza, un ruolo entusiasmante, un copione poetico anche se tragico. La verità non dovrebbe mai essere polemica, è giusto che in ogni Paese vengano fuori le verità nascoste, prima o poi la verità viene a galla, non si può nascondere ed è giusto che la gente sappia. Anche negli Stati Uniti ci sono tanti segreti nascosti che stanno venendo fuori». All’epoca, la Magistratura di Padova trattò la vicenda in numerosi procedimenti dal 1945 al 1950 e poi dal 1961-62 sulla base d’indagini condotte fin dall’inizio dalla polizia Alleata e dai Carabinieri. Furono giudicati anche quattro partigiani della 28ª Brigata Garibaldi, tutti e quattro furono assolti. I Comandi della 28ª e del "Cremona" non furono mai soggetti di procedimenti penali poiché i fatti si svolsero al di fuori e contro gli ordini da loro emanati e a loro insaputa. Alcune fonti sostengono che all’eccidio avvenuto in varie località in prossimità di Codevigo, parteciparono elementi provenienti dalle formazioni partigiane locali e militari inquadrati nel gruppo di combattimento "Cremona", unità dell’esercito italiano alle dipendenze dell’VIII armata Britannica, sotto il cui comando era anche la 28ª Brigata Garibaldi "Mario Gordini", comandata da Arrigo Boldrini, detto Bulow, che divenne segretario nazionale dell’ANPI, poi presidente onorario e, nel dopoguerra, deputato e senatore per il PCI. Ci furono 136 vittime totali, non tutte identificate (ne furono identificate con certezza 114, ma furono probabilmente oltre trecento), trucidate per vendetta, previo giudizio sommario, morte in scontri a fuoco tra cui vittime seviziate. I corpi vennero abbandonati nelle acque, sepolti in fosse comuni, lasciati nei campi: di questi, molti scomparvero. E ora riposano nell’Ossario del cimitero di Codevigo, aperto nel 1962. Gianfranco Stella, autore - tra gi altri - di «Ravennati contro» e di «Crimini partigiani» ricordò che «i testimoni oculari raccontavano come per liberare il fiume Bacchiglione dai cadaveri avessero usato mine anticarro». Mentre Giampaolo Pansa nel suo libro «Il sangue dei vinti» rievoca la maestra del paese, Corinna Doardo, «una fascista non fanatica, piuttosto un’ingenua», che fu rapata a zero e costretta a camminare per le vie del centro con una coroncina di fiori in testa prima di venire uccisa: di lei il medico poté accertare che solo un orecchio era rimasto intatto. Atroce anche il caso di Mario Bubola, figlio del podestà fascista di Codevigo, torturato: la lingua tagliata e infilata nel taschino della giacca, poi evirato dei testicoli che gli furono messi in bocca.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: "Vi racconto la mia Casale uccisa al rallentatore". L'Eternit una fabbrica della morte? Per chi ha vissuto e vive lo strazio dei poveri cristiani uccisi dall'amianto, è molto, molto di più. E'un inferno che dura da tantissimi anni. Dapprima senza che nessuno se ne accorgesse, poi nell'impotenza di fermare in qualche modo un demonio che finora è stato capace di accoppare duemila persone o giù di lì. Una strage da film catastrofico in una città che non ha mai superato i quaranta mila abitanti. Ma soltanto chi è nato a Casale Monferrato, la sede centrale dell'Eternit, può sentire dentro di sé tutto l'orrore di questo assassinio al rallentatore, impossibile da contrastare. Nel passaggio fra l'Ottocento e il Novecento, i poveri del Monferrato avevano tre possibilità. La prima era di lavorare nelle cave di marna. Lo facevano in condizioni bestiali, consumando la vita sottoterra, senza protezione, rischiando di morire bruciati dallo scoppio del grisou o soffocati sotto una delle tante gallerie franate. Le paghe erano misere e la fatica immensa. I cavatori rientravano a casa di notte, nei paesi del Monferrato, disfatti, terrei, senza altro orizzonte che scendere di nuovo nel buio dopo poche ore. "I sepolti vivi" li aveva chiamati nel 1913 La Fiaccola, il settimanale socialista della città. La seconda occasione di lavoro arrivò dallo sfruttamento delle ottime marne calcaree, portate alla luce dai cavatori. Era la materia prima della calce e del cemento. E regalò alla città il boom dei cementifici. All'inizio del 1900 queste fabbriche erano più di cento. Vista dall'alto della salita di Sant'Anna, un eremo frequentato da morosi in camporella e da amanti clandestini, Casale offriva un profilo infernale. Quello di una sterminata batteria di ciminiere, affilate come missili. Cento bocche di fuoco sparavano un fumo sempre più denso e acre. I tetti delle case diventavano bianchi per la polvere. Nella calura estiva l'aria si faceva irrespirabile. E gli anziani stavano sempre sul punto di morire asfissiati. Nel 1906 emerse una terza possibilità per i poveri della mia città. Un pugno di imprenditori genovesi, "i maledetti" come ringhiava mia nonna Caterina, impiantarono a Casale una fabbrica all'avanguardia. Produceva tegole piane fatte di cemento e di amianto, grazie al brevetto di un austriaco. L'invenzione venne chiamata Eternit poiché garantiva una durata eterna del prodotto. Non era una bufala dal momento che siamo ancora circondati da quella robaccia vecchia di un secolo. Dalle tegole si passò alle lastre ondulate. Poi ai tubi per gli acquedotti e le fognature. E lo sviluppo dell'azienda fu trionfale. L'Eternit arrivò ad occupare 2.400 persone, ma quelle che ci sono passate pare siano state quasi cinquemila. Fu la nostra Fiat. Lavorarci era un privilegio. Anche perché le paghe erano un tantino più alte che in altre aziende. I padri chiedevano alla figlie in età da marito: "Dove lavora questo tuo moroso?". "All'Eternit" rispondeva la ragazza, orgogliosa. "Allora sposalo" concludeva il papà. E spiegava alla moglie: "Il certificato di matrimonio avrà il valore di una polizza a vita". Andò a lavorare all'Eternit anche il fratello più giovane di mio padre, l'ultimo di sei bambini orfani. Francesco Pansa, classe 1901, a quindici anni diventò operaio nella fabbrica dell'amianto. Poi divenne un addetto al montaggio dei grandi tubi, soprattutto in Bassa Italia. Era un ragazzo attivo ed estroso. Ad un certo punto ne ebbe abbastanza dell'Eternit ed emigrò in Argentina. Di lì scriveva a sua madre Caterina che le donne di Buenos Aires erano tutte belle e compiacenti. Però Caterina era analfabeta e doveva farsi leggere le lettere da una delle figlie che saltava sempre le righe dedicate agli amorazzi. Dopo due anni di Argentina, Francesco Pansa ritornò a Casale, sempre nella fabbrica della morte. Da quell'inferno lo tirò fuori la fidanzata, Giuseppina detta Pinota. Era la dodicesima figlia di un pescatore del Po. E aveva una sola dote: la licenza per aprire un'osteria. Nel frattempo Francesco era diventato comunista, il capo della cellula di Porta Po. Quando morì non risulta che sia stato ucciso dall'amianto. Ma il veleno nascosto nell'Eternit seguitava a infettare la città. Da ragazzino me li ricordo anch'io i camion gialli carichi dei tubi e delle coperture ondulate. Li trasportavano dallo stabilimento alla stazione ferroviaria. Viaggiavano attraverso la città senza nessuna protezione, neppure un telone che coprisse il carico. Soprattutto nei mesi caldi gli autocarri procedevano dentro una nube di polvere. Era la schifezza ambulante che tutti respiravamo, senza renderci conto del rischio che si correva. Andò avanti così per molti anni. Passavano i regimi politici. Dal socialismo municipale al fascismo, poi alla Repubblica sociale, quindi si tornava alla democrazia, ossia alla Dc di De Gasperi e al Pci di Togliatti. Soltanto l'Eternit sopravviveva, potente e impenitente. Era la padrona della città. Un esempio del capitalismo senza regole che diventa dittatura. Il mostro chiuse i battenti nel 1986, per fallimento. Si estendeva su 94 mila metri quadrati, metà dei quali coperti con quel prodotto assassino. Era una bomba nucleare sul fianco destro del Po. In seguito si scoprì che la lavorazione dell'amianto aveva creato una nuova spiaggia lungo il fiume. Aveva un colore innaturale, bianco brillante. Un grande velo da sposa che nascondeva un numero spaventoso di cadaveri. Ho detto che l'Eternit ha ammazzato a Casale all'incirca duemila persone. Di queste, duecentocinquanta o trecento erano uomini e donne che non avevano mai messo piede nella fabbrica. Spesso abitavano in quartieri lontani. E facevano altri lavori. Si ritenevano al sicuro, ma si sbagliavano. Il mesotelioma ha ucciso pure chi aveva lasciato la città da giovane, senza più ritornarci. Tra questi c'è anche un giornalista che voglio ricordare: Marco Giorcelli, il direttore del bisettimanale cittadino Il Monferrato. Era l'opposto del capociurma impassibile e cinico. Un uomo cortese, riservato, ma tenace. Sempre in prima fila nella battaglia contro l'Eternit. Aveva pubblicato anche l'elenco di tutte le vittime dell'Eternit, una sterminata Spoon River dell'amianto. In quella lista mancava un nome: il suo. Lui morì ucciso a 51 anni dal mesotelioma, dopo una lunga e crudele agonia vissuta con grande dignità. Il ricordo di Marco mi obbliga a un pensiero sul mio conto. Sono nato a Casale nel 1935 e ho vissuto lì sino al 1960, quando mi sono trasferito a Torino per lavorare alla Stampa. Dunque ho respirato amianto per venticinque anni. Grazie al Padreterno sono ancora qui a scrivere. Sento dire che l'effetto Eternit può presentarsi anche dopo tantissimo tempo. La provano i miei concittadini che seguitano a morire. Certo, sono un sopravvissuto. Ma per quanto tempo ancora?

Guerra civile? Siamo ad un passo, come nel primo dopoguerra..., scrive Aldo Grandi su “La Gazzetta di Lucca”. Ha ragione Giampaolo Pansa, grande scrittore, grande giornalista, amato a sinistra fino a quando scriveva ciò che faceva loro piacere, odiato e ritenuto rincoglionito quando ha cominciato ad aprire gli armadi di un partito, quello comunista, che, al di là di indubbi meriti, ha avuto anche la colpa di nascondere volutamente tante di quelle nefandezze che Dio solo lo sa e, forse, neppure lui. La situazione politica attuale ricorda molto da vicino il primo dopoguerra, poco prima dell'avvento del cosiddetto biennio rosso e della reazione di agrari e industriali che determinò l'avvento del fascismo. Da un lato la piccola borghesia, unitamente alla media e alla grande - ammesso che esistano ancora da qualche parte - assediati e timorosi di perdere tutto ciò che avevano foss'anche quel poco che era loro rimasto. Dall'altro le classi subalterne, operaia in testa, ritornati dalla guerra con un pugno di mosche in mano, abbandonati nelle loro illusioni e delusi dalle promesse mancate. Ebbene, tutti sanno come andò a finire. Oggi, a distanza di un secolo, la situazione non è cambiata di molto. E' vero, non c'è stata una guerra e questa, probabilmente, è una fortuna altrimenti chissà quanti avrebbero già imbracciato il fucile. Tuttavia c'è una classe che potremmo definire eterogenea, ma composta di elementi produttivi che vanno dall'operaio - inconsapevole e strumentalizzato dai sindacati - dell'industria privata al commerciante, dal libero professionista all'imprenditore, dall'artigiano al coltivatore diretto. Tutti questi soggetti contribuiscono al mantenimento dell'altra parte, quella composta dal pubblico impiego, che produce poco o nulla e rappresenta la zavorra che appesantisce lo Stato. Dispiace doverlo rimarcare, ma la realtà, al di là delle distinzioni necessarie, è questa. Il pubblico impiego, nella stragrande maggioranza, è parassita ossia vive a spese dell'organismo produttivo di ricchezza. Se, poi, qualcuno aggiunge che - vedi scandali romani - il privato corrompe il pubblico che a sua volta ricompensa il privato, ha ragione da vendere, ma questa, purtroppo, è la cruda verità alla quale dobbiamo guardare senza indulgenza e senza indugio. Da un lato, quindi, chi paga tasse e imposte guadagnandosi il reddito senza avere alcuna garanzia di averlo ogni 27 del mese, dall'altro chi, tranquillo e rilassato, il 27 del mese si infila in tasca, venga giù anche il diluvio universale, il suo bello stipendio. Operai che vengono licenziati dall'industria privata costretti a farsi difendere da sindacati che appoggiano anche le pretese del pubblico impiego il cui deficit e il cui buco enorme sono all'origine del licenziamento e del fallimento dell'economia italiana rispetto a quella degli altri paesi. Una tassazione al 56 per cento, imposte anche su quante volte uno va sulla tazza del cesso, un assessore, a Lucca, tale Raspini, figlio di un notaio e, probabilmente e presumibilmente senza problemi di natura economica, ex dipendente del ministero dell'Interno, pare in aspettativa per fare l'assessore - il sindaco Tambellini, dicono le malelingue, deve aver ringraziato il papà notaio che gli mise, in campagna elettorale e pare senza spendere alcunché, i locali per la sede del comitato elettorale - il quale sostiene che le tasse vanno pagate e che si tratta di un dovere. E chi lo ha mai messo in dubbio? Ma quali sarebbero i servizi che la sua giunta di bradipi, né più né meno di quelle che l'hanno preceduta, danno in cambio? Che servizio è quello che a S. Alessio, terra natìa dell'agricoltore Tambellini, impedisce a chiunque voglia usare il telefono cellulare, di poterlo fare solo perché il primo cittadino predilige e preferisce, per mandare messaggi e fare opera di comunicazione, il piccione viaggiatore? Troppo semplice, caro Raspini, installare un'antenna? La gente protesta perché ha i villoni e non vuole fastidi? Allora venite a metterla dentro casa del sottoscritto l'antenna, nel suo giardinetto, ma almeno tutti potranno usufruire di un servizio che, in altre città, è una ovvietà. Ma il Raspini, che quando incontra il sottoscritto fa finta di non vederlo per non doverlo salutare - e fa bene - sa cosa vuol dire alzarsi la mattina e non sapere se, a fine mese, hai i soldi non solo per mangiare, ma per mantenere questa classe di parassiti che frequenta il pubblico impiego? Ha soltanto lontanamente idea di cosa significhi giocare tutto su se stessi senza avere lo stipendio garantito? Sa quale senso di frustrazione colpisce ciascuno di noi quando, incassando 100, sa che almeno 60 finisce nelle casse di uno Stato non solo vorace, ma rapace? E noi dovremmo avere il senso dello Stato? Ma di quale Stato? Quello di Andreotti, di Craxi, di Forlani, del Caf di una volta o del Pci e di Berlusconi che anche loro tutto hanno preteso e molto hanno mangiato? Quello di San Matteo che lascia entrare 150 mila clandestini una piccola parte dei quali gira per le strade di Lucca chiedendo l'elemosina? E' questo il vostro esempio di solidarietà e progresso? E avete il coraggio di sparare merda su Grillo: l'unico che, almeno, quando parla e fa un comizio vale il prezzo del biglietto. Chi scrive, caro Raspini, si augura che, finalmente, prima o poi, presto o tardi, il sistema esploda anzi, imploda su se stesso e che saltino tutte le contrattazioni sindacali, saltino i diritti acquisiti che di acquisito non hanno un cazzo per il semplice motivo che la vita non è una condizione di staticità, ma di movimento permanente, che i mediocri e i parassiti vengano assegnati ai ruoli che competono loro, che il lavoro sia, veramente, fonte di soddisfazione, ma anche prodotto di meriti e non soltanto una pretesa. Défault? Magari. Bancarotta? Speriamo. Rimettiamoci tutti in gioco, salvo chi, veramente, è più debole, ma tutti gli altri, i falsi, gli ipocriti, i ladri, i truffatori, i millantatori, mettiamoli, metaforicamente, al muro e, poi, lasciamoceli per un bel po'. Vedrete che anche loro, quando si accorgeranno di essere rimasti indietro, inizieranno a correre.

Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quntunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della liberta. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata.

Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti.

L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica.

Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile.

Il racconto di Giampaolo Pansa: "Così muore una spia fascista".

L'anticipazione di "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti". Il nuovo racconto dell'orrore che distrugge la leggenda della superiorità morale dei partigiani. E "Il sangue dei vinti" divenne una pioggia rossa. Le anticipazioni del libro di Pansa nel racconto dell'amore impossibile di Anna, iscritta al Pfr, che sfuggì ai camerati per finire in mano ai comunisti. Per gentile concessione dell’editore, su “Libero” pubblichiamo l’introduzione del nuovo libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pp. 446). Pansa torna ad occuparsi della guerra civile italiana, e lo fa smontando la leggenda rossa per cui i partigiani sono sempre stati considerati moralmente superiori rispetto ai militi della Repubblica sociale. Questo libro, bello e coraggioso, arriva quasi dieci anni dopo Il sangue dei vinti, l’opera con cui il grande giornalista ha incominciato il suo viaggio tra le verità nascoste del periodo storico seguito alla caduta del regime fascista. Quel volume, divenuto un bestseller, attirò a Pansa critiche pesanti e attacchi feroci. Ora La guerra sporca completa il suo appassionato racconto, a metà tra l’inchiesta e il romanzo.

"Questo libro va contro una leggenda che resiste inalterata da un’infinità di anni. La leggenda sostiene che esistano guerre sporche e guerre pulite. La mia opinione è diversa: tutti i conflitti armati sono sporchi delle vite sottratte a chi vi partecipa o ne rimane coinvolto. In ogni caso, su entrambe le parti in lotta cade sempre una pioggia rossa: una pioggia di sangue. Da dove mi arriva questa immagine? Anni fa avevo scritto un libro su un personaggio quasi sconosciuto: il sardo Andrea Scano, un partigiano comunista espatriato di nascosto in Jugoslavia dopo la conclusione della guerra civile. Era ricercato dai carabinieri perché raccoglieva armi e munizioni in vista di una rivoluzione proletaria.

Dopo essere vissuto da latitante a Fiume, ormai diventata una città jugoslava, era finito nel gulag più orrendo del maresciallo Tito, quello creato a Goli Otok, l’Isola Calva. E qui era rimasto per tre anni, torturato da una sequenza infinita di orrori". Inizia così l'introduzione di Pansa de La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti, il racconto degli orrori della guerra civile in cui la celebre firma del giornalismo italiano smonta la leggenda della superiorità morale dei partigiani. L'intera, lunga e appassionante introduzione potete leggerla sul quotidiano in edicola oggi, domenica 7 ottobre.

Noi, intanto, vi proponiamo ampi stralci del prologo del libro, ampi stralci di uno dei racconti, dal titolo La fascista e il partigiano, in cui Pansa racconta come muore una spia fascista di Giampaolo Pansa.

Anna C. era la ragazza fascista. Una maestra elementare di 22 anni, alta, bionda, occhi azzurri, con un viso da madonna e dal contegno riservato. Il suo corpo, invece, era da schianto. Aveva un seno prorompente, fianchi ben torniti, gambe muscolose, caviglie sottili. Assomigliava alle donne di un disegnatore alla moda, Gino Boccasile: le signorine Grandi Firme. Nel volto da ragazza perbene spiccava una bocca sensuale, le labbra perfette, con un contorno accentuato dal rossetto. A renderla ancora più attraente era la castità. Molti non ci credevano, ma Anna era illibata, pudica e senza malizia. La famiglia veniva ritenuta tra le più religiose della città. Il padre dirigeva l’anagrafe comunale. La madre insegnava matematica al liceo scientifico. Tutte le domeniche andavano alla messa grande in Duomo, quella delle undici, celebrata dal vescovo.

(...) Quando ebbe inizio la guerra civile, Anna volle subito iscriversi al Partito fascista repubblicano. I genitori cercarono di dissuaderla.

Era la loro unica figlia e volevano preservarla dalla tempesta che sentivano imminente. Ma i tentativi dei famigliari fallirono. Anna era una fascista convinta. E spiegò ai suoi che aveva il dovere di stare a fianco dei camerati che difendevano la patria dagli inglesi, dagli americani, dai sovietici e dai ribelli comunisti al soldo di Mosca. In quel momento, era il novembre 1943, non esisteva ancora il corpo delle Ausiliarie. Ma il segretario del fascio cittadino accolse Anna a braccia aperte. Era un commerciante sui cinquant’anni, già squadrista, rimasto sempre fedele a Mussolini. Non aveva mai messo in mostra fanatismi né eccessi violenti. E si era mantenuto così pure in un’epoca dove la voglia di uccidere l’avversario sembrava diventata la prima fra le virtù. La ragazza continuò a insegnare alle elementari e cominciò a passare il tempo libero nella sede del Pfr. Qui pensarono di utilizzarla nell’assistenza ai militari che avevano aderito alla repubblica. E nelle opere di beneficenza del partito, come la Befana fascista e l’aiuto alle famiglie bisognose.

Tra i suoi incarichi ci fu anche quello di visitare ogni settimana il carcere giudiziario della città. Era una prigione piccola, a pochi passi dal centro, sul limite dei vasti giardini pubblici. Vi stavano rinchiusi delinquenti di mezza tacca. Ladri, ricettatori, borsaneristi pizzicati mentre trafficavano. Insieme a loro, si trovavano quattro o cinque detenuti politici. Erano partigiani o renitenti alla leva, catturati dalla Guardia nazionale repubblicana. Avevano la sorte segnata: prima o poi li avrebbero deportati in Germania. E si sapeva quale destino avrebbero incontrato. Anna andò a visitare anche loro. Ma si rese subito conto che la sua presenza non era per niente gradita. Veniva accolta in malo modo, con insulti e risate di scherno. Non mancavano mai le proposte indecenti e i gesti volgari. La ragazza faceva di tutto per non eccitarli. Indossava grembiuloni grigi, senza forma. Però neppure questo era servito.

Soltanto uno dei detenuti politici la ricevette in modo diverso. Era un partigiano piccolino, magro, con l’aspetto dell’adolescente, anche se spiegò ad Anna di avere 21 anni. Il suo stato spaventò la ragazza. Durante o dopo la cattura, l’avevano pestato senza misericordia. Lo si capiva dal viso, ancora gonfio per le botte. E dalla difficoltà nel restare ritto in piedi. Disse ad Anna di chiamarsi Pietro S. e di essere originario della provincia di Napoli. L’armistizio dell’8 settembre l’aveva sorpreso mentre era sotto le armi, in un reparto di fanteria stanziato ad Alessandria. Dopo essersi nascosto per un paio di mesi, si era aggregato a una delle prime bande della Garibaldi. Di fare il ribelle non gli importava, però non poteva neppure ritornare al proprio paese, ormai al di là del fronte. Dopo le prime visite di Anna, il ragazzo le confessò di vivere nel terrore che lo spedissero in un lager tedesco. Immaginava che lì avrebbe incontrato una fine lenta, tra sofferenze atroci: la fame, la sete, la perdita di ogni volontà, la scomparsa della sua dignità di essere umano. Quando Anna entrava nella cella, Pietro scoppiava in lacrime. Un giorno la pregò di procurargli del veleno per uccidersi. Lei si rifiutò. Allora il partigiano cominciò a implorarla di farlo uscire dalla prigione. Anna replicò che era una proposta folle. Il ragazzo le urlò: «Se è così, lasciami perdere, non venire più a visitarmi!».

Anna non disse nulla a nessuno. Ma continuò a pensare al partigiano e alla sua disperazione. Il pensiero divenne una costante fissa delle proprie giornate. Anche prima di addormentarsi, vincendo l’ansia da ragazza inerme in un mondo pieno di cattiveria, rifletteva sulla richiesta di Pietro. E alla fine maturò una decisione: doveva aiutarlo a fuggire dal carcere. Poiché non era una sciocca, Anna sapeva che, se fosse riuscita nell’intento, anche lei avrebbe dovuto sparire. Lasciando l’esistenza di sempre e gettando i genitori nello sconforto. E forse alle prese con una ritorsione violenta dei suoi camerati, pazzi di rabbia per essere stati traditi.

Poi si chiese perché le importasse tanto la salvezza di quel ribelle.

E si diede una risposta: senza rendersene conto, giorno dopo giorno si era innamorata di lui. Prima di allora non aveva mai conosciuto l’amore. Adesso l’aveva incontrato nella condizione più difficile. (...) Anna ideò un piano di fuga molto semplice. Aveva notato che i tre militi di guardia alla prigione si davano il cambio verso le nove di sera, quando era già buio. Il carcere restava sguarnito per cinque minuti. Non avrebbe dovuto esserlo, ma la città era sempre stata tranquilla, un luogo dove non accadeva mai nulla. La ragazza s’impadronì delle chiavi che aprivano le celle. E una sera del maggio 1944 fece uscire Pietro. Lo trascinò fuori e lo spinse sul retro della prigione, dove aveva nascosto due biciclette.

Le inforcarono e sparirono dentro i grandi giardini pubblici, in quell’ora deserti. Poi presero una strada secondaria che portava alle colline. Pedalarono come forsennati, lei con il cuore in gola, lui pazzo di felicità. Pietro sapeva dove dirigersi perché la banda partigiana stava accampata in una località non lontana. Verso la mezzanotte arrivarono a una piccola cascina isolata. Pietro bussò, gridò il suo nome e un contadino gli aprì. Doveva conoscere il ragazzo perché lo abbracciò e lo fece entrare insieme ad Anna.

L’uomo non gli rivolse domande sul conto della bellezza bionda che lo accompagnava. Diede da mangiare a entrambi. Poi li guidò in un angolo della soffitta dove era sistemato un pagliericcio. Fu alla luce flebile di una lampada a petrolio che Anna e Pietro si amarono. Lei confessò al ragazzo di essere vergine e lui la trattò con delicatezza. Si addormentarono verso l’alba, spossati. La ragazza comprese di essere felice come non lo era mai stata. E ringraziò la Madonna per averle dato il coraggio di compiere quel passo, così intenso e bello.

Il brutto emerse il giorno dopo, quando nessuno dei due se l’aspettava. Nel primo pomeriggio arrivarono al campo della banda partigiana di Pietro. I compagni accolsero il ragazzo con urla di entusiasmo. Era un prigioniero che ritornava libero, grazie all’aiuto di quella ragazzona. Anche lei venne festeggiata. Il clima cambiò quando si fecero vivi il comandante e il commissario politico della banda. Il primo era un giovane ufficiale dell’esercito, il secondo un operaio comunista. Vollero sapere da Pietro in che modo era riuscito a evadere e chi fosse la ragazza che l’aveva aiutato. Lui raccontò la verità. E commise l’errore di aggiungere che Anna era una fascista, decisa a fuggire insieme a lui. I due capi gli fecero ripetere la storia dell’evasione. Pietro obbedì, senza mai contraddirsi. Del resto quanto andava dicendo era tutto vero. Ma nella guerra civile, un conflitto senza pietà per nessuno, poteva essere difficile far trionfare la verità. Pietro lo comprese quando cominciarono a rivolgergli domande gonfie di sospetto. I fascisti non ti avranno mica liberato per farti ritornare alla banda e spiarci? La ragazza non sarà una spia anche lei? Chi ci dice che non ti abbia fatto uscire dal carcere per conto dei suoi camerati? Pietro si difese, mentre Anna cadde in preda al terrore. Il commissario politico sembrava propenso a credere al racconto del ragazzo. Non così il comandante, sempre più diffidente. Pensava di avere di fronte un traditore e una fascista che fingeva di essere un’ingenua mossa soltanto dall’amore. Il partigiano comprese che cosa stava per accadere. Si scaraventò fuori dalla baracca dell’interrogatorio, gridò ad Anna di seguirlo e si mise a correre come un disperato.

Riuscirono ad afferrare le biciclette, però non fecero molta strada.

La fuga sembrò al comando un’ammissione di colpa. Vennero ripresi e rinchiusi in un capanno. Quella stessa notte Pietro e Anna furono condotti in un bosco vicino, con le mani legate dietro la schiena. Li affiancava un ribelle sui trent’anni, incaricato di giustiziarli. Arrivati nella boscaglia, l’uomo accoppò Pietro con una rivoltellata alla nuca. Ma non uccise Anna. Non aveva cuore di ammazzarla. Si limitò a colpirla alla testa con il calcio della pistola.

La ragazza perse i sensi. E non si accorse di venire caricata su un calesse sgangherato, accanto al cadavere di Pietro. Il partigiano li trasportò in un paese vicino. Qui furono scaricati sul selciato della piazza. Con un cartello che diceva: «Così muoiono le spie fasciste».

Così il fascismo ha travolto il debole liberalismo italiano. Il saggio di Vivarelli sugli anni 1918-22 ribalta il luogo comune della storiografia socialista: il movimento del Duce non fu affatto "il braccio armato della borghesia". Così scrive Giampietro Berti su “Il Giornale”. Sebbene sia impossibile sintetizzare, con una citazione, l'imponente ricerca storica portata a termine da Roberto Vivarelli con la sua monumentale opera sulla nascita del fascismo, Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla grande guerra alla marcia su Roma (Il Mulino, pagg. 544, euro 36; i primi due volumi sono apparsi rispettivamente nel 1967 e nel 1991), pensiamo di non forzare il suo pensiero se riportiamo questa frase: «Il carattere distintivo del movimento fascista sin dalle origini, non è l'antisocialismo, ma l'antiliberalismo». Giudizio, come si vede, che rovescia la vulgata della storiografia di sinistra secondo cui il movimento politico creato da Benito Mussolini sarebbe stato il braccio armato della borghesia per arrestare l'avanzata del movimento operaio e socialista. Se si analizzano gli anni del primo dopoguerra, si deve constatare che una parte della borghesia (specialmente gli agrari), spinta dalla paura di un possibile avvento della rivoluzione comunista in Italia, appoggiò Mussolini nella convinzione - del tutto errata - che questi, una volta neutralizzato tale pericolo, si sarebbe «costituzionalizzato», accettando lo Stato liberale. Tuttavia il fascismo non può essere ridotto a una semplice reazione antioperaia; certamente fu anche questo, ma soprattutto fu l'espressione italiana di un fenomeno nuovo della storia europea: il totalitarismo, la cui prima formulazione aveva visto la luce con la vittoria bolscevica in Russia. Il socialismo è stato certamente una vittima del fascismo, ma ancor più lo è stato il regime liberale. Dal lavoro di Vivarelli - la più importante e circostanziata opera storiografica mai realizzata sul quinquennio 1918-1922, basata su ricerche durate oltre mezzo secolo - si evince in modo indubitabile che l'avvento totalitario venne provocato dal logoramento dello Stato liberale, incapace di rinnovarsi. Questa insufficienza spiega la debolezza dei governi del primo dopo guerra - da Nitti a Giolitti, da Bonomi e Facta -, che risultano incapaci di reprimere le crescenti violenze perpetrate da destra e da sinistra; rotture della legalità che hanno avuto il risultato di rendere legittima, agli occhi di un popolo democraticamente immaturo, la sua ripetuta violazione. Di qui una serie di contraccolpi politici, sociali e psicologici intrecciati fra loro: il sentimento patriottico offeso dall'internazionalismo socialista, il terrore dei ricchi per la proprietà pericolante, gli odi della classe media contro gli operai e i contadini, il bisogno diffuso di ordine e sicurezza, il mito della vittoria mutilata, l'isterismo della novità. Il crollo dello Stato liberale parte dunque da qui, cioè da un disfacimento interno accentuato dagli effetti devastanti prodotti del conflitto bellico. Mussolini non avrebbe mai preso il potere senza l'aiuto, del tutto insperato, della guerra (ma ciò vale anche per Lenin e, più tardi, per Hitler). Questa, incrinando la centralità del sistema monarchico, impedendo una giusta sedimentazione del suffragio universale maschile e, per ultimo, accendendo uno scontro civile fra parti opposte, contribuì in modo decisivo a distruggere il potere dell'oligarchia dominate. La guerra mise in moto il fenomeno profondo, insondabile e incontrollabile della violenza. Su quest'onda il fascismo operò un salto di qualità del tutto sconosciuto rispetto ai precedenti governi liberali perché espresse una concezione radicalmente contraria allo spirito borghese e alla società capitalistica, una concezione della vita e del mondo alternativa al liberalismo individualistico ed edonistico, intrisa del culto dell'azione, della forza, refrattaria alla visione materialistica, all'urbanesimo industriale. Si può dire quindi, complessivamente, che nel Novecento la divisione decisiva non passa tra fascismo, nazismo e comunismo, o tra destra e sinistra, ma tra libertà e non libertà, cioè tra la liberaldemocrazia e i totalitarismi. Un insieme interpretativo, come si vede, che esula dall'analisi di classe propria dell'antifascismo di maniera. Vivarelli ci mostra anche che il quadriennio 1919-1922 vide morire la democrazia ancor prima di nascere. Dall'Unità fino all'età giolittiana non è possibile riscontrare un vero sviluppo democratico. Lo confermano, sia pure con modalità diverse, Depretis, Crispi e Giolitti, il cui equilibrismo trasformistico non riuscì ad assorbire le spinte provenienti dal basso. Dopo il 1918 il liberalismo si trova privo di difese perché la vecchia classe dirigente, essendo delegittimata, non ha più la forza e l'autorevolezza per governare, mentre le nuove forze politiche sono, per gran parte, estranee al suo ethos (soprattutto lo sono i socialisti, meno i popolari).È stato possibile attuare un colpo di Stato perché la stragrande maggioranza degli italiani, pur essendo avversa al movimento dei fasci, era indifferente alla vita e al mantenimento dello Stato liberale. Il crescendo di violenze, iniziato con la spedizione di Fiume, trova il suo approdo nella marcia su Roma. Il fascismo è il risultato logico di questo processo.

E con la pace, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Il fascismo secondo Giampaolo Pansa. Intervista pubblicata su Il Messaggero di Federico Guiglia. All’epoca dell’Italia che gridava eia eia alalà, Giampaolo Pansa era un bambino. “Ma quel grido lo sentivo di continuo”, ricorda il giornalista e scrittore. Ha appena pubblicato un libro che proprio quelle parole riporta in copertina: Eia eia alalà, controstoria del fascismo, Rizzoli editore. Un racconto sul passato per dire del presente: guardate che cos’è successo, e può ancora succedere, lui dice. “Quando il fascismo è caduto, io avevo sette anni e mezzo ed ero figlio della Lupa a Casale Monferrato”, riprende il filo del discorso. “Ho pure una foto scattata da mio padre davanti al monumento ai Caduti della prima guerra mondiale, in cui apparivo vestito in quel modo un po’ ridicolo con fasce bianche e camicia nera e facevo il saluto romano. Insieme con la canzone “Giovinezza, giovinezza, primavera di bellezza”, eia eia alalà era un po’ il “jingle” del fascismo”.

“Il nero nacque dal rosso” è la riflessione-chiave dei personaggi del libro (dall’immaginario possidente terriero Edoardo Magni al suo - suo di Pansa -, edicolante citato in prefazione). Ma socialisti e fascisti erano nemici irriducibili: come fa a imputare ai primi la nascita dei secondi?

“Guardiamo le date. Nel 1915 per noi comincia la prima guerra mondiale, che finisce nel novembre del 1918. I soldati tornano a casa e la grande maggioranza di loro erano poveracci e contadini. S’assiste all’espansione politica e sindacale della sinistra di allora. C’era il Partito socialista. C’erano le leghe operaie e contadine che nell’Italia della pianura padana si svilupparono molto. Dopo la prima vittoria elettorale del Partito socialista, comincia quello che Pietro Nenni chiamò il biennio rosso. Non soltanto una serie di scissioni a sinistra, ma soprattutto questi matti delle leghe che annunciavano l’arrivo del bolscevismo e della rivoluzione. Dicevano che l’Italia doveva fare come Lenin. Violenze dappertutto, in particolare nelle campagne. Basta ricordare il grande sciopero agrario del 1920, quando le leghe rosse, per piegare i proprietari agricoli, ordinarono ai braccianti e ai mungitori di lasciar morire le vacche per non essere munte”.

Sta dicendo che, per paura del rosso, gli italiani diventano neri?

“A ogni azione corrisponde una reazione. E’ quello che non hanno capito le sinistre, la frazione che nel 1921 fondò a Livorno il Partito comunista, i massimalisti. L’hanno capito un po’ i socialisti riformisti e l’hanno scritto su loro giornale, La Giustizia. Non è che il fascismo è un mostro che nasce per caso. E’ un mostro che viene creato dai suoi avversari, che fanno di tutto per spaventare la borghesia”.

La sindrome per l’uomo solo al comando ha colpito una volta sola o può colpire ancora il sentimento, le paure, il conformismo di tanti italiani?

“La sindrome la vediamo anche oggi. Quando un presidente del Consiglio invece di rivolgersi al Parlamento si rivolge alla gente e vuole essere solo a decidere, il rischio c’è sempre. E’ proprio uno dei motivi per cui ho scritto il libro. Com’era l’Italia del 1920/21? Stremata dal punto di vista economico dopo una guerra mondiale pazzesca. Aveva una classe politica, oggi diremmo una casta, screditata, ritenuta imbelle e corrotta. E poi c’erano i conflitti sociali. Ci sono affinità con l’Italia di oggi? Temo di sì. E poi gli italiani sono gente che ama essere comandata da un signore solo. Questo non è il Paese dalla tradizione democratica inglese o americana”.

Fin dai tempi della storia narrata nei libri di Montanelli, gli storici non amano i giornalisti che si cimentano sul loro terreno. Avendo lei mescolato romanzo e storia non teme di avallare il loro pregiudizio?

“Non me ne frega nulla del pregiudizio. Bisogna avere una patente speciale per scrivere di storia come per guidare la Ferrari? Io ho profonda disistima per la classe accademica degli storici italiani, che è egemonizzata dai postcomunisti. Quando nel 2003 ho pubblicato “Il Sangue dei vinti”, che ha venduto più di un milione di copie, sono stato bombardato da tutte le parti. Ma io li conosco. Sono stato uno studente diligente, facendo una tesi di laurea - poi pubblicata da Laterza - sulla guerra partigiana. Arrivato a settantanove anni, Pansa ha soltanto uno di cui preoccuparsi: il Padreterno. Non ho ancora capito quanto tempo mi lascerà per scrivere e rompere le scatole al prossimo. Ma non ce l’ho con tutti i professori. Ho un grandissimo rispetto per De Renzo De Felice, di cui sono stato allievo indiretto avendo letto tutti i suoi libri. E non solo lui”.

De Felice fu il primo a parlare di “anni del consenso” per il fascismo, almeno fino alle vergognose leggi razziali del 1938.

“Il consenso c’era, non l’ha inventato De Felice. Non è vero che Mussolini è arrivato e ha ammanettato milioni di italiani. Gli italiani sono stati quasi tutti fascisti. Tranne una minoranza infima di comunisti, cattolici, socialisti repubblicani, anarchici che stavano in galera o costretti a espatriare. Poi c’era chi si iscriveva al fascio perché obbligato, perché gli conveniva, per quieto vivere. Se oggi spuntasse un altro Mussolini, avremmo un po’ di manifestazioni in piazza, ma la maggioranza degli italiani gli andrebbe dietro. L’attualità del mio libro è proprio questa: guardate un po’ che cosa è successo, come la storia drammatica degli ebrei deportati nella primavera del ’44 che racconto. E la gelida indifferenza di tanti che si giravano dall’altra parte”.

Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo da “Libero” ampi stralci dell’introduzione al nuovo libro di Giampaolo Pansa, che uscirà l’11 settembre. Si intitola «Sangue sesso soldi», ed è una personale rilettura di sessant’anni di storia italiana, scritto da uno dei testimoni più autorevoli e apprezzati del panorama italiano. Il volume (edito da Rizzoli, 450 pagine, 19 euro, disponibile anche in e-book) è suddiviso in 8 parti: una per ogni decennio dal Dopoguerra a oggi. La narrazione di Pansa è personale, imperniata su figure minori attorno alle quali scorre il grande racconto della storia d’Italia. Il giornalista e scrittore rivive così, da testimone diretto, l’infanzia sotto il fascismo, le ansie del dopoguerra, la transizione. E poi il boom, gli anni Sessanta, il terrorismo vissuto al «fronte», il caso Moro, il crac Ambrosiano, l’era Agnelli, Falcone e Borsellino, Tangentopoli, l’arrivo del Cav. L’ultimo capitolo è l’oggi: la grande crisi, le strambe elezioni 2013, la sorte di Berlusconi, la morte di Andreotti.

Per gentile concessione dell’autore e dell’editore, pubblichiamo anche gran parte del capitolo «Il bluff del Sessantotto. 1968», tratto da Sangue, sesso, soldi. Una controstoria d’Italia dal 1946 a oggi di Giampaolo Pansa, ex inviato del Corriere della Sera, ex vicedirettore di Repubblica e ora firma di punta di Libero.

Su Libero una parte di un capitolo dell'ultimo libro di Giampaolo Pansa, che ricorda il Sessantotto: "Idioti, violenti, ignoranti...". Il grande giornalista demolisce il bluff della stagione rivoluzionaria più pompata dalla retorica: "Fu l'incubatrice del terrorismo rosso". Personale rilettura di oltre 65 anni della nostra storia, scritto da uno dei più autorevoli giornalisti e storici italiani, il libro è suddiviso in otto parti, dall’immediato dopoguerra (dominato dalle figure di De Gasperi e Togliatti) al ventennio berlusconiano. In mezzo, Stalin e la legge Merlin, il boom economico del Belpaese, la tragedia del Vajont, gli anni di piombo, le stragi di mafia, i morti di Tangentopoli e la morte di Andreotti.

"Fu un tragico bluff il Sessantotto. Per di più coperto e difeso da un’ondata di retorica mai vista prima in Italia. Eppure molti politici, molti intellettuali e molti giornalisti lo ritennero un miracolo. A sentir loro, iniziava una stagione fantastica ed esaltante per la democrazia. Il Sessantotto avrebbe cambiato tutto in meglio: la politica, l’economia, la società, la scuola, la cultura, la famiglia, i rapporti tra maschio e femmina, persino l’educazione dei bambini. A conti fatti non accadde nulla di tutto questo. L’unico, vero frutto fu il terrorismo di sinistra, il mostro delle Brigate rosse. (...)"

"C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: «Raccontami una storia!». E la serva cominciò: «C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva…». E così via sino all’infinito.(Filastrocca del tempo che fu). Sangue, sesso, soldi. Perché dare questo titolo al racconto dell’Italia che ho visto dal 1946 a oggi? Perché sono tre parole, tanto secche da sembrare brutali, che fotografano meglio di altre la natura profonda del nostro paese. Una volta usciti dalla guerra civile, abbiamo continuato a odiarci, sguazzando nel sangue. Le centinaia di assassinati nelle ultime guerre interne, decise dal terrorismo e dalla mafia,  (...)(...) le abbiamo dimenticate. Eppure anche nel nostro passato più vicino campeggiano un’infinità di tombe e di lapidi funerarie. E ancora oggi gli assassini stanno in agguato ovunque, pronti al delitto. Il sesso, praticato, esibito o narrato è un’altra delle nostre bandiere. I media ci presentano di continuo storie di letto che un tempo restavano confinate nelle chiacchiere private. L’erotismo è diventato fonte di nevrosi incontrollabili. Ha perso la normalità allegra di un tempo. Produce ansia, stress, contrasti offerti al pubblico. Il gioco che ho conosciuto nella mia giovinezza si è tramutato in una contesa furiosa, capace di causare persino movimenti di piazza. Come accade oggi per le nozze tra gay. I soldi sono sempre stati un’ossessione non soltanto individuale, ma prima ancora pubblica. La voglia di arricchirsi in modo illecito ha intossicato la vita politica trascinandola nel baratro della criminalità. Gli anni di Tangentopoli, con i tanti processi e le molte vittime, ci hanno svelato un’Italia ributtante. Abbiamo vissuto una tragedia che continua ancora e azzera la credibilità delle istituzioni. La sobrietà, una virtù che i partiti dovrebbero considerare il bene più prezioso, si dissolve ogni giorno sotto lo tsunami di una corruzione invincibile e volgare. Quando è cominciato questo inferno? A mio parere, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, in un’Italia che sembrava destinata a diventare all’istante una democrazia perfetta. Soltanto in seguito ci siamo resi conto che era un traguardo impossibile. Per un motivo che oggi mi sembra più evidente di allora: venivamo da vent’anni di fascismo. La dittatura non era stata una parentesi, un incidente passeggero, bensì una condizione di normalità, accettata senza problemi. 

Tutti fascisti. C’è una verità che non si vuole ammettere: siamo stati quasi tutti fascisti. Lo sono stato anch’io, almeno nei due anni iniziali di scuola elementare. Ho cominciato a frequentare la prima classe nell’ottobre del 1941. Ero un bambino magro, dalle gambe lunghe, sempre vestito con decoro. Così voleva mia madre Giovanna che aveva un negozio di mode e credo mi abbia cucito di malavoglia la divisa da Figlio della Lupa. Per ordine del regime, la dovevano portare tutti i maschi dai 6 agli 8 anni, in attesa di diventare Balilla. La divisa consisteva in una camicia nera, attraversata da due fasce bianche incrociate e da un cinturone alto e anch’esso bianco, pantaloni corti di panno ruvido grigioverde, lo stesso colore dei calzettoni. E infine il fez, un piccolo copricapo di feltro nero a forma di cono tronco, che terminava con un fiocco. Conservo una fotografia del Pansa Figlio della Lupa, forse scattata da mio padre Ernesto. Sul retro c’è una data, scritta a penna: 10 giugno 1943. Era il terzo anniversario della nostra entrata in guerra. (...) Di diverso dal Duce e dal fascismo non esisteva nulla. Nella nostra piccola città si sapeva tutto di tutti. Ma non si conoscevano oppositori del regime. Di certo qualcuno che non la pensava come Mussolini c’era, ma se ne stava al coperto per non rischiare il carcere e la disapprovazione di una maggioranza molto vasta. Dopo la fine della guerra e il crollo definitivo del fascismo, si è scritto tanto sulla presenza di un’opposizione clandestina. Però questa si trovava soltanto nelle carceri. Dove stavano rinchiusi, spesso da anni, i pochissimi avversari del regime. Oppure nelle cellule invisibili dei comunisti, gli unici ad aver conservato un minimo di organizzazione politica. Esiste una prova del fatto che l’Italia fosse un paese quasi del tutto fascista, per convinzione, per obbligo o per quieto vivere. È una prova indicibile, e infatti non viene mai ricordata. Poiché suscita sempre un sentimento profondo di vergogna. Nel settembre 1938 il regime aveva emanato le leggi razziali, un complesso di norme infami destinate a colpire gli ebrei. Anche nella mia città viveva da secoli una comunità israelitica che si ritrovava in una splendida sinagoga oggi restaurata. Era composta da persone che conoscevamo tutti: il commerciante ebreo, l’insegnante ebreo, il medico ebreo, il pensionato ebreo. Ma contro quelle leggi nessuno protestò, s’indignò, si rammaricò. E ci fu anche qualcuno che si congratulò con il Duce. Lo stesso silenzio inerte accolse le razzie degli ebrei, destinati ai campi di sterminio nazisti. A Casale Monferrato iniziarono nel febbraio 1944 e vennero completate in aprile. Alla cattura degli israeliti, in gran parte donne e uomini anziani, provvedevano agenti di polizia del commissariato cittadino. Gli arrestati venivano rinchiusi nel piccolo carcere che sorgeva in fondo alla strada dove abitavo. Di qui erano inviati al campo di transito allestito a Fossoli, in Emilia. E di lì partivano per le camere a gas di Auschwitz e di altri luoghi infernali. (...) L’Italia si è scoperta antifascista soltanto dopo il 25 aprile 1945. Una volta conclusa la guerra, i pochi che nell’ottobre di due anni prima si erano dati alla macchia, e avevano combattuto da partigiani, si trovarono circondati da una marea di ribelli della venticinquesima ora. Gente che aveva scoperto la lotta per la libertà solo quando l’Italia era ritornata libera. Grazie ai soldati inglesi, americani e di tante altre nazionalità che, per salvarci da una dittatura, si erano sacrificati a migliaia nella lenta avanzata dalla Sicilia verso il Nord. Da quel momento diventammo una democrazia con più partiti e un’Assemblea costituente eletta il 2 giugno 1946, incaricata di scrivere la Costituzione. (...) Tutto bene? Per niente. La democrazia è un mestiere che non s’impara in quattro e quattr’otto. Soprattutto in un paese distrutto dalla guerra che dopo vent’anni di dittatura scopre l’asprezza della battaglia tra i partiti. Accadde così nell’Italia che all’inizio del 1948 si avviava alle prime elezioni destinate a decidere il nostro avvenire, ancora in bilico tra una democrazia liberale e un regime autoritario guidato dai comunisti. In tempi di massiccio assenteismo elettorale, è giusto ricordare quanti andarono ai seggi il 18 aprile 1948: il 92,2 per cento degli aventi diritto al voto. Il racconto che i lettori troveranno in questo libro s’inizia con il confronto tra i protagonisti di quella battaglia politica, le due figure simbolo del primo dopoguerra: Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti. Sono loro a introdurci in una lunga storia che arriva ai giorni nostri. E al caos brutale che rende un inferno questo 2013. Perché ho deciso di ripercorrere sessant’anni di vita italiana? (...) A incitarmi è la paura che mi ispira il futuro. Non il mio, quello personale, di un signore ben al di là dei settant’anni. Mi inquieta l’avvenire del nostro paese, oggi immerso in una crisi destinata a durare per un tempo lungo e a diventare sempre più pesante. Invece il passato mi appare meno carico di pericoli del futuro. I rischi che abbiamo corso negli ultimi decenni li abbiamo comunque superati. Mentre le sorprese cattive che ci attendono al varco sono una gigantesca nuvola nera che incombe sulle nostre vite e può generare il peggio. Ecco perché il tempo trascorso mi sembra ben più rassicurante del tempo che ci aspetta.

Il passato che torna. (...) Ho preferito un racconto molto personale. Mettendo in ordine cronologico una sequenza di eventi politici, sociali, di costume, di vita vissuta e dei personaggi che li rappresentavano. Non tutti, perché sarebbe stato impossibile. Ma soltanto quelli che consideravo i più adatti a rievocare le fasi a mio avviso degne di ricordo all’interno di una lunga vicenda. Ogni evento ha dato origine a una storia, proprio come quelle che il re della filastrocca chiede alla sua serva di raccontargli. Voglio fermarmi un istante sulla faccenda della narrazione personale. (...) Qualcuno mi accuserà di presunzione per aver sopravvalutato la biografia di Giampaolo Pansa? Può essere un rimprovero fondato. Ma replico presentando l’attenuante dell’età. Ho scoperto che, con l’avanzare degli anni, è difficile sottrarsi al proprio passato. Ritorna a galla di continuo, bussa alla nostra porta e pretende di essere ascoltato. È per questo che, invecchiando, ripensiamo sempre più spesso ai nostri genitori. Li rivediamo come erano da giovani e, insieme, ritorniamo con la memoria alla nostra infanzia e poi all’adolescenza. Con tutto quello che le accompagna: gli amici, i maestri che ci hanno aiutato a crescere, anche quelli indiretti, come i libri e i giornali che abbiamo letto, la scoperta del sesso, le donne amate. L’aver scelto la parte del testimone mi ha spinto ad andare controcorrente rispetto a molte sacre scritture di storia contemporanea. L’avevo già fatto a proposito della guerra civile, attraverso una serie di libri iniziata con I figli dell’Aquila e Il sangue dei vinti. Un’esperienza che ha segnato la mia età matura, ben più di quanto mi aspettassi. Dieci anni fa non mi rendevo conto di fare del revisionismo scandaloso. Ma quando mi hanno osteggiato, e aggredito anche con azioni violente, per quel peccato imperdonabile, ne sono stato contento. Perché ho compreso di aver battuto una strada che quasi nessuno voleva percorrere. Avevo infranto una cortina di bugie, eretta da tanti sepolcri imbiancati. Politici, intellettuali, docenti di storia, direttori di giornale e opinionisti che per ottusità culturale e opportunismo ideologico non accettavano che qualcuno rifiutasse la grande bugia sulla Resistenza. Una finzione messa sugli altari dentro una teca di vetro. E da venerare con un culto quasi religioso. Officiato con rigore maniacale dai tanti che ho chiamato, ricorrendo a un’immagine beffarda, i Gendarmi della memoria. Pure questo libro è un testo revisionista. Lo è per due motivi. Prima di tutto perché inserisce nella narrazione di molti eventi importanti anche vicende in apparenza minori e personaggi sconosciuti. I racconti che qui troverete consentono di osservare la storia italiana di tanti decenni non soltanto guardando verso l’alto, a personaggi che tutti conoscono, ma pure verso il basso. Ho tentato di farlo attraverso le figure di donne e di uomini che l’accademia non considera mai degne di menzione. Mentre possono aiutarci a sbirciare la grande storia da una prospettiva insolita che ne rivela aspetti sconosciuti. Un esempio per tutti? La mostruosa epidemia dell’Eternit rievocata attraverso una vicenda vera narrata da un amico della mia città che ha perso la madre e la moglie uccise dall’amianto.

Revisionista? Sì. Esiste poi un secondo motivo che mi spinge ad affermare il revisionismo di questo racconto. Qui siamo su un terreno che spingerà molti a rinfacciarmi di aver scritto un libro di destra. Voglio subito dire che l’etichetta non mi spaventa. Anzi, la considero una medaglia, se per destra s’intende l’opposto di una sinistra culturale marmorea e bugiarda che per anni ha spacciato una lettura della storia italiana inquinata dal partito preso. E seguita a spacciarla con la boria di chi si difende aggrappandosi al complesso dei migliori. Ossia alla convinzione di essere il meglio fico del bigoncio e di saperla più lunga di tutti. A questi pennacchioni rossi o rossicci non piaceranno i giudizi che qui troverete. Ne elenco qualcuno. Alcide De Gasperi ha salvato la libertà dell’Italia e non era affatto un lacchè del governo americano. Una vittoria del Fronte popolare guidato da Palmiro Togliatti e da Pietro Nenni avrebbe imprigionato il nostro paese dentro un regime succube dell’Unione Sovietica. L’aiuto degli Stati Uniti nel 1947 e nel 1948 ha impedito che molti italiani morissero di fame e di freddo. Il miracolo economico non è stato il trionfo del capitalismo selvaggio e del consumismo. Ma il risultato del lavoro e della tenacia di tanti signori nessuno che cercavano un minimo di benessere.  Il Sessantotto si è rivelato un tragico bluff che ha distrutto la nostra università. E ha dissolto il principio di autorità indispensabile a qualsiasi ordinamento sociale. La borghesia di sinistra non era per niente illuminata e saggia. Disprezzava chi non apparteneva ai suoi clan, odiava i poliziotti, urlava: «Basco nero – il tuo posto è al cimitero». E firmava appelli mortuari contro il commissario Luigi Calabresi, ritenuto a torto l’assassino dell’anarchico Giuseppe Pinelli. La Meglio gioventù spaccava il cranio agli avversari a colpi di spranga e di chiavi inglesi. Il terrorismo rosso esisteva e non era affatto un’invenzione delle destre reazionarie. I brigatisti erano militanti in carne e ossa che volevano distruggere il capitalismo ammazzando cristiani senza colpa. L’editore Giangiacomo Feltrinelli non è stato eliminato dalla Cia americana, ma si è ucciso nell’inseguire il sogno folle di una rivoluzione proletaria. Un paradosso per un miliardario com’era lui. L’avvocato Agnelli era di certo un gran signore, ma copriva le mazzette pagate ai politici pure dalla Fiat. La violenza verbale era ed è ancora il tratto distintivo dei giornali ritenuti progressisti, per niente diversi dai fogli di centrodestra, e spesso peggiori. La decadenza dell’Italia di oggi non è dovuta soltanto a Silvio Berlusconi, ma va messa in conto all’intero sistema politico. E dunque anche a una sinistra inconcludente e incapace di essere all’altezza delle sfide che ci attendono. (...) Per questo è lecito domandarsi dove stia andando la nostra repubblica. Verso il baratro che di solito inghiotte le nazioni ormai prive di coraggio e incapaci di curare i propri mali? Oppure saprà ritrovare la fiducia e la forza che l’hanno aiutata a superare tante crisi? Spero che i lettori di Sangue, sesso, soldi non cerchino una risposta da me." di Giampaolo Pansa.

Puglia, l’8 settembre tra grida e resistenza, scrive Antonio Vito Leuzzi su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. L’atteggiamento incerto e passivo di Badoglio, dopo l’annuncio ai microfoni dell’Eiar, alle 19,45 dell’8 settembre del 1943, dell’entrata in vigore dell’armistizio e della cessazione delle ostilità contro gli anglo-americani. che da nemici diventarono alleati, alimenta ancora oggi la ricerca e il dibattito storiografico. Con la fuga a Brindisi del re, del capo del governo dei vertici militari e con la scelta di non opporsi ai tedeschi, nella speranza di evitarne la reazione si delineò una situazione caotica che suscitò preoccupazione nei comandi alleati. La fulminea reazione degli uomini di Hitler che riuscirono a prenderne il controllo di Roma - rendendo vana la resistenza di alcuni reparti militari e di consistenti gruppi di civili, mobilitatosi spontaneamente - fu resa possibile per l’assenza di direttive, come ha ben evidenziato Elena Aga Rossi nel volume, Una nazione allo sbando. La situazione determinatasi dalla «mancata difesa di Roma», allarmò gli anglo-americani. Con un telegramma il 10 settembre il generale Dwight D. Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo, invitò Badoglio a mettere da parte ogni «esitazione». Le clausole armistiziali prevedevano, infatti, la tenuta della capitale e la garanzia dell’accesso ai porti navali nell’Italia meridionale. Solo quest’ultima condizione si concretizzò per la forte resistenza di cui furono protagonisti il 9 settembre in Puglia alcuni reparti militari sostenuti dai civili a Taranto e Bari e in diverse altre località della regione tra cui Ceglie Messapica, Putignano, Bitetto, Castellaneta, Noci ed in seguito Barletta e i centri della Capitanata. I reparti germanici stanziati nella regione che avevano predisposto in base al piano «Achse» (mietitura) l’attacco ai porti, alle strutture delle radio-comunicazioni, ai depositi militari, alle più importanti vie di comunicazione ed all’Acquedotto pugliese, si trovarono di fronte una inaspettata e spontanea resistenza italiana. S’impose all’attenzione, il giorno successivo all’armistizio, la resistenza, vittoriosa al porto di Bari, al Palazzo delle Poste e delle Telecomunicazioni, ai grandi magazzini militari di Via Napoli. Intuì il pericolo e si mobilitò immediatamente il popolo di Bari vecchia (il generale Bellomo fu avvertito dalle donne deiquartieri a ridosso del porto) mentre ragazzi e giovani portuali, tra cui il quindicenne Michele Romito lanciavano bombe su un autocolonna tedesca. Militari delle diverse armi, marinai, finanzieri, genieri, ex militi, bersaglieri, carabinieri e vigili urbani, e ancora, impiegati delle Poste, tecnici di Radio Bari, al porto e in diversi altri punti della città nullificarono il piano distruttivo dei tedeschi...L’11 settembre i maggiori quotidiani britannici ed americani, tra cui il Times ed il New York Times dedicarono le prime pagine al felice sbarco delle forze anglo-americane nei porti pugliesi di Taranto e Brindisi ed i sentimenti di amicizia manifestati della popolazione. La resistenza nella realtà pugliese e meridionale trovò in Radio Bari una voce autorevole e rappresentò un vantaggio consistente e inaspettato da parte degli alleati che trovarono sgombri i porti e gli aeroporti e intatti gli apparati delle telecomunicazioni e dell’informazione. La reazione tedesca, tuttavia, fu violenta nel Nord della Puglia, nell’Alta Murgia come nel resto d’Italia. I nazisti commisero orrende stragi soprattutto contro soldati sbandati e cittadini inermi tra le quali vanno ricordate quelle di Barletta, di Murgetta Rossi nel territorio di Spinazzola, e di Valle Cannella nei pressi di Cerignola. Gli avvenimenti di 70 anni fa misero in luce la diffusa volontà di opposizione alla guerra degli italiani ed al contempo la volontà di riscatto e la scelta che fu alla base della lotta di liberazione nazionale.

'Le larghe intese? Hanno 70 anni', scrive  Wlodek Goldkorn su “L’Espresso”.

«È stato l'8 settembre del 1943 che cominciarono la alleanze trasversali. Che durano ancora oggi. Nascoste o palesi che siano». La tesi dello storico Sergio Luzzato.

E' da settant'anni che l'Italia vive di grandi intese. E l'accordo di tutti con tutti - con avversari veri, apparenti, immaginari - fa ormai parte del carattere nazionale. Così pensa Sergio Luzzatto, storico brillante, qualche volta controverso, mai banale. "L'Espresso" è andato a sentirlo a casa sua, una gradevole abitazione a Ferney-Voltaire, vista su Monte Bianco a due passi dal castello in cui ha vissuto il grande filosofo che al paesino ha dato il suo nome. Sono passati appunto sette decenni da quando l'8 settembre 1943 il maresciallo Badoglio annunciava l'armistizio con le forze angloamericane. Il re fuggiva da Roma; i fascisti cercavano la protezione dei cugini nazisti; la meglio gioventù saliva in montagna. Da allora le interpretazioni di come quegli eventi abbiano pesato sulla storia patria si sono sprecate. Particolarmente in voga è quella che vi riconosce l'inizio di una guerra civile, mai cessata, ma diventata "a bassa intensità".

«Guerra civile tra il 1943 e il 1945, c'è stata, eccome», dice Luzzatto, «ma la storia di una guerra civile a bassa intensità di cui saremmo oggi partecipi e testimoni è una bufala. Serve a soddisfare interessi politici contrapposti. Quelli dei moderati che vogliono far passare gli avversari di Berlusconi per dei pericolosi sovversivi; e quelli degli estremisti che sognano una "nuova resistenza". Semmai possiamo definire quello che è successo come la madre delle larghe intese», spiega. «Però, da storico, devo fare una precisazione. C'è una specificità del contesto dell'8 settembre: la guerra mondiale; il cambio di regime e quindi un nuovo patto costituzionale; e una guerra civile vera».

Ha parlato della continuità tra l'8 settembre e oggi. C'è però chi, da anni, sostiene la tesi per cui quel giorno morì la patria.

«Muore la patria fascista. Gli antifascisti la loro patria la perdono nel giugno 1940 quando cade la Francia, pugnalata alle spalle dal fascismo italiano. E' la Francia della Rivoluzione, del Fronte popolare, terra d'asilo. L'8 settembre rinasce la patria degli antifascisti, quindi. Anche se le occorrono circa nove mesi di gestazione:dalla salita in montagna dei primi giovani ribelli fino al consolidamento dei partiti politici e della Resistenza militare».

Pochi mesi dopo l'8 settembre c'è la svolta di Salerno. Togliatti torna dall'Urss: accetta la monarchia, riconosce il governo Badoglio. Chiede ai comunisti di sospendere ogni velleità rivoluzionaria o repubblicana. Un comportamento strano se paragonato a Lenin che tornato a San Pietroburgo nel 1917 in una situazione analoga chiama a rovesciare il regime borghese. Togliatti agisce solo per volontà di Stalin o c'è una ragione intrinseca?

«Togliatti manca dall'Italia da 18 anni ed è meglio preparato ad affrontare le questioni mondiali di quanto siano i compagni che hanno fatto antifascismo all'interno del Paese. Ma attenzione: la svolta di Salerno segna una delega alle istanze sovranazionali dei problemi nazionali. Da 70 anni, l'Italia, per un limite virtuoso della sua classe dirigente, compie le sue scelte facendosi guidare da altri. Da Togliatti e De Gasperi fino a Monti, i nostri leader hanno preferito un ruolo da gestori di linee politiche che vengono da fuori. E mai nella storia repubblicana abbiamo avuto autentiche crisi riguardanti questioni internazionali».

Togliatti diventa il vice di Badoglio, un personaggio che ha usato i gas in Etiopia e che fu tra i firmatari nel 1938 del Manifesto della razza.

«Togliatti è un realista e un fine politico. Penso che vedesse lucidamente quante Italie erano da conciliare: il Sud, il Centro, il Nord; diverse da mille punti di vista, compreso il rapporto con l'istituzione monarchica, con il movimento operaio, con le élites borghesi. Contro i guastafeste, gli azionisti con la loro coerenza morale che implicava la rivoluzione, indica la via del compromesso, delle larghe intese».

Il leader democristiano è De Gasperi. Il riconoscimento reciproco tra lui e Togliatti è conseguenza della sfiducia negli italiani? Sono due ex esiliati. Togliatti in Urss, De Gasperi in Vaticano, dove faceva il bibliotecario.

«Sono due uomini fatti per capirsi, non solo per eccesso di Realpolitk ma perché cresciuti in due scuole dove si sono abituati a vedere l'Italia nel contesto mondiale. Giocano però anche le origini trentine, cioè austro-ungariche, di De Gasperi: era consapevole di quante anime possa avere un Paese».

Nel suo celebre libro del 1991 Claudio Pavone parla della "moralità nella Resistenza". In un altro del 1966, Giorgio Bocca usa parole come: vergogna, dignità, tradimento, minoranza. Una minoranza che prova vergogna e lotta per la dignità...

«I comunisti sapevano cosa volevano fare. Gli azionisti invece agivano soprattutto per protesta valoriale. Il loro era, come si è detto, un "antifascismo esistenziale". Erano come degli ospiti venuti a cena ma che si aspetta che se ne vadano».

Nel 1946, dopo la proclamazione della Repubblica arriva l'amnistia di Togliatti.

«Al di là degli elementi congiunturali (le prigioni erano piene) l'amnistia è fondamentale. Perché rende possibile l'interpretazione della guerra civile come uno scontro in cui ambedue i campi avevano commesso delle nefandezze. E omette non solo la quantità di queste nefandezze, ma anche la loro qualità. Per i partigiani il ricorso alla violenza è un doloroso strumento per arrivare a una società democratica. Non c'è una banda Carità tra i partigiani. Per i nazifascisti coincide con il progetto di società. Ma l'amnistia corrisponde alla percezione diffusa che gli italiani hanno avuto degli anni della guerra: il loro cuore batteva per gli alleati non per la Resistenza. Ecco un altro ingrediente delle larghe intese: l'idea (corretta) che l'Italia sia stata liberata dagli Alleati più che dai partigiani. E anche per questo la politica estera non diventa mai un elemeno di divisione. Del resto i comunisti, sotto sotto, si sentono meglio in Occidente che con l'Urss, fino alla famosa intervista di Berlinguer in cui confessa a metà anni Settanta di sentirsi protetto dall'ombrello della Nato».

Anche nel linguaggio i comunisti assomigliavano ai democristiani?

«Rimando a "L'Orologio " di Carlo Levi, alle pagine in cui da pittore descrive, senza farne i nomi, De Gasperi, Togliatti e, per contrasto, Parri. C'è una larga intesa basata sull'assenza del corpo e del carisma nella politica. Anche la lingua parlata doveva essere ovattata, indiretta, accademica; in contrasto con quella di Mussolini. Romperà questo patto Craxi, ma senza costrutto».

Nel 1956 Togliatti ha difficoltà a digerire l'ondata della destalinizzazione. Appoggia l'intervento sovietico in Ungheria. E' sbagliata l'ipotesi per cui lo fa non per l'amore dell'Urss, ma perché ha paura della destabilizzazione? Vuole l'Italia saldamente in Occidente, per cui niente scossoni.

«A conferma di questa ipotesi sarebbe un fatto speculare: nel '89 il democristiano Andreotti non vuole la riunificazione della Germania. Preferisce lo status quo. I comunisti, nella storia postbellica, sono più inclusi che esclusi. Tanto che hanno potuto esercitare l'egemonia culturale. C'è stato sì il periodo centrista, dal 1948 al 1960. Però le larghe intese hanno funzionato nella vita sociale. E' la Dc che realizza il programma socialdemocratico; costruisce il Welfare State. E comunque la Dc e il Pci si assomigliano. Non solo nella struttura e nella propaganda ma anche per quanto riguarda i consumi e i costumi. Finito il centrismo si arriva al centro-sinistra e alle "convergenze parallele" di Moro: il trionfo delle larghe intese».

Poi arriva il Sessantotto.

«Una generazione fortunata, cresciuta nel benessere, si ribella contro le larghe intese. Non capiscono il buono della socialdemocrazia. Ma operano una cesura sulla questione dei diritti civili: aprono la via alla stagione referendaria. Che il Pci vive malissimo. Asseconda i referendum ma non li vuole. Quella stagione ha visto come prodotto collaterale il terrorismo e le stragi dello Stato (che creano un lutto condiviso e quindi una forma di legame sociale). Ma è la stagione, soprattutto, delle pratiche di emancipazione civile. Il Pci ne trae conclusioni sbagliate. Il compromesso storico, che Berlinguer teorizza nel 1973, diventa una pratica di spartizione delle poltrone: Rai, ospedali, enti locali. E' il trionfo della partitocrazia; fino a Mani pulite».

E così arriviamo al ventennio berlusconiano.

«Che non segna discontinuità. Finiscono i partiti storici di massa; ma si consolidano nuove forme di partitocrazia: lo svuotamento dell'istituto referendario, il sabotaggio delle riforme istituzionali, il consociativismo nei servizi pubblici, la tutela della casta».

E Giorgio Napolitano?

«L'Italia ha avuto la fortuna di avere (da Pertini in poi, con l'eccezione di Cossiga) presidenti della Repubblica all'altezza del ruolo. Napolitano esprime un'idea di patria. che è importante come garanzia identitaria, in un Paese che ha un'identità nazionale debole. Lui era ragazzo a Napoli, quando cominciava tutta questa storia. Ha vissuto con aplomb la presunta esclusione dei comunisti dal potere, perché sapeva che era limitata e non del tutto vera. Così oggi, incarna nel migliore dei modi la storia della Repubblica delle larghe intese».

SIAM TUTTI FIGLI DI FASCISTI. I VOLTAGABBANA E L’INTELLETTUALE COLLETTIVO.

