Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
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Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA
DEI MISTERI
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
INDICE PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
INTRODUZIONE.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL MISTERO DELLE SCORRIBANDE TURCHE.
IL MISTERO DELL’INVASIONE BARBARICA DEL MERIDIONE D’ITALIA.
IL MISTERO DELLA BORSA SCOMPARSA DI MUSSOLINI.
IL MISTERO DELLA MORTE DI MUSSOLINI.
IL MISTERO DELLE FOIBE.
IL MISTERO DI SALVATORE GIULIANO.
IL MISTERO DI MORO E DELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE.
IL MISTERO CIRO CIRILLO.
IL MISTERO DELLE STRAGI. IL TRENO ITALICUS.
IL MISTERO DELLE STRAGI. L’AEREO DC-9 ITAVIA.
IL MISTERO DELLE STRAGI. MILANO. PIAZZA FONTANA.
IL MISTERO DELLE STRAGI. LA STAZIONE DI BOLOGNA.
IL MISTERO DELLE STRAGI MAFIOSE. PALERMO, MILANO, FIRENZE, ROMA.
IL MISTERO DI ILARIA ALPI.
IL MISTERO DI GIANCARLO SIANI.
IL MISTERO DI WALTER TOBAGI.
IL MISTERO DI MINO PECORELLI.
IL MISTERO DI GIORGIO AMBROSOLI.
IL MISTERO DI LUIGI BISIGNANI.
IL MISTERO DI RINO GAETANO.
IL MISTERO DI MARCO PANTANI.
IL MISTERO DI DENIS BERGAMINI.
IL MISTERO LUIGI TENCO E PIER PAOLO PASOLINI.
IL MISTERO DI GIANNI VERSACE.
INDICE SECONDA PARTE
I MISTERI DELLA BASILICATA. TERRA DEI DELITTI IRRISOLTI. DA ELISA CLAPS A TOGHE LUCANE, DA ANNA ESPOSITO AD OTTAVIA DE LUISE, FINO AI FIDANZATINI ED AL CARABINIERE DI POLICORO.
IL MISTERO DELLA MOBY PRINCE.
IL MISTERO DI SIMONETTA FERRERO.
IL MISTERO DI LIDIA MACCHI.
IL MISTERO DI EMANUELA ORLANDI.
IL MISTERO DI SERENA MOLLICONE.
IL MISTERO DI MARTA RUSSO.
IL MISTERO DI SIMONETTA CESARONI.
IL MISTERO DEL FENOMENO DELLA BLUE WHALE, OSSIA DELLA BALENA BLU (GIOCO)
IL MISTERO DELLE SUPERNOTES. I 100 DOLLARI FALSI…MA BUONI.
IL MISTERO DI ETTORE MAJORANA.
IL MISTERO DEL MOSTRO DI FIRENZE.
IL MISTERO DI LICIO GELLI.
IL MISTERO DI SIENA. DAVID ROSSI.
COMPLOTTISTI? IL MAGISTRATO PAOLO FERRARO, MELANIA REA E LE SETTE DI STATO.
PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,
oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.
Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,
incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.
Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,
per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.
Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,
ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Codardia e collusione sono le vere ragioni,
invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.
A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,
ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?
Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,
a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.
Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,
glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,
ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.
Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,
così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.
La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,
che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.
Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,
così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni
e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.
La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,
che produce solo disservizi anche se non ci credi.
Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,
c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.
Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,
e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,
e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.
Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,
ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.
Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,
non solo, ma spesso si scopre pure dopato.
E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari
ed i media e la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,
con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.
Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,
ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé ed i loro figli a legiferare.
Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,
eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.
Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,
non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,
un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.
Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti
e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.
Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,
ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.
Sono un italiano vero e me ne vanto,
ma quest’Italia mica mi piace tanto.
Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,
voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori.
Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!
Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!
Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)
Il Poema di Avetrana di Antonio Giangrande
Avetrana mia, qua sono nato e che possiamo fare,
non ti sopporto, ma senza di te non posso stare.
Potevo nascere in Francia od in Germania, qualunque sia,
però potevo nascere in Africa od in Albania.
Siamo italiani, della provincia tarantina,
siamo sì pugliesi, ma della penisola salentina.
Il paese è piccolo e la gente sta sempre a criticare,
quello che dicono al vicino è vero o lo stanno ad inventare.
Qua sei qualcuno solo se hai denari, non se vali con la mente,
i parenti, poi, sono viscidi come il serpente.
Le donne e gli uomini sono belli o carini,
ma ci sposiamo sempre nei paesi più vicini.
Abbiamo il castello e pure il Torrione,
come abbiamo la Giostra del Rione,
per far capire che abbiamo origini lontane,
non come i barbari delle terre padane.
Abbiamo le grotte e sotto la piazza il trappeto,
le fontane dell’acqua e le cantine con il vino e con l’aceto.
Abbiamo il municipio dove da padre in figlio sempre i soliti stanno a comandare,
il comune dove per sentirsi importanti tutti ci vogliono andare.
Il comune intitolato alla Santo, che era la dottoressa mia,
di fronte alla sala gialla, chiamata Caduti di Nassiriya.
Tempo di elezioni pecore e porci si mettono in lista,
per fregare i bianchi, i neri e i rossi, stanno tutti in pista.
Mettono i manifesti con le foto per le vie e per la piazza,
per farsi votare dagli amici e da tutta la razza.
Però qua votano se tu dai,
e non perché se tu sai.
Abbiamo la caserma con i carabinieri e non gli voglio male,
ma qua pure i marescialli si sentono generale.
Abbiamo le scuole elementari e medie. Cosa li abbiamo a fare,
se continui a studiare, o te ne vai da qua o ti fai raccomandare.
Parlare con i contadini ignoranti non conviene, sia mai,
questi sanno più della laurea che hai.
Su ogni argomento è sempre negazione,
tu hai torto, perché l’ha detto la televisione.
Solo noi abbiamo l’avvocato più giovane d’Italia,
per i paesani, invece, è peggio dell’asino che raglia.
Se i diamanti ai porci vorresti dare,
quelli li rifiutano e alle fave vorrebbero mirare.
Abbiamo la piazza con il giardinetto,
dove si parla di politica nera, bianca e rossa.
Abbiamo la piazza con l’orologio erto,
dove si parla di calcio, per spararla grossa.
Abbiamo la piazza della via per mare,
dove i giornalisti ci stanno a denigrare.
Abbiamo le chiese dove sembra siamo amati,
e dove rimettiamo tutti i peccati.
Per una volta alla domenica che andiamo alla messa dal prete,
da cattivi tutto d’un tratto diventiamo buoni come le monete.
Abbiamo San Biagio, con la fiera, la cupeta e i taralli,
come abbiamo Sant’Antonio con i cavalli.
Di San Biagio e Sant’Antonio dopo i falò per le strade cosa mi resta,
se ci ricordiamo di loro solo per la festa.
Non ci scordiamo poi della processione per la Madonna e Cristo morto, pure che sia,
come neanche ci dobbiamo dimenticare di San Giuseppe con la Tria.
Abbiamo gli oratori dove portiamo i figli senza prebende,
li lasciamo agli altri, perché abbiamo da fare altri faccende.
Per fare sport abbiamo il campo sportivo e il palazzetto,
mentre io da bambino giocavo giù alle cave senza tetto.
Abbiamo le vigne e gli ulivi, il grano, i fichi e i fichi d’india con aculei tesi,
abbiamo la zucchina, i cummarazzi e i pomodori appesi.
Abbiamo pure il commercio e le fabbriche per lavorare,
i padroni pagano poco, ma basta per campare.
Abbiamo la spiaggia a quattro passi, tanto è vicina,
con Specchiarica e la Colimena, il Bacino e la Salina.
I barbari padani ci chiamano terroni mantenuti,
mica l’hanno pagato loro il sole e il mare, questi cornuti??
Io so quanto è amaro il loro pane o la michetta,
sono cattivi pure con la loro famiglia stretta.
Abbiamo il cimitero dove tutti ci dobbiamo andare,
lì ci sono i fratelli e le sorelle, le madri e i padri da ricordare.
Quelli che ci hanno lasciato Avetrana, così come è stata,
e noi la dobbiamo lasciare meglio di come l’abbiamo trovata.
Nessuno è profeta nella sua patria, neanche io,
ma se sono nato qua, sono contento e ringrazio Dio.
Anche se qua si sentono alti pure i nani,
che se non arrivano alla ragione con la bocca, la cercano con le mani.
Qua so chi sono e quanto gli altri valgono,
a chi mi vuole male, neanche li penso,
pure che loro mi assalgono,
io guardo avanti e li incenso.
Potevo nascere tra la nebbia della padania o tra il deserto,
sì, ma li mi incazzo e poi non mi diverto.
Avetrana mia, finchè vivo ti faccio sempre onore,
anche se i miei paesani non hanno sapore.
Il denaro, il divertimento e la panza,
per loro la mente non ha usanza.
Ti lascio questo poema come un quadro o una fotografia tra le mani,
per ricordarci sempre che oggi stiamo, però non domani.
Dobbiamo capire: siamo niente e siamo tutti di passaggio,
Avetrana resta per sempre e non ti dà aggio.
Se non lasci opere che restano,
tutti di te si scordano.
Per gli altri paesi questo che dico non è diverso,
il tempo passa, nulla cambia ed è tutto tempo perso.
La Ballata ti l'Aitrana di Antonio Giangrande
Aitrana mia, quà già natu e ce ma ffà,
no ti pozzu vetè, ma senza ti te no pozzu stà.
Putia nasciri in Francia o in Germania, comu sia,
però putia nasciri puru in africa o in Albania.
Simu italiani, ti la provincia tarantina,
simu sì pugliesi, ma ti la penisula salentina.
Lu paisi iè piccinnu e li cristiani sempri sciotucunu,
quiddu ca ticunu all’icinu iè veru o si l’unventunu.
Qua sinti quarche tunu sulu ci tieni, noni ci sinti,
Li parienti puè so viscidi comu li serpienti.
Li femmini e li masculi so belli o carini,
ma ni spusamu sempri alli paisi chiù icini.
Tinimu lu castellu e puru lu Torrioni,
comu tinumu la giostra ti li rioni,
pi fa capii ca tinimu l’origini luntani,
no cumu li barbari ti li padani.
Tinimu li grotti e sotta la chiazza lu trappitu,
li funtani ti l’acqua e li cantini ti lu mieru e di l’acitu.
Tinimu lu municipiu donca fili filori sempri li soliti cumannunu,
lu Comuni donca cu si sentunu impurtanti tutti oluni bannu.
Lu comuni ‘ntitolato alla Santu, ca era dottori mia,
ti fronti alla sala gialla, chiamata Catuti ti Nassiria.
Tiempu ti votazioni pecuri e puerci si mettunu in lista,
pi fottiri li bianchi, li neri e li rossi, stannu tutti in pista.
Basta ca mettunu li manifesti cu li fotu pi li vii e pi la chiazza,
cu si fannu utà ti li amici e di tutta la razza.
Però quà votunu ci tu tai,
e no piccè puru ca tu sai.
Tinumu la caserma cu li carabinieri e no li oiu mali,
ma qua puru li marescialli si sentunu generali.
Tinimu li scoli elementari e medi. Ce li tinimu a fà,
ci continui a studià, o ti ni ai ti quà o ta ffà raccumandà.
Cu parli cu li villani no cunvieni,
quisti sapunu chiù ti la lauria ca tieni.
Sobbra all’argumentu ti ticunu ca iè noni,
tu tieni tuertu, piccè le ditto la televisioni.
Sulu nui tinimu l’avvocatu chiù giovini t’Italia,
pi li paisani, inveci, iè peggiu ti lu ciucciu ca raia.
Ci li diamanti alli puerci tai,
quiddi li scanzunu e mirunu alli fai.
Tinumu la chiazza cu lu giardinettu,
do si parla ti pulitica nera, bianca e rossa.
Tinimu la chiazza cu l’orologio iertu,
do si parla ti palloni, cu la sparamu grossa.
Tinimu la chiazza ti la strata ti mari,
donca ni sputtanunu li giornalisti amari.
Tinimu li chiesi donca pari simu amati,
e donca rimittimu tutti li piccati.
Pi na sciuta a la tumenica alla messa do li papi,
di cattivi tuttu ti paru divintamu bueni comu li rapi.
Tinumu San Biagiu, cu la fiera, la cupeta e li taraddi,
comu tinimu Sant’Antoni cu li cavaddi.
Ti San Biagiu e Sant’Antoni toppu li falò pi li strati c’è mi resta,
ci ni ricurdamo ti loru sulu ti la festa.
No nni scurdamu puè ti li prucissioni pi la Matonna e Cristu muertu, comu sia,
comu mancu ni ma scurdà ti San Giseppu cu la Tria.
Tinimu l’oratori do si portunu li fili,
li facimu batà a lautri, piccè tinimu a fà autri pili.
Pi fari sport tinimu lu campu sportivu e lu palazzettu,
mentri ti vanioni iu sciucava sotto li cavi senza tettu.
Tinimu li vigni e l’aulivi, lu cranu, li fichi e li ficalinni,
tinimu la cucuzza, li cummarazzi e li pummitori ca ti li pinni.
Tinimu puru lu cummerciu e l’industri pi fatiari,
li patruni paiunu picca, ma basta pi campari.
Tinumu la spiaggia a quattru passi tantu iè bicina,
cu Spicchiarica e la Culimena, lu Bacinu e la Salina.
Li barbari padani ni chiamunu terruni mantinuti,
ce lonnu paiatu loro lu soli e lu mari, sti curnuti??
Sacciu iù quantu iè amaru lu pani loru,
so cattivi puru cu li frati e li soru.
Tinimu lu cimitero donca tutti ma sciri,
ddà stannu li frati e li soru, li mammi e li siri.
Quiddi ca nonnu lassatu laitrana, comu la ma truata,
e nui la ma lassa alli fili meiu ti lu tata.
Nisciunu iè prufeta in patria sua, mancu iù,
ma ci già natu qua, so cuntentu, anzi ti chiù.
Puru ca quà si sentunu ierti puru li nani,
ca ci no arriunu alla ragioni culla occa, arriunu culli mani.
Qua sacciu ci sontu e quantu l’autri valunu,
a cinca mi oli mali mancu li penzu,
puru ca loru olunu mi calunu,
iu passu a nanzi e li leu ti mienzu.
Putia nasciri tra la nebbia di li padani o tra lu disertu,
sì, ma ddà mi incazzu e puè non mi divertu.
Aitrana mia, finchè campu ti fazzu sempri onori,
puru ca li paisani mia pi me no tennu sapori.
Li sordi, lu divertimentu e la panza,
pi loro la menti no teni usanza.
Ti lassu sta cantata comu nu quatru o na fotografia ti moni,
cu ni ricurdamu sempri ca mo stamu, però crai noni.
Ma ccapì: simu nisciunu e tutti ti passaggiu,
l’aitrana resta pi sempri e no ti tai aggiu.
Ci no lassi operi ca restunu,
tutti ti te si ni scordunu.
Pi l’autri paisi puè qustu ca ticu no iè diversu,
lu tiempu passa, nienti cangia e iè tuttu tiempu persu.
Testi scritti il 24 aprile 2011, dì di Pasqua.
INTRODUZIONE.
Le stragi irrisolte. La vergogna infinita dei misteri d'Italia, scrive Venerdì 6 Dicembre 2013 Paolo Graldi su Il Messaggero. Del fatto, si sa, era il 2 agosto 1980. Tre parole per dirlo: strage di Bologna. L’ultima notizia, invece, è di questi giorni, avvolta in un velo di sconcerto ipocrita: ancora una volta non ci saranno i soldi per risarcire le vittime, i feriti, i famigliari. Lo Stato promette, rassicura, s’inchina. E scappa. Chi ci ha lasciato la vita, vittima inconsapevole e innocente, chi sopporta da trent’anni e più la ferita aperta di quella infinita notte della Repubblica, chi ha perso per sempre il sonno e sopravvive singhiozzando tra gli incubi (oltre alla stazione di Bologna, è assai lungo l’elenco con il massacro di Piazza Fontana, la bomba di Peteano, Piazza della Loggia, Ustica, l’Italicus, via dei Georgofili, la strage di San Benedetto Val di Sambro e molto altro), una intera, vastissima e dolente comunità, sorretta da una fierezza incrollabile, si sente ancora una volta tradita nei propri diritti. La querelle infinita sui conti mai saldati agisce come una metafora sulla disastrosa incapacità del Paese di porre la parola fine sulla stagione dei massacri e dei delitti con l’infamante marchio della politica. «Un Paese che rinuncia alla speranza di avere giustizia ha già rinunciato non solo alle proprie leggi, ma alla sua storia stessa. Ecco perché severamente, ma soprattutto ostinatamente, aspettiamo», ha scritto Sergio Zavoli nel suo imperdibile “La notte della Repubblica”, raccogliendo il pensiero di un sopravvissuto alla strage del 2 agosto. In quel libro, che è la trascrizione della serie tv, c’è anche la testimonianza di Vincenzo Vinciguerra, neofascista all’ergastolo, autore della strage di Peteano, una trappola in un’auto bomba per falciare una pattuglia di carabinieri. Quest’uomo, mai pentito, racconta “da dentro” quella terrificante stagione. E di quella è l’unico colpevole certo. Infatti è reo confesso. E dal ’72 è «da solo in guerra con lo Stato». Neofascisti irriducibili, iscritti alla loggia P2 di Licio Gelli, generaloni e colonnelli dei carabinieri al Sifar, poi al Sid e infine al Sisde in posti di prima grandezza sono stati riconosciuti colpevoli di gravissimi depistaggi, trame complesse, sempre orchestrate in nome della paura di una guerra civile fatta scoppiare dai comunisti, mestatori impuniti e spavaldi, chiamati a proteggere lo Stato dall’assalto rosso. Giudici coraggiosi, alcuni hanno pagato con la vita (Occorsio, Amato, Scopelliti, il fratello di Imposimato), hanno cercato di dipanare la matassa del terrore ma la loro strada si è spesso incrociata con ostacoli insormontabili: chi doveva aiutarli nelle indagini, le ostacolava. Nella strage di Ustica, per esempio, l’ostinazione inarrendevole di Rosario Priore assieme con i rottami del Dc9 Itavia, inabissatosi poco più di un mese prima della bomba alla stazione di Bologna (coincidenza?), ha fatto riemergere dagli abissi tutte le losche complicità di altissimi ufficiali dell’Aeronautica, colpevoli (è storia di questi giorni, accertata definitivamente) di aver celato elementi indispensabili a ricostruire l’accaduto. Ora si sa che un missile fece precipitare l’aereo con il suo carico di 81 passeggeri diretti a Palermo. Ma ragion di Stato e opportunismi internazionali impediscono tuttora di vedere il traguardo. Senza nome anche i responsabili dell’esplosione a Piazza della Loggia, Brescia (28 maggio 1974), un evento che segnò la fase più cruenta e strategica dello stragismo. Nessun colpevole certo, tanti processi, come per Bologna con un gruppetto di ultraneri, in testa Valerio Fioravanti e Francesca Mambro (colpevoli mai pentiti di una catena di omicidi nella guerriglia tra rossi e neri), condannati al carcere a vita per quella bomba alla stazione che negano risolutamente di aver fatto scoppiare e attualmente liberi dopo aver scontato oltre vent’anni. Vuoto, fitto di pagine bianche, mai scritte e dunque neppure mai cancellate, il capitolo dei mandanti: certo, intrecci con la malavita romana, la famigerata banda della Magliana, sodalizi criminali con boss della mafia siciliana (Pippo Calò), mescolanze politiche e malavitose quante se ne vogliono ma niente che illumini il quadro. Chiari i moventi, oscuri o comunque liberi i mandanti. Accanto a singoli episodi chiariti nei dettagli, per esempio la figura di Concutelli e di Tuti, assatanati assassini, o quella dei Moretti o dei Bonisoli sul fronte opposto, quello della sanguinaria epopea delle Brigate Rosse e con l’assassinio di Aldo Moro, gli scenari dei colpevoli si allungano ai nostri giorni, in un’inesauribile dispiegarsi di verità e di controverità, di rivelazioni e di sconfessioni. Se davvero è «beato quel Paese che non ha bisogno di eroi», è angosciante constatare che certo di eroi sono pieni i nostri cimiteri. Forse non inutilmente, si potrebbe sussurrare con ritegno. Ma il Paese quegli eroi dovrà pure meritarseli un giorno e saprà farlo solo quando la vera storia delle stragi, sia di terrorismo sia di mafia, sarà scritta senza che l’ultima riga sia dedicata all’annuncio della “prossima puntata”.
Licio Gelli, i misteri d’Italia e gli alibi di una colonia, scrive Adriano Scianca il 16 dicembre 2015 su ilprimatonazionale.it. Che Licio Gelli, ex venerabile della loggia P2, morto a 96 anni nella sua residenza di Villa Wanda, ad Arezzo, porti con sé nella tomba tanti segreti d’Italia è cosa sin troppo scontata da dire in questo momento. Il nome del massone toscano – era nato a Pistoia il 21 aprile del 1919 – è stato per anni il jolly da giocare in ogni inchiesta vecchia e nuova, in ogni episodio poco chiaro della storia d’Italia, in ogni ricostruzione di ciò che ci sfugge su delitti, stragi, scandali, truffe. Lui, divertito, assecondava la sua fama, concedendo di tanto in tanto interviste piene di allusioni e ammiccamenti, su cui poi la stampa ricamava per settimane. Questo non vuol dire che Gelli fosse soltanto una macchietta o uno specchietto per le allodole: di trame ne ha sicuramente fatte un bel po’ e su tanti misteri della nostra storia ne sa molto più di noi. Ma è un po’ l’ossessione per il “Grande Vecchio” che va smontata. L’idea, cioè, che la Grande Spiegazione sia tutta concentrata in un punto: un uomo o magari un archivio. E che quindi, se il male è tutto lì, noi non abbiamo nulla da rimproverarci. Ricordate quando Renzi sparò la boutade dei documenti riservati da desecretare? Molti credettero che a quel punto sarebbe uscita fuori una stanza del Viminale in cui trovare tutte le risposte a tante domande sulla nostra storia recente. Una cosa tipo: “Bologna, strage di”, “Ustica, verità su”, “Sindona, identità dell’assassino”. Ovviamente non esiste nulla del genere. Sarebbe troppo comodo ed è anche un alibi per tutti noi: ci fa credere che tutti i nostri problemi siano racchiusi in grandi bugie che entità malefiche ci hanno sempre propinato. Noi siamo innocenti, è il potere che è cattivo, noi vorremmo un’Italia migliore, ma con tutti questi complotti non è possibile averla. Purtroppo non è (solo) così, perché in Italia lo status di colonia – che è alla vera origine di tutti i cosiddetti “misteri” – è da sempre palese, rivendicato. E il servilismo dei tenutari locali che intendono mettersi in luce con i colonizzatori è altrettanto esplicito. Cosa può aver fatto nell’ombra Gelli che Letta, Monti o Renzi non abbiano già attuato alla luce del sole? Quando la cessione di sovranità è programma di governo, l’opera dei mestatori vari è tutt’al più manovalanza sporca. Del resto se esiste il Grande Vecchio, basta eliminare lui e tutto torna a posto. E invece questo non accade (allo stesso modo, nel neofascismo molti sono convinti di riassumere il fallimento di una storia politica puntando il dito contro il Grande Traditore, dimenticando invece i tanti tradimenti diffusi, che tuttavia vengono perdonati se si trova un capro espiatorio unico e generale). Ora, i complotti, le trame, le guerre sporche esistono. Ma prosperano sulla resa di tutta la classe politica e prima ancora sul fatalismo, l’ignavia e la passività di un popolo. È inutile scandalizzarsi per il gioco sporco di soggetti che sono sempre esistiti, in ogni luogo e in ogni epoca. Faremmo molto meglio a incazzarci per la nostra resa che a tali personaggi ha reso la vita sin troppo facile.