Bianchi Bandinelli: l'uomo che non riuscì a uccidere i due dittatori. A Venezia un documentario sulla giornata particolare di colui che fu scelto come guida per l'incontro tra Hitler e Mussolini, scrive Simonetta Fiori il 9 agosto 2016 su “La Repubblica”. Si può cambiare la direzione della Storia? Ranuccio Bianchi Bandinelli continuò a chiederselo mentre faceva strada al Führer durante la storica visita in Italia nel maggio del 1938. Certo il giovane cicerone non riuscì in questa colossale impresa, nonostante le fantasie tirannicide della vigilia. Ma gli riuscì un altro capolavoro che può essere annoverato nella storia meno nota della rivincita dell'intelligenza contro la mediocrità del potere, del gusto contro la rozzezza, della vivacità della cultura contro la vacuità imbolsita dei due grandi dittatori. E solo uno sguardo cinematografico poteva valorizzare questa vendetta postuma dello studioso senza aver bisogno di inventare niente: bastano gli straordinari materiali dell'Istituto Luce, montati con ritmo e ironia da Enrico Caria in un film che sarà presentato a settembre alla mostra di Venezia. Con un piccolo-grande ribaltamento di ruoli che è la trovata del nuovo lavoro. Perché i protagonisti non sono più i due tiranni, i padroni della Terra che in quella primavera del totalitarismo europeo devono ancora decidere come spartirsi il dominio, ma l'elegante guida che nei quattro giorni di maggio compare al loro fianco durante la visita ai musei di Roma e Firenze. Figura slanciata, incedere disinvolto, il fez moderatamente napputo, quasi a mitigare il lato grottesco della tragica operetta. È lui la vera star del racconto, il professor Bianchi Bandinelli, 38 anni, futuro maestro di generazioni di archeologi. È Ranuccio L'uomo che non cambiò la Storia - come recita il titolo del film prodotto da Luce-Cinecittà - ma che ne capovolse certo la prospettiva, impugnando le armi a lui più famigliari della prosa tagliente e del disincanto ironico. Tutto ebbe inizio da un telegramma che nella primavera del 1938 rompe l'agiata tranquillità della casa fiorentina dei Bianchi Bandinelli Paparoni, famiglia di patrizi senesi che risale all'epoca di Carlo Magno con una sfilza di pontefici e relazioni illustri. Sarà anche per la sua longeva storia famigliare, il giovane e stimato Ranuccio, già ordinario all'Università di Pisa, non si scuote più di tanto dinanzi alla convocazione del ministero della Pubblica Istruzione. Motivo del colloquio riservato? Lo scoprirà qualche giorno più tardi a Roma: il suo uso di mondo e la conoscenza del tedesco - gli spiega un alto papavero - lo rendono perfetto per fare da guida al Führer durante la visita in Italia. Un bel guaio. Lui è "un antifascista generico" - come scrive nei suoi taccuini - non ha legami con la clandestinità comunista, è un liberale con simpatie crescenti per il movimento fondato dai fratelli Rosselli. Ora è davanti a un bivio: se accetta si compromette con un regime che disprezza, ma se rifiuta compromette i suoi studi e la sua famiglia. Che fare? L'esito del dilemma etico è quasi scontato, sotto un regime che non ammette dinieghi. Ecco Ranuccio affrettarsi all'Unione Militare per acquistare "la più scalcinata delle divise da fascista", camicia nera come vuole il programma ma senza decorazioni, no quelle proprio non le vuole, sconvolgendo "l'esperienza psicologica del ministro Cortini" assediato dalle richieste di croci e di aquile e di decorazioni purchessia. E mentre attende alla preparazione sartoriale dell'augusta visita - ma succede anche nei dormiveglia notturni - i suoi pensieri corrono e s'intorcinano, fino a impennarsi nell'unica fantasticheria che possa dare un senso a quella pagliacciata. E se uccidessi i due tiranni? Se mi facessi saltare in aria mentre salgo con loro sul predellino dell'automobile? O se approfittassi del passaggio nel corridoio che unisce gli Uffizi a Palazzo Pitti? Nessuno più di lui poteva conoscere i dettagli del programma. E più l'attentato prende meticolosa forma nella sua testa, più il professore cerca argomenti contrari alla clamorosa occasione offerta dalla Storia. Fino ad ammettere la propria inconcludenza di "tenebroso e impotente macchinatore", solo e paralizzato di fronte all'inazione. Così almeno ci racconta il nostro eroe mancato nello straordinario resoconto di quella missione (uscito tempo fa da e/o Hitler e Mussolini. 1938 Il viaggio del Führer in Italia) e non sappiamo se sia un supremo tentativo di giustificazione anche con la propria coscienza prima di balzare al fianco dei due tiranni, la mattina di venerdì 6 maggio 1938. Ma qui comincia un'altra vicenda, quella più autentica, che il film di Caria restituisce anche nella sua vena umoristica attraverso la tessitura di documenti storici e spezzoni cinematografici, con i disegni di Spartaco Ripa e la supervisione musicale di Pivio: la rivincita dell'inetto cospiratore che non potendo cambiare il corso della Storia può però mostrarne tutta la sua grottesca insensatezza. A cominciare dai due protagonisti del Novecento impietosamente tratteggiati tra il Museo delle Terme e la Galleria Borghese, tra un plastico della romanità e il nudo di Paolina Bonaparte. Due modesti burattini malriusciti, Mussolini "con le mosse oblique del capo che vorrebbero mitigare la sua massiccità ma sono soltanto goffe e sinistre", Hitler forse meno repulsivo, "composto, ordinato, quasi servile, qualcosa come un controllore di un tram". E le immagini dell'Istituto Luce non fanno che amplificare le divertite cronache di Ranuccio, l'unico che sembra davvero a suo agio tra sarcofagi paleocristiani e sculture barocche. I gesti flessuosi, la postura disinvolta di chi ha secoli di storia alle spalle, attenuano la plumbea rigidità dell'ex maestro di Predappio e dell'ex imbianchino bavarese come imbambolati dinanzi ai tesori d'arte. Con una sostanziale differenza, che non sfugge all'accorta guida. "Mentre Mussolini non nascondeva il suo disinteresse o passando per le sale senza guardare o accostandosi a un'opera a leggere il cartellino per poi restare un po' di fronte ad essa a pancia protesa a guardarla come se fosse un muro bianco, Hitler amava realmente le false qualità artistiche che scopriva e se ne commuoveva. Come si commuove agli acuto del tenore il barbiere appassionato di musica". Insomma due patetici dilettanti, il primo più sfacciato nell'ostentare la propria ignoranza, salvo pietire "con sguardo penoso" l'aiuto del suo Cicerone quando teme di non essere all'altezza dell'ospite; l'altro animato da pretese artistiche aggravate da una insopprimibile vocazione alla simulazione e all'inganno. Ipnotizzato soprattutto dai nudi di Afrodite e di Paolina, il Füher arriva a confessare al professore che, sistemate le cose in Germania, sarebbe tornato in Italia per visitare in incognito i monumenti. "Sì, proprio lui che ha messo al bando i Manet, i Cezanne, i van Gogh...". Per fortuna Hitler non ha ancora il dono di leggere nei pensieri. Non cambiò la storia, Ranuccio Bianchi Bandinelli, ma poté cambiar presto la sua vita. Ritiratosi di nuovo nell'ombra, alla fine di quello stesso anno avrebbe rinunciato alla prestigiosa direzione del Scuola archeologica italiana di Atene lasciata libera da Alessandro della Seta cacciato perché ebreo. Dopo la guerra entrerà nel Pci proponendo ai suoi mezzadri una gestione collettiva della terra. I suoi libri rivoluzioneranno la storia dell'arte e l'archeologia. Come sarebbero andate le cose se davvero avesse ucciso i due tiranni? Non se l'è mai domandato, sapendo che la storia non si fa con i se.

Il mito sinistro dell'intellettuale collettivo. Da Gramsci passando per il Sessantotto ha prevalso sempre il pensiero organico. Che ha incantato il ceto medio, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Ma cos'è poi questa famigerata egemonia culturale? Quando è nata, come è cresciuta, come si manifesta oggi? Dopo la denuncia del filosofo cattolico Giovanni Reale sulla dittatura culturale marxista in Italia poi mutata in laicismo illuministico, e il «Cucù» che vi dedicai, ho ricevuto varie lettere che chiedono di precisare meglio il tema. In che consiste questa becera egemonia? Per cominciare, il modello ideologico dell'egemonia culturale viene tracciato da Gramsci con la sua idea del Partito come Intellettuale Collettivo che conquista la società tramite la conquista della cultura. Il modello pratico si nutre invece di due esperienze: quella sovietica, da Lenin a Trotzskj, da Zdanov a Lukács, vale a dire il ministro della cultura di Stalin e il filosofo ministro nell'Ungheria comunista. E quella fascista, con l'organizzazione della cultura e degli intellettuali di Gentile e di Bottai, che è l'unico precedente italiano, anzi occidentale di egemonia culturale (ma fu ricca di eresie, varietà e dissonanze). La storia dell'egemonia culturale marxista e laicista in Italia va divisa in due fasi. La prima risale a Togliatti che nell'immediato dopoguerra nel nome del gramscismo va alla conquista della cultura, avvalendosi degli intellettuali organici militanti e di case editrici vicine: da Alicata a Einaudi, per intenderci, per non parlare della stampa. È un'egemonia non ancora pervasiva, punta alla cultura medio-alta e regge sulla riconversione di molti «redenti» dal fascismo. Contro questa egemonia si abbatterà la definizione, altrettanto nefasta, di «culturame» da parte del ministro democristiano Scelba. La seconda egemonia nasce sull'onda del Sessantotto e il Pci diventa poi il principale referente ma anche in parte il bersaglio dell'estremismo rosso. Il distacco dall'Unione Sovietica viene motivato, pure all'interno del Pci, col tentativo d'intercettare quell'area radicale, giovanile e marxista che non contestava l'Urss nel nome della libertà, ma nel nome della Cina di Mao, di Che Guevara, di Ho Chi Minh, e altri miti esotici e rivoluzionari. Perfino Berlinguer, quando accenna a dissentire dal Patto di Varsavia, parte da lì. Dopo il '68 vanno in cattedra nugoli di giovani fino a ieri contestatori, poi assistenti e presto neobaroni. La saldatura tra le due sinistre avviene con la nascita, da una costola de l'Espresso, de La Repubblica che raccoglie le sinistre sparse e concorre alla «secolarizzazione» del Pci nel progetto di un partito radicale di massa. Con La Repubblica e i suoi affluenti ha un ruolo decisivo nella nuova egemonia la sinistra televisiva, cresciuta in Raitre. Sul piano culturale Gramsci viene fuso con Gobetti e Bobbio diventa il nuovo papa laico dell'egemonia. Negli anni di piombo convivono l'egemonia gramsciana con l'egemonia radical che ne prende il posto, a cui contribuiscono i reduci del '68, dal manifesto a Lotta Continua. Se prima era il Partito a guidare le danze, ora è l'Intellettuale Collettivo a dare la linea alla sinistra e a guidarla sul piano dell'egemonia culturale. L'egemonia, sia gramsciana che radical, ha due caratteristiche da sottolineare. Non tocca, se non di riflesso, gli apici della cultura italiana, ma si salda nei ceti medi della cultura, nel personale docente, fino a conquistare buona parte dell'Università e della scuola, dei premi letterari, della stampa e dell'editoria, oltre che del cinema e del teatro, dell'arte e della musica. Nulla di paragonabile, per intenderci, con l'egemonia nel segno di Gentile e d'Annunzio, Pirandello e Marinetti, Marconi e Piacentini, per restare agli italiani. In secondo luogo tocca di striscio la cultura di massa, che è più plasmata dai nuovi mezzi di ricreazione popolare, a partire dalla Rai democristiana, Bernabei e l'intrattenimento nazionalpopolare, lo sport e la musica leggera, e poi la tv commerciale e berlusconiana. Dunque un'egemonia dell'organizzazione culturale, dei poteri culturali, dei quadri intermedi, senza vertici d'eccellenza e senza adesione popolare. Ma i riflessi della sua influenza s'infiltrano a macchia d'olio su temi civili e di costume fino a creare un nuovo canone di remore e tabù. L'egemonia culturale fagocita la cultura affine, asserve quella opportunista e terzista, demonizza o delegittima le culture avverse, di tipo cattolico, conservatore, tradizionale o nazionale. Innalza cordoni sanitari per isolare i non allineati, squalifica le culture di destra, bollate ieri come aristocratiche e antidemocratiche, oggi come populiste e razziste-sessiste; da alcuni anni preferisce fingere che non esistano, decretando la morte civile dei suoi autori. Qui converrà distinguere nel trattamento tra gli imperdonabili e i tollerati. Sono imperdonabili coloro che sono considerati legati a principi tradizionali e a una visione spirituale della vita, chi nutre un giudizio diverso sul fascismo, sul comunismo o sul berlusconismo, sulla religione e sulla famiglia, o chi non condivide il nuovo catechismo fondato sull'omolatria e sul permissivismo intollerante con chi non si allinea. Sono invece tollerati i neognostici che coltivano spiritualismi esoterici, fuori dal mondo e dal tempo, tipo Adelphi; si può arrivare a Guénon ma non a Evola, a Quinzio ma non a Sciacca, a Zolla ma non a Del Noce. Poi i dandy, che lasciano figurare i loro estremismi come stravaganze individuali o pose letterarie o puro vintage, che non contestano i valori dominanti e gli stili di vita; o infine, i fautori della destra impossibile che detestano ogni destra vivente e reale nel nome di quella che non c'è (genere montanelliani dell'ultim'ora). Sopravvive all'egemonia chi intrattiene buone relazioni coi suoi funzionari o si affilia ai clan ammessi o sottomessi. Particolare è il trattamento per i fuorusciti dalla Casa Madre dell'egemonia, gli ex-compagni migrati sulle sponde avverse: sono prima trattati con particolare disprezzo come traditori, cinici e venduti, ma alla fine sono accettati come interlocutori per via del pédigrée, di antichi rapporti e comuni circuiti di provenienza o pulsioni sinistre talvolta riaffioranti in loro. L'egemonia culturale fa male alla cultura, è inutile dirlo, ne danneggia non solo la libertà ma anche la qualità, la dignità e la varietà. Ma alla cultura nuoce pure la noncuranza, il disprezzo, la sottovalutazione, assai diffusi nell'alveo sociale e politico cattolico, moderato, liberale o di destra. Alla fine chi non è allineato all'egemonia si trova tra due fuochi, anzi tra il fuoco degli intolleranti e il gelo degli indifferenti. E si destreggia per non finire bruciato o ibernato.

Quegli intellettuali che, vicini al fascismo, si trasformarono subito in fiancheggiatori del PCI, il quale, su suggerimento togliattiano, cercava di applicare i princìpi dell'egemonismo gramsciano. Ma nei limiti dell'intelligenza comunista su descritta. Infatti, tale operazione si limitò ad intercettare prima gli intellettuali reduci dai littoriali, poi quelli reduci dalle trincee, infine i reduci dalla prigionia e dalle file socialrepubblicane. Tale reclutamento all'italiana portò ad un'egemonia di facciata, molto esteriore e falsa, che gli italiani percepivano facilmente, ed al primo stormir di vento, qual foglie precocemente ingiallite, tutti (scrittori, cineasti, artisti, consulenti, mediatori, critici) s'involarono nell'azzurro cielo del conformismo atlantico.

Già alla vigilia della Prima guerra mondiale la reputazione degli italiani non era delle migliori. Tutti erano convinti che nella Grande Guerra avremmo cambiato di nuovo bandiera, cosa poi puntualmente avvenuta. E questa nostra attitudine a "correre in soccorso dei vincitori", come disse Flaiano, si manifesta con desolante regolarità da oltre un secolo. Le migliaia di camicie nere indossate solo dopo il successo della marcia su Roma. I fascisti diventati antifascisti nell'arco di una notte (25 luglio 1943). Il brusco voltafaccia di Casa Savoia, prima alleata e poi nemica dei tedeschi nel corso dello stesso conflitto. I partigiani dell'ultima ora. Gli intellettuali passati, dopo il 25 aprile 1945, dalla corte di Bottai a quella di Togliatti. Il viavai tra le porte girevoli delle correnti democristiane. La corsa in massa alle sezioni del Pci nel momento del "sorpasso" sulla Dc (1976). Craxi che, divenuto segretario del Psi, fu idolatrato come una divinità egizia e alla fine mollato in un nanosecondo. Berlusconi che, trasformatosi da "ragazzo coccodè" a eminente statista (1994), fu corteggiatissimo da ex supponenti rivali. Dirigenti d'azienda e giornalisti Rai che, dopo l'affermazione elettorale di Alleanza nazionale (1996), scoprirono di essere di destra, salvo poi dire, quando il leader cadde in disgrazia: "Fini chi?". Fino a Renzi, snobbato da tutti dopo la sconfitta subita da Bersani alle primarie del 2012 e oggi inseguito da uno stuolo di zelanti e insospettabili ammiratori.

Ed ecco il naturale sbocco letterario con Bruno Vespa: "Italiani voltagabbana". Fino all'autunno del 2013 Matteo Renzi era solo, attaccato più all'interno che all'esterno del suo partito. Nel giro di pochi mesi, molti dei suoi avversari hanno voltato gabbana, sono diventati renziani, e alcuni fanno parte della squadra di governo. Dopo la clamorosa vittoria del Pd alle elezioni europee del maggio 2014, un folto gruppo della classe dirigente del paese si è messo a disposizione del giovane presidente del Consiglio, sperando di conquistare un ruolo di primo piano. «Ma visto che da noi non cambiava niente, l'ondata di renzismo è improvvisamente cessata» racconta il premier nel lungo colloquio accordato a Bruno Vespa per ...Fino all'autunno del 2013 Matteo Renzi era solo, attaccato più all'interno che all'esterno del suo partito, è scritto nella recensione del libro della Mondadori. Nel giro di pochi mesi, molti dei suoi avversari hanno voltato gabbana, sono diventati renziani, e alcuni fanno parte della squadra di governo. Dopo la clamorosa vittoria del Pd alle elezioni europee del maggio 2014, un folto gruppo della classe dirigente del paese si è messo a disposizione del giovane presidente del Consiglio, sperando di conquistare un ruolo di primo piano. «Ma visto che da noi non cambiava niente, l'ondata di renzismo è improvvisamente cessata» racconta il premier nel lungo colloquio accordato a Bruno Vespa per questo libro. I voltagabbana sono una costante della storia nazionale. Dal Risorgimento, quando venivamo accusati di vincere le guerre con i soldati degli altri, alla prima guerra mondiale, di cui ricorre il centenario, quando in nome del «sacro egoismo» a un certo punto ci trovammo a combattere a fianco delle due fazioni opposte, per scegliere infine quella vincente, rivolgendo le armi anche contro i tedeschi, nostri alleati da trent'anni. Mussolini, che voltò gabbana come interventista prima della Grande Guerra, si alleò con Hitler nella seconda anche perché gli era rimasto il complesso del «tradimento» del 1915. Alla caduta del fascismo, i voltagabbana furono milioni, e Vespa narra con divertito stupore la storia di prestigiosi intellettuali e artisti diventati all'improvviso antifascisti dopo aver orgogliosamente inneggiato al Duce fino al 25 luglio. E sulla pagina vergognosa dell'8 settembre 1943 è ancora aperto il dibattito se gli italiani abbiano tradito i tedeschi o – secondo una versione più recente – se siano stati i tedeschi a tradire gli italiani. Nella Prima Repubblica i politici cambiavano spesso corrente (specie nella Dc) piuttosto che partito, ma i tradimenti più clamorosi furono senza dubbio quelli di molti dirigenti socialisti nei confronti di Craxi. Tuttavia, il trionfo dei voltagabbana si è avuto nella Seconda Repubblica e all'alba della Terza, quella che stiamo vivendo con la riforma costituzionale. Centinaia di parlamentari hanno cambiato casacca con sconcertante disinvoltura e diversi governi sono nati e caduti con il contributo decisivo dei «senza vergogna». Berlusconi e Prodi ne sono stati le vittime principali. Dopo essere stato via via abbandonato da Bossi, Fini e Casini, in queste pagine il Cavaliere accusa severamente Alfano, che si difende dall'accusa di «parricidio» e parla, semmai, di «figlicidio». A sua volta, il Senatùr è stato abbandonato da chi lo adorava e Beppe Grillo ha già avuto le sue molte delusioni. Nel libro, naturalmente, ampio spazio viene dedicato a Matteo Renzi, ai retroscena della sua ascesa al potere e al governo, e ai tanti che lo detestavano e ora lo amano. E ampio spazio viene dedicato alle donne: quelle che Renzi ha portato al governo, o a incarichi di grande potere, e a Francesca Pascale, che per la prima volta racconta nei dettagli la sua storia d'amore con il Cavaliere. In Italiani voltagabbana, Bruno Vespa dipinge con il consueto stile incalzante un affresco del costume nazionale, rileggendo la storia e la cronaca sotto un'angolazione umanissima, anche se assai poco lusinghiera.

Bruno Vespa ha cominciato a 16 anni il lavoro di giornalista e a 24 si è classificato al primo posto nel concorso che lo ha portato alla Rai. Dal 1990 al 1993 ha diretto il Tg1. Dal 1996 la sua trasmissione «Porta a porta» è il programma di politica, attualità e costume più seguito. Per la prima volta nella storia, vi è intervenuto un papa, Giovanni Paolo II, con una telefonata in diretta. Tra i premi più prestigiosi, ha vinto il Bancarella (2004), per due volte il Saint-Vincent per la televisione (1979 e 2000) e nel 2011 quello alla carriera; nello stesso anno ha vinto l’Estense per il giornalismo. Fra i più recenti volumi pubblicati da Mondadori ricordiamo: Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi, Vincitori e vinti, L’Italia spezzata, L’amore e il potere, Viaggio in un’Italia diversa, Donne di cuori, Il cuore e la spada, Questo amore, Il Palazzo e la piazza e Sale, zucchero e caffè.

Opportunisti, paurosi, voltagabbana: italiani, non siete cambiati, scrive Fertilio Dario su “Il Corriere della Sera”. Dopo le rivelazioni dei colloqui telefonici tra il luglio e il settembre '43, gli storici si interrogano sull'oggi. Italiani, povera gente? Di certo opportunisti, paurosi, trasformisti. Persino patetici, nello sforzo di rimuovere la catastrofe del regime. Infantili, con l'illusione assurda di invitare a uno stesso tavolo nazisti e alleati. Gattopardeschi, e sicuri che dopo l'arresto di Mussolini tutto dovesse cambiare per poter restare come prima. Disinformati, al punto da immaginare che gli angloamericani (in accordo con la propaganda ufficiale) sarebbero stati "inchiodati sul bagnasciuga della Sicilia". Equilibristi, in omaggio alla celebre arte di arrangiarsi. Così almeno appare la nostra classe politica e intellettuale, stando alle intercettazioni telefoniche registrate dal Servizio d'informazione militare fra il 25 luglio e l'8 settembre del '43. Ieri le ha pubblicate il Corriere, con il commento di Renzo De Felice, e oggi l'interrogativo è al vaglio degli storici: possibile che in quegli anni gli italiani fossero proprio così? Che tutti, o quasi, si ostinassero a vivere in un mondo di favole littorie e slogan mascelluti quando già la situazione era precipitata? Possibile, certo, secondo Giorgio Spini. Anzi, addirittura scontato. "Già alla fine degli anni Quaranta, afferma, Federico Chabod mi chiese di analizzare autobiografie e memoriali dei generali italiani nei giorni della sconfitta. Ne venne fuori che nessuno aveva capito nulla, nè aveva avuto sentore del 25 aprile, eccetto il generale Cadorna per via dei suoi contatti con il Partito d'azione e La Malfa". Perciò le rivelazioni di oggi, secondo Spini, "sono soltanto la conferma del lavoro di allora: il deserto mentale e l'imbecillità della classe dirigente. Qui non c'entravano destra o sinistra. Il fatto era che la selezione dei gruppi dirigenti nell'Italia fascista, militari compresi, era stata realizzata alla rovescia, promuovendo i più stupidi. Le conversazioni telefoniche, le sciocchezze che venivano prese sul serio confermano come questi importanti generali e dirigenti di regime fossero veramente poveri diavoli". C'era allora una colpa collettiva? "Non la addosserei agli italiani: fra loro ce n'erano anche alcuni tutt' altro che scioccherelli, come De Gasperi. Il problema stava nella selezione negativa del regime, che dopo tutto era rimasto fedele alla ideologia del manganello". Un simile stato di minorità mentale, secondo il politologo Dino Cofrancesco, è testimoniato dall' atteggiamento collettivo nei confronti della guerra. "Proprio come i sudditi di due o tre secoli prima, i dirigenti concepivano il conflitto in corso come "limitato" e reversibile, parte di un destino che restava al di sopra di loro, e sul quale soltanto il capo supremo poteva intervenire. A differenza dei cittadini di uno Stato democratico, avevano accolto la conquista dell'Abissinia come un miracolo compiuto da un altro, ora si illudevano che un altro li avrebbe cavati d'impaccio. Come dire: abbiamo avuto una mano sfortunata alla roulette, dunque raccogliamo le fiches e torniamocene a casa. Il fascismo, che pure per molti aspetti aveva modernizzato il Paese, li aveva educati a dipendere da qualcun altro, ne aveva fatto soltanto dei sudditi. Oggi a nessuno sfugge che le democrazie, più restie delle dittature a intraprendere le guerre, sono poi inesorabili nel condurle a termine. Invece nessuno aveva detto agli italiani d'allora che le guerre contemporanee si combattono in un altro modo, sono conflitti totali nei quali tutti i cittadini vengono coinvolti più o meno allo stesso modo, sopportandone fino in fondo le conseguenze". Anche Paolo Alatri, di fronte alle rivelazioni sull'impreparazione psicologica degli italiani e alla disinformazione di cui erano vittime, è molto colpito. "Tutti si muovevano in una specie di gelatina - afferma - in cui trovavano accoglienza le possibilità e le ipotesi più inimmaginabili. C' era chi fantasticava su possibili alleanze con i russi, chi prevedeva un abbraccio con gli inglesi, chi avrebbe voluto volentieri gli uni e gli altri alla sua tavola. Incredibile, poi, la generale sottovalutazione del ruolo dei tedeschi, come se mettersi d'accordo con loro fosse stato facile quanto bere un bicchier d'acqua. E che dire poi degli americani? Nei discorsi collettivi parevano scomparsi, inghiottiti o rimossi dalla coscienza". Come si era potuto arrivare a simili autoinganni? "La radice del fenomeno va cercata nella politica di grande potenza: l'Italia si fingeva un Paese guerriero e attrezzato per tutte le evenienze, senza averne nemmeno le basi. Non c'è da stupirsi se fra i suoi esponenti o simpatizzanti più in vista non ne esistesse uno solo con una prospettiva realistica. Basti pensare al progetto di "Roma città aperta". Oppure a quel senatore Felici, nazionalista monarchico e per molti anni procuratore di D'Annunzio nei suoi rapporti col fascismo, convinto che la penetrazione degli Alleati in Italia non sarebbe mai potuta riuscire". Ma siamo poi tanto mutati, cinquant'anni dopo? Viene da dubitarne, se diamo retta ad Arturo Colombo, pronto a riscontrare nei discorsi dell'Italietta 1943 molte affinità con la cultura poi affermatasi nel dopoguerra. Ecco Spataro, destinato a diventare un leader della Dc, ragionare sulla necessità di creare un centro politico capace di "logorare" gli avversari. Ecco la costante paura del comunismo, un autentico spauracchio collettivo, che lascia in ombra qualsiasi volontà costruttiva di mettere in piedi un sistema politico liberaldemocratico. Ecco Missiroli, convinto che il vecchio non debba morire, e deciso a ritornare immediatamente a galla. Ed ecco infine il sacro slogan "Credere, obbedire, combattere" riadattato alle necessità del momento. Credere? A niente e nessuno. Obbedire? Ai vincitori. Combattere? Sì, ma per salvare la pelle.

Italiani, popolo di poeti, eroi e voltagabbana, scrive “L’Unità”. Che ne è oggi dell’impegno degli intellettuali italiani? E, prima ancora, esistono ancora veri intellettuali in Italia? Se ne è discusso all’Università di Bordeaux. Il più noto studioso di letterature comparate italiano, Remo Ceserani, ha svolto una relazione sulla figura, tutta italica, del voltagabbana. Una tipologia di personaggio oggi molto presente nel nostro Paese, tra i politici, ma anche tra gli uomini di cultura. Tra gli esempi riportati da Ceserani, a un uditorio francese piuttosto sconcertato, il «responsabile» Domenico Scilipoti (passato dalla sera alla mattina da Antonio Di Pietro a Silvio Berlusconi), l’ex presidente del Senato e tutt’ora senatore Pdl Marcello Pera (da giovane simpatizzante radicale, oggi vicino alle posizioni del cattolicesimo più reazionario), i giornalisti Paolo Guzzanti (prima socialista, poi berlusconiano, poi antiberlusconiano - fu lui a coniare il termine «mignottocrazia», che Ceserani ha faticato un po’ a tradurre in francese - prima di tornare nuovanente a sostenere il Cavaliere) e Giampaolo Pansa (prima a sinistra, ora artefice, da destra, di un acceso revisionismo storiografico sulla Resistenza), i politici Claudio Velardi (prima consulente di Massimo D’Alema, poi di Renata Polverini) e Daniele Capezzone (prima radicale ora portavoce del Pdl). E, ancora, Giuliano Ferrara, Vittorio Sgarbi, Daniela Santanché, Tiziana Maiolo. Insomma, cambiare casacca per opportunismo e tornaconto personale, anche se ammantandosi di nobili motivazioni, sembra essere diventata una moda radicata e diffusa a tutti i livelli.

Già, la solita sinistra. Vede la pagliuzza negli occhi altrui e non la trave nei suoi occhi.

Da “Italiani Voltagabbana” di Bruno Vespa. Neri con riserva. Da Dario Fo ad Eugenio Scalfari: nel libro di Bruno Vespa, tutti gli intellettuali di sinistra che furono fascisti, scrive “Libero Quotidiano”. La storia del nostro Paese è ricca di retroscena e di aneddoti destinati a fare scalpore: tra queste storie, diverse vengono svelate o ricordate da Bruno Vespa nel suo nuovo libro, Italiani volta gabbana. Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica, sempre sul carro del vincitore, in uscita oggi, giovedì 6 novembre (edizione Mondadori). Nel terzo capitolo di questo volume, Vespa parla di diversi intellettuali che si dichiararono antifascisti alla caduta del regime di Benito Mussolini, ma che prima stavano dalla parte del Duce: tra di loro ci sono nomi altisonanti, come Giuseppe Ungaretti o Dario Fo, o altri comunque ben noti, come Indro Montanelli o Enzo Biagi. Tutto nasce dalla rivista Primato, diretta da Giuseppe Bottai: il politico fascista più illuminato sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. La rivista nacque nel 1940 e chiuse il 25 luglio 1943, e furono tantissimi intellettuali a collaborare per questo giornale. "Fascista in eterno": si definì così Ungaretti durante il regime. Il poeta notò che "tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore", e firmava appelli per sostenere Mussolini, salvo poi rinnegarlo dopo il 25 luglio 1943, quando firmò documenti contrari ai precedenti, tanto da meritarsi una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev. Stessa parabola per Norberto Bobbio, che da studente si era iscritto al Guf (l'organismo universitario fascista) e aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Il filosofo e senatore a vita, cercò raccomandazioni per poter evitare problemi che gli derivavano da frequentazioni "non sempre ortodosse", e il padre Luigi fu costretto a rivolgersi allo stesso Mussolini. Bobbio ottenne la cattedra, mentre nel dopoguerra diventò un emblema della sinistra riformista: il 12 giugno 1999, a Pietrangelo Buttafuoco del quotidiano Il Foglio, il filosofo ammise: "Il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne vergognavamo. Io che ho vissuto la gioventù fascista mi vergognavo di fronte a me stesso, a chi era stato in prigione e a chi non era sopravvissuto". Indro Montanelli non ha mai nascosto di essere stato fascista: "Non chiedo scusa a nessuno", ribadiva sul Corriere della Sera. Stesso discorso per Enzo Biagi, che nel dopoguerra ha sempre mantenuto gratitudine per Bottai. Eugenio Scalfari, dopo il 1945, parlò di "quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti", senza celare mai le proprie ferme convinzioni giovanili: anche lui, fino alla sua caduta, sostenne il fascismo e la sua economia corporativa. Più difficile è stato negare la propria fede fascista, da parte di Dario Fo, che a 18 anni si arruolò nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica Sociale Italiana. Nel 1977 Il Nord, piccolo giornale di Borgomanero, raccontò quei trascorsi della vita di Fo: l'attore querelò subito Il Nord, e al processo disse che l'arruolamento era stato soltanto "un metodo di lotta partigiana". Le testimonianze, invece, lo inchiodarono: la sentenza del tribunale di Varese, datata 7 marzo 1980, stabilì che "è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani". Dario Fo non fece ricorso.

Il numero dei voltagabbana tra gli intellettuali alla caduta del regime fu clamoroso, scrive Bruno Vespa su "Il Giornale". Giuseppe Bottai era il politico più illuminato del fascismo sul piano culturale, ma anche il più feroce sostenitore delle leggi razziali. Ebbene, la sua rivista «Primato» fu pubblicata dal 1940 (quando le leggi razziali avevano già consumato i peggiori misfatti) e chiuse solo con la caduta del regime il 25 luglio 1943. In quegli anni, Bottai poté contare sulla fervida collaborazione del meglio della cultura italiana: Giorgio Vecchietti (condirettore), Nicola Abbagnano, Mario Alicata, Corrado Alvaro, Cesare Angelini, Giulio Carlo Argan, Riccardo Bacchelli, Piero Bargellini, Arrigo Benedetti, Carlo Betocchi, Romano Bilenchi, Walter Binni, Alessandro Bonsanti, Vitaliano Brancati, Dino Buzzati, Enzo Carli, Emilio Cecchi, Luigi Chiarini, Giovanni Comisso, Gianfranco Contini, Galvano Della Volpe, Giuseppe Dessì, Enrico Emanuelli, Enrico Falqui, Francesco Flora, Carlo Emilio Gadda, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Bruno Migliorini, Paolo Monelli, Eugenio Montale, Carlo Muscetta, Piermaria Pasinetti, Cesare Pavese, Giaime Pintor, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Vittorio G. Rossi, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Sergio Solmi, Ugo Spirito, Bonaventura Tecchi, Giovanni Titta Rosa, Giuseppe Ungaretti, Nino Valeri, Manara Valgimigli, Giorgio Vigolo, Cesare Zavattini. Musicisti come Luigi Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni. Artisti come Amerigo Bartoli, Domenico Cantatore, Pericle Fazzini, Renato Guttuso, Mino Maccari, Mario Mafai, Camillo Pellizzi, Aligi Sassu, Orfeo Tamburi.

GIUSEPPE UNGARETTI. Una crisi di coscienza colse Giuseppe Ungaretti. Il poeta notò durante il regime che «tutti gli italiani amano e venerano il loro Duce come un fratello maggiore» e si definì «fascista in eterno», firmando documenti e appelli per sostenere il fascismo. Salvo firmarne di uguali e contrari alla fine della guerra come alfiere dell'antifascismo, tanto da meritare una grande accoglienza a Mosca da parte di Nikita Kruscev. Giornalista, povero e fascista: ecco il giovane Ungaretti. Un saggio ben documentato racconta come lo scrittore collaborasse, con convinzione, alla stampa di regime, scrive Giuseppe Conte, Venerdì 16/12/2016, su "Il Giornale". Forse, abbagliati dalla sua energia assoluta di poeta, non pensiamo mai che tra il 1919 e il 1937 Giuseppe Ungaretti esercitò come secondo mestiere, da cui in realtà trasse il sostentamento economico primario, quello del giornalista. Per lui fu tutto diverso rispetto a Eugenio Montale, che decenni dopo entrò al Corriere della Sera già uomo maturo, e si fregiò snobisticamente del titolo di giornalista sino a posporlo al proprio nome e cognome sull'elenco telefonico della Milano di allora. Per Ungaretti, povero, con l'esperienza della trincea fatta da umile soldato, la militanza giornalistica fu un modo per sopravvivere, un mestiere cercato e accettato con profonde contraddizioni, esercitato tutto su quotidiani mussoliniani e inneggianti al fascismo, movimento cui in quegli anni il poeta, digiuno di politica ma animato da una passione culturale e spirituale fortissima per l'italianità, guardò con favore. Insomma, la prefazione al Porto Sepolto di Mussolini, che Ungaretti chiese con una lettera del 5 novembre 1922, e che in seguito dovette tanto nuocergli, non fu un fatto né casuale né isolato. Possiamo oggi rendercene ben conto leggendo il libro documentatissimo di Fabio Pierangeli, valoroso docente all'Università di Tor Vergata, Ombre e presenze, Ungaretti e il secondo mestiere ,1919-1937, (Loffredo editore, pagg. 219, euro 16,90). Ungaretti comincia la sua attività giornalistica come corrispondente dal Congresso di Parigi per il Popolo d'Italia. Il suo primo articolo esce l'11 febbraio 1919, è intitolato «Italia, Francia, Jugoslavia» ed ha un attacco lapidario: «Ho ancora addosso i panni di soldato italiano». La collaborazione con il giornale diretto da Mussolini va avanti con circa cinquanta pezzi da cronista. L'adesione alla politica mussoliniana è sincera. Ma questo tipo di attività giornalistica non fa per il poeta, che in privato, in una lettera a Giovanni Papini, se ne lagna con queste parole durissime, un po' teatrali, come doveva essere la sua indole: «Sono un giornalista; sputami addosso; un giornalista con mille lire al mese; gridalo; ho dato il culo per mille lire al mese...». Tornato a Roma nel 1921, Ungaretti trova un lavoro che ha in ogni caso a che fare con la carte stampata: è impiegato agli Uffici Stampa del Ministero degli Esteri. E intanto riprende a collaborare con diverse testate tra cui Lo spettatore italiano e L'Idea Nazionale, su cui pubblicherà un Elogio della borghesia, in cui la borghesia appare come quella «nobiltà del popolo» cui può assurgere per «meriti di cultura, di ingegno, di volontà» qualunque giovane delle classi più povere. Importante è la collaborazione con il Mattino: sulle sue pagine, appare un articolo che contiene un vasto e articolato programma di espansione della cultura italiana all'estero, e un altro a proposito della Accademia d'Italia, che deve esprimere una cultura nuova, nata secondo il poeta non da un salotto, ma da una rivoluzione di popolo: la lingua italiana vi è definita «insieme rustica e aulica, divina». Un altro articolo ancora è intitolato «Il ritorno dell'emigrante», in cui Ungaretti, emigrante lui stesso, sottolinea la necessità di una politica economica a favore del popolo e dei lavoratori. La collaborazione con il Tevere, giornale diretto dal famigerato Telesio Interlandi, si svolge soprattutto nel 1929, con ventinove articoli in sostegno di una cultura dell'azione costruttiva, del bene pubblico, contro quella della astrattezza e della torre d'avorio. Pierangeli nota la contraddizione di Ungaretti tra questa posizione per così dire sociale sostenuta sui giornali e la poesia che man mano va scrivendo, e che non potrebbe essere più orfica, balenante di lirismo assoluto, individuale. Non ammesso all'Accademia d'Italia, il poeta si era rifatto a Parigi con l'ingresso nel comitato di redazione della prestigiosissima Nouvelle Revue Française. A proposito di quest'ultima, Ungaretti deve condurre sul Tevere con Corrado Pavolini una polemica sulla omosessualità di Gide e di altri intellettuali francesi vicini alla rivista. La posizione di Ungaretti, a cospetto dei toni volgari di Pavolini, appare sfumata e tollerante, degna di chi si era proclamato in una lettera a Papini come l'uomo «meno provinciale d'Italia». Sulla Gazzetta del popolo, tra il 1931 e il 1935, Ungaretti scriverà soprattutto affascinanti, appaganti articoli di viaggio, su Quadrivio, nella cui lista dei collaboratori, inaugurata da Luigi Pirandello, lui neppure figura, farà in tempo e esaltare la romanità ma sostenendo che anche gli uomini della Rivoluzione francese avevano tratto i loro modelli dalle virtù dei Romani. Per il fascismo e i giornali di Interlandi si sta avvicinando la vergognosa svolta razzista. Ungaretti, questo uomo contraddittorio e libero, in cui persino un antifascista come Giovanni Ansaldo riconobbe ispirazione, temperamento, strafottenza, energia, e che Leone Piccioni ci ha raccontato così bene nelle pagine di una vita, è nel 1937 sulla nave che lo porta in Brasile: dove inizierà la nobile professione di docente universitario.

NORBERTO BOBBIO. Norberto Bobbio da studente si era iscritto al Guf, l'organismo universitario fascista, e poi aveva mantenuto la tessera del partito, indispensabile per insegnare. Colpito per frequentazioni non sempre ortodosse da una lieve sanzione che avrebbe potuto comprometterne la carriera, Bobbio cercò ovunque raccomandazioni per emendarsi. Suo padre Luigi si rivolse al Duce, lo zio al quadrumviro De Bono, lo stesso giovane docente a Bottai («con devota fascistica osservanza»). Fu interessato anche Giovanni Gentile, che intervenne con successo presso Mussolini. Alla fine, Norberto ebbe la cattedra tanto desiderata. Nel dopoguerra, Bobbio diventò un maître à penser della sinistra riformista italiana. Ma il tarlo del passato lo consumò fino a una clamorosa intervista liberatoria rilasciata il 12 novembre 1999 a Pietrangelo Buttafuoco per Il Foglio: «Noi il fascismo l'abbiamo rimosso perché ce ne ver-go-gna-va-mo. Ce ne ver-go-gna-va-mo. Io che ho vissuto la “gioventù fascista” tra gli antifascisti mi vergognavo prima di tutto di fronte al me stesso di dopo, e poi davanti a chi faceva otto anni di prigione, mi vergognavo di fronte a quelli che diversamente da me non se l'erano cavata».

INDRO MONTANELLI. Montanelli non ha fatto mai mistero di essere stato fascista. (Fu, anzi, un fascista entusiasta). «Sono stato fascista, come tutte le persone della mia generazione», ammise nella sua “Stanza” sul Corriere della Sera nel 1996. «Non perdo occasione per ricordarlo, ma neanche di ripetere che non chiedo scusa a nessuno». Anche nella più sfacciata adulazione del Duce, Montanelli scriveva pezzi di bravura come questo del 1936: «Quando Mussolini ti guarda, non puoi che essere nudo dinanzi a Lui. Ma anche Lui sta, nudo, dinanzi a noi. Il Suo volto e il Suo torso di bronzo sono ribelli ai panneggi e alle bardature. Ansiosi e sofferenti, noi stessi glieli strappiamo di dosso, mirando solo alla inimitabile essenzialità di questo Uomo, che è un vibrare e pulsare formidabilmente umani. Dobbiamo amarlo ma non desiderare di essere le favorite di un harem».

GIORGIO BOCCA. «Quando cominciò il nostro antifascismo? Difficile dirlo...». Dev'essere cominciato tardi, quello di Giorgio Bocca, se è vero quanto egli stesso scrive nel racconto «La sberla… e la bestia» pubblicato l'8 gennaio 1943 su La provincia granda, foglio d'ordini settimanale della federazione fascista di Cuneo. Il 5 gennaio Bocca aveva incontrato in treno sulla linea Cuneo-Torino l'industriale Paolo Berardi, il quale diceva ad alcuni reduci dalla Russia e dalla Francia che la guerra era ormai perduta. Bocca ascoltò, poi gli diede un ceffone e lo denunciò alla polizia per disfattismo. Due anni prima, sullo stesso settimanale, il giovane giornalista aveva scritto un lungo articolo su I protocolli dei Savi di Sion, che si sarebbero rivelati poi (ma lui, ovviamente, non lo sapeva) il falso più clamoroso della propaganda antisemita. Le prime righe dell'articolo recitano: «Sono i Protocolli dei Savi di Sion un documento dell'Internazionale ebraica contenente i piani attraverso cui il popolo Ebreo intende giungere al dominio del mondo...». E le ultime: «Sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, intesa come una ribellione dell'Europa ariana al tentativo ebraico di porla in stato di schiavitù».

DARIO FO. Dario Fo si arruolò a 18 anni come volontario prima nel battaglione Azzurro di Tradate (contraerea) e poi tra i paracadutisti del battaglione Mazzarini della Repubblica sociale italiana. Il 9 giugno 1977, quando Fo era ormai da anni celebre per il suo lavoro teatrale Mistero buffo, un piccolo giornale di Borgomanero (Novara), Il Nord, pubblicò una lettera di Angelo Fornara che ne raccontava i trascorsi repubblichini. Fo sporse querela con ampia facoltà di prova, ma il processo non ebbe l'esito da lui sperato. Secondo quanto riferì Il Giorno (8 febbraio 1978), l'attore disse in aula che il suo «arruolamento era una questione di metodi di lotta partigiana» per coprire l'azione antifascista della sua famiglia. Ma le testimonianze furono implacabili. Il suo istruttore tra i parà, Carlo Maria Milani, mise a verbale: «L'allievo paracadutista Dario Fo era con me durante un rastrellamento nella Val Cannobina per la conquista dell'Ossola, il suo compito era di armiere porta bombe». E l'ex comandante partigiano Giacinto Lazzarini lo inchiodò: «Se Dario Fo si arruolò nei paracadutisti repubblichini per consiglio di un capo partigiano, perché non l'ha detto subito, all'indomani della Liberazione? Perché tenere celato per tanti anni un episodio che va a suo merito?». Una testimone, Ercolina Milanesi, lo ricorda «tronfio come un gallo per la divisa che portava e ci tacciò di pavidi per non esserci arruolati come lui. L'avremmo fatto, ma avevamo quindici anni...». L'11 marzo 1978, mentre il processo contro gli accusatori di Fo era in pieno svolgimento, Luciano Garibaldi pubblicò sul settimanale Gente una foto dell'attore in divisa della Repubblica sociale (altissimo, magrissimo come è sempre stato) e un suo disegno dove appaiono alcuni camerati con le anime dei partigiani uccisi che escono dalle canne dei mitra («Sono apocrife e aggiunte da altri», si difenderà). Il 7 marzo 1980 il tribunale di Varese stabilì che «è perfettamente legittimo definire Dario Fo repubblichino e rastrellatore di partigiani». Il futuro premio Nobel non ricorse in appello e la sentenza divenne definitiva.

VITTORIO GORRESIO. Vittorio Gorresio, una delle firme più brillanti della sinistra riformista del dopoguerra, scriveva cose impegnative sulla gioventù hitleriana: «Così pregano gli ariani piccoli, ora che, dissipato il fumo del rogo ove furon arsi i venticinquemila volumi infetti di semitismo, l'atmosfera tedesca è più limpida e chiara». E nel 1936 sulla Stampa, il giornale di cui sarebbe diventato negli anni Sessanta la prima firma politica, confessava: «Ringrazio Dio perché ci ha fatto nascere italiani ed è con gli occhi lucidi che si sente nell'animo la gratitudine del Duce».

EUGENIO SCALFARI. Nonostante la giovane età, Scalfari era riuscito a far pubblicare alcuni scritti di Calvino su Roma fascista, era diventato amico di Bottai, che chiamava «il mio Peppino», e fino alla caduta del fascismo sostenne con convinzione l'economia corporativa. Ma va ascritto a suo merito di aver sempre parlato nel dopoguerra di «quaranta milioni di fascisti che scoprirono di essere antifascisti», non nascondendo mai le sue ferme convinzioni giovanili.

ENZO BIAGI. Montanelli collaborò a Primato come Enzo Biagi, che nel dopoguerra non ha negato i suoi trascorsi (scrisse anche per la rivista fascista bolognese Architrave) e la gratitudine per Bottai. Ma i suoi avversari, spulciando negli archivi, hanno scovato altri episodi. Secondo il racconto di Nazario Sauro Onofri in I giornali bolognesi nel ventennio fascista, nel 1941 Biagi, allora ventunenne, recensì il film Süss l'ebreo, formidabile strumento della propaganda antisemita di Himmler, sul foglio della federazione fascista bolognese L'assalto, scrivendo che il pubblico «era trascinato verso l'entusiasmo» e «molta gente apprende che cosa è l'ebraismo e ne capisce i moventi della battaglia che lo combatte». (Biagi era in buona compagnia, perché sullo stesso giornale, fortemente antisemita, si scatenava anche il giovanissimo Giovanni Spadolini, mentre una lusinghiera recensione allo stesso film fu firmata dal regista Carlo Lizzani). Biagi restò al Resto del Carlino, controllato dai fascisti e ormai anche dai nazisti, fino alla tarda primavera del 1944, ricevendo - come tutta la redazione - generosi sussidi economici dal ministero della Cultura popolare (il Minculpop). Dieci mesi dopo entrava a Bologna con le truppe americane.

IL TRAVESTITISMO.

Storia del travestitismo di sinistra e del falso storico ed ideologico. Dai “padri costituenti” al Partito Democratico. Materiale e documenti pubblicati e non rimossi dal sito “geocities.ws”. Gran parte delle documentazioni qui esposte in ordine alfabetico sono state pubblicate su internet o digitate per la prima volta sul forum di annozero, nel 2007, per essere rese accessibili sulla rete, suscitando scandalo e reazioni staliniste con insulti e linguaggi tipici da piccisti degli Anni ’50…Quando scoppiò lo scandalo Bobbio… internet era un po’ agli albori, ma oggi si trovano molte cose. Anche facendo indagini sull’Archivio Storico di Angelo Tasca si scopre un universo di guerre e cose sporche. Per chi ama ricercare cose rare in biblioteca, in alcune biblioteche, forse… vi è ancora l’opera di Nino Tripodi – Intellettuali sotto due bandiere, fatto da un ex fascista che fu massacrato da altri ex fascisti… e per vendicarsi ricorse alla copertura di Ciarrapico per pubblicare un dossier terremoto… messo subito a tacere. Enrico Mattei definì al tempo tutto questo: “La danza dei fascicoli riservati” e lui sapeva come usarli. Per quanto riguarda le cose recenti, la commissione di indagine parlamentare sull’Armadio della vergogna… c’è da ridere…si legga qua: Ex fascisti in Commissione. Uno per uno, ecco gli ex fascisti della commissione parlamentare d’inchiesta sui crimini del nazifascismo. Giuseppe Scaliati – La Voce della Campania – 25/10/2005. Gli ex missini indagano sui crimini della Repubblica di Salò, per poi riabilitare gli autori di quelli eccidi. Proprio così. Da due anni è stata istituita infatti alla Camera dei deputati una commissione d’inchiesta sui crimini nazifascisti del dopoguerra, avvenuti durante la breve esperienza della Repubblica sociale italiana. Fra i membri, alcuni deputati dichiara fama neo o post fascista. La “commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti” è stata istituita con una apposita legge il 15 maggio 2003 col compito di indagare sulle anomale archiviazioni “provvisorie” (come da timbro del 1960) e le cause dell’occultamento dei 695 fascicoli ritrovati nel 1994 a Palazzo Cesi, sede della Procura generale militare. I fascicoli di quello che è poi diventato “l’armadio della vergogna”, contenevano le prove sulle pesanti responsabilità dei militari della repubblica di Salò, complici di tanti eccidi consumati dalla Wemarcht e dalle SS naziste nel corso della seconda guerra mondiale nei confronti di circa 15 mila vittime. Almeno diecimila civili e 580 bambini, come calcola lo storico Gherard Schreiber. Infatti, durante il periodo della Repubblica di Salò, nazisti e fascisti, SS e repubblichini, causarono decine di migliaia di morti, uccidendo «gente senz’armi, civili in fuga dalla guerra», come ampiamente documentato da L’armadio della vergogna, lo sconvolgente libro di Franco Giustolisi edito da Nutrimenti. «Le vittime – si legge nel volume – furono per lo più donne, vecchi, bambini. Piccoli ancora in fasce. Altri mai nati. Li cavarono dal ventre delle madri con le loro baionette e ne fecero bersaglio delle loro armi». Finita la guerra, i fascicoli delle prime indagini sui colpevoli di quegli eccidi erano presenti nella sede della Procura generale militare di Roma, ma improvvisamente tutto fu insabbiato.

A. come...Argan Giulio Carlo. ARGAN Giulio Carlo, politico-sindaco comunista di Roma - Collaboratore di Bottai -Ministro Educazione…. Collaboratore della rivista “PRIMATO FASCISTA” del ministro Bottai ..Iscritto al PNF…segretario di redaz. della rivista fascista Le Arti….

B. come...BARTOLI Domenico. Notissimo giornalista anti-fascista, grande estimatore (e grande protetto) di Ugo La Malfa, ha elaborato la teoria secondo la quale chi si schierò con la RSI non dovrebbe avere la cittadinanza italiana. Durante il Ventennio fu uno zelantissimo apologeta del Fascismo, tanto che nel 1935 scrisse sulla rivista “Saggiatore”: “E’ evidente che per il nostro lavoro abbiamo un punto fermo: il nucleo centrale della dottrina fascista, così come lo ha precisato Mussolini”. Precedentemente, nel 1933, aveva pubblicato il libro “Il volontarismo delle Camicie Nere”, nel quale aveva scritto: “La Rivoluzione delle Camicie Nere che segna la rinascita di tutta la vita italiana, mentre da un canto ha impresso alla Nazione un nuovo slancio verso il futuro, l’ha d’altra parte ricollegata alle sue tradizioni più alte.” BIAGI Enzo. Collaboratore della rivista “PRIMATO FASCISTA” del ministro Bottai -Partecipa ai Littoriali del 1935. BINNI Walter. Deputato socialista Costituente- Partecipa, si classifica Littoriali, nel ‘39 collabora a Civiltà Fascista, fino al ‘42 scrive su “Primato Fascista”, aderisce alla campagna del PNF contro il “lei”. Partecipa, e vince ai Littoriali, quale rappresentante dei GUF (Gruppi universitari fascisti). BO Carlo. Docente universitario. Partecipa e si classifica ai Littoriali della Cultura. Collabora alla stampa del Ventennio. Sarà poi riverito cattolico di sinistra… BOBBIO Norberto. Che dovette ammettere a malincuore di aver avuto un trascorso fascista SOLO quando prove e testimonianze sono divenute di dominio pubblico. Nel Paese che dimentica tutto e in fretta l’intellettuale “di sinistra” se la cavò con un “È stata una triste parentesi…”. Bobbio, che di essi era il grande vecchio, servì il Fascismo fin dalla gioventù. Iscritto al PNF dal 1928 percorse una rapida carriera universitaria in camicia nera. Scrisse e fece scrivere al Duce ripetute lettere di appassionata fedeltà, alcune delle quali sono riuscite a vedere la luce in epoca recente. Giurò fedeltà al Duce anche un anno dopo le leggi razziali, esattamente il 3 marzo 1939, per poter ottenere una cattedra all’Università di Siena. Rigiurò fedeltà al Duce ancora nel 1940, a guerra dichiarata, per insediarsi a Padova nella cattedra del professor Adolfo Ravà, che era stato allontanato perché ebreo Su oltre 1.200 docenti universitari dell’epoca, solo dodici rifiutarono di prestare quel giuramento: Bobbio decise di stare non con i 12 ma con i 1188″. BOCCA Giorgio. Scrittore, giornalista; addetto al CINEGUF di Cuneo. Fra gli scritti che sostennero la propaganda razzista in Italia,la Mostra elenca quelli di Giorgio Bocca, Scrive, nel 1942,sul giornale della Federazione fascista di Cuneo .” …sarà chiara a tutti, anche se ormai i non convinti sono pochi, la necessità ineluttabile di questa guerra, come ribellione dell’Europa ariana al tentativo ebraico di portarla in stato di schiavitù”. Come già citato sopra, in La Provincia Granda, 4 Agosto 1942, Giorgio Bocca, scrive: “Questo odio degli ebrei contro il fascismo è la causa prima della guerra attuale. La vittoria degli avversari solo in apparenza, infatti, sarebbe una vittoria degli ebrei. A quale ariano, fascista o non fascista, può sorridere l’idea di dovere, in un tempo non lontano, essere lo schiavo degli ebrei?” Giorgio Bocca a 18 anni ottiene la tessera del PNF (Partito nazionale fascista), sottoscrive il Manifesto in difesa della razza italiana, fortemente voluto da Benito Mussolini per compiacere l’alleato tedesco. Ancora ad agosto del 1942, giovane giornalista fascista, scrive un notabile articolo in cui imputa il disastro della Guerra alla congiura ebraica. Il 5 gennaio 1943 denuncia alla polizia fascista l’industriale Paolo Berardi che, in un treno, ha l’infelice idea di dire ad alcuni reduci dal fronte russo e dalla Francia “che la guerra è ormai perduta”. Dopo l’8 settembre 1943 passa alla Resistenza. (Ma dai???). BUFALINI Paolo. Dirigente del PCI, per molti anni senatore, aveva pubblicato su “Roma fascista” del 22.2.1936 un bell’articolo dedicato alla libertà di stampa, nel quale spiegava che il Fascismo è un impegno di vita e che solo il Fascismo poteva stabilire che cosa fosse la libertà di stampa e quindi quali ne fossero i limiti. BUZZATI Dino. Collaboratore della rivista “PRIMATO FASCISTA” del ministro Bottai, è fra i giornalisti e scrittori che aderirono alla RSI. Per arricchire la lettera B, bisognerebbe rivendicare la VERA pubblicazione di tutto il contenuto dell’armadio della Vergogna, a cui i soliti intellettuali e “storici-democratici” viene delegato il compito del lavoro di forbice e della più sporca delle pulizie.

C come...CAGLI Corrado. Artista, poi pittore “comunista”. Autore di un immenso quadro apologetico della Marcia su Roma. CALAMANDREI Franco. Picì, capo dei GAP romani, implicato nell’attentato di Via Rasella.Partecipa col GUF di Firenze e vince i Littoriali della Cultura del 1935. CARETTONI Tullia. Deputata picì e V. Pres.Senato. Dirigente GUF di Roma, collabora a Roma Fascista fino al ‘43. COMENCINI Mario. Regista. Partecipò, quale rappresentante di Milano, ai Littoriali del1935 e del 1936. CALLEGARI Gianpaolo. Scrittore, giornalista. Collaboratore della Stampa Fascista con articoli impegnatissimi, specie a sostegno della valorizzazione dei giovani da parte del regime. Nel 1942 è perfin ottimista e ritiene in ripresa la “produzione dell’autentica letteratura” (quella fascista) e annovera la “moralizzazione del gusto” come aspetto caratterizzante della guerra. Persa la guerra passa alla sinistra. CANONICA Pietro. Scultore. Elevato da Mussolini alla dignità di ACCADEMICO d’ITALIA. Elevato poi dall’Italia antifascista alla dignità di SENATORE A VITA…. CARETTONI Tullia. Attiva dirigente del GUF di Roma e collaboratrice di Roma Fascista fino al 1943. Persa la guerra diviene parlamentare eletta nelle liste di Togliatti e vicepresidente del Senato. CARLI Guido. Collabora a Critica Fascista e a Civiltà Fascista con articoli e saggi sulla politica economica nell' “Italia Corporativa” e nella Germania Nazista. Dopo la guerra passa alla Democrazia Cristiana, diviene GOVERNATORE della Banca d’Italia e successivamente in quanto “uomo di fiducia di Casa Agnelli” diviene Presidente della Confederazione degli Industriali. Esce indenne da tutte le operazioni di saccheggio del denaro pubblico finalizzate alle “opere pubbliche”. CASSOLA Carlo. Scrittore. Collabora alla stampa del ventennio. Scrive su Anno XIII, rivista diretta da Vittorio Mussolini. Sarà poi intellettuale di sinistra…CECCHI Emilio. Critico letterario, scrittore. Nonostante avesse firmato nel 1925 il Manifesto Antifascista di Croce, accettò un Premio Mussolini e nel 1940 la nomina ad accademico d’Italia. Fu al seguito di Mussolini durante il noto viaggio in LIBIA e ne scrisse le LODI. Di altre Lodi parlò Goffredo Bellonci sul Giornale d’Italia del 23 ottobre 1942: “Cecchi, ha in alcune prose esaltato la figura del Duce e analizzato criticamente il suo stile per mostrarne la forza”. Nel Dopoguerra, considerato il suo rapido inserimento nella cultura democratica e “antifascista”, non mancarono a suo carico le accuse di trasloco da una politica culturale all’altra diametralmente opposta. Carlo Ragghianti (cfr. Il Giornale, 24,9,1976), scrisse che, data l’intelligenza e la cultura di Cecchi, di lui “si leggevano con disgusto mescolato a dolore articoli e corrispondenze cortigiane”. CHILANTE Felice. Scrittore, giornalista… Con ZANGRANDI e LAJOLO, oppure Natta ed Ingrao, potrebbe completare la più rappresentativa triade del trasformismo dalla MILIZIA FASCISTA all’impegno nel PCI di Togliatti. Occorrerebbe un volume-mattone per raccogliere gli scritti di CHILANTI durante il regime. Non ci fu istituto o iniziativa del fascismo senza una sua pagina laudativa. Il fascismo era per CHILANTI “una rivoluzione continua, una marcia che le generazioni si assumeranno il compito di continuare verso gli orizzonti che sono stati precisati dal capo”. Il diapason del suo attivismo littorio fu toccato nel 1938 quando mise la penna a disposizione della campagna razziale contro gli ebrei. Ne scrisse dovunque e con virile virulenza. Il volume di Paolo Orano, Inchiesta sulla razza, contiene un suo capitolo: “La RAZZA italiana esiste, è viva, gagliarda, pura: la RAZZA italiana ha una missione da compiere nel mondo, e la compirà. Questa nuova RAZZA ritrova se stessa nel Fascismo che ha liquidato la democrazia e ha tracciato le nuove strade della civiltà nel mondo.” E ancora: “Il Fascismo è nato e si rivolge come rivoluzione sul piano universale dell’Impero, realtà dominante perché è un prodigio della razza italiana come già lo furono Roma e il Rinascimento”. Coinvolto nella congiura “superfascista” del 1942, fu mandato al confino a Lipari. Dopo la guerra fu accolto anche lui nel Picì di Togliatti e di Longo… abbracciando la “militanza comunista” con impegno pari a quello speso durante il fascismo. Ma il passato gli rimase come un peso sulla coscienza. Cercò di farne ammenda con una trilogia autobiografica di lunghi racconti-confessione intitolati Ponte di Zarathustra (1965), il colpevole (1967), Ex (1968), infarciti di manipolazioni suggerite dal bisogno di farsi assolvere e dal bisogno di troppi, tanti, colleghi di partito che preferirono non essere coinvolti dissociandosi dalla sua iniziativa. CHIARELLI Giuseppe. Docente universitario. È uno dei maestri del Diritto Corporativo Fascista, sul quale scrive parecchi libri sostenendone i pregi in contrapposizione alle teorie e ai sistemi sia liberisti che “collettivisti”. Assorbito dopo la Guerra dalla Democrazia…, godrà la prestigiosa investitura di presidente della Corte Costituzionale. CIAMPI Antonio. Scrittore. Attivo collaboratore della stampa del ventennio con articoli Apologetici, fu condirettore di Legioni e Falangi, addetto stampa del Ministero della Cultura Popolare, volontario in A.O.I. Dopo la guerra, riesce ad inserirsi nel nuovo ordine democratico. Fu dapprima direttore e poi presidente della SIAE. CIASCA Raffaele. Docente universitario. Firmatario del manifesto di Croce del 1925, passò poi al Fascismo… pubblicando libri apologetici sul colonialismo del duce. Collaboratore di Primato, tra il 1940 ed il 1943, scrisse articoli in DIFESA delle Potenze dell’ASSE e contro gli alleati occidentali. Subito dopo la guerra passò alla DC e fu eletto senatore nelle liste democristiane. CODACCI PISANELLI Giuseppe. Docente universitario, uomo politico. Partecipa ai Littoriali della Cultura nel convegno di Dottrina del Fascismo, classificandosi con onore. Nel 1940 fa domanda di iscrizione al centro di preparazione politica dei giovani. Persa la guerra diviene solerte seguace della Democrazia Cristiana, quindi deputato per molte legislature e più volte ministro. COLITTO Francesco. Uomo politico. Durante il Fascismo è attento studioso del diritto del lavoro e delle istituzioni corporative. Pubblica libri ed articoli sugli ordinamenti sindacali e corporativi mussoliniani, lodandone le “innovazioni” ed esaltando il duce. Dopo la guerra lo troviamo nel PLI per il quale sarà deputato e sottosegretario di Stato. CRESPI Mario. Industriale, nominato senatore nel 1934 su proposta di Mussolini, proprietario del Corriere della Sera, attivo esponente della società fascista, promotore e finanziatore dei famosi “Premi Mussolini”, annualmente distribuiti dall’Accademia d’Italia ai migliori intellettuali della nazione. Subito dopo il 25 luglio passa all’antifascismo. Sarà lu ad aprire prospettive di alleanza tra il Corriere della Sera ed il PCI.

D come...DE ROSA Gabriele. Docente Universitario Milita attivamente negli organi universitari del regime. Nel 1939 pubblica un volumetto intitolato “La rivincita di Ario”, a cura del GUF di Alessandria, duramente razzista ed anti-giudaico, inteso a provare “le influenze deleterie dell’ebraismo con la conseguente necessità di purgare l’Italia dalla piovra giudaica”. Sostiene altresì l’ideologia del “cattolicità e fascismo”, dove fascismo significa “agire per fini universali interiormente religiosi e sacri”, e che i giovani “debbono diffondere per l’Italia il fuoco e la vitalità del loro animo cattolico e razzista”. Dopo la guerra, il De Rosa diventa uno dei tanti “artefici” della resistenza e passa al PCI, successivamente salta dal PCI alla Democrazia Cristiana. La “sua” ricostruzione della Storia finisce sui banchi delle scuole e delle università. Nel 1977, immemore di quella equazione (cattolicità=fascismo), pubblica un’ampia ricostruzione storica e biografica di don Luigi Sturzo, il prete siciliano fondatore del partito popolare e ne loda l’emblematica contrapposizione del mondo cattolico al fascismo…Robe da matti:)))) DE FEO Sandro. Giornalista… Durante il fascismo fu critico cinematografico del Messaggero. Quale collaboratore di Critica Fascista apologizzò il regime fino a scrivere che “il senso dello squadrismo è veramente immortale”. Dopo la guerra fece professione di fede liberale e imputò a Mussolini le sue tare miserande e il “suo misero destino”. DE GIORGI Elsa. Attrice. È di casa nel gran mondo della cinematografia gestito dal fascismo, frequentatrice degli ambienti più mondani del Ventennio. Corteggiata da Galeazzo Ciano, fotografata col ministro della cultura popolare Alfieri, interprete di film patriottici come Teresa Confalonieri nel 1934. Fieramente antifascista dopo la guerra, scrive libri autobiografici (I coetanei, 1955) rinnegando le antiche amicizie e spargendo scherno e disprezzo sugli ambienti fascisti che aveva a lungo sfruttato. DE GRADA Raffaello. Critico d’arte, giornalista. Partecipa ai Littoriali della Cultura con Ottime Classifiche. Collabora alla stampa del ventennio. Indulge all’apologia del fascismo. Dopo la Guerra sarà deputato del PCI. DE SICA Vittorio. Attore. La sua carriera cinematografica si sviluppa durante il fascismo ed egli stesso è fascista, dimostrato dalle fotografie che lo ritraggono mentre recita col distintivo all’occhiello. È vero che i suoi gusti scenici erano solo sentimentali e borghesi, ma è altrettanto vero che, calandosi nei tempi, scriveva sulla rivista Scenario del Luglio 1939: “Certo è che, piuttosto che continuare a dar corpo a degli eroi della rassegnazione, della rinuncia, della modestia (tutte virtù che nessuno di noi sente più, che il tono dell’italiano nuovo è tutt’altro) io preferisco ritirarmi in buon ordine e aspettare il momento buono per rimettere il capo alla ribalta…aspetto opere che si incontrino col mio desiderio di battaglia”. Codesto suo desiderio di battagliare, come si conviene a un “italiano nuovo”, si muoverà dopo qualche anno in senso letteralmente inverso. De Sica sarà regista di film polemicamente antifascisti come Roma Città aperta e Il Generale della Rovere. DONATI Antigono. Docente universitario, uomo politico. Collaboratore della stampa del ventennio, di Bibliografia Fascista. Insegnante dell’Istituto di Studi Corporativi, fotografato in camicia nera. Poi socialista e deputato PSI al parlamento democratico.

F come...FIRPO Luigi. Docente Universitario. Dal 1934 al 1940 partecipa a TUTTE le edizioni dei Littoriali della Cultura, classificandosi SEMPRE con ONORE... È redattore capo del settimanale del GUF di TORINO: Il Lambello… (…). È premiato da Galeazzo Ciano a Lucca tra “Poeti del Tempo di Mussolini” per una Lirica INNEGGIANTE alla “giovinezza scama, guerriera – scatenata sui continenti – come vento di primavera”. Perduta la guerra, il Firpo diventa antifascista e scriverà a lungo su La Stampa articoli di integrale condanna del regime… servito in precedenza ai più alti livelli. Accusato più volte da poco coraggiose “insinuazioni” sul suo passato sarà sempre difeso da “colleghi” intellettuali di sinistra e dai clienti dei salotti-bene della FIAT: gruppo politico-culturale dominante torinese e azionista che per mezzo secolo con le risorse finanziarie della Fiat, l’appoggio di qualche loggia massonica francese e del Partito comunista italiano ha falsificato la storia del Paese con la copertura dei potentati economici a cui ha sempre leccato i piedi. FAZZINI Pericle. Scultore. Sotto il fascismo scolpisce bassorilievi per celebrare le “imprese” d’Etiopia. Persa la guerra si appresta allo studio di monumenti al partigiano.