Italia, Paese dei casi irrisolti. Il delitto di via Poma rimarrà senza un colpevole. La Cassazione, dopo 24 anni, ha stabilito che non esiste un colpevole. Ecco perché in Italia, secondo un ex agente segreto, non siamo capaci più di investigare. I casi italiani senza colpevoli, scrive Nadia Francalacci il 27 febbraio 2014 su "Panorama". "In Italia manca l’arte.Troppa scienza, troppa tecnologia, troppe prove virtuali. Sono queste che distruggono le inchieste e contribuiscono a far rimanere impuniti gli autori di delitti”. E ieri nelle aule della Corte di Cassazione di Roma, l'ennesima riprova: perizie e ricostruzioni virtuali "smontate" da controperizie e contro-ricostruzioni. Il risultato? E' sempre quello: il delitto irrisolto, senza colpevole. E' finita così dopo 24 anni, anche il delitto di Simonetta Cesaroni, uccisa il 7 agosto 1990 con decine di coltellate, in via Poma, a Roma. L'unico imputato del delitto, l'ex fidanzato Raniero Busco che però in Corte d'Appello, nel 2012, era stato assolto "per non aver commesso il fatto". Un'assoluzione che è stata confermata ieri in Cassazione. Ma la cronaca in Italia sembra destinata a diventare sempre più spesso storia. Una storia, con la “S” maiuscola che molte volte non ha una soluzione. Sono tanti infatti i misteri italiani irrisolti senza un mandante, senza colpevoli dove i poteri politici e militari si sono mescolati con la malavita, servizi segreti deviati e esponenti del Vaticano. Dal caso Calvi al caso Sindona; dal Piano Solo con il generale De Lorenzo a Gladio e i servizi segreti; dalla Loggia P2 al caso Mattei. Ma a questi intricati fatti di cronaca diventati Storia senza soluzione, adesso se ne stanno aggiungendo altri, molto più semplici, che “rischiano” però di passare alla storia come i “nuovi” misteri irrisolti: il caso Garlasco e l’omicidio di Yara Gambirasio. “Nel nostro Paese è scomparso l’investigatore da marciapiede – confessa a Panorama.it, Vittorio, ex agente dei Servizi segreti che per anni si è occupato di antiterrorismo – adesso le indagini sono basate esclusivamente sulla tecnologia, sulla scienza. Niente di più sbagliato. La tecnologia deve essere di supporto all’arte altrimenti si rischia di costruire solo prove virtuali che in ambito processuale vengono facilmente “distrutte”. E quando parlo di “arte”, mi riferisco all’uomo, all’intelligenza dell’investigatore, al suo intuito e alle sue capacità di stare tra la gente, per strada”. Secondo l’ex agente, la maggior parte dei casi di cronaca che sono rimasti irrisolti in questi ultimi anni in Italia, sono stati solo oggetto di perizie e studi scientifici che in sede processuale sono risultati facilmente “smontabili” e non di vere e proprie indagini. Ovvero di ricostruzioni strutturate e logiche del delitto. “Il caso del delitto di Garlasco ci mostrano come perizie tecniche contro perizie tecniche portino solamente alla chiusura di un iter processuale senza l’individuazione e la condanna del colpevole – continua Vittorio – probabilmente se ad investigare ci fosse stato un maresciallo come per la strage di Erba, forse anche per l'autore del delitto di Chiara Poggi si sarebbe arrivati all’ergastolo proprio come per Olindo e Rosa”. “Quel caso è stato risolto da un solo maresciallo che invece di stare in caserma davanti ad un computer o di aspettare rilievi scientifici e tecnici ha cominciato a parlare con la gente, ha cercato di capire il contesto dove è maturata la strage – continua l’ex agente dei servizi – ed ha acquisito delle prove anzi “la prova” che ha portato alla condanna dei due autori della strage: ergastolo. Davanti ad una prova acquisita sul campo non c’è la possibilità che quest’ultima possa essere smontata da perizie, se pur scientifiche, che però sono basate solo su dati e informazioni virtuali”. E in questo modo potevano essere già stati chiusi anche i casi di Perugia e Garlasco. “Il caso Garlasco si è “giocato” processualmente quasi tutto sul computer del ragazzo: se questo fosse acceso o spento, se lui lavorasse o meno durante l’orario dell’omicidio- continua - ma probabilmente agli investigatori sarebbe bastato ‘vivere’ tra gli abitanti del quartiere dove è stata uccisa Chiara Poggi, camminare sui quei marciapiedi, parlare con gli abitanti per farsi dire chi è entrato in quella casa. E avremmo saputo senza bisogno di alcuna perizia chi era l’assassino e l’ora precisa del delitto. Stessa identica cosa per il caso di Perugia”. “Lo spionaggio è l’arte antica dell’investigatore che purtroppo è stata dimenticata – prosegue – ma che è e rimane l’arme vincente per risolvere un caso: da quelli più semplici a quelli molto più complessi. Purtroppo a rovinare le indagini sono state due cose: la tecnologia e i pentiti. Gli investigatori, con l’arrivo della figura del pentito, hanno smesso di “spiare” e si sono limitati a verificare. Niente di più sbagliato. Inoltre, oggi a distruggere definitivamente un’inchiesta e a compromettere il risultato di un processo c’è il magistrato che ha la presunzione di mettersi a fare l’investigatore. Ecco perché i casi non si risolvono”. Ma secondo Vittorio, in Italia è sbagliato anche l’intero sistema, l’organizzazione investigativa, che contribuisce a creare caos e a rendere “misteriosi” omicidi dalle dinamiche banali. “In Italia devono essere ben distinti i ruoli. Ci deve essere il poliziotto investigatore e quello amministrativo – continua – e l’investigatore deve stare in strada, in mezzo alla gente a spiare. Deve essere solo questo il suo lavoro”. Diverso invece il caso di Yara Gambirasio. “Nell’inchiesta sull’omicidio della piccola Yara manca proprio il metodo – conclude l’ex agente dell’intelligence - e si rischia che un tecnico, uno scienziato capace di “costruire” una perizia o uno studio riesca a creare un colpevole o a far assolvere il vero responsabile di quell’atroce assassinio. Risultato? Che giustizia non verrà mai fatta e che probabilmente diverrà uno degli ormai molteplici gialli irrisolti”.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
I conoscenti si incontrano. I compagni ed i parenti si impongono e si subiscono. I coniugi si tollerano. I figli si accettano. Gli amici si scelgono. Io non ho amici per il sol fatto che da loro voglio la perfezione. E, in questo mondo, nessuno è perfetto. (Compreso me).
La definizione di mafie del dr Antonio Giangrande è: «Sono sodalizi mafiosi tutte le organizzazioni formate da più di due persone specializzati nella produzione di beni e servizi illeciti e nel commercio di tali beni. Sono altresì mafiosi i gruppi di più di due persone che aspirano a governare territori e mercati e che, facendo leva sulla reputazione e sulla violenza, conservano e proteggono il loro status quo». In questo modo si combattono le mafie nere (manovalanza), le mafie bianche (colletti bianchi, lobbies e caste), le mafie neutre (massonerie e consorterie deviate).
A molti individui, istituzioni ed intellettuali compresi, si dà una certa importanza, spesso e volentieri mal riposta. Questi, se li si conosce bene, ti portano a ravvisare la loro infimità.
Per questo eliminerò dalla lista tutti coloro che usano FB come strumento di lotta politica, senza costrutto. Si semina odio e non ci si prodiga alla proposta. Terrò tutti coloro che segnalano fatti che arricchiscano il sapere ed allargano gli orizzonti. In politica, per vincere basta essere migliori, forti delle proprie ragioni, e non succubi dei mediocri, senza necessità di eliminare il nemico.
"Io so di non sapere". Il problema è che, questo modo di essere, adesso è diventato: "Io so di non sapere e me ne vanto". Oggi essere ignoranti è qualcosa di cui vantarsi. Prima c’erano i sapienti, da cui si pendeva dalle loro labbra. Poi sono arrivati gli uomini e le donne iperspecializzate, a cui si affidava la propria incondizionata fiducia. Alla fine è arrivata la cultura “fai da te”, tratta a secondo delle proprie fonti: social o web che sia. A leggere i saggi? Sia mai!
In Italia: i giornalisti non informano; i professori non istruiscono. Essi fanno solo propaganda. Sono il megafono della politica e delle vetuste ideologie e quelli di sinistra son molto solidali tra loro. Se fai notare il loro propagandismo e te ne lamenti, si risentono e gridano alla lesa maestà, riportandosi alla Costituzione Cattomassonecomunista. In natura i maiali, se ne tocchi uno, grugniscono tutti, richiamando il loro diritto di parola.
Scritto tanti anni fa, ma ancora attuale. John Swinton, redattore capo del New York Times, 12 aprile 1893. “In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so pure io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che se lo facesse esse non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattr’ore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza, e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so pure io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali”.
I governanti sono esclusivamente economisti. Loro valutano il costo delle loro decisioni in termini economici, non misurano l’indispensabilità, quindi l’utilità delle loro scelte. Il popolo vuole pane e divertimento. La libertà, per la gleba, può andarsi a fare fottere. Ecco perché i governi scelgono di non far niente. E quel niente è importante che sia più utile che giusto. In questo modo cristallizzano lo status quo.
I Governi sono in balia degli umori del popolo.
I capitalisti non vogliono dare niente, i comunisti vogliono solo avere tutto.
I Governi, dettata l’agenda economica, non avendone la perizia, delegano l’aspetto pratico del governare agli apparati burocratici. I burocrati ed i magistrati legiferano e decretano a loro vantaggio, ammantando il loro potere fossilizzato da abuso ed impunità decennale.
Il popolo tapino subisce e tace, senza scrupolo di coscienza, perché chi non vuol dare, non dà; chi vuole avere, ha!
I pericoli dell'anarco-marxismo dietro la democrazia diretta. Il potere anche se espropriato finisce ai dirigenti politici, non certo al popolo, scrive Francesco Alberoni, Domenica 07/10/2018, su "Il Giornale". La democrazia moderna è nata dalla concezione di Hobbes e Locke. Essa distingue fra governanti e governati. I governati rinunciano al loro potere a favore dei governanti (classe politica, Parlamento) perché garantisce loro la pace, la proprietà e il rispetto dei diritti fondamentali e inalienabili. Se i governanti governano male verranno sostituiti. A questa concezione, in epoca moderna si sono opposte in modo radicale due concezioni: quella marxista e quella anarchica. Il marxismo nega la funzione dell'imprenditore. L'imprenditore, chiamato capitalista, deruba il lavoratore di parte del suo lavoro (plusvalore) e con questo acquista i mezzi di produzione con cui ruberà altro pluslavoro ad altri lavoratori. Bisogna perciò espropriarlo di questo furto e restituire il maltolto ai lavoratori. E chi inventerà, chi dirigerà la produzione? I lavoratori stessi. In realtà i lavoratori da soli non organizzano e non dirigono niente. Dopo la rivoluzione sovietica a farlo sarà lo Stato, in realtà la classe politica formata dai dirigenti del Partito comunista. Gli anarchici invece negano la funzione dei governanti: il popolo sa fare tutto da solo. In questo caso bisogna espropriare i politici del loro potere e restituirlo al popolo. Questa idea, che si è realizzata nel passato nelle piccole comunità come decisione di tutti i cittadini riuniti in assemblea, è stata riportata alla ribalta in Italia dai Cinque Stelle come democrazia diretta attraverso il web in cui il popolo fa tutte le leggi, prende tutte le decisioni senza bisogno di una classe politica e dirigente. Dove viene applicato questo sistema il potere lo prendono i dirigenti del partito. Di solito promettendo anche ciò che non potranno dare, e lo conservano con la repressione. In Italia per molto tempo è stato diffuso il marxismo, oggi si è fatto strada l'anarchismo e il mito della democrazia diretta. È strano che queste concezioni e il tipo di conseguenze che hanno sul sistema politico ed economico non siano oggetto di analisi e di approfondimenti sulla stampa e la tv perché si tratta di una svolta radicale che stiamo vivendo ed è la causa del disagio di questa nostra epoca ed è un pericolo per la democrazia.
La liturgia della politica nel nome della democrazia, in fondo, è tutta una presa per il culo….
Perché non esiste politica; non esiste democrazia. Esiste solo l’economia e la finanza. L'utile ed il dilettevole.
I soldi governano il mondo. Non la democrazia o la dittatura, né tanto meno la fede.
Poveri stolti. “Non fatevi tesori sulla terra, dove la tignola e la ruggine consumano, e dove i ladri scassinano e rubano; ma fatevi tesori in cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano né rubano” (Matteo 6:19-20).
Vangelo di Matteo, 7, 1: “Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.”
Col giudizio con cui giudichi sarai giudicato… ma non da Dio – e difatti Gesù non dice minimamente una cosa del genere – ma da te stesso, perché tu sei il tuo unico giudice. La misura la decidi tu, e anche questo Gesù lo dice molto chiaramente, in un modo indubitabile per chiunque non abbia dei paraocchi davanti agli occhi.
Giudica, e sarai giudicato. Perdona, e sarai perdonato. Dai, e ti sarà dato. E sarai sempre tu a giudicarti, a perdonarti e a darti qualcosa, perché sei tu l’unico padrone delle tue energie interiori.
Matteo 7:
1 Non giudicate, per non essere giudicati;
2 perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati.
3 Perché osservi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, mentre non ti accorgi della trave che hai nel tuo occhio?4 O come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell'occhio tuo c'è la trave?
5 Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.
6 Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi.
7 Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto;
8 perché chiunque chiede riceve, e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
9 Chi tra di voi al figlio che gli chiede un pane darà una pietra?
10 O se gli chiede un pesce, darà una serpe?
11 Se voi dunque che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele domandano!
12 Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti.
13 Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa;
14 quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!
15 Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci.
16 Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?
17 Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi;
18 un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni.
19 Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco.
20 Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere.
21 Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli.
22 Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demòni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome?
23 Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità.
24 Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia.
25 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia.
26 Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia.
27 Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande».
28 Quando Gesù ebbe finito questi discorsi, le folle restarono stupite del suo insegnamento:
29 egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi.
Io, Antonio Giangrande, sono orgoglioso di essere diverso.
Faccio quello che si sento di fare e credo in quello che mi sento di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.
Da una parte, l’ideologia comunista si è adoperata con la corruzione culturale:
attraverso la televisione di Stato e similari;
con la propaganda ideologica continua dei giornalisti militanti di regime;
con insegnamenti ed indottrinamenti ideologici scolastici ed universitari frutto di una egemonia culturale.
Dall’altra parte, la depravazione culturale messa in opera dalle televisioni commerciali di Berlusconi, anticomuniste ed antimeridionaliste.
Infine con la perversione delle religioni, miranti ad avere il predominio delle masse per il proprio sostentamento.
Insomma. Lavaggio del cervello: dalla culla alla tomba.
Governare e legiferare secondo l’ideologia fascio/comunista? No!
Governare e legiferare secondo i dettati propri di una cattiva fede? No!
Essere liberali vuol dire, in poche parole, che basta agire correttamente ed in buona fede e comportarsi come un buon padre di famiglia.
Agire e comportarsi come un buon padre di famiglia: cosa significa?
In cosa consiste la diligenza del buon padre di famiglia nell’ambito delle obbligazioni del diritto civile: l’obbligo di adempiere alla prestazione in buona fede e in modo corretto.
Adempimento delle obbligazioni: correttezza e buona fede. Il codice civile stabilisce che sia il debitore sia il creditore devono comportarsi correttamente nell’adempimento delle relative obbligazioni, sempre secondo buona fede. La seconda regola imposta dal codice civile in materia di esecuzione del contratto riguarda la diligenza del buon padre di famiglia. Cosa significa e cosa si intende con tale termine? Sicuramente anche in questa ipotesi la legge ha preferito usare un termine generale e astratto. Ma il suo significato è facilmente individuabile. Il “buon padre di famiglia” è colui che “ci tiene” e che è premuroso, colui cioè che fa di tutto pur di realizzare l’interesse dei figli. Il che significa che egli assume l’impegno a conseguire, quanto più possibile, il risultato promesso.
Il codice civile richiama il concetto di buon padre di famiglia in una serie di norme. Eccole qui di seguito elencate:
Art. 382 Codice civile – Responsabilità del tutore e del protutore: «Il tutore deve amministrare il patrimonio del minore con la diligenza del buon padre di famiglia. Egli risponde verso il minore di ogni danno a lui cagionato violando i propri doveri».
Art. 1001 Codice civile – Obbligo di restituzione. Misura della diligenza: «L’usufruttuario deve restituire le cose che formano oggetto del suo diritto, al termine dell’usufrutto, salvo quanto è disposto dall’art. 995».
Art. 1176 Codice civile – Diligenza nell’adempimento: «Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia».
Art. 1227 Codice civile – Concorso del fatto colposo del creditore: «Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate».
Art. 1587 Codice civile – Obbligazioni principali del conduttore: «Il conduttore deve prendere in consegna la cosa e osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene per l’uso determinato nel contratto o per l’uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze (…)».
Art. 1710 Codice civile – Diligenza del mandatario: «Il mandatario è tenuto a eseguire il mandato con la diligenza del buon padre di famiglia; ma se il mandato è gratuito, la responsabilità per colpa è valutata con minor rigore».
Art. 1768 Codice civile – Diligenza nella custodia: «Il depositario deve usare nella custodia la diligenza del buon padre di famiglia».
Art. 1804 Codice civile – Obbligazioni del comodatario: «Il comodatario è tenuto a custodire e a conservare la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia. Egli non può servirsene che per l’uso determinato dal contratto o dalla natura della cosa».
Art. 1838 Codice civile – Deposito di titoli in amministrazione: «La banca che assume il deposito di titoli in amministrazione deve custodire i titoli, esigerne gli interessi o i dividendi, verificare i sorteggi per l’attribuzione di premi o per il rimborso di capitale, curare le riscossioni per conto del depositante, e in generale provvedere alla tutela dei diritti inerenti ai titoli. Le somme riscosse devono essere accreditate al depositante (…). E’ nullo il patto col quale si esonera la banca dall’osservare, nell’amministrazione dei titoli, l’ordinaria diligenza».
Art. 1957 Codice civile – Scadenza dell’obbligazione principale: «Il fideiussore rimane obbligato anche dopo la scadenza dell’obbligazione principale purchè il creditore entro sei mesi abbia proposto le sue istanze contro il debitore e le abbia con diligenza continuate».
Art. 2104 Codice civile – Diligenza del prestatore di lavoro: «Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale».
Art. 2148 Codice civile – Obblighi di residenza e di custodia: «Il mezzadro ha l’obbligo di risiedere stabilmente nel podere con la famiglia colonica».
Art. 2158 Codice civile – Morte di una delle parti [in tema di mezzadria]: « (….) In tutti i casi, se il podere non è coltivato con la dovuta diligenza il concedente può fare eseguire a sue spese i lavori necessari, salvo rivalsa mediante prelevamento sui prodotti e sugli utili».
Art. 2167 Codice civile – Obblighi del colono: «Il colono deve prestare il lavoro proprio secondo le direttive del concedente e le necessità della coltivazione. Egli deve custodire il fondo e mantenerlo in normale stato di produttività; deve altresì custodire e conservare le altre cose affidategli dal concedente con la diligenza del buon padre di famiglia».
Art. 2174 Codice civile – Obblighi del soccidario: «Il soccidario deve prestare, secondo le direttive del soccidante, il lavoro occorrente per la custodia e l’allevamento del bestiame affidatogli, per la lavorazione dei prodotti e per il trasporto sino ai luoghi di ordinario deposito. Il soccidario deve usare la diligenza del buon allevatore».
Nessuno tocchi il “buon padre di famiglia”. E nessuno tocchi i termini “padre” e “madre”, scrive Silvano Moffa venerdì 24 gennaio 2014 su "Il Secolo D’Italia". Dopo il demenziale scardinamento del valore dei termini padre e madre, sostituibili da quelli di genitore 1 e genitore 2, l’idea francese di cancellare il “buon padre di famiglia” fa drizzare i capelli. L’emendamento approvato dal Parlamento parigino a un progetto di legge sulla pari opportunità tra generi, che elimina dal codice una formula del linguaggio giuridico corrente, non ha senso. Tutto, ovviamente, avviene nel nome di un sessismo e di una presunta modernità nei rapporti relazionali tra le persone, che travalica finanche il senso antico che la locuzione aveva assunto, sopravvivendo al tempo e ai cambiamenti sociali. La questione non è di poco conto, e non va sottovaluta. Non fosse altro che per il fatto che la “diligenza del buon padre di famiglia”, come assioma concettuale e formula di rito nel campo del diritto, è stata abbandonata in Germania in favore di altra considerata più moderna, mentre è sopravvissuta in Italia e, finora, in Francia. La formula compare nelle fonti del diritto romano a partire dal periodo classico. Furono i giuristi dell’epoca a forgiarne il senso, individuando nel bonus, prudens et diligens pater familias il soggetto capace di amministrare accuratamente i propri affari, più o meno come avveniva per il capo dell’azienda agraria domestica, sui cui si basava la civiltà romana dell’epoca. In seguito, con l’introduzione dei codici giustinianei, la nozione si è allargata, fino ad assumere la portata di un criterio generale per individuare i canoni corretti della prestazione, e il comportamento che deve tenere il debitore diligente. Con l’evoluzione dei tempi e della società, la “diligenza del buon padre di famiglia” è arrivata fino ai giorni nostri, scandendo un comportamento medio come sinonimo di saggezza, di legalità, di etica comportamentale. Un criterio applicato in maniera più vasta e diffusa nel corpo legislativo e negli stessi esiti giurisdizionali. Ora, non c’è dubbio che per comprendere la portata di una tale locuzione bisogna risalire alle origini. Come è chiaro che, per il fatto stesso che il concetto sia diventato più diffuso nella sfera del linguaggio giuridico, comporta che le ragioni che ne spiegano l’uso ricorrente e la portata siano fra loro molto differenti. Ma da qui a decretarne l’abolizione per uno scopo di pari opportunità di genere ne corre. Pietro de Francisci, uno dei maggiori storici del diritto romano, spiega nei suoi studi come la struttura della società romana primitiva (comunità di patres) fosse l’architrave su cui poggiava tutto il sistema dell’epoca: lo ius Quiritium. Fino alla fine del V secolo, il pater familias viene visto come un dominus, un soggetto dotato di un potere (potestas) che ha natura originaria, pre-politica e pre-statuale. È un sovrano del gruppo, del quale è reggitore e sacerdote, custode dei sacra e degli auspicia, giudice dei filii familias, con diritto di punire, fino a giungere alla possibilità di infliggere la pena di morte. E’ evidente la forza implicita in una tale figura nell’epoca antica, ai primordi del diritto romano. Ed è del pari evidente, come appare persino ovvio, quanto sia superata, anacronistica, lontana al giorno d’oggi una simile idea di famiglia. Il problema però è un altro. Intanto, la formula, come abbiamo visto, ha assunto un significato del tutto diverso nel tempo, anche all’interno dello stesso diritto romano. In secondo luogo, la diligenza del buon padre di famiglia è un criterio difficilmente sostituibile con una locuzione che possa avere lo stesso effetto e la stessa forza immaginifica. Prendiamo ad esempio una prestazione, nella sua configurazione ordinaria. Attenti giuristi hanno spiegato come nelle moderne codificazioni che regolano i rapporti dei traffici giuridici e commerciali, sia ormai superato il dualismo tra colpa in astratto e colpa in concreto, cui si ricorreva nel determinare la responsabilità della mancata prestazione. Il modello preferito è ormai quello strettamente oggettivo. Insomma, dire che il debitore è tenuto alla diligenza del buon padre di famiglia vuol dire sottolineare che egli è tenuto ad un grado di diligenza media, in quanto il criterio cui ci si ispira è improntato al buon senso, ad un canone di normalità, ad un comportamento usuale e corretto nello stabilire il livello dei rapporti, e nel parametrare il modo in cui non si può non operare nella generalità dei casi. Nel bonus pater familias residuano, insomma, un nucleo di saggezza, oltre che una storia e una cultura giuridica di cui dovremmo menar vanto. Che c’entra con tutto questo il tema delle pari opportunità tra i sessi, è davvero difficile da comprendere. Altro che modernità. Siamo al cospetto di una colossale stupidità.
Solo i comunisti potevano pensare una Costituzione, il cui principio portante fosse il Lavoro e non la Libertà. Libertà che la Carta pone solo come obbiettivo per poter esercitare alcuni diritti dalla stessa Costituzione elencati. Libertà come strumento e non come principio. Libertà meno importante addirittura dell’Uguaglianza. Questa ultima inserita, addirittura, come principio meno importante del Lavoro e della Solidarietà. Già. Per i comunisti “IL LAVORO RENDE LIBERI”. ARBEIT MACHT FREI (dal tedesco: “Il lavoro rende liberi”) era il motto posto all'ingresso di numerosi campi di concentramento. Una reminiscenza tratta da una ideologia totalitaria che proprio dal socialismo trae origine: il Nazismo.
Cosa vorrei? Vorrei una Costituzione, architrave di poche leggi essenziali, civili e penali, che come fondamento costitutivo avesse il principio assoluto ed imprescindibile della Libertà e come obiettivo per i suoi cittadini avesse il raggiungimento di felicità e contentezza. Vivere come in una favola: liberi, felici e contenti. Insomma, permettere ai propri cittadini di fare quel che cazzo gli pare sulla propria persona e sulla propria proprietà, senza, però, dare fastidio agli altri, di cui si risponderebbe con pene certe. E per il bene comune vorrei da cittadino poter nominare direttamente governanti, amministratori e giudici, i quali, per il loro operato, rispondano per se stessi e per i propri collaboratori, da loro stessi nominati. Niente più concorsi truccati…, insomma, ma merito! E per il bene comune sarei contento di contribuire con prelievo diretto dal mio conto, secondo quanto stabilito in modo proporzionale dal mio reddito conosciuto al Fisco e da questi rendicontatomi il suo impiego.
Invece...
L'influsso (negativo) di chi vuole dominare l'altro. Ci sono persone che sembrano dare energia. Altre, invece, sembra che la tolgano, scrive Francesco Alberoni, Domenica 01/07/2018, su "Il Giornale".
Ci sono persone che sembrano darti energia, che ti arricchiscono.
Altre, invece, sembra che te la prendano, te la succhino come dei vampiri. Dopo un colloquio con loro ti senti svuotato, affaticato, insoddisfatto. Che cosa fanno per produrre su di noi un tale effetto? Alcune ci parlano dei loro malanni, dei loro bisogni e lo fanno in modo tale che tu ti senti ingiustamente privilegiato ed è come se avessi un debito verso di loro.
C'è un secondo tipo di persone che ti sfibra, perché trasforma ogni incontro in un duello. Non appena aprite bocca sostengono la tesi contraria, vi sfidano, vi provocano. Lo fanno perché vogliono mostrare la loro capacità dialettica ma soprattutto per mettersi in evidenza davanti agli altri. Se gli date retta, vi logorano discutendo su cose che non vi interessano.
Ci sono poi quelli che fanno di tutto per farvi sentire ignoranti. Qualunque tesi voi sosteniate, anche l'idea più brillante e ragionevole ecco costoro che arrivano citando una ricerca americana che dice il contrario. Magari qualcosa che hanno letto in un rotocalco, ma tanto basta per rovinare il vostro discorso. Ricordo invece il caso di un mio collega che, per abitudine, nella conversazione, faceva solo domande. All'inizio gli raccontavo le mie ricerche, gli fornivo i dati, gli mostravo i grafici, le tabelle, mi sgolavo e lui, dopo avere ascoltato, faceva subito un'altra domanda su un particolare secondario. E io giù a spiegare di nuovo e lui, alla fine, un'altra domanda...
Abbiamo poi quelli che, quando vi incontrano, vi riferiscono sempre qualche cosa di spiacevole che la gente ha detto su di voi: mai un elogio, mai un apprezzamento, solo critiche, solo pettegolezzi negativi. E, infine, i pessimisti che quando esponete loro un progetto a cui tenete molto, vi mostrano i punti deboli, vi fanno ogni sorta di obiezioni, vi fanno capire che sarà un fallimento. Voi lo difendete ma loro insistono e, alla fine, restate sempre con dei dubbi. Un istante prima eravate pieno di slancio, ottimista, entusiasta e ora siete come un cane bastonato. Cosa hanno in comune tutti questi tipi umani? La volontà di competere, di affermarsi, di dominare, di opprimere.
L’invidioso cerca di svalutare l’altro agli occhi del maggior numero possibile di persone, soprattutto di quelle che contano. Appena conoscono qualcuno gli trovano da subito dei difetti: il loro sguardo corre a cercare i limiti, le debolezze e sentono l’esigenza di metterli subito in evidenza, di renderli noti e di provocare il commento negativo degli altri. Solitamente gli invidiosi entrano in azione quando il personaggio da svalutare non è presente, mettendo in moto le “chiacchere da cortile”. (Antonio Giangrande, aforisticamente.com/2018/03/26/frasi-citazioni-aforismi-su-svalutare)
Si stava meglio quando si stava peggio.
I miei nonni paterni Giuseppa Caprino e Leonardo Giangrande, democristiani, contadini beneficiari delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista e genitori di 8 figli, dicevano che con i democristiani nessuno rimaneva indietro e tutti avevano la possibilità di migliorare il loro stato, se ne avevano la voglia (lavorare e non sprecare). Nonostante gli sprechi a vantaggio di alcuni figli a danno di altri e nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, loro hanno migliorato il loro stato ed hanno avuto la pensione.
Mio nonno materno Gaetano Santo, comunista, povero contadino ed allevatore beneficiario delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista, padre di 8 figli cresciuti con l’illusione della loro utilità al suo benessere ed alla sua vecchiaia, tra un bicchiere di vino e l’altro affermava che i ricchi son ricchi perché hanno rubato ed era giusto espropriare i loro beni per distribuirli ai poveri. Nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, lui è morto povero, pur avendo la pensione!
Luigi Malorgio, il nonno materno di mia moglie, prigioniero di guerra e comunista, povero contadino ed allevatore beneficiario delle terre della riforma fondiaria di stampo fascista, padre di 4 figli, tra uno spreco e l’altro affermava, con il solito mantra comunista, che i ricchi son ricchi perché hanno rubato ed era giusto espropriare i loro beni per distribuirli ai poveri. Nonostante il regime cattocomunista, che non riconosce il valore della persona, lui è morto povero, pur avendo la pensione!
Altro mantra dei comunisti era ed è: gli altri vincono perché, essendo ladri, comprano i voti.
E come dire a detta degli interisti e dei napoletani: la Juventus vince perché ruba e quindi ridistribuiamo i suoi scudetti. L’Inter ed il Napoli son morti, comunque, perdenti.
Dopo tanti anni ho constatato che oggi rispetto al tempo dei nonni, nonostante il progresso tecnologico e culturale, non è più possibile migliorarsi ed arricchirsi. Inoltre oggi se si diventa ricchi per frutto della propria capacità e lavoro, non si è più tacciati di ladrocinio, ma di mafiosità. E se prima non c’era, oggi c’è l’espropriazione proletaria antimafiosa, ma non a favore dei poveri, ma solo a vantaggio dell’antimafia di sinistra, sia essa apparato burocratico di Stato, sia essa apparato associativo comunista, sia esso regime culturale rosso.
Dopo tanti anni ho constatato che, nonostante la magistratura politicizzata che collude ed i media partigiani che tacciono, i moralizzatori solidali erano e sono ladri come tutti gli altri, erano e sono mafiosi come, è più degli altri.
Ergo: ad oggi noi moriremo tutti poveri…e probabilmente senza pensione, accontentandoci di un misero reddito di cittadinanza che prima (indennità di disoccupazione) era privilegio solo dei lavoratori sindacalizzati disoccupati.
Di fatto, nel nome di un ridicolo ambientalismo, ci impediscono di farci una casa, ma ci spingono a comprarci un’auto.
Questo non è progressismo politico, ma una retrograda deriva culturale che ti porta a dire che:
è meglio non fare niente, perché si fotte tutto lo Stato con il Fisco;
è meglio non avere niente, perché si fotte tutto lo Stato con l’Antimafia.
Un tempo non si buttava niente. Tutto si riciclava. Un tempo si era solo rigattieri senza speranza. Si acquistava e si rivendeva roba vecchia, usata, fuori uso o fuori moda, specialmente vestiti, masserizie e simili. La rigattierìa era ciarpame vecchio senza valore, oggetti di scarto.
Oggi, in nome del consumismo sfrenato, alla faccia dei comunisti desunti, non si butta il vecchio o rotto cialtrame, ma tutto quello che in casa non trova posto o non viene usato. I figli crescono? La tecnologia avanza? I vestiti son fuori moda? Via tutto. Roba nuova, oltretutto ancora imballata, la ritrovi nelle oasi della raccolta differenziata dei rifiuti. A regalarla agli altri, sia mai. Anzi buttata…E poi chi la vuole? A proporla diventa un'offesa. Il consumismo sfrenato anche per chi non ha da mangiare… Dove siamo arrivati. I conformisti e conformati, poi, se ti vedono a razzolare intorno a quei beni buttati, ma utilizzabili, ti prendono per un “Barbone” che rovista nei rifiuti.
Oggi si è solo Antiquari. Il rigattiere, a differenza dell’antiquario, non seleziona e non valorizza; semplicemente, rimette in circolazione dei beni che possono avere ancora una loro funzione. Ed oggi le cose vecchie vanno solo al macero. Vale per le cose; vale per le persone.
Quindi, si stava meglio quando si stava peggio.
Ma lasciate che sia il solo a dirlo, così sanno con chi prendersela ed è facile per loro vincere tutti contro uno. Senza una lapide di rimembranza.
È ora di dirselo, l’uomo comune è una merda. Dopo la Teoria della classe disagiata, minimumfax continua ad analizzare la società italiana contemporanea, ma questa volta si parla della Gente, quella variopinta galassia di umanità rabbiosa, che odia la Casta e non si fida più di nessuno, ma che è ormai al centro della politica italiana, scrive Andrea Coccia il 24 Ottobre 2017 su L’Inkiesta. Non è passato nemmeno un mese dall'uscita in libreria di Teoria della classe disagiata, il libro con cui Raffaele Alberto Ventura ha cercato di descrivere la traiettoria e lo scacco a cui è soggetta la classe creativa e intellettuale, minimumfax torna ad affrontare la realtà con un libro che per molti versi alla Teoria di Ventura è speculare. Si tratta de La gente. Viaggio nell'Italia del risentimento e raccoglie l'esperienza di reporter di Leonardo Bianchi, uno che negli ultimi anni si è fatto notare per le sue scorribande pubblicate da Vice, Internazionale, ValigiaBlu, ed è sostanzialmente un ritratto, multiforme e sfaccettato come il soggetto di cui parla, di una parte della società che probabilmente per i disagiati di Ventura è “fuori dalla bolla”, ma che rappresenta una grande parte dell'Italia e non solo. Dal movimento dei Forconi ai neofascisti delle periferie romane, dai complottisti agli anti gender fino ai giustizieri della notte de noartri, difensori improvvisati dell'ordine pubblico e paladini della legittima difesa, ma anche buongiornisti, gonzonauti e boccaloni di ogni tipo: la galassia della Gente — che altri chiamano la Ggente, con la doppia — è dispersa per tutta la penisola, da Nord a Sud, e pure al Centro, non fa distinzione geografiche, né campanilistiche. Il denominatore comune di questa ggente è la rabbia, il risentimento, il richiamo all'autorità — della polizia, delle armi, della legittima difesa — e il rigetto verso qualsiasi cosa c'entri con l'autorevolezza, la conoscenza e l'intellettualità. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. Quello di Leonardo Bianchi è un gran lavoro, ma d'altronde lo è sempre stato. A differenza di quello teorico di Ventura, il suo ha le radici ben piantate nella cronaca, nei volti e nelle vite dei personaggi che mette in scena — e che non di rado racconta in maniera decisamente cinematografica — ma nello stesso tempo riesce a non privarsi della profondità, del tentativo di uscire dall'hic et nuncunendo i puntini e cercando di vedere il quadro complessivo. Per qualcuno la Ggente sarebbe l'ultima evoluzione del Popolo, quell'entità che è entrata a piedi uniti nella politica a partire dall'epoca delle rivoluzioni, ma forse è qualcosa di più complesso. Per cercare di definirlo Bianchi ne traccia tre grandi caratteristiche: il forte risentimento verso la cosiddetta Casta; la rabbia esasperata, indignata, ma soprattutto non imbrigliata in una ideologia di partito; e la tendenza a inventare e a credere a teorie del complotto e versioni alternative nei campi della storia, della geopolitica, della medicina. Eppure, la sensazione che resta dopo la lettura dei reportage di Bianchi è che più che al popolo, questa gente somigli alla folla, quella entità che iniziò ad apparire nell'immaginario collettivo intorno alla metà dell'Ottocento, descritta nel celebre racconto di Edgar Poe, l'Uomo della folla. È probabilmente più da quella massa variegata ma indistinta, da quel flusso che figliò poi nel Novecento la società di massa dell'omologazione e dell'individualismo apolitico che nasce il gentismo e la gente. Attorno ai popoli sono nate le nazioni, che anche se nell'ultimo mezzo secolo stanno dimostrando di essere arrivate al capolinea della loro utilità storica, restano la più grande invenzione politica della modernità occidentale. Attorno alla gente stanno crollando le democrazie. I popoli erigevano monumenti ai propri eroi e ci si raccoglieva intorno al momento delle proprie rivendicazioni politiche, la gente, che non ha nemmeno più grandi rivendicazioni da fare, la strada la teme, la guarda di sottecchi dalle finestre dei piani alti di qualche caseggiato popolare, covando rabbia, rancore, risentimento. Con il popolo una volta si poteva immaginare di costruire delle comunità, con la gente, ora, non si costruisce nulla, ma al contrario, si distrugge.
Il Belpaese è diventato brutto. Da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale, scrive Ernesto Galli della Loggia il 8 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". È bene che ce lo diciamo per primi noi stessi: l’Italia sta diventando un Paese invivibile. Un Paese incolto nel quale ogni regola è approssimativa, il suo rispetto incerto, mentre i tratti d’inciviltà non si contano. Basta guardarsi intorno: sono sempre più diffusi e sempre meno sanzionate dalla condanna pubblica l’ignoranza, la superficialità, la maleducazione, la piccola corruzione, l’aggressività gratuita. Una discussione informata è ormai quasi impossibile: in generale e specie in pubblico l’italiano medio sopporta sempre meno di essere contraddetto e diffida di chi prova a farlo ragionare, mostrandosi invece disposto a credere volentieri alle notizie e alle idee più strampalate. Non è un ritratto esagerato: è l’immagine che sempre più dà di sé il nostro Paese. La verità è che nel costume degli italiani è intervenuta una frattura che ha inevitabilmente modificato anche la qualità della cultura civica della Penisola e quindi di tutta la nostra vita collettiva a cominciare dalla vita politica. Il cui degrado non comincia a Montecitorio, comincia quasi sempre a casa nostra. Ho parlato di frattura perché le cose non sono andate sempre così. È vero che al momento della sua nascita lo Stato repubblicano non ha potuto certo contare su cittadini istruiti e tanto meno su un diffuso senso civico o su una vasta acculturazione di tipo democratico. Inizialmente, infatti, la cultura civica del Paese fu limitata in sostanza a quella delle sue élite politiche e del sottile strato di persone a esse in vario modo vicine (e dio sa con quali e quante contraddizioni!). Ma a compensare in qualche misura queste carenze, e quindi a rendere possibile la crescita di una vita pubblica più o meno consona ai nuovi tempi democratici, valse almeno il fatto che nel tessuto italiano continuavano pur sempre a esistere una tradizionale civiltà di modi, una costumatezza delle relazioni sociali, un antico riguardo per le forme e per i ruoli, un generale rispetto per il sapere e per l’autorità in genere. Fu su questo terreno che nel corso del primo mezzo secolo di vita della Repubblica ebbero modo di mettere radici e di consolidarsi una non disprezzabile educazione civica e politica, una discreta consuetudine alle regole della convivenza e della libera discussione. Contò naturalmente l’innalzamento del reddito e delle condizioni di vita, ma una parte decisiva ebbero altri fattori. Innanzitutto l’esistenza di una politica fondata sulle grandi organizzazioni di massa — i partiti e i sindacati con le loro scuole, come quella del Partito comunista alle Frattocchie, dove poté svolgersi l’esperienza su vasta scala di una socialità discorsiva bene o male fondata sull’argomentazione razionale e sulla conoscenza dei problemi e delle possibili soluzioni — ; ma contò moltissimo la presenza nel Paese di quattro fondamentali agenzie di socializzazione: la Chiesa, la leva militare, la scuola e la televisione pubblica. Nel dopoguerra per milioni di italiani avviati a uscire da un mondo rurale spesso primitivo, la parrocchia, l’oratorio, furono una palestra di acculturazione civile, di una certa appropriatezza di modi, di rispetto delle competenze e dei ruoli, di avviamento alle regole di una non belluina convivenza. Opera in parte analoga svolse la scuola. Ancora sicura di sé, della sua funzione e del suo buon diritto a esercitarla, la scuola istruì, valse a sottolineare senza remore l’indiscutibile centralità della cultura e dello studio, educò alle forme basilari della modernità e delle istituzioni dello Stato così come alla disciplina e al rispetto dell’autorità. A un dipresso le medesime cose fece l’esercito di leva, in più addestrando in molti casi al valore della competenza, alla coesione in vista di un traguardo collettivo, alla solidarietà di gruppo, al carattere inevitabile di una gerarchia. Infine vi fu la televisione pubblica. Padrona monopolistica dell’immaginario del Paese, essa si propose di esserne la grande pedagoga. E lo fu: in un modo che oggi fa sorridere ma lo fu. Divulgò la lingua nazionale, diffuse un’informazione sapientemente calibrata, cercò d’ispirarsi per tutto il resto alla buona cultura, al «sano» divertimento, ai «buoni» sentimenti, a una morale cautamente in equilibrio tra vecchio e nuovo. Il tutto all’insegna della compostezza e delle buone maniere: perfino i conduttori dei telequiz si rivolgevano alla «signora Longari» chiamandola per l’appunto signora. Intendiamoci, non è che l’Italia d’allora fosse una specie di idilliaco piccolo mondo antico: tutt’altro. Ma fino agli anni 80 la nostra rimase comunque una società strutturata intorno a istituzioni formative consistenti: ciascuna animata a suo modo dalla consapevolezza di avere un compito da svolgere e decisa a svolgerlo. Un compito — questo mi sembra oggi molto importante — svincolato nel suo perseguimento e per i suoi obiettivi sia dal mercato sia dai desiderata del pubblico. In questo senso, infatti, né la Chiesa, né la scuola, né l’esercito, né la televisione di Bernabei potevano certo dirsi istituzioni democratiche: tanto meno del resto pensavano di doverlo essere. Ma proprio perciò esse assolvevano un compito prezioso per la democrazia liberale. La quale, per l’appunto, sopravvive solo se esistono degli ambiti della società che non obbediscono alle sue regole. Se esistono degli ambiti, delle istituzioni, dove non vigono né il principio del consenso dal basso né la regola della maggioranza. Solo a queste condizioni, infatti, possono aversi due conseguenze decisive: da un lato la produzione di un sapere realmente libero, — fatto cioè di analisi, di idee e valori condizionati solo dalla personale ricerca della verità — e dall’altra la formazione di vere élite del merito. Solo a queste condizioni si crea un ambiente sociale e un’atmosfera psicologica dove di regola l’ultima parola non l’abbiano, da soli o coalizzati, chi alza più la voce, chi possiede più ricchezze o chi ha dalla sua il maggior numero. Un ambiente sociale e un’atmosfera dove al potere della politica e dell’economia (o della demagogia e della corruzione che sono i loro frequenti sottoprodotti) siano in grado di contrapporsi gerarchie diverse. Dove al potere della politica e della ricchezza fanno da contrappeso il condizionamento della formazione culturale, i vincoli dell’etica, il giudizio dell’opinione pubblica informata. Come invece sono andate le cose si sa. L’Italia ha visto quelle istituzioni di cui dicevo sopra — per varie ragioni e in vari modi, ma più o meno nello stesso giro di anni, a partire dagli anni 80-90 — scomparire. Scomparire, intendo, nelle forme che esse avevano un tempo (o come la leva cancellate del tutto), per essere sostituite dalle forme nuove richieste dai «gusti del pubblico», dagli «indici di ascolto», dai sindacati, dai «movimenti», dalle «attese delle famiglie», dalle «comunità di base», dalla «pace», dai «tempi della pubblicità», dai «bisogni dei ragazzi», dal desiderio dei vertici di non dispiacere a nessuno. È così da due-tre decenni il Paese è rimasto privo di qualunque sede pubblica deputata alla formazione non solo e non tanto culturale ma specialmente del carattere e della sensibilità civile, all’insegnamento di quei valori in definitiva morali su cui si regge la convivenza sociale. Coltivando un’idea fasulla di modernità e di libertà l’Italia ha assistito, addirittura compiaciuta, al progressivo smantellamento di istituzioni che alimentavano la democrazia con il flusso vitale del sapere disinteressato, della tradizione, della possibilità dell’autoriconoscimento collettivo. Ci siamo avviati in tal modo ad essere una società senza veri legami, spesso selvatica e analfabeta, ogni volta che convenga frantumata in un individualismo carognesco e prepotente. L’Italia di oggi insomma, illusa e inconsapevole del brutto Paese che essa ormai sta diventando.