G come...GIANNINI Massimo Severo. Docente Universitario. Collaboratore durante il ventennio dell’Archivio di Studi Corporativi e di altre riviste di diritto pubblico fascista con saggi inseriti nel sistema. Passa dopo la guerra all’antifascismo, poi liberal democratico, poi liberal anglosassone. GOTTA Salvatore. Scrittore. Aderisce fin dal 1922 al fascismo, ne sostiene le idee e gli istituti in libri ed articoli, allestisce i versi di “Giovinezza” e di altri inni fascisti, vince premi e si assicura onori e prebende di regime. Dopo la guerra passa all’antifascismo. GOZZINI Guido. Scrittore, uomo politico poi. Per valutarne la milizia fascista basta leggere l’articolo che pubblicò nell’Aprile 1939 su Critica Fascista. È un appello alla poesia perché canti “in armonia con lo spirito della romanità e del fascismo”, essendo il fascismo “un grande movimento non soltanto politico ma anche spirituale”, al quale perciò “non può mancare una sua propria glorificazione poetica”. Gozzini concluse: “Ci muova un amore: la Poesia; ci esalti una Fede: l’Italia Fascista”. È lo stesso Gozzini che negli anni sessanta si farà promotore dell’intesa tra cattolicesimo e comunismo e che, messo il “dialogo alla prova” sarà eletto nel 1976 senatore nelle liste del PCI. GELLI Licio. Nel 1984 viene dato alle stampe un corposo volume degli atti parlamentari con intestazione della CAMERA DEI DEPUTATI – Senato della Repubblica – IX Legislatura – Doc. XXII n.2-bis/1. Dal titolo: Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2 (Legge 23 settembre 1981, n. 527) – Relazione di minoranza dell’onorevole Massimo Teodori. Ciascuna delle centinaia di pagine reca l’intestazione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. I vari capitoli riportano le testimonianze dei principali uomini politici del tempo che hanno dovuto presentarsi all’audizione, documenti ed ovviamente la ricostruzione nel tempo dell’attività del Gelli secondo l’onorevole Teodori. A differenza della maggioranza della commissione l’onorevole Teodori volle dedicare attenzione anche al periodo precedente la P2 ed alle relazioni tra Gelli e PCI, ma vista l’opposizione degli altri partiti questa può essere la ragione principale per cui la Commissione d’inchiesta non ne uscì con una relazione unitaria. Prima ancora, quindi, di occuparsi delle vicende degli anni 60 e ’70 fino all’esplosione dello scandalo in cronaca, Teodori dedica i primi capitoli al passato di Gelli con il capitolo n.2 dal titolo: I Rapporti col PCI: lo scheletro nell’armadio di Gelli (*) (*= precisa nella nota lo stesso Teodori: Tutti i riferimenti documentali di questo capitolo sono pubblicati nel primo volume di documenti a cura della Commissione). Segue il sottotitolo: Il dopoguerra di Gelli. Nessuna indagine della Commissione. Il passaggio a Cattaro. I contatti con il CLN e i rapporti Gelli-PCI. La consegna della lista dei collaborazionisti. Scrive Teodori: “La Commissione non ha voluto svolgere nessuna indagine diretta sul Gelli degli anni ’43 – ’47, cioé gli anni in cui nizia il doppio gioco multiplo del Gelli collaboratore di partiti e di poteri occulti, intermediario tra gli opposti schieramenti e abile manovratore nell’area particolare delle informazioni importanti e riservate, cioé nei servizi segreti. Vi è stata un’inspiegabile reticenza da parte della gran maggioranza della Commissione e della Presidente On. Tina Anselmi nell’accertamento della verità dei fatti di quel periodo. Quando la Commissione ha iniziato i lavori, era possibile, se lo si fosse voluto, interrogare alcuni diretti protagonisti delle vicende e dei coinvolgimenti del Gelli primissima maniera.” Naturalmente Teodori intendeva protestare e quindi dichiara di proseguire da solo la sua inchiesta ricorrendo, come egli stesso precisa, alle inchieste giornalistiche di Gianfranco Piazzesi ed anche ottenendo, IN ANTEPRIMA, la possibilità di consultare i manoscritti di un’opera al tempo in corso di pubblicazione presso gli Editori Riuniti: La Storia dei Servizi Segreti italiani di Giuseppe De Lutiis. Così prosegue Teodori: Nel 1943, a soli 24 anni, Licio Gelli che aveva combattuto nel campo fascista la guerra di Spagna e successivamente la guerra in Dalmazia, torna nella sua città natale, Pistoia, come ufficiale di collegamento tra Wermacht e i militi della Repubblica Sociale. Sono i mesi dell’agonia nazi-fascista che preludono al successo della Resistenza ed alla liberazione degli alleati. Tramite familiari Gelli (una sorella era militante comunista) si mette in contatto con i rappresentanti locali del CLN offrendo la propria collaborazione ed i propri servizi in forza della posizione da lui occupata nel campo repubblichino e tedesco. Fornisce in tal modo informazioni ad esponenti comunisti del Locale Comitato di Liberazione e partecipa anche ad alcune operazioni partigane, pur se costantemente ispirato da ambiguità di comportamenti. Con la liberazione della Toscana e la fine delle ostilità Gelli richiede ed ottiene la protezione dei comunisti del Comitato di Liberazione, un lasciapassare e documenti personali. Riesce in tal modo a salvare la vita ed a fuggire a Roma e a Napoli e quindi in Sardegna, all’isola della Maddalena, dove, ricercato dalle forze dell’ordine, entra in contatto con i carabinieri. Il capitolo su Gelli è forse il più importante poiché ancora strettamente legato alle vicende di oggi. Ancora oggi vi è mercimonio e ricatto di fascicoli riservati. Il famoso “armadio della Vergogna” riguarda vicende e disastri consumatisi proprio nelle terre dove il Gran Maestro ha operato dapprima come collaboratore repubblichino dei nazisti e successivamente come collaboratore dei CLN. Quali nomi vi erano nelle scottanti collaborazioni che Gelli ha passato al PCI? Cosa ha portato il PCI di Togliatti a coprirlo tutto il tempo? Gli atti parlamentari depositati dall’indagine di Teodori riportano Nomi, fatti, che vanno dalla collaborazione col PCI, fino ai passaporti diplomatici con le dittature sudamericane. Nomi di partigiani che lo hanno scortato ed anche nomi di testimoni che lo hanno incontrato. Informative del Com. In. Form n. 15743, attestati e coperture. Chiunque può partire da questi dati e verificare ed approfondire. E magari pretendere che tutto ciò che resta coperto da omissis venga scoperchiato una volta per tutte.

come...INGRAO Pietro. Poeta e uomo politico. Come poeta vinse a Lucca il “Premio poeti del tempo di Mussolini” con una lirica dal titolo Coro per la nascita di una città, con la quale celebrava la fondazione di Littoria e la mussoliniana bonifica delle paludi pontine. Sempre secondo la ricostruzione pubblicata dal Tripodi vi sono altre cronache giornalistiche narrano che fu premiato da Galeazzo Ciano “in una cornice stupenda di popolo all’aperto adunati fascisti di tutta la zona”. Come uomo politico militò prima nel Partito Nazionale Fascista (PNF), poi nel PCI. Quando era fascista prese parte ai Littoriali della Cultura, misurandosi in più gare e classificandosi a Roma nel convegno dedicato all’organizzazione del PNF. Dopo la guerra, eroe della resistenza antifascista dirige l’Unità ed entra in parlamento fin dalla prima legislatura. Raggiunse tra mille compromessi e danze di fascicoli riservati, nel 1976, il vertice di presidente della Camera dei Deputati. Il suo mutamento di bandiera fu spesso sottolineato in pubbliche polemiche di stampa. Crollato il muro di Berlino, visto lo scarsissimo livello storico-teorico di dibattito e la confusione che unisce addirittura sedicenti trotskisti e stalinisti non poteva non finire nel prc (il "Partito della Rifondazione Comunista". IOTTI Leonilde. Leonilde Iotti, detta Nilde, prima di essere l’amica del “migliore”, al secolo Palmiro Togliatti e inseguito Presidente della Camera, era nel 1942 una Giovane Italiana della G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) che, come tante altre, passò in quell’anno al P.N.F. (Partito Nazionale Fascista) presso il Gruppo Rionale Fascista “A. Maramotti” di Reggio Emilia con la tessera n. 1105040 come risulta dal certificato rilasciato il 20 marzo del 1943 il XXI dell’Era Fascista. Di Ella non abbiamo, per ora…, articoli ed odi firmate che esaltano la razza ariana, come abbiamo visto per molti galantuomini messi in ordine alfabetico. Tuttavia la rete è ricca di bibliografie apologetiche della sua figura, eroina partigiana, si parla anche dei suoi tailleur… ma nessuno si azzarda a citare quel piccolo particolare dell’adesione al fascismo o che partecipò in divisa fascista alle riunioni del regime… Mentre contro altri invece sì…Tutti hanno diritto a cambiare bandiera, ultimamente va anche di moda farlo decine di volte in pochissimo tempo. Ma dobbiamo rifiutare la sola idea che possano esistere gli Intoccabili. Negli anni 90 scoppiò lo scandalo del suo passato fascista, come per tutte le cose fu ovviamente un’operazione di danneggiamento politico (come spesso accaduto in passato nella danza dei fascicoli riservati…) questa volta fatto condurre a Vittorio Sgarbi tramite i canali nazionali fininvest, come si conviene in queste circostanze lo Sgarbi fu avaro di fonti, bisogna dedurne che era in corso qualche contrattazione, per cui in questo caso alla fininvest devono saperne molto di più, ma per ragioni di mercato preferiscono il silenzio. Come da tradizione. Invece, occorre aggiungere che a fine anni 80, primi mesi del 1989 o fine 1988, esplose una violenta polemica sulle Lobby…Erano gli anni in cui un’intera classe politica stava per crollare di fronte alle inchieste della magistratura. Iotti, che al tempo era presidente della Camera si rese protagonista di un isterico intervento in difesa dell' “onorabilità” di quel parlamento… negando nella maniera più assoluta l’esistenza delle Lobbies… ed attaccando la stampa tutti quanti in quel periodo urlavano allo scandalo. Questo episodio rivela da solo la forza ed il ruolo di questo personaggio. L’episodio fu ripreso dai giornali il giorno seguente, la cosa è agli atti parlamentari ed a radio radicale dovrebbero tutt’ora essere in possesso delle bobine audio di quello storico evento parlamentare, in quanto al tempo si fregiavano di essere gli unici a trasmettere le dirette dalle Camere.

J come...JACOBBI Ruggero. Critico e scrittore. Partecipa ai Littoriali e si classifica tra i primi. Collabora attivamente alla stampa del Ventennio, compresa quella di partito, come Civiltà Fascista e Roma Fascista. Caduto il fascismo passa a sinistra. Prima è nel PCI, ma per le elezioni amministrative del 1964 invita a votare PSI, firmando appelli di intellettuali socialisti. JAEGER Nicola. Docente universitario. Partecipa attivamente alla sistemazione giuridica dei principi e degli istituti del fascismo: nel 1932 è uno dei relatori generali del famoso convegno di Ferrara. Nel 1939 pubblica un volume sui Principi di Diritto Corporativo, testo fondamentale per la conoscenza e lo studio del corporativismo fascista. In epoca democratica sarà Giudice della Corte Costituzionale su segnalazione delle sinstre. Togliatti lo definirà membro attivo del movimento comunista.

L come...LATTUADA Alberto.

Regista e produttore cinematografico. Inizia la sua carriera durante il fascismo partecipando più volte ai Littoriali della Cultura e conquistando il titolo di Littore di critica cinematografica. Collabora alla stampa del Ventennio in special modo a Libro e Moschetto del GUF di Milano. Dopo la sconfitta dirige e produce “film di denuncia” delle aberrazioni fasciste e invita a votare socialista. LUCIFREDI Roberto. Docente universitario e uomo politico. Estensore di numerose voci del Dizionario di Politica edito dal PNF nel 1940 e specie di quelle riguardanti le innovazioni del regime nel campo del Diritto Pubblico. Passato poi alla Democrazia Cristiana, sarà deputato in moltissime legislature repubblicane, ministro e vicepresidente della Camera dei Deputati.

M come... MACCARI Mino. Incisore, pittore, scrittore. Dopo il 25 Luglio 1943 aderisce all’antifascismo, milita nel Partito Socialista, dedica le sue indubbie qualità artistiche a disegnare manifesti e vignette antifasciste. Durante il fascismo era stato invece squadrista, marciatore su Roma, segretario del Fascio di Colle Val D’Elsa, docente dell’Accademia di Belle Arti della capitale, senza concorso, per investitura diretta da parte di Bottai. Direttore della rivista “Il Selvaggio” (1924-1943), ne fece foglio di aggressive polemiche a sostegno di un “fascismo integralista”, intollerante, manesco, strapaesano. Contro ogni accenno della rivoluzione a normalizzarsi, andava in bestia brontolando e auspicando la riesumazione del manganello prima maniera. Ecco alcuni versi della sua “Nostalgia dello squadrista”:

“Malinconico il tuo destino.

O squadrista dei giorni ardenti.

Una seggiola e un tavolino.

Giunta, sindaco e componenti.

Hai risposto.

Il cordone della squadraccia,

era bella mondo ruffiano,

tutta ardita quella vitaccia.

A tutte l’ore essere in ballo,

che il camion presto si trova,

la ragazza ci ha fatto il callo

e per cena un paio d’ova.”

Altri versi da “Sveglia fuori ordinanza”:

Pende triste e mortificato

il tuo povero gagliardetto,

o squadrista tutto inc….ato,

meglio uscire o andarsene a letto.

E da “La marcia su Roma” si segnalano le seguenti quartine:

Quando l’uva bollì nei tini

e scarlatti si fecero i pampini

noi squadristi di Mussolini

ci riunimmo in neri manipoli.

Quando l’uva bollì nei tini

e le foglie si fecero pallide

noi squadristi di Mussolini

i gagliardetti sventolarono.

Allorché se un poeta scrive questi versi giacobini, non è affatto sostenibile la tesi che la Marcia su Roma l’abbia fatta solo “per non dire di no a un compaesano”. Eppure lo sostenne, a cuore in mano, Enzo Biagi sul Corriere della Sera del 5 giugno 1977. Tralasciamo infine per ragioni di buon gusto certi scritti pubblicati sempre ne “Il Selvaggio” dal Maccari che ironizzano sulla vedova Matteotti nell’estate del 1924. Ecco quindi un altro eroe, padre antifascista della Repubblica….MAFAI Mario. Pittore. Dipinse durante il fascismo una “Testa di balilla” e una “Via dell’Impero” adeguandosi ai miti correnti dell’apologia artistica del fascismo. Dopo la sconfitta di tale “via dell’impero”… diventa militante del PCI e scrisse su “Rinascita” che durante il Ventennio “gli artisti se ne stavano isolati e corrucciati” perché “non trovavano quel clima e quei tipi degni di essere rappresentati”. MARANINI Giuseppe. Docente universitario. Prima giornalista, poi insegnante di Diritto Pubblico presso la Facoltà di Scienze Politiche di Perugia per incarico di Mussolini. Un RISCONTRO della sua ORTODOSSIA è dato su Civiltà Fascista, da queste frasi: “Il Regime: cioè il Partito Unico, lo Stato Forte, la coscienza vibrante della grande impresa nazionale cui tutti ci industriamo di collaborare”. Nel 1937 pubblica a Firenze un volume di 350 pagine (cazzo) dal titolo “La Rivoluzione Fascista nel Diritto e nell’Economia”, ad uso dei licei e degli istituti magistrali. Collabora alla stampa fascista. Ramperti lo definisce “fedelissimo” a Mussolini. Dopo la guerra passa alla stampa “democratica ed antifascista”. Nel 1946 scrive, sull’Arno di Firenze, che “la dittatura che agisce in Russia può essere storicamente giustificata, mentre quella di Mussolini non poteva esserlo; quella dittature lascerà forse alla Russia e al mondo una grande eredità, mentre quella di Mussolini ci ha lasciato in eredità un disastro”. Vincendo nel 1961 il “Premio Marzotto” dichiara che a suo tempo avava fatto anche lui il giornalista, ma che, nel 1924, aveva dovuto abbandonare quello “splendido mestiere” per “i nuovi e proibitivi fatti politici a tutti noti”. MARINOTTI Franco. Industriale. Come tutti i grandi industriali prende le distanze dal regime a mano a mano che la guerra appare compromessa. Dopo il 25 Luglio sarà addirittura sulla sponda antifascista. Del suo originario fascismo fa fede l’adesione data nel 1939 all’iniziativa della rivista Circoli per la nomina di Mussolini a “Primo Cavaliere del Lavoro”. L’investitura doveva essere promossa da tutti gli altri Cavalieri del Lavoro, da Fassini a Pirelli, Vaselli, Rizzoli, Lauro. La rivista ne pubblicava le adesioni. Quella di Marinotti diceva: “Plaudo alla Vostra iniziativa. Sarà un grande onore e un ambito premio avere con noi il più forte e temprato lavoratore del Nostro Paese: il Duce!”. Ma l’adesione del Marinotti non si fermava alle qualità lavoratrici del Mussolini. Era anche data ai suoi programmi bellici che sono occasione di guadagno per la parte più sporca di ogni Paese…Nel 1941 scriveva: “L’entrata in Guerra dell’Italia suggella definitivamente la politica autarchica del regime. Chi comprese da subito in passato le mete autarchiche, ha oggi la soddisfazione di essere stato pioniere nella costruzione del potenziale bellico della Patria in Armi”. Queste frasi, da buon imprenditore, sono contenute in un volume-guida pubblicato a Milano, col titolo “Guida all’Autarchia”; è un volume guida anche per quanti vogliono conoscere le molte LODI alla politica del fascismo e i tanti supporti economici offerti alla guerra dagli esponenti dell’alta e media industria italiana. MARTINI Arturo. Scultore. Alla “Terza Quadriennale Romana” espone, lodato dai critici, un bel torso dell’eroe Tito Minniti, aviatore seviziato dalle truppe etiopiche allo scoppio della Guerra per l’Africa Orientale Italiana… e un’altra, grande, statua seduta del “Legionario ferito”. Per il Palazzo di Giustizia di Milano, Martini scolpisce un altorilievo avente per soggetto “La Giustizia Corporativa”. Nel 1938-39 le riviste d’arte pubblicano i bozzetti di Arturo Martini per il costruendo Palazzo Littorio in Roma, complessivamente intitolati “Storia eroica del Fascismo”. Molto di più, quindi, di una “vittoriella alta 30 centimetri e che mi fu rifiutata”, della qualle, minimizzando, scrive a Raffaello Levi nell’agosto del 1945 per negare di aver conferito al fascismo la propria arte. La lettera a Levi non è consolante per la libertà della cultura. Tra l’altro Martini si auto discrimina dagli impegni fascisti sostenendo “che questo è il mio mestiere, cioè tanto di servire il diavolo come il padreterno, e lo farò sempre, come Canova che fece Napoleone nel periodo della sua dominazione italiana, Beethoven, e mille altri casi che potrei citare. Lo scultore è come il calzolaio che fa le scarpe a chi le ordina”. Commenta invece Fernando Tempesta (cfr. Arte dell’Italia Fascista, Feltrinelli, 1976, p. 168-169) che Martini aveva trasformato “il metallo indefinito e piuttosto vile del solito populismo fascista nell’oro puro della sua mitografia popolare, che non contraddice il regime, ma che lo arricchisce se mai di nuove forme”. E conclude il Tempesta: “Francamente, davanti ad artisti come questi, certe perentorie tendenze a dire che ci fu un’arte fascista, ci appaiono piuttosto frettolose”. MAZZACURATI Marino. Scultore. Durante il fascismo era noto “per i suoi bust littori” (Il Borghese, 1 marzo 1951). Durante l’antifascismo indirizza lettere e appelli alla stampa di sinistra dichiarando di commuoversi “per i superstiti del Vajont, gli affamati dell’India, i prigionieri di Franco, gli infelici del Vietnam” (Paese Sera, 24 maggio 1966). MARTINO Gaetano. Docente universitario, uomo politico. Caduto il fascismo fu esponente di vertice del Partito Liberale, ministro degli esteri e della Pubblica Istruzione della Repubblica (democratica). Durante il fascismo fu tesserato del PNF, collaboratore della stampa fascista, zelante proselite in camicia nera delle attività politiche e culturali della Federazione dei Fasci e dell’Università di Messina. MONTANELLI Indro. [fonte: CIVILTA' FASCISTA, GENNAIO 1936] "Ci sono due razzismi: uno europeo - e questo lo lasciamo in monopolio ai capi biondi d'oltralpe; e uno africano - e questo è un catechismo che, se non lo sappiamo, bisogna affrettarsi a impararlo e ad adottarlo. Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può. Non si deve. Almeno finchè non si sia data loro una civiltà... non cediamo a sentimentalismi...niente indulgenze, niente amorazzi. Si pensi che qui debbon venire famiglie, famiglie e famiglie nostre. Il bianco comandi. Ogni languore che possa intiepidirci di dentro non deve trapelare al di fuori". (Indro Montanelli. Dicembre 1935. Da "Civiltà fascista" N.1, gennaio 1936) Il resto del delirio di questo personaggio, sdoganato dalla sinistra più corrotta prima, e mitizzato dai seguaci di Travaglio, Saviano e Grillo.... potete leggerlo in rete. Moravia Alberto. [Fonti: dagospia.com - Repubblica.it - Nello Ajello - Tripodi] Comunque pare che sia la scoperta dell’America ma mancava alla presente lista di mausolei per travestititi di rosso e usurai dell’ideologia. Moravia e il Duce. «Che Alberto Moravia non sia fascista non è un mistero per nessuno». L´osservazione figura in una nota di polizia indirizzata il 20 gennaio 1934 alla Direzione Generale della Stampa Italiana. È solo un anticipo. Subito dopo, corpose informazioni, custodite all´Archivio Generale dello Stato, avranno per oggetto Moravia. Ne emerge un ritratto, in forma inquisitoria, del romanziere di cui oggi cade il centenario della nascita. Ed è una lettura a suo modo appassionante. «Amorfo», «arrivista», «scrittore mediocre» e «di carattere misterioso», «infido», «molto propenso all´intrigo» sono le definizioni correnti. Egli non è «un ammiratore del Regime». La sua «mentalità speciale» ne fa un oppositore «caratteriale» del regime. «Una lunga degenza di sanatorio», ricorda un confidente, «influì nefastamente sul suo spirito assai sveglio». E così il suo carattere si orientò «verso un pessimismo per partito preso». «Non è fascista né antifascista», semplificano queste carte, «ma abulico – menefreghista». È un «ammiratore del Croce», anche se non consta che gli sia legato in termini di «ideologia politica». Un appunto redatto da Gherardo Casini – direttore generale della Stampa italiana – per il suo ministro contiene, nel luglio del ´36, un addebito più grave: Moravia e i suoi amici Paolo Milano e Mario Soldati, tutti e tre «di dubbi sentimenti fascisti», intrattengono «rapporti non chiari con alcuni noti fuorusciti antifascisti». (…) «Negatore di ogni valore umano»: così Arnaldo Mussolini definisce Moravia dopo averne letto il primo romanzo. Un giudizio non meno aspro il più illustre fratello affiderà a Yvon De Begnac, autore dei “Taccuini mussoliniani” (il Mulino, 1990). Il dittatore cita “Gli indifferenti” come «un romanzo oscenamente borghese e antiborghese». Senonché, proprio a Benito Mussolini Moravia si rivolge, per lettera, il 26 marzo del ´35. Gli chiede aiuto. L´onorevole Ermanno Amicucci, direttore della “Gazzetta del Popolo”, gli racconta, «mi ha comunicato ora è un mese, che i miei articoli per la Gazzetta non sarebbero più graditi». Della cosa egli si dice «assai stupito», «non avendo nulla» da rimproverarsi «sia dal punto di vista morale che da quello politico». Se non si è iscritto al Pnf, incalza, è perché la malattia di cui soffrì da ragazzo lo aveva astratto «nonché dalla vita sociale e politica, dalla vita addirittura». Poi, prosegue, «la riapertura delle iscrizioni» lo «prese alla sprovvista». Ora, più maturo, sente «il bisogno» di chiarirsi con il Regime, del quale ammira «l´opera in ogni campo, e in particolare in quello delle lettere e della cultura». «Debbo inoltre soggiungere», scrive, «che la personalità intellettuale e morale della Eccellenza Vostra mi ha sempre singolarmente colpito per la molteplicità delle attitudini e la forza dell´ispirazione, e soprattutto di aver nel giro di pochi anni saputo trasformare e improntare di sé la vita del Popolo italiano». Moravia si professa, in chiusura, «un artista italiano il quale cerca di fare opera non indegna della grande tradizione e dell´immancabile avvenire del suo Paese». Dagli articoli ai libri. Nel giugno del 1935 il secondo romanzo di Moravia, “Le ambizioni sbagliate”, è «in lettura» presso gli organi della censura. E a Galeazzo Ciano, sottosegretario per la stampa e propaganda, l´autore indirizza una lettera che – come la precedente, a Mussolini – è stata, nel tempo, variamente commentata. Dopo aver tracciato un´ampia parabola della propria produzione narrativa, egli s´impegna a spiegarne «i motivi ispiratori», definendolo «tutt´altro che pessimistici e distruttivi, tutt´altro che antitetici ed estranei alla Rivoluzione Fascista». In particolare Le ambizioni sbagliate non «esorbitano dal clima» del regime. E perciò Moravia invoca «quel giudizio giusto e illuminato» che permetta di non vanificare «le speranze e il travaglio di molti anni di lavoro». (…) Porta la data del 18 agosto 1935 una sua seconda lettera a Ciano, promosso ministro della Cultura popolare. Moravia gli chiede di potersi recare in Africa – sta per scoppiare la guerra d´Etiopia – per ricavarne un libro «dal vivo». Richiesta respinta. Il tono «patriottico» adottato dallo scrittore non pare, in questa fase, attenuare l´animosità che lo circonda. Ne è consapevole l´editore Valentino Bompiani che, prima di pubblicare un volume di racconti di Moravia, “L´imbroglio”, chiede a Gherardo Casini di fargli sapere, «anche solo in via ufficiosa, se può esservi qualche obbiezione da parte del Ministero». Stavolta il «nulla osta» arriva. Lo scrittore, però, non si sente tranquillo. Il 9 luglio del ´36, rientrato da un lungo viaggio negli Stati Uniti, domanda per lettera a Mussolini che gli sia consentito di riprendere l´antica collaborazione alla “Gazzetta del Popolo”. La sua firma riappare sul quotidiano torinese: Amicucci ha ricevuto un´autorizzazione dall´alto. I tempi incalzano. Si arriva al 1938. Anche la terza lettera di Moravia a Mussolini riflette difficoltà giornalistiche. La campagna antisemita sta sfoltendo le redazioni, e il solito Amicucci sbarra le porte del suo giornale al «noto Pincherle». «Io ebreo non sono», fa presente quest´ultimo al dittatore, il 28 luglio, «se si tiene conto della religione. Sono cattolico fin dalla nascita e ho avuto da mia madre in famiglia educazione cattolica. È vero che mio padre è israelita; ma mia madre è di sangue puro e di religione cattolica; si chiama infatti Teresa De Marsanich ed è la sorella del Vostro sottosegretario alle comunicazioni. Per queste ragioni, Duce, io vi chiedo di non essere considerato ebreo». L´invocazione moraviana ha effetto, la sua collaborazione alla “Gazzetta” può continuare. Alti e bassi. Intervengono nuove avversità editoriali. Il terzo romanzo di Moravia, “La mascherata”, viene sequestrato, fresco di stampa, nel ´40. Il 13 febbraio del ´41, una velina del Minculpop intima ai giornali: «Non occuparsi di Moravia e delle sue pubblicazioni». Quarta lettera del romanziere a Mussolini: «Mi permetto di rivolgerVi, Duce, la preghiera di poter riprendere la mia attività giornalistica dalla quale io traggo i mezzi per vivere. Anche perché tra poche settimane mi sposo». Viene concesso a Moravia di scrivere sui giornali con pseudonimo. Glielo conferma, a voce, il direttore generale della Stampa italiana, Gherardo Casini, ricevendolo la mattina dell´11 aprile 1941. Qualche ora più tardi lo scrittore prega Casini di consentire che una novella esca con il suo «solito nome» nel prossimo numero della rivista Letteratura, già composto e stampato all´atto del divieto. (…)  Risale al marzo del ´41 un appunto inviato al ministro Alessando Pavolini, successore di Ciano in cima al Minculpop, dal suo capo-gabinetto: il funzionario racconta di aver ricevuto nel suo ufficio Moravia, su preghiera dell´ormai proverbiale Amicucci. «Ho dovuto “sorbettarmelo” per un quarto d´ora con somma abilità», riferisce, e chiede al ministro di voler concedere un´udienza allo scrittore. In calce all´appunto si leggono due paroline a matita: «Grazie no». L´8 settembre 1941 una circolare a firma Pavolini ordina ai prefetti: «Pregasi invitare direttori quotidiani e periodici a non più (dicesi non) pubblicare scritti di Alberto Moravia». Di lì a poco, le sorti della guerra inclineranno alla tragedia e il regime alla ferocia. In virtù di non si sa quale acrobazia o quale supplica, alcuni scritti dell´autore degli Indifferenti – nascosto sotto il nome d´arte di Pseudo – compaiono nella carta stampata fino al 1943. Ma ormai per lui, come per tanti altri intellettuali, non si tratterà più di lottare – in ogni modo possibile, con molta pervicacia, con poche armi in mano – contro la censura, ma di salvare la libertà personal e, se non la vita. E quella è un´altra storia. LA LETTERA… La lettera, finora inedita, di Alberto Moravia a Galeazzo Ciano è dell´estate 1935. La guerra d´Etiopia è in febbrile preparazione, Ciano si dispone a partire volontario, con il grado di capitano di Aviazione. Assumerà il comando della XV squadriglia bombardieri all´Asmara “La Disperata”, dal nome di una celebre unità dello squadrismo fiorentino. Da qui trae spunto la missiva di Moravia. Eccola: Forte dei Marmi Hotel Principe, 18 agosto 1935 XIII. "Eccellenza, mi permetta di congratularmi con Lei per l´esempio che Lei dà a tutti gli scrittori e a tutta la gioventù italiana. Il suo esempio mi ha deciso a compiere un atto che è doveroso da parte mia. Sono stato riformato recentemente al servizio di leva per anchilosi dell´anca destra, e non mi è possibile, perciò, di arruolarmi volontario, come avrei voluto, nel Corpo di Spedizione per l´Africa Orientale. Resta tuttavia vivissimo in me il desiderio di partecipare in qualche modo all´impresa africana. Vengo dunque a domandarLe di poter passare qualche mese sull´altopiano Eritreo allo scopo di comporre un libro sulla guerra degli Italiani in Africa. Avrei voluto chiedere di andare come corrispondente di un giornale, ma le note giornalistiche hanno sempre qualcosa di provvisorio e di frammentario: ora io vorrei scrivere un libro organico, il quale potesse rimanere documento e testimonianza dell´eroismo della gioventù fascista in guerra. Non potrebbe Ella, Eccellenza, aiutarmi in qualche modo a realizzare questo mio desiderio? Nella speranza che la mia proposta venga da Lei accettata e che io possa, nel caso, esporla a voce all´Eccellenza Vostra, Le esprimo i sensi della mia profonda e sincera devozione. Alberto Moravia". La risposta porta la data del 24 agosto XIII. A scriverla è il Direttore Generale per il Servizio della Stampa Italiana. «Egregio Sig. Moravia, in relazione alla lettera da Lei inviata S. E. il Ministro, spiace doverLe comunicare che non è dato, almeno per il momento, di assecondare la sua richiesta. Augurandomi che mi sia consentito in altra occasione di darLe migliore risposta, le porgo distinti saluti». MORO Aldo. [fonte: Articolo citato di Aldo Moro del 1943 citato in "Storia Illustrata", gennaio 1998, pag.45] "La razza è l'elemento biologico che, creando particolari affinità, condiziona l'individuazione del settore particolare dell'esperienza sociale, che è il primo elemento discriminativo della particolarità dello stato".

N come...NATTA Alessandro. Iniziamo con wikipedia, dove bisogna rivolgersi alla versione francese per trovare qualche nota stonata rispetto alla moltitudine di biografie apologetiche, di partito e ripetitive, esistenti su internet. Alla data del 17 settembre 2007 la pagina francese è sintetica e lapidaria: Alessandro Natta (né le 7 janvier 1918 à Oneglia en Ligurie – mort le 23 mai 2001) était un homme politique italien qui fut l’avant dernier secrétaire général du parti communiste italien (PCI), de 1984 à 1988. Les deux dernières années de son mandat ont été ternies par les révélations sur sa présidence des GUF (Groupes Universitaires fascistes) de Pise. Stop. Di Natta si è occupato quasi 30 anni prima anche Nino Tripodi, che nel suo libro scrive: “Prende parte attiva alla vita dei Gruppi universitari fascisti. Si iscrive al PNF il 24 maggio 1937, provenendo dalle organizzazioni giovanili. Nell’Aprile del 1941 entra a far parte del Direttorio del GUF di Pisa con la carica di “addetto alla cultura”. Fa parte del comitato di redazione de “Il Campano” organo ufficiale dei fascisti universitari dell’ateneo pisano”. Le biografie corrotte dell’universo PCI ed ex -PCI ignorano a tutt'oggi questi riferimenti della di ESSI storia. Di Natta si conosce solo la costrizione alla guerra e l’eroica detenzione nei campi di concentramento in Germania in quanto avrebbe rifiutato il ritorno in Italia per non collaborare alla Repubblica Sociale. Ma Natta è stato anche al centro di polemiche per quanto riguarda gli italiani comunisti perseguitati da Stalin. Sarebbe stato tra i primi ad ammettere questi fatti, ma lo avrebbe fatto in modo troppo tardivo, equivoco, silenzioso e non certo chiarificatore. Altro capitolo a cui andrebbe dedicata una rivoluzione almeno in Italia. Della vicenda di Natta si occupa anche il sito beppeniccolai.org, in quanto seppur tardivamente, metà degli anni 80, l’ennesima polemica della danza dei fascicoli riservati era stata innescata anche dalle destre tanto che dovette scendere in campo anche l’Unità. Cane tira cane… nel giro di poco tempo si sono sentiti chiamati in causa anche personaggi di area democristiana, tanto che dovette intervenire anche Flaminio Piccoli. Il sito riassume con dovizia di particolari lo scontro di quei giorni. Rubrica il rosso e nero: E veniamo ora al caso Natta, segretario del PCI. Il suo caso ha fatto rumore in questi giorni. Remigio Cavedon, vice direttore de “Il Popolo”, attingendo da notizie che “Il Secolo d’Italia” aveva riportato fin dal 13 aprile 1979 (cinque anni fa, e nessuno ci aveva fatto caso. Si vede che registrano e poi mettono, per ogni evenienza, nel cassetto), ha titolato il suo pezzo (6/11/84): “l’ex-fascista Natta vuol mettere le mani sul sistema”. Scagliati cielo. È accaduto il finimondo. “l’Unità” ha prima replicato (7/11/84) con un corsivo dal titolo “Quando il Popolo impazzisce” («i comunisti non scenderanno mai a simili livelli: l’insulto personale, la rissa, la provocazione»); poi, il giorno dopo (8/11/84), con un lungo articolo, rispondendo alla provocazione, ci ha narrato una lunga storia che, simile ad una fiaba paesana, ha ricostruito Alessandro Natta, iscritto (con cariche) al PNF (Partito Nazionale Fascista) fin dal 1937, come l’antifascista più puro e più intemerato. Ed allora qualche precisazione non guasta. Scrive “l’Unità”, sotto il titolo “1937-1941: l’antifascismo di Natta, fine di una meschina provocazione”: «La verità è che il compagno Natta era stato educato, fin dall’adolescenza, all’antifascismo, che diverrà vera e propria milizia appena diciottenne lasciò Imperia per l’Università pisana». Fermiamoci qui. “l’Unità” è inesatta. Alessandro Natta non lasciò Imperia per l’Università pisana, ma per la prestigiosa Scuola Normale Superiore di Pisa (la Scuola che dà Premi Nobel), allora diretta dal filosofo Giovanni Gentile. «Educato, fin dall’adolescenza, all’antifascismo», scrive “l’Unità”. Oh! Santa bugia! I posti alla Scuola Normale Superiore, classe di Lettere, per il 1937, erano nove. Selezione, dunque, severissima, con concorso nazionale. Ora, delle due l’una: o il regime fascista, nel 1937, cioè nel suo fulgore, non guardava alla tessera, ma premiava, grazie a Giovanni Gentile, i meritevoli; oppure, la selezione avveniva tenendo conto della tessera (fascista), che Alessandro Natta possedeva, fin dall’adolescenza («antifascista»). La scelta la lasciamo a “l’Unità”. C’è qualcosa di più. Alessandro Natta, nel 1941 -quando già, secondo “l’Unità”, fondava, fascismo imperante, cellule comuniste in quel di Imperia-, annoverava nel PNF un doppio incarico: non uno, ma due. Infatti, non si limitava a far parte del comitato di redazione della rivista “Il Campano”, organo del GUF (Gruppo Universitario Fascista), ma addirittura veniva chiamato a dirigere la cultura: cioè, responsabile del settore più delicato della organizzazione fascista, nell’ambito universitario. La verità la dice, non “l’Unità”, ma Degl’Innocenti Danilo, allora addetto all’organizzazione e che, con Natta, faceva parte del direttorio del GUF pisano: «Alessandro Natta era un ambizioso impenitente. Voleva arrivare. E, per arrivare, dava gomitate incredibili. Fascistissimo. Un primo della classe e, se non fosse stato così, come avrebbe potuto avere quegli incarichi?». Non la giovane età (a 23 anni si è già maturi); non gli avvenimenti (Natta risulta iscritto alle organizzazioni giovanili fasciste, poi al GUF, poi al PNF); non fa registrare un suo sdegnoso appartarsi, ma ricopre cariche (e che cariche, le più delicate nei settori giovanili del partito): questo è il Natta edizione 1937-1941, attuale segretario del PCI, il partito di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer. Perché dunque prendersela con Remigio Cavedon che, poverino, non ha fatto altro che riportare fatti certi e accaduti? E, come sempre, la sbavatura DC, il partito della doppiezza: Remigio Cavedon viene rimproverato da Flaminio Piccoli. «È stato un grave errore» -ha detto Piccoli- «rimproverare a Natta il suo giovanile fascismo». Ipocrita, per non dire di peggio. Alla vigilia del referendum sul divorzio, Flaminio Piccoli, a chi gli chiedeva conto, alla TV, dell’accostamento, in quella campagna referendaria, con i «fascisti» del MSI, rispondeva che, per la DC, quei voti erano «colerici». Anche per quelle parole, giovani meno che diciottenni, sono stati assassinati. «Uccidere un fascista non è un reato». Allora, nessuna dichiarazione del presidente della DC, contro quella barbarie. Oggi un ben diverso «colera» infetta (il partito di) Flaminio Piccoli. È nell’occhio del ciclone. E che fa? Adotta un comportamento sperimentatissimo: quello di mettersi sotto la protezione comunista quando lo sporco ci sommerge. E tenta di salvare Alessandro Natta. Che ne viene fuori? Schizzi di fango. «Personalmente ho sempre ritenuto che Giovanni Gentile, uno dei massimi responsabili del tradimento degli intellettuali, dovesse finire così». Così dice Alessandro Natta del suo Maestro, il 12 agosto 1984 (“L’Espresso”), appena eletto, tronfio di gloria, segretario nazionale del PCI. (Per chi non lo sapesse, Giovanni Gentile, filosofo e docente universitario, ministro della pubblica istruzione 1922/1924 e senatore, direttore della Normale di Pisa e dell’Istituto per l’Enciclopedia Italiana, presidente dell’Accademia d’Italia, fu vigliaccamente assassinato da una banda di partigiani comunisti, il 15 aprile 1944, a Firenze). Novembre 1984: l’antifascismo di Natta si squaglia, come melma, al sole. Appena tre mesi. Sufficienti però, per chi aveva tacciato Giovanni Gentile, il proprio maestro, di tradimento, per cadere nella m…..Giuseppe Niccolai. L’articolo di Niccolai era corredato della riproduzione fotografica della nomina di Alessandro Natta al Direttorio del Gruppo Universitario Fascista pisano, tratta dalla rivista “Il Campano”, numero di marzo-aprile 1941. Riporto qui per esteso il testo di tale nomina: Nomina del Direttorio. In data 18 marzo u.s., il Segretario Federale ha ratificato la nomina del Direttorio del GUF Pisano, che risulta pertanto così costituito:

– Nardi Pilade Osvaldo, laureato in Medicina e Chirurgia, iscritto al PNF dal 1° agosto 1922, volontario in AOI (Africa Orientale Italiana), tenente medico: Vice Segretario;

– Degl’Innocenti Danilo, laureando in Economia e Commercio, iscritto al PNF dal 23 marzo 1928, proveniente dalle Organizzazioni Giovanili, sottotenente di fanteria, pilota civile: Addetto all’Organizzazione;

– Natta Alessandro, laureato in Lettere, iscritto al PNF dal 24 maggio 1937, proveniente dalle Organizzazioni Giovanili: Addetto alla Cultura;

– Lucarelli Antonio, laureato in Legge, iscritto al PNF dal 24 maggio 1934, proveniente dalle Organizzazioni Giovanili, volontario in AOI, sottotenente di fanteria: Addetto allo Sport. MAZZOCCHI Gianni. Editore. Con propositi dichiaratamente antifascisti, nel Dopoguerra, diede vita al settimanale L’Europeo facendolo dirigere da Arrigo Benedetti. Altre pubblicazioni della sua casa editrice ebbero marca analoga. Alla vigilia della guerra le sue attività editoriali avevano un timbro diverso. Nel 1940 la sua rivista DOMUS pubblicava con rilievo questa notizia: “Il Duce ha ricevuto il fascista, dott. Gianni Mazzocchi, editore della rivista “DOMUS”, “Casabella”, “Fili” e “Panorama”, che gli ha fatto omaggio del grande volume speciale di DOMUS “Fantasia degli italiani” e del “Libro di casa 1940”. “Il dottor MAZZOCCHI ha fatto una relazione dei dodici anni della proprio attività editoriale e ha esposto un programma di sviluppo delle sue riviste ed edizioni. Il Duce ha gradito l’omaggio ed ha eogiato l’attività editoriale del dott. Mazzocchi”. MEDICI Giuseppe. Docente universitario, uomo politico ripetute volte ministro democristiano in governi di centrosinistra. A capo del dicastero della Pubblica Istruzione promosse l’inclusione della “storia della resistenza” nei libri di testo delle scuole medie. Alberto Giovannini gli indirizzò allora una lettera aperta proponendogli che, per fare una storia “decente” dei venti mesi della guerra civile, si sarebbe dovuto innanzitutto dimostrare “che gli italiani che oggi comandano resistettero al fascismo”. Evidentemente Giovannini conosceva il suo pollo. Il ministro Medici era stato, a suo tempo, un fascista scrupoloso. Lo vediamo fotografato nel 1938 in orbace e camicia nera con una vistosa patacca gerarchica sul petto, circondato da camerati tedeschi in divisa. La sua adesione culturale al regime è attestata dalla collaborazione al Dizionario di Politica, allestito nel 1940 dal Direttorio Nazionale del Partito Fascista, per il quale curò diverse voci attinenti il mondo agricolo. Occupandosi della conduzione agricola familiare si premurò di ricordare che “da essa proviene il Duce e che, come Lui, sono i figli della terra faticosa che salgono le cime dell’ideale”.

N come...NENNI Pietro. Uomo politico. Giornalista. La duttilità del suo pensiero fu oggetto di aspre polemiche fin da quando, esule in Francia, la rivista ufficiale del Partito Comunista “Stato Operaio”, nel 1927, lo accusò “di essere, prima che massimalista, reazionario e fascista”, e, nel 1928, di militare tra coloro “che una cosa pensano, una cosa dicono e l’altra fanno, e fra le tre cose passa lo stesso rapporto che passa tra ciò che Nenni ha fatto e detto nel 1919 come giornalista fascista, ciò che egli scrive oggi come segretario della Confederazione antifascista e ciò che egli prepara per domani”. Nel 1935, Alberto Giannini, dall’opposto fronte dei fuoriusciti liberaldemocratici gli rimproverò un camaleontismo inguaribile: “Pietro Nenni è stato Repubblicano. Poi interventista (voleva l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915-18). Poi fascista. Poi socialista ma filoliberale. Adesso è socialista filocomunista. E non ha che soli 45 anni!”. Ma tanto in maturità quanto in vecchiaia le accuse che lo indispettirono di più furono quelle riguardanti la sua partecipazione al nascente fascismo (contribuire qundi alla nascita del fascismo). Nel 1959 il giornalista Tripodi ebbe modo di pubblicare un documento inedito riguardante Nenni, attivo ed in giro per la Romagna qualche decennio prima…, indaffarato a FONDARE fasci di combattimento. Nenni tremendamente indispettito gli indirizzò una lunga lettera che minimizzava i fatti, ma non li escludeva. (Basta leggere il Giornale del Mattino di Bologna diretto da Nenni nel 1919). Nella lettera indirizzata a Tripodi, Nenni comunque dichiarò che nel 1919 il suo “fu un errore”. Tripodi nella risposta ne prese atto e concluse: “Quando lei nel 1919 compì l’errore di stare al lato di Mussolini aveva se non sbaglio 28 anni. Io allora ne avevo appena otto. A ventotto anni, nel 1939, ho compiuto l’errore di stargli a lato anch’io. Col Suo errore sul cartellino politico, pari al mio, lei nel 1945, come Alto Commissario per l’epurazione, mi sottopose ad una paradossale commissione per la repressione dei delitti fascisti. Ci rimisi la libera docenza e fui interdetto dai diritti politici per alcuni anni. Quant’è antipatica la Storia quando fa pagare così diversamente gli errori”. Nino Tripodi, giornalista, non deputato, non membro storico della Casta degli ex fascisti, fa autocritica, paga. Altri senza pagare si fregeranno di essere padri FALSI dell’antifascismo con privilegi di ogni tipo e natura. Facendo anche danni. Nel 1981 Nino Tripodi pubblica il libro Intellettuali sotto due bandiere – Antifascisti in camicia nera – sotto l’editore Ciarrapico. Sì proprio quello lì, che gli fornisce copertura… ma moralizzare su Ciarrapico lo lasciamo ai servi della famiglia Agnelli… Nessuna denuncia o querela, ma neanche nessuna recensione che possa far cronaca.

P come...PANNUNZIO Mario. Giornalista, scrittore. Fin dal 1936 fu collaboratore della rivista Cinema, diretta da Vittorio Mussolini. Nel 1939 fondò il settimanale Oggi e lo diresse con Arrigo Benedetti fino al 1941, allorché il regime lo soppresse. Di questa soppressione menò vanto, come indicativa della fronda del periodico, quando, dopo la caduta del fascismo, fu direttore di Risorgimento Liberale e de Il Mondo. Nel 1954 ebbe una dura polemica con Guglielmo Peirce, che gli aveva rimproverato di essersi spesso recato al ministero fascista della cultura popolare per prendere “ordini e cicchetti”. Pannunzio negò la circostanza ma Peirce replicò: “Il Pannunzio, come direttore di un giornale a grande tiratura pubblicato in periodo fascista, non poteva non essere fascista militante e tesserato. Egli non “spezzò” quindi la penna per non servire la tirannide, ma attese che la tirannide gliela togliesse di mano. Più che un martire, dunque, fu un infortunato sul lavoro. Meritevole di umana solidarietà, ma non di adorazione e tanto meno di quella funzione di “catone censore” dell’altrui democrazia e dell’altrui antifascismo ch’egli si è arrogata “a babbo morto”. Nel dopoguerra, e negli ultimi decenni associazioni di massoni giornalisti e pseudo radicali si sono riempiti la bocca di citazionismo empirico resuscitando spesso le insipidità più ambigue degli scritti di Pannunzio. Ancora oggi gli insipienti del pensiero radical “liberale” spolverano, gli scritti più ipocriti di questo personaggio per arricchire le già compromesse insipidità da opinionisti e mantenuti.

S come...SALVATORELLI Luigi. Storico. Firmatario del Manifesto Croce. Mai iscritto al Partito Fascista. In auge nel dopoguerra per “non essersi piegato al regime”. Pubblica nel 1956 una voluminosa opera sulla Storia d’Italia nel periodo fascista (Einaudi). E vi compendia i più negativi giudizi sulla rivoluzione mussoliniana. C’È però da rilevare che, durante il fascismo, NON essendosi astenuto dalla produzione “culturale”, né essendogli stata inibita in quel che scrisse (e scrisse molto…) non mancò di calarsi nella realtà… e di valutarla benevolmente. Per esempio, nel suo Pio XI e la sua eredità pontificale (Einaudi, 1939), non difettarono i giudizi positivi sui rapporti di Papa Ratti col Fascismo, come quando, a proposito di Mussolini, definito dal Pontefice “uomo della Provvidenza”, scrisse essersi trattato di “un alto elogio politicamente qualificato“; o come quando svolse lusinghieri raffronti tra la “Quadrigesimo anno di Pio XI e i concetti ispèiratori della società fascista, al punto da raccontare che, correndo le migliori relazioni tra Chiesa e Fascismo, nel Gennaio 1938 sessanta vescovi e duemila parroci avevano manifestato, sfilando dinnanzi a Mussolini, “la più schietta adesione al regime”. Le sue valutazioni storiche hanno sempre goduto dell’approvazione delle più alte cariche del regime. Antifascista anni dopo, entrò a pieno titolo tra la schiera degli storici ufficiali a cui i figli della borghesia, neo comunisti, dovevano fare riferimento. Eugenio Scalfari. Scalfari ha i titoli per parlare di qualunquismo e pericolo democratico: ROMA FASCISTA (settimanale), 24 SETTEMBRE 1942 – EUGENIO SCALFARI: “Gli imperi moderni quali siamo noi li concepiamo sono basati sul cardine “razza”, escludendo pertanto l’estensione della cittadinanza da parte dello stato nucleo alle altre genti”.

T come...TROMBADORI Antonello. Critico d’arte, uomo politico. Prende parte attiva alla vita dei Gruppi Universitari Fascisti (GUF). Partecipa ai Littoriali della Cultura di Napoli nel 1937 e a quelli di Bologna nel 1940, classificandosi con “onore”. Collabora a Roma Fascista con articoli nei quali pone in evidenza il positivo contributo delle mostre d’arte organizzate in occasione dei Prelittoriali dell’Urbe. Militerà poi nel PCI del quale sarà prima consigliere comunale della capitale e poi deputato al Parlamento della prima repubblica.

V come...VALLETTA Vittorio. Industriale, consigliere delegato e poi presidente della FIAT. Osservante fascista, compendia il suo giudizio sul DUCE e sulla “rivoluzione” in queste frasi incluse nello sfarzoso volume pubblicato per il Decennale della Marcia su Roma (Pensieri d’italiani eminenti raccolti a cura di Paolo Orano, 1932, Editrice Pinciana): “Ogni italiano che si volga a considerare il cammino compiuto dall’Italia dal 1922 ad oggi, non può non provare un vivido sentimento di riconoscenza ed orgoglio; riconoscenza al Duce; orgoglio di appartenenza ad una Nazione che in tempi universalmente tanto difficili dona al mondo le più generose idee di intelligenza politica e di solidarietà sociale… Fiducia che in tutti gli Italiani consapevoli è oggi atto di fede nel Fascismo e nel suo Duce”. È lui a sollecitare l’onore di presentare a Mussolini, in Villa Torlonia, il primo esemplare della “Balilla” come autovettura tipo del regime. È lui a chiedere ed ottenere la fondazione straordinaria di una sezione del PNF dentro gli stabilimenti FIAT di Torino. È lui ad indire la grandiosa manifestazione del maggio 1939 per la visita del dittatore alla Mirafiori, facendolo applaudire freneticamente dai cinquantamila operai ammassati di fronte ad una immensa incudine siglata dalla “M” fatidica. Pochi anni dopo la “bufera” della guerra travolge tutto. Valletta cambia politica. Quando andrà a deporre al processo Graziani racconterà ai giudici: “La difesa degli impianti fu concreta e manovrata fra noi della direzione, le formazioni partigiane e i servizi segreti americano ed inglese. Si fece in modo che gli operai fossero sempre occupati e che nel lavoro non producessero. Per non produrre concertammo degli attacchi aerei da parte dell’aviazione americana e inglese per modo che si potesse avere il pretesto di portare altrove i macchinari.” (cfr. Giornale d’Italia, 12 Gennaio 1949). Alcuni anni dopo, il presidente della Repubblica Saragat (socialdemocratico) nominerà Valletta, anche per questi meriti, Senatore a Vita. Uomo dotato della viva riconoscenza e stima della vecchia e nuova famiglia Agnelli; anche lui come troppi altri degno rappresentante della “Repubblica nata dalla Resistenza”. Vittorini Elio. Scrittore Giornalista. La sua partecipazione al fascismo prima (passione durata 14 anni), al “comunismo” dopo, fu già oggetto di controversie. L’accusa di eterodossia lo colpì tanto sotto Mussolini che sotto Togliatti. Ma tanto per Mussolini quanto per Togliatti scrisse pagine che ne testimoniano l’indubbia militanza prima fascista e, poi, travestita di rosso, opportunista, quindi piccìsta. Ovviamente, in epoca antifascista, furono esperiti tutti gli espedienti per sostenere che Vittorini portava fin dagli anni Trenta il fazzoletto rosso, che fu perseguitato dal regime, che libri ed articoli pubblicati durante il Ventennio debbano essere letti “in chiave di intolleranza e di fronda….La realtà È diversa.In Elio Vittorini covavano sollecitazione alla Malaparte, per una rivoluzione integrale che, sottola guida di Mussolini (“questo signore protetto da Dio”), avrebbe dovuto restaurare i caratteri storici e controriformistici degli italiani. Quanto è poi ANCHE stato scritto da Claudio Quarantotto (“Il Fascista Vittorini”, edizioni del Borghese 1976) dimostra l’arbitrarietà di ogni tentativo di retrodatazione del sinistrismo dello scrittore o di cancellazione delle sue impronte fasciste. Vittorini (il Togliattiano…) raggiunse invece il delirio con punte estremistiche di ultrafascismo. Lo confermano le larghe collaborazioni alla stampa periodica del regime. Vittorini considerava Mussolini “il Primo” tra gli scrittori italiani e “non più soltanto il Duce”. Scrisse anche della propria concitata partecipazione alla Marcia su Roma… quando avrebbe pianto “lacrime di rabbia” pur di essere caricato, nonostante l’immatura età, sul convoglio di squadristi in partenza dalla Sicilia. Sarà la lobby ex-fascista "di sinistra" ad imporre ed accostare il suo nome a quello di Cesare Pavese nella letteratura italiana, compiendo l’ennesimo sfregio alla cultura ed alla memoria.

Z come ZAVATTINI Cesare. Scrittore, giornalista, cineasta. Durante il fascismo, Zavattini NON è un escluso, né un resistente. Collabora attivamente alla stampa del Ventennio. Nel 1932 riceve in DENARO uno dei Premi Mussolini. È direttore editoriale del Tempo mondadoriano, nell’epoca in cui il settimanale sfoggia un ALLINEAMENTO BOVINO ai miti, alle imprese, agli uomini del regime. Restano di lui frasi esaltatrici del ministro della cultura popolare Alessandro Pavolini e del direttore della cinematografia Luigi Freddi. Scrive su Primato Fascista di Bottai e su Cinema di Vittorio Mussolini fino agli ultimi anni della guerra. Dalla cinematografia fascista pretende un forte impegno educativo: “Il 1939 si è chiuso con un grande successo e con un altro grande successo si è aperto il 1940. Non sulla linea della retorica, ma secondo le leggi del mestiere dell’arte. Il Cinema non è più un’avventura… nasce l’ordine! … Il centro sperimentale assolve il suo compito moralizzatore…”. Caduto il fascismo, cambiano i suoi toni apologetici. Diviene prima socialista, poi PCIsta, sostiene il populismo più demagogico e le sue falsità saranno anche imposte, nelle scuole, ai bambini. Ancora oggi fa "Kult"… a "sinistra".

MA C'È DI PIU'. MOLTO DI PIU'. Naturalmente tutta questa Storia, con la S maiuscola, perché trabordata dal confezionamento di pentole venute molto male...acquisisce molto più senso (e gravità) se "contestualizzata" e direttamente condotta al passaggio che vi è stato tra fascismo e "post guerra". E qui... per "contestualizzare" non si intende ciò che vorrebbero vigliaccamente fare gli orfanelli di mausolei e miti. NON bisogna mai, MAI, dimenticare l'opera sovieto-atlantista e CORROTTA del PCI di togliattiana memoria. Ruolo e funzione che ebbe Togliatti in quanto Ministro degli interni (e della "Giustizia") coi Governi Bonomi e De Gasperi e NON solo nella OSCURA e triste fase della "Costituente"... ma anche ben Prima: quando dalle colonne di "Lo Stato Operaio" (n. 8 ) nell'agosto del 1936 fu diffuso un documento sotto "mandamento" di Palmiro Togliatti firmato da ben 62 dirigenti politici tra cui lo stesso Palmiro Togliatti, Edoardo D’Onofrio, Ruggiero Grieco, Celeste Negarville, il macellaio assassino di comunisti antifascisti Pietro Secchia, Dozza... si faceva appello ai camerati fascisti in nome di una futura e secolare Tradizione dell'Inciucio. Oggi potremmo chiamarla "La Madre di Tutte le Rossobrunate", forse solo "seconda" (per importanza) al "Patto Hitler-Stalin" (DUE anni di Alleanza Germano-Sovietica) del 1939: Questa Documentazione resa pubblica in formato "digitale", diciamo per "internet", trovò per la prima volta larga diffusione (e polemiche) sul forum di "Anno Zero", nel 2007, area web della nota trasmissione televisiva della RAI. A diffonderla fu "Prometheo" ("Prometheo Ownerless"), pseudonimo che Massimo Greco ha utilizzato a partire dal 1998 e più diffusamente a partire dal 2001 su ECN.org e relativi dibattiti sulle di allora "mailing list". Calata la cappa del silenzio su Anno Zero (che poi scomparve dalla Rete) l'intera documentazione fu poi ripresa da "Papillon", un blog degli spazi gratuiti offerti dal gruppo "L'Espresso- La repubblica" (poi dismessi e cancellati nel 2012), dal magazine online di satira pesante "NunVeReggaeCchiù" di cui ne sono ancora disponibili due volumi su Facebook (ma successivamente troncati dalle restrizioni di Facebook) ed un'altra versione copiata un po' malamente dal sito "Nuova Resistenza" ancora disponibile qui. Un mondo sconosciuto…: una nuova generazione di idioti ed ignorantoni. Durante la pubblicazione di questa lista su "annozero" numerosi sono stati gli interventi con reazioni reazionarie da bava alla bocca e con insulti, epiteti vari e tentativi di etichettare in qualche modo chi avesse "osato" mettere in discussione i mausolei della parte più sporca della storia italiana..., altri ipotizzavano o minacciavano addirittura querele (non si sa bene a nome di chi... ma è prassi di certi ambienti mafiosi)… per aver oltraggiato (o messo in discussione sacri miti… o credenze). Altri insistevano con la richiesta di fonti (per altro già citate sin dall’inizio…) che la cecità fideistica portava ad ignorare. Qualcun altro ancora snobbava con il vigliacchissimo “si sa già”: ma esternando un certo disappunto per aver introdotto la discussione…Occorre ammettere che per la cultura del gregariato "di sinistra"... leggere, aprire certi armadi rappresenta un colpo nello stomaco a freddo. Ma cosa bisogna fare… mettere delle avvertenze per gli IDIOTI? Successivamente sono scattate le "barriere immunitarie" dell’idiozia, e quasi come a seguire fideisticamente una parola d’ordine… il visitatissimo Post sugli Armadi della vergogna è rimasto improvvisamente senza nuovi commenti: d’incanto… Come a voler dire: meglio se non se ne parla. Cmq ad insulti e nervose “richieste” di RI-citare le fonti… la risposta di Prometheo è stata: "Non credo sia utile, anche per i travestiti di rosso, fare del terrorismo contro di me. Io mi limito a citare cose che dovrebbero, dovrebbero…, essere di dominio pubblico in quanto pubblicate o su internet… ma prima ancora sulla carta stampata o sotto autorevoli uomini di impresa… o “che fanno impresa”. (Li mortacci loro). Molte delle cose qua pubblicate si trovano sul web, se qualcuno ha voglia trova tutte le fonti, che grazie al cielo diventano sempre più. Ciò che non è copiaincollabile l’ho preso da testi reperibili nelle biblioteche là dove rettori o direttori del fascismo dei travestiti di rosso hanno lavorato male e quindi certe cose sono sfuggite alle manipolazioni democratiche. Nel 1959 il giornalista Tripodi ebbe modo di pubblicare un documento inedito riguardante Nenni, attivo ed in giro per la Romagna qualche decennio prima…, indaffarato a FONDARE fasci di combattimento. Nenni tremendamente indispettito gli indirizzò una lunga lettera che minimizzava i fatti, ma non li escludeva. (Basta leggere il Giornale del Mattino di Bologna diretto da Nenni nel 1919). Nella lettera indirizzata a Tripodi, Nenni comunque dichiarò che nel 1919 il suo “fu un errore”. Tripodi nella risposta ne prese atto e concluse: “Quando lei nel 1919 compì l’errore di stare al lato di Mussolini aveva se non sbaglio 28 anni. Io allora ne avevo appena otto. A ventotto anni, nel 1939, ho compiuto l’errore di stargli a lato anch’io. Col Suo errore sul cartellino politico, pari al mio, lei nel 1945, come Alto Commissario per l’epurazione, mi sottopose ad una paradossale commissione per la repressione dei delitti fascisti. Ci rimisi la libera docenza e fui interdetto dai diritti politici per alcuni anni. Quant’è antipatica la Storia quando fa pagare così diversamente gli errori”.

Nino Tripodi, giornalista, non deputato, non membro storico della Casta degli ex fascisti, fa autocritica, paga. Altri senza pagare si fregeranno di essere padri FALSI dell’antifascismo con privilegi di ogni tipo e natura. Facendo anche danni. Nel 1981 Nino Tripodi pubblica il libro Intellettuali sotto due bandiere – Antifascisti in camicia nera – sotto l’editore Ciarrapico. Sì proprio quello lì, che gli fornisce copertura… moralizzare su Ciarrapico lo lascio ai servi della famiglia Agnelli…Nessuna denuncia o querela, ma neanche nessuna recensione che possa far cronaca. Ovvio. Ho auspicato da sempre che qualcuno querelasse o denunciasse Tripodi o Ciarrapico… per tali testimonianze… ma… sono passati quasi trent’anni e la strategia resta la stessa: il silenzio omertoso. Funziona meglio…. chissà quante ALTRE cose sono sfuggite al Tripodi. Sempre sui "Fascisti Rossi" e sulla storia in camicia nera del Partito dei Togliatti-Berlinguer è di fondamentale importanza la chiave di lettura offerta, nel 2010, in una corposa "nota" dal sito del "Nucleo comunista internazionalista". “FASCISTI ROSSI” E “NAZIONAL-COMUNISTI”: PENOSO SMARRIRSI DEI CONFINI TRA COMUNISMO E IDEOLOGIA BORGHESE. È utile soffermarsi sui fatti che Paolo Buchignani ha portato a conoscenza del più ampio pubblico con il testo “Fascisti rossi – Da Salò al PCI, la storia sconosciuta di una migrazione politica – 1943-1953” (Milano, Mondadori 1998), e in tre saggi apparsi sui numeri 1 e 3 del 1998 e sul 4 del 1999 della rivista “nuova Storia Contemporanea” (Roma, Luni Editrice). In questi testi è documentata la vicenda dei cosiddetti “fascisti rossi” e dei loro rapporti politici con il Partito Comunista Italiano nell’immediato secondo dopoguerra. La “storia ufficiale” del PCI – e della CGIL, per quanto ad essa compete – ha steso un discreto velo di silenzio sui passaggi storici che qui richiamiamo. Il che ci obbliga a soffermarci sui fatti, non sufficientemente noti nella loro esatta portata finanche a moltissimi compagni. Ciò non toglie che la nota che segue non è semplicemente una (utilissima) ricognizione di carattere storiografico, perché invece vuole essere ed è uno strumento di battaglia politica che guarda con attenzione al passato perché è direttamente rivolta al presente e al futuro. Antefatto. Si facilita l’inquadramento storico-politico della questione richiamando un antefatto decisivo, citato velocemente da Buchignani e oggetto di approfondimento specifico nel libro di Pietro Neglie “Fratelli in camicia nera – Comunisti e fascisti dal corporativismo alla CGIL (1928-1948)” (Bologna, Il Mulino 1996). Il lavoro di Neglie illustra gli sviluppi che ebbero origine dalla cosiddetta “direttiva entrista” – approvata dal VI Congresso della Terza Internazionale del luglio-settembre del 1928 – contenente l’indicazione per i comunisti italiani di penetrare nelle organizzazioni di massa del fascismo (con essenziale riferimento al sindacato). Il VI Congresso dell’Internazionale Comunista è notoriamente caratterizzato dalla linea che, in quella fase, individuava come compito prioritario quello di combattere come nemico principale la socialdemocrazia; mentre l’indicazione di infiltrare le organizzazioni fasciste appariva piuttosto come un corollario secondario rivolto agli italiani. Se, però, la cosiddetta “teoria del socialfascismo” ebbe vita breve, prima di venire rigirata in pochi anni nell’opposta indicazione del popolar-frontismo senza limiti, l’indicazione di penetrare le organizzazioni fasciste conobbe invece un seguito durevole e significativo. Ciò in quanto la sua concreta applicazione, di lì a breve e come conseguenza del generale corso degenerativo del movimento comunista internazionale, venne a manifestarsi con modalità e contenuti che contraddicono ogni reale politica comunista che in determinate fasi sia tenuta ad agire nell’ambito di organizzazioni di massa reazionarie. Sicché si deve dire, con riferimento al “dialogo” tra “fascisti rossi” e PCI poi concretizzatosi nell’immediato dopoguerra, che sono stati per primi i “comunisti” del PCd’I di Togliatti a rivolgersi ai “fratelli in camicia nera”. Stiamo parlando, beninteso, del PCd’I che sin dal congresso di Lione del gennaio del 1926, con il supporto autorevole dei deliberati dell’Internazionale in via di avanzante stalinizzazione, aveva messo fuori gioco la corrente di sinistra di Amadeo Bordiga, largamente maggioritaria nel partito sin dal congresso di fondazione di Livorno nel 1921. Dunque parliamo di un PCd’I in via di mutazione del DNA delle origini e di involuzione verso quel “partito nuovo” che negli anni successivi avrebbe modificato sostanzialmente e apertamente il proprio programma (tra l’altro italianizzando in modo significativo il nome e introducendo il tricolore nel simbolo: il nome originario di Partito Comunista d’ Italia – Sezione della Internazionale Comunista fu trasformato in quello di Partito Comunista Italiano dopo il giugno del 1943, quando Stalin e compagnia approvarono lo scioglimento dell’Internazionale Comunista su richiesta e come omaggio e pegno di fedeltà ai neo-alleati governi statunitense e inglese). Sul n. 8 dell’agosto 1936 di “Lo Stato Operaio” (rivista teorica del PCd’I) venne così pubblicato, in uno slancio di “entrismo”, un manifesto-appello “agli italiani”, dal titolo “Per la salvezza dell’Italia, riconciliazione del popolo italiano!”, firmato da tutti i principali dirigenti comunisti, con Togliatti primo firmatario. Ne riportiamo di seguito i passaggi salienti: “Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori, e vi diciamo: lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma... Fascisti della vecchia guardia! Giovani fascisti! Noi proclamiamo che siamo disposti a combattere insieme a voi ed a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919, e per ogni rivendicazione che esprima un interesse immediato, particolare o generale, dei lavoratori e del popolo italiano. Siamo disposti a lottare con chiunque voglia davvero battersi contro il pugno di parassiti che dissangua ed opprime la Nazione e contro quei gerarchi che li servono... Solo la unione fraterna del popolo italiano, raggiunta attraverso la riconciliazione tra fascisti e non fascisti, potrà abbattere la potenza dei pescicani nel nostro paese e potrà strappare le promesse che per molti anni sono state fatte alle masse popolari e che non sono state mantenute. Sono questi grandi magnati del capitale che impediscono l’unione del nostro popolo, mettendo fascisti e antifascisti gli uni contro gli altri, per sfruttarci tutti con maggiore libertà.” Al riguardo osserviamo che in questo appello la penetrazione nelle organizzazioni di massa del fascismo viene tradotta in solenne accettazione del suo programma politico e che ciò avviene in un contesto di ragionamento in cui gli interessi dei lavoratori da difendere vengono associati a quelli della nazione (con la n maiuscola) da liberare. Vediamo ancora che i secondi inevitabilmente fanno del tutto premio sui primi, soprattutto se a tal fine i “comunisti” si dicono disposti non solo a “riconciliarsi” ma a lottare “con chiunque”. Altri – allora e, chissà!, forse ancor oggi – potranno apprezzare la “penetrante saggezza tattica” di questo appello. Noi vi vediamo invece il ribaltamento di una prospettiva e la confusione di ogni limite di demarcazione tra programmi nati per contrapporsi e combattersi, se i “comunisti” possono far proprio quello fascista del 1919! Vi vediamo che nel nuovo programma dei “comunisti” è spuntata, alla data del 1936 e per l’Italia che – con la sanguinosa occupazione dell’ Etiopia – veleggia verso “l’Impero”, la questione della nazione da liberare da “parassiti e pescicani che la dissanguano e opprimono” (svilimento dei contenuti della reale e unica oppressione di classe con un linguaggio che ne sposta il merito sul tema della nazione e ciò in assenza di riferimenti a eventuali minacce straniere cui reagire – che, pur ci fossero, beninteso, non sposterebbero di un grammo il nostro asse comunista –). Vi leggiamo che a tal fine viene dichiarata, accettata, offerta la disponibilità per ogni frontismo politico (dunque non mero e necessario entrismo dei comunisti nell’organizzazione sindacale fascista) e per qualsivoglia alleanza interclassista (“con chiunque!”). Indubbiamente in questo appello c’è la difficoltà del PCd’I ad organizzare la propria azione politica in Italia, la ridottissima agibilità in tal senso e – proprio al massimo di ogni plausibile benevola considerazione...– la tenacia a non voler abbandonare il campo. Ciò, però, non spiega e non giustifica l’evidente snaturamento di una prospettiva e di un programma che non sono più comunisti, se ci si rivolge ai fascisti, vecchi e giovani, in nome della nazione da salvare. Una politica che, su queste basi, non ha (non ha più) un programma comunista proprio cui riferirsi, perché inalbera in modo penoso e ridicolo il programma fascista! Invece l’insoddisfazione dei giovani che nelle organizzazioni del regime si mostravano sensibili ai temi sociali e ai proclami pseudo-rivoluzionari agitati dal fascismo – insoddisfazione che il vertice togliattiano del futuro PCI puntava ad intercettare, con mille ossequi ed attenzioni a non criticare troppo o a non criticare affatto direttamente il fascismo – avrebbero avuto bisogno di tutt’altro programma e del corrispondente linguaggio, posto che quelle inquietudini affondavano le radici in una fase storica di profonda crisi del capitalismo tuttora irrisolta, e soprattutto resa cupa alla data del 1936 dalla sconfitta – peraltro recente e dunque non ancora a quella data definitiva – della rivoluzione proletaria che aveva tentanto di uscirne a sinistra, con il conseguente incubarsi, in difetto del rilancio della prospettiva internazionalista di classe, di altre paurose guerre fratricide all’orizzonte. Sennonché il PCd’I di Togliatti a quella data aveva già archiviato il programma e il linguaggio del comunismo e, alla vigilia della nuova immane guerra imperialista (di cui erano visibilissimi i prodromi nella guerra di Spagna esplosa proprio nell’estate del 1936), non si sognava minimamente di rilanciare la battaglia internazionalista di classe e di riorientare la barra in quella direzione. In difetto di ciò l’appello “agli italiani” ad altro non poteva preludere che al lugubre richiamo a serrare i ranghi del “fronte patriottico” per il futuro intruppamento nazionale al carro della propria borghesia nella nuova carneficina imperialista, essendo circoscritto il merito della “battaglia politica” alla scelta della composizione del fronte borghese nazionale e della coalizione imperialista cui volersi e doversi unire. Peraltro, secondo il copione ridicolo della continua auto-smentita di se stessi (già andato in scena sulla “teoria del socialfascismo” ed espressione anch’esso dell’avvilente smarrirsi dei confini tra comunismo e ideologia borghese, questa volta sul piano del metodo), i dirigenti “comunisti” mitigarono di lì a pochi mesi la formula della “riconciliazione nazionale” lanciata con tanta enfasi nell’agosto del 1936 e, dietro sollecitazione di Mosca, ne “corressero gli eccessi” in funzione della necessità di rinsaldare, ora, un “fronte comune antifascista”. Nondimeno possiamo concordare con Neglie nel ritenere – per quanto ci riguarda a vergogna indelebile di quel vertice– che “le conseguenze di questa fase si coglieranno compiutamente in seguito... che allora il PCd’I costruì il primo abbozzo di una identità nazionalpopolare che recupererà poi nel periodo della Resistenza, e che, già prima di esso, il partito bolscevico aveva costruito in seguito all’aggressione nazista” (Neglie, op. cit. pag. 32). In un articolo successivo sempre de “Lo Stato Operaio” di quel 1936 a firma Grieco si diceva che “popolo e nazione” sono “termini propri della rivoluzione proletaria, la quale vince solo in quanto popolare e nazionale” (se ne veda il riferimento a pag. 32 op. cit.). Mentre nel rapporto redatto da Gennari sulla discussione del comitato centrale di quel periodo (vedi pag. 34 op. cit.) si legge ancora che il PCd’I “rappresenta la continuità delle migliori e più pure tradizioni italiane” e che “noi facciamo nostro il programma del ’19, che è un programma di democrazia” (vedremo in seguito quando e come sarà ripresa la formula per noi significativa della “riconciliazione – con il fascismo, n.n.– sul piano della democrazia”). Dunque si può concordare con Neglie (salva la decisiva precisazione che faremo in seguito) nel ritenere che l’appello “ai fratelli in camicia nera” segnasse in qualche modo “la trasformazione del partito comunista... al punto che ci sembra difficile dire che quando questa linea sarà abbandonata, il partito ritroverà realmente intatta la proprio fisionomia rivoluzionaria...Non è solo il richiamo all’unità con i fascisti in buona fede sotto la bandiera del Fronte popolare a determinare questa metamorfosi; a ciò va aggiunta la riscoperta dei valori nazionali attraverso il richiamo all’Italia risorgimentale garibaldina...” (pag. 33 op. cit.). Concludendo, la “direttiva entrista” del 1928 e l’ “appello ai fratelli in camicia nera” del 1936 sono il prodromo del dialogo tra “comunisti” e fascisti “di sinistra” che conobbe fiorente sviluppo nel mutato scenario del dopoguerra, e sin da allora ne segnano il terreno d’intesa nella comune professione dell’amor di patria, consono ai fascisti e di indelebile vergogna per pretesi “comunisti”. Negli ultimi anni della seconda guerra e del fascismo il PCI riprese, dando seguito su queste corde, l’azione di propaganda rivolta in particolare ai giovani fascisti o comunque influenzati dal fascismo. Fino alla liberazione ciò venne fatto attraverso “Radio Milano Libera” e quindi su “Rinascita” e su “L’Alba” (giornale dei prigionieri di guerra italiani nell’Unione Sovietica), e l’iniziativa di dialogo vide sempre impegnato direttamente il vertice del partito e in particolare Togliatti. Ciò che accadde nel dopoguerra è una seconda puntata, che, se si avvalse dell’azione già promossa dal partito di Togliatti durante il ventennio, si svolse, però, ormai a parti invertite: nel dopoguerra furono i fascisti “di sinistra” a rivolgersi al PCI (“... eravamo noi che ne avevamo bisogno”: così in una testimonianza dello stesso Ruinas, che ora conosceremo attraverso la presentazione di Buchignani) e a voler penetrare l’organizzazione di massa del proletariato che andava (ri)costituendosi sotto le insegne di quel partito. Fin qui l' "antefatto"... ma la ricca documentazione continua e potete conoscerla direttamente dalla fonte originale oppure dalla copia che ci siamo presi la libertà di riprodurre qui. Per puro scongiuro rispetto alla censura e alla temporaneità di internet. Togliatti Guardasigilli - Di Arturo Peregalli e Mirella Mingardo - COLIBRI Edizioni. Documenti con la D Maiuscola. AI PRIMI PRESIDENTI ED AI PROCURATORI GENERALI DELLE CORTI DI APPELLO: CIRCOLARE n. 3179 (versione completa) Roma 29 Aprile 1946. Oggetto: Procedimenti penali per reati collettivi. Non sarà sfuggito all’attenzione delle Signorie Loro Illustrissime che, specie in questi ultimi tempi, si sono verificate in molte province del Regno manifestazioni di protesta da parte di reduci e di disoccupati, culminate in gravissimi episodi di devastazione e di saccheggio a danno di Uffici pubblici e di depositi alimentari, nonché di violenze contro pubblici funzionari ed impiegati ritenuti, a torto, responsabili dell'attuale stato di disagio in cui versa l'intero Paese. Tali manifestazioni che di regola, nelle intenzioni dei partecipanti, dovrebbero concretarsi in una forma moderata e ragionevole di protesta collettiva, tollerabile in regime democratico, degenerano purtroppo, sovente, nel vandalismo e nella violenza sovvertitrice, e ciò per l'opera nefasta di elementi provocatori e di delinquenti comuni che, mescolandosi ai dimostranti, li istigano alla distruzione, al saccheggio ed alla ribellione ai pubblici poteri, conseguendo in tal modo i loro criminosi intenti. Il Ministero dell’Interno ha testé reso noto di aver impartito severe istruzioni ai Prefetti affinché disordini del genere siano energicamente repressi dalle forze di Polizia, che dovranno non solo procedere all'immediato arresto ed alla conseguente denuncia all'autorità giudiziaria degli autori dei saccheggi, delle devastazioni e degli incendi, ma altresì svolgere accurate indagini dirette ad assicurare alla Giustizia i suddetti agenti provocatori e volgari delinquenti sui quali, per l'opera di sobillazione svolta, ricadono, evidentemente, le maggiori responsabilità. Pertanto questo Ministero, pienamente convinto dell’assoluta necessità che una energica azione intrapresa dalla polizia per il mantenimento dell’ordine pubblico debba essere validamente affiancata ed appoggiata dall'autorità giudiziaria, si rivolge alle signorie Loro invitandole a voler impartire ai dipendenti uffici le opportune direttive affinché contro le persone denunciate si proceda con la massima sollecitudine e con estremo rigore. Le istruttorie ed i relativi giudizi dovranno essere esplicati con assoluta urgenza, onde assicurare una pronta ed esemplare repressione; a tal uopo, ove il personale giudiziario destinato alla trattazione degli affari penali non sia ritenuto sufficiente a corrispondere a queste esigenze contingenti, si dovrà provvedere ad integrarlo con magistrati addetti al ramo civile, anche in pregiudizio della attività giurisdizionale civile e, se ciò non bastasse, i capi degli uffici giudiziari potranno segnalare la deficienza di personale a questo Ministero per gli opportuni provvedimenti. Si raccomanda infine di procedere, in tutti i casi in cui la legge lo consenta, con istruzione sommaria o a giudizio per direttissima e di trasmettere gli atti all'autorità giudiziaria militare qualora ricorrano le condizioni previste nell’articolo 5 del Decreto legge 10 maggio 1944, n° 234.Si resta in attesa di urgente assicurazione. Il Ministro di Grazia e Giustizia

Palmiro TOGLIATTI.