I bei tempi andati? Non esistono. Erano violenti, sessisti e sporchi. Un libro di Michel Serres smonta i luoghi comuni degli anti-moderni, scrive Massimiliano Parente, Martedì 21/08/2018, su "Il Giornale". Ogni giorno in Italia qualcuno dice: «Si stava meglio quando si stava peggio». Ma davvero si stava meglio? E quando? C'è chi elogia il passato, in genere i vecchi che rimpiangono la propria giovinezza, o gli anni Sessanta, o gli anni Cinquanta, e chi addirittura i tempi in cui non era nato: «Mi sarebbe piaciuto vivere negli anni Trenta!». In realtà sono sempre errori della nostra percezione, della nostalgia senile, e spesso anche della nostra scarsa conoscenza del passato. Anni fa uscì un bellissimo saggio dello storico Piero Melograni, La modernità e i suoi nemici (Mondadori), che passava al setaccio tutte le ideologie antimoderne e le visioni idealizzate del passato. Lo scienziato Steven Pinker nel frattempo ha pubblicato un lungo studio, Il declino della violenza (Mondadori), per dimostrare come, al contrario di quanto credano molte persone, la violenza sia diminuita progressivamente nella Storia (ma basta leggere anche il diario di Giacomo Leopardi, che in visita a Roma notava come non fosse possibile uscire di notte senza rischiare di essere uccisi). In questi giorni esce per Bollati Boringhieri un pamphlet intitolato Contro i bei tempi andati dell'epistemologo Michel Serres. L'autore ha ottant'anni, ma non rimpiange niente del suo passato, né del passato in generale. Anzi, in ogni pagina, tra autobiografia e dati storici, ci tiene a mostrare che più andiamo indietro, più il passato fa schifo. A cominciare dalle due guerre mondiali, che hanno insanguinato l'Europa (e erano nate, fra l'altro, da movimenti antimoderni e anticapitalisti come fascismo e comunismo). Viceversa stiamo vivendo da settant'anni il più lungo periodo di pace mai visto nel mondo, «cosa mai accaduta, almeno nell'Europa occidentale, dai tempi dell'Iliade o della Pax Romana». Abbiamo sconfitto epidemie mortali, considerando che «le statistiche dicono che, in tempi più antichi, il numero dei morti per malattie infettive superava di gran lunga quello delle vittime di guerra». Serres elogia le conquiste delle vaccinazioni (malgrado oggi in Italia si torni indietro, abolendo l'obbligo di vaccinarsi). Oggi si parla di razzismo al minimo episodio di cronaca, dimenticando che una volta, poco più di un secolo fa, si pretendeva di dimostrare scientificamente come i negri fossero delle scimmie non evolute, e ai tempi di Mussolini e di Hitler si pubblicavano tranquillamente riviste razziste e antisemite. E l'inquinamento? L'aria dell'Ottocento era molto più inquinata di quella di oggi, e ai tempi di Serres «senza alcuna restrizione le fabbriche spargevano le loro immondizie nell'atmosfera o nel mare, nella Senna, nel Reno, nel Rodano, e le petroliere ripulivano le cisterne in mare aperto». Quanto alla medicina, non esistevano gli antibiotici, si moriva di sifilide e tubercolosi, «come capitò a tutti i grandi uomini illustri del XIX secolo, Schubert, Maupassant o Nietzsche», e non esisteva la sanità pubblica, i poveri soffrivano e morivano senza cure, e i ricchi non se la passavano meglio. Serres, nato nel 1930, ricorda di nuovo come l'assenza di vaccinazioni «lasciò molti dei miei amici segnati dalla poliomelite», e di come l'OMS sia riuscita a eradicare il vaiolo a livello mondiale. Sentiamo molte persone dire che la vita moderna fa male, che i cibi moderni sono cancerogeni, che la vita di una volta era più sana, e spopola l'ideologia del bio e del ritorno all'alimentazione «genuina» di un tempo. Talmente genuina che ci si lasciava la pelle. Serres ricorda come il latte non pastorizzato, munto direttamente dal contadino, spesso portasse malattie e febbri terribili (di cui si ammalò anche lui), mentre oggi i cibi industriali sono molto più controllati (non per altro i casi di botulismo avvengono sempre con il «fatto in casa»). E di come la durata della vita media alla nascita nel corso di un secolo sia quadruplicata. «Da quando sono nato a oggi, in Francia la speranza di vita ha più di ottant'anni, mentre poco prima quanti figli bisognava mettere al mondo per conservarne due o tre?».
Non parliamo dell'igiene, non ci si lavava mai. Neppure le ostetriche si lavavano le mani e le madri morivano di febbre puerperale. Le lenzuola si cambiavano due volte all'anno, le camicie si portavano finché non diventavano nere, e «lo sciacquone del gabinetto venne inventato a Londra, alla fine del XIX secolo e si diffuse cinquant'anni dopo; una volta si pisciava dove si poteva, si cacava dappertutto, un po' come oggi in India si pratica la open defacation». Quanto alle donne, credono di essere discriminate oggi, e accusano di molestie sessuali perfino chi le guarda, mentre prima non solo le donne non avevano diritto di voto, ma se una donna veniva stuprata era colpa sua, altro che #metoo. «Le cifre riguardanti gli abusi sessuali sulle adolescenti all'interno della famiglia sono state rese pubbliche solo di recente, e da poco abbiamo scoperto che ogni due giorni una donna moriva a causa delle sevizie del marito, e che due bambini ogni settimana spiravano per mano dei genitori». Speriamo che chi invoca ogni giorno la famiglia tradizionale non si riferisca a questa, perché questa è stata la famiglia umana dall'antichità a meno di un secolo fa. E dunque, si stava meglio quando si stava peggio? No, quando si stava peggio si stava peggio e basta. E pensare che al governo c'è un movimento fondato sulla filosofia della «decrescita felice» e sulla Piattaforma Rousseau. Sì, Jean-Jacques Rousseau, quello del mito del Buon Selvaggio. Io vorrei come minimo una Piattaforma Steve Jobs.
Ultimi della classe (dirigente). Non ci sono in Italia istituzioni politiche, scientifiche o formative unificanti, scrive Francesco Alberoni, Domenica 08/07/2018, su "Il Giornale". Una classe dirigente, ci insegna il grande sociologo Vilfredo Pareto, è formata da tutti coloro che eccellono nella loro attività. Quindi i politici più abili, i giudici più saggi, i giornalisti più ascoltati, i presentatori più seguiti, ma anche gli imprenditori, gli economisti, gli artisti, i registi, gli scrittori, i filosofi, gli scienziati, i professionisti più eminenti. E ha le sue radici nel passato. Il Paese che più di ogni altro ci ha fornito il modello di una grande classe dirigente è stata l'Inghilterra dove c'è stato sempre l'irrompere del nuovo ma anche la sopravvivenza dei poteri tradizionali e il permanere delle grandi istituzioni unificanti. L'Inghilterra è il Paese che innalzava colonne all'eroe Orazio Nelson mentre lasciava morire di fame Lady Hamilton, che glorificava Winston Churchill mentre lo mandava a casa nelle elezioni. Ma anche un Paese che da secoli ha istituzioni scientifico-culturali come la Royal Society, le università di Oxford e di Cambridge e il collegio di Eton dove si è formata la classe dirigente inglese. Non esiste nulla di simile in Italia dove storicamente si sono succeduti gruppi politico ideologici diversi: prima i liberali, poi i fascisti a cui seguono nel dopoguerra i comunisti e i cattolici. Poi la crisi di Mani pulite che ha fatto emergere il potere della magistratura. In seguito, si formano o movimenti o raggruppamenti attorno a un capo come Berlusconi, Prodi, Renzi, Grillo e ora Salvini. Sono gruppi ristretti, formati da amici, conoscenti, simpatizzanti e «clienti» che egemonizzano il potere e creano istituzioni per loro stessi da cui escludono gli altri. Non ci sono in Italia istituzioni politiche o scientifiche o formative unificanti, non c'è una vera, unica classe dirigente. E sembra che a livello popolare non se ne senta neppure l'esigenza. Il politico non viene eletto per ciò che ha dimostrato di sapere fare e non gli si chiede di avere una formazione culturale adeguata. Grillo arriva a sostenere che i parlamentari dovrebbero essere estratti a sorte tra i cittadini. Questa divisione delle élite lascia il potere in mano alla burocrazia che non ha valori, non ha mete, ostacola la creazione e tende solo a crescere su se stessa.
I bulli che umiliano la cultura. Si va diffondendo l'idea che, con una disoccupazione così elevata, sia inutile studiare, scrive Francesco Alberoni Domenica 06/05/2018, su "Il Giornale". Si va diffondendo l'idea che, con una disoccupazione giovanile così elevata, sia inutile studiare, inutile imparare, inutile prendere bei voti perché tanto, si dice, nella vita si affermano i forti, i corrotti, i violenti, quelli che sanno dominare gli altri, imporre il loro volere. È questo il pensiero che sta dietro il diffondersi del bullismo in tutte le sue forme. Dal piccolo gruppo di studenti che domina sugli altri, deride e si beffa dei più deboli, li mette a tacere, fino ai gruppi più aggressivi che offendono ed insultano anche i professori in modo che perdano agli occhi dei loro allievi l'ultima autorità loro rimasta. E così denigrano la cultura, il sapere, l'unica forza che nel mondo moderno fa avanzare tanto gli individui che i popoli. Gli individui, perché emergono solo coloro che fanno le scuole e le università migliori e i popoli perché solo alcuni hanno i centri di ricerca più avanzati, gli studiosi più apprezzati e una ferrea organizzazione del lavoro. E questo modo di pensare disastroso si afferma anche in politica col principio anarchico che «uno vale uno» quindi chiunque, anche il più fannullone e ignorante, può dirigere un Paese moderno e affrontare le bufere geopolitiche di oggi. Bisogna riporre in primo piano l'idea che lo strumento fondamentale con cui gli esseri umani lottano, si affermano, si rendono utili agli altri, è il sapere, la cultura. In tutte le forme: scientifica, artistica musicale, linguistica, come capacità di scrivere e di parlare, di calcolare e di prevedere. Ma voi provate a domandare alla gente che cosa desidera. Vi risponderà che desidera viaggiare, fare crociere, una nuova macchina, una barca, un nuovo televisore. Nessuno vi risponde che desidera imparare la matematica, il diritto, le lingue, l'economia, la biologia o l'informatica. Le spese per svago e per divertimenti superano paurosamente le spese culturali. Ci sono ancora persone che leggono libri? Solo una minoranza, quella che studia con fermezza e costituirà la futura élite internazionale. E gli altri? Gli altri saranno tutti dei disoccupati e dei sottoproletari. Basta, cambiate direzione, datevi da fare. Siete ancora in tempo, per poco.
Vuoi scrivere un libro? Leggine cento, scrive il 16 aprile 2018 Paolo Gambi su “Il Giornale”.
“Se scrivo la mia storia vinco il Nobel per la letteratura”.
“Ti racconto il libro che ho in testa, tu lo scrivi e dividiamo gli utili”.
“La mia vita è così incredibile che voglio farne un romanzo da un milione di copie”.
Da quando faccio lo scrittore più o meno ogni giorno vengo approcciato da qualcuno con una frase del genere. La qual cosa mi lusinga molto: ciascuno di noi è un intreccio di parole che si sono fatte carne e pensare di metterle per iscritto, e di chiedere il mio aiuto per farlo, è per me fonte di soddisfazione ed autostima. E contando che ho scritto libri molto diversi che partono dai romanzi e arrivano a biografie di personaggi molto disparati – dal Cardinal Tonini a Raoul Casadei – non trovo strano che ci sia chi mi interpella. Infatti da qualche tempo a questa parte ho deciso di iniziare a costruire una risposta a chi mi pone queste domande. Solo che se poi alle stesse persone che vogliono scrivere un libro chiedo: “qual è l’ultimo libro che hai letto?”, la risposta di solito è qualcosa come:
“Non mi ricordo, alla sera guardo la televisione”.
“È da quando ero alle superiori che non leggo più”.
“Dai valà, non posso mica perdere il mio tempo così”.
Che è un po’ come se qualcuno volesse vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi per i 100 metri stile libero ma si rifiutasse di andare in piscina ad allenarsi. I dati sulla lettura in Italia continuano ad essere impietosi. Sei italiani su dieci, nel 2016, non hanno letto neppure un libro in un anno. Tutti vogliono scrivere. Pochissimi vogliono leggere. Allora, è meraviglioso sognare di diventare la nuova Rowling o scrivere delle nuove sfumature di grigio (possibilmente meno disgustose) impastate con la propria storia. Però se vuoi scrivere un libro inizia a leggerne almeno cento.
Saviano a Salvini: “Ministro della malavita”. La propaganda fa proseliti e voti. Sei ricco? Sei mafioso! Il condizionamento psicologico mediatico-culturale lava il cervello e diventa ideologico, erigendo il sistema di potere comunista. Cosa scriverebbero gli scrittori comunisti senza la loro Mafia e cosa direbbero in giro per le scuole a far proselitismo comunista? Quale film girerebbero i registi comunisti antimafiosi? Come potrebbero essere santificati gli eroi intellettuali antimafiosi? Quali argomenti affronterebbero i talk show comunisti e di cosa parlerebbero i giornalisti comunisti nei TG? Cosa scriverebbero e vomiterebbero i giornalisti comunisti contro gli avversari senza la loro Mafia? Cosa comizierebbero i politici comunisti senza la loro Mafia? Quali processi si istruirebbero dai magistrati eroi antimafiosi senza la loro mafia? Cosa farebbero i comunisti senza la loro Mafia ed i beni della loro Mafia? Di cosa camperebbero le associazioni antimafiose comuniste? Cosa esproprierebbero i comunisti senza l'alibi della mafiosità? La Mafia è la fortuna degli antimafiosi. Se non c'è la si inventa e si infanga un territorio. Mafia ed Antimafia sono la iattura del Sud Italia dove l’ideologia del povero contro il ricco attecchisce di più. Sciagura antimafiosa che comincia ad espandersi al Nord Italia per colpa della crisi economica creata da antimafia e burocrazia. Più povertà per tutti, dicono i comunisti.
Saviano è il vero intoccabile. Vietato fare satira su di lui. Chi ha provato a scherzare sullo scrittore, da Zalone ai comici Luca e Paolo, è stato subito messo a tacere, scrive Nino Materi, Lunedì 25/06/2018, su "Il Giornale". Scherza con i santi, ma lascia stare Saviano. Giù le mani da Roberto. E poco importa se la mano è quella - innocua - che potresti mettere davanti alla bocca, magari solo per soffocare un inizio di risata. Perché in Italia si può fare ironia su tutti (compresi Papa e presidente della Repubblica), eccetto che sullo scrittore di Gomorra. Chi si è cimentato con la sua parodia, ha subito avvertito la stessa piacevole sensazione di mettere le dita in una presa di corrente. Insomma, Saviano come i fili dell'alta tensione. E una bella scossa, nel corso degli anni, se la sono presa i pochi coraggiosi che hanno tentato di imitarlo comicamente. Niente di pesante, per carità: appena una bonaria presa in giro del suo eloquio da santone in perenne trance sciamanica; del suo incedere messianico sulle acque procellose dell'antimafia; delle sue pause meditative da salvatore della patria in servizio h24; del suo grattarsi la pelata come se pensieri e preoccupazioni fossero solo una sua esclusiva; del suo sapiente gesticolare ostentando più anelli di J-Ax e Fedez messi insieme. Un minimo sindacale satirico che, tuttavia, si è rivelato più che sufficiente per far scendere il «guitto» di turno a più miti consigli. Lo sa bene il grande Checco Zalone che, in uno show televisivo, vestì i panni di uno sfigatissimo Saviano cui tutte le ragazze davano il due di picche «perché la camorra ha il monopolio della f...». Saviano (personaggio che notoriamente non brilla per autoironia), invece di riderci su, si risentì. E con lui si attapirarono tutti i suoi fan secondo i quali «ironizzare su Saviano equivale a fare un favore ai camorristi». Risultato: Checco Zalone, da quella volta, non si «permise» mai più di imitare lo scrittore più scortato del mondo. Stessa parabola censoria anche per il duo comico Luca e Paolo che, addirittura dal palco del Festival di Sanremo, si azzardarono a punzecchiare Roberto, ricordandogli come alcune delle sue denunce equivalessero un po' alla scoperta dell'acqua calda. Apriti cielo. I due artisti furono immediatamente redarguiti dal rigoroso «funzionario Rai» che suggerì loro di «occuparsi d'altro». Meno clamorosa, ma altrettanto deciso il consiglio a «non insistere sull'argomento» indirizzato al cabarettista Sergio Friscia, «reo» di animare un Saviano un po' troppo bozzettistico. La stessa «colpa» attribuita pure ad altri due colleghi di Friscia: Cristian Calabrese, autore di uno sketch dal titolo dissacratorio, Zero Zero Zero ed Enzo Costanza protagonisti di una serie di video esilaranti, ma ritenuti non propriamente savianolly correct. In questi casi non risulta un intervento diretto del giornalista finalizzato a zittire i suoi epigoni parodistici, ma alcune sue dichiarazioni esprimono bene il concetto che Saviano ha rispetto alla creatività umoristica: «La creatività fa, non commenta. E i The Jackal ne sono un esempio». Ma perché mai ai comici dovrebbe essere precluso il diritto al «commento»? e, poi, chi sono «The Jackal»? Al primo quesito Saviano non ha mai risposto; facile invece la risposta al secondo: si tratta di un gruppo di brillanti filmaker che devono il successo a video-parodie cliccatissime su youtube, la più celebre delle quali è: Gli effetti di Gomorra sulla gente. In questo caso, per non correre rischi, Saviano ha voluto prendere parte direttamente ad alcuni ciak. Motivo? I maligni dicono: «Per accertarsi di non essere preso in giro». Intanto lui, un giorno sì e l'altro pure, dà del «buffone», «razzista» e «codardo» al ministro dell'Interno. A offese invertite, Salvini sarebbe già stato costretto alle dimissioni.
LA RAI, YOUTUBE E LA CENSURA.
Può la Rai, servizio pubblico di un’azienda di Stato, finanziata con il canone e le tasse dei cittadini, vantare diritti esclusivi di diritto d'autore su fatti di cronaca ed impedire la divulgazione di notizie di interesse pubblico e violare le norme internazionali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright?
Tutto inizia e finisce con una E-mail.
Venerdì 18/05/2018 19:40 da YouTube <accounts-noreply@youtube.com> ad ANTONIO GIANGRANDE <presidente@ingiustizia.info>: [Avviso di rimozione per violazione del copyright] Il tuo account YouTube verrà disattivato tra 7 giorni.
Salve ANTONIO GIANGRANDE, In seguito a una richiesta di rimozione per violazione del copyright siamo stati costretti a rimuovere il tuo video da YouTube: Titolo del video: Sarah Scazzi. Il processo. 1ª parte. La scomparsa.
Rimozione richiesta da: RAI. Questo significa che non sarà più possibile riprodurre il video su YouTube. Hai ricevuto un avvertimento sul copyright. Al momento hai 3 avvertimenti sul copyright. Per questo motivo, è prevista la disattivazione del tuo account tra 7 giorni. Il tuo canale rimarrà pubblicato per i prossimi 7 giorni per consentirti di cercare una soluzione e mantenerlo attivo. Se ritieni di non essere in torto in uno o più casi sopra descritti, puoi fare ricorso inviando una contronotifica. Durante l'elaborazione della contronotifica, il tuo account non verrà disattivato. Tieni presente che l'invio di una contronotifica con informazioni false può comportare gravi conseguenze legali. Puoi inoltre contattare l'utente che ha rimosso il tuo video e chiedergli di ritirare la richiesta di rimozione. Durante questo periodo, non potrai caricare nuovi video e gli avvertimenti sul tuo account non scadranno.
Risposta: Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. Infatti sono autore del libro che racconta della vicenda. A tal fine posso assemblarle o per fare una rassegna stampa. In ogni caso le immagini sono di utilizzo pubblico così come stabilito dal tribunale di Taranto in virtù del decreto dell’autorizzazione esclusiva alle telecamere di “Un Giorno in Pretura” con obbligo di condividere i filmati con gli altri media. Su questo filmato altre rivendicazioni analoghe sono state ritirate in seguito alla stessa contestazione. E comunque, stante che il filmato è già stato rimosso da youtube, si chiede alla signoria vostra di ritirare l’avvertimento, affinchè l’intero canale “Antonio Giangrande” con 387 video di Pubblico Interesse non venga disattivato.
Insomma non si presenta la contronotifica, per minaccia di azioni legali del colosso Rai e si genuflette per un diritto.
Ma Youtube non si ferma qua. Già, sul portale di informazione ed approfondimento in oggetto, pagava solo 1 decimo di tutti i video di cui si era chiesto la monetizzazione. E non solo a quel portale.
YouTube: perché (quasi) nessuno ci guadagna davvero? Scrivono Milena Gabanelli e Andrea Marinelli il 25 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera". Un luogo comune dell’era digitale vuole che basti un po’ di ingegno per fare soldi su YouTube. Guardando i dati però, la realtà è un’altra: il 97 per cento degli YouTuber non riesce a superare i 10.000 euro all’anno. In Gran Bretagna, però, un minorenne su tre sogna di diventare una star del servizio video di Google — addirittura il triplo rispetto a chi sogna di fare il dottore — e di imitare DanTdm, un gamer ventiseienne che lo scorso anno ha incassato 16,5 milioni di dollari giocando ai videogiochi, oppure Zoella, che ha 28 anni e guadagna circa 50 mila sterline al mese pubblicando video su come si veste e si trucca. Tutti pensano che questi soldi li facciano con la pubblicità, ma è vero solo in parte.
Il 97% degli YouTuber non batte chiodo. Google non rivela i numeri esatti, ma secondo le stime i canali YouTube al mondo sono all’incirca 1 miliardo. Di questi, stando a uno studio dell’Università di Offenburg, in Germania, il 97 per cento non batte un chiodo. Il 2 per cento riceve almeno 1,4 milioni di visite al mese e galleggia invece attorno alla soglia di povertà, incassando all’incirca 16.800 dollari all’anno. A guadagnarci davvero è il restante 1 per cento, che ottiene fra i 2 e i 42 milioni di visualizzazioni ogni mese. Secondo l’autore della ricerca Mathias Bartl, professore di Scienze Applicate e fra i primi a esaminare i dati di YouTube, «avere successo nella nuova Hollywood è difficile quanto in quella vecchia». E il risultato è che puoi avere mezzo milione di follower su YouTube, ma essere costretto a lavorare da McDonald’s per mantenerti.
Un milione di visualizzazioni vale 1.000 dollari. La pubblicità su YouTube, infatti, porta all’incirca 1 dollaro ogni 1.000 visualizzazioni (a volte 50 centesimi, altre 5 dollari: dipende dai casi e i dati non sono pubblici). Un milione di visualizzazioni si trasforma dunque in appena 1.000 dollari al mese. Questo però se la pubblicità viene guardata: siccome molti installano programmi che la bloccano e altri la saltano appena parte, la società di marketing britannica Penna Powers calcola che alla fine soltanto il 15% la vedono realmente. E così un milione di visualizzazioni si trasforma in 150.000, e 1.000 dollari diventano appena 150.
Come fare i soldi su internet. In sostanza, Internet è un ottimo palcoscenico per avere visibilità, ma poi bisogna saper approdare alle sponsorizzazioni, ai libri o alle trasmissioni televisive da cui ricevere un cachet: è da lì che arrivano i soldi veri di star come Sofia Viscardi — dal cui libro Succede è appena stato tratto un film omonimo, uscito in Italia a inizio aprile — o Favij, che ha raggiunto il primo posto nella classifica della narrativa italiana con il romanzo fantasy The Cage – Uno di noi mente, pubblicato da Mondadori Electa. Il discorso vale anche per Instagram, che è di proprietà di Facebook: il grosso dei corposi incassi di Chiara Ferragni o Mariano Di Vaio, gli influencer italiani con più follower su Instagram, arriva proprio da sponsorizzazioni e accordi commerciali. Per guadagnarci, quindi, bisogna essere bravi imprenditori.
YouTube ha cambiato l’algoritmo. Non è un caso che la stessa società di streaming voglia aiutare i creatori di contenuti a guadagnare di più, ma anche loro vogliono farlo tramite sponsorizzazioni o programmi di commenti a pagamento: più paghi, più in evidenza saranno le tue parole. A questa situazione contribuisce anche l’algoritmo di YouTube: nel 2006 il 3% dei canali più seguiti totalizzava il 64% delle visualizzazioni totali del sito. Dieci anni più tardi raggiunge il 90%. In pratica, YouTube ha cambiato l’algoritmo per far circolare di più i video migliori, penalizzando tutti gli altri. Recentemente, ha anche stabilito che per poter guadagnare con la pubblicità è necessario avere almeno 1.000 follower e 4.000 ore di visualizzazioni nell’ultimo anno, complicando ulteriormente la strada verso il successo.
Uno su mille ce la fa. Insomma, ce la fanno in pochi, chi ce la fa sempre invece è YouTube, che vuol dire Google, che vuol dire un fatturato globale da 100 miliardi di dollari nel 2017, e 60 miliardi parcheggiati nei paradisi fiscali offshore. In Italia incassa in pubblicità circa 1,5 miliardi di euro all’anno, ma le tasse le paga in Irlanda, al 12,5 per cento. Alla fine anche da noi il colosso californiano è stato costretto a lasciare qualcosa: 306 milioni. Ma solo dopo l’intervento dell’Agenzia delle Entrate e della Procura di Milano.
California, a sparare una youtuber: «Era arrabbiata perché la società le aveva sospeso i pagamenti». Il padre della donna che ha aperto il fuoco, Nasim Aghdam: «Odiava la società». Aghdam, 39 anni scriveva: «Non c'è libertà di parola», scrive Marta Serafini il 4 aprile 2018 su "Il Corriere della Sera". Era arrabbiata perché «YouTube aveva smesso di pagarla per i video che pubblicava sulla piattaforma». Gli investigatori scavano nel passato di Nasim Aghdam, 39 anni, attivista vegana e animalista residente a San Diego, che ha fatto fuoco nel campus di San Bruno ferendo tre persone per poi togliersi la vita. A confermare l’ipotesi che la donna fosse furibonda con YouTube, il padre Ismail Aghdam che in un’intervista ad un giornale locale ha spiegato come la figlia fosse sparita lunedì e non rispondesse al telefono da due giorni. «Era arrabbiata perché YouTube aveva sospeso tutto, li odiava», ha dichiarato l’uomo. L’ipotesi è la società avesse sospeso i pagamenti o a causa dei contenuti inappropriati dei filmati postati dalla donna o a causa di un calo dei follower. Secondo la Nbc un suo filmato era stato censurato da YouTube e secondo il New York Times tutti i suoi canali erano stati rimossi martedì notte. Il 20 febbraio YouTube ha stabilito nuove regole che escludono dalla monetizzazione i canali con meno di 10.000 abbonati e meno di 4.000 ore di visualizzazione e probabilmente i filmati di Aghdam sono rientrati in questo giro di vite.
Cos'è accaduto e chi era la donna. Aghdam, di origini iraniane, aveva una presenza sul web «rilevante», un sito internete postava video dal 2011 con il nickname di Nasim Wonderl e sul suo sito. Il contenuto variava: dalle ricette vegane, passando per le parodie musicali, fino ai commenti contro la violenza sugli animali e gli esercizi di bodybuilding. «Tutti i miei video sono autoprodotti senza l'aiuto di nessuno», scriveva orgogliosa. Aghdam si sarebbe lamentata più volte pubblicamente perché alcuni suoi post erano stati vietati ai minori, un trattamento che la stessa youtuber aveva denunciato non essere applicato a filmati dai contenuti più espliciti come i video clip di Miley Cyrus. «Non c’è libertà di parola nel mondo e verrai perseguitata per aver detto la verità», scriveva. Su Instagram il 18 marzo si lamentava di nuovo della censura di YouTube. La donna era anche un’attivista della Peta e manifestava a favore dei diritti degli animali. «Per me gli animali devono avere gli stessi diritti degli esseri umani», diceva a Los Angeles Times nel 2009.
YouTube sta rendendo più restrittive le regole che consentono agli iscritti di inserire pubblicità nei propri video e di guadagnare soldi. Lo scopo principale dell’iniziativa è quello garantire agli inserzionisti che i propri spot non finiscano all’interno di contenuti inappropriati o con immagini disturbanti, come avvenuto in passato.
La novità è stata annunciata dalla stessa azienda con un post sul blog “YouTube creators”: a partire da ieri, per iscriversi al “Programma partner” sono necessari almeno 1000 iscritti al proprio canale e 4000 ore di visualizzazione nell’arco degli ultimi 12 mesi.
“Le nuove regole ci permetteranno di migliorare in maniera significativa la nostra capacità di individuare i canali che contribuiscono positivamente alla nostra community e ci aiuteranno a generare maggiori entrate pubblicitarie per loro (e a tenerci lontano dai "cattivi attori"). Questi standard più elevati ci aiuteranno anche a evitare che i video potenzialmente inappropriati possano monetizzare, danneggiando i ricavi per tutti”, hanno spiegato Neal Mohan, chief product officer e Robert Kyncl, chief business officer. In precedenza, il requisito minimo per accedere al programma era quello delle 10mila visualizzazioni complessive. La differenza sembra sostanziale: a pagarne le conseguenze saranno sicuramente i canali più piccoli, che non attraggono un pubblico vasto ma che fino due giorni fa potevano guadagnare e perlomeno sostenere la realizzazione dei propri video. Prima di diventare famosi e raggiungere i requisiti richiesti, adesso gli aspiranti Youtuber dovranno trovare delle strade alternative per finanziare i propri progetti. YouTube pensa ovviamente ai propri interessi: un paio di mesi fa, aveva perso milioni di dollari di ricavi, in seguito alla decisione di alcuni inserzionisti – tra i quali Adidas, Mars, Deutsche Bank – di lasciare la piattaforma dopo essersi ritrovati la propria pubblicità sui dei video disseminati di commenti pedofili.
Come sottolinea il sito d’informazione The Next Web, l’approccio sembra contraddittorio: i nuovi criteri rendono la vita più difficile ai canali con pochi iscritti e visualizzazioni, lasciando tuttavia uno spiraglio ai trasgressori che distribuiscono contenuti inappropriati, ma che hanno successo. YouTube pensa di risolvere la questione affidandosi non solo alla metrica quantitativa, ma anche alle segnalazioni che arrivano dalla community e a metodologie di rilevazione di spam o altri abusi più efficaci.
L’annuncio arriva a distanza di una settimana della vicenda che ha coinvolto Logan Paul: il famoso Youtuber, apprezzatissimo tra i teenager, aveva condiviso il video di un suicidio avvenuto in Giappone. A rimuovere il contenuto però non era stato YouTube, bensì il suo stesso creatore. Con le identiche modalità era scomparso il video caricato qualche mese fa da PewPewDie – che con i suoi 12 milioni di dollari è tra le 10 star più pagate del Tubo nel 2017 – nel quale comparivano due uomini a petto nudo che avevano in mano un cartello con la scritta “Death to All Jews”. I due episodi, in particolare, hanno spinto YouTube a modificare anche le regole di Google Preferred, la soluzione di advertising dedicata ai canali più popolari (circa il 5% del totale): tutti i contenuti del programma saranno valutati da un moderatore e approvati manualmente. Se da un lato le mosse appaiono logiche e sensate, soprattutto per non perdere la fiducia degli inserzionisti e milioni di ricavi dalla pubblicità, dall’altro non si può fare a meno di notare che che la nuova policy, rischia di stroncare sul nascere i sogni di migliaia aspiranti youtuber e di rendere esclusiva una piattaforma che ha fatto invece dell’inclusività uno dei fattori chiave del suo successo.
Le migliori alternative a YouTube, scrive "1and1". YouTube è il campione indiscusso tra i portali video e può tranquillamente essere definito come il leader del settore. Con oltre un miliardo di utenti, secondo i dati forniti dalla compagnia stessa, quasi un terzo di tutta l’utenza Internet naviga su YouTube. È indubbio che la piattaforma da tempo sia stata riconosciuta anche come un efficace strumento di marketing. I video sono caricabili con pochi click e tramite la generazione automatica di un codice HTML sono facilmente postabili su siti web esterni. Inoltre, dal 2010, quando YouTube e SIAE hanno firmato un accordo riguardo ai video musicali e ai proventi generati dalle visualizzazioni di questi, è diventato ancora più difficile per la concorrenza. Dunque è lecito porsi la seguente domanda: quali alternative ci sono a YouTube?
Le alternative attive a YouTube presentate in questo articolo sono cinque e sono Vimeo, Dailymotion, Veoh, Vevo e Flickr. Questi quattro servizi offrono agli utenti privati ed a coloro che li utilizzano per lavoro molte possibilità diverse, come guardare e mettere a disposizione contenuti eccezionali.
Dailymotion è un portale video di origine francese, che rappresenta una delle migliori alternative a YouTube in termine di numero utenti, soprattutto nel suo paese di origine. Nel 2015 il servizio ha registrato una utenza attiva del 23%. Comparando a livello internazionale, nessun altro servizio raggiunge un valore simile. In Francia infatti Dailymotion si trova secondo solo a YouTube, che ha una utenza attiva del 57%. Ad ogni modo, anche in altri paesi Dailymotion si trova al secondo posto dietro a YouTube. La compagnia calcola i suoi utenti in giro per il globo attorno ai 300 milioni. Mensilmente vengono visualizzati 3,5 miliardi di video su Dailymotion. In Italia Dailymotion riceve 6 milioni di unique viewers al mese, registrando un totale di circa 65 milioni di visualizzazioni tra tutti i tipi di dispositivi. Dailymotion punta principalmente sulle specifiche di upload: con file video fino a 2GB e 60 minuti di durata. Vengono supportati numerosi formati video e audio, così che è possibile scegliere tra file con estensione .mov, .mpeg4, .mp4, .avi e .wmv. Come codec video e audio vengono consigliati rispettivamente H.264 e AAC con un frame rate di 25FPS. La risoluzione massima possibile è 1080p (Full HD). In questo modo il portale si confà anche agli uploader più esigenti; i file di grandi dimensioni sono ben accetti tanto quanto lo è una qualità convincente dell’immagine. Il layout, di colore blu e bianco, è semplice e comodo da utilizzare. L’ordine degli elementi è decisamente orientato a quello di YouTube, che ha il vantaggio, che anche i principianti riescono a raccapezzarci qualcosa sin da subito. Anche l’integrazione e la condivisione dei video su piattaforme esterne è semplice; con un click il codice HTML corretto viene automaticamente generato. Ci sono inoltre ulteriori funzioni per i cosiddetti partner, i quali hanno la possibilità di guadagnare soldi con Dailymotion esattamente come su YouTube. Anche con Dailymotion si può monetizzare con i video, personalizzare il player e controllare i proventi attraverso il tool di analisi. Perciò Dailymotion è una delle migliori alternative a YouTube particolarmente per i blogger, che vogliono mettere i propri contenuti a disposizione solo a pagamento o che vogliono offrire dei contenuti premium separati. Chi ad esempio vuole usufruire della monetizzazione offerta da Dailymotion per un sito web, può sia attivare il proprio sito sia incorporare un dispositivo speciale del provider. Alcuni partner rinomati hanno già preso parte a questo programma, e tra questi vi sono ad esempio la CNN, la Süddeutsche Zeitung e la Deutsche Welle. Anche la vasta scelta di App di Dailymotion risulta piacevole. L’alternativa a YouTube è presente con apposite App su molte Smart TV, set-top box o sulla Playstation 4 della Sony, e può essere guardata comodamente dal divano di casa. Il servizio può essere utilizzato anche da dispositivo mobile con applicazioni iOS, Android o Windows.
Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.
Bisogna studiare.
Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.
Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.
Bisogna sapere il vero e non il falso.
Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.
Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.
Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).
Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!
Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.
E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.
Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.
Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.
Dr Antonio Giangrande
Immigrazione/emigrazione. Dimmi dove vai, ti dirò chi sei.
L'immigrato/emigrato italiano o straniero è colui il quale si è trasferito, per costrizione o per convenienza, per vivere in un altro luogo diverso da quello natio.
Soggetti: L’immigrato arriva, l’emigrato parte. La definizione del trasferito la dà colui che vive nel luogo di arriva o di partenza. Chi resta è geloso della sua terra, cultura, usi e costumi. Chi arriva o parte è invidioso degli altri simili. Al ritorno estemporaneo al paese di origine gli emigrati, per propria vanteria, per spirito di rivalsa e per denigrare i conterranei di origine, tesseranno le lodi della nuova cultura, con la litania “si vive meglio là, là è diverso”, senza, però, riproporla al paese di origine, ma riprendendo, invece, le loro vecchie e cattive abitudini. Questi disperati non difendono o propagandano la loro cultura originaria, o gli usi e costumi della terra natia, per il semplice motivo che da ignoranti non li conoscono. Dovrebbero conoscere almeno il sole, il mare, il vento della loro terra natia, ma pare (per soldi) preferiscano i monti, il freddo e la nebbia della terra che li ospita.
Tempo: il trasferimento può essere temporaneo o permanente. Se permanente le nuove generazioni dei partenti si sentiranno appartenere al paese natio ospitante.
Luoghi di arrivo: città, regioni, nazioni diverse da quelle di origine.
Motivo del trasferimento: economiche (lavoro, alimentari, climatiche ed eventi naturali); religiose; ideologiche; sentimentali; istruzione; devianza.
Economiche: Lavoro (assente o sottopagato), alimentari, climatiche ed eventi naturali (mancanza di cibo dovute a siccità o a disastri naturali (tsunami, alluvioni, terremoti, carestie);
Religiose: impossibilità di praticare il credo religioso (vitto ed alloggio decente garantito);
Ideologiche: impossibilità di praticare il proprio credo politico (vitto ed alloggio decente garantito);
Sentimentali: ricongiungimento con il proprio partner (vitto ed alloggio decente garantito);
Istruzione: frequentare scuole o università o stage per elevare il proprio grado culturale (vitto ed alloggio decente garantito);
Devianza: per sfuggire alla giustizia del paese di origine o per ampliare i propri affari criminali nei paesi di destinazione (vitto ed alloggio decente garantito).
Il trasferimento per lavoro garantito: individuo vincitore di concorso pubblico (dirigente/impiegato pubblico); trasfertista (assegnazione temporanea fuori sede d’impresa); corrispondente (destinazione fuori sede di giornalisti o altri professionisti). Chi si trasferisce con lavoro garantito ha il rispetto della gente locale indotto dal timore e rispetto del ruolo che gli compete, fatta salva ogni sorta di ipocrisia dei locali che maschera il dissenso all’invasione dell’estraneo. Inoltre il lavoro garantito assicura decoroso vitto e alloggio (nonostante il caro vita) e civile atteggiamento dell’immigrato, già adottato nel luogo d’origine e dovuto al grado di scolarizzazione e cultura posseduto.
Il trasferimento per lavoro da cercare in loco di destinazione: individuo nullafacente ed incompetente. Chi si trasferisce per lavoro da cercare in loco di destinazione appartiene ai ceti più infimi della popolazione del paese d’origine, ignari di solidarietà e dignità. Costui non ha niente da perdere e niente da guadagnare nel luogo di origine. Un volta partiva con la valigia di cartone. Non riesce ad inserirsi come tutti gli altri, per mancanza di rapporti adeguati amicali o familistici, nel circuito di conoscenze che danno modo di lavorare. Disperati senza scolarizzazione e competenza lavorativa specifica. Nel luogo di destinazione faranno quello che i locali non vorrebbero più fare (dedicarsi agli anziani, fare i minatori o i manovali, lavorare i campi ed accudire gli animali, fare i lavapiatti nei ristoranti dei conterranei, lavare le scale dei condomini, fare i metronotte o i vigilanti, ecc.). Questo tipo di manovalanza assicura un vergognoso livello di retribuzione e, di conseguenza, un livello sconcio di vitto ed alloggio (quanto guadagnano a stento basta per sostenere le spese), oltre l’assoggettamento agli strali più vili e razzisti della popolazione ospitante, che darà sfogo alla sua vera indole. Anche da parte di chi li usa a scopo politico o ideologico. Questi disperati subiranno tacenti le angherie e saranno costretti ad omologarsi al nuovo stile di vita. Lo faranno per costrizione a timore di essere rispediti al luogo di origine, anche se qualcuno tenta di stabilire la propria discultura in terra straniera anche con la violenza.
Ecco allora è meglio dire: Dimmi come vai, ti dirò chi sei.
Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?
Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.
Editoriale del Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, che sul tema ha scritto alcuni saggi di approfondimento come "Uguaglianziopoli. L'Italia delle disuguaglianze" e "Caporalato. Ipocrisia e speculazione".
Il primo maggio è la festa di quel che resta dei lavoratori e da un po’ di anni, a Taranto, si festeggiano i lavoratori nel senso più nefasto della parola. Vogliono mandare a casa migliaia di veri lavoratori, lasciando sul lastrico le loro famiglie. Il Governatore della Puglia Michele Emiliano, i No Tap, i No Tav, il comitato “Liberi e Pensanti”, un coacervo di stampo grillino, insomma, non chiedono il risanamento dell’Ilva, nel rispetto del diritto alla salute, ma chiedono la totale chiusura dell’Ilva a dispregio del diritto al lavoro, che da queste parti è un privilegio assai raro.
Vediamo un po’ perché li si definisce nullafacenti festaioli?
Secondo l’Istat gli occupati in Italia sono 23.130.000. Ma a spulciare i numeri qualcosa non torna.
Prendiamo come spunto il programma "Quelli che... dopo il TG" su Rai 2. Un diverso punto di vista, uno sguardo comico e dissacrante sulle notizie appena date dal telegiornale e anche su ciò che il TG non ha detto. Conduttori Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Mia Ceran. Il programma andato in onda il primo maggio 2018 alle ore 21,05, dopo, appunto, il Tg2.
«Primo maggio festa dei lavoratori. Noi abbiamo pensato una cosa: tutti questi lavoratori che festeggiano, vediamo tutte ste feste. Allora noi ci siamo chiesti: Quanti sono quelli che lavorano in Italia. Perchè saranno ben tanti no?
Siamo 60.905.976 (al 21 ottobre 2016). Però facciamo così.
Togliamo quelli sotto i sei anni: 3.305.574 = 57.600.402 che lavorano;
Togliamo quelli sopra gli ottant’anni: 4.264.308 = 53.336.094 che lavorano;
Togliamo gli scolari, gli studenti e gli universitari: 10.592. 685 = 42.743.409 che lavorano;
Togliamo i pensionati e gli invalidi: 19.374.168 = 23.369.241 che lavorano;
Togliamo anche artisti, sportivi ed animatori: 3.835.674 = 19.533.567 che lavorano;
Togliamo ancora assenteisti, furbetti del cartellino, forestali siciliani, detenuti e falsi invalidi: 9.487.331 = 10.046.236 che lavorano;
Togliamo blogger, influencer e social media menager: 2.234.985 = 7.811.251 che lavorano;
Togliamo spacciatori, prostitute, giornalisti, avvocati, (omettono magistrati, notai, maestri e professori), commercialisti, preti, suore e frati: 5.654.320 = 2.156.931 che lavorano;
Ultimo taglietto, nobili decaduti, neo borbonici, mantenuti, direttori e dirigenti Rai: 1.727.771 = 429.160 che lavorano».
Questo il conto tenuto da Luca e Paolo con numeri verosimili alle fonti ufficiali, facilmente verificabili. In verità a loro risulta che a rimanere a lavorare sono solo loro due, ma tant’è.
Per non parlare dei disoccupati veri e propri che a far data aprile 2018 si contano così a 2.835.000.
In aggiunta togliamo i 450.000 dipendenti della pubblica amministrazione dei reparti sicurezza e difesa. Quelli che per il pronto intervento li chiami ed arrivano quando più non servono.