IL MINISTERO DELLA CULTURA POPOLARE (MINCULPOP) FASCISTA/COMUNISTA

Falce, fascio e cinepresa. Quando l'Urss si metteva in mostra (del cinema) a Venezia, scrive Eugenio Di Rienzo, Domenica 26/05/2013 su "Il Giornale". Nel 1971 la «diplomazia del ping pong», un torneo di tennis da tavolo fra cinesi e statunitensi, contribuì alla distensione tra Pechino e Washington e aprì la strada alla visita di Nixon in Cina con cui si ristabilirono i rapporti fra le due Superpotenze. Lo stesso capitò fra Italia e Urss le quali cercarono di rompere il reciproco isolamento utilizzando la Mostra del Cinema di Venezia attiva fin al 1932. Di questo tema tratta la documentatissima ricerca di Stefano Pisu, Stalin a Venezia. L'Urss alla Mostra del cinema fra diplomazia culturale e scontro ideologico, 1932-53 (Rubbettino). L'Italia fascista e la Russia comunista erano, d'altra parte, meno distanti di quanto oggi si immagini. Deciso a debellare la minaccia rossa in patria, Mussolini non nascose mai le sue simpatie per l'Urss. Uno Stato che, come Italia e Germania, era stato umiliato dal Trattato di Versailles del 1919 dettato da Francia, Inghilterra e Usa. Una nazione giovane e proletaria che per garantire la sua sopravvivenza era fatalmente destinata a battersi, al pari di quella italiana, contro le Potenze capitalistiche nella perenne «guerra del sangue contro l'oro». Un Paese, infine, ricco di risorse naturali, indispensabili allo sviluppo della nostra economia, che il regime fascista riconobbe ufficialmente, prima di altri governi europei, nel 1924 e con il quale siglò, nel '33, un «Patto di amicizia, non aggressione e neutralità». Questa intesa si consolidò sotto il segno della Settima Arte. E si trattò d'intesa culturale e politica. Culturale, perché la produzione sovietica offriva alla propaganda fascista un modello di film-manuale d'ispirazione didattica in grado d'indottrinare le grandi masse. Politica, poiché proprio Luciano De Feo, direttore dell'Istituto Luce e artefice dell'asse cinematografico Roma-Mosca, dichiarò, nel '32, «che il fascismo sta andando verso il comunismo per altre vie e che gli italiani sanno dare il giusto giudizio a ogni calunnia internazionale sull'Urss, consapevoli del fatto che le stesse calunnie sono diffuse verso l'Italia fascista». Le pellicole presentate al festival veneziano raccolsero anche un caloroso giudizio di critica. Come scriveva Eugenio Giovanetti sulla Gazzetta del Popolo di Torino nell'agosto 1934, «il regista russo è in grado, più di ogni altro, di tradurre l'ideologia in narrazione concepita in termini schiettamente cinematografici, conservando nelle sue visioni un'atmosfera di grandiosità e di eroismo che passa dal mondo della macchina a quello dei campi e degli stadi; dal soldato, all'uomo dell'officina, al contadino, all'atleta». Questa luna di miele s'interruppe bruscamente nel '35, con l'assenza dell'Urss dalla Mostra del Cinema che si perpetuò negli anni successivi a seguito dell'inizio della guerra civile spagnola, dall'adesione dell'Italia al Patto Anti-Comintern e infine dallo scatenarsi della guerra mondiale. Il Cremlino tornò a Venezia nel 1946, con il lungometraggio (Il giuramento) di Michail Caureli connotato da una smaccata apologia di Stalin. Si trattò però di un breve ritorno. L'esasperato carattere anti-occidentale dei film sovietici provocò la loro esclusione, facendone un facile bersaglio del nuovo regolamento della Mostra che vietava la presenza di pellicole offensive per gli altri Paesi. L'Urss si sarebbe ripresentata in laguna solo nel '53, dopo la morte del dittatore sovietico col nuovo corso post-staliniano del «disgelo».

Leo, Curzio, Indro e Giovannino. I film girati con la mano destra. Tra il 1943 e il 1963 Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi furono registi della loro prima e unica pellicola, raccontando con originalità momenti cruciali della storia d'Italia, scrive Giancarlo Mancini, Domenica 23/08/2015, su "Il Giornale". I l grande racconto dell'Italia del dopoguerra, anche al cinema, l'hanno realizzato quattro conservatori doc come Longanesi, Malaparte, Montanelli e Guareschi. Intellettuali che per tutta la vita sono stati indisponibili a raccontare quello che i grandi partiti o i salotti volevano far sapere al grande pubblico. Erano anticomunisti, certo, ma non per questo erano disposti a lesinare critiche ai partiti di governo. Parteggiavano per la borghesia ma verso quella italiana nutrirono perplessità e ne rilevarono le mancanze. I loro film (Dieci minuti di vita, Cristo proibito, I sogni muoiono all'alba e La Rabbia) messi assieme vanno a formare un racconto inedito, scritto con la mano destra anziché con la sinistra, della storia italiana nel ventennio che va dal 1943 al 1963. Si tratta di quattro «opere prime» rimaste tali. Ognuna affronta un nodo nevralgico della nostra storia recente, dalla caduta del fascismo alla guerra civile, dai fatti d'Ungheria con i loro tragici risvolti per la sinistra italiana al boom economico. Snobbati dai manuali di storia del cinema, spesso ignorati dai divulgatori «ufficiali», questi film non solo ci raccontano la Storia con la S maiuscola da un'altra angolazione, ma sono una vera contro-scuola di pensiero libero. Ma come mai questi intellettuali, così impegnati nel giornalismo, nella scrittura, nella comunicazione, decidono ad un certo punto di fare un film?

Partiamo da Longanesi, il cui interesse per il cinema inizia molto tempo prima di girare Dieci minuti di vita. Siamo verso la fine degli anni Venti. L'autore del Vade-mecum del perfetto fascista e del motto «Mussolini ha sempre ragione» si concede la libertà di dire che se il fascismo vorrà davvero imporsi come un modo nuovo di vivere e di guardare le cose, se si vorrà completare la rivoluzione iniziata con la Marcia su Roma, allora il regime (e Benito Mussolini in primis) dovrà radicalmente ripensare al ruolo del cinema. Con una serie di articoli pubblicati su L'Italiano, la rivista da lui fondata e diretta, Longanesi avvia una martellante campagna per il rinnovamento del cinema italiano. Scrive Longanesi: «Avete mai visto un film italiano? Vi siete mai accorti che i nostri attori escono dalle risse, dai temporali e dalle battaglie più cruente sempre con l'abito nuovo? Per loro ciò significa “conservare la linea”». Via i dandy alla Gastone, via gli estetismi dannunziani, via gli orpelli, le baracconate da fiera circense, la proposta di Longanesi è orientata verso il cinema dal vero: «Stando alla finestra, mi accorgo che la folla che attraversa la via e si perde in ogni direzione, ha un suo aspetto, una “sua verità” che il cinema assai di rado riesce a mostrarci». La straordinaria capacità intuitiva porta Longanesi a «pronosticare» con parecchi anni di anticipo alcuni dei capisaldi del neorealismo, poetica su cui la sinistra edificherà la propria egemonia, ponendo anche un'ipoteca politica che ha avuto esiti disastrosi per il cinema italiano. Ma le radici del neorealismo, evidentemente, affondano negli anni del regime...La passione di Longanesi per il cinema non si esaurisce, anzi, inizia a scrivere brevi soggetti, collabora con sceneggiatori come Ivo Perilli e Piero Tellini, medita di andare negli Stati Uniti per apprendere i rudimenti della tecnica cinematografica. Insomma, ci sono tutte le premesse per diventare regista, cosa che avviene nel momento più delicato per la vita dell'Italia, del fascismo e di Mussolini. Siamo nell'estate del 1943 e mentre il regime sta crollando a pezzi, Longanesi è finalmente pronto per girare il suo primo e unico film, una satira sull'Italia di quegli anni. Protagonista è un anarchico scappato da un manicomio che, minato un palazzo, vuole osservare come ogni inquilino spenderà i suoi ultimi minuti di vita terrena. C'è il gerarca che si è arricchito in modo abbastanza equivoco, ci sono gli estenuati amanti dannunziani che si crogiolano sul modo migliore per togliersi la vita, c'è il marito che trovata la moglie a letto con l'amante... la lascia nell'appartamento che sta per esplodere. Con la firma dell'armistizio, l'8 settembre 1943 e l'imminente occupazione delle truppe tedesche di Roma, Longanesi decide di fuggire a Napoli, lasciando incompleto il film di cui, dopo varie peripezie, sono sopravvissuti appena 36 minuti praticamente inediti al di fuori di una ristrettissima cerchia di cultori. Ma è un lascito che unito ai suoi scritti cinematografici è oggi fondamentale riscoprire e rivalutare.

Passano pochi anni e tocca a Curzio Malaparte, altro intellettuale non etichettabile secondo i rigidi canoni del dopoguerra, raccogliere il testimone lasciato da Longanesi e mettersi dietro la macchina da presa. Dopo aver scritto i suoi due libri più conosciuti (La pelle e Kaputt), nel 1950 lo scrittore toscano si mette al lavoro su un tema che come pochi altri brucia sulla pelle degli italiani: la guerra civile. L'argomento è tabù, né la Democrazia cristiana al governo né le sinistre hanno voglia di rievocare quei giorni in cui si sono susseguiti i rastrellamenti, le vendette incrociate, i linciaggi, le esecuzioni sommarie, le foibe. Il protagonista di Cristo proibito si chiama Bruno, è appena tornato dalla Russia, al suo arrivo a casa scopre che il fratello è stato fucilato dai fascisti. Da quel momento una sorta di demone della vendetta si impadronisce di lui. Nonostante i genitori lo spingano a dimenticare, Bruno non riesce a mettere da parte il desiderio di conoscere il nome della persona responsabile della morte del fratello. Malaparte non si accontenta di raccontare l'Italia del dopoguerra con i suoi tormenti e le sue ferite; vuole metterne in risalto anche i valori che la possono far rinascere. «È un fatto - dice Malaparte - che il popolo italiano reagisce alla Storia di cui è protagonista in modo molto diverso da quello di altri popoli. Vi reagisce anche sul piano morale oltreché su quello del costume. Coloro che parlano di amoralità del popolo italiano non capiscono l'Italia e gli italiani». Il film è ambientato nella sua Toscana, si vede la piazza di Montepulciano, Cetona, il gioco della croce, un rito antico di secoli dove un vecchio contadino dopo aver a lungo portato la croce cerca tra la folla qualcuno che possa sobbarcarsi il sacrificio di espiare le colpe di tutti. Il significato cristiano del film è in effetti il lascito di quest'opera di Malaparte in cui sacrificio, perdono, compassione sono valori di cui è impregnata la carne viva dei personaggi. Presentata al festival di Cannes del 1951, la pellicola riceve una accoglienza positiva ma questo non la protegge dalle accuse della stampa di sinistra. Infatti, nonostante Malaparte in quegli anni si sia pubblicamente avvicinato al Partito comunista italiano, e in particolare a Togliatti, le riviste capofila del marxismo ortodosso come Cinema nuovo non risparmiano critiche al film e al regista. Pochi sembrano disposti a «perdonare» a Malaparte la libertà di rappresentare un Paese diviso tra chi si illude di poter dimenticare la morte dei propri figli e chi cerca a tutti i costi la vendetta.

Passano una decina d'anni ed eccoci al terzo capitolo del nostro racconto. Stavolta è Indro Montanelli a mettersi dietro la macchina da presa. Il film è I sogni muoiono all'alba, realizzato nel 1960 con l'ausilio tecnico di Mario Craveri ed Enrico Gras. La sceneggiatura è tratta da un dramma teatrale scritto dallo stesso giornalista qualche tempo prima e ambientato in un albergo di Budapest durante i giorni della rivolta che nell'ottobre del 1956 venne schiacciata dall'Urss con l'invio dei carri armati. Protagonisti sono quattro giornalisti italiani inviati nella capitale magiara per raccontare quello storico momento e rimasti intrappolati in albergo a causa dell'incrudelirsi degli scontri tra quanti sono rimasti fedeli a Mosca e quanti invece sostengono il programma riformista di Imre Nagy. Il titolo riprende quello di una canzone che i patrioti ungheresi, ostili alle intromissioni di Mosca, cantavano in quei giorni tremendi e crudeli. Sergio, Franco, Alberto ed Andrea non sono solo quattro giornalisti, sono degli uomini con passioni politiche e umane. Mentre discutono, litigano, si accapigliano, vengono rievocati alcuni snodi cruciali del nostro dopoguerra, le epurazioni nei giornali (evento che aveva riguardato lo stesso Montanelli), le delazioni, i tradimenti. Nella capitale ungherese il sogno di molti patrioti sta per scontrarsi con la dura repressione dei sovietici. «Ci avete rintronato la testa con questi sogni ma la volete guardare in faccia questa realtà?», dice ad un certo punto uno dei personaggi. Montanelli non nasconde la simpatia per i rivoltosi ungheresi. Altrettanto sincero, ma impietoso, è il suo giudizio verso le ipocrisie, le reticenze, le bugie di cui molti, sia fra i giornalisti sia fra i militanti del Pci, si servirono per «giustificare» l'invasione dell'Armata rossa. Anche in questo film, come in quelli di Longanesi e Malaparte, Montanelli vuole aiutare lo spettatore a guardare oltre i luoghi comuni e a raccontare quello che sta succedendo davvero, senza accontentarsi delle versioni ufficiali, né delle verità preconfezionate. Quando molti anni dopo un lettore gli chiese come mai avesse deciso di realizzare I sogni muoiono all'alba, il giornalista di Fucecchio rispose così: «Io non mi proponevo di fare un film spettacolare di bombe e sangue, ma soltanto di dimostrare due cose: che quella rivolta non era nata fuori, ma dentro il Partito comunista, e quali effetti aveva sortito sulla coscienza degli osservatori comunisti (parlo, si capisce, di quelli in buona fede) che si trovarono coinvolti in quell'avvenimento». E infatti I sogni muoiono all'alba è importante oggi proprio perché ci aiuta a capire il peso che gli eventi del 1956 hanno avuto nel nostro Paese. Nonostante gli sforzi di Togliatti di giustificare l'intervento sovietico anche in Italia in molti iniziarono a rendersi conto di quello che significava vivere oltre la cortina di ferro. Dentro al Partito comunista serpeggiava un dissenso che esplose pubblicamente e portò alle prime fuoriuscite. Era iniziato il lungo cammino della sinistra italiana verso la verità sui regimi dei Paesi socialisti.

L'ultimo tassello della nostra storia è l'episodio de La Rabbia di Giovannino Guareschi. Un film di montaggio in due parti, una affidata a Pier Paolo Pasolini e l'altra, appunto, all'inventore di Don Camillo. Siamo nel 1963, l'anno di massimo splendore della rinascita italiana, in pieno boom economico. Anche in Italia come nel resto del mondo occidentale si sta aprendo l'era del consumo di massa. Frigoriferi, lavatrici, televisori. La sfida all'Unione sovietica si gioca anche sulla capacità delle democrazie occidentali di diffondere il benessere in modo capillare. Dal punto di vista politico siamo in un clima sospeso tra il rinnovamento portato da Kennedy negli Stati Uniti, gli ambigui tentativi di Krusciov in Urss e il crescere di nuove tensioni razziali e politiche. Guareschi osserva con preoccupazione al nuovo mondo nato dopo la fine della Seconda guerra mondiale, non ama i giovani che si dibattono freneticamente sulle piste da ballo, la corsa al consumismo, la crisi di istituzioni come la famiglia. Le sue sono le parole di uno scettico radicale: «Tutto è facile. Per farsi una famiglia basta consultare un catalogo di elettrodomestici, c'è una macchina per ogni cosa eccetto purtroppo quella per educare i figli. È facile farsi una famiglia, è facile disfarla. Il benessere che, facendo entrare 13-14 mesi in un anno, ci ha dato il mese corto, ci ha dato anche il matrimonio corto. È l'ora dei miracoli, il miracolo automobilistico, per cui camminare a piedi è diventato un lusso, il miracolo petrolifero per cui dai pozzi emiliani sgorga petrolio russo così l'Italia ha il suo carburante nazionale». Il suo film è una rivisitazione dei grandi rivolgimenti avvenuti dalla fine della guerra al 1963. Guareschi, che è stato imprigionato in un campo di concentramento tedesco, commentando le immagini di piazzale Loreto e il vituperio sui corpi di Mussolini e della Petacci, parla di una «vendetta barbara». Ma non mancano gli affondi pieni di ironia e di sarcasmo, degni dell'inventore di Don Camillo e Peppone, le due maschere simbolo dell'Italia del dopoguerra. A Louis Aragon poeta comunista e stalinista non pentito, Guareschi dice: «Krusciov non gli ha ancora detto quale criminale fosse da vivo l'uomo del Cremlino». Questo film, come gli altri che abbiamo ricordato, non godrà di una eccessiva fortuna al botteghino, forse le verità e le idee di questi quattro grandi intellettuali erano troppo laceranti per l'Italia di quegli anni. La loro lezione di libertà e di coraggio è sempre utile. Per questo sarà giusto ricordare accanto ai loro libri e articoli anche queste quattro opere rimaste per tanto, troppo tempo, nel dimenticatoio.

Quando gli eredi di Don Camillo misero in carcere Guareschi. Fu recluso per 409 giorni nel carcere di Parma per aver pubblicato due lettere, attribuite a De Gasperi. La sua difesa presentò una perizia calligrafica, ma non fu ammessa. Condannato per diffamazione a 12 mesi rifiutò di fare ricorso: «Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume», scrive Luciano Lanna il 26 ago 2016 su “Il Dubbio”. Quando nel 1967 Luciano Secchi, più noto col nom de plume di Max Bunker e come creatore di Alan Ford, fonda la rivista Eureka ha l'idea di arruolare nello staff Giovannino Guareschi, uno scrittore e un vignettista che nei decenni precedenti aveva fatto epoca. Era stato una delle firme e delle matite del Bertoldo, aveva fondato e diretto Candido, i suoi romanzi su Don Camillo e Peppone erano stati tradotti in quasi tutte le lingue. Guareschi, prima di morire, nel 1968, pubblica infatti in esclusiva su Eureka - la rivista che lanciò in Italia Andy Capp e le Sturmtruppen - il suo bel racconto "Gerda". Tanto che Secchi, successivamente, ebbe modo di esprimere tutta la sua riconoscenza: «Guareschi non era di sinistra. Ma la sua colpa agli occhi di tanti intellettuali di elezione, e questa è una colpa anche maggiore e imperdonabile agli occhi dell'élite della jet-society della letteratura è quella di aver venduto parecchie migliaia e migliaia di copie dei suoi Don Camillo, tradotti praticamente in tutte le lingue politicamente occidentali ma anche in quelle che non rientrano in tale definizione. Uno scrittore lo si valuta per quello che ha dato e conveniamo - concludeva Secchi - che parte della critica si è invece lasciata deviare dalla sua obiettività proprio per una questione politica?». Una cosa è certa: Guareschi è stato uno degli scrittori italiani del '900 più venduti nel mondo: oltre 20 milioni di copie, nonché lo scrittore italiano più tradotto in assoluto in tutte le parti del globo. Certo, quando Giovannino morì d'infarto a soli 60 anni, in una mattina di luglio del '68, l'indomani L'Unità titolò: "È morto lo scrittore che non era mai sorto". Si trattava, senza tema di dubbio, dell'uomo che con le sue vignette anticomuniste sul Candido era stato determinante - sul piano propagandistico - per il risultato del '48. Eppure, paradossalmente, Guareschi dovette scontare tredici mesi di carcere per un eccesso di polemica antidemocristiana: «Giovannino - ha rievocato Carlo della Corte - si lasciò impegolare, nel trasporto polemico verso la Dc, persino nella persona di Alcide De Gasperi, in una vicenda di lettere apocrife, che egli pubblicò, attribuendo a De Gasperi varie colpe: tra cui quella di avere invocato sull'Italia i bombardamenti alleati per disfarsi di Mussolini». Insomma, in questo caso i comunisti non c'entrano proprio nulla. Fu infatti per via dei democristiani che Guareschi è stato l'unico giornalista nella storia dell'Italia repubblicana a finire in galera per avere attaccato il potere politico. Mai, infatti, si è arrivati da parte di un direttore di giornale agli oltre 400 giorni di carcere che l'autore di Don Camillo dovette scontare all'apice del successo. Giovannino entra nel carcere San Francesco di Parma il 26 maggio '54 per uscirne solo il 4 luglio dell'anno successivo, dopo ben 409 trascorsi sotto la più stretta sorveglianza. Cosa era successo? Sul Candido il 24 e il 31 gennaio '54 Guareschi aveva fatto pubblicare due lettere risalenti a dieci anni prima, in piena Seconda guerra mondiale, e che risultavano firmate da De Gasperi, il quale ai tempi aveva trovato rifugio in Vaticano. Si trattava di due missive dirette al generale britannico Harold Alexander, comandante delle forze alleate in Italia, chiedendo il bombardamento di alcuni punti nevralgici di Roma, "per infrangere l'ultima resistenza morale del popolo romano" nei confronti di fascisti e tedeschi. Il 15 aprile il processo arrivò alla sentenza, davvero a tempo di record e con un'intensa attività diplomatica parallela di cui solo recentemente abbiamo appreso. Al termine, Guareschi, a cui non fu concesso di mettere agli atti la perizia prodotta da quella che all'epoca era un'autorità della grafologia, Umberto Focaccia, venne dichiarato colpevole di diffamazione. Il giornalista rifiutò di fare ricorso o di chiedere la grazia: «No, niente appello. Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume. Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia: non mi interessa dimostrare che mi è stato dato ingiustamente». Molti dei risvolti di quella vicenda restano ancora misteriosi, a partire dall'origine delle lettere che appartenevano a uno strano faldone nascosto in Svizzera da un ex tenente della Rsi, Enrico De Toma, legato ad ambienti dei servizi segreti, così come recentemente è stato raccontato dallo storico Mimmo Franzinelli in Bombardate Roma! Indagine su un giallo della Prima Repubblica (Mondadori). Indro Montanelli, grande amico di Guareschi, era scettico su quelle lettere: «Io sapevo - ha raccontato - che non erano vere, e mi buttai in ginocchio da lui, e a un certo punto commisi anche una scorrettezza per cercare di impedirne la pubblicazione di cui prevedevo gli effetti nefasti. Andai da Rizzoli, che era il suo editore, ma anche l'editore dei miei libri, e glielo spiegai». Ma Rizzoli non si frappose: «Il direttore del giornale è lui, se lui lo ha deciso, pubblichi». E al riferimento delle conseguenze, aggiunse: «Pagheremo le conseguenze!». D'altra parte, Montanelli confermava la totale buona fede di Guareschi: «Lui era convinto dell'autenticità di quelle lettere. Ci voleva credere perché lui non poteva perdonare alla Dc l'ingratitudine. Guareschi era infatti un uomo assolutamente disinteressato, ma almeno un ringraziamento lo avrebbe meritato per la campagna del '48, gli spettava perché la vittoria si doveva in gran parte a lui?». Franzinelli ha spiegato alcuni retroscena di tutta quell'operazione: «Per De Gasperi la questione era fondamentale, di fronte ad un attacco del genere non aveva altra via che la querela. Appunti e riflessioni coeve al processo dimostrano che sul tema ci fu una sua intima sofferenza». E Franzinelli non ha dubbi sull'esistenza di manovratori occulti che misero la "polpetta avvelenata" nelle mani di Guareschi: «I servizi non erano un corpo omogeneo, c'erano cordate concorrenziali. Una di queste usò Guareschi per colpire De Gasperi». I due documenti, che il leader democristiano dichiarò falsi, facevano infatti parte di un voluminoso corpus di carteggi che comprendeva il famoso epistolario tra il Duce e Churchill. Fatto sta che gli inizi del febbraio '54 De Gasperi sporge querela. Istituito il processo, il 13 e il 14 aprile ebbero luogo la seconda e la terza udienza e il 15 giunse la condanna a 12 mesi di carcere per diffamazione. Invano, nelle quattro udienze del processo, il direttore di Candido presenta una perizia calligrafica che dichiara autentiche le lettere, e chiede al tribunale di ordinarne pure un'altra d'ufficio. I giudici rispondono che non c'è n'è bisogno. «Mi hanno negato - protesterà lo scrittore - ogni prova che potesse servire a dimostrare che non avevo agito con premeditazione, con dolo. Non è per la condanna, ma per il modo con cui sono stato condannato». Perché in tribunale, la perizia calligrafica avanzata dalla difesa sulle due lettere non venne mai ammessa. Le lettere saranno dichiarate ufficialmente false solo nel 1959, al termine di un altro processo contro alcuni ex ufficiali della Rsi. Il 15 aprile '54 comunque Guareschi viene condannato a dodici mesi di carcere ma si trova costretto a doverne scontare venti per l'aggiunta di un'altra diffamazione che ci riporta indietro di altri quattro anni. Sul numero 25 di Candido del '50 era infatti apparsa una vignetta che ritraeva il presidente della Repubblica Luigi Einaudi mentre sfila tra due ali di corazzieri molto particolari: sono bottiglie di vino che recano un'etichetta con scritto "Nebiolo - Poderi del Senatore Luigi Einaudi". Si procedette per vilipendio del Presidente della Repubblica contro Carletto Manzoni, autore della vignetta, e Guareschi, direttore responsabile della testata. I due erano stati assolti in primo grado ma poi condannati in appello a otto mesi con la condizionale, che veniva annullata dalla nuova sentenza. Cominciano, certo, le pressioni perché Guareschi vada in appello, dove la faccenda si potrebbe forse accomodare. Lui però è un uomo che non scende a compromessi e risponde sul Candido: "No, niente appello". Il 26 maggio 1954 prepara lo zaino, lo stesso che aveva nel lager tedesco in cui era stato deportato ed entra nel carcere di Parma. Ne uscirà il 4 luglio '55 con una carta precettiva che gli impone di non allontanarsi per altri sei mesi dai comuni di Busseto, San Secondo, Soragna, Polesine Parmense, Zibello e Roccabianca. Guareschi vittima in buona fede di una manovra ordita da altri? Molti ne sono convinti. Anche se Guareschi restò persuaso fino alla fine che le lettere erano autentiche. Di certo pagò un prezzo altissimo. «Il Guareschi, uscito dalla galera - ammetterà Montanelli - non era più lui. Il suo fisico era già minato dal lungo campo di concentramento subito in Germania. In prigione era popolarissimo, gli offrivano qualche alleggerimento di pena. Ma lui no, non ne volle nessuno, volle essere trattato come il peggiore dei delinquenti rinchiusi lì dentro. Andò così, lui non fu più lo stesso dopo?». Tutti lo abbandonarono, solo su La Notte di Nino Nutrizio e sul Borghese di Leo Longanesi riuscì a scrivere qualche articolo. D'altra parte, come apprendiamo dai documenti desecretati e studiati da Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella in Colonia Italia (Chiarelettere, 2015), De Gasperi dovette rivolgersi direttamente a Churchill per ottenere la certificazione dell'inautenticità di quelle lettere in un momento assai critico della sua parabola politica. Il 16 febbraio 1954, infatti, un suo emissario, il funzionario della Farnesina Paolo Canali, raggiunge subito la capitale britannica. Ma gli inglesi temporeggiano e fanno perdere tempo: «La loro tattica - si legge in Colonia Italia - è chiara: non potendo sbattere la porta in faccia al leader del maggior partito italiano, cercano di tenerlo sulla corda il più a lungo possibile. Forse sperano che si logori, nell'attesa che a Roma maturino le condizioni per una sua definitiva uscita di scena". A Londra Canali aspetta e aspetta. Solo a fine febbraio potrà rientrare a Roma con la documentazione che consentirà all'ex premier italiano De Gasperi di affrontare serenamente il processo contro Guareschi. Prima, però, Churchill ha convocato Canali al numero 10 di Downing Street, all'improvviso, a quattrocchi, lontano da occhi indiscreti: «Ma cosa? Alla data, gli archivi di Kew Gardens non conservano traccia alcuna sui contenuti di quel misterioso colloquio tra l'ottantenne Sir Winston e il giovane diplomatico della Farnesina. Sappiamo invece che qualche giorno dopo, il 3 marzo '54, da piazza del Gesù, De Gasperi invia una calorosa lettera di ringraziamento a Churchill». L'affaire si avvia comunque a conclusione solo dopo questi incontri: il 15 aprile, come abbiamo visto, a Milano, Guareschi viene condannato e l'onore del leader democristiano è salvo. «Ma la sua definitiva uscita di scena - è la conclusione del capitolo sul "processo Guareschi" di Colonia Italia - è ormai imminente. Prima dalla politica: sconfitto in giugno al Congresso della Dc, a Napoli, deve lasciare ad Amintore Fanfani la segreteria del partito. Poi dalla vita: in agosto muore per un attacco d'asma, malattia insorta qualche tempo prima. De Gasperi se ne va il 19 agosto, lo stesso giorno in cui, un anno prima, era stato deposto Mossadeq a Teheran».

“Come sopravvivere al cinema di sinistra”. Razzisti, evasori, ignoranti, arricchiti. Gli italiani di centrodestra ormai sono abituati a vedersi rappresentati così dal cinema di casa nostra. Colpa di un pensiero unico che dal neorealismo ai film impegnati, da Nanni Moretti a Virzì, monopolizza il grande schermo. Questo pamphlet diventa così una guida irriverente per i cinefili non di sinistra, una messa alla berlina dei tic di autori e critici radical chic, la rivendicazione di una verità: i film d’autore incassano poco, quelli che fanno ridere non sono roba da “popolo bue” e chi si ostina a scrivere queste scemenze sta uccidendo il cinema. 

Come sopravvivere al cinema di sinistra, scrive Maurizio Acerbi il 10 agosto 2016 su “Il Giornale”. Da oggi, nelle edicole italiane, abbinato a il Giornale, trovate il mio libretto "Come sopravvivere al cinema di sinistra", inserito nella collana Fuori dal Coro. Il pamphlet, che costa 2,50 euro, cerca di rispondere ad alcune domande che si pongono tutti quei cinefili che non si riconoscono nel pensiero unico della sinistra cinematografica: ridere è di destra? Chi non vota a sinistra è come viene dipinto nei film degli autori radical, ovvero razzista, ignorante, evasore e via dicendo?  Ma non solo. Ho cercato, usando anche un linguaggio semiserio (è pur sempre un libro estivo), di mettere alla berlina i tic dei registi d’autore e della critica radical chic, cercando di capire come si sia formata questa uniformità di pensiero che monopolizza il grande schermo e che ghettizza chi non si riconosca in esso. Il libro parte con uno scherzoso Manifesto del perfetto regista di sinistra che in 21 punti cerca di tratteggiare, in modo ironico, le caratteristiche comportamentali dell’autore impegnato. Poi, vi elenco i vari capitoli per darvi un’idea del contenuto del libretto di 48 pagine, ovvero: Introduzione: il cinema di sinistra è morto?; L’anatema contro il cinepanettone; La dittatura di cowboy e poliziotti; Se far ridere è di destra; I maestri della sinistra autoreferenziale; Brutti, cattivi, evasori e ignoranti; La solitudine di non essere di sinistra; Il mistero buffo di Checco Zalone; Troppa cultura, sale deserte; Il Democratico conquista l’America; Conclusione. Se qualcuno dei numerosi lettori di questo blog (a proposito, grazie per la fiducia) vorrà leggerlo, mi farà piacere. E magari, potremmo successivamente confrontarci sui temi che ho trattato. Lo scopo principale era lanciare una sorta di SOS, un “ci siamo anche noi non di sinistra”, un “non dimentichiamo che il cinema appartiene a tutti”. Se, in qualche modo, sarò riuscito a far riflettere qualcuno di questi autori sul nostro disagio quotidiano di lavorare in un ambiente chiuso come quello del cinema italiano, la missione sarà compiuta. Almeno, ci ho provato. Buona lettura

Ministero della Cultura Popolare. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Ministero della cultura popolare (MinCulPop), Regno d'Italia, istituito il 27 maggio 1937 dal Governo Mussolini, sostituì il Ministero per la stampa e la propaganda e fu soppresso il 3 luglio 1944 dal Governo Bonomi II. Il Ministero della cultura popolare (MinCulPop) è stato un ministero del governo italiano nel Regno d'Italia col compito di controllo sulla cultura e di organizzazione della propaganda del fascismo. L'antesignano del Ministero può essere considerato l'Ufficio Stampa del Capo del Governo, istituito nel 1922 con il compito di diffondere i comunicati ufficiali del regime fascista. Con r.d. 6 settembre 1934, n. 1434, il predetto ufficio fu trasformato in Sottosegretariato di Stato per la stampa e la propaganda, composto di tre direzioni generali: stampa italiana; stampa estera; propaganda. Con r.d. 18 sett. 1934, n. 1565, fu istituita una quarta direzione generale per la cinematografia. Il nuovo sottosegretariato, con r.d.l. 21 nov. 1934, n. 1851, assunse altresì le competenze del commissariato per il turismo, per l'occasione trasformato in direzione generale. Con r.d. 24 giu. 1935, n. 1009, il sottosegretariato divenne Ministero per la stampa e la propaganda. Con r.d.l. 24 sett. 1936, n. 1834 fu introdotta una nuova direzione generale, quella per lo spettacolo, e furono posti alle dirette dipendenze del ministero diversi enti e istituti, in particolare:

l'Istituto Luce;

l'Ente nazionale per le industrie turistiche (ENIT);

l'Istituto Nazionale del Dramma Antico;

la Discoteca di Stato;

gli enti provinciali per il turismo;

il comitato per il credito alberghiero.

Con r.d. 27 maggio 1937, n. 752, il ministero assunse la denominazione di Ministero per la cultura popolare. Il primo titolare del dicastero fu Dino Alfieri. Nel 1939 Alfieri fu nominato ambasciatore a Berlino e il nuovo ministro della cultura popolare fu Alessandro Pavolini. Nel febbraio 1943, al posto di Pavolini fu nominato ministro Gaetano Polverelli.

Dopo il crollo del regime nel luglio 1943 e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana (RSI), il Ministero della Cultura Popolare fu trasferito a Salò; la titolarità fu assegnata a Ferdinando Mezzasoma. Con d.lgt. 3 luglio 1944, n. 163 (Governo Bonomi II), il ministero fu soppresso e ad esso subentrò un sottosegretariato per la stampa e le informazioni alle dipendenze della Presidenza del Consiglio, il quale, con d.lgt. 12 dicembre 1944, n. 407, venne modificato in sottosegretariato di Stato per la stampa lo spettacolo e il turismo, soppresso a sua volta con d. lgt. 5 luglio 1945, n. 416. Il ministero aveva l'incarico di controllare ogni pubblicazione, sequestrando tutti quei documenti ritenuti pericolosi o contrari al regime e diffondendo i cosiddetti ordini di stampa (o veline) con i quali s'impartivano precise disposizioni circa il contenuto degli articoli, l'importanza dei titoli e la loro grandezza. Più in generale, il ministero si occupava della propaganda, quindi non solo del controllo della stampa. Altro compito importante fu quello della promozione del Cinema di propaganda fascista. Analogamente, nel 1933, nella Germania nazista fu fondato il Ministero della Propaganda; Joseph Goebbels ne fu il responsabile. Tale decisione diede la spinta al regime fascista di accentrare più competenze in un unico dicastero. L'Ufficio Stampa del Capo del Governo fu istituito nel 1922 e aveva il compito di diffondere i comunicati ufficiali. Il 9 agosto 1923, con lo scopo di consolidare il suo potere appena acquisito, Mussolini lo pose sotto la sua diretta autorità e gli affidò il compito di combattere la propaganda antifascista, fornendo ai giornali la versione ufficiale degli eventi, e di passare in rassegna quotidiani italiani ed esteri al fine di raccoglierne informazioni e giudizi. Mussolini aveva, così, trasformato l'Ufficio Stampa da agenzia incaricata di comunicati ufficiali in agenzia di notizie e rassegna, ampliandone le funzioni. Fino al 1926, la politica culturale del regime era stata indirizzata soprattutto al controllo dell'alta cultura e degli intellettuali, attraverso la creazione di nuovi istituti culturali o la fascistizzazione di quelli già esistenti. Proprio a partire da questa data, Mussolini maturò la convinzione che la politica culturale non fosse soltanto un mezzo per controllare gli intellettuali e sottomettere l'opposizione antifascista, ma poteva anche essere utilizzata dal fascismo per radicarsi nella vita culturale del paese e per modellare la coscienza morale e sociale degli italiani, per attuare, in sostanza, quello che fu lo scopo fondamentale della politica culturale del regime negli anni trenta, cioè “andare verso il popolo”. La creazione di un ponte tra cultura fascista e masse avrebbe consentito a Mussolini di ottenere una vasta base di consenso popolare grazie alla quale il suo regime e la sua leadership avrebbero avuto maggiore durata. Per attuare questa nuova idea di politica culturale, nel 1926, il regime passò dalla propaganda di agitazione, un tipo di propaganda sovversiva che era stata usata tra il 1919 e il 1922 e tra il 1924 e il 1926, e che aveva lo scopo di scaturire sentimenti di odio e frustrazione al fine di scatenare la violenza e la ribellione, alla propaganda di integrazione. Quest'ultima era un tipo di propaganda che agiva sugli uomini indirettamente, influenzando i costumi, le abitudini e i comportamenti, al fine di condizionare la maggioranza della popolazione e ottenere l'accettazione totale di un dato modello di comportamento. L'attuazione della propaganda di integrazione fu possibile grazie al significativo ampliamento delle funzioni che interessò l'Ufficio Stampa del Capo del Governo a partire dal 1926, facendone uno dei principali elaboratori proprio di questo tipo di propaganda. L'ampliamento dell'Ufficio Stampa cominciò, infatti, proprio nel 1926, quando Mussolini pose l'Ufficio Stampa del Ministero degli Esteri sotto la direzione di Capasso Torre, capo dell'Ufficio Stampa dal 1924. L'Ufficio Stampa del Ministero degli Esteri divenne, dunque, una sezione dell'Ufficio Stampa del Capo del Governo, il quale appariva, così, suddiviso in due sezioni interne: La sezione per la stampa italiana: questa sezione aveva sede al Viminale, lavorava a stretto contatto con il Ministero dell'Interno, i suoi addetti erano un numero molto ristretto di giornalisti e letterati. I suoi compiti principali erano:

la lettura di tutti i principali quotidiani e periodici pubblicati nel paese;

la distribuzione ai giornalisti di materiali di diversa natura, come fotografie o disposizioni sul trattamento di particolari notizie;

i richiami ai direttori di giornali che pubblicavano notizie non autorizzate;

la distribuzione ai giornali di sussidi finanziari sotto forma di pagamenti segreti al fine di influenzarli e renderli dipendenti dal regime.

La sezione per la stampa estera: questa sezione aveva sede a Palazzo Chigi, i suoi addetti erano in numero più ampio rispetto alla sezione per la stampa italiana. I suoi compiti erano:

la raccolta di articoli che riguardavano l'Italia;

il coordinamento delle notizie di politica estera;

la distribuzione al Ministero degli Esteri delle risposte da dare ai quesiti posti da giornalisti stranieri.

Sotto la guida di Lando Ferretti, direttore dell'Ufficio Stampa dal settembre 1928, si ebbe una modernizzazione dell'ufficio attraverso l'elevazione, nel 1929, delle sezioni per la stampa italiana e estera in Direzioni Generali. Agli inizi degli anni trenta, inoltre, la Direzione Generale per la stampa italiana sottrasse al Ministero dell'Interno il compito di sequestro e soppressione dei giornali. Un tentativo di ampliamento delle funzioni dell'Ufficio Stampa si ebbe a partire dall'aprile 1933, quando Gaetano Polverelli, direttore dell'Ufficio Stampa dal 1931, assunse due giovani giornalisti, Gastone Silvano Spinetti e Annibale Scicluna Sorge, e affidò loro il compito di dare un'organizzazione più sistematica e compatta alla funzione di gestione della propaganda interna da parte dell'Ufficio Stampa. Spinetti, dunque, presentò a Polverelli un progetto per la creazione di una Sezione Propaganda all'interno dell'ufficio. Questa nuova Sezione Propaganda, come affermava Spinetti nel documento riprendendo le parole di Polverelli di qualche mese prima, doveva avere il compito “raccogliere, elaborare e diffondere scritti e pubblicazioni riguardanti la romanità, l'italianità e il regime”. La Sezione Propaganda ideata da Spinetti rimase, tuttavia, in uno stato progettuale, infatti, in una lettera inviata alla rivista Storia Contemporanea, lo stesso Spinetti ha affermato che la Sezione Propaganda era un semplice ufficio in cui lavoravano due persone che “distribuivano fotografie ed altro materiale ai quotidiani”. La propaganda di integrazione, diffusa e elaborata attraverso l'attività di censura e rassegna dell'Ufficio Stampa negli anni venti e agli inizi degli anni trenta, si basava su due temi di carattere generale:

il mito del duce, cioè la costruzione di un'immagine popolare di Mussolini;

l'idea della Nuova Italia, cioè la costruzione di un'immagine fittizia di un'Italia stabile, ben ordinata e vigorosa in cui la società conduce una vita sobria e moralistica, incarnando gli ideali e i valori fascisti e rifiutando i valori dell'Italia prefascista con il suo liberalismo borghese.

Nella costruzione del mito del duce, l'Ufficio Stampa si occupò di costruire da un lato l'immagine di un uomo dalle qualità superiori rispetto alla norma, e dall'altro cercò di dimostrare che il duce era vicino alla vita delle masse e ai valori della vita rurale. La costruzione dell'immagine di Mussolini come quella di un uomo le cui qualità erano quasi irreali, la cui autorità era assoluta e che fosse simbolo di vigore e virilità, fu ottenuta dall'Ufficio Stampa attraverso:

la disposizione ai giornali di omettere notizie sulle malattie del duce, sul compleanno del duce, sulla sua vita privata;

la direttiva ai giornali con la quale si avvertiva che Mussolini non era più solo il capo del governo ma il duce;

la disposizione per la quale tutti i discorsi di Mussolini dovevano essere pubblicati in prima pagina;

il divieto ai giornalisti di elogiare altri esponenti politici al di fuori di Mussolini o del re;

la diffusione di notizie sulle imprese sportive del duce, sulla sua bravura come atleta e di fotografie che ritraevano Mussolini mentre cavalcava, nuotava, dirigeva manovre militari;

la creazione dell'immagine di Mussolini come un uomo vicino alla vita delle masse soprattutto attraverso la pubblicazione di fotografie in cui il duce era in abito da lavoro tra i contadini, oppure guidava un trattore, o manovrava una fiamma ossidrica.

La costruzione dell'idea della Nuova Italia fu ottenuta dall'Ufficio Stampa attraverso:

la promozione dell'abolizione del tradizionale modo di celebrare il Capodanno e dell'uso degli alberi di natale perché queste erano viste come usanze proprie dell'antiquata società borghese;

la campagna contro la cronaca nera che faceva parte della più generale campagna per eliminazione dai giornali di tutte quelle notizie che potessero dare l'impressione che il fascismo non avesse il pieno controllo sulla vita nazionale e aveva lo scopo di far credere agli italiani che il fascismo avesse creato una società stabile e ordinata. La campagna contro la cronaca nera fu attuata dall'Ufficio Stampa attraverso la disposizione di Capasso Torre ai giornali di non usare frasi a effetto, fotografie e di non pubblicare articoli che si riferissero a episodi di cronaca nera come epidemie, delitti passionali, suicidi, e fu perseguita dal regime per oltre un decennio.

Il rafforzamento della famiglia tradizionale e del valore della maternità come simboli di stabilità sociale con il divieto di pubblicare immagini di donne seminude e di eccessiva magrezza, l'eliminazione dei concorsi di bellezza e l'assegnazione di premi alle famiglie più numerose. Il regime tentava, così, di imporre agli italiani un visione tradizionale del ruolo della donna, la quale doveva restare legata ai suoi doveri di moglie e madre. È significativo osservare che la costruzione dell'idea della Nuova Italia si basava sul valore negativo attribuito dal regime al liberalismo borghese dell'Italia prefascista. I valori liberali e borghesi, infatti, erano visti come sintomi di una società corrotta e decadente e venivano presentati alle masse come antiquati e ormai superati, al fine di convincerle che la società ordinata e stabile della Nuova Italia dovesse rifiutarli totalmente. Un aspetto molto importante della propaganda di integrazione è quello che, nella costruzione del mito del duce e dell'idea di Nuova Italia, l'Ufficio Stampa dovette sempre mediare tra il nuovo e il tradizionale, ottenendo, cioè, una propaganda che da un lato, presentava i temi del nuovo e della modernizzazione sociale e morale portata dal fascismo, mentre dall'altro, restava legata ai valori tradizionali del mondo agricolo e rurale poiché essi erano i valori di base della maggioranza degli italiani. All'inizio degli anni trenta emergeva nel regime la necessità di porre il controllo sistematico di propaganda e cultura nelle mani di una struttura unitaria che, per mezzo di questo controllo, permettesse di unificare i due settori con lo scopo di dare alla propaganda una funzione culturale, cioè di utilizzare la propaganda per rendere la politica culturale fascista una realtà concreta per le masse, per creare un ponte tra cultura fascista e la maggioranza degli italiani. Proposte per la creazione di un unico organismo che esercitasse il controllo allo stesso tempo su propaganda e cultura erano apparse nella rivista Critica fascista in cui, nel 1933, si suggeriva la creazione di un Ministero per la Propaganda che si ispirasse al Ministero della Propaganda di Goebbels nella Germania nazista. In seguito a questo dibattito, emergeva che l'Ufficio Stampa del Capo del Governo non fosse più adeguato alle ambizioni culturali del regime poiché esso aveva definito i criteri generali della propaganda, ma non si era interessato alla cultura e ai problemi culturali, cioè non aveva utilizzato gli strumenti e le tecniche della propaganda per rendere i valori fascisti una realtà concreta per le masse. A cercare di eliminare l'inadeguatezza dell'Ufficio Stampa fu Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, nominato direttore dell'Ufficio nell'agosto 1933. Ciano, infatti, tra l'agosto 1933 e il settembre 1934, attuò una riorganizzazione dell'Ufficio Stampa con lo scopo di allargare le sue funzioni e di avvicinare la sua attività ai problemi culturali e alla cultura. La riorganizzazione dell'Ufficio Stampa da parte di Ciano era spinta anche dalla sua ambizione personale e dalla sua volontà di accrescere il proprio prestigio all'interno del regime e fu attuata attraverso: l'estensione dei controlli e della supervisione sulla stampa con:

l'assegnazione, nel 1934, di addetti stampa ai prefetti di Roma, Firenze, Milano, Torino, Bologna, Napoli e Palermo, al fine di rendere più efficace la distribuzione e la raccolta delle informazioni;

l'incremento dei sussidi a giornali o a singoli giornalisti;

l'interesse per i mezzi di comunicazione di massa tramite:

l'avvio di studi preliminari sulla radio e sul cinema e il progetto della creazione di una sezione dell'ufficio e essi dedicata;

la centralizzazione nelle mani dell'Ufficio Stampa della gestione della propaganda all'estero del regime, affidata fino a quel momento al Ministero degli Esteri, trasferendo all'ufficio stesso i fondi necessari per la creazione di una Sezione propaganda che fosse una sezione estera dell'Ufficio Stampa, un ufficio per la propaganda all'estero interno all'Ufficio Stampa.

La Sezione Propaganda, che si occupava dell'organizzazione della propaganda all'estero del regime, divenne operativa a partire dall'aprile 1934, i suoi uffici si trovavano nel palazzo del Ministero degli Esteri e un passo basilare per la sua creazione fu l'accettazione da parte del Ministero degli Esteri di cedere a questo nuovo ente, esterno al ministero stesso, il compito di organizzare la propaganda all'estero. Il documento con il quale il Ministero degli Esteri ammise di dover cedere parte delle sue attività, cioè quelle riguardanti la propaganda all'estero, a un altro ente esterno è l’Appunto sulla Propaganda, nel quale si esprime la posizione del ministero di fronte alla notizia del progetto della creazione di un ufficio per la propaganda all'estero. Nel documento, pur riconoscendo che il nuovo organismo avrebbe assorbito parte delle attività del ministero, il gabinetto del Ministero degli Esteri ribadisce l'impossibilità di tenere nettamente separate politica estera e propaganda all'estero e, per questo, stabilisce che la nuova Sezione Propaganda e il ministero stesso debbano mantenere stretti rapporti ed essere informati ognuno sulle attività dell'altro.

Il 6 settembre 1934 Mussolini abolì l'Ufficio Stampa del Capo del Governo, lo sostituì con il Sottosegretariato per la stampa e la propaganda e nominò sottosegretario per la stampa e la propaganda Galeazzo Ciano al quale concesse la piena autorità di emanare decreti e prendere decisioni sulle questioni riguardanti la stampa e la propaganda. Il Sottosegretariato per la stampa e la propaganda costituiva la totale riorganizzazione dell'Ufficio Stampa al fine di renderlo più adeguato alle nuove ambizioni della politica culturale fascista. Esso, infatti, rappresentava un passo avanti nell'unificazione di propaganda e cultura nelle mani di una struttura unitaria, unificazione che era emersa alla fine degli anni venti come necessità fondamentale della politica culturale fascista. La presenza nella denominazione della parola propaganda dimostrava la volontà del regime di dare un'organizzazione più sistematica alla diffusione del fascismo inItalia e all'estero, mentre il persistere nella denominazione della parola stampa mostrava come si pensasse ancora che i giornali costituissero i principali strumenti di propaganda politico-culturale dello Stato. L'istituzione del Sottosegretariato per la stampa e la propaganda fu influenzata dal Ministero per la Propaganda creato da Joseph Goebbels in Germania. Nel 1933, infatti, lo stesso Goebbels si era recato a Roma e aveva visitato le principali istituzioni culturali fasciste e incontrato Mussolini e Ciano. Nel 1934, inoltre, Ciano aveva avviato uno studio sul ministero creato da Goebbels allo scopo di servirsene per introdurre nell'Ufficio Stampa cambiamenti notevoli. Alla data della sua creazione (6 settembre 1934) il Sottosegretariato per la stampa e la propaganda comprendeva le seguenti direzioni generali:

la Direzione Generale per la stampa italiana: creata già nel 1929 all'interno dell'Ufficio Stampa con l'elevazione a Direzione Generale della sezione per la stampa italiana, questa Direzione Generale si occupava di fornire le direttive ai giornali attraverso l'uso delle cosiddette veline o ordini di stampa;

la Direzione Generale per la stampa estera, creata nel 1929 all'interno dell'Ufficio Stampa con l'elevazione a Direzione Generale della sezione per la stampa estera;

la Direzione Generale per la propaganda, della quale antecedente era la Sezione Propaganda creata da Ciano agli inizi del 1934 e che, grazie alla collaborazione con organismi che lavoravano all'estero come i CAUR, la Dante Alighieri e l'Istituto di cultura fascista all'estero, spediva all'estero enormi quantità di materiale propagandistico e organizzava manifestazioni culturali all'estero.

Tra il 1934 e il 1935, il Sottosegretariato per la stampa e la propaganda definì il suo controllo sulla propaganda e spostò il suo controllo anche sulla cultura, ampliando la sua influenza sui mezzi di comunicazione di massa e fu, quindi, sottoposto a un ampliamento della sua struttura interna ottenuto attraverso:

la creazione della Direzione Generale per la cinematografia col decreto del 18 settembre 1934: questa direzione si occupava di censura e revisione in campo teatrale, del credito cinematografico, dei permessi per la creazione di nuove sale, dell'organizzazione di mostre e congressi cinematografici. L'ampliamento del controllo del Sottosegretariato sul cinema testimonia che il regime aveva finalmente riconosciuto l'importanza di questo nuovo mezzo di comunicazione di massa, tuttavia, questo riconoscimento non produsse una svolta molto significativa nelle modalità di gestione di questa attività culturale, infatti, il fascismo non creò mai una cinematografia di stato e le principali attività della Direzione Generale per la cinematografia restarono la revisione e la censura.

La creazione della Direzione Generale per il Turismo con il decreto del 21 novembre 1934.

La creazione dell'Ispettorato Generale per il teatro e la musica con il decreto del 1º aprile 1935.

La creazione dell'Ispettorato per la radiodiffusione con il decreto del 3 dicembre 1934: questo Ispettorato si occupava anche di televisione, poiché sarebbe stato prematuro creare una divisione distinta per la gestione di un media ancora in fase di sperimentazione.

Nel giro di pochi mesi, sia Ciano che Mussolini si resero conto che il Sottosegretariato per la stampa e la propaganda era ormai inadeguato poiché in uno stato autoritario il controllo simultaneo della cultura e della propaganda doveva essere affidato ad un unico organismo che fosse una branca dell'apparato amministrativo e che potesse istituzionalizzare e governare tale controllo. Per questo, motivo, il 24 giugno 1935, il Sottosegretariato per la stampa e la propaganda fu trasformato in Ministero per la stampa e la propaganda e Galeazzo Ciano fu nominato ministro per la stampa e la propaganda. Il Ministero per la stampa e la propaganda conservò la stessa struttura interna del Sottosegretariato che ne era l'antecedente e ampliò tale struttura, in modo da poter inserire nella sua sfera di competenza un numero ancora maggiore di settori della cultura e della propaganda. L'ampliamento della struttura e delle competenze del Ministero per la stampa e la propaganda fu ottenuto attraverso:

la collocazione sotto la tutela del ministero dell'Automobile Club, della SIAE, dei teatri San Carlo e La Scala e dell'EIAR, il quale era sottoposto anche alla vigilanza della Direzione Generale Poste e Telegrafi del Ministero delle Comunicazioni;

l'attribuzione al ministero del potere di nominare gli addetti stampa presso le prefetture;

la legge del 24 ottobre 1935, con la quale alle direzioni generali per la stampa italiana ed estera venivano riconosciuti i poteri speciali per il sequestro e la soppressione dei giornali, originariamente affidati al Ministero dell'Interno;

l'innalzamento, nel 1936, dell'Ispettorato per il teatro e la musica a Direzione Generale per lo spettacolo a cui veniva affidato il compito di unificare e coordinare tutti gli organismi che si occupavano di spettacolo e la cui attività principale era la censura;

la creazione della divisione libri o divisione III all'interno della Direzione Generale per la stampa italiana del ministero:  con la creazione di questa divisione, diretta da Amedeo Tosti e il cui personale era formato da otto giornalisti per i libri italiani e trentadue per i libri stranieri, il Ministero per la stampa e la propaganda sottraeva al Ministero dell'Interno l'attività di censura dei libri, anche se i criteri di censura usati dalla divisione erano uguali a quelli usati dal Ministero dell'Interno: ai prefetti veniva dato il compito di individuare i libri sospetti di contenere sentimenti antifascisti e di inviarli al ministero, il quale decideva se sequestrarli o proibirne la ristampa, o censurarli, o richiederne la revisione; talvolta, era lo stesso ministero che segnalava ai prefetti alcuni libri sospetti e ordinava loro di sequestrarli;

la collocazione sotto l'autorità del ministero del Sabato Teatrale, un'iniziativa creata da Mussolini nel dicembre 1936 con lo scopo di sviluppare un teatro di massa, cioè un tipo di teatro capace di attrarre contadini e operai attraverso l'organizzazione di spettacoli teatrali a basso costo;

l'estensione del controllo del ministero sui sindacati culturali con lo scopo di far perdere loro la capacità di controllo sulle rispettive sfere di competenza: alSindacato degli autori e degli scrittori, ad esempio, fu vietato di occuparsi di traduzioni di opere straniere e di censura, poiché questi compiti spettavano al ministero; la Confederazione degli artisti e dei professionisti, inoltre, aveva bisogno dell'approvazione del ministero prima di intraprendere qualsiasi attività di propaganda culturale;

il tentativo del ministero di far rientrare effettivamente nei sindacati della Confederazione degli artisti e dei professionisti tutte le forze produttive del settore di cui si interessavano: a tale scopo, il ministero richiese a circoli e ad associazioni culturali locali di fornire alla confederazione elenchi dei loro iscritti e, nel 1936, a tutti gli scrittori che partecipavano a gare letterarie fu richiesto di iscriversi al Sindacato degli autori e degli scrittori.

Il Ministero per la stampa e la propaganda fu il principale elaboratore e diffusore della propaganda di guerra durante la guerra d'Etiopia (1935-1936). Abbandonando la propaganda di integrazione che si era avuta dal 1926, il ministero concentrò tutti i suoi sforzi sulla propaganda di agitazione volta a controbattere la propaganda inglese e francese, accrescere il morale popolare e suscitare sentimenti di entusiasmo per la guerra. Per raggiungere il suo scopo il Ministero per la stampa e la propaganda si servì delle istituzioni culturali italiane, infatti, operò per far perdere loro la facoltà di iniziativa e autonomia e per coordinare le loro attività con lo scopo di renderle veri e propri strumenti di propaganda di guerra. L'Istituto di cultura fascista, ad esempio, organizzò, durante la guerra, una serie di conferenze per propagandare le imprese dei soldati italiani in Africa, rendere omaggio alla missione civilizzatrice dell'Italia, creare il mito imperiale dell'Italia. Nel consiglio di amministrazione della Dante Alighieri furono introdotti dei rappresentanti del Ministero per la stampa e la propaganda con lo scopo di porre la società nelle mani del ministero stesso e, da questo momento, la società abbandonò l'attività tradizionale di studio della lingua per occuparsi della distribuzione di opuscoli, dell'organizzazione di conferenze, recital e corsi di lingua. Il Ministero per la stampa e la propaganda fu anche uno strumento prezioso per la politica estera del regime, poiché ampliò la sua funzione di gestione della propaganda all'estero attraverso la suddivisione della Direzione Generale per la propaganda in quattro sezioni:

la propaganda generale, che si occupava dell'elaborazione e della diffusione della propaganda destinata ai paesi stranieri;

la sezione radiofonica, che controllava le trasmissioni dirette ai paesi stranieri;

la sezione arte e cinematografia, che controllava i film, i cinegiornali, le esposizioni destinati a paesi stranieri;

la divisione speciale conosciuta con il nome di Nuclei per la propaganda italiana all'estero (NUPIE), che si occupava dell'elaborazione e della diffusione della propaganda anticomunista all'estero e alla quale, in seguito, fu affidato il compito di preparare la propaganda in caso di guerra a uso interno.

Nel giugno 1936, Galeazzo Ciano divenne ministro degli esteri e Dino Alfieri, che fino a quel momento era stato sottosegretario del ministero, fu nominato ministro per la stampa e la propaganda.

Il 27 maggio 1937, Mussolini cambiò la denominazione del Ministero per la stampa e la propaganda in Ministero per la Cultura Popolare. Tra il nuovo Ministero per la Cultura Popolare e il Ministero per la stampa e la propaganda vi fu una forte continuità politica e istituzionale, infatti, per tutto il 1937 il nuovo ministero mantenne la stessa struttura dell'ex Ministero per la stampa e la propaganda. Alla creazione del Ministero per la Cultura Popolare, inoltre, Dino Alfieri, ministro per la stampa e la propaganda, fu nominato automaticamente ministro della cultura popolare. La spiegazione ufficiale della nuova denominazione fu che con l'espressione cultura popolare si voleva indicare e celebrare l'allargamento degli scopi del ministero il quale, come aveva suggerito lo stesso Dino Alfieri in un rapporto al Senato agli inizi del 1937, si prefiggeva di fare un passo avanti nel controllo simultaneo su cultura e propaganda, puntando all'unificazione dei due settori. Tale unificazione era necessaria per rendere la politica culturale del regime una realtà concreta per il popolo e le masse, cioè per fare in modo che le attività culturali non fossero solo un privilegio riservato a pochi e per educare le masse secondo i principi e i valori fascisti, realizzando la rivoluzione fascista di cui si parlava dagli anni venti. Alla fine degli anni trenta si tentò di definire con maggiore precisione la natura e la funzione della cultura popolare nel regime. Nell'articolo Cultura popolare del Popolo d'Italia del 30 maggio 1937, ad esempio, si spiegava che il termine popolare non era usato in senso dispregiativo, ma nel senso romano di per tutto il popolo. Lo stesso concetto venne espresso in un discorso pronunciato il 24 aprile1941 da Pavolini in cui egli affermava che la cultura popolare è “qualcosa che riguarda la generalità dei cittadini, simultaneamente nelle città e villaggi, che tocca insieme tutta la popolazione”. Le spiegazioni ufficiali sulla natura della cultura popolare e sul cambiamento di denominazione del ministero erano, tuttavia, solo pura retorica poiché, l'espressione cultura popolare fu principalmente un semplice sostituto del termine propaganda. Già all'inizio degli anni trenta, infatti, Mussolini e Ciano avevano riflettuto sugli svantaggi del termine propaganda e Ciano aveva affermato che “nessun popolo ormai vuole essere propagandato, bensì vuole essere informato”. Per questo motivo, si era arrivato a proporre di cancellare la parola propaganda dal vocabolario ufficiale e la riflessione sugli svantaggi del termine era continuata per tutti gli anni trenta, approdando nelle direttive del 3 giugno 1939 e del 5 febbraio 1942 con le quali i giornalisti venivano invitati a evitare l'uso della parola propaganda in riferimento all'attività governativa. Il fatto che la spiegazione ufficiale per cui il Ministero della Cultura Popolare dovesse avviare un vero e proprio programma di cultura popolare volto all'elevazione culturale delle masse fosse pura retorica è dimostrato soprattutto dal tipo di attività e funzioni svolte dal ministero stesso. Teoricamente, infatti, il lavoro del ministero doveva essere diviso tra due tipi di funzioni: le funzioni dinamiche, volte all'unificazione di cultura e propaganda al fine di attuare quel programma di cultura popolare di cui tanto si era parlato già dall'inizio degli anni trenta; le funzioni statiche, volte al perfezionamento del controllo totalitario sulla cultura nel quale, come aveva fatto notare Dino Alfieri in un discorso alla Camera all'inizio del 1937, vi erano ancora problemi e lacune. La reale attività del ministero, però, fu caratterizzata per la maggior parte dall'adempimento delle funzioni statiche e molto trascurate furono, invece, le funzioni dinamiche. Al fine di avviare il perfezionamento del controllo totalitario sulla cultura, adempiendo le sue funzioni statiche, il ministero fu interessato, a partire dal febbraio1938, da una riorganizzazione strutturale, ottenuta attraverso:

l'ampliamento del personale che passò dai 183 impiegati del Ministero per la stampa e la propaganda a 800 funzionari, molti dei quali provenienti dal Ministero degli Esteri;

l'aggiunta allo staff del ministero di un numero sempre più alto di esperti di cinema, radio, architettura, fotografia e la creazione della Direzione Generale per i servizi amministrativi nella quale furono inquadrati;

la creazione all'interno delle sezioni della Direzione Generale per la stampa, di due sottosezioni, una per la stampa quotidiana, l'altra per quella non quotidiana;

la suddivisione delle sezioni della Direzione Generale per la propaganda per aree geografiche;

la creazione, da parte della Direzione Generale per la propaganda, di una rete di zone di propaganda (a ogni zona di propaganda fu assegnato un gruppo di propagandisti e un direttore dei servizi di propaganda);

la creazione di un Ufficio razza che si occupava della propaganda razziale in tutto il paese e che nel 1939, cambiò la sua denominazione in Ufficio studi e propaganda sulla razza;

la riorganizzazione, tra il 1938 e il 1943, della Direzione Generale per il Turismo: la direzione assegnava contributi dello Stato per costruzioni di alberghi, determinava il prezzo degli alberghi, forniva nulla osta ai progetti di costruzione, si occupava di fornire alla stampa italiana ed estera articoli di propaganda delle attività turistiche nazionali. Alle sue dipendenze vi erano l'ENIT e gli Enti provinciali per il turismo e essa vigilava su numerose organizzazioni turistiche tra cui il RACI e l'ENITEA;

l'assegnazione all'Ufficio di censura teatrale di una propria autonomia rispetto alla Direzione Generale per lo spettacolo, dalla quale fu scorporato;

l'estensione del controllo del ministero sull'Ente stampa del Pnf e sull'Ente Radio Rurale tra il 1939 e il 1940;

l'istituzione, all'interno della Direzione Generale per i servizi amministrativi, di un Ufficio di mobilitazione civile;

la creazione nel dicembre 1939, all'interno dell'Ispettorato per la radiodiffusione, di un Servizio di ascolto radiofonico e radiotelegrafico dall'estero;

il cambiamento di denominazione nel 1942, della Direzione Generale per la propaganda in Direzione Generale per gli scambi culturali.