Togliamo ancora malati, degenti e medici (con numero da precisare) come gli operatori del reparto di ortopedia e traumatologia dell’Ospedale di Manduria “Giannuzzi”. In quel reparto i ricoverati, più che degenti, sono detenuti in attesa di giudizio, in quanto per giorni attendono quell’intervento, che prima o poi arriverà, sempre che la natura non faccia il suo corso facendo saldare naturalmente le ossa rotte.
A proposito di saldare. A questo punto non solo non ci sono più lavoratori, ma bisogna aspettare quelli futuri per saldare il conto.
Al primo maggio, sembra, quindi, che a conti fatti, i nullafacenti vogliono festeggiare a modo loro i pochi veri lavoratori rimasti, condannandoli alla disoccupazione. Ultimi lavoratori rimasti, che, bontà loro, non fanno più parte nemmeno della numerica ufficiale.
Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.
Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.
Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.
Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.
Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.
Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.
Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.
Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.
Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.
Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.
Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono poveri da aiutare, io vedo degli incapaci o degli sfaticati, ma, in specialmodo, vedo persone a cui è impedita la possibilità di emergere dall’indigenza per ragioni ideologiche o di casta o di lobby.
Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.
Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.
Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.
Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.
Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).
Se questa è democrazia…
I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.
I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.
I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.
I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.
Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.
La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria.
I giornalisti in ogni dove, ormai, esprimono opinioni partigiane del cazzo. In relazione alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 alcuni di loro dicono che il movimento 5 stelle ha sfondato al sud con i voti dei nullafacenti per il reddito di cittadinanza: ossia la perpetuazione dell’assistenzialismo. Allora dovrebbe essere vero, anche, che al nord ha stravinto il razzismo della Lega di Salvini, il cui motto era: "Neghèr föra da i ball", ossia immigrati (che hanno preso il posto dei meridionali) tornino a casa loro. La verità è che l’opinione dei giornalisti vale quella degli avventori al bar; con la differenza che i primi sono pagati per dire stronzate, i secondi pagano loro la consumazione durante le loro discussioni ignoranti.
A chi votare?
Nell’era contemporanea non si vota per convinzione. Le ideologie sono morte e non ha senso rivangare le guerre puniche o la carboneria o la partigianeria.
Chi sa, a chi deve votare (per riconoscenza), ci dice che comunque bisogna votare e votare il meno peggio (che implicitamente è sottinteso: il suo candidato!).
A costui si deve rispondere:
Votare a chi non ci rappresenta? Votare a chi ci prende per il culo?
I disonesti parlano di onestà; gli incapaci parlano di capacità; i fannulloni parlano di lavoro; i carnefici parlano di diritti.
Nessuno parla di libertà. Libertà di scegliersi il futuro che si merita. Libertà di essere liberi, se innocenti.
La vergogna è che nessuno parla dei nostri figli a cui hanno tolto ogni speranza di onestà, capacità, lavoro e diritti.
Fanno partecipare i nostri figli forzosamente ed onerosamente a concorsi pubblici ed a Esami di Stato (con il trucco) per il sogno di un lavoro. Concorsi od esami inani o che mai supereranno. Partecipazione a concorsi pubblici al fine di diventare piccoli “Fantozzi” sottopagati ed alle dipendenze di un numero immenso di famelici incapaci cooptati dal potere e sostenuti dalle tasse dei pochi sopravvissuti lavoratori.
Ai nostri figli inibiscono l’esercizio di libere professioni per ingordigia delle lobbies.
Ai nostri figli impediscono l’esercizio delle libere imprese per colpa di una burocrazia ottusa e famelica. Ove ci riuscissero li troncherebbero con l’accusa di mafiosità.
Ai nostri figli impediscono di godere della vita, impedendo la realizzazione dei loro sogni o spezzando le loro visioni, infranti contro un’accusa ingiusta di reato.
E’ innegabile che le nostre scuole e le nostre carceri sono pieni, come sono strapieni i nostri uffici pubblici e giudiziari, che si sostengono sulle disgrazie, mentre sono vuoti i nostri campi e le nostre fabbriche che ci sostentano.
L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. E non sarei mai votato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Si deve tener presente che il voto nullo, bianco o di protesta è conteggiato come voto dato.
Quindi io non voto.
Non voto perché un popolo di coglioni votanti sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Informato da chi mette in onda le proprie opinioni, confrontandole esclusivamente con i propri amici o con i propri nemici. Ignorata rimane ogni voce fuori dal coro.
Se nessuno votasse?
In democrazia, se la maggioranza non vota, ai governanti oppressori ed incapaci sarebbe imposto di chiedersi il perché! Allora sì che si inizierebbe a parlare di libertà. Ne andrebbe della loro testa…
Se questa è democrazia. Questo non lo dico io…Giorgio Gaber: In un tempo senza ideali nè utopia, dove l'unica salvezza è un'onorevole follia...Testo Destra-Sinistra - 1995/1996
Le parole, definiscono il mondo, se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
quasi tutte le canzoni son di destra
se annoiano son di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po’ di destra
ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate
è da scemi più che di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po’ di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La patata per natura è di sinistra
spappolata nel purè è di destra
la pisciata in compagnia é di sinistra
il cesso é sempre in fondo a destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po’ di destra
mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
L’ideologia, l’ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione l’ossessione della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera é di destra
la nutella é ancora di sinistra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La tangente per natura è di destra
col consenso di chi sta a sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po’ degli anni '20 un po’ romano
è da stronzi oltre che di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
L’ideologia, l’ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c’è
se c'é chissà dov'è se c'é chissà dov'é.
Canticchiar con la chitarra è di sinistra
con il karaoke è di destra
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze é più che mai di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
Son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è a destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po’ più di destra
ma un figone resta sempre un’attrazione
che va bene per sinistra o destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa é nostra
é evidente che la gente é poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Basta!
Dall'album E Pensare Che C'era Il Pensiero.
E comunque non siamo i soli a dirlo…Rino Gaetano Nuntereggae più, 1978.
Nuntereggae più
Abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè con le canzoni
senza fatti e soluzioni
la castità (NUNTEREGGAEPIU')
la verginità (NUNTEREGGAEPIU')
la sposa in bianco, il maschio forte
i ministri puliti, i buffoni di corte
ladri di polli
super pensioni (NUNTEREGGAEPIU')
ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori
diete politicizzate
evasori legalizzati (NUNTEREGGAEPIU')
auto blu
sangue blu
cieli blu
amore blu
rock and blues
NUNTEREGGAEPIU'
Eja alalà (NUNTEREGGAEPIU')
pci psi (NUNTEREGGAEPIU')
dc dc (NUNTEREGGAEPIU')
pci psi pli pri
dc dc dc dc
Cazzaniga (NUNTEREGGAEPIU')
Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli
Susanna Agnelli, Monti, Pirelli
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli (NUNTEREGGAEPIU')
Gianni Brera (NUNTEREGGAEPIU')
Bearzot (NUNTEREGGAEPIU')
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno
Villaggio, Raffa, Guccini
onorevole eccellenza, cavaliere senatore
nobildonna, eminenza, monsignore
vossia, cherie, mon amour
NUNTEREGGAEPIU'
Immunità parlamentare (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè
il numero 5 sta in panchina
s'è alzato male stamattina
mi sia consentito dire (NUNTEREGGAEPIU')
il nostro è un partito serio
disponibile al confronto
nella misura in cui
alternativo
aliena ogni compromess
ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
ci sarà la ress
se quest'estate andremo al mare
solo i soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia
dove sei tu? non m'ami più?
dove sei tu? io voglio tu
soltanto tu dove sei tu?
NUNTEREGGAEPIU'
Uè paisà (NUNTEREGGAEPIU')
il bricolage (NUNTEREGGAEPIU')
il quindici-diciotto
il prosciutto cotto
il quarantotto
il sessantotto
le pitrentotto
sulla spiaggia di Capocotta
(Cartier Cardin Gucci)
Portobello e illusioni
lotteria trecento milioni
mentre il popolo si gratta
a dama c'è chi fa la patta
a settemezzo c'ho la matta
mentre vedo tanta gente
che non c'ha l'acqua corrente
non c'ha niente
ma chi me sente
ma chi me sente
e allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
ci giurerei
sei meglio tu
che bella sei
che bella sei
NUNTEREGGAEPIU'
L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.
Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
L'ITALIA ED IL DNA DEGLI ITALIANI.
La bella Italia di Aban feat. Marracash & Gue Pequeno
Ehi, è la mia nazione, niente cambia qua,
Marra, Guè Pequeno, vi porto a fare un giro nella Bella Italia
E dovrei leggere il giornale e guardare il tg, in tv,
per accorgermi che stato e mafia sono intimi,
Dogo Gang, lo sanno già tutti,
Southfam, lo sanno già tutti,
il peggio è che lo sanno già tutti.
Vengo al mondo con il piombo nel '79
con il cielo rosso sangue sopra la nazione
l'anno prima della bomba dentro la stazione
il Paese inginocchiato ai piedi del terrore
l'ambientazione non cambia quando passiamo agli '80
quando è lo stato assassino, sai non esiste condanna
basta una botta di pala per insabbiare la trama
e tutti morti ammazzati dentro le stragi in Italia
poi la nuova alleanza tra politica e mala
la faccia buona e pulita, la mano armata e insanguinata
i pilastri di cemento con i cristiani dentro
l'acido e le vasche, e il primo pentimento
sono gli anni dei maxi processi, la verità viene a galla
lo stato primo assassino, strinse la mano alla mala,
e se volevi lavorare dovevi pagare
l'impiegato, il sindaco, l'appalto comunale.
I nuovi clan del 90 sotto il nome d'azienda
i soldi sporchi riciclati dalle banche di Berna
la politica assassina che soffoca i cittadini
e ruba dallo stipendio per finanziare i partiti
i loro vizi esauditi col sangue degli operai
e i soldi delle pensioni che non bastano mai
12 teste al mese per ogni parlamentare
e 8000 euro all'anno per la fascia popolare
l'onorevole a puttane, l'ha detto il telegiornale
bamba pura di Colombia per l'alto parlamentare
tra i banchi di tribunale c'è chi ha rubato per fame
una vita di lavoro e 5 bocche da sfamare
ma la legge della Bella Italia valuta il prefisso
che davanti al nome è presidente o ministro
e non conta il reato, il verdetto è fisso,
non va dentro Barabba, sconta il povero Cristo.
Non c'è il diavolo contro l'angelo che consiglia
L'alternativa per me è il diavolo o la scimmia
in testa ho merda, fogli in fretta, potere, droga e tette
come in Quirinale, il criminale che non si dimette
ho l'oro bianco al collo frà, ed è gelido come il mio cuore
devo inventarmi soldi, voi vi inventate storie
l'uomo di successo qui è il balordo legalizzato
(???) ci ha promesso che lui non si è mai drogato
la mafia e la politica frà andranno sempre insieme,
come al cesso mano nella mano le due amiche sceme
ed è per questo che molta della mia gente, no, non vota
nella merda frà ci nuota, mentre in tele svolta un altro idiota
questa è la Bella Italia, tira una bella raglia
faccia da galera del magnaccia sul Carrera
scorda i problemi, sogna il montepremi
il frà sul lastrico progetta fuga nel Sud-Est Asiatico.
In Italia di Fabri Fibra feat. Gianna Nannini.
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
Pistole in macchine in Italia
Machiavelli e Foscolo in Italia
I campioni del mondo sono in Italia
Benvenuto in Italia
Fatti una vacanza al mare in Italia
Meglio non farsi operare in Italia
Non andare all'ospedale in Italia
La bella vita in Italia
Le grandi serate e i gala in Italia
Fai affari con la mala in Italia
Il vicino che ti spara in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
I veri mafiosi sono in Italia
I più pericolosi sono in Italia
Le ragazze nella strada in Italia
Mangi pasta fatta in casa in Italia
Poi ti entrano i ladri in casa in Italia
Non trovi un lavoro fisso in Italia
Ma baci il crocifisso in Italia
I monumenti in Italia
Le chiese con i dipinti in Italia
Gente con dei sentimenti in Italia
La campagna e i rapimenti in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi? In Italia
Le ragazze corteggiate in Italia
Le donne fotografate in Italia
Le modelle ricattate in Italia
Impara l'arte in Italia
Gente che legge le carte in Italia
Assassini mai scoperti in Italia
Volti persi e voti certi in Italia
Ci sono cose che nessuno ti dirà…
Ci sono cose che nessuno ti darà…
Sei nato e morto qua
Sei nato e morto qua
Nato nel paese delle mezza verità
Dove fuggi…
Dove fuggi...
La terra dei cachi di Elio e le Storie Tese
Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, abusi sessuali abusivi;
tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati, motorini truccati che scippano donne truccate;
il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo, una lacrima sul visto:
Italia sì Italia no Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
c'è un commando che ci aspetta per assassinarci un po'.
Commando sì commando no, commando omicida.
Commando pam commando papapapapam, ma se c'è la partita
il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
sventolando il bandierone non più sangue scorrerà;
infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì primario dai, primario fantasma,
io fantasma non sarò e al tuo plasma dico no.
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò
"fi fi fi fi fi fi fi fi ti devo una pinza, fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze. Viva il crogiuolo di panze.
Quanti problemi irrisolti ma un cuore grande così.
Italia sì Italia no Italia gnamme, se famo du spaghi.
Italia sob Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo; un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifì' fufafifì' Italia evviva.
Italia perfetta, perepepè' nanananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo:
in totale molto pizzo, ma l ' Italia non ci sta.
Italia sì Italia no, Italia sì
uè, Italia no, uè uè uè uè uè.
Perché la terra dei cachi è la terra dei cachi. No
L'italiano medio degli Articolo 31
Io mi ricordo collette di Natale
Campi di grano ai lati della provinciale
Il tragico Fantozzi, la satira sociale
Oggi cerco Luttazzi e
Non lo trovo sul canale
Comunque sono un bravo cittadino
Ho aggiornato suonerie del telefonino
E un bicchiere di vino con un panino
Provo felicità se Costanzo fa il trenino
Ho un santino in salotto
Lo prego così vinco all'enalotto
Ho Gerry Scotti col risotto ma è scotto
Che mi fa diventare milionario come Silvio
Col giornale di Paolo e tanta fede in Emilio
Quest'anno ho avuto fame ma per due settimane
Ho fatto il ricco a Porto Cervo. Che bello!
Però ricordo collette di Natale
Campi di grano ora il grano è da buttare
M'importa poco oggi io vado al centro commerciale
E il mio problema è solo dove parcheggiare
Ohoo Ohoo
Ma a me non me ne frega tanto
Ohoo Ohoo
Io sono un italiano e canto
E datemi Fiorello e Panariello alla tv
Sono l'italiano medio nel blu dipinto di blu
Io sono un bravo cittadino onesto
Bevo al mattino un bel caffè corretto
Dopo cena il limoncello in vacanza la tequila
La Gazzetta d'inverno e d'estate novella 2000
Che bella la vita di una stella
marina o Martina o quella della velina
La mora o la bionda è buona e rotonda
Finchè la barca va finchè la barca affonda
E intanto sto perdendo sulla patente il punto
E un auto blu mi sfreccia accanto
Che incanto
Ohoo Ohoo
Ma a me non me ne frega tanto
Ohoo Ohoo
Io sono un italiano e canto
Non togliermi il pallone e non ti disturbo più
Sono l'italiano medio nel blu dipinto di bluuuuu
Ohoo
Ma spero che un sogno così non ritorni mai più
Mi voglio svegliare, mai più
Ti voglio fare vedere
Che sono proprio un bravo cittadino
Ho il portafoglio di Valentino
E l'importante è quello che ci metto dentro
Vado con il vento a sinistra a destra
Sabato in centro fino a consumare le suole
Ballo canzoni spagnole così non mi sforzo
A seguire le parole e penso a fare l'amore
Alla villa di Briatore alla nonna senza
Ascensore alla donna del calciatore
A qual è il male minore, l'onore, sua eccellenza
Monsignore ancora baciamo la mano
Che del miracolo italiano
Ohoo Ohoo
Ma a me non me ne frega tanto
Ohoo Ohoo
Io sono un italiano e canto
E datemi Fiorello e Panariello alla tv
Sono l'italiano medio nel blu dipinto di blu
Ohoo Ohoo
Ma a me non me ne frega tanto
Ohoo Ohoo
Io sono un italiano e canto
Non togliermi il pallone e non ti disturbo più
Sono l'italiano medio nel blu dipinto di bluuuuu
Ohoo
C'era una volta
E non solo una
Un re che amava così tanto i vestiti nuovi
che spendeva in essi tutto quello che aveva
Possedeva un abito diverso per ogni ora della giornata
Niente importava per lui
Eccetto i suoi vestiti
Eppure non trovava soddisfazione
Il sarto era sull'orlo della disperazione
Disse al re di avere inventato un nuovo tessuto
Che cambiava colore e forma ad ogni momento
Ma rivelava anche coloro che erano stolti, ignoranti e stupidi
A loro il tessuto sarebbe stato invisibile
E pensate, e pensate
Quelli Che Benpensano di Frankie HI-NRG MC
Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi
A far promesse senza mantenerle mai se non per calcolo
Il fine è solo l'utile, il mezzo ogni possibile
La posta in gioco è massima, l'imperativo è vincere
E non far partecipare nessun altro
Nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro
Niente scrupoli o rispetto verso I propri simili
Perché gli ultimi saranno gli ultimi se I primi sono irraggiungibili
Sono tanti, arroganti coi più deboli,
zerbini coi potenti, sono replicanti,
Sono tutti identici, guardali,
stanno dietro a maschere e non li puoi distinguere.
Come lucertole s'arrampicano,
e se poi perdon la coda la ricomprano.
Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno
spendono, spandono e sono quel che hanno
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
e come le supposte abitano in blisters full-optional,
Con cani oltre I 120 decibel e nani manco fosse Disneyland,
Vivono col timore di poter sembrare poveri
Quel che hanno ostentano, tutto il resto invidiano, poi lo comprano,
In costante escalation col vicino costruiscono
Parton dal pratino e vanno fino in cielo,
han più parabole sul tetto che S.Marco nel Vangelo..
Sono quelli che di sabato lavano automobili
che alla sera sfrecciano tra l'asfalto e I pargoli,
Medi come I ceti cui appartengono,
terra-terra come I missili cui assomigliano.
Tiratissimi, s'infarinano, s'alcolizzano
e poi s'impastano su un albero
Nasi bianchi come Fruit of the Loom
che diventano più rossi d'un livello di Doom
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Ognun per se, Dio per se, mani che si stringono tra I banchi delle chiese alla domenica
mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano
Altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si scandalizzano
Mani che poi firman petizioni per lo sgombero,
Mani lisce come olio di ricino,
Mani che brandisco Manganelli, che Farciscono Gioielli,
che si alzano alle spalle dei Fratelli.
Quelli che la notte non si può girare più,
quelli che vanno a mignotte mentre i figli guardan La TV,
Che fanno I boss, che compra Class,
che son sofisticati da chiamare I NAS, incubi di Plastica
Che vorrebbero dar fuoco ad ogni zingara
Ma l'unica che accendono è quella che da loro l'elemosina ogni sera,
Quando mi nascondo sulla faccia oscura della loro luna nera
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sono intorno a me, ma non parlano con me.
Sono come me, ma si sentono meglio
Sabbie Mobili di Marracash
Non agitarti
Resta immobile
Non agitarti
Resta immobile
Puoi metterci anni
E guardare ogni cosa che
Affonda Nelle sabbie mobili
Si perde Nelle sabbie mobili
Penso spesso che potrei farlo
Andare via di punto in bianco
Così altra città. Altro Stato
Potrei se avessi il coraggio
Ho un orizzonte limitato
E' follia stare qua nel miraggio
Che basti essere capaci
Quanti ne ho visti scavalcarmi
Rampolli Rapaci. Raccomandati
Quanti ne ho visti fare viaggi
E dopo non tornare
Restare. Spaccare. Affermarsi
Qui non c'è il mito di chi si è fatto da solo
Perché chi si è fatto da solo di solito è corrotto
Se sei un ragazzo ambizioso
In un sistema corrotto
Non puoi fare il botto
E non uscirne più sporco
Nessuno lascia le poltrone
Niente si muove
Nessuno osa e nessuno dà un occasione
Impantanati in queste sabbie mobili
Si muore comodi
Lo Stato spreca i migliori uomini
Non agitarti. Resta immobile.
Puoi metterci anni
E guardare ogni cosa che Affonda
Nelle sabbie mobili
Si perde. Nelle sabbie mobili
Parto dal principio
Io della scuola ricordo un ficus
Cioè la pianta che aveva il preside in ufficio
Vale più un mio testo letto in diretta da Linus
Il paese ha un virus
Una paralisi da ictus
Come prima più di prima
Madonna potrebbe essere mia nonna
A 50 anni è ancora a pecorina
E' il nulla
Come la storia infinita
Come la mummia
Che si sveglia e torna in vita
Puzza di muffa
The beautiful people
The beautiful people
La bella gente pratica il cannibalismo
Sa di già visto
Come un film di cui capisci la fine
Già dall'inizio
I vecchi stanno al potere
Non vanno all'ospizio
E se MTV sta per music television
Vorremmo più video e meno reality e fiction
Sono pesante apposta come chi fa sumo
Tu fai musica che piace a tanti
E non fa impazzire nessuno
Non agitarti. Resta immobile
Puoi metterci anni
E guardare ogni cosa che
Affonda. Nelle sabbie mobili
Si perde. Nelle sabbie mobili
Niente di nuovo. Niente di che
Quel rapper che ti piace
Non dice niente di sé
Solo cliché
Attacca il premier
Come se quando cadrà il premier
Vincerà il bene
Se non ci fosse di che parlerebbe
Chi comanda è lì da sempre
E non si elegge con il voto
E prende decisioni senza cuore e senza quorum
E se tornassi indietro io lo rifarei
Il mio incubo era fare la vita dei miei
Sì quella vita strizzata in otto ore
Compressa. La sera sei stanco e c'hai mal di testa
Compressa. Fuori onda il direttore dice che ho ragione
Ma non ci crede
Come chi brinda
Ma poi non beve
Non prendere la bufala
Che tanto non è bufala
E' una bufala
Hai una chance di andartene frà. Usala
Se riesci sei un genio
Se fallisci sei uno zero
Se fai quello che fanno gli altri
Rischi di meno
Quindi. Non agitarti. Resta immobile
Puoi metterci anni
E guardare il paese che
Affonda. Nelle sabbie mobili
Si perde. Nelle sabbie mobili
Io Non Mi Sento Italiano di Giorgio Gaber
Parlato: Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
Non è per colpa mia
Ma questa nostra Patria
Non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
Che sia una bella idea
Ma temo che diventi
Una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
Non sento un gran bisogno
Dell'inno nazionale
Di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
Non voglio giudicare
I nostri non lo sanno
O hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
Se arrivo all'impudenza
Di dire che non sento
Alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
E altri eroi gloriosi
Non vedo alcun motivo
Per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
Ma ho in mente il fanatismo
Delle camicie nere
Al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
Questa democrazia
Che a farle i complimenti
Ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
Pieno di poesia
Ha tante pretese
Ma nel nostro mondo occidentale
È la periferia.