La riorganizzazione strutturale del Ministero della Cultura Popolare causò un aumento del bilancio del ministero stesso, infatti, tra il 1938 e il 1939 furono stanziati più di cento milioni di lire.

Dopo la sua creazione e la riorganizzazione strutturale che lo interessò dal 1938, il Ministero della Cultura Popolare presentava la seguente struttura interna:

Direzione generale per la stampa italiana;

Direzione generale per la stampa estera;

Direzione generale per la propaganda;

Direzione generale per la cinematografia (a cui erano collegati Cinecittà, ed il Centro Sperimentale di Cinematografia);

Direzione generale per il turismo;

Direzione generale per lo spettacolo;

Ispettorato per le radiodiffusioni.

Uno dei più importanti problemi che il Ministero della Cultura Popolare dovette affrontare nell'ambito del perfezionamento del controllo totalitario sulla cultura fu la necessità, fatta notare anche su Critica fascista, di centralizzare il controllo del grandissimo numero di enti e istituti culturali nelle mani dello stato. Tale perfezionamento e centralizzazione del controllo potevano essere ottenuti attraverso una maggiore integrazione di tutte le istituzioni culturali nelle strutture statali, con lo scopo di dare alle attività di questi enti e istituti un “principio organico e sistematico” che li regolasse. Al fine di rispondere a questa necessità di centralizzazione e di più precisa regolamentazione delle attività degli enti culturali nazionali, lo Stato non creò nessun nuovo ente culturale e il Ministero della Cultura Popolare lavorò per assorbire totalmente gli enti culturali preesistenti con lo scopo di eliminare completamente la loro autonomia. Attraverso il lavoro del Ministero della Cultura Popolare, la Reale Accademia d'Italia, che nel 1936 era stata strappata dal controllo del Ministero dell'Educazione nazionale per essere posta sotto il controllo del Ministero per la stampa e la propaganda, perse completamente la sua autonomia. Essa, infatti, fu utilizzata per la campagna razziale del regime attraverso la creazione, al suo interno, di un Centro di studi per le civiltà primitive che lavorava a stretto contatto con l'Ufficio razza del ministero con lo scopo di rendere i risultati della sua ricerca funzionali per i temi della politica razziale ufficiale. Il Ministero della Cultura Popolare lavorò anche per rendere sempre più dipendente dall'attività dello Stato, l'Istituto di cultura che nel 1937, aveva cambiato la sua denominazione in Istituto di cultura fascista con lo scopo di sottolineare la maggiore importanza del suo ruolo nella politica culturale fascista. L'Istituto fu utilizzato dal Ministero della Cultura Popolare per la promozione della campagna razziale del regime, infatti, gli fu affidato il compito di organizzare su tutto il territorio nazionale incontri e conferenze sui temi della razza e dell'odio razziale. Il Ministero della Cultura Popolare, inoltre, si oppose al progetto elaborato nel 1943 dal Pnf che voleva porre sotto il suo controllo tutte le istituzioni culturali che non erano ancora controllate e disciplinate direttamente dalle istituzioni dello Stato. Con il suo progetto, il Pnf mirava a strappare al ministero il controllo su parte delle istituzioni culturali del paese e, a tale scopo, già nel 1937, aveva provveduto a coordinare le attività dell'Istituto di cultura con quelle del Circolo filologico e dell'Università Popolare di Milano, nonostante la mancata approvazione del Ministero della Cultura Popolare. Nella seconda metà degli anni trenta, il Ministero della Cultura Popolare concentrò, come anche il Pnf, tutti i suoi sforzi nella creazione di un particolare clima propagandistico e culturale, promuovendo con entusiasmo una serie di campagne propagandistiche. La campagna propagandistica per la "romanità" fu alla base della propaganda culturale del ministero nella seconda metà degli anni trenta, infatti, il tema della "romanità" fu un tema centrale nella costituzione dei nuovi temi culturali emersi in questo periodo. Il concetto di "romanità", elaborato già negli anni venti, fu utilizzato dal regime per due scopi fondamentali. In primo luogo, esso servì al regime per dare legittimazione all'ideologia fascista e al regime fascista, cioè si affermò che le origini del regime fascista risiedevano nel passato glorioso della Roma antica e, in particolare, di quella imperiale. Il fascismo, quindi, rappresentava la continuazione e la rinascita del puro spirito della razza italica che aveva trovato la sua massima espressione proprio nella Roma imperiale e, instaurando un rapporto di continuità con l'Impero romano, esso otteneva la legittimazione storica di cui aveva bisogno. Non è un caso che, già negli anni venti, come simbolo del regime fosse stato scelto il fascio littorio, né che Mussolini fosse chiamato "duce" e fosse identificato con l'imperatore romano Augusto e con Cesare, considerato un degno rappresentante del fascismo. Nella seconda metà degli anni trenta, questa campagna propagandistica per l'identificazione del fascismo con il passato romano e con la Roma imperiale venne rafforzata attraverso numerosi provvedimenti tra cui:

la pubblicazione, nel 1937, del film "Scipione l'Africano" di Carmine Gallone, in cui l'impero etiope di Mussolini veniva identificato con l'impero di Augusto;

l'adozione dello stile architettonico romano-classico come stile ufficiale del regime, impiegato nel Foro Mussolini, nella città universitaria di Roma e nei nuovi centri urbani, come Latina;

l'apertura, nel 1937, della Mostra Augustea della Romanità, che conteneva una sezione dal nome "Fascismo e romanità" e che fu ampiamente pubblicizzata attraverso l'organizzazione di gite guidate a tariffe ridotte. Alla cerimonia di chiusura della mostra, inoltre, a Mussolini fu data un'aquila viva, come simbolo della continuità storica tra la Roma imperiale e il fascismo. Il tema della "romanità", inoltre, fu usato dal fascismo per la creazione e la legittimazione del concetto di "uomo nuovo fascista". L'"uomo nuovo fascista" era colui che non si limitava solo ad accettare il fascismo coi suoi valori e i suoi principii, ma che cambiava e regolava il proprio comportamento pubblico e privato in relazione ai principi e ai valori del fascismo. Ispirandosi e facendo propri i nuovi valori dal fascismo, quindi, l'"uomo nuovo" era un nuovo tipo di italiano che rifiutava le "vecchie" usanze e gli antiquati costumi dell'Italia prefascista e soprattutto di quella liberale e borghese. L'"uomo nuovo" era un individuo con un nuovo modo di pensare, un nuovo comportamento, una nuova cultura e, per questo, rappresentava la massima espressione della "rivoluzione fascista" e della "Nuova Italia" che il fascismo si proponeva di costruire. Il concetto di "romanità" è legato a quello dell'"uomo nuovo" poiché i principi e i valori fascisti in base ai quali esso doveva regolare il suo comportamento coincidevano con i valori del cittadino dell'antica Roma, cioè la disciplina, la coscienza nazionale, il sacrificio dei propri interessi personali a favore di quelli dello Stato, la responsabilità, il dinamismo. L'"uomo nuovo", quindi, doveva essere formato infondendo negli italiani i valori della vita romana e la campagna propagandistica per la formazione dell'"uomo nuovo" fu caratterizzata dall'organizzazione di parate e adunate, dall'adozione del passo romano e del saluto romano. Inoltre, il Ministero della Cultura Popolare si impegnò nella campagna per l'"uomo nuovo" attraverso un lavoro di censura e sequestro con il quale, ad esempio, venne ordinato ai giornalisti di non usare espressioni che esaltassero il vecchio luogo comune della bontà degli italiani o di non fare riferimenti all'Italia liberale prefascista. Il Ministero della Cultura Popolare si impegnò anche per eliminare l'influenza dei dialetti, poiché rappresentavano il regionalismo politico, la divisione culturale e una forma di cultura antiquata e tali principi non si accordavano con i principi di coscienza nazionale e di rifiuto delle vecchie usanze che dovevano caratterizzare l'"uomo nuovo fascista". Ai periodici, infatti, fu vietato di pubblicare storie, poesie o canzoni in dialetto e agli attori di teatro fu impedito di pronunciare anche una sola battuta in dialetto. A partire dal 1938, il Ministero della Cultura Popolare si impegnò anche nella campagna propagandistica antiborghese, legata ai temi della "romanità" e dell'"uomo nuovo". La campagna antiborghese aveva lo scopo non solo di denigrare, ma anche di eliminare completamente dal comportamento degli italiani i valori e le vecchie usanze borghesi poiché essi non si accordavano con quelli dell'"uomo nuovo fascista" e dell'uomo romano. Questa campagna fu realizzata attraverso l'organizzazione di conferenze e mostre e la pubblicazione di libri e articoli che tentavano di eliminare i valori borghesi dall'abbigliamento, dal modo di parlare, dalle abitudini a tavola. Nella realizzazione della campagna antiborghese ebbe un ruolo importante lo sviluppo del movimento "anti-lei". Il movimento si affermò con l'organizzazione a Torino sul finire del 1937, di una mostra di quadri dal titolo "Mostra anti-lei" ed esso rifiutava l'uso del pronome "Lei" poiché era considerato un simbolo dello snobismo borghese e del servilismo italiano nei confronti degli stranieri. Un'importante campagna propagandistica in cui si impegnò il Ministero della Cultura Popolare fu la campagna antiebraica. Essa fu lanciata nel 1938 ed era legata al tema della "romanità" e alla campagna xenofoba del regime. Il Ministero della Cultura Popolare, infatti, tentò di convincere gli italiani che esistesse una pura "razza italica", cioè un tipo italico ideale che aveva avuto la sua piena realizzazione nella Roma imperiale e, dopo la caduta dell'impero romano, era stato contaminato dalle influenze straniere. Il recupero dei valori e dei principi della pura "razza italica" sarebbe stato possibile solo purificando la cultura nazionale dalle influenze straniere. L'Ufficio razza del Ministero della Cultura Popolare ebbe un ruolo fondamentale nella campagna antiebraica, infatti, si impegnò per liberare riviste, cinema, teatro e ogni altra attività culturale dalle influenze ebraiche. Per convincere gli italiani dell'esistenza di un tipo italico ideale, inoltre, furono realizzati documentari cinematografici e organizzate mostre come la "Mostra della razza", svoltasi a Roma nell'aprile 1940. In generale, le campagne propagandistiche del Ministero della Cultura Popolare e i temi culturali a esse legati furono la testimonianza del fallimento della politica culturale del regime e del suo progetto di "rivoluzione" culturale. Il regime, infatti, era consapevole del suo fallimento in campo culturale e, attraverso queste campagne propagandistiche, cercava di dare agli italiani almeno l'illusione e l'apparenza che esso avesse provocato importanti cambiamenti in campo sociale ed economico, che fosse riuscito a realizzare una "rivoluzione" culturale. L'atteggiamento repressivo e reazionario del Ministero della Cultura Popolare, che aveva lo scopo di accrescere il suo controllo totalitario sulla cultura, fu la causa dello sviluppo, alla fine degli anni trenta, di una forte ribellione intellettuale nei confronti della politica culturale del regime. Tale ribellione fu importante perché coinvolgeva non solo gli intellettuali già affermatisi prima del fascismo, ma anche la nuova generazione di intellettuali che si era formata proprio sotto il regime fascista. Questi intellettuali erano a favore del dialogo culturale, della libertà di espressione, della tolleranza verso tutte le forme e le attività artistiche. Essi si schierarono contro l'identificazione tra cultura e propaganda che portava la cultura a dipingere una realtà illusoria e finta del paese, e a favore, quindi, di una cultura che non si basasse sulla costruzione di illusioni e apparenze, ma fosse sensibile alla realtà concreta presente. Una figura centrale di questa ribellione degli intellettuali contro il carattere reazionario e repressivo della politica culturale del regime fu Giuseppe Bottai, direttore della rivista di ispirazione fascista Critica fascista e ministro dell'educazione nazionale. Bottai attuò la sua ribellione contro la politica culturale del regime aprendo la sua rivista anche ad autori e intellettuali che si erano dichiarati antifascisti, ma la sua battaglia più importante fu quella con la quale egli cercò di porre il controllo della vita artistica nazionale nelle mani del Ministero dell'Educazione nazionale. In questo modo, Bottai, ministro dell'educazione nazionale, voleva strappare il controllo sulle attività artistiche al Ministero della Cultura Popolare e porlo sotto la sua autorità allo scopo di garantire la libertà di espressione culturale e il dialogo culturale. Nel discorso del 4 luglio 1938 alla riunione dei Soprintendenti delle antichità e belle arti del Ministero dell'Educazione nazionale, infatti, Bottai sottolineò la necessità imminente per il regime di attuare una maggiore centralizzazione nelle sue mani della vita artistica del paese. Tale centralizzazione poteva essere ottenuta ponendo il controllo delle attività degli enti e dei privati che si interessavano di arte, sia antica che moderna, sotto l'autorità di un unico organismo unitario cioè il Ministero dell'Educazione nazionale. Tra il 1939 e il 1940 il Ministero dell'Educazione nazionale riuscì effettivamente ad ampliare il suo controllo sulla vita artistica del paese attraverso i seguenti provvedimenti:

la legge del 22 maggio 1939, con la quale il numero delle Soprintendenze del ministero veniva aumentato a cinquantotto e a ogni Soprintendenza veniva attribuita una sola sfera di competenza sulla quale aveva piena autorità;

la creazione, nel gennaio 1940, dell'Ufficio per l'arte contemporanea, direttamente dipendente dalla Direzione Generale delle antichità e belle arti del ministero. A causa dell'entrata in guerra dell'Italia pochi mesi dopo la creazione dell'ufficio, quest'ultimo non poté sviluppare un chiaro e specifico programma di azione, ma rappresentò comunque il più importante dei trionfi burocratici del Ministero dell'Educazione nazionale sul Ministero della Cultura Popolare.

Il fatto che Bottai fosse riuscito ad ampliare il controllo del Ministero dell'Educazione nazionale sulla vita artistica del paese fu possibile grazie alla posizione prestigiosa di cui godeva all'interno del regime e, soprattutto, grazie al fatto che il Ministero della Cultura Popolare non aveva una specifica suddivisione che si occupasse del controllo delle attività artistiche. Bottai perseguì la sua battaglia a favore del dialogo culturale e della libertà di espressione anche inserendosi all'interno del dibattito tra tradizionalismo emodernismo in arte che era riemerso dopo l'adozione delle leggi razziali nel 1938. Alcuni antisemiti e esponenti del PNF, infatti, avevano affermato che il modernismo era il prodotto di influenze straniere e ebraiche e, per questo motivo, lo Stato non doveva occuparsi della sua difesa e conservazione. In questo clima, Bottai si schierò in difesa del modernismo artistico e culturale affermando, più di una volta, in Critica fascista che il regime non doveva disinteressarsi alla difesa e alla tutela dell'arte moderna poiché il modernismo in arte non era il prodotto di influenze straniere e decadenti. A favore del dialogo culturale e della difesa del modernismo in arte, inoltre, nella rivista Le arti del febbraio 1939, Bottai cercò di dimostrare la compatibilità tra arte moderna e politica culturale fascista e, in vari suoi discorsi, affermò che il dialogo culturale poteva solo giovare al fascismo, poiché esso risvegliava l'interesse del pubblico e la creatività artistica. Nel suo discorso alla Biennale di Venezia del 1938, Bottai si schierò anche contro l'identificazione dell'arte con la propaganda, cioè l'uso dell'arte come un semplice strumento di propaganda e affermò che il regime non doveva mirare alla “fusione assoluta di interessi artistici e di interessi politici”. La ribellione degli intellettuali contro la politica culturale reazionaria e repressiva del regime interessò tutti i campi dell'attività intellettuale, dalla stampa, alla letteratura, al teatro, al cinema. Sul piano della stampa, un ruolo fondamentale nella lotta contro la politica del regime ebbe la nuova rivista Primato di Bottai, nata il 1º marzo 1940 e il cui ultimo numero fu pubblicato nel 1943. La rivista di Bottai espresse in modo esplicito critiche verso il regime, si schierò a favore del dialogo culturale e contro l'identificazione della cultura con la propaganda ed espresse fiducia nei confronti della nuova generazione di intellettuali che si ribellava verso l'atteggiamento repressivo del regime in campo culturale. Sul piano letterario, invece, fu importante l'attività di riviste letterarie di avanguardia come Letteratura, la rivista di Bonsanti che ospitò le voci di autori antifascisti, e Campo di Marte, la rivista di Gatto e Pratolini che si schierò più esplicitamente contro la politica culturale del regime e che un anno dopo la sua nascita fu soppressa dal Ministero della Cultura Popolare. Sul piano teatrale, fu significativa la riunione, nel maggio 1938, di una trentina di autori drammatici che facevano parte della Confederazione degli artisti e dei professionisti. Nella riunione, presieduta da Marinetti, i drammaturghi affermarono che il teatro italiano doveva essere liberato dall'attività censoria del MinCulPop e approvarono un ordine del giorno in cui si affermava che il teatro non doveva essere uno strumento di propaganda che presentava una realtà illusoria e apparente, ma che dovesse rappresentare la realtà concreta presente del paese.In campo teatrale, tuttavia, la più importante forma di ribellione contro la politica culturale repressiva del MinCulPop fu il Teatro delle Arti di Antonio Giulio Bragaglia. Il Teatro delle Arti non era totalmente libero dalla censura del regime, ma riuscì comunque a portare nei teatri italiani opere di autori stranieri come O'Neill e Dostoevskij e a sostituire, in campo teatrale, la realtà illusoria costruita dal regime con la realtà concreta del paese. Tutte queste forme di ribellione intellettuale verso la politica culturale del fascismo sono una chiara testimonianza del fallimento delle ambizioni culturali del regime poiché mostrano come il fascismo, ancora sul finire degli anni trenta, non fosse riuscito a ottenere un effettivo controllo totalitario sulla cultura nazionale. Nel 1939 Dino Alfieri fu nominato ambasciatore a Berlino e il 31 ottobre dello stesso anno Alessandro Pavolini venne nominato nuovo ministro della cultura popolare. Pavolini, grazie alla sua personalità e alla sua esperienza nel campo della propaganda, rese ancora più aggressivo e repressivo l'atteggiamento del Ministero della Cultura Popolare verso la cultura con lo scopo di ottenere una maggiore centralizzazione del controllo delle attività culturali nelle mani del ministero stesso. Il fine di questo maggiore irrigidimento del controllo del ministero sulla cultura era quello di permettergli di concentrare tutti i suoi sforzi nell'elaborazione e nella diffusione della propaganda di guerra. Non è un caso che tale perfezionamento del controllo sulla cultura si ebbe a partire dal 1940, anno in cui l'Italia entrò in guerra a fianco della Germania. Per raggiungere questo perfezionamento Pavolini attuò i seguenti provvedimenti:

Al Ministero della Cultura Popolare furono conferiti poteri speciali in tutto ciò che riguardava la stampa e gli altri mezzi di comunicazione di massa;

Nel dicembre 1941, venne aumentato il numero degli addetti stampa del ministero da 10 a 15 e venne raddoppiato il numero degli ispettori generali;

Tra il 1939 e il 1943, il ministero si occupò delle soppressione di riviste letteraria d'avanguardia come Campo di Marte, Oggi, L'Italiano, Il Frontespizio;

Con la legge del 18 gennaio 1943, si stabilì che la divisione libri della Direzione Generale per la stampa doveva occuparsi della revisione e della distribuzione del nulla osta a tutte le pubblicazioni che parlavano di rapporti internazionali, difesa militare, vicende della guerra;

Con la legge del 19 aprile 1943, si dava al ministero il compito di concedere o ritirare l'autorizzazione per la creazione di nuovi progetti editoriali e di sopprimere quelli già esistenti;

Nel 1940, all'interno del consiglio di amministrazione dell'Istituto di cultura venne inserito il capo dei servizi propagandistici del MinCulPop e all'interno della Direzione Generale per la propaganda del ministero venne creato un nucleo speciale dell'Istituto. In questo modo, Pavolini rendeva l'Istituto di cultura una vera e propria branca del Ministero della Cultura Popolare allo scopo di renderlo uno strumento della propaganda di guerra nelle province. Le sezioni locali dell'Istituto di cultura, infatti, organizzarono conferenze, incontri, mostre d'arte, si servirono di film documentari sugli eventi bellici e, dalla fine del 1942, utilizzarono proiettori montati su camion per diffondere i film documentari sugli eventi bellici nelle zone rurali. Nel dicembre 1939, venne creato all'interno dell'Ispettorato per le radiodiffusioni, un Servizio di ascolto radiofonico e radiotelegrafico all'estero; Nel 1940, fu istituito all'interno della Direzione Generale per i servizi amministrativi un Ufficio di mobilitazione civile. In generale, i provvedimenti attuati a partire dal 1940 mostrano che tra il 1940 e il 1943 il Ministero della Cultura Popolare fu effettivamente interessato dall'irrigidimento del suo controllo sulla cultura. Per non creare un conflitto di interessi con lo Stato Maggiore, che sarebbe stato controproducente ai fini della guerra, tuttavia, il ministero dovette rinunciare ad alcuni dei suoi poteri e cederli all'Ufficio stampa e propaganda del Comando Supremo, istituito nel 1940. Tale concessione da parte del ministero avvenne con l'accordo del maggio 1942 tra Pavolini e il generale Ugo Cavallero, con il quale si stabiliva che l'Ufficio stampa e propaganda del Comando Supremo doveva esaminare preventivamente tutte le pubblicazioni che riguardavano le fasi militari della guerra, in modo da evitare la diffusione di importanti segreti militari.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale nel 1939 e la decisione dell'Italia di entrare in guerra nel 1940 fecero in modo che, soprattutto a partire dal 1940, il MinCulPop concentrasse tutte le sue energie nell'elaborazione e nella diffusione della propaganda di guerra ad uso interno. Una caratteristica fondamentale di questa propaganda fu che non si trattava di una propaganda di integrazione, che il regime aveva usato dal 1926, ma di una propaganda di agitazione, che aveva lo scopo di esaltare il sentimento nazionale, la violenza, il dinamismo dell'azione. Per comprendere quali furono i temi principali della propaganda di guerra del Ministero della Cultura Popolare e l'atteggiamento da esso assunto negli anni della guerra, si possono analizzare i verbali delle riunioni che si tenevano tra il ministro della cultura popolare e i direttori dei giornali nel periodo tra il 1939 e il 1943. In queste riunioni, il ministro della cultura popolare dava delle disposizioni generali per la stampa ai direttori dei giornali e queste disposizioni venivano seguite dalla diramazione di ordini di stampa più precisi e chiari, le cosiddette veline, che rappresentavano la concretizzazione delle disposizioni date dal ministro alle riunioni con i giornalisti. Uno dei temi di fondo che emerge dai verbali delle riunioni tra il ministro Pavolini e i direttori dei giornali è l'invito a non trasmettere un'eccessiva fiducia nella vittoria, a non dare la vittoria per scontata. Questo tema è la testimonianza della consapevolezza del regime dell'impreparazione militare dell'Italia e della sua inferiorità economica e militare rispetto alla Germania nazista. Questa consapevolezza è testimoniata, ad esempio, da un rapporto del 17 maggio 1941, in cui Pavolini ordina ai giornalisti di non presentare i fatti di guerra solo dal punto di vista tedesco, ma di considerare soprattutto il punto di vista italiano. Un altro tema importante è quello dello spirito di sacrificio che doveva contraddistinguere gli italiani. Essi dovevano essere consapevoli che il sacrificio era necessario per la vincita della guerra e tale invito al sacrificio è testimoniato, ad esempio, nella velina del 30 ottobre 1940 in cui si dispone: “a nessuno venga in mente di raccontare che in fondo il burro fa male alla salute, che l'olio è indigesto, ecc. Dire invece che si tratta di sacrifizi sopportati molto serenamente”. La guerra divenne ben presto un simbolo a cui furono affidati i valori del sacrificio, della povertà, dall'abitudine alla privazione personale. Questi valori favoriscono l'unione di individui singoli in comunità e lo sviluppo del sentimento di comunità negli individui e, per questo motivo, resero la guerra un elemento fondamentale del regime per la costruzione del senso di appartenenza nazionale. La seconda guerra mondiale venne interpretata, infatti, come una guerra tra oro e sangue, cioè tra materia e fede. La guerra divenne, quindi, una guerra tra coloro il cui unico valore è la ricchezza e che sono rappresentanti del materialismo, cioè gli statunitensi, e coloro i cui valori fondamentali sono lo spirito di sacrificio, la povertà e il senso di appartenenza nazionale che si fonda su di essi, cioè gli italiani e i loro alleati. I popoli dell'oro venivano spesso rappresentati attraverso immagini della mitologia classica, infatti, ad esempio, la capacità degli Stati Uniti di ricavare ricchezza da tutte le disgrazie umane veniva rappresentata attraverso la figura del re della Frigia, Mida. Il tema dell'antisemitismo è un altro tema di fondo dalla propaganda bellica del ministero. Ai giornalisti venne ordinato di non occuparsi di Moravia e delle sue opere e si vietò ai giornali di inserire pubblicità ebraica. Nella propaganda bellica il Ministero della Cultura Popolare riprese, inoltre, rafforzandolo, il culto della personalità del duce, che si accompagnava alla tendenza di non valorizzare l'opera di gerarchi e comandanti militari impegnati nella guerra. Il Ministero della Cultura Popolare combatté anche contro le voci provenienti dalle radio straniere, avviando una campagna violenta contro chi dava ascolto alle voci provenienti dall'estero. Tuttavia, il ministero non riuscì a eliminare completamente l'influenza delle voci straniere che infatti, dal 1942, cominciarono a comparire anche all'interno delle trasmissioni radiofoniche italiane.

Nonostante avesse concentrato tutti i suoi sforzi nella propaganda bellica, il Ministero della Cultura Popolare non poté evitare il peggioramento e la crisi della situazione italiana in guerra, soprattutto a partire dal 1942, e il conseguente sviluppo di un sentimento di avversione verso il regime. Dal 1942, infatti, gli italiani presero maggiore consapevolezza del fatto che i valori di sacrificio e privazione affidati dal fascismo alla guerra e che univano i singoli individui in comunità, non li avrebbero condotti alla vittoria poiché essi si scontravano con la superiore capacità tecnica e produttiva degli anglo-americani.[60] Per questo motivo, si ebbe il crollo dei valori affidati dal regime alla guerra e tale crollo provocò, a sua volta, il crollo del senso di appartenenza nazionale che proprio su questi valori si basava. Il crollo del senso di appartenenza nazionale degli italiani è testimoniato, ad esempio, dalle canzoni in cui il pronome plurale noi venne sostituito dal singolare, come simbolo del fatto che la guerra non riguardava più la comunità, ma era una guerra personale di chi aveva perso il proprio figlio, o voleva riabbracciare la propria moglie. Anche l'immagine che gli italiani avevano degli americani cambiò. Il fascismo li aveva presentati come nemici la cui società era basata sulla corruzione, sulla violenza, sull'individualismo, sull'unico valore della ricchezza. A partire dal 1942, gli italiani cominciarono a vederli più come liberatori, a riporre in loro sentimenti di fiducia e amicizia, e a sostituire i valori di sacrificio e povertà con quelli americani di ricchezza e benessere.

Il 25 luglio 1943, il re tolse a Mussolini i poteri che gli aveva conferito nel 1922 e affidò al generale Badoglio il compito di formare un nuovo governo non fascista decretando, quindi, il crollo del regime di Mussolini. Badoglio mantenne il Ministero della Cultura Popolare, ma sospese tutte le sue attività e se ne servì solo per trasmettere ordini che miravano a controllare la stampa. Nel settembre 1943, Mussolini, che era tenuto prigioniero sul Gran Sasso, fu liberato dai tedeschi e il 23 settembre dello stesso anno annunciò la costituzione di uno Stato neofascista con sede a Salò, che prese il nome di Repubblica Sociale Italiana (RSI). Spinti dalla notizia della nascita del nuovo Stato neofascista, alcuni funzionari si trasferirono a Salò, Mussolini fece spostare il quartier generale del Ministero della Cultura Popolare nella città[64] e nominò nuovo ministro della cultura popolare al posto di Polverelli, Ferdinando Mezzasoma. Mezzasoma mirava a raggiungere quell'effettivo controllo totalitario sulla cultura che il regime crollato nel luglio 1943 non era riuscito ad ottenere e, a questo scopo, il nuovo ministro della cultura popolare, attuò una politica culturale più rigida e intransigente di quella dei suoi predecessori. Per prima cosa, Mezzasoma avviò una riorganizzazione strutturale del ministero. Con i decreti del novembre 1943 del Consiglio dei Ministri di Salò, infatti, vennero create una Direzione Generale per la stampa e per la radio interna e una sua corrispondente per l'estero, che univano le Direzioni Generali per la stampa, italiana e estera, e l'Ispettorato per la radio. I decreti del novembre 1943 sancirono anche la nascita della Direzione Generale per lo spettacolo che univa cinema e teatro. Mezzasoma, inoltre, fece in modo che per la prima volta il fascismo si occupasse della cultura in senso globale, cioè non solo del suo controllo e della sua diffusione, ma anche della sua produzione. I giornali e l'industria libraria vennero considerati vere e proprie agenzie dello Stato e l'industria cinematografica e teatrale vennero direttamente controllate dallo Stato, allo scopo di formare una cinematografia e un teatro di stato. In generale, grazie al lavoro di Mezzasoma, il Ministero della Cultura Popolare riuscì a raggiungere, nella Repubblica di Salò, un apparente controllo totalitario e assoluto sulla cultura. Tale controllo, infatti, era stato raggiunto solo sul piano teorico poiché il nuovo governo di Mussolini era completamente manovrato dai tedeschi. L'ambasciatore tedesco Rudolf Von Rahn vigilava su tutte le attività di Mussolini, le decisioni politiche e culturali venivano prese dai tedeschi e il Ministero della Cultura Popolare non aveva alcuna autorità e autonomia rispetto ai nazisti per cui, ad esempio, tra il 1944 e il 1945, la censura cinematografica doveva ricevere l'autorizzazione dei tedeschi. Il mantenimento del Ministero della Cultura Popolare nella Repubblica di Salò mostra che nonostante l'instabilità che caratterizzava questo nuovo governo fascista, si sentisse ancora l'esigenza di avere una struttura amministrativa per l'elaborazione e il controllo della propaganda. Questa esigenza di continuare a svolgere l'attività propagandistica e culturale era, da un lato, il prodotto naturale della fine di un momento storico, infatti, dopo venti anni in cui la propaganda era stata usata per creare un clima di apparenza e illusorietà, era naturale che ci si affidasse ancora una volta agli strumenti propagandistici. Dall'altro lato, essa era un modo con cui coloro che ancora erano fedeli al fascismo restavano legati al passato e si rifiutavano di accettare che l'esperienza fascista fosse ormai giunta alla fine.

MORTA UNA IDEOLOGIA SE NE FA UN’ALTRA…

«Siamo allo Stato etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili», scrive "Tempi" il 19 Luglio 2016. È questo il commento di Gandolfini a un nuovo ddl che propone di punire con due anni di carcere i professionisti medici che si impegnano, anche su richiesta, a modificare l’orientamento sessuale di una persona. «La strategia contro l’umano – ma anche contro il buon senso – non si ferma. Il 14 luglio scorso è stato depositato al Senato il ddl 2402 con il titolo “Norme di contrasto alle terapie di conversione dell’orientamento sessuale dei minori”. Primo firmatario il Sen. Sergio Lo giudice (Pd) – che ha contratto matrimonio gay ad Oslo e oggi è “padre” di un bimbo avuto con utero in affitto. Fra i firmatari anche la Sen. Monica Cirinnà (Pd)». Spiega Massimo Gandolfini, presidente del Comitato promotore degli ultimi due Family Day. «In buona sostanza il ddl chiede la galera fino a due anni e una multa da 10mila a 50mila euro – prosegue Gandolfini – per “chiunque esercitando la pratica di psicologo, medico psichiatra, psicoterapeuta, terapeuta, consulente clinico, counsellor, consulente psicologico, assistente sociale, educatore o pedagogista faccia uso su soggetti minorenni di pratiche rivolte alla conversione dell’orientamento sessuale” (art.2). Va, quindi, sanzionata “ogni pratica finalizzata a modificare l’orientamento sessuale, eliminare o ridurre l’attrazione emotiva, affettiva o sessuale verso individui delle stesso sesso, di sesso diverso o di entrambe i sessi” (Art.1, comma 1)». «Ciò significa – afferma ancora il portavoce del Family Day – che un minore che vive con disagio il suo orientamento sessuale, con l’aiuto e l’approvazione dei genitori, non può e non deve trovare alcun professionista che lo aiuti, salvo solo confermarlo nell’orientamento vissuto con sofferenza. Siamo allo Stato Etico: omosessualità, bisessualità e transessualità sono dogmi morali intoccabili a anche difronte alle valutazioni che può fare un esperto medico psichiatra. Che ne è della libertà? La libertà di scelta, la libertà di ricerca, la libertà di educazione dei genitori? Senza contare quanto instabili ed insicure sono le scelte emotivo-affettive che caratterizzano gli anni dell’adolescenza!». «La solita schizofrenia tipica delle menti che si credono illuminate e che si alimentano solo di insensate ideologie: da un lato la pretesa di libertà assoluta di scegliere l’orientamento e l’identità di genere che si vuole fin dalle scuole dell’infanzia, dall’altro la negazione di essere liberi di scegliere il percorso di assistenza psicologica che meglio si addice alla propria condizione di disagio emotivo, sempre qualora esso si manifesti. Un appello a tutte le persone di buon senso: uniamo le nostre forze per fermare, con tutti gli strumenti democratici a disposizione, questo folle treno in corsa». Conclude Gandolfini.

Essere i paladini dell’antirazzismo. Le radici del razzismo del ‘900? Marx ed Engels, scrive Riccardo Ghezzi, l'11 settembre 2011 su “Quelsi”. C’è qualcosa di strano negli “anti-razzisti” in bandiera rossa con falce e martello dei giorni nostri. Qualcosa che non torna. Come al solito, quel qualcosa che non torna è la scarsa conoscenza della storia dei compagni. Già, perché gli “anti-razzisti” di oggi, che ideologicamente si rifanno al comunismo e ai teorici Marx ed Engels, ignorano che il razzismo del ‘900 ha dei padri che sono vissuti un secolo prima: Marx ed Engels, per l’appunto. Due pensatori razzisti, neppure troppo velatamente. Basterebbe studiarli per saperlo, ma certo non si può pretendere che marxisti o engelsiani leggano opere e aforismi dei loro beniamini. Lo studio dei testi di Marx ed Engels ci mostra che il genocidio, razziale o di classe, è una teoria propria al socialismo. L’ha scritto il filosofo e politico francese Jean-François Revel nella sua prefazione al libro «La littérature oubliée du socialisme» di George Watson. Aveva ragione. Engels, nel 1849, invocava lo sterminio degli ungheresi che si erano ribellati all’Austria. Lo scriveva in un articolo pubblicato sulla rivista diretta proprio dal suo amico Karl Marx, la «Neue Rheinische Zeitung». Lo stesso articolo sarà riportato da Stalin, nel 1924, in «Fondamenti del Leninismo», in realtà spudoratamente copiato da un saggio del segretario Ksenofontov, al quale è stata vietata la pubblicazione della sua opera (troppo simile a quella che Stalin aveva spacciato per farina del proprio sacco) prima di essere fatto fucilare negli anni ’30. Ma non andiamo fuori tema. Engels desiderava candidamente l’estinzione di ungheresi, serbi e altri popoli slavi, e poi ancora baschi, bretoni e scozzesi. In «Rivoluzione e controrivoluzione in Germania», pubblicato nel 1852 sulla stessa rivista, era Marx in persona a chiedersi come fare per sbarazzarsi di “queste tribù moribonde, i boemi, i corinzi, i dalmati, ecc…”. Il concetto di autodeterminazione dei popoli non era proprio ben visto da Marx ed Engels, per usare un eufemismo. Ma Engels ha rincarato la dose nel 1894. In una lettera ad uno dei suoi corrispondenti, W. Borgius, l’intellettuale comunista tedesco scriveva: Per noi, le condizioni economiche determinano tutti i fenomeni storici, ma la razza è anch’essa un dato economico. La “razza”. Chi l’avrebbe detto. Cosa Engels volesse intendere, l’ha chiarito meglio nel suo Anti-Duhring: Se, per esempio, nel nostro paese gli assiomi matematici sono perfettamente evidenti per un bambino di otto anni, senza nessun bisogno di ricorrere alla sperimentazione, non è che la conseguenza dell’eredità accumulata. Sarà al contrario molto difficile insegnarli a un boscimane o a un negro d’Australia. Parole che farebbero impallidire persino il tanto vituperato (dai compagni) Mario Borghezio. La superiorità razziale dei bianchi era una verità scientifica per i fondatori del socialismo, ed anche per i loro adepti. H. G. Wells e Bernard Shaw, intellettuali socialisti del ‘900 e grandi ammiratori dell’Unione Sovietica, per esempio rivendicavano il diritto di liquidare fisicamente le classi sociali che ostacolavano o ritardavano la Rivoluzione socialista. Stupiscono soprattutto le parole di Bernard Shaw riportate sul periodico The listener nel 1933, con le quali invitava scienziati e chimici a “scoprire un gas umanitario che causa la morte istantanea e senza dolore, insomma un gas «civile» mortale ma umano, sprovvisto di crudeltà”. Anche il nazista Adolf Eichmann, durante il processo a Gerusalemme nel 1962, ha invocato in sua difesa il carattere umanitario dello zyklon B, usato per uccidere le vittime della Shoah. Torniamo a Marx. Egli, ebreo auto-rinnegato, definiva il suo rivale e critico Ferdinand Lassalle con queste parole: Vedo ora chiaramente che egli discende, come mostrano la forma della sua testa e la sua capigliatura, dai Negri che si sono congiunti agli Ebrei al tempo della fuga dall’Egitto, a meno che non siano sua madre o sua nonna paterna che si sono incrociate con un negro. L’importunità di quell’uomo è altresì negroide. E poi ancora: Il negro ebreo, un ebreo untuoso che si dissimula impomatandosi e agghindandosi di paccottiglia dozzinale. Ora questa mescolanza di giudaismo e germanesimo con un fondo negro debbono dare un bizzarro prodotto. Léon Poliakov, storico e filosofo francese di origine russa vissuto nel ‘900, così ha definito Marx: Marx restava influenzato dalle gerarchie germanomani, si rifaceva all’idea dell’influenza del suolo di Trémaux, un determinismo geo-razziale che fondava agli occhi di Marx l’inferiorità dei negri. Lo stesso si potrebbe dire per Engels. Impossibile pretendere che gli scalmanati dei centri sociali, armati di spranghe e bandiera rossa, sappiano queste cose. Ma che almeno coloro che si rifanno alle idee di Marx ed Engels abbiano il buon gusto di non definirsi “anti-razzisti”. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Illudere gli operai, distruggere la Chiesa, aggregare l’Italia all’Urss: i piani del PCI in due documenti esclusivi. È il 1948, all’orizzonte si profila l’appuntamento con il 18 aprile, giorno delle elezioni politiche che potrebbero rivelarsi decisive per le sorti dell’Italia. PCI e PSI si sono riuniti nel Fronte Democratico Popolare, con lo scopo dichiarato di assumere la guida del Paese battendo la Dc, già uscita vincitrice dalle precedenti elezioni del 1946. Al fine di raggiungere l’obiettivo, i militanti sono disposti a tutto: una vera e propria “macchina da guerra”, nemmeno troppo “gioiosa”, per parafrasare la famosa uscita di Achille Occhetto molti anni dopo. La propaganda del Fronte Democratico Popolare è feroce, tanto che i “compagni propagandisti” rivestiranno un ruolo importante durante la campagna elettorale. I due documenti che vi mostriamo sono particolarmente significativi: una lettera segreta contenente un vero e proprio vademecum per i propagandisti ed un decalogo inoltrato ai militanti più fedeli e considerati affidabili. Entrambi stupiscono per il tono enfatico e ancor di più per i contenuti, talvolta davvero stucchevoli. Ci sono stati forniti da un lettore del blog, che li ha avuti originali da una persona nata del 1932 che all’epoca risiedeva in un paesino vicino a Ravenna. Essendo famiglia di area cattolica, hanno ricevuto tale missiva per errore, ma l’hanno gelosamente custodita per tutti questi anni. Nel vademecum sono elencati i 9 punti che il Partito intendeva inculcare ai propagandisti: dai nemici del Fronte Popolare, individuati anche nei mancati alleati del PSLI (futuro PSDI) e PRI, agli obiettivi da ottenere in ambito morale, economico e religioso. Ossia estirpare la Chiesa, distruggere la moralità, abolire la proprietà privata. E poi, trasformare l’Italia in una Repubblica Socialista, vassalla dell’URSS di Stalin, favorendo l’egemonia comunista nel mondo. Oltre alla raccomandazione finale di non divulgare la lettera, che deve restare segreta. Abbiamo scelto di riportare integralmente il documento, senza correggere errori pacchiani come “appariscano”.

 

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Compagno mezzadro!

1) Il giorno 18 aprile si combatterà la battaglia decisiva tra le forze progressiste e le forze reazionarie. Le forze progressiste sono tutte quelle raggruppate nel Fronte, la forze reazionarie sono tutte le altre. Il Partito Comunista integrale che è l’anima del P.C.I. denuncia come forze reazionarie sia il P.S.L.I. sia il P.R.I., perché il P.C.I. sa perfettamente che se fosse stato costituito, in Italia, un Fronte Popolare comprendente anche le forze socialiste e repubblicane, come fu fatto dodici anni fa in Ispagna, il P.C.I. avrebbe senz’altro vinto le elezioni. Mentre invece il partito si trova a dover lottare contro la reazione, che diventa ogni giorno sempre più pericolosa ed aggressiva, insieme al solo P.S.I. del compagno Nenni, in una lotta che diventa sempre più dura e preoccupante.

2) Il Partito, ti considera maturo e degno di conoscere i suoi più immediati obiettivi, per convincerti della necessità di lottare duramente. Il Partito sa che gli avversari, grazie a forme spietate della loro propaganda capillare, sono riusciti a provocare il disordine nelle nostre file, che fino a dieci giorni fa, sembravano pugnaci e compatte. Il Partito sa che, purtroppo, moltissimi compagni non hanno resistito al tremendo attacco. Ricorda sempre che il Partito ti rivela i suoi immediati obiettivi, considerandoti maturo, perché tu possa incoraggiare i compagni impauriti ed ammonire i compagni titubanti.

3) Il Partito mira a questi obiettivi grandiosi la cui conquista darà nome alla nostra epoca:

Primo: nel piano religioso il Partito mira e estirpare radicalmente l’idea di dio, la dottrina di Cristo, la influenza della chiesa sulle masse, il potere dei preti. Non si vedranno più madonne che andranno in giro da un comune all’altro, né madonne che appariscano o statue di madonne che si muovano.

Secondo: nel piano morale, il partito tende a liquidare, una volta per tutte, la morale borghese, la famiglia cristiana, l’indissolubilità del matrimonio. Il Partito vuole rivendicare, a favore di tutti, uomini e donne, la libera iniziativa nell’amore, fuori da ogni controllo religioso, perché per noi bolscevichi la religione è l’oppio del popolo e droga che ubriaca. La sola morale del Partito è quella affermata dal grande Lenin: quella che serve agli sviluppi della nostra lotta, non quella che si riallaccia all’idea di dio e dei suoi pretesi comandamenti.

Terzo: nel piano economico il Partito abolirà la proprietà privata di tutti i mezzi di produzione, ed in modo particolare abolirà la proprietà privata della terra, delle industrie, dei mezzi di comunicazione -ferroviari, marittimi, aerei, automobilistici – di tutte le aziende, agricole, industriali, artigiane, di caccia e di pesca. Tutto sarà confiscato a favore dello Stato, il quale sarà il solo produttore ed il solo distributore di merci e prodotti, il solo che avrà in mano il commercio sia interno che estero.

4) Compagno! Quando tutto sarà confiscato a favore dello Stato, tu sarai finalmente libero da qualunque privato padrone. Lo Stato tutelerà i tuoi diritti, se tu osserverai onestamente i tuoi doveri. I diritti e i doveri del cittadino saranno determinati in una nuova Carta Costituzionale, che sarà immediatamente fatta sulla guida di quella del compagno Stalin.

5) Quando il partito avrà conquistato il potere, allora vedrai cosa saprà fare contro la chiesa cattolica, contro i suoi ministri, i suoi simboli, i suoi santi, le sue madonne, le sue chiese, le sue organizzazioni. Il Partito ti libererà per sempre dai preti e dalla loro dottrina.

6) Quando il Partito avrà conquistato il potere allora finalmente si realizzerà il sogno di ogni vero comunista bolscevico italiano: l’Italia diventerà una REPUBBLICA SOCIALISTA e domanderà l’onore di essere aggregata all’URSS, con a capo il compagno Stalin. Così dichiarò a Mosca il compagno Togliatti. Allora l’URSS penetrerà, attraverso l’Italia, nel mare mediterraneo, e sarà in grado di resistere alle prepotenze degli Stati Uniti d’America; allora il compagno Stalin accetterà la sfida che gli Stati Uniti d’America gli hanno lanciato. La vittorie del Fronte significherà perciò guerra agli Stati Uniti d’America; e la guerra finirà nella vittoria del Comunismo nel mondo.

7) La vittoria del Fronte aprirà immediatamente le porte alla emigrazione di milioni di lavoratori italiani in Russia, grande Patria del Socialismo, senza formalità alcuna. Così milioni di lavoratori italiani riempiranno gli spaventosi vuoti causati dalla infame guerra fascista nei ranghi della gioventù maschile sovietica. E migliaia di donne sovietiche saranno felici di accogliere i lavoratori italiani, e creare con essi una vera famiglia comunista.

8 ) Compagno! Il Partito ha insistito presso il compagno Stalin di fare all’ultimo momento il gran gesto verso l’Italia, di rinunciare alle riparazioni e alle navi italiani e almeno di promettere all’Italia il grano necessario per arrivare al raccolto. Ciò sarà utilissimo alla nostra propaganda. E’ chiaro, del resto, che se il Partito vincerà le elezioni, il compagno Stalin sarà ricompensato ad usura del suo gesto, ed avrà il centuplo di ciò che darà o prometterà all’italia prima delle elezioni.

9) Compagno! Questa è lettera è segreta. Appunto per questo è stata spedita in busta non intestata, come lettera privata. Il Partito ti raccomanda quindi di non farla leggere a nessuno, ma tutt’al più, ad un solo compagno di tua piena fiducia, purché non sia un contadino. Nel caso però che questa lettera capitasse in mano agli avversari, il Partito la smentirà sollecitamente, a voce e sulla stampa, nelle sue Sedi e fuori. E’ certo doloroso per il Partito dovere smentire i suoi veri programmi; ma talvolta ciò è necessario. Sii dunque avvertito che se il Partito smentirà, ciò vuol dire che qualche compagno immaturo ha parlato.

Per il P.C.I. nel M.S.R. (Compagno Filiberto S.) W IL FRONTE DEMOCRATICO POPOLARE!

Ancor più allarmante, per certi versi, il decalogo. Traspare, oltre ad un linguaggio particolarmente violento, un odio pericoloso nei confronti di chiesa cattolica e istituzioni come la famiglia. Significative anche le parti in cui si invita a “mentire” e “calunniare” i “preti” o i nemici, addirittura a “illudere” gli operai. Attenzione: non aiutare o difendere, ma illudere. Quindi strumentalizzarli. LETTERA SEGRETA AI COMPAGNI MILITANTI. MESSAGGIO CHE CHIARAMENTE INCITA ALL’ODIO E ALL’ANTI-CATTOLICESIMO. La seguente lettera è stata consegnata dal Comitato Centrale del Partito Comunista Italiano, diretto da Palmiro Togliatti (1893-1964), ai quadri propagandisti rivoluzionari nel 1947. Rileggendola è facile capire l’odio che ha guidato la mano omicida di tanti partigiani durante la guerra e nell’immediato dopoguerra.

 

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Compagno,

il Partito vuole che anche tu conosca il contenuto di questa circolare segreta, che fu diramata già ai compagni propagandisti dell’Italia del nord, dopo la liberazione, e che fu spedita, nelle rispettive lingue a migliaia di compagni, nei Paesi dell’Europa centrale che dovevano essere bolscevizzati.

Compagno propagandista, Tu sei uno dei più validi strumenti. Perché l’opera tua sia efficace, eccoti una breve guida per il tuo lavoro. Ricorda sempre che il nostro compito è bolscevizzare l’Europa tutta a qualunque costo, in qualunque modo. Tuo compito è bolscevizzare il tuo ambiente. Bolscevizzare significa, come tu sai, liberare l’umanità dalla schiavitù che secoli di barbarie cristiana hanno creato. Liberare l’umanità dal concetto di religione, di autorità nazionale, di proprietà privata.

Per ora il tuo compito è più limitato. Ecco un decalogo:

1) Non manifestare ai compagni non maturi lo scopo del nostro lavoro: comprometteresti tutto.

2) Lottare contro quanto, specie gli ipocriti preti, vanno dicendo di meno vero sui nostri scopi: negare recisamente quanto essi affermano, negare recisamente che noi non vogliamo la religione, la patria, la famiglia.

3) Mostrare con scherzi, sarcasmi e con condotta piacevole che tu sei più libero senza le pastoie della religione, anzi si vive meglio e si è più liberi.

4) Specialmente è tuo compito distruggere la morale insegnando agli inesperti, creando un ambiente saturo di quello che i pudichi chiamano immoralità. Questo è tuo supremo dovere, distruggere la moralità.

5) Allontana sempre dalla Chiesa i tuoi compagni con tutti i mezzi, specialmente mettendo in cattiva luce i preti, i vescovi ecc. Calunniare, falsare: sarà opportuno prendere qualche scandalo antico o recente e buttarlo in faccia ai tuoi compagni.

6) Altro grande ostacolo al nostro lavoro: la famiglia cristiana. Distruggerla seminando idee di libertà di matrimonio, eccitare i giovani e le ragazze quanto più si può; creare l’indifferenza nelle famiglie, nello stabilimento, nello Stato; staccare i giovani dalla famiglia.

7) Portare l’operaio ad amare il disordine, la forza brutale, la vendetta: e non avere paura del sangue.

8 ) Battere molto sul concetto che l’operaio è vittima del capitalismo e dei suoi amici: autorità e preti.

9) Sii all’avanguardia nel fare piccoli servizi ai tuoi compagni, parla molto forte, fatti sentire. Il bene che fanno i cattolici nascondilo e fallo tuo. Sii all’avanguardia di tutti i movimenti.

10) Lotta, lotta, lotta contro i preti e la morale cattolica. Dà all’operaio l’illusione che solo noi siamo liberi e solo noi li possiamo liberare. Non avere paura, quando anche dovessimo rimanere nascosti tre o cinque anni. L’opera nostra continua, sempre perché i cattolici sono ignoranti, paurosi e inattivi.

Vinceremo noi! Sii una cellula comunista! Domina il tuo ambiente! Questo foglio non darlo in mano ai preti, né a gente non matura alla nostra idea”.

Le elezioni del 1948 non sono andate secondo i piani dei compagni. Ha vinto la Dc, conquistando il 48% dei voti, maggioranza relativa dei voti e maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Il Fronte Popolare si è fermato al 31%, perdendo persino alcuni voti conquistati da PCI e PSI nel 1946. La catastrofe di un’Italia sovietica è stata evitata. Nonostante ciò, è giusto che queste lettere siano conosciute e inoltrate, per far capire quali fossero i piani dei comunisti per l’Italia e che da allora loro non sono cambiati, rendendo il contenuto di quelle lettere sempre attuali, rappresentando per certo e per vero il loro modo di essere e di pensare. E che finché ci saranno bandiere rosse nelle piazze, nessuno si deve vergognare di essere anti-comunista, anche oggi e negli anni a seguire.

L’egemonia culturale della Sinistra. Una ricostruzione dei fatti del passato basata sui dogmi, anziché su uno studio serio e senza riserve, scrive Luciano Atticciati. Il nostro Paese è vissuto per decenni sotto la cosiddetta egemonia culturale della Sinistra, una specie di lunghissimo dopoguerra che ha portato gli uomini di cultura ad assumere posizioni e atteggiamenti anomali e forzati per dimostrare la validità di certe questioni decisamente insostenibili. Per costoro il fascismo era stato molto peggiore del comunismo, nonostante che tutto facesse pensare che il regime totalitario creato da Mussolini non fosse così coercitivo come quello dell’Unione Sovietica o della Cina Popolare, i crimini contro l’umanità commessi dai regimi comunisti erano ben poca cosa rispetto a quelli commessi dai nazisti, le atrocità commesse dagli Jugoslavi verso il nostro popolo erano decisamente un argomento tabù, così come l’idea che gli uomini della Resistenza avessero commesso degli eccessi. Ovviamente per costoro la classe borghese costituiva qualcosa di spregevole, e aveva gestito il nostro Paese nel peggiore dei modi, il futuro apparteneva ad altre ideologie che avrebbero stabilito un mondo nuovo, decisamente superiore al presente o al recente passato ritenuto di scarso valore. L’egemonia culturale della Sinistra aveva naturalmente il sostegno degli intellettuali, ma trovava un altrettanto forte sostegno nelle istituzioni, che nei loro proclami ricordavano costantemente le nefandezze della Destra. Sebbene il partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana esercitasse il suo potere di governo, nel campo culturale brillava per la sua assenza, o peggio per il suo stato di sudditanza nei confronti dell’agguerrita opposizione comunista. A rileggere oggi certi discorsi c’è da rimanere inorriditi, ma a quei tempi tutto era permesso, e nessuno poteva opporsi ai profeti del mondo migliore. I dibattiti culturali sui mass-media avvenivano rigorosamente fra esponenti di Sinistra, le librerie ospitavano solo libri di Sinistra, le poche voci dissonanti venivano messe a tacere con giudizi pesanti. Due casi sono degni di nota, quello di Montanelli, isolato come un infetto di un terribile morbo, e Renzo De Felice, lo storico che aveva azzardato a parlare del fascismo come fenomeno dei ceti medi e teso alla mobilitazione delle masse. I suoi denigratori coniarono addirittura un termine estremamente infelice per indicare le sue posizioni, «revisionista». I revisionisti erano in precedenza definiti i comunisti non allineati, considerati eretici dai marxisti ortodossi. Gli attacchi contro uno dei maggiori storici italiani da parte di intellettuali e politici furono estremamente pesanti. L’antifascismo dominante non permetteva che si potesse esprimere il minimo giudizio anche vagamente non accusatorio nei confronti di quel regime. Il mondo comunista aveva soppresso qualsiasi forma di libertà e aveva sottratto ai ceti operai di cui si considerava formalmente protettore, gran parte dei loro diritti. Non ci voleva molto a comprendere che il blocco dei Paesi comunisti produceva una eccezionale quantità di armamenti ma teneva la popolazione ad un livello di vita da Terzo Mondo. Nonostante ciò giovani entusiasti ed intellettuali proclamavano che la gente sotto quei regimi disponeva di un benessere, forse diverso dal nostro, ma comunque di una situazione felice. Fino al 1956, cioè fino a quando Kruscev non rivelò i crimini commessi da Stalin, gran parte della cultura marxista proclamava che i gulag non esistevano (vedi anche il caso Kravcenko), che erano una semplice invenzione della propaganda capitalista. Nel periodo successivo si parlò allora di «contraddizioni del mondo comunista», come dire che il terrore di massa era un semplice accidente storico, un limitato e inevitabile male che non pregiudicava la grandezza di quei regimi. Tutto il mondo doveva comunque essere grato all’Unione Sovietica per aver sconfitto, a prezzo di enormi sacrifici, il nazismo, ovviamente si taceva sul «Patto Molotov-Ribbentrop», sulla duplice aggressione alla Polonia, e sull’eccidio di Katyn. Negli anni Cinquanta sorse infine un ambiguo movimento pacifista, i Partigiani della Pace, che nonostante tutte le guerre e le minacce che provenivano dall’Unione Sovietica riteneva il pacifismo coniugabile con il comunismo. Anche personaggi di spicco del mondo europeo ne fecero parte. Non molto tempo dopo si scoprirono i legami dei vertici dell’organizzazione con il blocco sovietico. Uno spazio particolare nella cultura degli anni Sessanta fu dato alla questione Vietnam, vittima non si sa su quali basi di un’aggressione americana. La principale battaglia combattuta in quell’infelice Paese, avvenne nel ’68 a Khe San fra unità regolari nord-vietnamite che erano penetrate nel territorio sud-vietnamita e avevano circondato una base americana, eppure la Sinistra continuava a ripetere che principali protagonisti di quel conflitto erano i Vietcong, cioè comunisti locali insofferenti al regime alleato dell’odiato Paese capitalista. Analogamente si taceva sul fatto che fosse stato Kennedy, uomo della Sinistra, ad iniziare l’impegno americano a difesa del governo sud-vietnamita. Quando dopo il 1975 si scoprì la durezza e la crudeltà del comportamento dei regimi comunisti di quell’area geografica, la questione venne messa presto a tacere. Nello stesso periodo molti vedevano nel comunismo cinese, una forma di autentico comunismo «popolare» contrapposto a quello «burocratico» sovietico. I milioni di morti che avevano accompagnato quella triste rivoluzione, ammesso che potesse avere senso parlare di rivoluzione parlando del regime cinese, costituivano un normale inconveniente tipico di qualsiasi fenomeno storico. Le due questioni si inquadravano all’interno della cosiddetta guerra fredda. Le origini della guerra fredda apparivano decisamente confuse, forse era stato il discorso sulla «cortina di ferro» di Churchill (1946) a scatenarla, o forse «l’accerchiamento capitalista», anche se il mondo comunista appariva un po’ troppo vasto per essere considerato accerchiato. L’umanità si trovava a vivere una guerra in cui era scivolata senza sapere nemmeno il motivo, e il muro di Berlino suo simbolo, era sorto a causa di «reciproche incomprensioni», non dall’attività deliberata di un regime totalitario. Coronamento di tali discorsi era naturalmente l’antiamericanismo, il Governo degli Stati Uniti controllava non si sa come, né in che modo le nostre scelte politiche. Se le Sinistre non riuscivano a conquistare il potere nel nostro Paese, ciò era dovuto non al fatto che i ceti medi preferissero altre forme di governo, e che una parte della stessa Sinistra, socialdemocratici e repubblicani avessero scelto il sistema di valori occidentale, ma a invisibili condizionamenti operati nelle forme più incomprensibili. Forse non ci voleva molto a comprendere le assurdità e le palesi falsità di quella cultura, bastava leggere le opere di uno storico come Luigi Salvatorelli sul Novecento, o quelle di Gaetano Salvemini che aveva messo in luce come nell’affermarsi del fascismo avessero pesato le violenze scatenate nel ’19 dall’estrema Sinistra. Anche gli storici fecero la loro parte di confusioni, molti storici di area comunista limitavano lo studio della storia all’esposizione di enunciazioni programmatiche, senza mai arrivare ai comportamenti reali dei governi e delle forze politiche. Un testo ritenuto importante di Enzo Collotti sulla storia della Germania (1968) considerava irrilevante l’assorbimento forzato del partito socialista da parte di quello comunista nella DDR, i Tedeschi sostanzialmente avevano accolto liberamente quel tipo di regime. Lo storico comunista forse più autorevole, Gastone Manacorda, ammetteva esplicitamente le esigenze della politica nello studio storiografico. Sembrava che il mondo dovesse vivere a tempo indeterminato in quella forma di forzatura mentale, ma la storia («l’astuzia della ragione» avrebbe detto Hegel) alla fine operava. A metà degli anni Ottanta il comunismo implodeva non a causa di un attacco militare, o di un oscuro complotto, ma per l’azione di quei popoli che lo vivevano. Il mondo di bugie aveva una falla, e da qui al crollo il passo non era lontano. Alla fine anche gli uomini di cultura di Sinistra più avveduti (tra i quali Giampaolo Pansa) hanno dovuto ammetterlo, i teoremi non stavano in piedi, erano costruzioni fondate sul nulla. Oggi la storiografia marxista è quasi inesistente, solo irriducibili dogmatici ci vengono a proporre le loro tesi un po’ trite, uno di questi è Toni Negri, convinto che il nemico capitalista trami nell’oscurità, alla stessa maniera con cui i nazisti si convincevano dell’esistenza del complotto giudaico-massonico. Dietrologi e complottisti sparano ancora le loro ultime cartucce, e se i fatti storici smentiscono tesi gloriose, per costoro si può ricorrere sempre a fatti non dimostrati né dimostrabili. Se il mondo della cultura oggi ha messo da parte la cappa soffocante dell’egemonia culturale della Sinistra, tuttavia in quella parte della società più portata a credere acriticamente nei grandi illuminati che nelle proprie capacità di discernimento, ancora continua a resistere un modo di pensare decisamente impossibile da comprendere. Le persone che in un certo senso desiderano ingannarsi non sono assolutamente scomparse.

L'egemonia di sinistra ha creato un deserto e l'ha chiamato cultura. L'intellettuale organico ha dissolto concetti, valori e modelli positivi lasciando la società in balia del conformismo e della volgarità, scrive Marcello Veneziani, Domenica 8/02/2015, su "Il Giornale.  Ma è vera o falsa la leggenda dell'egemonia culturale di sinistra? Cos'era e cosa resta oggi di quel disegno di conquista e dominio culturale? In principio l'egemonia culturale fu un progetto e una teoria che tracciò Gramsci sulla base di due lezioni: di Lenin e di Mussolini, via Gentile e Bottai. La tesi di fondo è nota: la conquista del consenso politico e sociale passa attraverso la conquista culturale della società. Poi fu Togliatti che, alla caduta del fascismo, provò su strada il disegno gramsciano e conquistò gruppi di intellettuali, spesso ex fascisti, case editrici e luoghi cruciali della cultura. Ma il suo progetto non bucò nella società che aveva ancora contrappesi forti, dalle parrocchie all'influenza americana, dai grandi mezzi di comunicazione come la Rai in mano al potere democristiano ai media in cui prevaleva l'evasione. La vera svolta avviene col '68: l'egemonia culturale non si identifica più col Pci, che pure resta il maggiore impresario, ma si sparge nell'arcipelago radicale di sinistra. Quell'egemonia si fa pervasiva, conquista linguaggi e profili, raggiunge la scuola e l'università, il cinema e il teatro, pervade le arti, i media e le redazioni. In che consiste oggi l'egemonia culturale? In una mentalità dominante che eredita dal comunismo la pretesa di Verità Ineluttabile (quello è il Progresso, non potete sottrarvi al suo esito). Quella mentalità s'è fatta codice ideologico e galateo sociale, noto come politically correct, intolleranza permissiva e bigottismo progressista. Chi ne è fuori deve sentirsi in torto, deve giustificarsi, viene considerato fuori posto e fuori tempo, ridotto a residuo del passato o anomalia patologica. Ma lasciamo da parte le denunce e le condanne e poniamoci la domanda di fondo: ma questa egemonia culturale cosa ha prodotto in termini di opere e di intelligenze, che impronta ha lasciato sulla cultura, la società e i singoli? Ho difficoltà a ricordare opere davvero memorabili e significative di quel segno che hanno inciso nella cultura e nella società. E il giudizio diventa ancor più stridente se confrontiamo gli autori e le opere a torto o ragione identificate con l'egemonia culturale e gli autori e le opere che hanno caratterizzato il secolo. Tutte le eccellenze in ogni campo, dalla filosofia alle arti, dalla scienza alla letteratura, non rientrano nell'egemonia culturale e spesso vi si oppongono. Potrei fare un lungo e dettagliato elenco di autori e opere al di fuori dell'ideologia radical, un tempo marxista-progressista, se non contro. L'egemonia culturale ha funzionato come dominazione e ostracismo ma non ha prodotto e promosso grandi idee, grandi opere, grandi autori. Anzi sorge il fondato sospetto che ci sia un nesso tra il degrado culturale della nostra società e l'egemonia culturale radical. I circoli culturali, le lobbies e le sette intellettuali dominanti hanno lasciato la società in balia dell'egemonia sottoculturale e del volgare. E l'intellettuale organico e collettivo ha prodotto come reazione ed effetto l'intellettuale individualista e autistico che non incide nella realtà ma si rifugia nel suo narcisismo depresso. Ma perché è avvenuto questo, forse perché ha prevalso un clero intellettuale di mediocri funzionari, anche se accademici? Ci è estraneo il razzismo culturale, peraltro assai praticato a sinistra, non crediamo perciò che sia una questione «etnica» che riguarda la razza padrona della cultura. Il problema è di contenuti: l'egemonia culturale non ha veicolato idee, valori e modelli positivi ma è riuscita a dissolvere idee, valori e modelli positivi su cui si fonda la civiltà. Non ha funzionato sul piano costruttivo, sono naufragate le sue utopie, a partire dal comunismo; ma ha funzionato sul piano distruttivo. Se l'emancipazione è stata il suo valore fondante e la liberazione il suo criterio principe, il risultato è stato una formidabile, quotidiana demolizione di culture e modelli legati alla famiglia, alla natura, alla vita e alla nascita, al senso religioso e alla percezione mitica e simbolica della realtà, al legame comunitario, alle identità e alle radici, ai meriti e alle capacità personali. È riuscita a dissolvere un mondo, a deprimere ed emarginare culture antagoniste ma non è riuscita a generare mondi nuovi. Il risultato di questa desertificazione è che non ci sono opere, idee, autori che siano modelli di riferimento, punti di partenza e fonti di nascita e rinascita. L'egemonia culturale ha funzionato come dissoluzione, non come soluzione. Oggi il comunismo non c'è più, la sinistra appare sparita ma sussiste quella cappa asfissiante anche se è un guscio vuoto di idee, valori, opere e autori. Il risultato finale è che l'egemonia culturale è un potere forte con un pensiero debole (e non nel senso di Vattimo e Rovatti); mentre l'albero della nostra civiltà, con le sue radici, il suo tronco millenario e le sue ramificazioni nella vita reale, è un pensiero forte ma con poteri deboli in sua difesa. La prima è una chiesa con un episcopato in carica e un vasto clero ma senza più una dottrina e una religione; viceversa la seconda è un pensiero forte, con una tradizione millenaria, ma senza diocesi e senza parrocchie... Così viviamo una guerra asimmetrica tra un potere forte ma dissolutivo e una civiltà non ancora decaduta sul piano spirituale ma inerme e soccombente sul piano pratico e mediatico. La prevalenza odierna della barbarie di ritorno deriva in buona parte da questo squilibrio tra una cultura egemone ma nichilista e una civiltà perdente o forse già perduta. La rinascita ha due avversari: la cultura nichilista egemone e il nichilismo senza cultura della volgarità di massa.

TeleKabul di Sandro Curzi, scrive Massimo Bordin il 06 Agosto 2016 su “Il Foglio”. Il Tg3 fu chiamato TeleKabul dai suoi detrattori per sottolinearne la pedissequa e perfino rozza osservanza che, a loro dire e forse non del tutto a torto, lo caratterizzava rispetto alla linea politica del Pci. Allora l’Afghanistan era occupato dall’Urss e certo la locale tv di stato non brillava per anticonformismo rispetto agli occupanti. Il colpo di genio del direttore del Tg3, Sandro Curzi, fu la decisione di non polemizzare con quel marchio, anzi di rivendicarlo, perfino accentuandone alcuni aspetti. I suoi editoriali ricordavano sempre più smaccatamente le relazioni introduttive dei segretari di sezione del Pci. Adottava il loro modo di intrecciare un ragionamento elementare con elementi ideologici conditi da qualche espressione incongruamente magniloquente. Fu un successone, malgrado il Pci avesse cambiato nome nel frattempo. O forse proprio per questo. “Sì, Telekabul. E allora?”, fu la sua linea di difesa quando inevitabilmente chiesero la sua testa. Che non ebbero, perché a difenderlo, oltre gli ascolti, furono gli “innovatori”, i Freccero e non solo lui, che lodarono la capacità di rottura comunicativa proprio per l’ingenua, smaccata proposizione di un modernariato ideologico allora richiesto come gli orologi russi a porta portese. Oggi Bianca Berlinguer, che infatti si è limitata a trattare una dignitosa ricollocazione, non può fare un’operazione del genere. Non c’è più l’Urss e nemmeno il Pds. Resta Freccero.

Il 6 agosto 2016, nell'ultima edizione del Tg3 da lei condotta, dopo le nomine ai tg, Bianca Berlinguer ha deciso di rispondere. «Sette anni fa, quando ho assunto la direzione, dissi in un editoriale che avrei voluto un Tg3 corsaro e evidentemente questo non poteva piacere a tutti - ha affermato -. Negli ultimi tempi non sono mancate pressioni sgraziate e attacchi sguaiati da settori importanti delle classi politiche, ma il Tg3 non ha perso la sua identità e gli auguro di rimanere saggio e irriverente come è sempre stato». Un editoriale breve e incisivo che la giornalista, in blusa rosa pallido, ha letto tra qualche cenno di commozione. «Vivere senza il Tg3 non sarà facile - ha sottolineato -. Non sarà facile rinunciare al rapporto quotidiano con voi spettatori, alle critiche aspre, sempre fatte con intelligenza e sentimento, ma anche ai tanti apprezzamenti affettuosi. Non sarà facile fare a meno della tensione quotidiana, dell'entusiasmo e della voglia di raccontare la cronaca, le tragedie e la speranza». Poi un'altra frecciata a chi la definisce schierata. «Me ne vado con la malinconia tipica di ogni separazione dolorosa - ha proseguito -, ma anche con la soddisfazione per i riconoscimenti per il costante rispetto del pluralismo arrivate da tutte, ma proprio tutte le parti politiche».  

Non esistono i martiri della Tv. “Molti di voi avrebbero preferito un martire prima dell’ora di cena, invece avete un direttore che se ne va in un paese libero, e al massimo vi toccherà una striscia con Michele”. L’editoriale che sogniamo di Bianca Berlinguer, scrive Giuliano Ferrara il 5 Agosto 2016 su "Il Foglio".  Mi hanno anticipato l’editoriale di Bianca Berlinguer, direttore uscente del Tg3. Ecco il testo. (E' chiara l'ironia ndr). “Cari telespettatori, ho diretto questo telegiornale per sette anni. L’ho diretto con Berlusconi, con Monti, con Letta, con Renzi. Nessuno mi ha mai dato fastidio, in senso politico. Presidenti e direttori generali della Rai hanno fatto il loro lavoro e io il mio. Ho parlato attraverso mille servizi, collegamenti, show, notiziari vari, delle lotte sociali, dell’economia, dell’industria, dei migranti, del terrorismo, di come va il mondo, delle guerre, degli americani, dei califfi, dei papi, delle battaglie parlamentari, dei cambi di governo, dei tycoon, dei tecnocrati, del fenomeno Royal Baby, sempre dicendo con compostezza e spero anche con grazia più o meno quel che pensavo si dovesse dire sul momento. Ho scelto i miei collaboratori con un grado notevole di autonomia. Ho realizzato la mia linea editoriale, curato personalmente i servizi, i commenti, le ospitate. Ho le mie idee, le mie simpatie, le mie connessioni, dentro e fuori il Pd, nell’azienda in cui lavoro e nel mondo della politica, ma non ho fatto di tutto questo un palloccoloso collante di potere e di magheggi. Ho occupato direttamente la scena, perché mi piace andare in video e credo di saperlo fare, e si è visto sempre dove stavo nel campo del conflitto politico tra amico e nemico. Nessuno ne ha fatto particolare scandalo, salvo qualche episodio di intolleranza o di partigianeria o di faziosità, ma robetta. Succede anche alla Bbc, dove per la verità succede perfino di peggio (oltre che di meglio, ovvio). Ora lascio la direzione, il che è appena normale, e mi viene proposta una striscia quotidiana di mezz’ora a ridosso del Tg3, mi avvarrò della competenza e dell’esperienza di Michele Santoro, un tipetto che conoscete da anni e che non è precisamente la figura del secondino incaricato di imprigionarmi nella linea governativa e renzianamente corretta. Anzi, è più tribuno di quanto lo sia io, dovrò cercare di moderarlo. Spazio ce ne sarà, infatti alla striscia il dg della Rai ha aggiunto per me due seconde serate che raccordate all’intervento informativo quotidiano promettono bene. Potremo parlare senza problemi del referendum sulle riforme costituzionali e giocare sul ‘sì’ e sul ‘no’ con una certa libertà. Faremo gli ambientalisti e i socialisti quanto ci pare. Daremo peso all’Italia in cui ci riconosciamo e castigheremo l’Italia e il mondo che non ci piacciono, anche senza necessariamente abusare dei nostri ruoli di servizio pubblico. Ma, insomma, cari telespettatori, abbiamo esperienza, è da anni che parliamo in tv di quanto poco ci facciano parlare in tv, da anni che esercitiamo piena libertà politica e ovviamente proclamiamo che la libertà ci viene negata, è da molti anni che facciamo se necessario i fatti nostri, e quando ci va coltiviamo pregiudizi e sentimenti malmostosi di rivalsa e di vendetta verso quelli che consideriamo i nostri nemici, magari facendo l’apologia del perdono e della riconciliazione, bè , mica siamo perfetti, ma neanche gli altri sono perfetti. Ecco, cari amici vicini e lontani, come vedete non sto a fare la martire, non ce n’è di che, sarebbe ridicolo da parte mia. Pensate a come stanno messi i giornalisti turchi, e ditemi voi se in Italia, dove facciamo il bello e il cattivo tempo, possiamo permetterci il lusso morale di considerarci vittime della brutalità censoria dello stato. Sì, lo so, molti di voi avrebbero preferito un martire prima dell’ora di cena, invece avete un direttore che se ne va in un paese libero, e al massimo prima di cena vi toccherà d’ora in avanti la mia striscia con Michele. Baci”. Ma che brava Bianca, non capisco perché Laura Cesaretti la sfotta chiamandola sempre Biancaneve.

Bianca Maria Berlinguer (Roma, 9 dicembre 1959) è una giornalista italiana. Dal 1 ottobre 2009 al 7 agosto 2016 è statadirettrice del TG3. Prima dei quattro figli del leader del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer e di Letizia Laurenti (gli altri fratelli sono Maria Stella, Marco e Laura, giornalista di Studio Aperto), si è sposata in seconde nozze con il politico Luigi Manconi. Laureata in lettere, dopo un periodo di praticantato presso Radiocorriere TV, inizia a lavorare ne Il Messaggero agli inizi degli anni ottanta e contemporaneamente lavora a Mixer (1985) come redattrice, entrando poi in pianta stabile nella redazione del TG3. Di questo, conduce l'edizione serale ininterrottamente dal 1991. Ha presentato inoltre Primo piano, rubrica di approfondimento della stessa testata giornalistica su Rai 3. Nel gennaio del 2008 è stata coinvolta in una polemica dichiarazione del presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga. Rispondendo ad un intervistatore, Cossiga ha dichiarato di averla raccomandata insieme ad altri giornalisti (Giuseppe Fiori, Federica Sciarelli) per ottenere una posizione di maggior rilievo all'interno della Rai. La Berlinguer ha smentito queste dichiarazioni del senatore, senza tuttavia intraprendere azioni legali nei suoi confronti. Il 1º ottobre 2009 viene nominata direttrice del TG3. Si insedia il 12 ottobre. Il 24 settembre 2010 ha vinto a Roma la prima edizione del Premio di giornalismo"L'isola che c'è", riconoscimento assegnato a 10 giornalisti sardi, della carta stampata o della RAI - Radiotelevisione italiana, che lavorano a Roma. Il 24 settembre 2011 ha vinto il Premio Nazionale Alghero Donna di Letteratura e Giornalismo, sezione giornalismo. Da direttrice continua a condurre (dopo un intervallo di qualche mese) l'edizione serale del TG3, nonché l'approfondimento notturno Linea Notte. Conduce e dirige per l'ultima volta il TG3 il 5 agosto 2016, venendo sostituita, con molte polemiche soprattutto rivolte al governo Renzi, da Luca Mazzà.

Lottizzazione o privatizzazione. Finché la Rai resta pubblica comandano i partiti, inutile fare ammuina, scrive il 04 Agosto 2016 “Il Foglio”. I senatori della minoranza Pd Federico Fornaro e Miguel Gotor si sono dimessi dalla commissione di Vigilanza Rai in dissenso con le nomine dei nuovi direttori dei tg fatte dal dg Antonio Campo Dall’Orto e approvate dal consiglio d’amministrazione. I parlamentari dem dissidenti ce l’hanno con “l’occupazione governativa del servizio pubblico” che penalizza “una giornalista autorevole quale Bianca Berlinguer” ed evocano il “tema della questione morale di Enrico Berlinguer, quando, nel 1981, denunciava l’occupazione da parte dei partiti di governo delle principali istituzioni dello Stato, Rai compresa”. Il problema di questa ricostruzione è che la lottizzazione e le nomine politiche in Rai ci sono sempre state, anche ai tempi di Berlinguer, e forse non è un caso che in quella che è sempre stata la rete del Pci a dirigere il tg ci sia stata una stimata professionista che di cognome fa proprio Berlinguer. Ora quella tradizione politica, che pure ha avuto la possibilità di guidare il più grande partito italiano e il governo, è stata messa da parte prima dagli elettori e poi dai militanti. E adesso insieme al controllo del partito perde a cascata quello nella Rai e nelle altre aziende pubbliche, che non sono altro che la proiezione delle forze politiche che temporaneamente gestiscono il potere statale. I criteri con cui si facevano le nomine in passato sono gli stessi di adesso e sono inefficienti per gli stessi motivi: fino a quando la Rai resterà pubblica sarà la politica a fare le nomine. E’ inevitabile, come la forza di gravità. Per togliere le mani dei partiti dalla Rai bisogna togliere la Rai dalle mani dello stato: privatizzare. Se invece ciò che dispiace non è il sistema ma il giro di nomine, è meglio fare ammuina.

"Berlinguer, di che cosa ti lamenti?". Vittorio Feltri il 6 agosto 2016 su “Libero Quotidiano” a valanga: "Sapete che lei..." Non so a voi, ma a me personalmente della Rai non importa nulla. Nel senso che mi sono rassegnato al fatto che sia lottizzata, cioè al servizio della politica vincente. Lo è da sempre, dal primo giorno in cui comparve il monoscopio sul video dei pochi italiani che avevano il privilegio (da ricchi) di possedere un apparecchio televisivo. Era l'inizio degli anni Cinquanta e io, che sono vecchio e all' epoca frequentavo le elementari, ricordo benissimo. A casa mia il televisore entrò quasi subito: pagato a rate, credo. Il telegiornale era ridicolo ossia completamente democristiano perché comandava la Dc, partito dominante che aveva ereditato uomini e metodi fascisti. Chi lo nega o è stupido o in malafede, che è lo stesso. Passarono lustri e l'Italia si sviluppò grazie al famoso boom economico, ma lo stile della Rai non si modificò: a menare il torrone continuarono ad essere i baciapile, che avevano la maggioranza. La TV bocciava Tognazzi e Vianello, bocciava anche Dario Fo. Bocciava le ragazze scosciate dei balletti e tutto quanto offendeva (si fa per dire) i morigerati costumi e il sentimento democristiani. I tempi mutarono ma lo stile di chi aveva in mano il pallino rimase intatto. Ogni volta che si tratta di nominare i dirigenti dell'ex monopolio si tiene conto soltanto dell'opportunità politica. Per non scontentare nessuno Cencelli si inventò un manuale che portava il suo riverito nome: due o tre posti ai fedeli della Dc, un posto ai socialisti, uno ai socialdemocratici di Saragat e così via. I comunisti, che non avevano poltrone benché fossero numerosi, protestarono. Furono accontentati. Come? Si creò per loro una rete, la terza. La seconda era già dei socialisti. Spartizione perfetta. I partiti maggiori erano felici e contenti: ciascuno aveva il proprio orticello. Questa, in breve, la storia dell'Antennona nazionale pagata dai cittadini mediante il canone. Poi? Lentamente le cose peggiorarono. Formalmente venne abolito il manuale Cencelli ma non la lottizzazione che, in effetti, è tuttora in vigore. Chi vince le elezioni, o si è comunque conquistato Palazzo Chigi, si magna l'intera posta. Berlusconi, quando arrivò primo lasciò per generosità la terza rete agli ex comunisti e si pappò le altre due in aggiunta alle tre di sua proprietà. Cinque emittenti su sei. Mica male. Prodi aveva piazzato Gad Lerner e poi Gianni Riotta alla guida del Tg1. Il Cavaliere per rispondere adeguatamente affidò il notiziario italiano numero uno ad Augusto Minzolini, bravo giornalista ma abbastanza schierato. Insomma ogni premier si è arrangiato come ha potuto per assicurarsi la benevolenza del maggiore Tg. Una regola non scritta ma radicata prevedeva infatti che la maggioranza politica si garantisse l'appoggio televisivo. Regola ovviamente sempre assai criticata, ma alla lunga accettata come il minore dei mali. Finché la Rai sarà pubblica, saranno i padroni della cosa pubblica a governarla. Se qualcuno avesse un'idea migliore si faccia avanti e la imponga. Silenzio generale. Nei giorni scorsi Campo Dall' Orto, direttore generale Rai, ha fatto fuori la Berlinguer dal vertice del Tg3 dopo sette anni di onorevole servizio, e il provvedimento ha suscitato scandalo. Capisco. La signora è brava e non meritava la rimozione. Ma nessuno dice che anch' ella fu selezionata in base al colore politico, il rosso, sia pure un rosso diverso da quello di moda ora. Orfeo è rimasto capo del Tg1 perché è un coperchio che va bene per ogni pentolino. Mentre Masi è stato cacciato dal Tg2 solo perché poveretto non ha santi potenti in paradiso, neanche Sanculo. Scandalizzarsi per questo sarebbe lecito se non conoscessimo a fondo cosa ribolle nel calderone Rai da oltre mezzo secolo. Poiché invece siamo scesi da un pezzo dal pero, non siamo neppure sorpresi. Anzi saremmo stupiti se i criteri adottati dal potere odierno fossero più evoluti rispetto a quelli di un passato che non passa mai. Chi non ha capito che i modelli gestionali italiani sono immodificabili o è ingenuo o stolto. In viale Mazzini e dintorni non c' è mai nulla di nuovo. Coloro che si stracciano oggi le vesti per le nomine di Campo Dall' Orto avvenute sulla base del manuale Cencelli riveduto e corretto, sono gli stessi che furono nominati alcuni anni orsono secondo la medesima logica. Non è una cosa seria, ma il solito piagnisteo. Non sono i direttori defenestrati né i loro successori che vanno discussi o difesi: bisogna abbattere il sistema Rai che ha un organico di 13 mila persone per produrre orrori, i quali d' estate diventano imbarazzanti e perfino vomitevoli. Ne sono consapevole. Le mie sono parole al vento come le lagnanze dei trombati. Viviamo da decenni in un regime di scrocconi e raccomandati. E non siamo manco arrabbiati, ma semplicemente sconsolati. Vittorio Feltri.

Contro il fascismo di sinistra. L’occidente politicamente corretto è un élite vuota e secolarizzata che si crede eterna, dice Camille Paglia, scrive Mattia Ferraresi il 6 Febbraio 2015 su “Il Foglio”. “Quale visione della vita propone il liberalismo che sia più grande delle prospettive cosmiche delle grandi religioni?”, dice Camille Paglia. New York. Camille Paglia combatteva il politicamente corretto quando ancora non esisteva. C’era la cultura perbenista e censoria che veniva dagli anni Cinquanta, ma non esisteva ancora l’invisibile polizia del linguaggio del “fascismo di sinistra”, come lo chiama lei, che tracciava il confine fra il legittimo e l’illegittimo nel discorso pubblico non sulla base di un ben perimetrato codice morale, ma intorno alle linee incerte della libertà individuale. Non è con la coercizione che il politicamente corretto si è insediato. E’ stato un docile golpe culturale nel nome dell’uguaglianza, articolato con il linguaggio accondiscendente dei diritti, non imposto con il manganello della buoncostume. E’ lo strumento di protezione degli indifesi, dei più deboli, delle minoranze oppresse, dicevano i suoi difensori, e l’argomento potrebbe essere ripetuto anche da Mark Zuckerberg per giustificare l’esclusione da Facebook dei testi che contengono la parola “frocio” (termine che compare in questo articolo al solo scopo di sfruculiare l’ottuso algoritmo). Paglia è passata in mezzo a tutte le fasi della guerra del politically correct. Faceva il primo anno di università nello stato di New York quando gli studenti di Berkeley guidati da Mario Savio manifestavano per la libertà di parola, gettando i semi della controcultura; in tasca aveva sempre una copia di “Howl” (“la mia bibbia”, dice) il poema di Allen Ginsberg censurato per oscenità. Nel 1957 la polizia aveva perquisito – e contestualmente devastato – la libreria di San Francisco che con inaccettabile affronto aveva continuato a vendere il volume; nei primi anni Novanta, quando il politicamente corretto si è coagulato in un sistema di regole per lo più non scritte, diventando convenzione dopo essere stato pulsione, la femminista contromano era sulla copertina del New York magazine con uno spadone medievale davanti al Museo d’arte di Philadelphia: una “women warrior” a presidio della libera cittadella della cultura contro gli attacchi del politicamente corretto. Non che lo schema del politicamente corretto oggi sia stato superato, anzi. Nella sua veste più minacciosa di “hate speech”  – un politicamente corretto con il turbo – il canone che regola l’indicibile nel discorso pubblico è diventato pervasivo e meccanico, s’è infiltrato nella rete sotto forma di cavillosi termini d’uso che si accettano senza leggere; nelle università americane è sempre più frequente il fenomeno del “disinvito” di oratori che possono offendere la sensibilità di qualche gruppo minoritario; sul giornale di Harvard lo scorso anno una studentessa suggeriva di abbandonare la finzione della “libertà accademica” e di selezionare in modo finalmente esplicito quali eventi approvare e quali no sulla base della compatibilità ideologica con una certa tavola di valori che l’università di fatto promuove (e a parole nega). Il massacro islamista nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi ha rinfocolato il dibattito sulla libertà di espressione e sui suoi limiti. Per qualche settimana siamo stati tutti Charlie, poi l’occidente benpensante è tornato al suo business as usual: il New York Times non ha pubblicato le vignette di Maometto per non offendere i lettori musulmani, Facebook le ha censurate per non far arrabbiare il governo turco e l’editorialista David Brooks ha fatto notare un’indiscutibile verità: un giornale come Charlie Hebdo “non sarebbe durato trenta secondi” in qualsiasi università americana. Si sarebbero sollevate proteste indignate, minoranze offese avrebbero manifestato e finanziatori altrettanto offesi avrebbero protestato con argomenti molto più convincenti. Lo stesso magazine che ritraeva Paglia fra armature medievali quasi quindici anni fa ha pubblicato di recente un saggio sul politicamente corretto di Jonathan Chait, opinionista di tendenza liberal, di cui il Foglio ha dato conto la settimana scorsa. Chait si scaglia contro la dittatura del politicamente corretto e per capire che ha messo il dito in una piaga insanguinata del dibattito basta leggere alcune delle violente reazioni all’articolo da parte di esponenti di minoranze e sottoculture che esigono protezione da parte della polizia del linguaggio. Il ragionamento dei critici suona così: Chait può permettersi di attaccare il politicamente corretto perché è un maschio-bianco-etero-ricco, se soltanto uscisse per un attimo dalla bolla di privilegio sociale in cui vive capirebbe che le regole per non offendere le minoranze sono un bene sociale imprescindibile. Questo tanto per dire dove può portare la foga iconoclasta del movimento anti-anti-politicamente corretto, che legge qualunque episodio come figura dell’universale dialettica fra oppressori e oppressi. Il cuore del saggio di Chait, però, era il tentativo di dimostrare che il politicamente corretto non è figlio del liberalismo, ma ne è una perversione, un tradimento introdotto dalla sinistra radicale d’impostazione marxista e inclinazione totalitaria. Nello schema di Chait c’è una sinistra buona e liberale che disprezza la correttezza politica e innalza monumenti al “free speech”, e una sinistra cattiva che con un rasoio ideologico raschia via dal discorso pubblico ciò che è incompatibile con il suo pensiero, e usa come scusa la difesa delle minoranze. La guerriera Camille Paglia prende a spadate questa rapresentazione, e in una conversazione con il Foglio ripercorre la genesi del politicamente corretto in seno (e non al di fuori) alla rivoluzione liberale: “La libertà di espressione era la vera essenza, l’anima della politica di sinistra degli anni Sessanta, che reagiva al conformismo e alla censura degli anni Cinquanta, alla quale si opponevano già prima gruppi radicali underground, i poeti Beat e gli artisti di San Francisco e del Greenwich Village. La libertà di espressione è sempre stato il mio principio e la mia motivazione centrale, parte dell’eredità dei filosofi dell’illuminismo che hanno attaccato con forza le autorità religiose e i privilegi di classe. Proprio per questo è stato incredibilmente scioccante per me il momento in cui i liberal americani hanno abbandonato il ‘free speech’ negli anni Settanta e hanno inaugurato l’èra del politicamente corretto, per la quale soffriamo ancora oggi. Invece di difendere il vibrante individualismo degli anni Sessanta, la sinistra è diventata una polizia del pensiero stalinista che ha promosso l’autoritarismo istituzionale e ha imposto una sorveglianza punitiva delle parole e dei comportamenti”. La sottesa analogia con la dinamica che dalla rivoluzione giacobina e ai suoi ideali di liberté ecc. conduce al terrore è certamente politicamente scorretta, e Paglia da sempre mischia maliziosamente il registro dell’analisi a quello della provocazione (solitamente quando l’interlocutore pensa si tratti di provocazione in realtà è il frammento di un ragionamento calmo e lucido), rimane da spiegare il perché, e forse anche il come. Perché la sinistra ha abbandonato le sue aspirazioni di libertà per rintanarsi nel fascismo di sinistra? “Per capirlo – dice Paglia – dobbiamo innanzitutto esaminare il fallimento della sinistra nel comunicare e capire la maggioranza dell’America, il mainstream. Il documentario ‘Berkeley in the Sixties’, uscito nel 1990, mostra una serie di errori strategici fatti dalla sinistra, che, ad esempio, ha deciso di associarsi a movimenti che promuovevano il disordine civile. Questo ha portato a una reazione culturale fortissima, la quale ha contribuito al risultato delle elezioni del 1968: Richard Nixon è diventato presidente, ed è nato un enorme movimento conservatore a livello nazionale”. Così la destra è riemersa sulla scena politica grazie alle contraddizioni interne della sinistra, mentre i liberal scottati dal l’arrivo di Nixon “si sono infiltrati nelle università”. Erano i primi anni Settanta, ricorda Paglia, “proprio quando ho cominciato a insegnare”. Questa sinistra che si è riversata nell’accademia “ha fatto pressioni enormi sugli organi di governo dei college per introdurre cambiamenti di sistema che poi sarebbero diventati la struttura base su cui è stato costruito tutto l’edificio del politicamente corretto: sono nati dipartimenti autonomi e autogestiti di studi femminili, studi afroamericani, chicano eccetera. Questi programmi ispirati dalla ‘politica dell’identità’ erano basati innanzitutto sull’ideologia, non su standard di qualità in termini di ricerca. I professori venivano assunti in quanto ‘true believer’ e il dissenso da un codice approvato non era tollerato. Ero orripilata dai rigidi dogmi e dalla mediocrità intellettuale di tutto questo: oggi è la routine dell’accademia americana”. I dipartimenti umanistici sono stati occupati dai discendenti della sinistra illuminata e liberale, non soltanto dai radicali marxisti, i quali invece occupavano inespugnabili e tuttavia isolate roccaforti universitarie. “Nei decenni – continua Paglia – i pensatori indipendenti che cercavano di fare carriera nelle humanities sono stati cacciati dalle università. Ho avuto a che fare con questo fascismo dottrinario in tutti i modi possibili. Esempio: il mio primo libro, ‘Sexual Personae’, che criticava l’ideologia femminista convenzionale, è stato rifiutato da sette editori prima di essere pubblicato nel 1990, nove anni dopo che avevo finito di scriverlo. Per fortuna quello era un momento in cui si stava discutendo del politicamente corretto sui media per via di certi codici linguistici imposti da università tipo la University of Pennsylvania. Non mi è dispiaciuto quando il magazine New York ha deciso di dedicarmi la storia di copertina, anzi se devo dire la verità l’idea della spada è stata mia”. A quel punto, però, i dettami del politicamente corretto avevano penetrato a tal punto la cultura che i giornali di sinistra accusavano Paglia di essere una conservatrice (“accusa isterica che non aveva alcun senso: avevo appena votato per l’attivista ultraliberal Jesse Jackson alle primarie democratiche, sono ancora registrata per il Partito democratico e ho sostenuto, anche finanziariamente, il Green Party”) e la ragione della reazione convulsa, spiega, è semplice: “La sinistra è diventata una frode borghese, completamente separata dal popolo che dice di rappresentare. Tutti i maggiori esponenti della sinistra americana oggi sono ricchi giornalisti o accademici che occupano salotti elitari dove si forgia il conformismo ideologico. Questi meschini e arroganti dittatori non hanno il minimo rispetto per le visioni opposte alla loro. Il loro sentimentalismo li ha portati a credere che devono controllare e limitare la libertà di parola in democrazia per proteggere paternalisticamente la classe delle vittime permanenti di razzismo, sessismo, omofobia eccetera. La sinistra americana è un mondo artificiale prodotto dalla fantasia, un ghetto dove i liberal si parlano solo con altri liberal. Penso che la divisione politica fra destra e sinistra sia moribonda e vada abbandonata, abbiamo bisogno di categorie più flessibili”. Il “free speech” è un concetto morto nel cuore della sinistra, ma a morire, più tragicamente e meno concettualmente, sono anche i vignettisti che disegnano Maometto per rivendicare la libertà d’espressione. In America molti giornali mainstream non hanno voluto ripubblicare le vignette di Charlie Hebdo, cosa pensa di tale scelta? “Dato che le vignette di Charlie Hebdo erano disponibili in rete, non capisco perché i grandi giornali avrebbero dovuto ripubblicarle, esponendo i loro staff a potenziali pericoli da parte di fanatici senza scrupoli. I direttori poi possono anche indulgere in gesti nobili e simbolici, barricati come sono dietro sistemi di sicurezza molto più sofisticati di quelli della redazione di Charlie, ma di solito a pagare il prezzo più alto sono gli inservienti, le guardie, i custodi”. Un’esibizione di prudenza che non ci si aspetterebbe da un’intellettuale venuta fuori dalla sinistra, ma a ben vedere Paglia ha passato tutta la vita a combattere una élite che sbandierava la libertà come valore supremo; la femminista che combatte il dogma dell’uguaglianza dei ruoli e la lesbica che difende la differenza sessuale come base antropologica dell’occidente: “Guarda, sono una militante della libertà di espressione e un’atea, ma rispetto profondamente la religione come sistema simbolico e metafisico. Odio profondamente le becere derisioni alla religione che sono un luogo comune dell’intellighenzia occidentale secolarizzata. Ho scritto che Dio è la più grande idea che sia venuta all’umanità. Niente dimostra l’isolamento della sinistra dalla gente quanto la derisione della religione, che per la maggior parte degli uomini rimane una caratteristica vitale della loro identità. La magnifica ricerca di significato, dunque religiosa e spirituale, degli anni Sessanta si è persa nella politica delle identità dei Settanta. Le vignette di Charlie Hebdo erano crude, noiose e infantili, insultavano il credo di altre persone senza nessuna vera ragione artistica. Il massacro è stata un’atrocità barbara e la libertà di espressione deve essere garantita in tutte le democrazie moderne. Ma quale visione della vita propone il liberalismo che sia più grande delle prospettive cosmiche delle grandi religioni?”. Michel Houellebecq nel suo libro “Sottomissione” parla esattamente dell’assenza di un’alternativa secolare all’altezza dell’immaginario religioso, che finisce per affermarsi nella vuotà libertà dell’occidente perché porta un surplus di significato. Paglia non ha letto il libro dello scrittore francese né lo farà. Nessuna antipatia particolare, soltanto “non leggo romanzieri contemporanei”. E qui Paglia s’infervora: “A meno che non abbiano una diretta esperienza da zone di guerra, gli scrittori odierni non hanno nulla da dirci sulla crescente instabilità del mondo di oggi. Cosa sa esattamente Houellebecq del presente a parte quello che tutti leggiamo sui media? Per capire il presente leggo sempre testi di storia e religioni comparate. Siamo in un periodo simile a quello del tardo impero romano, quando una élite sofisticata, secolare e con uno stile di vita sessualmente ‘libero’ pensava che il suo mondo fosse eterno. Il suo vuoto spirituale era la sua condanna. Quella che è arrivata dalla Palestina era una religione di passione e mistero che valorizzava il martirio. L’occidente ha perso la strada, che cos’ha da offrire oggi? Può anche essere che il vecchio conflitto con il mondo islamico sia il fattore primario nel determinare la storia nel prossimo secolo. Ma non possiamo capire cosa sta succedendo senza tornare alle nostre radici culturali e ricostruire un senso di rispetto per la religione”.

Ecco che cosa deve sapere Salvini quando parla di “cattocomunisti”. Dal fascismo a Mattarella. Storia breve di un’espressione che ha attraversato il Novecento, il Pci togliattian-berlingueriano, le Br, scrive Francesco Cundari il 30 Gennaio 2015 su “Il Foglio”. Sebbene affidata al circuito dei social network invece che al tradizionale comunicato stampa, e presumibilmente digitata da uno smartphone (o più probabilmente dall’inseparabile iPad), la dichiarazione di Matteo Salvini contro “il cattocomunista” Mattarella aveva un sapore antico. E anche piuttosto paradossale. Sarebbe infatti un bel paradosso che dalle ceneri del patto del Nazareno risorgesse proprio la più vetusta delle categorie politiche, il cattocomunismo, rottamata persino dai retroscena dei quotidiani, perfettamente antitetica a tutto quello che fino a oggi si era detto di Matteo Renzi quale erede del berlusconismo e novello Bettino Craxi. D’altra parte, il gusto del paradosso non deve essere mancato allo stesso segretario del Pd, vista l’enfasi che ha dato, nel presentare la candidatura di Sergio Mattarella, a quelle “dimissioni per un ideale” con cui l’allora ministro democristiano lasciò il governo Andreotti in protesta proprio contro la legge Mammì. La legge voluta da Craxi per salvare le tv di Berlusconi: la madre di tutti gli inciuci, altro che patto del Nazareno. Una dichiarazione di sfida degna del Fatto quotidiano. Anche se, va detto, un vero amante del Fatto non gli avrebbe mai giocato lo scherzo di non proporre davvero Giuliano Amato, dopo averglielo lasciato credere per due settimane di fila (un simile sgarbo Silvio Berlusconi un giorno, forse, potrà pure perdonarglielo, Marco Travaglio no). Una provocazione che per un attimo è parsa rovesciare tutte le nostre categorie, facendo del Royal Baby del berlusconismo un arcigno antiberlusconiano, un girotondino della prima ora, un vetero comunista. Per non dire, appunto, un cattocomunista. Quale sia l’origine del termine è difficile dire. Il dizionario della lingua italiana di Tullio De Mauro ne data la nascita al 1979. Ma già l’anno prima lo si ritrova in un libro di Enzo Bettiza (“Il comunismo europeo”) dove l’autore definisce le Brigate rosse “una sorta di esasperazione estremistica del compromesso storico” e sottolinea che “la componente ‘cattocomunista’ dei brigatisti è inconfondibile”. Una recensione della Civiltà cattolica sembra confermare l’attribuzione, sottolineando come il saggio si regga sul “postulato che il grande disegno di una rivoluzione finale comunista è ancorato alla strategia del compromesso con i cattolici, di cui la punta avanzata sarebbero quelli che l’A. chiama cattocomunisti…”. Ma è possibile retrodatare ulteriormente la nascita del termine almeno di una quarantina d’anni, considerata l’autorevole testimonianza di Adriano Ossicini, che ha rievocato più volte gli interrogatori da lui subiti da parte della polizia fascista e la sconfortata esclamazione del commissario Rotondano: “Mi tocca addirittura avere a che fare con dei cattocomunisti”. In quanto termine dispregiativo, è naturale che nessuno lo abbia mai rivendicato per sé. Storicamente, il riferimento più naturale è al gruppo di Franco Rodano, fondatore del Movimento dei cattolici comunisti, poi confluito nel Pci, dopo avere incrociato varie esperienze (e complicate denominazioni, tra cui quella di “cooperativisti sinarchici”) con altri giovani provenienti da esperienze associative di area cattolica, come il già citato Ossicini e Antonio Tatò, che molti anni dopo sarebbe diventato il più stretto collaboratore di Enrico Berlinguer. E così, dopo essere stato a lungo un ascoltato consigliere di Palmiro Togliatti, Rodano avrebbe esercitato, anche attraverso Tatò, una forte influenza su Berlinguer, tanto da essere ritenuto da molti il vero ispiratore del compromesso storico. Vale a dire di quell’accordo Dc-Pci che i socialisti di Craxi avrebbero visto come una tenaglia destinata a stritolarli (e liberali alla Bettiza, come si è detto, quasi come la culla delle Br). D’altra parte, pochi documenti storici attestano un più viscerale anticraxismo delle note scritte da Tatò per il segretario del Pci, dove la più gentile definizione del leader socialista è “abile maneggione e ricattatore”. Inutile precisare che Salvini non voleva certo alludere a tutta questa lunga storia, nel dare del cattocomunista a Mattarella (e di conseguenza, per la proprietà transitiva, a Renzi). E questa è anche la ragione per cui è impossibile rintracciare con precisione le origini del termine. Perché quello che conta, insegna il filosofo, non sono le parole esistenti, ma le infinite possibilità combinatorie che il gioco linguistico permette a ciascuno di noi, in qualsiasi momento. Possibilità che nel caso specifico si esauriranno solo il giorno in cui l’intera comunità dei parlanti non riconoscerà più come dotati di senso, almeno nel linguaggio politico, i termini “cattolico” e “comunista”. Un traguardo che a dire il vero, nonostante la rivoluzione renziana, sembra ancora piuttosto lontano.

SIAMO TUTTI PUTTANE. Pro porno e pro prostituzione: ecco il femminismo di Annalisa Chirico in "Siamo tutti puttane", scrive “Libero Quotidiano”. "Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base dellla lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". L'ispirazione dal processo Ruby - In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male.

Tutto per apparire - Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico".

La donna può decidere come utilizzare il proprio corpo - Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista 'Se non ora quando' aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".

"Siamo tutti puttane" di Annalisa Chirico è la risposta al fanatismo del "se non ora quando", scrive Dimitri Buffa su “Clandestino Web”. - “Siamo innanzitutto puttane, in senso figurato, perché cerchiamo tutti, ciascuno come può, di districarci nel complicato universo dell’esistente, vogliamo arrabattarci, sgomitiamo per conquistare il nostro posto nel mondo”. La “summa philosphica” dell’Annalisa Chirico pensiero, da brava giornalista, l’interessata la mette nel primissimo capitolo introduttivo del proprio libro “Siamo tutti puttane”, da poco uscito per i Grilli di Marsilio editore anche in e-book. E nelle prime parole articolate in concetto. Non si tratta quindi tanto di una semplice difesa d’ufficio o di fiducia del mestiere più antico del mondo, che la Chirico da buona radicale comunque svolge, quanto di una presa d’atto dell’impazzimento di un intero paese, quello italiano, dove, complice e alibi il contraccolpo di venti anni di berlusconismo nel bene e nel male, la sinistra ha dismesso i panni del progressismo sessuale e si è incartata in una sorta di talebanismo di ritorno. In perfetta malafede intellettuale e ideologica, peraltro. Il libro in questione, ben scritto e ancora meglio documentato, ricorda una per una tutte le conquiste degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, dal divorzio all’aborto passando per il travagliato brevetto della pillola anti concezionale, ed è l’ideale risposta all’isterico e ideologico (e disonesto intellettualmente) movimento coagulatosi intorno alla piazza di quelle mezze esaltate del “se non ora quando”. I riferimenti e le punzecchiature contro le vetero-femministe e le discepole vestali di oggi in seno ai vari movimenti tipo 5 stelle e dintorni, compresi i popoli viola et similaria, fatti da Annalisa Chirico (che cita Plutarco e Marcuse, Madonna e Cleopatra, Pasolini e tutti i mostri sacri dell’immaginario catto-comunista di ieri e di oggi con la stessa nonchalance e la stessa precisione) sono tutti alle conquiste del passato rinnegate nel presente. Secondo la logica del fine che giustifica i mezzi. Il fine era fare fuori mediaticamente e politicamente Berlusconi come adescatore di minorenni e sfruttatore seriale di prostituzione minorile, il mezzo era il neo moralismo para talebano di quelle che negli anni ’60 andavano in piazza a dire che “l’utero è mio e me lo gestisco io”. Ovviamente dietro un fenomeno politico, pensato dai maschi della sinistra estremista e forcaiola e fatto interpretare alle femmine del branco, c’è anche un completo “misunderstanding” dell’afflato libertario della cosiddetta rivoluzione sessuale. Giustamente la Chirico parla di una sorta di classismo verso le veline e le “olgettine” che vengono dipinte come “puttane” e come “dementi” solo perché la danno all’uomo ricco e non al dirigente Rai o al direttore di un grande quotidiano o al filosofo di grido. Entrambe le tipologie, la puttana oca e quella intellettuale o pseudo tale hanno invece pari dignità secondo il Chirico pensiero. Avendo il comune fine di valorizzare il proprio corpo per promuoversi socialmente, cosa che la Chirico ritiene non solo giusta ma anche necessaria. Però le prime non hanno diritto di cittadinanza nei salotti buoni della sinistra e della borghesia e le seconde invece sì. Per non parlare della prostituzione, anche al maschile, del proprio cervello che forse è ben più squallida di quella animale del sesso. Insomma non si sa se è peggio adulare un imbecille o andarci a letto. Il pamphlet di Annalisa Chirico farà sicuramente “incazzare” tante portavoce del nulla che hanno visto esaurire la loro carica propulsiva di utili idiote dopo la condanna di Berlusconi in primo grado per prostituzione minorile. Reato commesso, se mai è stato commesso, con una “ragazzina” che dimostrava molto più dei propri anni cui nessuno in un dato contesto avrebbe chiesto i documenti prima di scoparci. E “ictu oculi” non si poteva considerare una povera creatura corrotta da un orco cattivo. Sarebbe come venire arrestati per avere fatto a botte, prendendocele di santa ragione, allo stadio con un cristo alto uno e novanta, tatuato e violento, tipo Genny ‘a carogna, salvo venire a sapere che, dopo averti fatto a pezzi, ti denuncia per sovrappiù in quanto “minorenne”. Anche questa eccessiva iper protettività verso i minori senza giudicare caso per caso è purtroppo una delle trovate legislativo ideologiche del centro destra che per la legge del contrappasso sono state applicate nella maniera più plateale proprio contro chi si era battuto per trasformare in legge simili obbrobri. Da Cosimo Mele all’episodio che recentemente ha coinvolto il marito di Alessandra Mussolini la storia recente è tutta una grottesca antologia di questa aneddottica da contrappasso dantesco. Ma questo non significa che siano gli intellettuali, e le vetero femministe di cui sopra, autorizzati, oggi, a mettere in mostra la massima disonestà intellettuale possibile nel deprecare le abitudini sessuali e lo stile di vita di un ex cumenda della politica e della tv. Intendiamoci: nel libro della Chirico il caso di Berlusconi è citato al massimo un paio di volte. E sarebbe stato ipocrita da parte sua, giornalista di “Panorama”, se non lo avesse fatto. Ma la citazione, come quelle da Plutarco, da Shakespeare e da Francis Bacon, è finalizzata ad esorcizzare il candore che lei definisce “apollineo” di quelle che in tv si battono il petto contro la mercificazione del corpo femminile dopo essere state in gioventù convinte baldracche. Oltre alle Lidia Ravera e alla presidente della Camera Laura Boldrini, gli esempi negativi di donne di sinistra che trattano le cosiddette olgettine come dementi oltre che come prostitute, il discorso si allarga a quei maschi compagni di partito da considerare i mandanti di questo neo puritanesimo di sinistra. Coloro che adesso utilizzano il moralismo di ritorno, sospetto anche un po’ di acidità da menopausa, delle femministe di ieri per farne un’arma di battaglia politica. Sia come sia, il libro di Annalisa Chirico non va raccontato o recensito, ma semplicemente letto. Perché è esattamente il genere di libro che ognuno di noi avrebbe voluto scrivere e fare materializzare in pochi minuti nelle proprie mani oltre che nella propria mente ogni qual volta ha preso la parola ad “Annozero” negli ultimi quattro anni una come Giulia Innocenzi, cinica interprete e sobillatrice dell’invidia, anche “del pene”, di tante ragazze di sinistra che non sopportavano (o fingevano di non sopportare) la narrazione della vita sessuale dei potenti, specie se di centro destra. Nella fiera dell’ipocrisia che abbiamo dovuto sorbirci negli ultimi tre o quattro anni dal caso Noemi in poi, queste rare perle di saggezza e di analisi storico filosofica sono sempre le benvenute. Dopo avere dovuto sopportare il fatto che l’ex attrice di teatro Veronica Lario fosse eretta a monumento nazionale vivente, insieme alla sua mentore Maria Latella, del politically correct made in piazza Indipendenza (oggi in largo Fochetti) questa soddisfazione ci era proprio dovuta.

“Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo, scrive Monica Gasbarri su “Clandestino Web” – “Siamo tutti puttane”, edito da Marsilio, e nelle librerie dal 7 maggio, è un pamphlet che si scaglia contro l’ipocrisia e contro il perbenismo imperanti nel nostro paese e parte da un assunto che, in tempi di “politically correct”, farà storcere il naso a quanti ancora si aggrappano all’immagine edulcorata della natura umana: l’interesse personale è democratico. Titolo d’effetto, spirito caustico e provocatorio, il libro racchiude al suo interno un’anima politica e una più pop come racconta l’autrice a Data24News. “Non è certo il memoire di una prostituta a fine carriera” ci spiega Annalisa Chirico, giovanissima giornalista di Panorama, “è un libro sul sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come meglio si può, nei limiti del lecito ovviamente. Se non ci trovassimo in un paese perbenista come il nostro non ci sarebbe bisogno del mio libro per ribadire quello che dovrebbe suonare persino scontato: ognuno ha diritto di mettersi in gioco e di valorizzare le doti che ha. Ma l’Italia è afflitta da un moralismo asfissiante”.

Di chi è la colpa?

«Una grossa colpa va imputata, in questi ultimi venti anni, alla sinistra che ha spostato lo scontro dal terreno della politica a quello della morale. Di fronte alla “variabile imprevista”, Berlusconi, la sinistra si e’ illusa di potersi affermare non per quello che faceva ma per quello che pensava di essere: moralmente superiore».

Le responsabilità sono tutte a sinistra?

«La sinistra ci ha raccontato una storia che non si reggeva in piedi, in realtà il primato morale della sinistra non esiste. La destra non ha mai vantato un primato morale. Berlusconi ha anzi esibito e ostentato il suo essere un uomo come tutti gli uomini, entrando così in empatia con l’elettore. Berlusconi non si è mai proposto come Grande Pedagogo, la sinistra sì. Pensi a D’Alema che ci ha raccontato per anni che la sinistra rappresentava “la parte migliore del Paese”. Nel libro intitolo un capitolo al “bunga bunga di Pasolini”, con giovani persino “più minorenni” della minorenne anagrafica Ruby. Mi soffermo sulle sregolatezze sessuali di un’altra icona gauchiste come J F Kennedy. Il fronte cosiddetto progressista è passato dagli slogan sessantottini a favore della liberazione sessuale all’ipocrisia dei giorni nostri, ai bigottismi bindiani e ai diktat boldriniani. Per cui l’ardore e la sfrontatezza di alcune giovani ragazze (che cercano di farsi strada nella vita e che non commettono reati, ma hanno l’unica colpa di frequentare un uomo potente) diventano il perno di una campagna mediatica che è tutta politica. Le donne sono ridotte a strumento, pretesto, vittima sacrificale. Il bersaglio vero è Berlusconi».

Il suo è un saggio rigorosamente politico.

«Io incarno il mio libro che non può non essere politico. Esalto figure come Cleopatra e Madonna, donne fatali che non subiscono ma dominano il desiderio sessuale maschile. Per le femministe americane degli anni ’80 Madonna è una traditrice del genere femminile perché sbaraglia il femminismo mainstream che considera i maschi un nemico».

Ecco introdotto dunque un tema centrale, quello del femminismo. Quanto spazio ha nel suo testo?

«Io sono un’appassionata del genere, anche per motivi accademici. Sono cultrice di studi di genere alla Luiss. Nel libro metto a confronto femminismi diversi, italiani e stranieri. Dalle seguaci di Diotima alle libertarie americane meno conosciute in Italia».

In quale si riconosce di più?

«Nel femminismo della seconda ondata, quello delle grandi battaglie sui diritti civili, per questioni concreti, per guadagnare maggiori spazi di autonomia. Oggi, invece, il femminismo è corporativo, avviluppato su se stesso, tutto concentrato in una battaglia intellettualistica, quasi metafisica. E’ un femminismo antimodernista».

Non condivide, dunque, le idee delle italiane di “Se non ora quando”…

«Il movimento “Se non ora quando” ha delle basi filosofiche assolutamente fragili e ha strumentalizzato la battaglia delle donne per fini politici. Come se l’assillo principale delle donne italiane fosse l’ “indomito fallo del premier”. Invece le battaglie da portare avanti sono ben altre: i tetti di cristallo nel mondo del lavoro, la salute riproduttiva, la fecondazione assistita, l’accesso alla contraccezione, tematiche di cui si parla troppo poco in Italia».

Certo che, con un titolo del genere, il suo libro è destinato a generare polemiche…

«Ben vengano. La polemica è un esercizio retorico ed intellettuale finissimo. Non è da tutti. Nel libro rivendico il diritto di ciascuno a “darla” per interesse e convenienza, ma parlo anche di prostituzione in senso stretto. spiego per esempio come funziona in Austria e in Germania, dove il sesso a pagamento è regolato e i sex worker pagano le tasse come ogni altro lavoratore. In Italia invece le prostitute e i prostituti non possono perché non é riconosciuta loro alcuna dignità professionale».

Da giornalista quanto è difficile rompere questo tabù del politicamente corretto?

«L’Italia è afflitta dal moralismo e dal conformismo imperante. E’ difficile prendere posizioni contrarie a quello che è il pensiero dominante. in questo devo dire che hanno un grande ruolo i mezzi di comunicazione, ma anche la classe dirigente, non solo politica. C’è un completo appiattimento. Io non ho difficoltà a definirmi una puttana, tra le puttane e i puttani d’Italia. Cerco di coltivare le relazioni personali che possono essermi utili: l’interesse personale è democratico e muove il mondo».

Tornando all’attualità, cosa pensa della polemica delle ultime ore sulla Bacchiddu? Una questione che sembra calzare a pennello con i temi del suo libro…

«Si tratta delle solite polemiche italiane sul nulla. Quella della candidata di Tsipras è una trovata efficace sul piano della comunicazione. Il sesso e la seduzione del corpo femminile fanno parte della natura. Il corpo è parte di me non meno delle mie doti intellettuali, e questo vale per tutti. Quindi brava la Bacchiddu, della quale altrimenti non sapremmo nemmeno il nome. Giocare con il proprio corpo non è disdicevole. Evviva chi osa. Siamo in Italia, non a Riad. Teniamolo a mente».

“Siamo tutti puttane”, Chirico: nel mio libro smaschero un’Italia ostaggio del moralismo.  ‘Siamo tutti puttane’ non è un coito interrotto. La Rai è l’alcova del puttanizio, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Se Michele Emiliano è in grado di spiegare il ‘Siamo tutti puttane’ alle femministe imbestialite, vuol dire che di questo libro c’era un gran bisogno. Dovevate vederlo lo scorso sabato a Lecce, il sindaco di Bari, quasi estasiato, spiegava e declinava il messaggio profondo del ‘Siamo tutti puttane’. Ne tesseva l’elogio e l’imponenza, ‘non sono stato abbastanza puttana’, ha ammesso senza celare un filo di rammarico. E va bene che gli economisti austriaci non vanno di moda in Italia, e va bene che il panegirico dello scambio e del compromesso non va di moda in tempi di guerra grillin-guerreggiata. E va bene il ‘negoziare mai’, e va bene che il titolo è un’efficace provocazione, e va bene che ‘puttane’ è una parola che non si confà alle educande ben insediate nel circolo elitario dell’intellighenzia all’amatriciana. Va bene tutto. Ma davvero qualcuno può pensare che il ‘Siamo tutti puttane’ equivalga ad un coito interrotto? In molte hanno replicato con altisonanti ed elaborati ‘Io non l’ho mai data a nessuno. Puttana sarai tu’ o ancora ‘Facci sapere a chi l’hai data ché gliela diamo pure noi’. Fantastico. Mi perdonerete se di costoro non mi occuperò, per il bene loro prima che per il mio. Non compilerò alcuna lista, anche perché sarebbe lunga assai e alle stesse eleganti signore potrebbe appalesarsi una bruciante verità: se nessuno te l’ha mai chiesta, un motivo c’è. Passiamo invece alle critiche da prendere sul serio, quelle che meritano. E’ vero, finora ‘Siamo tutti puttane’ è stato trattato con i guanti dalla stampa di centrodestra, da Panorama (la testata per cui lavoro) al Giornale a Libero, il Foglio ha dedicato un’intera pagina, Alessandra Di Pietro ne ha scritto su La Stampa Top News (come del libro che ‘onora le battaglie femministe negli ultimi due secoli’). Si sono moltiplicate le interviste sui siti d’informazione online, gli inviti a presentarlo di qua e di là (farò del mio meglio). Dagospia lo ha esaltato come solo Dago può. Seguiranno ulteriori recensioni, e mi auguro che le voci dissonanti afferrino la penna più acuminata per sfornare argomenti su argomenti contrari alle mie tesi. Del resto, quando abbiamo programmato il lancio de libro, ho richiesto per prima cosa alla casa editrice Marsilio che una copia venisse spedita a ciascuna delle talebanfemministe citate nel mio libro. Le Concite, le Spinelli, le Comencini, tutte. Per la prima presentazione del libro a Lecce ho invitato la presidente della Camera Laura Boldrini che dopo qualche giorno di meditazione ha declinato l’invito. Dunque l’autrice di ‘Siamo tutti puttane’ non si sottrae al confronto. Lo agogna. Sul blog di IoDonna ho letto il post di Marina Terragni. Lei non è citata nel mio libro. Le critiche sono mosse in via preventiva, ossia pregiudiziale, dacché la stessa ammette candidamente di non aver letto il saggio. Spero che almeno dopo la pubblicazione del post Terragni si sia decisa a leggerlo. Ad ogni modo a lei qualche risposta desidero darla. Io non dico che per riuscire nella vita devi darla a qualcuno. Anche perché sono così brava che per scrivere una simile minchiata mi sarei fatta bastare 3 pagine, non 286. E’ questa una banalizzazione che non fa onore a chi se la intesta. Io dico che, se nel gioco a dadi con la sorte tu scegli di scambiare qualcosa di te con l’altro, hai il sacrosanto diritto di farlo. Avviene ad ogni latitudine, è sempre accaduto e sempe accadrà. Si chiama libertà. E Terragni, che è donna di mondo, lo sa bene. A questo punto si possono muovere due obiezioni. La prima riguarda la prostituzione fisica, che ci infastidisce e ci indigna assai più di quella intellettuale, verso la quale siamo sorprendentemente benevolenti. La seconda, più insinuante, riguarda il merito. Qui la questione è semplice. In ambito privato, se uno assume un incapace, maschio o femmina, solo per meriti extraprofessionali, quel datore di lavoro se ne assume la responsabilità e il costo. Nel pubblico invece esistono meccanismi di selezione basati sul merito e sulla competizione tra le persone. Ma se il sistema scelto consente l’arbitrio della selezione, è inevitabile che si aprirà la gara a chi offre di più, chi con le cosce, chi con le mazzette, chi con la forza. Criminalizzare colui o colei che ‘c’ha provato’ significa guardare il dito e non la luna. Significa cercare il capro espiatorio per non cambiare nulla. Così hanno agito le talebanfemministe quando hanno puntato il dito contro le Minetti di turno, contro le vergini del Drago, contro le sfrontate che accettano inviti galanti, come se il problema fosse un batter di ciglia. Io difendo il batter di ciglia. Piuttosto, basta con questa idea che se sei un po’ gnocca devi essere per forza scema. La gradevolezza fisica si accompagna spesso alle rinomate doti intellettuali. Non esiste una secca alternativa, per fortuna. Pensate ai giornalisti televisivi, di solito non sono dei cessi. Qualche eccezione, a dire il vero, c’è, ma ai piani alti della Rai, che è il luogo del puttanizio per antonomasia. Quando sei in sella da un numero imprecisato di decenni e vai in video a dispetto di ogni legge di gravità, vuol dire che hai puttaneggiato ad arte prima, costruendo relazioni e simmetrie che ti hanno permesso di fare quel che fai. E sai farlo meravigliosamente, sia chiaro, perché anche il merito abbisogna di puttanizio.

IL FASCISMO E GLI EROI DI CARTONE.

Un bel giorno arrivò Mandrake. E i fascisti non se ne accorsero…, scrive Giuseppe Loteta il 28 Mar 2017 su "Il Dubbio". Anni 30, le strip americane invadono l’Italia con Flash Gordon, l’Uomo mascherato, Tarzan, Topolino e altri personaggi leggendari. Il Minculpop le proibì nel 1940 ma ormai era troppo tardi. Poi arrivarono i supereroi. Gli anni trenta del secolo scorso furono la grande stagione dei fumetti americani, prontamente importati in Italia, dove le edicole si riempirono delle copertine multicolore dei “giornaletti”, come si diceva allora. Il più grande cartoonist di tutti i tempi si chiamava Alex Raimond. Non visse a lungo: quarantasette anni dedicati in gran parte al disegno e alle sceneggiature. Era nato a New York il 2 ottobre 1909 e morì il 6 settembre 1956 a bordo della sua vettura sportiva, in un incidente automobilistico nei pressi di Westport, nel Connecticut. Il capolavoro di Raymond è la saga di Flash Gordon, un giovane giocatore di polo che si trova a bordo di un aereo insieme con una deliziosa fanciulla, Dale Arden, quando il velivolo è colpito da un meteorite e i due si salvano lanciandosi con il paracadute. Atterrano presso un laboratorio dove uno scienziato, Zarkov, sta per partire con un razzo di sua invenzione per un viaggio interplanetario. I due sono costretti, pistola alla mano, a seguire lo scienziato. E sbarcano su un pianeta sconosciuto dominato da un feroce dittatore dai tratti mongolici, Ming. E qui va aperto un inciso. Il Minculpop, il ministero della Cultura popolare del regime fascista, specializzato in attività censorie, si avvide con molto ritardo della carica libertaria dei fumetti americani, tale da introdurre pensieri eretici nelle menti dei balilla di allora. Li proibì soltanto nel 1940, a guerra iniziata, sostituendoli con fumetti più osservanti di disegnatori italiani. Tra questi non mancarono autori di prestigio. Guido Moroni Celsi disegnò il ciclo salgariano di Sandokan e Cesare Zavattini fu lo sceneggiatore di un pregevole Saturno contro la terra. Ma nell’insieme il risultato dei fumetti italiani fu deludente, anche se Dick Fulmine, il gigantesco eroe che aveva le sembianze di Primo Carnera fu presto popolare tra i ragazzi. Soltanto negli anni Sessanta si potrà cominciare a parlare di “scuola italiana”, capofila Hugo Pratt con il suo meraviglioso Corto Maltese. Negli anni Trenta il Minculpop si limitò a italianizzare qualche nome. Zarkov divenne Zarro e la principessa Daran, amica di Mandrake, fu trasformata, perdendo il suo sapore esotico, in Narda.

Ma torniamo a Raymond. Le avventure di Gordon su Mongo ebbero inizio nel 1934 e spianarono la strada, parecchi decenni dopo, a Guerre stellari e a tutti i film e gli sceneggiati del genere. La fantasia non ha limiti. I personaggi della saga indossano costumi che sono una via di mezzo tra il Medio evo e il futuro. Alcuni abitanti di Mongo sono esseri umani dalla pelle gialla, altri una fusione tra uomini e animali: uomini- falco, uomini- leone, uomini- lucertola. Le armi proiettano raggi micidiali. Le città sono bombardate da ordigni distruttivi che somigliano molto alle bombe atomiche. Episodio dopo episodio, si snoda la guerra tra Ming, il dittatore, e Gordon, il liberatore venuto dallo spazio. Il terrestre può contare sulla bella donna arrivata con lui dalla terra, Dale Arden, sul principe Barin, monarca del regno delle foreste e, soprattutto, sulla setta degli uomini liberi. E questa storia di uomini liberi che si oppongono a un tiranno avrebbe dovuto impensierire il Minculpop. Ma i censori degli anni Trenta, occupati a far digerire agli italiani un regime liberticida, non si curarono degli uomini liberi di carta. Gordon alla fine ha la meglio su Ming. Una nuova era si apre per Mongo. Ma siamo già nel 1939. La guerra, quella vera, scoppia sulla terra. E Gordon, da buon americano, fa ritorno al suo mondo per battersi contro Hitler e il nazismo. Ma la saga stellare non è l’unica opera di Raymond. Il suo esordio in grande stile avviene con la collaborazione con un altro cartoonist, Liman Young, che aveva dato vita di carta in quegli anni a due giovani americani capitati in Africa, Cino e Franco. Raymond sceneggia e disegna per Young due lunghi albi che segnano uno spartiacque nella vicenda dei due ragazzi. Cambiano trame e stile. La prima avventura, "Sotto la bandiera del re della jungla", si svolge in un immaginario piccolo regno africano guidato da un bianco autoproclamatosi re, che si regge sullo sfruttamento di schiavi neri e sulle aggressioni alle carovane. Naturalmente, alla fine Cino e Franco sconfiggono re Carlos. La seconda avventura, forse la più bella, s’intitola "La misteriosa fiamma della regina Loana". Una regina che spadroneggia in un regno sotterraneo e che ha scoperto il segreto dell’eterna giovinezza, originata dalla fiamma di una misteriosa lampada. Deve essere piaciuta molto questa storia a Umberto Eco se l’autore de Il nome della rosa e de Il cimitero di Praga intitola un suo romanzo La misteriosa fiamma della regina Loana. È la vicenda di un uomo, Yambo, che, in conseguenza di un ictus, perde la memoria. La riacquista ritornando nella casa della sua infanzia e rileggendo le vecchie avventure di Cino e Franco, Gordon, Mandrake. Le altre storie di Cino e Franco, a cura di Liman Young, si svolgeranno sempre in Africa. I due saranno arruolati in uno speciale corpo di polizia coloniale, la pattuglia dell’avorio, guidata dall’energico capitano Clark.

Coetanei di Gordon sono altri due personaggi di Raymond, l’Agente segreto X9 e Jim della giungla. Il primo è l’antenato di James Bond. Stesso spirito avventuroso, stesso coraggio al servizio della legge, stessa abilità nel maneggio della pistola, ma meno avventure galanti e niente attrezzature speciali. Non ci sono “Spectre” in America negli anni Trenta, ma potenti bande di gangsters specializzate nel contrabbando di al- colici, nello sfruttamento della prostituzione, nel gioco d’azzardo. X9 è inflessibile nello sgominarle e nello scoprire, spesso, i personaggi insospettabili che tirano le fila del losco traffico. Lo sceneggiatore dei primi albi di X9 non è Raymond, è Dashiell Hammett, il padre del giallo americano. Suo il personaggio di Sam Spade, antesignano di tutti gli investigatori dei decenni successivi, suo quel "Falcone maltese" che ispirò la versione cinematografica, Il mistero del falco, magistralmente interpretata da Humphrey Bogart, da Mary Astor e da Peter Lorre.

Il secondo personaggio è Jim della giungla. Nasce come contraltare alla versione fumettistica del Tarzan di Edgar Rice Burroughs. Ma non è un semiselvaggio Jim. Vive anche lui nelle foreste – non si sa bene se africane o asiatiche – ma non si veste di pelle di leopardo. E’ un esploratore che si batte contro la malavita locale. Poi, pian piano, allarga il suo giro d’orizzonte e lo troviamo in mari e città di tutto il mondo, perfino in Cina dove sgominerà una temibile banda di spie, il "Triangolo viola".

L’ultima creazione di Raymond, nel dopoguerra, è un investigatore moderno, elegante, colto, raffinato, di bell’aspetto, Rip Kirby. Niente a che vedere con X9. Violento solo se è strettamente necessario, scapolo e corteggiato dalle donne, assistito da un solerte maggiordomo, Desmond, da X9 ha ereditato solo il fiuto poliziesco e la determinazione nella caccia ai criminali. Non perseguiterà rozzi delinquenti, ma signori del crimine. E, naturalmente, avrà sempre la meglio. Raymond seguirà Kirby fino al 1959, fino allo scontro fatale. Ma per lunghi anni molti dei suoi fumetti, con altri disegnatori e sceneggiatori, gli sopravviveranno.

Una carrellata, sia pure breve, sui fumetti americani degli anni Trenta non può non includere due personaggi ancora vivi tra i lettori: Mandrake e l’Uomo mascherato. Mandrake the magician – è questo il titolo con cui apparve per la prima volta nel 1934 – ha fatto sognare intere generazioni di ragazzi, e non soltanto di ragazzi. “Ma chi sei, Mandrake?”, si sente dire ancor oggi per prendere in giro chi racconta balle, millanta, vanta inesistenti abilità. Per tre anni, fino al 1937, Mandrake è un mago, pratica la magia bianca contro quella nera, dei criminali. E fa di tutto. Con un movimento della sua bacchetta, con un cenno della sua mano, richiama in vita un sacerdote egizio, viaggia istantaneamente da un capo all’altro del mondo, inverte la traiettoria di un pugnale lanciato contro di lui, usa ipnosi e telepatia. I corpi lievitano, i nemici si trasformano in bastoncelli di legno o in animali, le case volano. Ma ai benpensanti americani sembrò che i poteri di Mandrake, i contenuti un po’ troppo fantastici della prime storie, l’alone di mistero che le permeava, turbassero i giovani lettori. E allora il mago viene trasformato in un illusionista, sia pure di valore. Ciò che fa non è più vero, sembra vero. E le sue storie perdono di interesse, le sue avventure scadono spesso nel banale. Con tutto questo, però, Mandrake è arrivato fino ai nostri giorni. Mandrake è figlio di due padri, il disegnatore Phil Davis e lo sceneggiatore Lee Falk. Phil volle dare al mago i lineamenti e il portamento del suo collega Lee. Eleganza, faccia regolare, baffetti a fior di labbro, gli stessi che lo sceneggiatore portò, ormai bianchi, in giro per il mondo, rilasciando interviste e tenendo conferenze sul suo personaggio fino agli anni Novanta. Mandrake ha due comprimari, il servo nero Lothar e la principessa Daran. Il primo è un gigante fortissimo, vestito nelle prime avventure di pelle di leopardo. Ma poi, quando il mago viene declassato in illusionista, veste abiti civili e si scopre addirittura che è il re di una piccola tribù africana, dove si reca di tanto in tanto. Daran (o Narda) è la principessa di un piccolo regno mitteleuropeo, con un fratello scioperato che spesso metterà nei guai la sorella e lo stesso Mandrake. Nemico giurato del mago è il Cobra, di origine asiatica, dai lunghi baffi che scendono sotto il mento, il capo perennemente coperto da un cappuccio. Il Cobra è un grande esperto di magia nera e gli scontri tra i due maghi sono epocali, specialmente nella prima avventura, forse la più bella. Avversari del periodo eroico di Mandrake sono anche "Il mostro del passo Tanov" e il "Cammello d’argilla’" un ladro abilissimo nei travestimenti, tanto che a un certo punto adotta le sembianze dello stesso Mandrake.

Altro eroe dei fumetti degli anni Trenta è l’Uomo mascherato, "the phantom", nella versione originale. È sceneggiato da Lee Falk e disegnato da Ray Moore. Veste una rossa tuta aderente che gli copre anche l’intera testa, tranne gli occhi. L’uomo mascherato è figlio d’arte. Un suo antenato, ancora ragazzo, fu l’unico sopravvissuto ad un assalto di pirati alla nave dove viaggiava con i genitori. Raggiunta terra in Africa e diventato adulto, giurò sul teschio del padre che avrebbe vendicato i suoi morti e che lui e i suoi discendenti avrebbero lottato per tutta la vita contro i criminali. Di generazione in generazione, l’uomo mascherato rinnova il giuramento avito. Ma gli indigeni, e non soltanto loro, non conoscono la storia. Lo credono immortale e ad ogni apparire del teschio effigiato nel suo anello, mormorano terrorizzati: “Il fantasma”, “L’ombra che cammina”. Tutti, tranne i Bandar, la tribù di pigmei dove the phantom è considerato un re e dove trova spesso rifugio tra un’avventura e l’altra. Memorabile quella in cui l’uomo mascherato distrugge la potente organizzazione dei pirati Singh, i discendenti degli assassini dei suoi avi. Anche lui, naturalmente, ha una compagna, Diana, e la va a trovare di tanto in tanto in America, coprendo il costume rosso con un impermeabile allacciato fino al collo e un ampio cappello.

Ma il più longevo degli eroi di carta non è un uomo, è un animale antropomorfo, Topolino, letto da milioni di ragazzi in tutto il mondo. Il suo creatore è un genio, Walt Disney. Mickey Mouse, nella prima versione Mortimer Mouse, Topolino in Italia, è dovuto a un’indovinata idea di Disney, che associa carta stampata e pellicola di celluloide. Nello stesso periodo, primi anni Trenta, appaiono in America cartoni animati e albi di Topolino. Disney, nella storia del fumetto, sta alla pari con Raymond. Con una sostanziale differenza. Il secondo è un outsider, un solitario che crea le sue storie senza delegarle ad altri. Il primo un grande organizzatore, il fondatore di un impero, ma gran parte della sua fama la deve ai collaboratori che hanno riempito di contenuti il contenitore Topolino e hanno creato molti dei suoi comprimari. Topolino, il primo, quello degli anni Trenta, è il giovane americano che reagisce con forza alla crisi del 1929, il figlio del New Deal di Roosewelt, il pioniere della nuova frontiera. Con i suoi compagni, Minnie, Pippo, Orazio, Clarabella, Paperino (che nei decenni successivi gli farà una strenua concorrenza nel favore dei giovani lettori), il cane Pluto, si batte contro le ingiustizie, i favoritismi, i nemici interni ed esterni degli Stati Uniti. Un esempio per tutti: Topolino giornalista. Il suo creatore è Floyd Gottfredson, il principale collaboratore di Disney. Siamo al culmine della stagione gangsteristica americana.

Lo schermo è invaso da film quali "Piccolo Cesare", "Il nemico pubblico numero 1", "Scarface, lo sfregiato", "G Men" (in Italia "La pattuglia dei senza paura"), dove un coraggioso poliziotto, James Cagney, affronta e sconfigge i criminali. Oltreoceano la libertà di stampa è un culto. E Topolino indossa i panni di un intrepido giornalista alle prese con un bieco gangster, Gamba di legno, che alla fine avrà la peggio. Non mancano nei primi racconti disneyani moderni pirati dell’oceano, truffatori d’ogni risma, fuorilegge del West, perfino un simpatico inventore, l’Uomo nuvola, che anticipa di decenni la scoperta dell’energia atomica, ma non la consegna alle potenze internazionali perchè teme che la userebbero per farne ordigni di morte. Poi, Topolino fa la fine di Mandrake. Edulcorato, modificato nei lineamenti e negli abiti, protagonista di storielline che nulla hanno a che vedere col suo passato, prodotto anche in Italia, continua a vivere di vita banale, ma di grande diffusione.

Nel 1938 nasce Superman, nel 1939 Batman. Ha inizio la longeva epoca dei supereroi. Ma questa è un’altra storia.

IL TRIBUNALE DEL DUCE. IL TRIBUNALE SPECIALE PER LA DIFESA DELO STATO.

Così quella notte, Grandi, Ciano e il re liquidarono Mussolini. Alle 17 di sabato 24 luglio 1943 i 27 componenti del Gran Consiglio del Fascismo entrarono nel cortile di palazzo Venezia, sede della presidenza del consiglio, scrive Paolo Delgado il 25 luglio 2018 su "Il Dubbio". Alle 17 di sabato 24 luglio 1943 i 27 componenti del Gran Consiglio del Fascismo entrarono nel cortile di palazzo Venezia, sede della presidenza del consiglio. La circolare con la quale il segretario fresco di nomina del Pnf Carlo Scorza aveva convocato la riunione, su mandato di Mussolini, specificava l’abbigliamento richiesto: «Divisa fascista, sahariana nera, pantaloni corti griogioverdi». La decisione del duce di convocare il Gran consiglio, che non si riuniva dal 1939, era stata una sorpresa e aveva offerto l’occasione adatta a Dino Grandi, ex ministro degli Esteri e poi della Giustizia, ex ambasciatore a Londra, leader dell’ala più moderata del fascismo, di portare a fondo l’attacco a cui pensava già da mesi: era finalmente, con le sue parole, il «gioco grosso». Grandi aveva in tasca un odg che sulla carta contava, nei calcoli fatti alcuni giorni prima da lui e dal suo più stretto alleato, Luigi Federzoni, su 4 voti certamente a favore contro 7 contrari, con la maggioranza indecisa. Già il voto in sé era una novità assoluta: non era mai successo che il Gran consiglio dovesse contarsi. Nel 1925, nel corso del confronto con il duro Farinacci, rappresentante del fascismo più intransigente, Mussolini era stato tassativo in un telegramma drastico inviato allo stesso Farinacci: «Odg Gran Consiglio non fu votato perché i mei ordini non si votano, si accettano e si eseguiscono senza chiacchiere aut riserve perché Gran Consiglio non è parlamentino». Così era sempre stato. Le cose erano cambiate ma non era affatto sicuro che Mussolini avrebbe consentito il voto: per ogni evenienza Grandi si era portato dietro un paio di bombe a mano. I capi del fascismo scoprirono che il cortile di palazzo Venezia era occupato da reparti della milizia in assetto di guerra. I consiglieri entrarono nella sala del pappagallo e presero posto intorno al grande tavolo a forma di ferro di cavallo. Il posto del duce era al centro, coperto da un drappo rosso con le insegne del fascio. Mussolini arrivò per ultimo, in divisa di comandante della Milizia. Scorza ordinò il saluto al duce, poi due militi chiusero le porte. Grandi chiese che la riunione fosse verbalizzata da uno stenografo. Mussolini rifiutò. Arrivava così all’ultimo atto una crisi del regime che datava sin dall’autunno dell’anno precedente, quando i rovesci militari da una parte e la malattia di Mussolini, costretto sempre più spesso a casa dall’ulcera, avevano reso evidente a tutti la necessità di «fare qualcosa». Sul cosa, però, nessuno aveva le idee chiare e anche le confuse suggestioni erano spesso opposte. I capi del fascismo speravano che Mussolini passasse spontaneamente la mano dimettendosi oppure, sospettando che la sua malattia fosse più grave di quel che era in realtà, ne attendevano la morte. Il re aveva discretamente permesso all’ex governatore della Dalmazia e da febbraio sottosegretario agli Esteri Attilio Bastianini di prendere contatti con gli alleati. Il fascismo intransigente, guidato ancora da Farinacci, mirava a rafforzare l’alleanza con la Germania delegando ai tedeschi la guida dell’esercito. In febbraio Mussolini operò un maxi rimpasto governativo, sostituendo tutti i responsabili dei ministeri che non facevano capo a lui personalmente, nei quali furono però sostituiti i sottosegretari. In maggio sostituì con Scorza il segretario del Pnf. Non poteva bastare, a fronte dei tracolli militari delle forze dell’Asse e in particolare italiane. Il 13 maggio 1943, con la caduta di Tunisi, si concluse di fatto la campagna d’Africa: era evidente che il prossimo fronte sarebbe stato all’interno della fortezza europea e che l’attacco sarebbe iniziato proprio sbarcando in Italia. L’ 11 giugno fu invasa, dopo tre giorni di bombardamenti, e subito conquistata Pantelleria. Nei progetti di Mussolini avrebbe dovuto essere un bastione inespugnabile. Il 24 giugno il duce pronunciò il famoso “discorso del bagnasciuga”, nel quale di fatto annunciava l’imminente invasione. Il 10 luglio lo sbarco in Sicilia segnò la fine del regime. L’esercito italiano non fu quasi in grado di opporre resistenza. A quel punto l’unica speranza di Mussolini era convincere Hitler ad accordarsi con la Russia per la fine delle ostilità sul fronte orientale, così da concentrare le forze tedesche su quello italiano. I due dittatori si incontrarono il 19 luglio nella villa del senatore Gaggia a Belluno, in quello passato poi alla storia come “incontro di Feltre”. Il Fuhrer quasi non fece aprir bocca all’alleato, concionò per ore e Mussolini, che aveva già provato invano a convincere il nazista a concludere la pace con la l’Urss, non ebbe il coraggio di parlare, nonostante le insistenze di un furente generale Ambrosio e di Bastianini. Il vertice fu interrotto e funestato dalla notizia del primo bombardamento su Roma. Tre giorni dopo, il 22 luglio, ci fu un lungo colloquio tra Mussolini e Vittorio Emanuele III. Il racconto fornito poi dai due protagonisti differisce profondamente ma sembra certo che il duce si fosse impegnato a sganciarsi dalla Germania entro due mesi. Il re era a quel punto deciso a deporre Mussolini e la scelta per la successione era già caduta sul maresciallo Pietro Badoglio. Ma Vittorio Emanuele, che disprezzava quasi tutto il mondo che lo circondava e nutriva poche illusioni sulla possibilità di salvare la monarchia, ci teneva in modo quasi maniacale a rispettare le prerogative della monarchia costituzionale. Per agire voleva che ci fosse un passo formale che gli permettesse di farlo senza violare le regole, e quel passaggio poteva essere solo un voto del Gran consiglio.

Scorza, nel frattempo aveva scritto due lettere al duce, chiedendogli di rinunciare alla guida degli affari militari lasciando i ministeri delegati. Grandi, che tra i fascisti era forse il più intelligente e scaltro, sapeva che il Gran consiglio non avrebbe mai votato un odg che chiedesse esplicitamente la testa del duce. Scommise sullo scarso acume dei consiglieri. Annacquò l’odg. Fece della richiesta di restituire al sovrano la guida della guerra il fulcro del documento, tanto che in un primo momento persino Scorza si disse favorevole ad approvarlo. Il progetto dell’ex ambasciatore era invece dettagliato: prevedeva la destituzione del duce e subito dopo un ribaltamento delle alleanze, passando a fianco degli alleati. Lo stesso Grandi, ex ambasciatore a Londra e amico personale di Churchill, avrebbe potuto gestire personalmente la delicatissima fase. La corona era di diverso avviso. Il progetto del re era articolato su due tempi: prima la fine del regime, poi, in un secondo momento, l’armistizio. Il disegno di Farinacci, che come Scorza aveva visto in anticipo l’odg Grandi e aveva in tasca un suo odg, era diametralmente opposto. Alla vigilia del Gran consiglio erano dunque in campo tre strategie, ciascuna delle quali prevedeva l’uscita di scena di Mussolini. Il duce ne era consapevole. Lo stesso 22 luglio aveva incontrato Grandi, per la presentazione di un libro. Il colloquio doveva durare un quarto d’ora, si protrasse per oltre un’ora e un quarto nonostante ci fosse in anticamera il feldmaresciallo Kesselring. È impossibile che i due non abbiano discusso del documento Grandi. Il duce, in ogni caso, era stato avvertito delle manovre in corso dai tedeschi, nel vertice con Hitler. Perché, dunque, decise di non fare nulla? Secondo Renzo De felice, semplicemente perché non poteva permetterselo: far arrestare una parte sostanziale delle gerarchie fasciste avrebbe reso inevitabile l’intervento del re, la guerra civile, l’intervento diretto dei tedeschi. Non esistono verbali della riunione del 24 luglio e le varie ricostruzioni, tra cui quella scritta dallo stesso Grandi nel 1944, sono tutte inevitabilmente parziali. Nel 2013 è stato rintracciato dallo storico Fabio Toncelli un presunto verbale manoscritto la cui autenticità è dubbia anche se non esclusa, tanto più che coincide in molti punti con i risultati a cui era arrivato De Felice nella sua monumentale biografia di Mussolini. Fu naturalmente il duce ad aprire la riunione: difese a spada tratta l’alleanza con i tedeschi, si scagliò contro la viltà delle truppe italiane. De Bono si pronunciò in difesa dell’esercito. Farinacci accusò invece lo stato maggiore di aver sabotato l’alleanza con i tedeschi. Grandi illustrò il suo odg, Farinacci tirò fuori il proprio. Alle 23.30 Mussolini propose di aggiornare la seduta al giorno seguente. Grandi si oppose e Mussolini capitolò. L’interruzione durò solo una ventina di minuti. Alla ripresa si pronunciò Scorza, la cui autorità in quanto segretario del partito era seconda solo a quella del duce. A sorpresa si schierò con Mussolini e presentò un suo odg in questo senso. In precedenza si era detto favorevole al testo di Grandi e lui stesso aveva chiesto a Mussolini di dimettersi dai ministeri militari: evidentemente aveva capito, sia pure in ritardo, il senso della manovra di Grandi. Probabilmente fu in questa fase che, a tarda notte, il clima si fece incandescente. Forse fu tirata fuori una rivoltella. Di certo Grandi passò a De Vecchi, sotto il tavolo, una delle sue due bombe a mano. Mussolini, alla fine, mise ai voti l’odg Grandi prima di quello Scorza. Fu approvato con 19 voti a favore, tra cui quello di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini, 7 contrari e un astenuto. Farinacci aveva già lasciato la sala. E’ probabile che il duce non considerasse quel voto come davvero fatale. Si era impegnato col re ad abbandonare l’Asse entro due mesi e riteneva che il sovrano lo avrebbe appoggiato, tanto più che, ottemperando al voto del Consiglio, aveva già accettato di essere sostituito alla guida dei ministeri militari e aveva cercato per tutta la mattina Grandi, che non si era fatto trovare, per proporgli il ministero degli Esteri. Di certo quando il giorno dopo, domenica 25 luglio, incontrò Vittorio Emanuele a villa Savoia insistette nel sostenere che il voto del Gran consiglio aveva carattere solo consultivo. Il colloquio fu breve. Vittorio Emanuele annunciò a Mussolini che sarebbe stato sostituito alla guida del governo da Badoglio. Gli garantì protezione per lui e tutta la famiglia. Alle 17.20 Mussolini lasciò villa Savoia: fu arrestato sulla porta e trasportato con un’ambulanza militare nella caserma della Scuola allievi carabinieri e di lì nella caserma dell’Arma di via Legnano. La notizia della fine del fascismo fu data alla radio solo alle 22.45. «Politicamente», scrive De Felice, Mussolini morì quel giorno: «Il Mussolini della RSI non sarebbe stato che l’ombra, il fantasma del Mussolini morto il 25 luglio. Un fantasma patetico, spietato e grottesco al tempo stesso, il cui unico atto veramente umano e sincero sarebbe stato quello di non sporcare in quella sua torbida vicenda postuma il suo “figlio prediletto”, di non volere che Il Popolo d’Italia riprendesse le pubblicazioni».

Il Tribunale speciale, così Mussolini arrestava l’opposizione. E’ la prima volta che uno studioso riesce ad avere accesso alle carte. I documenti raccontano storie di persecuzione e arbitri: i giudici erano scelti tra le camicie nere e non conoscevano il diritto, scrive Orlando Trinchi il 31 Marzo 2017 su "Il Dubbio". «La storiografia ha riservato finora poco spazio alla storia del Tribunale speciale per la difesa dello Stato in quanto, nel dopoguerra, il suo archivio non era accessibile e persino Renzo De Felice – che fu sicuramente il maggiore storico del fascismo in generale e di Mussolini in particolare – gli dedicò soltanto una pagina e mezzo. Solo recentemente il materiale in questione è stato in parte inventariato e mi è stato possibile consultarlo». Nel suo ultimo saggio, Il tribunale del Duce (Mondadori), lo storico del fascismo e dell’Italia repubblicana Mimmo Franzinelli ripercorre, attraverso una ricostruzione ampia e dettagliata, le principali evoluzioni dell’operato e del retaggio dell’istituzione che, dal 1927 al 1943, fu espressione fra le più puntuali e drammatiche delle istanze repressive del regime fascista.

Franzinelli, per quale motivo venne istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato? 

«Mussolini non si fidava della magistratura ordinaria in quanto era composta da giudici che si erano formati culturalmente in un sistema liberale e che per reati politici avevano assolto alcuni antifascisti, in particolare il comunista Amedeo Bordiga e l’azionista sardo Emilio Lussu: quei processi contrariarono sia Mussolini sia il Ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Rocco che, cogliendo l’occasione dell’attentato di Anteo Zamboni avvenuto a Bologna il 31 ottobre 1926, introdussero le cosiddette Leggi fascistissime. Nacque così il nuovo Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, una via di mezzo fra un tribunale politico e uno militare.

Con quali criteri venivano scelti i membri del Tribunale speciale?

«I giudici erano delle camicie nere, la maggioranza dei quali ignorava i fondamenti del diritto. Per questo motivo, la corte venne integrata da due magistrati – uno proveniente dalla giustizia ordinaria e l’altro dalla giustizia militare – con funzioni di supporto, per istituire processi che ho dimostrato – sulla base dll’archivio del Tribunale speciale per la difesa dello Stato – essere delle farse, in quanto le relative sentenze erano decise in anticipo dal presidente del Tribunale Speciale e dallo stesso Mussolini.

Caratteristica del Tribunale speciale era anche un alto grado di spettacolarizzazione dei processi…

«Questo è l’aspetto che più mi ha intrigato, anche per via delle sue relazioni con l’attualità. Laddove il potere tende a divenire assoluto, totalitario, l’impiego della violenza da parte dei dissidenti viene largamente strumentalizzato. È quello che sta avvenendo negli ultimi sei mesi in Turchia: attentati, presunti colpi di Stato e chi è al potere esercita una reazione durissima, il cui esito ultimo è l’instaurazione della dittatura.

Per alcune personalità di spicco del Tribunale speciale, più che l’ideologia contava l’arrivismo e l’avidità…

«Ci sono aspetti che attengono alle debolezze umane, come la tendenza – che accomuna ieri e oggi – da parte di alti funzionari delle istituzioni a trarre un certo profitto personale, unendo in tal modo l’utile al dilettevole. Il Tribunale speciale usufruiva di un bilancio ragguardevole sul quale nessuno indagava – alcune spese non avevano neanche bisogno di una rendicontazione – e del quale, ovviamente, certuni se ne approfittavano. La stampa non poteva informare su questo aspetto per non far perdere credibilità al Tribunale.

Qual era il ruolo della stampa, italiana e internazionale, in relazione a tal contesto?

«Mentre all’interno del Paese la stampa (in particolare Il Popolo d’Italia) si limitava, facendo di necessità virtù, a pubblicare le veline, cioè le direttive che promuovevano l’azione di governo e del Tribunale Speciale – pubblicandole in modo totalmente acritico – all’estero, al contrario, la stampa antifascista di opposizione (La Libertà e Giustizia e Libertà, entrambi pubblicati a Parigi) enfatizzava i tratti liberticidi del suddetto Tribunale. Il fatto è che questi due settimanali, divulgati in Francia, non potevano assolutamente essere diffusi in Italia e, di conseguenza, l’opinione pubblica italiana non era ben informata su quanto stava accadendo.

Sempre fuori dall’Italia, hanno giocato un ruolo di primo piano intellettuali internazionali come Thomas Mann, Romain Rolland e altri…

«Anche questo è un aspetto piuttosto indicativo. Si assistette a un moto di solidarietà internazionale suscitato soprattutto dalla figura di un grande politico italiano, Gaetano Salvemini, lui stesso esule, che, in virtù dei propri rapporti con altri intellettuali – fra i quali quelli da lei citati – raccolse firme contro la persecuzione politica in atto.

In alcune occasioni, persino il Tribunale speciale si è dovuto arrestare. Ci può parlare del caso dell’irlandese Violet Gibson?

«Questa è una storia davvero singolare. Mentre una parte di antifascisti si arrovellava escogitando i modi più fantasiosi e improbabili per eliminare Mussolini e la polizia era ossessionata dalla possibilità di attentati e mandava informatori ovunque, l’attentatrice che più si avvicinò a raggiungere il suo proposito fu una visionaria, l’irlandese Violet Gibson. In alcuni appunti sconnessi – che furono poi sequestrati – affermava di sentire una voce divina che le ordinava di uccidere Mussolini o il Papa. Giunse davanti al Duce e sparò una revolverata, dal quale si salvò per una frazione di secondo: mentre l’attentatrice esplodeva il colpo, Mussolini si girò per rispondere al saluto di alcuni studenti, e questa rotazione del capo gli valse solo una leggera ferita al naso. Il Tribunale speciale si rese conto che non esisteva alcuna pista politica ma che si trattava solo del gesto di una folle e la fece prelevare e tradurre nel suo Paese.

Colpisce che persino misure che potrebbero sembrare positive di- ventano un’arma: mi riferisco all’amnistia e alla concessione della grazia.

«Mussolini era un dittatore molto lucido: la sua teoria era che la violenza doveva essere usata in modo molto selettivo – “chirurgico” era il termine da lui utilizzato. Di conseguenza, dopo le condanne, chi tra oppositori e dissidenti si “ravvedeva” poteva uscire dal carcere attraverso un provvedimento di grazia sovrana. Ciò veniva fatto non per generosità ma per un accorto calcolo politico. Periodiche amnistie rimettevano in libertà i condannati, ma era pur sempre una libertà che possiamo considerare provvisoria, in quanto risultavano comunque schedati e soggetti a diverse privazioni. Dovevano – per attingere alla terminologia fascista – “rigare dritto”, altrimenti si riapriva per loro la porta della prigione.

L’antifemminismo, all’epoca, era diffuso sia negli ambienti fascisti che in quelli d’opposizione…

«Non possiamo non tener conto della cultura italiana del tempo, una cultura maschilista dominata da stereotipi cattolici per i quali la donna era l’angelo del focolare. La donna che si interessava di politica risultava quindi essere una snaturata. L’atteggiamento dei giudici del Tribunale speciale risentiva di questa mentalità: da un lato si tendeva, in modo paternalistico, a essere comprensivi, giudicando le imputate influenzate dalle idee del marito o del fidanzato e quindi passibili di una condanna minore, mentre dall’altro, laddove esse si assumessero fino in fondo le responsabilità delle proprie azioni, venivano considerate donne che avevano tradito la propria missione civile e le condanne erano maggiorate.

Alla fine della guerra si assistette a un’epurazione- farsa: vi fu l’amnistia Togliatti e la magistratura repubblicana che addirittura, in alcuni casi, segnò una continuità con l’operato del Tribunale speciale…

«Il Tribunale speciale venne sciolto ma i suoi carteggi – comprese le istruttorie in corso – non furono archiviati ma passati al tribunale militare. Nel 1946 vi fu l’amnistia Togliatti: i giudici del dissolto Tribunale speciale superarono agevolmente l’epurazione mentre le condanne da esso comminate restarono in vigore, tranne nei casi in cui, dalla parte del condannato, si impugnasse la sentenza e si arrivasse al cosiddetto giudizio di revisione, che in talune occasioni confermò la condanna. In particolar modo, quelle prescritte durante la guerra vennero, dopo il 1945, interpretate retroattivamente dai giudici come valide poiché determinate non da un reato politico o antifascista ma da un reato antipatriottico.

Il Tribunale speciale era espressione del trionfo della politica sulla magistratura; oggi come ritiene essere l’equilibrio fra l’ambito giudiziario e quello politico?

«La mia impressione è che abbiamo due caste, quella politica e quella giudiziaria; su alcune cose vanno d’accordo mentre su altre vi è un’accesa rivalità. Credo che sarebbe opportuno avvicinare queste caste alla realtà quotidiana. Le farò solo un esempio: chi volesse fare uno studio sulla genealogia dei magistrati scoprirebbe, con grande sorpresa, che nella maggior parte dei casi si tratta di figli o nipoti di altri magistrati. A mio avviso, questa costituisce la negazione della democrazia: l’evidente immobilità sociale presente in Italia favorisce il radicamento delle caste.

«Quando nascono i tribunali muoiono le rivoluzioni». A cinquant’anni dal Sessantotto un viaggio nella memoria con il leader del movimento studentesco, scrive Daniele Zaccaria il 26 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Conversare con Oreste Scalzone è un’esperienza proustiana e futurista allo stesso tempo. Il flusso della memoria scorre come un torrente, ma non è sempre un corso tranquillo, dalle acque affiorano improvvisi i vortici, e il gorgo dei ricordi procede agitato da un demone errante, con lo sguardo che punta fisso l’orizzonte in una specie di eterno presente. «Sono un ipermnesiaco (lo sviluppo eccessivo della memoria n. d. r.), anche se ogni tanto, come diceva Freud e come accadeva nel Rashomon di Kurosawa, posso vivere qualche illusione di memoria». Cinquant’anni fa, quando la società occidentale venne travolta dalla rivoluzione del ‘ 68, Scalzone era un giovane leader del movimento studentesco. In questi giorni di celebrazioni museali che fanno di quell’annata formidabile una specie di Risorgimento scamiciato, Scalzone accetta di tornare sul “luogo del delitto” per abbozzare quella che lui chiama con modestia una “anti-celebrazione”, una “anti-cerimonia”. Ma prima di tornare a quei giorni di marzo ‘ 68 vuole togliersi togliersi un sassolino dalla scarpa: «Questa vicenda dei fascisti che avrebbero avuto contatti con il movimento studentesco per organizzare gli scontri di Valle Giulia è una totale fake-memory che si basa unicamente sulle dichiarazioni di Delle Chiaie Stefano, detto “caccola”. Delle Chiaie era odiato in primis dai fascisti per così dire “puri”, che lo vedevano come un uomo dei servizi segreti. Il movimento non aveva alcuna contezza di quelle dinamiche, è probabile che ci furono tentativi di infiltrazione che però non riuscirono. I fascisti erano arroccati nella facoltà di giurisprudenza e il comitato di agitazione dell’Ateneo aveva deciso semplicemente di ignorarli, come fossero un tumore morto, non li vedevamo e intorno a loro c’era una specie di cordone sanitario. Le cose cambiarono la notte tra 15 e il 16 marzo, quando delle squadre di picchiatori del Msi entrarono alla Sapienza attaccarono i loro extraparlamentari sgomberandoli manu militari i e attaccarono il picchetto del movimento a Lettere ferendo alcuni compagni».

Cosa ricordi di quella mattina?

«Arrivai all’università di buon ora, quelli del Msi si erano già asserragliati dentro giurisprudenza con gli onorevoli Almirante e Caradonna. A quel punto noi lanciammo un attacco improvvido, generoso ma improvvido, tanto che avanzando potevamo contare i feriti, dall’alto ci lanciavano di tutto, biglie di ferro, vetri, oggetti di ogni tipo, poi sento uno schianto, la panca lanciata dall’alto colpisce di sbiego una sedia con cui malamente mi coprivo…, il contraccolpo mi schiaccerà due vertebre, vengo trascinato via, mi portano in ospedale, intanto la battaglia continua. Alcuni compagni scovano una porta secondaria e riescono a entrare, sono una dozzina e si trovano soli davanti Almirante, avrebbero potuto linciarlo, ma comprensibilmente esitarono, e l’attimo passò, fortunatamente non si aveva la stoffa di linciatori… A quel punto entrò in forze la polizia. Ora, per chi sostiene che ci fosse ambiguità tra il movimento e l’estrema destra, cito il dottor Paolo Mieli e il professor Agostino Giovagnoli, cosa avremmo dovuto fare? Linciare Almirante per dimostrare il contrario? Peraltro su quei giorni continuano a essere scritte e dette enormi sciocchezze. Molte ispirate da un misero “pasolinismo” di ritorno».

Cosa intendi?

«Parlo di questa divisione artificiosa tra i poliziotti figli del proletariato mandati nelle città a prendersi le botte dagli studenti figli della borghesia. Di sicuro Paolo Mieli era un figlio della borghesia, io ero un semplice pendolare di Terni, ma di cosa parliamo? Alla Sapienza c’erano più di 70mila iscritti, l’università era già un luogo di massa e nel movimento c’era di tutto, compresi i figli dei “cafoni” del sud, i figli degli operai mandati a studiare nella grande città per diventare ingegneri. Certo, la maggioranza dei leader proveniva da famiglie istruite ma solo perché, come diceva Don Milani, possedevano le parole sufficienti per diventare i capi, nelle facoltà e nelle piazze però il protagonista era altro, no?»

Pasolini si sbagliava dunque?

«Di sicuro si sbagliava sulla composizione sociale del movimento studentesco, e dire che sarebbe bastato aver ascoltato un mezzo discorso di Franco Piperno, non dico di aver letto Marx. Si sbagliava anche nella sua mitologia poetica della classe operaia che per lui era incarnata solamente dagli operai con la tuta e le mani callose e “professionali” quando già allora la figura centrale erano gli operai di catena, in gran parte immigrati dal Sud, quelli che si raccontano in Vogliamo tutto! di Balestrini; inoltre già allora avanzava il precariato tra le giovani generazioni. Si è sbagliato anche sulla natura del Pci, in questo sono d’accordo con lo storico Giovanni De Luna, Pasolini dice ai giovani di andare verso il Pci, pensare che quel movimento potesse andare verso il Partito comunista era una sciocchezza. Neanche il segretario Luigi Longo aveva il coraggio di affermare una cosa simile. Infine si sbagliava sui poliziotti, per lui erano «dei bruti innocenti» in quanto li riteneva delle bestioline irresponsabili, «li hanno ridotti così». Anche in questo caso è una lettura semplicistica, basterebbe un po’ di piscoanalisi, penso a Willelm Reich: esiste un margine di responsabilità in chi commette atti brutali e sadici, è la psicopatologia dell’ultimo dei crociati che s’intruppa dietro Pietro l’Eremita a fare la “teppa eterna” mentre a Gerusalemme, scrivono gli storici, «il sangue arrivava alle ginocchia». La stessa teppa descritta da Varlam Salamov nei Racconti di Kolyma che in quel caso erano i cechisti, ma potremmo parlare anche delle Guardie rosse, di chi andava a evangelizzare di chi andava islamizzare, di chi andava a colonizzare».

Un rapporto mortale e mimetico quello della sinistra rivoluzionaria e libertaria con il potere e la violenza costituita...

«Prendendo spunto dal Foucault di Microfisica del potere, quando si costituisce un tribunale del popolo o del proletariato, una giustizia istituita, la mutazione è già avvenuta, la rivoluzione è già diventata controrivoluzione. Il passaggio da «potere costituente» a «costituito», come dice Agamben, è stato la tragedia di tutte le «Rivoluzioni» che hanno «preso il potere». Questo, microfisicamente, è sempre in agguato anche per noi. Nei giorni del rapimento Moro, ero convinto che il movimento dovesse “interferire” con le Brigate Rosse per scongiurare il rischio che si lasciassero sospingere ad un epilogo annunciato, atteso e come prescritto della sentenza di morte».

Più volte hai criticato la sinistra e il suo antifascismo razziale, cosa intendi?

«Mi vengono in mente (oltre a Sergio Ramelli) i fatti di Acca Larentia: se un commando di estrema sinistra apre il fuoco su un gruppetto di ragazzotti fascisti uccidendone due e poi quelli escono con il sangue agli occhi e le forze dell’ordine ne uccidono un altro, io mi sento molto a disagio come dissi all’epoca a Giorgio Bocca che mi intervistò per Repubblica. Non si possono trattare i fascisti come fossero dei “diversi”, questo è un approccio etnico, razziale al conflitto politico e l’antifascismo rischia di diventare un ulteriore strumento di regime. All’epoca fui molto criticato per questa mia posizione, in questo caso come che Guevara, che per inciso è stato anche un uomo feroce: «Dobbiamo essere implacabii nel combattimento e misericordiosi nella vittoria»».

Il “fascismo” viene continuamente evocato come fosse il sinonimo, l’equivalente generale, del male assoluto...

«Potrei rispondere che le parole sono importanti, e che l’equivalenza fascismo- male assoluto è contraddittoria perché due totalità non possono convivere. Partirei invece dal fascismo storico, il cui demiurgo è stato Benito Mussolini, una figura di un’ambiguità degna del post- moderno. Mussolini aveva certamente letto il Manifesto del partito comunista, ma ignorava il primo libro del Capitale. Di padre anarchico e di madre maestrina dalla penna rossa, diventa già da molto giovane la figura di punta della sinistra massimalista italiana come scrisse lo stesso Lenin. Un personaggio social- confuso, ma pure questa non è necessariamente una colpa, anche il mio amico Pannella poteva sembrare un Cagliostro liberal- liberista che mischiava tutto. Soreliano, socialista, prima pacifista che gridava «guerra alla guerra», poi il transito per l’interventismo democratico di Salvemini un’area in cui peraltro passarono anche Gramsci e Togliatti. Poi si riconverte ancora, approda all’irredentismo, da avventuriero sfrutta il reducismo dei “terroni di trincea” messi in conflitto con gli operai delle fabbriche del nord, visti come un’aristocrazia operaia dei Consigli che partecipava alla produzione di guerra. Da talentuoso avventuriero Mussolini riesce a mischiare tanti elementi, ruba il nome dei Fasci siciliani, si prende il nero della camicia degli anarchici, si porta dietro sindacalisti rivoluzionari come De Ambris e Corridoni, si prende il futurismo suprematista italiano ma anche russo e crea uno strano melange, quasi un kitsch post- moderno».

L’antisemitismo era connaturato al regime?

«No, Mussolini non era un antisemita. Nel ‘ 32, rispondendo a una domanda sulla questione ebraica che gli pose il biografo tedesco Emil Ludwig afferma secco: «Quella è roba vostra. Cose da biondi, da tedeschi». Le svolte successive del regime vennero prese per opportunismo e non per convinzione ideologica. Però in tutto questo kitsch infinito rimane un elemento essenziale e coerente che può definire il fascismo: la guerra alle organizzazioni operaie, non alla classe operaia in quanto tale che può essere cooptata dalle corporazioni, ma alle sue organizzazioni, dalle più riformiste alle più sovversive. Quello è il nemico, la sua ossessione persistente, come l’antisemitismo fu l’ossessione psicotica dei nazisti. Qui c’è un filo conduttore che porta dritto al complottismo, un paradigma sinistro, che può guidare anche quelli che sventolano le bandiere rosse e di qualsiasi colore. Detto tutto questo vorrei però chiarire un punto».

Prego...

«I termini contano anche in quanto autodefinizioni, “terrore” nasce come autodefinizione di Saint Just e Roberspierre, “totalitarismo” non è una parola inventata da Hannah Arendt ma da Mussolini Benito proprio per definire il suo regime».

Oggi in Europa esiste un rischio concreto che movimenti o regimi di estrema destra, razzisti e autoritari prendano il sopravvento?

«Prendiamo il caso Traini, lo pisicopatico neonazista e ultras leghista di Macerata che voleva compiere una strage di migranti, su questo punto la penso come Felix Guattari: Traini è senz’altro uno psicopatico ma se dieci piscopatici si mettono una divisa delle Sa non possono essere liquidati come dei malati di mente, diventano dei ne- mi- ci. E qui nasce un grandissimo problema. In questo sono d’accordo con l’analisi Bifo che parla di “inconscio disturbato della nazione”».

Qual è il più grande nemico della sinistra?

«È un nemico interno e si chiama complottismo, una vera e propria tragedia culturale, un pensiero demoniaco e cospirazionista che diventa responsabile di quella mutazione di cui parlavo, il passaggio dal potere costituente al potere costituito, mi piace citare Agamben e la sua riuscita formula (di risonanza spinoziana) “potenza destituente”. Per il complottismo qualsiasi gesto di rivolta, dal Camus dell’- Homme revolté al suicidio di Jan Palach è sempre un gesto manipolato, eterodiretto, ma il complottismo vive di falsità, di contro- revisionismi e generalizzazioni, non tocca mai un dente a quelli che chiama manipolatori, è inoffensivo per il potere ma letale per chi combatte il potere».

Il destino degli esseri umani è la ribellione?

«Non esercitare l’inferenza per la specie umana la pone al di sotto delle altre specie, la nostra specie si sporge fuori dall’essere per inseguire la conoscenza, l’arte, la politica. A differenza dei girini e dei puledri noi nasciamo prematuri, iniziamo a camminare a un anno e mezzo mentre il puledro cammina già poche ore dopo la nascita. Il leone è un predatore e caccia la gazzella che in quanto preda tenta di fuggire, nessuno di loro è felice o infelice. Noi invece, per realizzarci, abbiamo bisogno della protesi della conoscenza. L’albero del peccato in tal senso è proprio una bellissima metafora del nostro destino».

E il futuro?

«Il futuro non esiste, il futuro è la narrazione dei dominanti».

Il tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime (1927-1943). Libro di Mimmo Franzinelli.

Descrizione. Il 25 novembre 1926 una "legge fascistissima" istituisce il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, che iniziò a funzionare nel febbraio 1927. Mussolini, che diffida della magistratura ordinaria, impone una Corte speciale per i reati politici, con giudici reclutati tra militari e squadristi. Il tribunale inizialmente si occuperà degli attentatori del Duce, dei dissidenti politici, e naturalmente di comunisti, socialisti, anarchici. Ma presto le sue competenze si espandono, sino a occuparsi di religione, di spionaggio e - specie durante la Seconda guerra mondiale - persino di reati comuni. Il diritto alla difesa è assai limitato. Le sentenze non sono impugnabili. Inoltre, come dimostrano i carteggi tra Mussolini e i vertici del Tsds, le sentenze vengono decise sulla base di valutazioni politiche, prima ancora che si riunisca la corte. Il tribunale viene sciolto il 29 luglio 1943 ma ricostituito a fine anno nell'ambito della Rsi, per punire i gerarchi traditori e per reprimere il partigianato. Grazie al materiale giudiziario conservato all'Archivio centrale dello Stato, Franzinelli ricostruisce la complessa storia dell'istituzione repressiva creata dal Duce nonché le biografie dei giudici-squadristi, illustra i metodi utilizzati contro gli oppositori, ripercorre le tappe di una giustizia politica perseguita con metodi militari per stabilizzare la dittatura.

Descrizione. «Rammento le notti passate a Regina Coeli in attesa del processo. Tutte le sere prima di addormentarmi dicevo tra me: quando il presidente avrà terminato di leggere la sentenza e avrà pronunciato la condanna io devo gridare "Viva il socialismo e abbasso il fascismo".» - Sandro Pertini.

Novant'anni fa, il 1° febbraio 1927, s'insediava a Roma, nell'Aula IV del Palazzo di Giustizia, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, un organo composto da magistrati e giudici in camicia nera reclutati tra gli squadristi. Mussolini, dopo il discorso del 3 gennaio 1925 e l'introduzione delle «leggi fascistissime» - che avevano soppresso la libertà di stampa, di associazione e il diritto allo sciopero -, mostrava il suo vero volto, quello di un dittatore disposto ormai a tutto. Per i nemici del regime, ma anche per i semplici cittadini che osavano criticarlo, non c'era più spazio per il dissenso. Anzi, non c'era più spazio per la libertà. Agli imputati, condotti di fronte alla corte e rinchiusi in un gabbione, non rimaneva che attendere il verdetto: d'altra parte, come potevano difendersi se l'istruttoria era segreta? Fino al luglio 1943 la magistratura, sottoposta agli ordini del duce, processerà migliaia di oppositori politici (tra loro, Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Altiero Spinelli, Sandro Pertini, solo per citarne alcuni) e persone comuni, accusate di spionaggio, contrabbando valutario, mercato nero... Le condanne a morte, mediante fucilazione alla schiena, saranno un'ottantina. Eppure, la storia del Tribunale speciale dello Stato è rimasta sostanzialmente sconosciuta. Poco studiata. Persino l'imponente biografia mussoliniana di Renzo De Felice, punto di riferimento irrinunciabile per chiunque si occupi del Ventennio, gli dedica meno di due pagine. Il libro di Mimmo Franzinelli, basato su fonti d'archivio sinora inesplorate, riempie questo «vuoto», e lo fa documentando attività e funzioni del Tribunale, svelando l'intreccio tra persecutori e perseguitati, raccontando i segreti, assai poco commendevoli, della magistratura di regime: gli scandali su cui fu imposto il silenzio, le ruberie dei giudici, la corruzione degli avvocati, le sentenze palesemente truccate, la terribile situazione in cui vennero a trovarsi le donne, vittime di una giustizia ferocemente maschilista (il solo essere figlia, sorella o moglie di un sovversivo comportava l'arresto, senza riscontri oggettivi di reato). Ma Franzinelli dedica pagine efficaci, ricche di dettagli e informazioni, anche ad altri aspetti, non meno inquietanti, dell'intera vicenda, come il potenziamento del Tribunale speciale durante la seconda guerra mondiale e, soprattutto, il colpo di spugna che dopo il 1945 «perdonerà» quasi tutti i responsabili. In nome della continuità dello Stato, si doveva archiviare (e dimenticare) un passato troppo scomodo.

Il tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime (1927-1945) di Mimmo Franzinelli edito da Mondadori, 2017. Il tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime (1927-1945). Recensione di Unilibro: Il libro di Mimmo Franzinelli, basato su fonti d'archivio sinora inesplorate, riempie questo «vuoto», e lo fa documentando attività e funzioni del Tribunale, svelando l'intreccio tra persecutori e perseguitati, raccontando i segreti, assai poco commendevoli, della magistratura di regime: gli scandali su cui fu imposto il silenzio, le ruberie dei giudici, la corruzione degli avvocati, le sentenze palesemente truccate, la terribile situazione in cui vennero a trovarsi le donne, vittime di una giustizia ferocemente maschilista (il solo essere figlia, sorella o moglie di un sovversivo comportava l'arresto, senza riscontri oggettivi di reato). Ma Franzinelli dedica pagine efficaci, ricche di dettagli e informazioni, anche ad altri aspetti, non meno inquietanti, dell'intera vicenda, come il potenziamento del Tribunale speciale durante la seconda guerra mondiale e, soprattutto, il colpo di spugna che dopo il 1945 «perdonerà» quasi tutti i responsabili. In nome della continuità dello Stato, si doveva archiviare (e dimenticare) un passato troppo scomodo - Novant'anni fa, il 1° febbraio 1927, s'insediava a Roma, nell'Aula IV del Palazzo di Giustizia, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, un organo composto da magistrati e giudici in camicia nera reclutati tra gli squadristi. Mussolini, dopo il discorso del 3 gennaio 1925 e l'introduzione delle «leggi fascistissime» – che avevano soppresso la libertà di stampa, di associazione e il diritto allo sciopero –, mostrava il suo vero volto, quello di un dittatore disposto ormai a tutto. Per i nemici del regime, ma anche per i semplici cittadini che osavano criticarlo, non c'era più spazio per il dissenso. Anzi, non c'era più spazio per la libertà. Agli imputati, condotti di fronte alla corte e rinchiusi in un gabbione, non rimaneva che attendere il verdetto: d'altra parte, come potevano difendersi se l'istruttoria era segreta? Fino al luglio 1943 la magistratura, sottoposta agli ordini del duce, processerà migliaia di oppositori politici (tra loro, Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Altiero Spinelli, Sandro Pertini, solo per citarne alcuni) e persone comuni, accusate di spionaggio, contrabbando valutario, mercato nero… Le condanne a morte, mediante fucilazione alla schiena, saranno un'ottantina. Eppure, la storia del Tribunale speciale dello Stato è rimasta sostanzialmente sconosciuta. Poco studiata. Persino l'imponente biografia mussoliniana di Renzo De Felice, punto di riferimento irrinunciabile per chiunque si occupi del Ventennio, gli dedica meno di due pagine. 

Conversazione con Mimmo Franzinelli, autore del libro "Il tribunale del Duce" (Mondadori), di Massimo Bordin e Massimiliano Coccia - Radio Radicale - Scheda a cura di Delfina Steri.

Novant'anni fa, il 1° febbraio 1927, s'insediava a Roma, nell'Aula IV del Palazzo di Giustizia, il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, un organo composto da magistrati e giudici in camicia nera reclutati tra gli squadristi. Mussolini, dopo il discorso del 3 gennaio 1925 e l'introduzione delle «leggi fascistissime» che avevano soppresso la libertà di stampa, di associazione e il diritto allo sciopero, mostrava il suo vero volto, quello di un dittatore disposto ormai a tutto. Per i nemici del regime, ma anche per i semplici cittadini che osavano criticarlo, non c'era più spazio per il dissenso. Anzi, non c'era più spazio per la libertà. Agli imputati, condotti di fronte alla corte e rinchiusi in un gabbione, non rimaneva che attendere il verdetto: d'altra parte, come potevano difendersi se l'istruttoria era segreta? Fino al luglio 1943 la magistratura, sottoposta agli ordini del duce, processerà migliaia di oppositori politici (tra loro, Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Altiero Spinelli, Sandro Pertini, solo per citarne alcuni) e persone comuni, accusate di spionaggio, contrabbando valutario, mercato nero. Le condanne a morte, mediante fucilazione alla schiena, saranno un'ottantina. Eppure, la storia del Tribunale speciale dello Stato è rimasta sostanzialmente sconosciuta. Poco studiata. Persino l'imponente biografia mussoliniana di Renzo De Felice, punto di riferimento irrinunciabile per chiunque si occupi del Ventennio, gli dedica meno di due pagine. Il libro di Mimmo Franzinelli, basato su fonti d'archivio sinora inesplorate, riempie questo «vuoto», e lo fa documentando attività e funzioni del Tribunale, svelando l'intreccio tra persecutori e perseguitati, raccontando i segreti, assai poco commendevoli, della magistratura di regime: gli scandali su cui fu imposto il silenzio, le ruberie dei giudici, la corruzione degli avvocati, le sentenze palesemente truccate, la terribile situazione in cui vennero a trovarsi le donne, vittime di una giustizia ferocemente maschilista (il solo essere figlia, sorella o moglie di un sovversivo comportava l'arresto, senza riscontri oggettivi di reato). Ma Franzinelli dedica pagine efficaci, ricche di dettagli e informazioni, anche ad altri aspetti, non meno inquietanti, dell'intera vicenda, come il potenziamento del Tribunale speciale durante la seconda guerra mondiale e, soprattutto, il colpo di spugna che dopo il 1945 «perdonerà» quasi tutti i responsabili. In nome della continuità dello Stato, si doveva archiviare (e dimenticare) un passato troppo scomodo.

Tribunale speciale per la difesa dello Stato (1926-1943). Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato fu un organo speciale del regime fascista italiano, competente a giudicare i reati contro la sicurezza dello Stato e del regime. Durante il regime fascista il Tribunale speciale ebbe il potere di diffidare, ammonire e condannare gli imputati politici ritenuti pericolosi per l'ordine pubblico e la sicurezza del regime stesso. Con la stessa legge di costituzione del tribunale venne reintrodotta la pena di morte per alcuni reati a carattere politico. Il Tribunale speciale operava secondo le norme del Codice Penale per l'Esercito sulla procedura penale in tempo di guerra. Contro le sue sentenze non era possibile alcun ricorso o altra impugnazione. Fu istituito con la legge 25 novembre 1926, n. 2008 (Provvedimenti per la difesa dello Stato), una delle cosiddette leggi fascistissime, e attuato con regio decreto 12 dicembre 1926, n. 2062. La sua prima sessione ebbe luogo il 1º febbraio 1927 alle ore 10 presso la sesta sezione del Tribunale penale di Roma. Il Tribunale speciale venne sciolto dal regio decreto legge 29 luglio 1943 n. 668, adottato nella prima riunione del governo Badoglio I. Il 3 dicembre 1943 nella Repubblica Sociale Italiana venne ricostituito un tribunale omonimo con decreto legislativo del duce n. 794, con sede a Mantova e poi a Padova, quindi a Bergamo, rimanendo operativo fino alla Liberazione.

Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato era costituito da: un presidente, scelto tra gli ufficiali generali del Regio Esercito, della Regia Marina, della Regia Aeronautica e della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, in servizio attivo permanente, in congedo o fuori quadro; cinque giudici, scelti tra gli ufficiali della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, aventi grado di console, in servizio attivo permanente, in congedo o fuori quadro; un relatore, senza diritto di voto, scelto tra il personale della giustizia militare. La costituzione del tribunale era ordinata dal Ministro per la guerra, che ne determinava la composizione, la sede e il comando presso cui era stabilito. Dal 1933 al 1940 nessuna condanna a morte fu pronunciata per reati politici. Ma, dopo questa data, e poi con il decreto legge 30 novembre 1942, n. 1365, la pena di morte venne estesa a taluni reati relativi ad attività illegali in tempo di guerra.

Un bilancio quantitativo dell'attività svolta dal Tribunale è fornito dai dati qui sotto riportati.

Sentenze emesse: 978 per reati politici; 746 di rinvio ad altro Tribunale per reati politici; 12 su ricorsi contro il Tribunale speciale coloniale; 324 per spionaggio; 258 per reati annonari, valutari, frodi, ecc. (commessi durante gli anni di guerra); 146 per omicidio, rapina, violenza ecc. (commessi durante gli anni di guerra); 293 di rinvio ad altro Tribunale per sabotaggio; 7 per reati diversi; 16 archiviazioni, commutazioni, ecc.

Processati: 5.619 imputati; 4.596 condannati; 988 assolti; 5.497 uomini; 122 donne; 697 minori; 3.898 operai e artigiani; 546 contadini; 221 professionisti; 238 commercianti; 296 impiegati; 164 studenti; 36 casalinghe; 219 altri e non specificati

Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato: braccio giudiziario del fascismo, scrive (dalla sinistra politica) l'ANPPIA Nazionale il 14.11.2014. Convegno di studi e di memoria, con l'Alto Patronato del Presidente della Repubblica, promosso da ANPPIA, Corte Suprema Cassazione, e Ordine Avvocati di Roma. 25 Novembre ore 15 presso il Palazzo di Giustizia, Piazza Cavour, Roma - Aula del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati. Ottantotto anni or sono, con la legge 25 novem-bre 1926, n. 2008 (intitolata “Provvedimenti per la difesa dello Stato”), il regime fascista, avvalendosi di un Parlamento asservito, istituiva il così denominato Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, in palese violazione dell’art. 71 dello Statuto, che faceva divieto della creazione di tribunali straordinari. Con la stessa legge vennero create nuove figure criminose dirette alla repressione del dissenso politico, e si reintrodusse la pena di morte ‒ già abolita in via generale dal codice Zanardelli del 1889 ‒ per alcuni reati, tra cui quello di attentato agli esponenti della Casa reale e al Capo del Go-verno, il quale veniva così parificato ai primi. La normativa penale sarà poi trasfusa nel codice Rocco del 1930, e, come osservato da Giuliano Vassalli, influenzò anche la scelta dell’anticipazione della soglia di punibilità del delitto tentato, nella configurazione tuttora vigente. La legge, che, come mostrano i resoconti parlamentari, traeva espliciti argomenti dai recenti plurimi attentati al duce, veniva a coronamento di una serie di atti normativi di stampo autoritario varati tra il 1925 e il 1926, le così dette “leggi fascistissime” (controlli sulla stampa, limitazione della libertà sindacale, potere prefettizio di scioglimento di associazioni e partiti politici, sequestro e confisca dei beni degli esuli politici, potenziamento del confino di polizia, abolizione del sistema elettivo nelle amministrazioni locali). Costituito non da magistrati dell’ordine giudiziario, ma da fedelissimi al regime, per lo più appartenenti alla Milizia, il Tribunale, che dalla camera di consiglio comunicava direttamente con il duce attraverso una linea telefonica esclusiva, seguiva la procedura penale militare del tempo di guerra, e, in un contesto caratterizzato da limitatissime garanzie difensive e da un clima di intimidazione degli imputati e dei difensori, pronunciava sentenze inoppugnabili. Nel corso di diciassette anni di vita, dalla sua costituzione alla caduta della dittatura il 25 luglio 1943, il Tribunale fascista pronunciò circa 4.600 sentenze di condanna, di cui 42 alla pena di morte, effettivamente eseguita in 31 casi. Furono condannati a durissime pene valorosi esponenti della opposizione al fascismo quali, tra gli altri, Antonio Gramsci, Umberto Terracini, Sandro Pertini, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli, Leone Ginzburg. Il Tribunale fu poi ricostituito nel territorio del nord controllato dai nazifascisti, affiancato nella sua funzione repressiva da una moltitudine di tribunali di guerra, emanazione di vari organi militari. Il convegno, promosso dalla Corte di cassazione d’intesa con l’ANPPIA, si propone di rivisitare, con alto valore simbolico, nella stessa aula dove si tenevano le udienze del Tribunale Speciale, attualmente in uso al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, le aberranti lesioni di fondamentali principi di libertà derivanti dalla scelta del fascismo di regolare i conti con il dissenso politico attraverso un suo orpello giudiziario, che usurpa-va il nome di Tribunale; al cospetto del quale la gran parte degli imputati, tratti inderogabilmente a giudizio in stato di carcerazione qualunque fos-se il reato loro addebitato, mantennero con dignità la testimonianza di fedeltà ai valori della democrazia per la quale soltanto venivano inquisiti e condannati. Due di essi, Garibaldo Benifei e Ljubomir Susic, rievocheranno in quest’aula la persecuzione che molti decenni or sono dovettero subire dalla violenza della repressione fascista per il loro coraggioso impegno civile. Ad essi, in particolare, e a tutti i condannati dal Tribunale Speciale, è idealmente dedicata questa iniziativa.

Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, scrive “Il Duce” (dalla destra politica).   La legge 25 novembre 1926 n. 2008, avrebbe dovuto avere carattere temporaneo e restare in vigore per soli cinque anni. Buona parte delle sue norme furono però trasfuse nel nuovo Codice Penale, destinato ad entrare in vigore il 1° luglio 1931; ma la logica stessa dello Stato di polizia portò, come giustamente ha fatto notare Alberto Aquarone, alla conservazione del Tribunale Speciale. Infatti su proposta di Cristini, presidente del Tribunale Speciale, il Gran Consiglio votò il seguente ordine del giorno: "Il Gran Consiglio del Fascismo, udita la relazione del presidente del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, ne prende atto e delibera che alla data del primo luglio p.v. i realti politici contenuti nel nuovo Codice penale, passino alla competenza del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato la cui durata sarà prolungata con apposito provvedimento legislativo". Il sei maggio successivo il governo presentò alla Camera il relativo disegno di legge che prolungava fino al 31 dicembre 1936 l'attività del Tribunale Speciale. La prima sentenza del Tribunale Speciale, che normalmente teneva udienze nell'Aula IV del palazzo di Giustizia di Roma (la cui camera di consiglio era collegata per mezzo di una linea telefonica diretta con palazzo Venezia), porta la data del 1° febbraio 1927 (Pres. Sanna, Rel. Buccafurri) e riguarda due operai, tali Piva Giuseppe e D'Oria Cataldo, imputati di apologia di attentato e offese a Mussolini per essersi rammaricati in un cantiere di Roma, per il fallimento dell'attentato di Lucetti. Entrambi gli imputati vennero riconosciuti colpevoli e condannati a nove mesi di reclusione. L'ultima sentenza del Tribunale Speciale è la n.187 del 22 luglio 1943 (Pres. Griffini, Rel. Masala) che riguarda il caso di un tale Boni Pietro di Viadana in provincia di Mantova, operaio in tempo di pace e caporale in tempo di guerra. Il Boni era accusato di denigrazione della guerra e di offese al Duce per aver detto in una caserma di Vicenza: "La guerra, grazie a Dio, l'abbiamo perduta, ora se trovo il Duce gli cavo gli occhi e l'uccido". Riconosciuto colpevole, l'imputato venne condannato a cinque anni di reclusione. Ma tre giorni dopo cadeva il regime. In questo arco di tempo che dal 1927 va al 1943 diversi furono i presidenti, come pure i giudici, che si susseguirono nella composizione del Tribunale Speciale. Se all'inizio i suoi presidenti furono generali dell'esercito, ben presto essi vennero sostituiti dai luogotenenti generali della Milizia, i quali davano al regime una maggiore garanzia, mentre i membri del collegio giudicante non erano scelti tra uomini di legge ma tra i consoli fascisti e i più noti squadristi. Il presidente Cristini con relazione dell'8 maggio 1934 diretta a Mussolini suggerì l'opportunità di modificare sostanzialmente le attribuzioni del Tribunale, nel senso di togliergli ogni carattere di eccezionalità politica e di sostituirlo, per i più gravi reati sia politici che comuni, alle Corti di Assise, che, secondo Cristini, non avevano dato buona prova e manifestavano numerosi e gravi sintomi di insufficienza funzionale: "Contro le forme più gravi e dannose di delinquenza sia comune che politica" scrisse in quell'occasione il presidente del Tribunazione Speciale "occorre che lo Stato opponga una difesa diretta ed immediata, un vero fronte unico. (...) Tale compito non può rimanere più a lungo affidato alle Corti di Assise, ad organi cioè di comune composizione...". Si suggeriva, quindi, di deferire la competenza fino allora riservata alle Corti di Assise ad una Suprema Corte di giustizia, che non si sarebbe, però, dovuta creare dal nulla, ma identificare nel già funzionante Tribunale Speciale. "Nulla vieta" concludeva Crisitni " che a questa Suprema Corte di giustizia venga deferita anche la competenza dell'unico articolo (576) rimasto alle Corti di Assise. Che anzi, un tale aumento potrebbe essere bilanciato da una riduzione di quella quantitativa: tutti i minori reati politici potrebbero benissimo per le mutate condizioni del Paese, ritornare a far parte del comune calderone della delinquenza normale ed essere impacchettati e riconsegnati alla magistratura ordinaria". La proposta, comunque, cadde nel vuoto. Dei 978 processi del Tribunale Speciale ben 131 furono celebrati contro sloveni e croati. Di 47 condanne a morte, pronunciate da questo tribunale fascista, ben 36 comprendevano sloveni e croati, della quali 26 anche eseguite. Furono fucilati i croati Gortan, Milos, Blecic e Grahalic e gli sloveni Bidovec, Marusic, Valencic, Tomazic, Kos, Vadnal, Ivancic, Bobek, Vinci, Cekada, Hrescak, Rust, Srebot, Frank, Kaluza, Bele, Dolgan, Grzina, Hrovatin, Rojc, Vicic e Zefrin. Delle condanne capitali una fu particolarmente ripugnante sotto il profilo giuridico, in quanto l'imputato, Angelo Sbardellotto, aveva avuto soltanto l'intenzione di assassinare Mussolini, senza poi neppure tentare di mettere concretamente in atto il suo proposito. La serie delle condanne a morte fu aperta, nell'ottobre 1928, con quella di Michele Della Maggiora, accusato dell'uccisione di due militi fascisti. Seguì, nel 1929, quella del nazionalista sloveno Gortan. Con quattro condanne a morte si concluse nel settembre 1930, il processo svoltosi a Trieste, contro un gruppo di irredentisti slavi, ritenuti colpevoli di atti di terrorismo. Seguirono ancora nel 1931, la condanna a morte dell'anarchico Michele Schirru, colpevole di attentato alla vita di Mussolini e nel 1932 quelle del già menzionato Sbardellotto e di Domenico Bovone, imputato di attentati dinamitardi. Un posto a parte hanno le sentenze a morte (trentatrè, di cui ventidue eseguite) pronunciate in tempo di guerra per fatti direttamente connessi con quest'ultima: in prima linea, azioni partigiane ad opera di partigiani slavi combattenti nella zona del confine orientale. Su 5619 imputati deferiti al Tribunale Speciale, quest'ultimo ne condanno 4596 e ne assolse 998 (negli altri casi si trattò di imputati successivamente stralciati o deceduti). In complesso, il Tribunale irrogò 27735 anni di carcere, ossia una media di circa 5 anni per imputato.

Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato. La proporzione tra il reato commesso e la pena comminata: un argomento da sempre oggetto di discussione Emma Moriconi il 3.12. 2015 su “Il Giornale D’Italia" (dalla destra politica). Per comprendere la ratio della sua istituzione occorre riflettere sulla "esigenza assoluta di custodire gelosamente intatta la sicurezza dello Stato e la tranquillità degli animi". "Una terza riforma infine è l'istituzione di un tribunale speciale per giudicare reati contro la sicurezza dello Stato. Chi appena rifletta sulla esigenza assoluta di custodire gelosamente intatta, non solo la sicurezza dello Stato, ma anche la tranquillità degli animi in un momento storico come l'attuale, non può a meno di intendere come sia perfettamente giustificata l'istituzione di questo tribunale speciale". È quanto scrive Balbino Giuliano proseguendo nel ragionamento avviato nei giorni scorsi e che si avvia ormai verso la conclusione. In queste poche righe Giuliano spiega precisamente la ratio che sottostava alla scelta della istituzione del tribunale speciale. Poi aggiunge: "Gli ordinamenti delle amministrazioni che dipendono dagli altri Ministeri rimasero press'a poco intatti: l'amministrazione finanziaria continuò ad avere alla periferia le sue Intendenze ed i suoi uffici tecnici, il Ministero dei lavori pubblici i suoi uffici del Genio Civile, il Ministero delle Comunicazioni i suoi ordinamenti postali, ferroviari e marittimi. E così pure rimasero intatti i fondamentali ordinamenti dell'Esercito e della Marina. Invece ha portato una radicale riforma nell'ordinamento generale della difesa l'istituzione del Commissariato dell'Aeronautica fin dal 1923, e poi del Ministero con una propria assoluta autonomia di organi, di attività e di bilancio". Il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato era stato istituito nel 1926 e, tra l'altro, reintroduceva di fatto la pena di morte per gli attentati contro il Re e contro il Capo del Fascismo. A questo proposito naturalmente per decenni abbiamo letto molto, è bastato un articolo di una legge per far affermare con sempre maggiore forza che il Regime fascista fu violento e repressivo. Ora, dal momento che - come il lettore ormai sa bene - siamo abituati a cercare i fatti oltre le parole, occorre sottolineare il fatto che mai nessuno venne condannato a morte per aver attentato alla vita di Benito Mussolini. Le vicende sono note, basterà rievocare il caso di Violet Gibson, che esplose alcuni colpi di pistola contro la persona del Duce ferendolo al naso e che fu rimandata in patria dove visse liberamente pur essendo stata dichiarata instabile mentalmente. Insomma, se questo è un Regime "violento e repressivo"...  I documenti sono chiari: la prima sentenza del Tribunale Speciale risale al 1927 e condanna a nove mesi di reclusione due operai, Giuseppe Piva e Cataldo D'Oria, imputati di aver offeso Mussolini per aver deplorato il mancato successo dell'attentato messo in atto da Lucetti. Certo, le sanzioni per chi compiva attività politica contraria al Regime erano severe, nove mesi di reclusione non sono pochi e con gli occhi di oggi la pena ci sembrerà sproporzionata rispetto al fatto commesso. E d'altra parte questo rientra nelle caratteristiche di uno Stato autoritario. Autoritario, non totalitario, si badi bene. Del resto c'è anche da dire che l'epoca odierna non fornisce certo buoni esempi di pene proporzionate ai reati commessi, soprattutto quando pariamo di reati contro la persona, e di esempi sono piene le pagine dei giornali ormai da molti anni a questa parte. In sintesi, i condannati a morte dal Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato furono, nei suoi diciassette anni di attività (dal 1926 al 1943) furono una quarantina, di cui oltre venti per attività terroristiche. E ricordiamoci che in questo periodo 1926-1943 abbiamo due anni di guerra. Nella maggior parte dei casi (parliamo di quasi seimila processi, di cui un migliaio conclusisi con l'assoluzione degli imputati) il Tribunale condannò alla reclusione. Questi sono i numeri, e sebbene la pena di morte sia quanto di più lontano si possa immaginare nella società odierna per noi uomini del terzo millennio, pensiamo che stiamo parlando di quasi un secolo fa, e pensiamo anche che oggi la pena di morte è ancora praticata in moltissimi Paesi: in Arabia Saudita si uccide attraverso impiccagione, lapidazione e decapitazione per omicidio, stupro, rapina a mano armata, traffico di droga, stregoneria, adulterio, sodomia, omosessualità, sabotaggio e apostasia; in Cina abbiamo il più alto dato - secondo Amnesty International - di esecuzioni; in casa nostra, dopo essere stata abolita nel 1944, venne ripristinata nel 1946 e poi definitivamente estromessa nel 1948 ma salvo i casi previsti dal codice penale militare di guerra, dal quale scomparve solo nel 1994; negli Stati Uniti, noti "esportatori di democrazia" essa è ancora in vigore - in molti Stati - ed è perfettamente legale, tra l'altro, guarda caso per reati contro la sicurezza nazionale... gli Stati nei quali la pena di morte è stata bandita, hanno continuato ad uccidere fino agli anni '70 inoltrati del 1900. Questo forse ci stupisce meno del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, il che è tutto dire.

"Se nessuno può desiderare la guerra per se stessa, tutti debbono essere pronti ad accettarla virilmente quando il diritto ed il dovere della nazione lo impongono". Entrando a far parte delle Forze Armate, conservò i caratteri che derivavano dalla sua tradizione di arditismo volontario, ma si accostò alla disciplina militare. Ma procediamo: molte delle norme contenute nella legge del '26 vennero inserite nel nuovo Codice Penale del 1931. Originariamente a comporre il Tribunale erano chiamati generali dell'esercito, con il tempo ad essi si sostituirono i generali della Milizia. L'organizzazione dell'Esercito - spiega quindi Giuliano - comprende anzitutto un Comando del Corpo di Stato Maggiore col compito di tenere sempre preparati i piani ed i mezzi di azione per qualsiasi caso di guerra, poi quattro Comandi designati d'Armata, cioè quattro generali che debbono essere sempre pronti ad assumere il comando delle quattro grandi armate in cui verrebbe diviso l'Esercito in caso di una guerra che ne impegnasse la totalità. Di qui discende la gerarchia dei comandi effettivi corrispondenti ad una graduale suddivisione dei corpi secondo il tradizionale ordinamento dell'esercito. Ricordiamo che il Re ha il diretto comando di tutte le forze militari dovunque esse operino in terra, in mare o in cielo: ma giova aggiungere che il governo fascista ha avuto sempre presente il problema di dare a tutte le forze armate un maggior spirito unitario ed un effettivo coordinamento anche nel periodo di pace, pur lasciando la dovuta autonomia ai rispettivi Stati Maggiori e ai rispettivi Ministeri". Fatto il punto, sebbene sommariamente, su questo settore, passa a riferire della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale: "Quando il Fascismo giunse al potere - scrive - il Partito doveva perdere necessariamente il primo carattere squadrista dei giorni della battaglia e diventare un'aristocrazia della nazione a cui era affidato il compito di guidare l'opera di sviluppo dell'idea nelle istituzioni e nella coltura dell'età fascista. Le squadre d'azione che avevano combattuto per la vittoria del Fascismo ed erano più atte a viverne la verità militarmente, si trasformarono in uno speciale corpo che si chiamò la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale". In realtà, lo squadrismo non andava troppo a genio a Mussolini. La Milizia fu un mezzo per il Duce per mettere in riga quella parte della popolazione che aveva individuato nello squadrismo una valvola di sfogo degli istinti rivoluzionari che troppo spesso stavano deviando in senso violento e disordinato. Occorreva disciplinare una bella fetta di popolo, inquadrarla in qualche maniera, responsabilizzarla. La Milizia fu questo, fu cioè un modo per reindirizzare quelle energie che andavano disperdendosi in comportamenti non troppo consoni alla volontà di Mussolini in qualcosa che divenisse utile per la Nazione oltre che per loro stesse. "Essa - continua Giuliano - entrando a far parte delle Forze Armate, conservava quei suoi speciali caratteri che derivavano dalla sua tradizione di arditismo volontario, ma giorno per giorno si è venuta accostando alla rigida forma di disciplina propria dell'ortodossa tradizione dell'Esercito. Questo corpo - dice ancora - viene alimentato anch'esso, come il Partito, dalle reclute della bella giovinezza che l'Opera Balilla ogni anno getta nella vita italiana, come avremo ancora occasione di dire: e rappresenta oggi quasi un momento intermedio di più profonda fusione fra l'ordinamento tradizionale dell'Esercito e l'anima della Nazione risorta oggi, attraverso la rivoluzione fascista, alla piena coscienza del suo valore e del suo destino". Ancora un passaggio di Balbino Giuliano merita di essere riportato: "Le altre forze armate - scrive - assolvono il loro compito preparandosi ai cimenti della guerra: poiché, se nessuno può desiderare la guerra per se stessa, tutti debbono essere pronti ad accettarla virilmente quando il diritto ed il dovere della nazione lo impongono. La Milizia - aggiunge - appartiene anch'essa alle Forze Armate ed a misura che si fonde colle altre armi, si accosta anch'essa sempre di più al fondamentale compito comune, cioè la preparazione della guerra, portandovi oltre che il sentimento dell'assoluto dovere, anche la spontaneità dei liberi impulsi di amore. Per intanto, però, la Milizia si assume i compiti militari di pace. Ormai in ogni angolo dell'Italia c'è un gruppo di Milizia adibita ai più diversi servizi, sui treni e per le strade, nelle cerimonie gaie e nei momenti più gravi, e sempre pronta in ogni occasione facile o difficile a difendere con sentimento del dovere e con entusiasmo di fede questo nuovo ordine che la nazione ha conquistato a se stessa". Emma Moriconi

Giudici fascisti, la fiera dell’impunità. I paradossi del Tribunale speciale. Il saggio di Mimmo Franzinelli (in uscita per Mondadori) è dedicato a uno degli strumenti repressivi adottati dal regime di Mussolini per colpire gli oppositori politici, scrive Paolo Mieli il 29 gennaio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Una foto scattata il 16 giugno 1932 al processo del Tribunale speciale contro l’anarchico Angelo Sbardellotto che aveva cercato di attentare alla vita del Duce. Il Tribunale speciale del fascismo entrò in funzione il 1 febbraio 1927 e — su segnalazione dell’Organizzazione volontaria per la repressione dell’antifascismo, nota come Ovra — continuò ad «amministrare la giustizia» contro gli oppositori del regime fino al 25 luglio del 1943, allorché Benito Mussolini fu deposto (anche se qualcosa di sostanzialmente identico sopravvisse poi nella Repubblica sociale italiana). Di quel mostro giuridico si occupa Mimmo Franzinelli in Il tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime (1927-1945), in procinto di essere pubblicato da Mondadori. Non si può dire che il Tribunale di Mussolini — osserva Franzinelli — sia stato spietato: nel primo decennio condannò 3.112 imputati contro 7.581 prosciolti; pronunciò settantasei condanne a morte delle quali ne saranno eseguite cinquantotto, in gran parte contro i cosiddetti «terroristi slavi», come già ben documentato da Marina Cattaruzza nel saggio L’Italia e il confine orientale (il Mulino) e da Marta Verginella nel libro Il confine degli altri. La questione giuliana e la memoria slovena (Donzelli).

Franzinelli è rimasto colpito dalla rapidità con la quale, dopo la fine della guerra, tutti i giudici che avevano fatto parte di questo organismo furono amnistiati (a tempo di record, in pochissimi giorni, il sostituto procuratore generale Michele Isgrò, il procuratore generale Carlo Fallace e persino il presidente del Tribunale speciale della Rsi, Mario Griffini). Ciro Verdiani ex capo della zona Ovra di Zagabria, che di antifascisti al Tribunale speciale della Dalmazia ne aveva consegnati moltissimi, nell’Italia liberata fu addirittura nominato questore della Roma liberata. Vincenzo Cerosino — pubblico accusatore nel processo di Verona contro Galeazzo Ciano e gli altri «congiurati» del luglio 1943, nonché artefice del cosiddetto «processo degli ammiragli» che aveva portato alla fucilazione di Inigo Campioni e Luigi Mascherpa, promotori della resistenza antitedesca nell’Egeo — è prosciolto a soli quattro giorni dalla promulgazione della legge di amnistia voluta da Palmiro Togliatti. E qui si approfondisce quel che già scrissero Romano Canosa in Storia dell’epurazione in Italia (Baldini&Castoldi) e Hans Woller in I conti con il fascismo (il Mulino) sulla mancanza di pur minimi criteri di severità nell’Italia repubblicana quando giunse il momento di fare i conti con coloro che si erano macchiati di gravi compromissioni con il regime mussoliniano.

I condannati dal Tribunale speciale, invece, nell’Italia postfascista furono trattati, scrive Franzinelli, «come dei sovversivi». Sovversivi che avevano meritato le pene loro inflitte. L’impiegato milanese Giovanni Valvassori, al quale erano stati comminati diciotto anni di carcere per espatrio clandestino e per non essersi poi piegato al cospetto dei giudici, dovrà attendere il 2 marzo del 1975 prima di essere «amnistiato con rinunzia dell’Erario al recupero delle spese di giustizia». Il meccanico romano Remo La Valle, condannato anche lui a diciotto anni per aver «rivelato ai francesi notizie sul motore Alfa 136», fu graziato nel 1944 ai tempi della Rsi, per essere poi sorprendentemente riarrestato nell’Italia repubblicana (maggio del 1949), perché doveva ancora scontare dieci mesi di reclusione. Qualche imputato nel frattempo era morto: è il caso di Agnello Giannetti, condannato a cinque anni perché ascoltava Radio Londra; la vedova chiese la revisione della condanna ma la Corte d’appello di Roma (nel 1961) e la Cassazione (nel 1962) respinsero l’istanza. Il napoletano Giuseppe Martucci condannato a sei anni nel 1942 per aver pronunciato in una bottiglieria di Genova «parole disfattiste» («Speriamo che la guerra finisca presto», era la frase esatta) si vide respingere, nel 1951, la richiesta di essere amnistiato perché, sostenne il Tribunale militare territoriale di Roma, «non risulta che il reato sia stato commesso per lottare contro il fascismo».

Primo presidente del Tribunale speciale sarà nel 1927 il generale di corpo d’armata Carlo Sanna, che nel 1919 era stato mandato dal governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando a fronteggiare le manifestazioni operaie torinesi. Devoto a Mussolini, ma digiuno di studi giuridici, Sanna resterà in carica fino all’estate del 1928, quando morirà di infarto. Gli succede il giovanissimo Guido Cristini (ha solo trentatré anni). Durante la guerra è stato tenente dei bersaglieri, ha ottenuto una medaglia d’argento al valor militare e ha avuto tra i suoi soldati il caporale Benito Mussolini. Il nuovo incarico gli consente di entrare, di diritto, nel Gran consiglio del fascismo «dove è tra i gerarchi più loquaci». Il successo, scrive Franzinelli, «gli dà alla testa, si sente un pezzo grosso e fa il gradasso esigendo ossequi servili». È molto avido. Oltre a potenziare lo studio legale che ha a Roma, fa incetta di incarichi un po’ dappertutto. Particolarmente in Abruzzo (è nato in un paese vicino a Chieti, Guardiagrele). Mussolini è costretto a intervenire: il 12 ottobre 1929 gli manda uno stringato biglietto: «Data la vostra carica di presidente del Tribunale speciale, ritengo opportuno che rassegniate le dimissioni da quella di presidente Cassa di Risparmio degli Abruzzi». Lui esegue, ma poi, assieme ai suoi, continua ad accumulare fortune. Il prefetto di Chieti, pur con toni cauti, avverte la segreteria del Duce che i famigliari di Cristini «hanno alcune volte assunto atteggiamenti che andavano moderati, come io ora insistentemente vado facendo, con esito, sembrami, buono». Nel 1930 un negoziante di mobili chiede alla segreteria del capo del governo di imporre a Cristini di pagare gli arredi commissionati per una sua villa.

Ma cosa ha di speciale Cristini da potersi consentire una tale improntitudine? Al processo contro Cesare Rossi, coinvolto nell’uccisione di Giacomo Matteotti, ha evitato, minacciandolo di morte, che l’imputato accennasse al ruolo di Mussolini in quel delitto. Con queste parole, a fine processo, si rivolge al Duce: «Nonostante tutto il Tribunale non lo ha condannato alla fucilazione perché in udienza Cesare Rossi non è riuscito neanche a guadagnarsi la pena di morte». Il Tribunale, prosegue Cristini, «ha preferito eliminarlo silenziosamente con trenta anni di reclusione e risparmiare al Regime alcune pallottole di moschetto».

Mussolini gli è grato. Cristini come presidente del Tribunale speciale ottiene uno spazioso appartamento sul lungotevere Michelangelo e un altrettanto lussuoso appartamento sul lungotevere Sanzio. La presidenza del Consiglio, del resto, fornisce a tutti i giudici del Tribunale speciale un’automobile, la tessera di libera circolazione ferroviaria e paga a ognuno di loro ragguardevoli indennità di carica. Il famelico Cristini riceve settemila lire al mese, ma pretende l’equiparazione ai presidenti della Corte dei conti, della Cassazione e del Consiglio di Stato. Assedia con lettere e telefonate la segreteria di Mussolini affinché si dia un colpo di acceleratore riguardo alla «nota questione finanziaria che mi interessa nella mia qualità di presidente del Tribunale speciale». E il capo del fascismo lo accontenta facendogli assegnare, per il 1929, un bonus di cinquantamila lire. Una cifra spropositata per un lavoro assai poco faticoso.

Un informatore, Francesco Gargano, riferisce di una conversazione con il giudice Cersosimo che parla di «sperpero di denaro» e di come le sedute d’istruttoria non durassero più di mezz’ora dal momento che consistevano solo nella lettura, «tra l’indifferenza generale», di una «relazione già scritta in precedenza». «Se il Duce sapesse» che cosa è davvero il Tribunale Speciale, «ci caccerebbe tutti via», avrebbe ammesso Cersosimo.

Un rapporto dell’informatore Luigi Filippi, ex tenente colonnello dei carabinieri, parla di indennità di trasferta e di trasporto percepite indebitamente, grazie a false dichiarazioni di servizio. Tutto il personale del Tribunale, prosegue Filippi, «fa il proprio comodo». Non esiste «alcun controllo per l’orario d’ufficio». Gli ufficiali della Milizia che lavorano per il Tribunale «partono in licenza con due o tre giorni di anticipo e fanno ritorno quando vogliono… Nelle ore di lavoro vanno in giro da un ufficio all’altro per parlare, criticare e fare pettegolezzi». Filippi cita il capitano dei carabinieri Giorgi, che non va mai in ufficio e fa quello che gli pare, ricevendo a domicilio «ogni ben di Dio, financo quarti di vitelline da latte» da lui fatte «espressamente macellare», per poi donarne parte anche a Cristini. Però fuori d’Italia l’appartenenza al Tribunale speciale doveva essere considerata poco onorevole. In merito a un documento da rilasciare a Filippo Maria Gauttieri, il capo della polizia prega il questore di Roma di «evitare nel passaporto qualsiasi relativa alla carica di vice presidente del Tribunale speciale».

Qualche volta i giudici e lo stesso presidente eccedono. È il caso ancora una volta di Cristini che, dopo la soddisfacente (per Mussolini) gestione del «caso Rossi», prova a ripetere l’impresa. L’opportunità gliela offre il processo postumo ai complici di Anteo Zamboni, il quindicenne bolognese linciato nel 1926 per aver attentato alla vita del Duce. Confiderà poi al gerarca Leandro Arpinati di essere riuscito a far condannare i familiari di Zamboni, pur estranei all’affaire, per compiacere Mussolini. Arpinati ne parla con lo stesso Mussolini e questi reagisce immediatamente mandando a Cristini un altro sintetico biglietto: «Invito V.E. a rassegnare le dimissioni dalla carica di Presidente del Tribunale speciale». È il 27 novembre del 1932. Cristini chiede udienza a Mussolini, gli viene negata. Viene retrocesso a vicepresidente della Corporazione vetro e ceramica. Accetta. Ma continuerà a fare affari. Indisturbato.

Il suo prestigioso incarico nel frattempo passa al conte livornese Antonino Tringali Casanuova, medaglia di bronzo al valore nella Grande guerra, partecipe alla marcia su Roma, poi per un decennio, dal 1922 al 1932, sindaco (e poi podestà) di Castagneto Carducci. Abilissimo, Tringali Casanuova si giova dell’ottimo rapporto con il conterraneo Guido Buffarini Guidi, potentissimo sottosegretario al ministero dell’Interno. Sarà, Tringali, sempre al fianco di Mussolini. Anche — come ben racconta Gianfranco Bianchi in 25 luglio crollo di un regime (Mursia) — nella seduta del Gran consiglio del 1943 durante la quale prenderà più volte la parola per difendere il Duce. Che lo nominerà poi ministro di Grazia e giustizia nella Repubblica sociale (incarico che, però, Tringali terrà per poche settimane dal momento che, a fine ottobre 1943, sarà stroncato da un infarto).

Così, alla fine della guerra, Cristini sarà l’unico sopravvissuto dei tre presidenti in carica tra il 1927 e il 1943. Che ne sarà di lui? Dopo essere stato latitante per due anni, riuscirà anche lui a beneficiare del provvedimento di amnistia. Fausto Gullo — il comunista che aveva preso il posto di Togliatti alla guida del ministero di Giustizia — se ne disse scandalizzato e sostenne che a personaggi come Cristini la legge non avrebbe dovuto essere applicata in modo così liberale. Il socialista Pietro Nenni (come si evince dal suo Tempo di guerra fredda. Diari 1943-1956 edito da Sugarco) avrebbe addirittura voluto porre in stato di accusa la Cassazione che aveva deciso a favore di Cristini. Ma non ci fu niente da fare. A questo punto Cristini ebbe l’idea di riprendere ad esercitare la professione forense e chiese una nuova iscrizione all’ordine degli avvocati. Ma dal Consiglio nazionale forense gli giunse un secco no. L’impulso a tale diniego giunse dal presidente di quel Consiglio: Piero Calamandrei. E fu questo finché visse (1979), scrive Franzinelli, l’unico castigo che ebbe per essere stato presidente del Tribunale speciale di Mussolini.

Giudici di parte che eseguivano le direttive impartire dall’alto. Esce domani in libreria il nuovo saggio di Mimmo Franzinelli Il tribunale del Duce. La giustizia fascista e le sue vittime (1927-1945), edito da Mondadori (pagine 312, e 22). L’autore si è distinto negli anni per i suoi lavori di storia contemporanea. Condotti sulla base di vaste ricerche d’archivio. Dell’opera repressiva svolta sotto il regime fascista dal Tribunale speciale contro gli irredentisti slavi della Venezia Giulia si occupano Marina Cattaruzza nel saggio L’Italia e il confine orientale 1866-2006 (il Mulino, 2007) e Marta Verginella nel libro Il confine degli altri (Donzelli, 2008). La questione delle sanzioni assai blande adottate nel dopoguerra contro i fascisti è stata affrontata da Romano Canosa nel volume Storia dell’epurazione in Italia (Baldini & Castoldi, 1999) e dallo storico tedesco Hans Woller nel saggio I conti con il fascismo (il Mulino, 1997). 

Il Tribunale speciale, così Mussolini arrestava l’opposizione, scrive Orlando Trinchi il 31 Marzo 2017 su "Il Dubbio". E’ la prima volta che uno studioso riesce ad avere accesso alle carte. I documenti raccontano storie di persecuzione e arbitri: i giudici erano scelti tra le camicie nere e non conoscevano il diritto. «La storiografia ha riservato finora poco spazio alla storia del Tribunale speciale per la difesa dello Stato in quanto, nel dopoguerra, il suo archivio non era accessibile e persino Renzo De Felice – che fu sicuramente il maggiore storico del fascismo in generale e di Mussolini in particolare – gli dedicò soltanto una pagina e mezzo. Solo recentemente il materiale in questione è stato in parte inventariato e mi è stato possibile consultarlo». Nel suo ultimo saggio, Il tribunale del Duce (Mondadori), lo storico del fascismo e dell’Italia repubblicana Mimmo Franzinelli ripercorre, attraverso una ricostruzione ampia e dettagliata, le principali evoluzioni dell’operato e del retaggio dell’istituzione che, dal 1927 al 1943, fu espressione fra le più puntuali e drammatiche delle istanze repressive del regime fascista».

Franzinelli, per quale motivo venne istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato?

«Mussolini non si fidava della ma- gistratura ordinaria in quanto era composta da giudici che si erano formati culturalmente in un sistema liberale e che per reati politici avevano assolto alcuni antifascisti, in particolare il comunista Amedeo Bordiga e l’azionista sardo Emilio Lussu: quei processi contrariarono sia Mussolini sia il Ministro di Grazia e Giustizia Alfredo Rocco che, cogliendo l’occasione dell’attentato di Anteo Zamboni avvenuto a Bologna il 31 ottobre 1926, introdussero le cosiddette Leggi fascistissime. Nacque così il nuovo Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, una via di mezzo fra un tribunale politico e uno militare».

Con quali criteri venivano scelti i membri del Tribunale speciale?

«I giudici erano delle camicie nere, la maggioranza dei quali ignorava i fondamenti del diritto. Per questo motivo, la corte venne integrata da due magistrati – uno proveniente dalla giustizia ordinaria e l’altro dalla giustizia militare – con funzioni di supporto, per istituire processi che ho dimostrato – sulla base dll’archivio del Tribunale speciale per la difesa dello Stato – essere delle farse, in quanto le relative sentenze erano decise in anticipo dal presidente del Tribunale Speciale e dallo stesso Mussolini».

Caratteristica del Tribunale speciale era anche un alto grado di spettacolarizzazione dei processi…

«Questo è l’aspetto che più mi ha intrigato, anche per via delle sue relazioni con l’attualità. Laddove il potere tende a divenire assoluto, totalitario, l’impiego della violenza da parte dei dissidenti viene largamente strumentalizzato. È quello che sta avvenendo negli ultimi sei mesi in Turchia: attentati, presunti colpi di Stato e chi è al potere esercita una reazione durissima, il cui esito ultimo è l’instaurazione della dittatura».

Per alcune personalità di spicco del Tribunale speciale, più che l’ideologia contava l’arrivismo e l’avidità…

«Ci sono aspetti che attengono alle debolezze umane, come la tendenza – che accomuna ieri e oggi – da parte di alti funzionari delle istituzioni a trarre un certo profitto personale, unendo in tal modo l’utile al dilettevole. Il Tribunale speciale usufruiva di un bilancio ragguardevole sul quale nessuno indagava – alcune spese non avevano neanche bisogno di una rendicontazione – e del quale, ovviamente, certuni se ne approfittavano. La stampa non poteva informare su questo aspetto per non far perdere credibilità al Tribunale».

Qual era il ruolo della stampa, italiana e internazionale, in relazione a tal contesto?

«Mentre all’interno del Paese la stampa ( in particolare Il Popolo d’Italia) si limitava, facendo di necessità virtù, a pubblicare le veline, cioè le direttive che promuovevano l’azione di governo e del Tribunale Speciale – pubblicandole in modo totalmente acritico – all’estero, al contrario, la stampa antifascista di opposizione ( La Libertà e Giustizia e Libertà, entrambi pubblicati a Parigi) enfatizzava i tratti liberticidi del suddetto Tribunale. Il fatto è che questi due settimanali, divulgati in Francia, non potevano assolutamente essere diffusi in Italia e, di conseguenza, l’opinione pubblica italiana non era ben informata su quanto stava accadendo».

Sempre fuori dall’Italia, hanno giocato un ruolo di primo piano intellettuali internazionali come Thomas Mann, Romain Rolland e altri…

«Anche questo è un aspetto piuttosto indicativo. Si assistette a un moto di solidarietà internazionale suscitato soprattutto dalla figura di un grande politico italiano, Gaetano Salvemini, lui stesso esule, che, in virtù dei propri rapporti con altri intellettuali – fra i quali quelli da lei citati – raccolse firme contro la persecuzione politica in atto».

In alcune occasioni, persino il Tribunale speciale si è dovuto arrestare. Ci può parlare del caso dell’irlandese Violet Gibson?

«Questa è una storia davvero singolare. Mentre una parte di antifascisti si arrovellava escogitando i modi più fantasiosi e improbabili per eliminare Mussolini e la polizia era ossessionata dalla possibilità di attentati e mandava informatori ovunque, l’attentatrice che più si avvicinò a raggiungere il suo proposito fu una visionaria, l’irlandese Violet Gibson. In alcuni appunti sconnessi – che furono poi sequestrati – affermava di sentire una voce divina che le ordinava di uccidere Mussolini o il Papa. Giunse davanti al Duce e sparò una revolverata, dal quale si salvò per una frazione di secondo: mentre l’attentatrice esplodeva il colpo, Mussolini si girò per rispondere al saluto di alcuni studenti, e questa rotazione del capo gli valse solo una leggera ferita al naso. Il Tribunale speciale si rese conto che non esisteva alcuna pista politica ma che si trattava solo del gesto di una folle e la fece prelevare e tradurre nel suo Paese».

Colpisce che persino misure che potrebbero sembrare positive diventano un’arma: mi riferisco all’amnistia e alla concessione della grazia.

«Mussolini era un dittatore molto lucido: la sua teoria era che la violenza doveva essere usata in modo molto selettivo – “chirurgico” era il termine da lui utilizzato. Di conseguenza, dopo le condanne, chi tra oppositori e dissidenti si “ravvedeva” poteva uscire dal carcere attraverso un provvedimento di grazia sovrana. Ciò veniva fatto non per generosità ma per un accorto calcolo politico. Periodiche amnistie rimettevano in libertà i condannati, ma era pur sempre una libertà che possiamo considerare provvisoria, in quanto risultavano comunque schedati e soggetti a diverse privazioni. Dovevano – per attingere alla terminologia fascista – “rigare dritto”, altrimenti si riapriva per loro la porta della prigione».

L’antifemminismo, all’epoca, era diffuso sia negli ambienti fascisti che in quelli d’opposizione…

«Non possiamo non tener conto della cultura italiana del tempo, una cultura maschilista dominata da stereotipi cattolici per i quali la donna era l’angelo del focolare. La donna che si interessava di politica risultava quindi essere una snaturata. L’atteggiamento dei giudici del Tribunale speciale risentiva di questa mentalità: da un lato si tendeva, in modo paternalistico, a essere comprensivi, giudicando le imputate influenzate dalle idee del marito o del fidanzato e quindi passibili di una condanna minore, mentre dall’altro, laddove esse si assumessero fino in fondo le responsabilità delle proprie azioni, venivano considerate donne che avevano tradito la propria missione civile e le condanne erano maggiorate».

Alla fine della guerra si assistette a un’epurazione- farsa: vi fu l’amnistia Togliatti e la magistratura repubblicana che addirittura, in alcuni casi, segnò una continuità con l’operato del Tribunale speciale…

«Il Tribunale speciale venne sciolto ma i suoi carteggi – comprese le istruttorie in corso – non furono archiviati ma passati al tribunale militare. Nel 1946 vi fu l’amnistia Togliatti: i giudici del dissolto Tribunale speciale superarono agevolmente l’epurazione mentre le condanne da esso comminate restarono in vigore, tranne nei casi in cui, dalla parte del condannato, si impugnasse la sentenza e si arrivasse al cosiddetto giudizio di revisione, che in talune occasioni confermò la condanna. In particolar modo, quelle prescritte durante la guerra vennero, dopo il 1945, interpretate retroattivamente dai giudici come valide poiché determinate non da un reato politico o antifascista ma da un reato antipatriottico».

Il Tribunale speciale era espressione del trionfo della politica sulla magistratura; oggi come ritiene essere l’equilibrio fra l’ambito giudiziario e quello politico?

«La mia impressione è che abbiamo due caste, quella politica e quella giudiziaria; su alcune cose vanno d’accordo mentre su altre vi è un’accesa rivalità. Credo che sarebbe opportuno avvicinare queste caste alla realtà quotidiana. Le farò solo un esempio: chi volesse fare uno studio sulla genealogia dei magistrati scoprirebbe, con grande sorpresa, che nella maggior parte dei casi si tratta di figli o nipoti di altri magistrati. A mio avviso, questa costituisce la negazione della democrazia: l’evidente immobilità sociale presente in Italia favorisce il radicamento delle caste».

LE LEGGI RAZZIALI FASCISTE.

Leggi razziali fasciste. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Le leggi razziali fasciste sono un insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi (leggi, ordinanze, circolari, ecc.) applicati in Italia fra il 1938 e il primo quinquennio degli anni quaranta, inizialmente dal regime fascista e poi dalla Repubblica Sociale Italiana. Esse furono rivolte prevalentemente – ma non solo – contro le persone di religione ebraica. Furono lette per la prima volta il 18 settembre 1938 a Trieste da Benito Mussolini, dal balcone del Municipio in Piazza Unità d'Italia in occasione di una sua visita alla città. Furono abrogate con i regi decreti-legge nn. 25 e 26 del 20 gennaio 1944, emessi durante il Regno del Sud.

Per la legislazione fascista era ebreo chi era nato da: genitori entrambi ebrei, da un ebreo e da una straniera, da una madre ebrea in condizioni di paternità ignota oppure chi, pur avendo un genitore ariano, professasse la religione ebraica. Sugli ebrei venne emanata una serie di leggi discriminatorie. Il fascismo – attraverso l'emanazione della Legge nº 1024 del 13 luglio 1939-XVII, Norme integrative del Regio decreto–legge 17 novembre 1938-XVI, n.1728, sulla difesa della razza italiana – ammise tuttavia la figura del cosiddetto ebreo arianizzato. Con la L. 1024/1939-XVII regolò infatti la «facoltà del Ministro per l'interno di dichiarare, su conforme parere della Commissione, la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile». Si trattò in sostanza del conferimento di un potere molto vasto alla Commissione per le discriminazioni: questa infatti poteva formulare un parere motivato, senza poterne rilasciare «copia a chicchessia e per nessuna ragione», sulla base del quale il Ministero dell'interno avrebbe a sua volta emanato un Decreto di dichiarazione della razza. Nell'autunno 1938, nel quadro di una grande azione razzista già tempo prima, il governo Mussolini varò la "normativa antiebraica sui beni e sul lavoro", ovvero la spoliazione dei beni mobili e immobili degli ebrei residenti in Italia. Agli ebrei arianizzati – cioè a quegli ebrei che in virtù della Legge Legge nº 1024 del 13 luglio 1939-XVII ricevettero per Decreto la dichiarazione di appartenenza alla razza ariana – le leggi razziali furono applicate con alcune deroghe e limitazioni. La legislazione antisemita comprendeva: il divieto di matrimonio tra italiani ed ebrei, il divieto per gli ebrei di avere alle proprie dipendenze domestici di razza ariana, il divieto per tutte le pubbliche amministrazioni e per le società private di carattere pubblicistico – come banche e assicurazioni – di avere alle proprie dipendenze ebrei, il divieto di trasferirsi in Italia a ebrei stranieri, la revoca della cittadinanza italiana concessa a ebrei stranieri in data posteriore al 1919, il divieto di svolgere la professione di notaio e di giornalista e forti limitazioni per tutte le cosiddette professioni intellettuali, il divieto di iscrizione dei ragazzi ebrei – che non fossero convertiti al cattolicesimo e che non vivessero in zone in cui i ragazzi ebrei erano troppo pochi per istituire scuole ebraiche – nelle scuole pubbliche, il divieto per le scuole medie di assumere come libri di testo opere alla cui redazione avesse partecipato in qualche modo un ebreo. Fu inoltre disposta la creazione di scuole – a cura delle comunità ebraiche – specifiche per ragazzi ebrei. Gli insegnanti ebrei avrebbero potuto lavorare solo in quelle scuole. Infine vi fu una serie di limitazioni da cui erano esclusi i cosiddetti arianizzati: il divieto di svolgere il servizio militare, esercitare il ruolo di tutore di minori, essere titolari di aziende dichiarate di interesse per la difesa nazionale, essere proprietari di terreni o di fabbricati urbani al di sopra di un certo valore. Per tutti fu disposta l'annotazione dello stato di razza ebraica nei registri dello stato civile.

Nel primo numero della rivista La difesa della razza si sosteneva quanto segue: «È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti. Tutta l'opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l'indirizzo arianonordico.» (La difesa della razza, anno I, numero 1, 5 agosto 1938, p. 2). Il supposto fondamento e la presunta premessa teorica alle leggi razziali furono alcune considerazioni che avrebbero mirato a stabilire l'esistenza della razza italiana e la sua appartenenza ad un immaginario gruppo delle cosiddette razze ariane. A tali considerazioni si cercò di dare un fondamento scientifico, benché quest'ultimo sia poi risultato inconsistente.

Dopo l'entrata in vigore nel 1937 del Regio decreto legge n. 880 – che vietava il madamismo (l'acquisto di una concubina) e il matrimonio degli italiani coi «sudditi delle colonie africane» – altre leggi di spiccata indole razzista vennero promulgate dal parlamento italiano. Un documento fondamentale, che ebbe un ruolo non indifferente nella promulgazione delle cosiddette leggi razziali è il Manifesto degli scienziati razzisti (noto anche come Manifesto della Razza), pubblicato una prima volta in forma anonima sul Giornale d'Italia il 15 luglio 1938 con il titolo Il Fascismo e i problemi della razza, e poi ripubblicato sul numero uno della rivista La difesa della razza il 5 agosto 1938 firmato da 10 scienziati. Il 25 luglio 1938 – dopo un incontro tra i dieci redattori della tesi, il ministro della cultura popolare Dino Alfieri e il segretario del PNF Achille Starace – la segreteria politica del PNF comunica il testo completo del lavoro, corredato dall'elenco dei firmatari e degli aderenti. Tra le successive adesioni al manifesto spiccano quelle di personaggi illustri – o destinati a diventare tali. Nonostante alcuni sostengano che Mussolini non fosse antisemita (tra l'altro una delle sue amanti, Margherita Sarfatti, era ebrea), Galeazzo Ciano riporta nel suo diario per la giornata del 14 luglio 1938: «Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del Giornale d'Italia di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l'egida del Ministero della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l'ha quasi completamente redatto lui».

Al Regio decreto legge del 5 settembre 1938 – che fissava «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» – e a quello del 7 settembre – che fissava «Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri» – fa seguito (6 ottobre) una «dichiarazione sulla razza» emessa dal Gran Consiglio del Fascismo. Tale dichiarazione viene successivamente adottata dallo Stato sempre con un Regio decreto legge che porta la data del 17 novembre dello stesso anno. Sono dunque molti i decreti che, tra l'estate e l'autunno del 1938, sono firmati da Benito Mussolini in qualità di capo del Governo e poi promulgati da Vittorio Emanuele III. Tutti tendenti a legittimare una visione razzista della cosiddetta questione ebraica. L'insieme di questi decreti e dei documenti sopra citati costituisce appunto l'intero corpus delle leggi razziali. Alcuni degli scienziati e intellettuali ebrei colpiti dal provvedimento del 5 settembre (riguardante in special modo il mondo della scuola e dell'insegnamento) emigrano negli Stati Uniti. Alcuni saranno in grado di continuare nell'insegnamento perché chiamati da Papa Pio XI nelle sedi di studi ecclesiastiche, anche in segno di sfida e disaccordo col regime fascista sulla questione razziale come aveva manifestato in più occasioni: «Ma io mi vergogno... mi vergogno di essere italiano. E lei padre [il gesuita Tacchi-Venturi], lo dica pure a Mussolini! Io non come papa, ma come italiano mi vergogno! Il popolo italiano è diventato un branco di pecore stupide. Io parlerò, non avrò paura. Mi preme il Concordato, ma più mi preme la coscienza.» Potranno quindi proseguire a professare la propria docenza presso gli istituti vaticani esimi accademici come Tullio Levi-Civita e Vito Volterra, nominati membri della Accademia pontificia delle scienze guidata da padre Agostino Gemelli. Politica, questa, continuata anche dal successore di papa Ratti, Pio XII, e testimoniata perfino dal giornale della comunità ebraica del Missouri, il Kansas City Jewish Chronicle, che nell'edizione del 29 marzo 1940, commentando l'assunzione di diversi professori ebrei nell'amministrazione della Santa Sede (tra questi il geografo Roberto Almagià, impiegato presso la Biblioteca vaticana) scriveva che "quanto il Papa stava facendo dimostrava la sua disapprovazione dei decreti antisemiti". L'insegnamento nelle scuole riservate agli ebrei tuttavia non viene proibito. Tra le dimissioni illustri da istituzioni scientifiche italiane ci sono quelle di Albert Einstein, allora membro dell'Accademia dei Lincei.

Il 5 agosto 1938 sulla rivista La difesa della razza viene pubblicato il seguente manifesto: «Il ministro segretario del partito ha ricevuto, il 26 luglio XVI, un gruppo di studiosi fascisti, docenti nelle università italiane, che hanno, sotto l'egida del Ministero della Cultura Popolare, redatto o aderito, alle proposizioni che fissano le basi del razzismo fascista.

LE RAZZE UMANE ESISTONO. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse, quasi sempre imponenti di milioni di uomini simili per caratteri fisici e psicologici che furono ereditati e che continuano a ereditarsi. Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti.

ESISTONO GRANDI RAZZE E PICCOLE RAZZE. Non bisogna soltanto ammettere che esistano i gruppi sistematici maggiori, che comunemente sono chiamati razze e che sono individualizzati solo da alcuni caratteri, ma bisogna anche ammettere che esistano gruppi sistematici minori (come per es. i nordici, i mediterranei, i dinarici, ecc.) individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni. Questi gruppi costituiscono dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità evidente.

IL CONCETTO DI RAZZA È CONCETTO PURAMENTE BIOLOGICO. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose. Però alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza. Se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa. Sono state proporzioni diverse di razze differenti, che da tempo molto antico costituiscono i diversi popoli, sia che una razza abbia il dominio assoluto sulle altre, sia che tutte risultino fuse armonicamente, sia, infine, che persistano ancora inassimilate una alle altre le diverse razze.

LA POPOLAZIONE DELL'ITALIA ATTUALE È NELLA MAGGIORANZA DI ORIGINE ARIANA E LA SUA CIVILTÀ ARIANA. Questa popolazione a civiltà ariana abita da diversi millenni la nostra penisola; ben poco è rimasto della civiltà delle genti preariane. L'origine degli Italiani attuali parte essenzialmente da elementi di quelle stesse razze che costituiscono e costituirono il tessuto perennemente vivo dell'Europa.

È UNA LEGGENDA L'APPORTO DI MASSE INGENTI DI UOMINI IN TEMPI STORICI. Dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione. Da ciò deriva che, mentre per altre nazioni europee la composizione razziale è variata notevolmente in tempi anche moderni, per l'Italia, nelle sue grandi linee, la composizione razziale di oggi è la stessa di quella che era mille anni fa: i quarantaquattro milioni d'Italiani di oggi rimontano quindi nella assoluta maggioranza a famiglie che abitano l'Italia da almeno un millennio.

ESISTE ORMAI UNA PURA "RAZZA ITALIANA". Questo enunciato non è basato sulla confusione del concetto biologico di razza con il concetto storico–linguistico di popolo e di nazione ma sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l'Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana.

È TEMPO CHE GLI ITALIANI SI PROCLAMINO FRANCAMENTE RAZZISTI. Tutta l'opera che finora ha fatto il Regime in Italia è in fondo del razzismo. Frequentissimo è stato sempre nei discorsi del Capo il richiamo ai concetti di razza. La questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose. La concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l'indirizzo ariano–nordico. Questo non vuole dire però introdurre in Italia le teorie del razzismo tedesco come sono o affermare che gli Italiani e gli Scandinavi sono la stessa cosa. Ma vuole soltanto additare agli Italiani un modello fisico e soprattutto psicologico di razza umana che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra–europee, questo vuol dire elevare l'italiano a un ideale di superiore coscienza di sé stesso e di maggiore responsabilità.

È NECESSARIO FARE UNA NETTA DISTINZIONE FRA I MEDITERRANEI D'EUROPA (OCCIDENTALI) DA UNA PARTE E GLI ORIENTALI E GLI AFRICANI DALL'ALTRA. Sono perciò da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l'origine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche assolutamente inammissibili.

GLI EBREI NON APPARTENGONO ALLA RAZZA ITALIANA. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.

I CARATTERI FISICI E PSICOLOGICI PURAMENTE EUROPEI DEGLI ITALIANI NON DEVONO ESSERE ALTERATI IN NESSUN MODO. L'unione è ammissibile solo nell'ambito delle razze europee, nel quale caso non si deve parlare di vero e proprio ibridismo, dato che queste razze appartengono a un ceppo comune e differiscono solo per alcuni caratteri, mentre sono uguali per moltissimi altri. Il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall'incrocio con qualsiasi razza extra–europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli ariani.»

Dopo l'introduzione delle leggi razziali Pio XI tenne due discorsi pubblici il primo il 15 e il 28 di Luglio pronunciandosi contro il “Manifesto degli scienziati razzisti” (15 luglio) lamentandosi che l'Italia, sul razzismo, imitasse “disgraziatamente” la Germania nazista (28 luglio). Il ministro degli esteri Galeazzo Ciano commentandoli riportò nei suoi diari la reazione di Mussolini che tentava di evitare contestazioni plateali: «Sembra che il Papa abbia fatto ieri un nuovo discorso sgradevole sul nazionalismo esagerato e sul razzismo. Il Duce, che ha convocato per questa sera Padre Tacchi Venturi. Contrariamente a quanto si crede, ha detto, io sono un uomo paziente. Bisogna però che questa pazienza non mi venga fatta perdere, altrimenti agisco facendo il deserto. Se il Papa continua a parlare, io gratto la crosta agli italiani e in men che non si dica li faccio tornare anticlericali.». Malgrado l'opposizione di papa Pio XI al regime nazista, espressa nel 1937 con l'enciclica Mit brennender Sorge e la condanna del fascismo come dottrina totalitaria (statolatria) pagana nell'enciclica Non Abbiamo Bisogno promulgata il 29 giugno 1931, secondo alcuni storici, nel caso delle leggi razziali fasciste il Vaticano nel complesso non denunciò con altrettanta fermezza la linea discriminatoria verso gli ebrei, preoccupandosi soltanto di «ottenere dal governo la modifica degli articoli che potevano ledere le prerogative della Chiesa sul piano giuridico concordatario specialmente per quanto riguardava gli ebrei convertiti». D'altro canto, lo storico Michele Sarfatti, direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, riconosce la «caratterizzazione nettamente antirazzista della battaglia in difesa della libertà di matrimonio».

La Civiltà Cattolica, organo ufficiale dei Gesuiti, commentando il Manifesto degli scienziati razzisti, credette allora di rilevarvi una notevole differenza rispetto al razzismo nazista: «Chi ha presente le tesi del razzismo tedesco, rileverà la notevole differenza di quelle proposte da questo gruppo di studiosi fascisti italiani. Questo confermerebbe che il fascismo italiano non vuol confondersi col nazismo o razzismo tedesco intrinsecamente ed esplicitamente materialistico e anticristiano».

Secondo lo storico Renzo De Felice, se la Santa Sede non approvò un razzismo di stampo puramente materialistico e biologico, «al tempo stesso non era contraria a una moderata azione antisemita, estrinsecantesi sul piano delle minorazioni civili». De Felice rileva come la loro preoccupazione maggiore fosse data dal fatto che la politica fascista non attaccava l'ebraismo come religione, ma come razza. Comunque, tracciando un bilancio dell'atteggiamento dei cattolici italiani di fronte alle leggi antiebraiche, sempre lo storico scrive: «Nei documenti testé citati abbiamo visto come i cattolici avessero ovunque una posizione nettamente contraria ai provvedimenti antisemiti. Il fatto è incontrovertibile e, anzi, costituirà una costante sino al 1945». Tuttavia, continua De Felice, «le gerarchie cattoliche e i giornali preferirono però non correre rischi e, pur non accettandolo, cessarono quasi completamente ogni polemica pubblica contro l'antisemitismo». Di fronte al silenzio degli avversari dell'antisemitismo non tacquero gli antisemiti, che certamente non mancavano tra i cattolici e tra le stesse gerarchie ecclesiastiche. Ad esempio il quotidiano Il regime fascista, diretto da Roberto Farinacci, scrisse il 30 agosto 1938 che vi era «molto da imparare dai Padri della Compagnia di Gesù» e che «il fascismo è molto inferiore, sia nei suoi propositi, sia nell'esecuzione, al rigore de La Civiltà cattolica». Affermazione non molto lontana dal vero se prendiamo in considerazione alcune pubblicazioni della rivista cattolica. Ad esempio nel 1938, in un articolo polemico, la rivista criticò aspramente lo scienziato Rudolf Laemmel a causa di una sua opera nella quale condannava l'antisemitismo nazista. Scrisse La Civiltà cattolica che Laemmel era tuttavia esagerato, «troppo immemore delle continue persecuzioni degli ebrei contro i cristiani, particolarmente contro la Chiesa Cattolica, e dell'alleanza loro con i massoni, coi socialisti e con altri partiti anticristiani; esagera troppo quando conclude che «sarebbe non solo illogico e antistorico, ma un vero tradimento morale se oggidì il cristianesimo non si prendesse cura degli ebrei». Né si può dimenticare che gli ebrei medesimi hanno richiamato in ogni tempo e richiamano tuttora su di sé le giuste avversioni dei popoli coi lor soprusi troppo frequenti e con l'odio verso Cristo medesimo, la sua religione e la sua Chiesa Cattolica». Inoltre, La Civiltà cattolica definì le organizzazioni antisemite ungheresi come «un movimento di difesa delle tradizioni nazionali e della vera libertà e indipendenza del popolo magiaro». Anche la rivista Vita e pensiero, fondata da Agostino Gemelli nel 1914, giustificò sostanzialmente la politica antisemita del fascismo. Che la posizione della rivista ricalcasse le medesime posizioni del fascismo sarebbe ampiamente dimostrato dalle pubbliche esternazioni del suo stesso fondatore: padre Agostino Gemelli che in una conferenza da lui tenuta il 9 gennaio 1939 all'Università di Bologna, affermò: «Tragica senza dubbio, e dolorosa la situazione di coloro che non possono far parte, e per il loro sangue e per la loro religione, di questa magnifica patria; tragica situazione in cui vediamo una volta di più, come molte altre nei secoli, attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé e per la quale va ramingo per il mondo, incapace di trovare la pace di una patria, mentre le conseguenze dell'orribile delitto lo perseguitano ovunque e in ogni tempo». Roberto Farinacci, su Il regime fascista del 10 gennaio, si precipitò a proclamare: «non siamo soli» facendo un panegirico del discorso bolognese del Gemelli. Due mesi dopo chiese a Mussolini di nominare Gemelli (definito «uomo veramente nostro») all'Accademia d'Italia. E il giovane scrittore cattolico Gabriele De Rosa nel 1939 pubblicò il volumetto razzista e antigiudaico La rivincita di Ario, pronunciandosi contro "il focolaio ebraico" nella Palestina.

Papa Pio XI, che otto anni prima aveva definito Mussolini «l'uomo della Provvidenza» (o meglio «un uomo[...]che la Provvidenza ci ha fatto incontrare») nel 1937 aveva già scritto un'enciclica contro l'antisemitismo dei nazisti, la Mit brennender Sorge, che però si riferiva alla situazione in Germania e non citava l'Italia poiché non c'era ancora stato nulla di antisemita nella politica del regime fascista. Nel 1938-1939 egli affidò il progetto di un'ulteriore enciclica di condanna dell'antisemitismo al gesuita statunitense John LaFarge, ma tale progetto fu avocato a sé dal Superiore Generale della Compagnia di Gesù, che consegnò il testo dell'enciclica solo un anno dopo, poco prima che Pio XI morisse. Il successore papa Pio XII, già nunzio apostolico a Berlino, non la fece pubblicare, benché fosse stato egli stesso uno dei redattori della precedente enciclica di condanna del nazismo. Pio XI tenne il discorso rimasto più celebre[34] durante un'udienza generale il 6 settembre, il giorno dopo l'emanazione del Provvedimento per la difesa della razza nella scuola italiana da parte del governo. Il papa disse fra le lacrime: «Non è lecito per i cristiani prendere parte all'antisemitismo. L' antisemitismo è inammissibile. Noi siamo spiritualmente semiti». Mussolini, nel discorso di Trieste del settembre del 1938, accusò il Papa di difendere gli ebrei (indirettamente citato nella frase «da troppe Cattedre li si difende») e minacciò provvedimenti più severi a loro danno se i cattolici avessero insistito. Ciò nonostante, in quei giorni molti vescovi italiani tennero omelie contrarie al razzismo. Anche la maggior parte dei cattolici fascisti furono contro le leggi razziali, come Egilberto Martire, direttore della Rassegna Romana (su cui scriveva anche il cardinale Pacelli). La Rassegna Romana uscì nell'estate del '38 con un fascicolo contro il razzismo. Martire, che pure era un clericofascista, andò al confino per questo. Pio XI protestò, poi, ufficialmente e per iscritto con il re e con il capo del governo per la violazione del Concordato prodotta dai decreti razziali. La rivista La difesa della razza e i suoi contenuti inneggianti a un razzismo biologico furono ufficialmente condannati dal Sant'Uffizio. Il 3 maggio 1938, il giorno della visita di Hitler a Roma, venne pubblicato il Syllabus antirazzista, un documento di condanna delle Leggi Razziste, elaborato dalle Università Cattoliche su invito del Papa Pio XI. Con questa azione il papa intendeva «opporsi frontalmente a quello che riteneva il cuore stesso della dottrina del nazionalsocialismo». Lo stesso Tacchi Venturi inoltre, nel ricevere delle lettere da parte della comunità ebraica italiana che lo invitavano a intercedere perché le leggi antiebraiche italiane fossero abolite del tutto, nega il suo sostegno affermando: «guardandomi bene dal pure accennare alla totale abrogazione di una legge (le leggi razziali) la quale secondo i principii e le tradizioni della Chiesa cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma». Ma il segretario di Stato, Maglione, fu di diverso avviso e non si oppose alla abrogazione delle leggi razziali. L'unico prelato che, dopo la promulgazione delle leggi razziali, discusse delle stesse faccia a faccia con Benito Mussolini, fu monsignor Antonio Santin, vescovo di Trieste e Capodistria. Dopo l'approvazione delle leggi, chiese udienza a Mussolini: «Perorai la loro causa; in seguito aiutai moltissimi che venivano da me in cerca di protezione». Quando vide che sulla scrivania di Mussolini era scritto: "Per favore, siate brevi", si alzò per andar via. Mussolini subito levò l'avviso e lo fece di nuovo accomodare. Mons. Santin disse che quelle leggi erano ingiuste e non si limitò a parlare dei matrimoni misti, ma difese gli Ebrei, asserendo che a Trieste c'era tra di loro tanta povera gente.

Dopo il 1943, quando l'unità dello stato fascista era terminata la questione delle leggi razziali fu affrontata direttamente dal Vaticano a opera del cardinale Luigi Maglione e dal gesuita Pietro Tacchi Venturi. Quest'ultimo, che come detto riteneva che le leggi razziali avrebbero dovute esser abolite solo per gli ebrei convertiti al cristianesimo, e si sarebbero dovuti mantenere invece le restrizioni per coloro che appartenevano alla religione ebraica. Dopo l'abrogazione delle leggi razziali da parte del Governo Badoglio I Venturi, in rappresentanza del Vaticano, dichiarò che «[la legge], secondo i principî e le tradizioni della Chiesa cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate (quelle sui convertiti e sui matrimoni misti) ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma». Secondo l'Osservatore Romano del 7 febbraio 2013, p. 23, Pio XII fece giungere alle autorità italiane nel marzo 1939 il Promemoria che era stato redatto nei mesi precedenti per volontà di Pio XI, e che “era giunto ad una condanna complessiva dell'antisemitismo”. Fu consegnato all'ambasciatore presso la Santa Sede.

Già dall'autunno del 1938 l'allontanamento degli studenti di fede ebraica dalle scuole pubbliche italiane, avviene in anticipo di qualche giorno rispetto a quelle del Terzo Reich. A seguito del Decreto Legge del 17 novembre 1938, il cui articolo 13 vietava alle persone di confessione ebraica di lavorare alle dipendenze di enti pubblici, aziende statali e parastatali, in Stipel il 1º maggio 1939 furono licenziati 14 dipendenti. Al termine del secondo conflitto mondiale, uno di questi lavoratori ricorse alle vie legali per essere riassunto. Il processo si concluse il 24 gennaio 1948, con una sentenza della Cassazione, la quale obbligò la società alla riassunzione del lavoratore, senza però garantire il diritto all'indennità d'anzianità per il periodo di estromissione, e senza il reintegro nella posizione precedentemente occupata.

Le leggi razziali sono state abrogate con i regi decreti-legge nn. 25 e 26 del 20 gennaio 1944.

Una finta circolare in classe per rievocare le leggi razziali. La simulazione delle classi terze della media “Sandro Pertini”, scrive il 04/03/2017 Gloria Pozzo su "La Stampa". «A partire da oggi, con effetto immediato, gli alunni con entrambi o anche solo un genitore di origine non italiana seguiranno le lezioni scolastiche in un’aula diversa rispetto a quella del resto della classe». Recita così la finta circolare del Ministero letta in cinque classi terze della scuola media «Pertini». La direttiva aggiunge che per i ragazzi in questione, una ventina in tutto, l’esame di fine anno avrà due prove in più, per dimostrare la conoscenza della lingua e della cultura italiana. Niente di vero, naturalmente. Si tratta di una simulazione, inserita nel percorso didattico che le insegnanti della scuola hanno scelto per accompagnare gli alunni dalla Giornata della Memoria alla Giornata dei Giusti del 6 marzo. Solo i ragazzi stranieri sono stati avvisati e preparati per tempo alla messa in scena, e hanno «recitato» alla perfezione la parte. Per gli altri, alla lettura della circolare, si è scatenato il pandemonio: in una classe i compagni hanno impedito ai loro amici di uscire dall’aula, in altre hanno voluto accompagnarli nell’aula della «segregazione». I più intraprendenti si sono fatti dare il numero di telefono della preside, quel giorno a casa ammalata, e l’hanno chiamata per protestare. Altri hanno preteso di scrivere una lettera al Ministero, spiegando quanto fosse ingiusta una direttiva del genere. Erano pronti a scendere in piazza, a contattare le altre scuole per un’azione più corale, a coinvolgere i genitori. Tra indignazione e qualche lacrima, le reazioni sono state diverse, ma nessuno è rimasto indifferente. «La simulazione - spiegano le insegnanti Patrizia Pomati e Carolina Vergerio - è durata il tempo necessario a far elaborare ai ragazzi le emozioni provate». Allo svelamento sono stati invitati a descriverle su post it colorati. «So che se succedesse veramente i miei compagni si ribellerebbero e mi aiuterebbero» ha scritto David, uno degli stranieri. «Mi sono commossa - scrive Laura - però ero determinata a fare qualcosa». «Avrei voluto entrare nella testa di chi aveva scritto quella legge ingiusta e barbarica» è il primo pensiero di Marco. «Mi sono sentito uno schifo - si legge sul post it di Tommaso - perché non mi ritengo superiore ai miei compagni». Samuele, pratico, avrebbe voluto inviare al ministero «il video della nostra tombolata, così avrebbero visto come siamo legati». La conclusione, per tutti, è stata la stessa: «Abbiamo reagito così perché erano nostri amici, ma se una cosa è ingiusta, è ingiusta per tutti». E una nuova consapevolezza: «Anche io ho la possibilità di cambiare le cose».  «E’ un modo - spiegano le professoresse - per riflettere sulla storia, a partire dalle leggi razziali del 1938, ma calando la riflessione al presente. Un presente fatto di profughi, di muri, di stranieri fatti passare in quanto tali per nemici». Per capire, insomma, se la storia ha insegnato davvero qualcosa. L’esperienza ha poi portato i ragazzi a scegliere i due Giusti a cui dedicare i nuovi alberi da piantumare nel giardino della scuola in occasione della Giornata europea. La scelta è caduta su chi, come loro, ha deciso di non lasciare soli i propri compagni: Faraaz Hussein e Janusz Korczak. Lo stesso secondo cui «non ci è concesso lasciare il mondo così com’è». 

Gli italiani e le leggi razziali: indifferenza e complicità, scrive il 17 Novembre 2011 Mario Avagliano. La persecuzione degli ebrei in Italia fu avviata nel settembre del 1938 quando, dopo una virulenta campagna di propaganda sui giornali, il regime fascista introdusse l’antisemitismo nell’ordinamento giuridico attraverso le leggi razziali, che privarono gli ebrei dei diritti civili e dell’uguaglianza con gli altri cittadini in tutti i campi della vita sociale, economica e professionale, creando quello che Primo Levi ha definito un «regime di segregazione». Da parte degli italiani, a livello popolare, non vi fu alcuna opposizione di un certo rilievo o degna di nota. La Casa reale e il Vaticano – le uniche istituzioni alternative al fascismo sopravvissute – abbandonarono gli ebrei al loro destino. Vittorio Emanuele III firmò tutte le leggi e quando, il 10 settembre 1938, fu informato da Buffarini Guidi su come Mussolini intendeva impostare la politica antisemita, non protestò, limitandosi a rivendicare rispetto per chi poteva vantare meriti patriottici e a manifestare in privato a Mussolini, come riferisce Galeazzo Ciano, «infinita pietà» (Diario 1937-1943, Rizzoli, Milano, 1980). Pio XI e Pio XII espressero in più occasioni dubbi sulle leggi persecutorie e da parte di alti esponenti delle gerarchie ecclesiastiche non mancarono voci di protesta (il cardinale di Milano Schuster nell’omelia del 13 novembre 1938 definì il razzismo un’eresia), ma la portata della condanna fu del tutto limitata. La diplomazia ecclesiastica, anche per timore di ripercussioni sui diritti acquisiti col Concordato, si limitò a pretendere la tutela dei matrimoni misti e che venissero evitate misure troppo eclatanti (segni distintivi, confisca dei beni) che avrebbero messo in imbarazzo il Papa.

Un articolo dell’Osservatore Romano del  14-15 novembre 1938 (che la Diocesi di Brescia inserì nel proprio bollettino ufficiale), dopo aver premesso che «tutti a qualsiasi razza appartengano sono chiamati ad essere figli di Dio», affermò che «la Chiesa, sempre madre amorosa, suole sconsigliare ai suoi figli di contrarre nozze [con persona di razza diversa] che presentino il pericolo di prole minorata ed in questo senso è disposta ad appoggiare, nei limiti del diritto divino, gli sforzi dell’autorità civile tendenti al raggiungimento di tale legittimo scopo. Sono evidenti le ragioni morali e sociali di tale atteggiamento». Neanche tra gli intellettuali vicini al fascismo si levarono voci di dissenso. Le uniche eccezioni furono lo scrittore Massimo Bontempelli, che rifiutò di succedere ad Attilio Momigliano radiato dall’Università, e Tommaso Marinetti, che ispirò alcuni articoli su Artecrazia.

Giovanni Gentile, che in privato non fece mancare atti di solidarietà verso gli ebrei, in pubblico non prese mai posizione contro le leggi razziali. Anche tra gli antifascisti furono poche le critiche alle leggi razziali, determinando quel silenzio che si rivelerà «pesante – come ha osservato Vittorio Foa – per l’antifascismo intellettuale del dopoguerra», probabilmente convinto che «tutto sommato si trattava di piccole cose in confronto alla tragedia degli ebrei dell’Europa centrale», ma anche per questo colpevole di «non aver capito che i mali grandi e irrimediabili dipendono dall’indulgenza verso i mali ancora piccoli e rimediabili» (Questo Novecento, Einaudi, Torino, 1996). Tra le voci critiche si distinse quella del comunista Giuseppe Di Vittorio, esule a Parigi, che il 7 e il 13 settembre 1938 firmò due vibranti articoli su La Voce degli Italiani, intitolati In aiuto degli ebrei italiani! e Difesa degli ebrei italiani e delle organizzazioni cattoliche, criticando duramente i provvedimenti razziali e scrivendo tra l’altro: «Nella disonorante campagna di odio contro gli ebrei – contro gli stessi ebrei italiani, che sono nati in Italia, che hanno compiuto il loro servizio militare in Italia, che sono degli onesti cittadini italiani – non vi è ritegno, non vi sono limiti, né pudore».

Il socialista Giulio Canalini su L’igiene e la vita si oppose con determinazione alla deriva antisemita e il periodico fu soppresso per «atteggiamento antirazzista» (R. Gremmo, Una voce contro le leggi razziali, in «Tribuna novarese», 29 gennaio 2007). Il comunista Giuseppe Gaddi, esule in Francia, scrisse in un opuscolo del 1939 che «Il giovane operaio o il giovane impiegato di Milano non può risolversi a considerare come un essere inferiore la piccola dattilografa milanese che dopo una visita alla sinagoga va a ballare con lui, come lo studente non può risolversi a considerare come una nullità il grande professore che lo ha educato e salutare invece come un grande scienziato il fascista che occupa la sua cattedra per il solo merito del “puro sangue ariano” che scorre nelle sue vene» (G. Gaddi, Il razzismo in Italia, Lega Italiana contro il Razzismo e l’Antisemitismo, [Parigi] 1939).

Benedetto Croce, pochi giorni dopo la pubblicazione del Manifesto sulla razza, il 5 agosto 1938, inviò una lettera al liberale svedese Gillis Hammar in cui parlò di «ribrezzo» per la politica di Hitler e di preoccupazione per la china italiana (A. Capristo, «Oltre i limiti». Benedetto Croce e un appello svedese in favore degli ebrei perseguitati, in «Quaderni di storia», Edizioni Dedalo, Numero 70, luglio/dicembre 2009) e in seguito rifiutò di compilare un formulario di autoclassificazione «razziale», sottraendosi – così affermò – «all’atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo proprio quando questa gente è perseguitata». Voci discordi si levarono in ambienti cattolici, in particolare ad opera del gruppo fiorentino di Giorgio La Pira.

«Ovviamente – annotò Luciano Morpurgo nel suo diario (vedi il nostro Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia. Diari e lettere 1938-1945, Einaudi, Torino 2011) – il regime tende a reprimere ogni atto di solidarietà agli ebrei» e al di là di voci isolate, la reazione collettiva degli italiani fu prevalentemente di indifferenza e omertà. «Io non sono ebrea, stavo dall’altra parte – ha affermato la scrittrice Rosetta Loy –. E quello che posso testimoniare è proprio l’indifferenza con cui furono accolte le persecuzioni antisemite. A quel tempo avevo sette anni e non ho nessun ricordo: non ricordo indignazione, non ci fu alcuna reazione, niente. Eppure la mia famiglia non era fascista. Ma ciò che accadeva era qualcosa che non ci riguardava, che riguardava “gli altri”» (M.I. Venzo, Gli ebrei in Italia dopo l’8 settembre, in Liberi. Storie, luoghi e personaggi della Resistenza del Municipio Roma XVI, Municipio Roma XVI e ANPI, Tipografia Arti Grafiche La Moderna, Roma 2005).

Qualche espressione di indignazione, che pure ci fu, non andò oltre la sfera privata e comunque scemò col tempo, da un lato per l’attenuarsi della campagna di propaganda, che all’atto pratico della persecuzione spense i riflettori dell’attenzione su di essa, dall’altro per la paura di essere tacciati di pietismo. Un esempio è riportato sul Corriere della Sera del 6 dicembre 1938, che titolava “Due fascisti puniti per pietismo filogiudaico”, espulsi dal partito perché «Affetti da inguaribile spirito borghese, si abbandonavano ad incomposte manifestazioni pietistiche nei confronti di un giudeo».

Questa «doppiezza diffusa […] fra agire privato e agire pubblico» – come ha scritto Roberto Finzi (L’università italiana e le leggi anti ebraiche, Editori Riuniti, Roma 1997) – fu fotografata anche nel diario dalla socialista e antifascista Ernesta Bittanti-Battisti, moglie dell’irredentista Cesare, che annotò le reazioni degli italiani: «Uno: Pubblica: nessuna protesta. Due: Privata: si dice di preghiere da qualche personalità, o non accolte o a cui si fecero promesse non mantenute di poi. Tre: Obbedienza supina agli ordini di cancellare i nomi anche insigni degli Ebrei da associazioni di cultura, di studio, d’affari, da ogni associazione insomma».

In sostanza – come ha osservato De Felice – alla prova dei fatti l’antisemitismo di Stato fu accolto «come qualcosa di meno grave di quanto era sembrato loro in un primo momento […] mentre da una minoranza – non però così trascurabile come qualcuno ha voluto – fu, almeno per un certo tempo, fatto proprio non solo opportunisticamente ma anche consapevolmente». I temi antisemiti entrarono dunque a far parte delle convinzioni di una parte di italiani, come dimostra una lettera anonima dattiloscritta ricevuta dall’ebrea torinese Giorgina Levi (Collezione Moscati presso l’Imperial War Museum, Londra): «Signora, vari foglietti incitano a ribellare l’Italiano contro la Madre Patria, sono giunti nelle mani di un patriotta. Non poteva essere di altro modo, chi li dirige siete voi! Levi! Vostro cognome vi condanna, non potete negarlo, siete GIUDEA. Il figlio che si alza contro la Madre Patria è caduto in disgrazia, questo non lo farà mai un vero italiano. Voi sì, perché avete usurpato la nazionalità, dovuto alla nostra generosità. Quindi nelle vostre vene scorre sangue di CORVO; no, no, non potete essere italiana, non lo siete. […] È inutile, il vostro vergognoso appello, gli italiani non vi ascolteranno. Quelli che lo faranno, sono come voi GIUDEA. VIVA L’ITALIA».

In alcuni casi l’adesione all’antisemitismo fu dettata dalla convenienza personale, poiché la persecuzione si rivelò un buon affare per chi acquistò sottocosto beni e proprietà e – in particolare nel mondo accademico e delle professioni – per chi poté coprire posti di lavoro la lasciati liberi dagli ebrei licenziati o impossibilitati ad esercitare. Anche gli episodi di solidarietà e soccorso verso gli ebrei in difficoltà, che pure ci furono, rimasero sempre confinati in un ambito riservato: alcuni acquistarono beni passibili di confisca a prezzi di mercato, altri fecero da prestanome per consentire ai titolari ebrei di non perdere aziende e negozi, altri ancora lettere al re e – spesso in forma anonima – al duce per chiedere clemenza. Episodi isolati che tuttavia vanno inquadrati e valutati nel contesto di «accurata vigilanza» attuato dalle autorità di regime affinché – come recita un bollettino prefettizio – «gli ariani non si rendano complici compiacenti degli ebrei» (Bollettino n. 012414/Mass. N. I - Div. III P.S., Brescia 16 luglio 1941).

Non mancarono messaggi ai perseguitati – come si legge in una lettera di Gino Luzzatto – di «calda e piena manifestazione di solidarietà (la sola che mi sia giunta finora e la più desiderata)» o espressioni di «giustizia umana» (Max Mayer a Michele Cifarelli).

Un professore universitario parlò esplicitamente di «esilio» in una lettera ad una sua allieva emigrata, invitandola a «raccogliere, vive e fresche, le sue impressioni, poiché potrà ricavarne, un giorno, un bel libro, utile e dilettevole, “due anni di esilio”» (Francesco Lemmi a Giorgina Levi).

Le più esplicite manifestazioni di solidarietà agli ebrei vennero in gran parte dagli antifascisti, anticipando quella saldatura tra Resistenza e reazione all’antisemitismo che si paleserà meglio dopo l’8 settembre 1943 con la partecipazione di molti ebrei alla Resistenza. Questo misto di indifferenza, ipocrisia e sincera solidarietà emerge nitidamente dal diario di Silvia Forti (S. Lombroso, Si può stampare. Pagine vissute 1938-1945, Dalmatia, Roma 1945) che l’8 ottobre 1938 sui vicini di casa venuti ad acquistare oggetti annota: «il marito tossicchia, sempre più imbarazzato […] la moglie prende un’aria contrita, metà condoglianza, metà commiserazione che nasconde l’ansia astuta di fare un buon affare: le dispiace proprio, ma chi l’avrebbe mai pensato, ma son cose che passano, bisogna farsi forza; intanto loro prenderebbero questo e questo e questo. Enumera le cose, offre il prezzo; meno di un terzo di quello segnato sulla lista». E due giorni dopo: «Rileggo quel che ho scritto, e mi fa pena, e vorrei cancellare, perché ripenso a voi, nobili e cari e indimenticabili amici, che ci siete venuti incontro nell’ora del dolore con tanta delicata comprensione, con generosità così calda, con così consolante e coraggioso disinteresse!». Articolo di Mario Avagliano e Marco Palmieri.

Croce, le leggi razziali e i pregiudizi antisemiti della cultura liberale. Scrive Lorenzo Catania il 23 gennaio 2017 su "Avanti on line". Quando si celebra la Giornata della Memoria, càpita di leggere articoli che ricordano il silenzio degli intellettuali che non si opposero alle leggi razziali. Si rimuove invece il fatto che immagini, stereotipi e schemi mentali allignano anche tra gli intellettuali liberali antifascisti, come traspare da questo giudizio del critico letterario Luigi Russo sul collega Attilio Momigliano: “Nel caso del Momigliano, le sue particolari origini semitiche ci possono aiutare a intendere certe attitudini ascetico-contemplative della sua mente, la solitudine fisica del suo stile, e però anche qualche tiepidezza e distanza storica della sua opera letteraria. Difetto quest’ultimo a cui egli ha cercato di rimediare non solo con una assidua disciplina di studi, ma anche affiatandosi con animo puro e di non facile e opportunistico convertito, da vile marrano (la frase ora torna di moda), alle fonti più alte della religiosità cristiana.” Lo stesso Benedetto Croce che faceva parte dell’Istituto veneto di scienze lettere ed arti e in tale qualità a seguito delle leggi razziali del 1938 ricevette un questionario da riempire per dichiarare se fosse oppure no ebreo, non fu esente da pregiudizi. È vero che il filosofo rispose al presidente dell’Istituto con una lettera che fa di Croce un ebreo d’elezione: “Gentilissimo Collega, ricevo oggi qui il questionario che avrei dovuto rimandare prima del 20. In ogni caso, io non l’avrei riempito, preferendo di farmi escludere come supposto ebreo. L’unico effetto della richiesta dichiarazione sarebbe di farmi arrossire, costringendo me che ho per cognome CROCE, all’atto odioso e ridicolo insieme, di protestare che non sono ebreo proprio quando questa gente è perseguitata…”. E tuttavia, questa bella lettera non ci deve far dimenticare un affondo del filosofo nei confronti di Carlo Marx, contenuto nel saggio “Monotonia e vacuità della storiografia comunistica” (1949), che suona come giudizio negativo nei confronti del popolo di Israele: ”Onde io, che ho sempre ripugnato e ripugno alla dottrina naturalistica e fatalistica delle razze, non posso in questo caso astenermi dal pensare, non già propriamente al sangue, ma alle tradizioni e abiti giudaici del loro autore, e a quel che nella singolare formazione storica della gente ebraica avvertivano i Romani come il loro “adversus omnes alios hostile odium”, trasferito a odio di tutta la storia umana, antichità classica, medioevo cristiano, libertà moderna, che, invece di essere rappresentata da Omero, da Dante, da Shakespeare, da Platone, da Kant e da Hegel, viene rappresentata dallo Schiavo, dal Servo, dal Proletario. Questa loro visione si connette con ciò che Volfango Goethe nei Wanderjahre, notava degli ebrei: che essi non possono fondersi con noi, perché non riconoscono – diceva – le origini storiche della nostra civiltà, e a loro ripugna la nostra storia che non è la storia loro, informata ad una loro singolare idea di dominazione”. Non va dimenticato che il giudizio di Luigi Russo contenuto nel libro “La critica letteraria contemporanea” (1943), non soppresso nelle edizioni successive della fortunata opera, e quello di Croce di alcuni anni dopo, cadevano nel clima storico-politico dell’Italia del dopoguerra, dove la piena condanna della persecuzione razziale non era una priorità e nell’aria si respirava un rinnovato antisemitismo, visibile nella difficoltà a restituire agli ebrei i loro beni e i loro diritti, a reintegrarli nei loro posti di lavoro.

Gli psichiatri italiani chiedono scusa: "Appoggiammo le leggi razziali". La SIP fa pubblica ammenda per aver, 79 anni fa, negli anni bui e terrificanti del nazismo e del fascismo, legittimato le Leggi razziali del luglio 1938, scrive Carlo Patrignani il 10 marzo 2017 su "Affari Italiani". La SIP, la società italiana di psichiatria, fa pubblica ammenda per aver, 79 anni fa, negli anni bui e terrificanti del nazismo e del fascismo, legittimato con il suo presidente di allora, Arturo Donaggio, che ne è stato il primo firmatario, le famigerate Leggi razziali del luglio 1938. E per questa svolta storica, un vero e proprio atto di riscatto, la Spi non poteva scegliere migliore occasione che l’inaugurazione al Vittoriano di Roma della mostra 'Schedati perseguitati sterminati. Malati psichici e disabili durante il nazionalsocialismo' curata e realizzata dalla Società tedesca di psichiatria, che il Netforpp, il Network Europeo per la psichiatria psicodinamica fondato dalla psichiatra Annelore Homberg, ha voluto e portato in Italia. L’esposizione, visitabile fino al 14 maggio, consta di 50 pannelli con biografie, documenti d'archivio e immagini storiche da cui si evince la feroce disumanità - oltre il brutale e ben noto genocidio degli ebrei - perpetrata contro i malati psichici e i disabili durante il naziolsocialismo: a partire dal 1934, 400 mila tedeschi di entrambi i sessi, affetti da patologie mentali considerate ereditarie e incurabili, furono sterilizzati contro la loro volontà e, tra il 1939 e il 1945, più di 200 mila persone ricoverate in ospedali psichiatrici tedeschi furono invece assassinate perché ritenute un inutile peso per la popolazione tedesca. Una sezione particolare della mostra, già esposta a Londra, Vienna, Osaka, Città del Capo e Toronto, è dedicata a 'Malati, Manicomi e psichiatri in Italia dal ventennio fascista alla seconda guerra mondiale' ed è stata realizzata proprio dalla Sip: negli ultimi anni della guerra furono circa 30 mila le persone che persero la vita negli ospedali psichiatrici italiani sia per l’inedia e l’abbandono che per l’intervento delle SS tedesche che prelevarono i malati. L'atto di oggi è, ha spiegato Mencacci, "assolutamente una svolta storica significativa: pur se dal dopoguerra ad oggi la psichiatria non è stata subalterna al potere, noi dovevamo fare i conti con il passato e quindi la pubblica ammenda per non avere scheletri nell’armadio, ossia la scelta scellerata di adesione alle Leggi razziali di 79 anni fa". Al tempo stesso la Sip non intende fermarsi a questo atto importante, di riscatto, che segue quanto accaduto e ben evidenziato dalla documentatissima mostra, organizzata con il Netforpp, il Polo museale del Lazio e l’Avi, l’Agenzia per la vita indipendente. "Siamo pronti e disponibili ad ulteriori riflessioni più approfondite, che vadano oltre il fatto documentale e storico, con altre associazioni culturali, come il Netforpp, sulla lunga catena di pensatori, come filosofi e teorici del profondo, di quel terribile periodo in cui fu delegittimata la dignità umana e si produssero divisioni, isolamento, stigma, fino al razzismo e all’antisemitismo. Una riflessione storico-filosofica che si rende opportuna perchè quanto accaduto allora non cada nel dimenticatoio e non abbia mai più a ripetersi", ha aggiunto Mencacci. Nella lunga catena dei supposti grandi pensatori che animarono, culturalmente, il nazifascismo, il razzismo, l’antisemitismo, ci sono filosofi come Martin Heidegger e teorici del profondo come Carl Gustav Jung e lo stesso Sigmund Freud, le cui teorie sull’essere umano, sulla realtà umana, sono sempre più traballanti e seriamente messe in discussione: allora, alla prossima seconda svolta storica, magari nella direzione della 'psichiatria psicodinamica', che si rifà alla "teoria della nascita" dello psichiatra dell'irripetibile, originale e gratuita Analisi collettiva, Massimo Fagioli, recentemente scomparso, che sin dagli anni Cinquanta aveva smascherato la truffa dei supposti grandi pensatori.

L'Italia ebbe le leggi razziali. Ma non fu mai antisemita. Hannah Arendt e Gideon Hausner, procuratore generale al processo contro Eichmann, elogiarono il comportamento del nostro Paese. Che in pratica ignorò il diktat nazista, scrive Marcello Veneziani, Lunedì 27/01/2014, su "Il Giornale. Oggi è il Giorno della Memoria anche se da dieci giorni se ne parla ampiamente sui giornali e in tv. Non ha torto Elena Loewenthal, studiosa di cultura ebraica, a scrivere un libretto Contro il giorno della memoria e a proporre un intenso silenzio più che una così retorica esibizione a settant'anni dalla Shoah. Per la ricorrenza sarà proiettato oggi e domani in alcune città il film di Margarethe von Trotta dedicato ad Hannah Arendt, la principale studiosa ebrea del nazismo e dei regimi totalitari, sfuggita alle persecuzioni naziste. Il film trae spunto dal celebre testo della Arendt, La banalità del male (edito da Feltrinelli), nato dai suoi reportage per il processo al nazista Adolf Eichmann, cinquant'anni fa in Israele. La banalità del male è importante anche per le pagine dedicate agli italiani in relazione alle deportazioni. Scrive la Arendt: «L'Italia era uno dei pochi paesi d'Europa dove ogni misura antisemita era decisamente impopolare». Infatti, aggiunge, «l'assimilazione degli ebrei in Italia era una realtà». La condotta italiana «fu il prodotto della generale spontanea umanità di un popolo di antica civiltà». Un popolo che dai tempi dei Romani conviveva con gli ebrei, e continuò a conviverci, con alti e bassi, anche all'ombra della Chiesa cattolica e del Papa re pur nella considerazione degli ebrei come popolo deicida. «La grande maggioranza degli ebrei italiani - scrive la Arendt - furono esentati dalle leggi razziali», concepite da Mussolini «cedendo alle pressioni tedesche». Perché gran parte degli ebrei erano iscritti al Partito fascista o erano stati combattenti, nota la Arendt, e i pochi ebrei veramente antifascisti non erano più in Italia. Persino il più razzista dei gerarchi, Roberto Farinacci, «aveva un segretario ebreo». Si potrebbe ricordare il concordato del 1931 tra lo Stato fascista e la comunità israelitica italiana, accolto con soddisfazione dagli ebrei. A guerra intrapresa «gli italiani col pretesto di salvaguardare la propria sovranità si rifiutarono di abbandonare questo settore della loro popolazione ebraica; li internarono invece in campi, lasciandoli vivere tranquillamente finché i tedeschi non invasero il paese». E quando i tedeschi arrivarono a Roma per rastrellare gli ottomila ebrei presenti «non potevano fare affidamento sulla polizia italiana. Gli ebrei furono avvertiti in tempo, spesso da vecchi fascisti, e settemila riuscirono a fuggire». Alcuni con l'aiuto del Vaticano. Le stesse tesi aveva espresso al processo Eichmann il procuratore generale Gideon Hausner, il quale definì l'Italia «la nazione più cara a Israele». I nazisti, aggiunge la Arendt, «sapevano bene che il loro movimento aveva più cose in comune con il comunismo di tipo staliniano che col fascismo italiano e Mussolini, dal canto suo, non aveva molta fiducia nella Germania né molta ammirazione per Hitler». L'Italia fascista, secondo la studiosa ebrea, adottò nei confronti dei rastrellamenti un sistematico «boicottaggio». Nota la Arendt: «il sabotaggio italiano della soluzione finale aveva assunto proporzioni serie, soprattutto perché Mussolini esercitava una certa influenza su altri governi fascisti, quello di Pétain in Francia, quello di Horthy in Ungheria, quello di Antonescu in Romania, quello di Franco in Spagna. Finché l'Italia seguitava a non massacrare i suoi ebrei, anche gli altri satelliti della Germania potevano cercare di fare altrettanto... Il sabotaggio era tanto più irritante in quanto era attuato pubblicamente, in maniera quasi beffarda». Insomma il caso di Giorgio Perlasca, il fascista che salvò cinquemila ebrei, non fu isolato. Quando il fascismo, allo stremo della sua sovranità, cedette alle pressioni tedesche, creò un commissariato per gli affari ebraici, che arrestò 22mila ebrei, ma in gran parte consentì loro di salvarsi dai nazisti, come scrive la studiosa ebrea. Nota la Arendt, perfino eccedendo, che «un migliaio di ebrei delle classi più povere vivevano ora nei migliori alberghi dell'Isère e della Savoia». Insomma «gli ebrei che scomparvero non furono nemmeno il dieci per cento di tutti quelli che vivevano allora in Italia». Si può dire che morirono più italiani nelle foibe comuniste che ebrei italiani nei campi di sterminio? Odiosa contabilità, ma per amore di verità va detto. Certo, la Shoah nel suo complesso è una catastrofe imparagonabile. Anche per gli storici israeliti Leon Poliakov e George Mosse l'Italia boicottò le deportazioni naziste e protesse gli ebrei. Le origini culturali dell'antisemitismo per la Arendt sono riconducibili a leader, movimenti e ideologi di sinistra. Ne Le origini del totalitarismo ricorda che fino all'affaire Dreyfus in Francia, «le sinistre avevano mostrato chiaramente la loro antipatia per gli ebrei. Esse avevano seguito la tradizione dell'Illuminismo, considerando l'atteggiamento antiebraico come una parte integrante dell'anticlericalismo». In Germania, ricorda, i primi partiti antisemiti furono i liberali di sinistra, guidati da Schönerer e i socialcristiani di Lueger. Non si tratta di assolvere regimi né di cancellare o relativizzare le leggi razziali del '38 che infami erano e infami restano. Né si tratta di salvare il fascismo dal nazismo e dal razzismo, ma di riconoscere la pietà e la dignità del popolo italiano, che in quella tragedia si comportò con più umanità. Magari in altri casi no, si pensi alla guerra civile, al triangolo rosso, alle stragi d'innocenti o di vaghi sospettati; ma nel Giorno della Memoria della Shoah, ricordiamoci che gli italiani furono meno bestie di tanti altri. Per una volta non denigriamoci. Quanto alla Arendt, fu dura per lei la sorte di apolide, straniera nella sua terra natia, la Germania, poi vista con diffidenza per la sua relazione giovanile con Heidegger, quindi detestata dalla sinistra per la sua critica al totalitarismo e al comunismo, e pure in aperto conflitto col mondo ebraico. Dopo aver letto La banalità del male lo studioso di mistica ebraica Gershom Scholem la accusò (il carteggio è riportato in fondo a Ebraismo e modernità, edito da Feltrinelli) di avversare il sionismo e di non amare gli ebrei. «Io non amo gli ebrei - rispose lei - sono semplicemente una di loro». Una lezione di verità per tutti.