Mi scusi Presidente
Ma questo nostro Stato
Che voi rappresentate
Mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
Agli occhi della gente
Che tutto è calcolato
E non funziona niente.
Sarà che gli italiani
Per lunga tradizione
Son troppo appassionati
Di ogni discussione.
Persino in parlamento
C'è un'aria incandescente
Si scannano su tutto
E poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
Dovete convenire
Che i limiti che abbiamo
Ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
Noi siamo quel che siamo
E abbiamo anche un passato
Che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
Ma forse noi italiani
Per gli altri siamo solo
Spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
Son fiero e me ne vanto
Gli sbatto sulla faccia
Cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
Forse è poco saggio
Ha le idee confuse
Ma se fossi nato in altri luoghi
Poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
Ormai ne ho dette tante
C'è un'altra osservazione
Che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
Noi ci crediamo meno
Ma forse abbiam capito
Che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
Lo so che non gioite
Se il grido "Italia, Italia"
C'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
O forse un po' per celia
Abbiam fatto l'Europa
Facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
Ma per fortuna o purtroppo
Per fortuna o purtroppo
Per fortuna. Per fortuna lo sono.
Mamma L'Italiani di Après La Classe
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Rivoluzione di Renato Zero
Protesterai
ogni tregua è finita oramai
dalla sabbia la testa alzerai
dritto al cuore colpirai.
Libererai
quello che soffocavi in te
la tua voce è più forte se vuoi
del silenzio e l'omertà
C'è una guerra giusta e devi farla tu
è la tua risposta a chi non chiede più
Rivoluzione è il grido che solleverai
e devi metterci la faccia finché puoi
perché ho pagato il conto ai tuoi caffè
su la testa adesso tocca te
Ti accorgerai
che il nemico è nascosto tra noi
che il futuro non viene da sé
e ogni brivido ha un suo perché
E sentirai
che resistere è pura follia
ci sarà poi chi ride di te
ma è soltanto paura la sua
Perché niente al mondo viene come vuoi
Perché tutto al mondo ha un prezzo d'ora in poi
Rivoluzione è la promessa che mi fai
di calci e sputi non avere mai paura
Non posso andare sempre avanti io
ho già dato e adesso tocca te
Politica assente famiglia vacante
quaggiù si congeda anche Dio
Se la corda si spezza s'incendia la piazza
E ritorno a lottare con te!
Rivoluzione è il grido che solleverai
e devi metterci la faccia finché puoi
perché ho pagato il conto ai tuoi caffè
fuori il cuore adesso tocca te
Rivoluzione è il grido che solleverai
e devi metterci la faccia finché puoi
perché ho pagato il conto ai tuoi caffè
fuori il cuore adesso tocca te
Rivoluzione! Rivoluzione.
Rivoluzione di Frankie hi-nrg mc
In Italia c'è lavoro in qualche punto nero – capita:
ogni volo che finisce sotto a un telo irrita, noi che
qui pure Peppone sa il Vangelo e lo agita, un po' si
esagita, dopo un po' si sventola: senti un po' che
caldo fa… Afa tutto l'anno – più brevemente
“affanno” – non sanno a quale conclusione non
Approderanno. Noi l'Italia siamo e non la stiam
Rappresentando: ciurma! Ai posti di comando!
Mettiamo al bando i vertici politici con tutti i loro
Complici, amici degli amici di chi ha svuotato i
Conti: incassano tangenti celandosi le fonti e han
Cappucci e cornetti sulle fronti.
Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione,
sesso, razza o religione: tutti pronti per l'azione.
Troppi furbetti nel nostro quartierino e tutti ci
intercettano con il telefonino, ci piazzano vallette
nude sopra allo zerbino e paparazzi sui terrazzi del
vicino: ragazzi che casino! Senza via di
scampo, chiusi dentro al plastico di quel villino ci è
venuto un crampo, siamo titolari confinati a bordo
campo, ci fan pagare l'acqua più salata dello
shampoo. Boh? Magari mi sbaglio, ma vedo tutti
quanti allo sbaraglio, meglio darci un taglio… Figli
mai usciti dal travaglio: qui da masticare non ci
resta che il bavaglio.
Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione,
sesso, razza o religione: tutti pronti per l'azione.
L'Italia, non lo sai, ha problemi araldici: i baroni
sono pochi e han troppi conti per dei medici. Poi
ha problemi etici, politici, geografici, geologici, ma
i peggio restan quelli genealogici… Visto che la
base del sistema è la clientela e siamo separati
da 6 gradi sì, ma di parentela, maglie di una
ragnatela a forma di stivale, tutti collegati in linea
collaterale come un'unica famiglia in un immenso
psicodramma: sta bravo che altrimenti piange
mamma. Cambio di programma: annulliamo la
rivolta. Abbiamo una famiglia e non dev'essere
coinvolta…
Non si fa la rivoluzione, l'hanno detto in
Televisione… chi c'è andato che delusione! Era
chiuso anche il portone.
"Chi comanda il mondo?" di Povia
Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori
Fate la nanna bambini e disegnate i colori
Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura
Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura
Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore
e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire
Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire
Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire
e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele
chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele
C’è una dittatura di illusionisti finti
economisti equilibristi
terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti
che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti
gli illusionisti, che ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia
fino a portarci all’apatia
creando nella massa, una massa grassa di armi di divisione di massa
media, oggetti, nomi, colori, simboli
la pensiamo uguale ma siamo divisi noi singoli
dormiamo bene sotto le coperte
siamo servi di queste sorridenti merde
Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori
Fate la nanna bambini e disegnate i colori
Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni
Fate la nanna bambini volati nei cieli
Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà
e l’uomo più forte del mondo diventerà
portando in alto l’amore
Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura
Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura
Chi comanda il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele
chi ha creato il mondo, dice sempre che va tutto bene
La libertà e la lotta contro l’ingiustizia
non sono né di destra né di sinistra
la musica può arrivare nell’essenziale
dove non arrivano le parole da sole
gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati
da Maastricht a Lisbona
siamo tutti indignati perché questi trattati
annullano ogni costituzione
quì bisogna dare un bel colpo di scopa
e spazzare via ogni stato da quest’Europa
se ogni stato uscisse dall’Euro davvero
magari ogni debito andrebbe a zero
perché per tutti c’è un punto d’arrivo
nessuno lascerà questo mondo da vivo
vogliamo una terra sana, sana
meglio una moneta sovrana (che una moneta puttana)
Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori
Fate la nanna bambini e disegnate i colori
Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni
Fate la nanna bambini volati nei cieli
Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà
e l’uomo più forte del mondo diventerà
portando in alto l’amore
Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura
Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura
Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore
e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire
Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire
Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire
e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele
chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele
Fate la nanna bambini volati nei cieli
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma, scrive Oscar di Montigny il 5 giugno 2018 su "Panorama".
"Se la libertà significa qualcosa allora è il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire". George Orwell
Al giorno d'oggi siamo impegnati a comunicare senza sosta ma di rado capita di domandarci: sto dicendo veramente quello che voglio dire? Non siamo di certo i primi: da sempre nella storia anche i più grandi e rivoluzionari pensatori hanno dovuto fare i conti con il contesto storico, le pressioni sociali, le censure. Non a caso lo scrittore e giornalista George Orwell ha scritto la frase premessa a queste righe. Oggi, però, comunichiamo di continuo eppure è raro che diciamo esattamente quello che ci sentiremmo di dire. Vogliamo sempre fare la battuta più brillante su Twitter, corriamo a esprimere la nostra opinione sul fatto del giorno, magari senza esserci informati opportunamente, ma abbiamo consapevolezza di ciò che stiamo sacrificando sull'altare di questa gara?
L'era della post-verità. Ecco che le nostre parole vengono distorte, perdono di sincerità, spontaneità ma soprattutto di connessione col reale. Siamo d'altronde in quella che è stata definita era della post-verità. Gli "alternative facts" di cui si è parlato ultimamente negli Stati Uniti di Donald Trump sono un bell'esempio di come anche il linguaggio possa essere piegato a originare contraddizioni fino a poco tempo fa impensabili: i fatti erano fatti, senza alternative. I giornalisti incorruttibili, i profeti scomodi, i difensori del libero arbitrio sembrano martiri degni solo di vecchi film di Hollywood. Le bolle in cui ci immergono i social o i mezzi digitali funzionano invece in un modo autoreferenziale e al contempo pericoloso: ci piacciono perché ci permettono di scegliere con chi relazionarci e scegliamo di farlo sempre con coloro che hanno opinioni che corrispondono al nostro modo di vedere, leggiamo solo cose che ci compiacciono, ma che ci tagliano anche fuori da una parte di società che la pensa diversamente da noi. È questo il terreno in cui proliferano le fake news, piaga apicale del nostro tempo, difficili da smontare senza esporsi ad altre fonti di informazione. È così che evitiamo di andare a fondo nelle cose, a recuperare un senso della dimensione reale. Il politicamente corretto, la paura di offendere, un'isteria legata a quel che va detto e cosa no, limitano la libertà di espressione in un'epoca in cui essa è virtualmente al suo massimo.
Il coraggio di dire quello che si pensa. D'altronde è più comodo così: "Per farsi dei nemici non è necessario dichiarare guerra, basta dire quello che si pensa", diceva Martin Luther King. Se persone come lui si sono sacrificate in nome della libertà forse vuol dire che questi principî non riguardano solo l'opportunità personale, sono invece veri e propri valori culturali. Al contrario stiamo perdendo l'attaccamento alla realtà fattuale delle cose e anche l'inclinazione ad accettare la verità, anche quando è scomoda. Mentre è sempre più facile cadere nelle trappole della propaganda o della disinformazione, sarebbe opportuno correre dei rischi. Non esprimerci solo in modo da ottenere qualche "like" in più o con mille cautele per non disturbare poteri forti o prepotenti di turno. In una recente intervista lo scrittore Eric Emmanuel Schmitt scriveva che siamo in "un'epoca vittimistica, in cui non facciamo altro che definirci vittime di qualcosa o qualcuno". Essere meno vittime forse passa proprio dalla forza che mettiamo nell'intonare la nostra voce su un accordo autonomo rispetto alla babele collettiva.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad arrivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Da: Pacho Pedroche Lorena (venerdì 22 settembre 2018). Salve, sono Lorena Pacho, giornalista spagnola presso il giornale El País. Sto lavorando presso un servizio sugli avvocati italiani che chiedono l'omologazione del titolo di studio in Spagna. Sarebbe possibile parlare con il Dr. Giangrande, per favore, per fare qualche domanda sul processo e come funziona in Italia? in relazione con i sui libri L' Italia dei concorsi pubblici truccati ed esame di avvocato. La ringrazio cordiali saluti. La ringrazio tanto, gradisco molto questa soluzione e la ringrazio. Invio qua delle domante, si senta libero di rispondere a tutte oppure solo a una parte. Anche si senta libero per la lunghezza, ma non è necessario sia molto lungo. L'obiettivo di questo servizio è per una parte fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per diventare avvocato spiegando come è il processo in Italia, perchè è così lungo, difficile e tortuoso accedere alla abilitazione alla professione di avvocato e quale sono le ombre e difetti di questo processo:
- Quali sono le particolarità que definiscono meglio il processo per l'abilitazione alla professione di avvocato? (per fare capire ai lettori spagnoli perchè in tanti vano in Spagna per l'omologazione.
«In Italia per diventare avvocato bisogna laurearsi in Giurisprudenza (in legge). Poi si segue un periodo di praticantato con corsi obbligatori onerosi ed esosi e solo alla fine si affrontano gli esami di abilitazione organizzati dal Ministero della Giustizia. Le commissioni di esame di avvocato sono composte da avvocati, professori universitari e magistrati. La stessa composizione che abilita gli stessi magistrati ed i professori. Con scambio di ruoli e favori. Io ho partecipato per 17 anni all’esame di abilitazione, fino a che ho detto basta! In questi anni ho vissuto tutte le fasi delle riforme emanate per rendere, in effetti, impossibile l’iscrizione all’albo tenuto dagli avvocati più anziani. All’inizio della mia esperienza il praticantato era di due anni e poi affrontavi l’esame con le commissioni del proprio distretto, portando i codici annotati solo con la giurisprudenza. Allora non si sentiva parlare di migrazione verso la spagna di aspiranti avvocati. Se eri bocciato, bastava riprovare ed aspettare. Da sempre, però, vi era la litania che gli avvocati erano troppi. Ad oggi il praticantato si svolge con corsi di formazione obbligatori ed a pagamento per 18 mesi e l’esame sarà svolto con soli codici senza annotazioni della giurisprudenza. Inoltre, con l’avvento del cosiddetto governo “liberale” di Silvio Berlusconi, l’allora Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, ha previsto la transumanza degli elaborati degli esami. Spiego meglio. Le commissioni di esame di avvocato del Nord Italia erano avare nell’abilitare, per limitare la concorrenza. Roberto Castelli era del partito di Matteo Salvini, attuale vice premier. La lega Nord, prima di essere anti immigrati è stata da sempre anti meridionale. Se il loro motto oggi è “prima gli italiani”, allora era “prima i settentrionali”. Nel Nord d’Italia vi era la convinzione che le commissioni del sud Italia erano prodighi, per questo vi erano più idonei all’esame di avvocato. La stessa Ministro Gelmini del Governo Berlusconi, lei impedita a Brescia, ha fatto l’esame in Calabria. A loro dire, poi, la massa di idonei emigrava al Nord, togliendo lavoro ai locali, che tanto avevano fatto illecitamente per tutelare se stessi. Secondo questa riforma di stampo razzista le prove scritte sono visionate da commissioni estratte a sorte, con spostamento dei plichi con gli elaborati da nord a sud e viceversa, con aggravio di tempo e di denaro. In questo modo sono avvantaggiati i candidati del nord Italia, i cui compiti sono corretti dalle commissioni del sud, rimaste benevoli. I partiti statalisti di sinistra non hanno fatto altro che confermare questo iniquo sistema».
- Secondo Lei, che senso ha rendere obbligatorio l'esame di Stato per gli avvocati?
«Non ha senso rendere obbligatorio un esame che non garantisce il merito, tenuto conto che i candidati, oltretutto, hanno sostenuto tantissimi esami all’università. Benissimamente a fine studio universitario potrebbero sostenere l’esame finale di abilitazione (come in altri paesi) avente valore di esame di Stato. Poi ci pensa il mercato: chi vale, lavora».
- Funziona il sistema dei concorsi di abilitazione alla professione forense in Italia?
«Il sistema di abilitazione forense in Italia non funziona perché non garantisce il merito, ma è stabilito solo per limitare l’accesso ai giovani aspiranti avvocati per la tutela di rendita di posizione o per garantire i propri protetti».
-Perchè è così alta la percentuale di concorrenti che non superano, che non passano gli esami di avvocato?
«La percentuale di idonei diventa di anno in anno sempre minore. Perché negli anni hanno limitato l’intervento degli avvocati nella tutela dei diritti (vedi ricorsi contro le sanzioni amministrative o per i sinistri stradali o per onerosità delle cause, o per il gratuito patrocinio); ovvero hanno imposto delle tasse e dei contributi esosi. Questo porta la lobby degli avvocati a tutelare gli interessi corporativi sempre più ristretti, negando l’accesso ai nuovi. I giovani per aggirare l’ostacolo prendono altre strade: ossia, la migrazione per ottenere la meritata professione per la quale hanno studiato per anni e che per questo non possono fare altro. Inoltre il fatto di diventare avvocato non dà sicurezza di reddito, perché comunque ai giovani avvocati è impedito entrare in un certo sistema di potere che assicura lavoro. Per lavorare come avvocato devi essere protetto ed omologato».
-Si può parlare di qualche irregolarità, anomalie nella fase di correzione ed in che modo? Possiamo parlare di altre anomalie?
«Il mio parere è per cognizione di causa diretta e per aver studiato e cercato prove (in testi ed in video da visionare sul mio canale su Dailymotion) per oltre venti anni per dimostrare che l’esame di avvocato in particolare, ma ogni esame di abilitazione o concorso pubblico in Italia è truccato (irregolare). Il frutto del mio lavoro sono i saggi “ESAME DI AVVOCATO. ABILITAZIONE TRUCCATA”, in particolare. E “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI” per quanto riguarda tutti i concorsi pubblici e gli esami di Stato.
Nei miei saggi si dimostra con prove inoppugnabili dove si annida il trucco:
Nelle fasi preliminari (tracce conosciute);
Durante le prove (copiature e dettature);
Durante le correzioni (commissioni irregolari e compiti non corretti, ma dichiarati tali);
Durante la tutela giudiziaria (disparità di giudizio rispetto a ricorsi simili o uguali).
Da tener conto che i commissari sono professionisti diventati tali in virtù di concorsi analoghi, quindi truccati».
- Quale sarebbe l'obiettivo di truccare questi esami di avvocati?
«Si truccano gli esami per garantire un proprio familiare o un proprio amico o conoscente. O per tutelare l’interesse corporativo».
- Lei vuole aggiungere qual cosa altro che pensa può essere utili per i lettori spagnole oppure importante per capire la situazione e questo fenomeno.
«Io sin dalla prima volta ho denunciato le anomalie. Sin dal principio mi hanno minacciato che non sarei diventato avvocato. Pensavo che valesse la forza della legge e non, come è, la legge del più forte. Per 17 anni mi hanno sempre dato voti identici per tutte le tre prove annuali, senza che il compito sia stato corretto (mancanza di tempo calcolato dal verbale). Le mie denunce pubbliche hanno provocato la reazione del potere con procedimenti penali a mio carico da cui sono uscito sempre assolto. I giornalisti, anche loro figli del sistema, mi oscurano, non impedendomi, però, di essere seguitissimo sul web, attraverso le mie opere pubblicate su Amazon. Si dà il caso che sia una giornalista spagnola a chiedere un mio parere e non una italiana. Il fatto che i giovani italiani vadano in Spagna o in Romania o in altre località molto più liberali che l’Italia, per poter realizzare i loro sogni, hanno la mia piena solidarietà. E’ solo un atto di puro stato di necessità che discrimina eventuali reati commessi. Se lo fanno violando le norme non sono meno colpevoli di chi nella loro patria illiberale, viola le norme impunemente. Perché negli esami di Stato e nei concorsi pubblici chi aiuta o favorisce o raccomanda qualcuno a scapito di altri viola una noma penale grave, costringendo gli esclusi a spendere tantissimi soldi che non hanno. E solo per poter lavorare».
Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba
Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.
I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".
(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).
Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.
Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.
Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.
Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.
Quando ritardano anni una sentenza.
Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.
Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.
Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.
Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.
Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.
Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.
Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.
Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.
Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.
Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.
Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.
Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.
Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.
Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.
Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.
Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.
Quando si inventano i reati per finire sui giornali.
Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.
Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.
Quando indagano sui politici per ideologia.
Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.
Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.
Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.
Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.
Quando non indagano sui colleghi che delinquono.
Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.
Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.
Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.
Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.
Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.
Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.
Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.
Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.
Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.
Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.
Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.
Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.
A proposito di interdittive prefettizie.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.
Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.
Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.
La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.
A proposito di sequestri preventivi giudiziari.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.
Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?
Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.
PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.
Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.
UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.
L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.
LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.
Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.
L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.
LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.
LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.
I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.
IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
La precarietà dei giornalisti invisibili, scrive il 16 dicembre 2017 Valentina Tatti Tonni su "Articolo 21". Al pari degli altri danno senso alla verità, ma non sono retribuiti e il loro lavoro non è riconosciuto. In Italia c’è un sistema, perlopiù marcio che le cronache ben conoscono. In Italia per conoscere e volendo tutelare l’esercizio di una professione, c’è bisogno di un Ordine di categoria che come una grande impresa regoli gli iscritti con un badge (tessera di riconoscimento) e un’imposta annuale. Potranno lavorare in modo “regolare” solo i soci onorari dell’impresa. Tutti gli altri si sentiranno o saranno, poco labile la differenza, cittadini fuorilegge che svolgono una professione che non gli compete. C’è una diffusa credenza, falsa per il resto del mondo nel quale non esiste alcun Ordine perentorio e nel quale si è quello che si fa, che si diventi professionista solo entrando in possesso di questo magico libretto, lungi la riconoscenza che avrebbe potuto avere Joseph Pulitzer in assenza. Giornalista ed editore puro americano, di certo non si sarebbe sentito meno rispetto a un qualunque collega italiano. L’Italia dunque è una Repubblica fondata sul lavoro circoscritto a pochi eletti. I restanti fuori da questa ristretta cerchia, passano l’esistenza tra un contratto e un lavoro in nero. Nero come la borsa in tempo di guerra. Con un fazzoletto di volontà ben ripiegato nella tasca della giacca, nella loro mente sanno di essere buoni giornalisti ma si potrebbe affermare in loro l’idea di non essere considerati uguali dagli altri colleghi, non tanto per la giacca quanto per i diritti che si nascondono sotto. “Come hai fatto ad accettare un lavoro nero e sporcare così la professione?” si sentirà chiedere con astio, con tutte le colpe rovesciate in capo. E’ vero, avrebbe potuto non accettare e non avere alcuna visibilità, smettere di cercare l’opportunità giusta anche se spesso questo significherà ripiegare la passione e l’istinto. Avrebbe potuto vendere il suo ideale e il suo buon cuore al miglior offerente, barattare il pensiero prima che potesse giurare la sua lealtà alla Costituzione e alla deontologia. Avrebbe persino potuto evitare qualunque interferenza con la parola, sì, ma cosa sarebbe diventato senza la sua identità a contatto con la pelle? Non è giusto fare generalizzazioni. Esistono persone che sono riuscite nel loro intento, pur non avendo parenti o amici pronti a soccorrerli e indirizzarli. Sono riusciti a imboccare una strada e arrivare fino al traguardo senza scuole di giornalismo né aiuti di sorta. Tuttavia ogni persona ha una sua storia, ed è per questo presumo che il legislatore abbia voluto una legge costruita per assistere la professione, che prevedesse le sue problematiche e tentasse di risolverle. La precarietà in questo senso duplice è una di queste problematiche. E’ precario il lavoratore con un contratto provvisorio di cui si ci si attenda un cambiamento e dunque alla quotidianità vi si leghi un’aspettativa e un’ansia maggiore, ma è precario anche quel lavoratore d’altro canto minacciato per il suo operato o in alternativa imputato dinnanzi a una Corte composta di suoi pari che lo giudicheranno “colpevole di Giornalismo”. La condanna è la derisione ma non è possibile schierarsi per ricevere una miglior difesa, poiché da tale imputazione non ci si macchia per assenso generale ma per comportamento. Queste leggi approvate per rendere la precarietà meno illegale di fatto favoriscono l’incongruenza della disparità, non rendendo alcun merito a chi di questo lavoro ha fatto il suo mantra e la sua missione. Accedere a questo lavoro dovrebbe essere una possibilità, non un privilegio. E invece, le possibilità per accedervi sono ad oggi esclusive: frequentazione di una scuola biennale, il praticantato o la pubblicazione di un numero di articoli firmati e stipendiati in modo continuativo, queste le alternative per accedere alla professione. Il problema però è che a dispetto di dieci anni fa, la continuità è una chimera, così come il contratto, il pagamento, il praticantato, per una grande fetta di imprese editoriali presenti sul territorio non è neanche un’opzione. Va da sé che, esclusa la parentela e una dose di fortuna, il giornalismo resti un mondo a sé stante dove non tutti quelli che vogliono entrarvi a far parte ci riescono e, sia detto che, spesso, non è per mancanza di volontà ma a causa della privazione di tutta una serie di cose, come il fatto che sembra non esista più il mentore che ti dica: “Questo pezzo fa schifo, riscrivilo” e da queste sole piccole parole ti trasmetta il suo sapere e mantenga in te il coraggio di tentare. No, oggi il sapere è inserito dentro un cassetto elettronico, sterile e senza spessore umano. Così quella che si gioca è una corsa a ostacoli per vincere la penna d’oro, una corsa nella quale la competitività va a braccetto con la desolante paura di non essere abbastanza. Essendo l’Ordine un ente pubblico che gestisce l’albo associativo dei giornalisti italiani, dal 1963 anno della sua fondazione obbliga chiunque voglia intraprendere la professione a iscriversi e rispettare le sue leggi. Chiunque altro operi da freelance, non iscritto ad alcun registro, pur rispettando le leggi dell’albo cui vorrebbe appartenere per una forma di dipendenza, istiga tutti alla verità ma è un fuorilegge a tutti gli effetti. Se scrive o filma con cognizione lo può fare solo con le dovute precauzioni da cittadino, allargando così sotto di sé la piaga della casta. Può paragonarsi a un abile narratore, ma se vuole sfruttare la pazienza e l’insegnamento di un giornalista la cui realtà si misura con il badge di inserimento deve rischiare un ruolo che si sente addosso ma che non ha. Appartengono a questa fascia di professionisti, i giornalisti invisibili che vivono anni in un limbo fatto di sacrifici. Se lavorano in nero non è per compiacenza ma per necessità, e anzi, sapendo che prima o poi qualcuno potrebbe accorgersi del loro “stato temporaneo”, quasi in attesa trepidante di un visto speciale, sfoderano dalla penna o dalla telecamera un rigoroso senso morale e critico per ovviare al senso di manifesta inadeguatezza nella quale l’Ordine ci colloca. Se è lecito che non tutti si improvvisino del mestiere, che allo stesso modo verrebbe il dubbio del buon operato se un calzolaio si mettesse di punto in bianco a vendere viaggi, diverso sarebbe il caso di un calzolaio che in seguito a dovuti studi e approfondimenti abbia scoperto che è la pianificazione e la vendita del viaggio per conto terzi a rendere la sua vita migliore, sarebbe allora questo il modo per riconoscergli la possibilità di cambiare. Il giornalista invisibile, ugualmente, non può invece essere riconosciuto per l’inosservanza di un iter burocratico e la sua vita dovrà essere vincolata, senza per questo smettere di dare un senso alla verità rischiando tutto quello che gli basterebbe oltrepassare il confine per essere.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.
Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.
Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.
Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.
Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.
I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.
«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.
E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.
La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.
Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.
Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.
L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.
Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.
E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”
Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.
Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.
Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.
In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…
Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…secessionista
A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».
Paradosso sanità: il Sud paga più tasse perché i pazienti devono andare al Nord per curarsi. La mobilità sanitaria passiva ha un impatto enorme sui bilanci delle strutture meridionali. E le Regioni così devono aumentare le aliquote e chiudere strutture, scrive Gloria Riva il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". La distanza fra Catanzaro e Milano la si può calcolare in chilometri, sono 1.159, o in anni di vita in meno, che sono quattro. E in generale la prospettiva di vita in Calabria è molto più simile a quella di Romania o Bulgaria, mentre al Nord si sta come in Svezia. Tutto questo nonostante i cittadini del settentrione spendano in media 1.961 euro a testa per la sanità pubblica, quelli del Sud 1.799 e quelli del Centro 1.928 euro. Insomma, i quattrini da sborsare sono più o meno gli stessi, ma c'è un divario di assistenza sanitaria. Torniamo in Calabria: qui ogni cittadino sborsa 1.875 euro l'anno per la sanità pubblica, di cui 126 euro se ne vanno per pagare il conto presentato da altre Regioni, spesso del Nord, dove i compaesani calabresi sono andati a curarsi. Già, perché nel 2016 il 40,7 per cento dei malati di cancro della Calabria ha scelto l'ospedale di un'altra regione per curarsi. Dall'altro lato la Lombardia ha visto arrivare da fuori regione quasi 17 mila malati oncologici nei propri ospedali. Quell'immigrazione sanitaria consente ai lombardi di spendere “solo” 1.877 euro per una sanità d'eccellenza, risparmiandone 54, pagati appunti dai migranti in cerca di cure. Francesco Masotti è un dirigente sanitario dell'azienda sanitaria provinciale di Cosenza ed è anche segretario della Cgil Medici, a L'Espresso racconta la storia del commissariamento della sanità calabrese, iniziato nel 2010 e mai terminato: «Siamo al terzo piano di rientro e pare che i conti siano in peggioramento di oltre 30 milioni di euro», tutta colpa di inaspettate poste in bilancio che il commissario Massimo Scura si trova a dover contabilizzare per via di dimenticati debiti pregressi, contenziosi finanziari risalenti a 10 anni fa, recuperi di tariffe mai ritoccate ed esplose in questi ultimi anni, e poi saldi per la mobilità passiva. Rieccola, la mobilità passiva, il grande buco che attanaglia la sanità calabrese e non solo, che da sola si mangia il 65 per cento delle finanze locali. Secondo il rapporto Cergas Bocconi sullo stato di salute del Sistema Sanitario Nazionale, la Calabria da sola genera l'otto per cento dei viaggi sanitari verso altre regioni e un paziente su sei si ricovera fuori regione generando un debito per le tasche dei calabresi di 304 milioni. Una voragine. Succede perché il conto delle cure negli ospedali del Nord viene presentato alla regione Calabria. E visto che l'Italia da 17 anni si è dotata di un sistema federale per la sanità, ogni Regione, attraverso l'Irpef e l'Irap, cioè le tasse pagate dai lavoratori e dalle aziende, deve riuscire a coprire le spese per curare i propri cittadini. Ma non tutte ce la fanno. Va da sé che le Regioni con meno occupazione e povere di industria sono entrate subito in affanno e i sistemi sanitari locali sono stati ben presto commissariati. Per rimettersi in sesto, s'è provveduto a chiudere gli ospedali, ridurre i posti letto e bloccare l'assunzione di nuovi medici e infermieri, al punto che in queste regioni il personale è crollato del 15 per cento. Lo stesso è successo per i livelli essenziali di assistenza: «Il dato della Campania è davvero allarmante perché, rispetto al 2014 le performance si sono ridotte di oltre 30 punti. Ma ci sono peggioramenti anche in Puglia, Molise e Sicilia», si legge nell'indagine Cergas Bocconi, che continua spiegando come il piano di risanamento dei conti della sanità sia ancora in atto in cinque Regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e il Lazio che dovrebbe presto uscirne dopo un decennio lacrime e sangue. Mentre la Calabria sembra lontanissima dal traguardo e «ci apprestiamo a entrare nel quarto programma di rientro. Il che significa altri tagli per il sistema sanitario calabrese, già ridotto all'osso. Ne usciremo mai?», si domanda Masotti, che spiega come il disavanzo venga pagato con un aumento delle tasse, dell'Irap e dell'Irpef. Arrivando a situazioni assurde, per cui un operaio di Varese versa l'1,58 di aliquota Irpef per la sanità, il suo collega di Gioia Tauro paga di più, l'1,73, ma poi «va in Lombardia a curarsi». Anche perché in Campania negli 10 anni sono andati in pensione 4.500 operatori - medici e infermieri - mai sostituiti. Ed è stata predisposta la chiusura di una miriade di piccoli ospedali, «a cui nessuno si è opposto, perché tutti ritenevamo fossero pericolosi per il cittadino e per gli operatori sanitari», dice il medico, che aggiunge: «Quei luoghi di cura non sono mai stati riconvertiti in presidi per il territorio». Insomma, la Calabria si trova nel limbo e secondo Masotti «poco o nulla è stato fatto, nonostante un progetto già finanziato dalla comunità e partito sei anni fa, per la costruzione di 20 Case della salute. Solo una è stata realizzata», afferma Masotti. Dunque, se prima del commissariamento la sanità calabrese era costosa perché vaporizzata in una miriade di piccoli ospedali poco efficienti, dopo la stretta economica è andata anche peggio, perché all'inefficienza si è aggiunta la penuria di strutture e di personale. Così i cittadini hanno perso qualsiasi fiducia nell'assistenza locale, hanno fatto le valigie e scelto di andarsi a curare altrove. Il paradosso è che tutto questo ha un costo altissimo per le aziende del territorio, «che per coprire i conti in rosso della sanità devono pagare più tasse che altrove». Infatti in Calabria, ma anche in altre Regioni come Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Sicilia le aziende pagano più del 3,9 per cento di Irap. E anche il bollo auto, in molte di queste zone, costa più che al Nord. Insomma, più tasse e meno servizi. Il tipico cane che si morde la coda.
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.
L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.
Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.
In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.
L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron.
Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.
“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.
Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?
«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato. Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».
Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?
«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».
E sull’indifferenza…
«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”
E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?
“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.
"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".
Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...
"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»
Come commenta...
«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».
Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.
«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».
Concludendo?
«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti».
L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.
Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.
Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.
Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.
DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".
Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.
«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.
I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:
Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);
Troppi pubblicisti;
Troppa informazione web;
Troppi italiani non leggono.
La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici. Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.
FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.
Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.
Fake news, Gabanelli: “Polizia postale? Eccessivo. Politici e giornalisti hanno sempre raccontato balle”, scrive Gisella Ruccia il 23 gennaio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Fake news? Adesso sono molto di moda. Perdiamo più tempo a parlare di fake news che non a scovare le notizie vere”. Sono le parole della giornalista Milena Gabanelli, ospite di Otto e Mezzo (La7). La storica ex conduttrice di Report spiega: “Non sono molto appassionata di questo argomento. L’allarme sulle fake news è direttamente proporzionale a quanto ne parliamo e a quanto lo gonfiamo. Le balle le hanno sempre raccontate la classe politica e i giornalisti che seguono la politica, per compiacerla o semplicemente per pigrizia”. E aggiunge: “Trovo veramente eccessivo l’intervento della polizia postale. Se questo è finalizzato a essere un deterrente, ha una qualche utilità. Ma non si può pensare che le 2mila persone della polizia postale, oltre a occuparsi di cyber-terrorismo, di e-banking, di pedopornografia, di pedofilia, di giochi e di scommesse online, di tutto il crimine che passa attraverso il web, debbano mettersi lì a rispondere ai cittadini”.
Giornalisti contro avvocati: «Vietato criticarci», scrive Giulia Merlo il 23 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Fnsi, il sindacato dei giornalisti, attacca l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria della Camera penale di Modena che replica: «Travisamento della notizia che offende la classe forense». Accetta di definirlo un «fraintendimento». Da penalista, però, specifica che il fraintendimento da parte della Federazione Nazionale della Stampa Italiana «si colloca tra la colpa grave e il dolo eventuale». La Camera Penale di Modena, per voce del suo presidente, Guido Sola, è al centro di una polemica al vetriolo proprio con la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti, ragione del contendere: la creazione dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria (iniziativa già in atto da due anni a livello nazionale, promossa dall’Unione Camere Penali italiane con la pubblicazione del Libro Bianco sull’informazione giudiziaria). Il “fraintendimento” è nato dopo l’annuncio della Camera Penale di Modena della costituzione dell’Osservatorio: «La cronaca giudiziaria ed i temi della giustizia hanno assunto negli ultimi tempi un interesse sempre maggiore da parte dell’opinione pubblica, tanto che da alcuni anni gli addetti ai lavori ed anche esperti di psicologia e sociologia si stanno interrogando sugli effetti distorsivi dei cosiddetti “processi mediatici”», si legge nel comunicato. E ancora, «l’informazione spesso diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così inevitabilmente condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante: pensiamo ad esempio a quanto accaduto nel processo “Aemilia” allorché, pochi giorni dopo gli arresti, prima ancora delle decisioni del tribunale del riesame, è stato pubblicato e diffuso un libro che riportava fedelmente, quasi integralmente, il contenuto della misura cautelare con atti che dovevano rimanere segretati». Proprio questo passaggio ha scatenato la reazione del sindacato nazionale del giornalisti e dell’Ordine dei giornalisti nazionale e locale, che definiscono l’iniziativa dei penalisti «inquietante» e attaccano: «La Camera Penale di Modena fa esplicitamente riferimento al processo “Aemilia”, in corso da oltre un anno a Reggio Emilia, che per la prima volta ha alzato il velo sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna, per decenni sottovalutate. E lo fa proprio in concomitanza con un’udienza dello stesso processo in cui un pentito ha rivelato che, tra i progetti degli ‘ ndranghetisti in Emilia, c’era anche quello di uccidere un giornalista scomodo. Notizia che pare non aver toccato in maniera altrettanto significati- va la sensibilità degli avvocati. Del resto, non è la prima volta che sindacato e Ordine dei giornalisti sono costretti a occuparsi di intimidazioni, esplicite o velate, fatte a chi si occupa di informare i cittadini sul processo “Aemilia”. Ricordiamo le minacce in aula ai cronisti reggiani, le richieste dei legali degli imputati di celebrare il processo a porte chiuse, le proteste contro i giornalisti già manifestate da alcuni difensori alle Camere Penali di competenza». Insomma, quella degli avvocati è un’iniziativa «dal sapore intimidatorio» ed è «grave e inquietante che i media debbano essere messi sotto osservazione da un organismo composto solo da avvocati». Allusioni che indignano il presidente delle Camere Penali modenesi. «Siamo davanti ad un esempio lampante di travisamento della notizia», ha commentato il presidente Sola, «che offende gravemente chi ha deciso di costituire l’Osservatorio e tutta la classe forense». Che quello tra avvocati e giornalisti sia stato o meno di un equivoco, il fatto più grave è che «alla nostra iniziativa è stata associata una difesa ideologica da noi mai espressa alla criminalità organizzata, identificando il difensore con l’imputato». Come se gli avvocati “fossero” i clienti che difendono (nel caso Aemilia, indagati per ‘ ndrangheta). Al contrario, ha spiegato Sola, l’obiettivo dell’Osservatorio è di «aprire un percorso culturale a più livelli sul tema del bilanciamento del diritto di cronaca con il diritto alla difesa. In particolare, il monitoraggio sull’informazione giudiziaria e sulla politica giudiziaria verranno svolti con la finalità di organizzare un convegno e discuterne con tutte le parti in causa». Quanto al citato processo “Aemilia”, Sola ribadisce che «è stato citato come esempio di patologia, ma è scontato che l’Osservatorio non nasce certo per monitorare singoli processi, per di più ancora in corso. Aggiungo che, dal mio punto di vista, le fughe di notizie sono una patologia che non è certo da imputare ai giornalisti ma a chi permette che informazioni coperte da segreto trapelino illecitamente». La polemica non è ancora chiusa e se Sola ribadisce che «sarebbe importante avere un confronto con il mondo del giornalismo, cosa che del resto già è avvenuta proficuamente in molte sedi», la Camera Penale sottolinea come l’accaduto «rafforzi la convinzione che la decisione di costituire l’Osservatorio sia quanto mai più opportuna».
Vi spiego il manuale del perfetto burocrate. Come non prendere una decisione, come rimandarla o come non fare entrare in vigore una legge? Il manuale del perfetto burocrate spiegato dal professore di diritto costituzionale a Roma 3 Alfonso Celotto durante una delle ultime puntate di Virus.
Un viaggio irriverente (e anche amaro) nei labirinti della burocrazia italiana.
“NON CI CREDO, MA È VERO”: LA VITA SECONDO LA BUROCRAZIA, scrive Alfonso Celotto il 2 maggio 2016 su "Stati Generali". La burocrazia diventa parte della nostra vita dal momento in cui nasciamo e per ogni singolo passo che il bambino e poi l’uomo compie nel Paese in cui vive. Il dottor Ciro Amendola percorre un viaggio nei meandri di quel mostro invisibile che è la burocrazia in Italia, raccontando nel suo nuovo libro Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia episodi tanto veri quanto folli, e a volte un po’ ridicoli, che ognuno di noi si trova a vivere quotidianamente nell’iter dell’esistenza. La burocrazia è una grande macchina, una grande scatola, ci accompagna dalla nascita alla morte, in ogni attimo della nostra vita, con una serie di certificazioni, copie conformi, firme autenticate, sempre ai sensi e per gli effetti della normativa vigente. Bastano pochi secondi dopo il parto per entrare nella giungla della burocrazia. La nascita comporta subito almeno 3 adempimenti fondamentali, a carico dei genitori, che dovranno armarsi di santa pazienza e di un adeguato numero di ore di permesso dal lavoro. Occorre ottenere:
· Il certificato di nascita
· Il codice fiscale
· La tessera sanitaria (a cui si collegano il libretto sanitario e la scelta del pediatra).
Per semplificare la vita ai neo genitori, ovviamente vanno richiesti in tre uffici diversi. Il certificato di nascita viene rilasciato dall’Ufficio di Stato Civile del Comune in cui è nato il bambino entro 10 giorni dalla nascita e si basa sulla “attestazione di nascita” rilasciata dalla ostetrica presente al parto. È il momento fondamentale per l’attribuzione del nome. Ai sensi della legislazione vigente, secondo le ultime modifiche del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, ogni neonato può avere fino a tre nomi, tutti riportati per esteso e senza virgola (quando firmerà dei documenti ufficiali dovrà quindi sempre mettere tutti i nomi). È vietato per legge dare al bambino lo stesso nome del padre, dei fratelli e delle sorelle o nomi volgari, ridicoli o impronunciabili. A questo punto, si è nati, si ha un nome, ma non si è ancora veramente esistenti per il diritto. Manca il codice fiscale. Che ovviamente non è di competenza del Comune, ma dell’Agenzia delle Entrate. Altra amministrazione, altre regole, altri moduli. La Agenzia delle Entrate rilascia un certificato provvisorio valido per 30 giorni, in attesa del tesserino plastificato che arriva a casa. A quel punto, il genitore si recherà, con il codice fiscale del bambino e un’autocertificazione dello stato di famiglia, presso gli uffici dell’ASL di zona per la scelta del pediatra di base. Gli verrà rilasciato il tesserino sanitario da esibire a ogni prestazione medica richiesta per il bambino, come per esempio le vaccinazioni. E potrà finalmente scegliere il pediatra. La via crucis burocratica è iniziata. Ora il cittadino esiste in vita, con nome, codice fiscale, tessera sanitaria e pediatra! La via crucis della vita burocratica è solo iniziata. Per accompagnarci – fra commi, formulari, procure e deleghe – fino alla pensione, quando ci verrà sottoposto il più paradossale dei moduli: la autocertificazione di esistenza in vita. Nulla di male che l’INPS voglia accertarsi con un modulo che la pensione sta per essere pagata a un tizio ancora in vita. Peccato che la autocertificazione venga richiesta a pena delle sanzioni correlate alle dichiarazioni mendaci! Ma se ho attestato il falso, in quanto già morto, come faccio ad essere sanzionato per aver dichiarato il falso?
Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia, di Ciro Amendola edito da Historica, 2016. Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia: Quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato? E plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire la "giornata del dono"? Se viene trovato un geco in un ufficio pubblico intervengono gli ispettori sanitari per sopprimerlo? E possibile che la Guardia forestale abbia fatto causa alla Guardia di finanza sul colore delle divise? Perché ogni anno la Legge finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi? Cosa accadde veramente quando la capitale fu trasferita da Firenze a Roma?
Carte nascoste e riunioni fiume. La resistenza passiva dei burocrati. Esce un manuale di sopravvivenza: “Regola numero uno: chi non fa non sbaglia”. “Non è vero, ma ci credo. Storie di ordinaria burocrazia” (Historica) è il libro che Alfonso Celotto, docente universitario di diritto costituzionale e a lungo negli staff di diversi ministeri, ha scritto firmandolo con il suo alter ego letterario, il dott. Ciro Amendola direttore della Gazzetta Ufficiale, protagonista dei suoi primi precedenti romanzi, scrive il 27/04/2016 Giuseppe Salvaggiulo su "La Stampa". Nella stanza della dott.ssa Martone, capo di gabinetto del ministero dei Beni Culturali, «in ripetute occasioni è stata riferita la presenza di una Tarentola mauritanica». Il rag. Esposito, accompagnato da due tecnici dell’Ufficio sorveglianza sanitaria, è assertivo: «Occorre un prelievo delle feci dell’animale, per effettuare una compiuta analisi di laboratorio, sulla cui base valutare se e come procedere». Ma per la dott.ssa «non se ne parla. Quel geco mi porta fortuna. Andate via». Impossibile, obietta il rag., a meno che «lei non mi firmi il modello H32-bis, assumendosi la responsabilità per l’impropria presenza in ufficio dell’animale vivo». Basta un’autocertificazione per trasformare la temibile Tarentola mauritanica in un innocuo geco. Comincia così una delle «Storie di ordinaria burocrazia» del libro «Non ci credo, ma è vero» dal dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale, sopraffino cultore dell’amministrazione e pseudonimo di Alfonso Celotto, costituzionalista e a lungo grand commis nei ministeri. Ogni racconto è uno spaccato della vita in un ufficio pubblico: leggi e decreti, provvedimenti e circolari, furbizie e vanità, sotterfugi e arabeschi ma anche insospettabile umanità. Nel primo capitolo l’autore ha scientificamente enucleato «le cattive abitudini del pubblico impiegato». Ne viene fuori un manuale di sopravvivenza «in una vita improntata non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio», il cui obiettivo è «eludere vagoni di pratiche in modo da offrire il proprio contributo operoso, ma senza prendersi alcuna responsabilità».
COME COMPORTARSI. Prima regola: tenere le carte a posto e far prevalere la forma sulla sostanza, nel senso di «chiedere sempre un parere in più e non uno in meno, seguire pedissequamente le procedure» e infischiarsene del vero interesse pubblico. Si dilatano i tempi? Meglio, l’importante è che l’istruttoria sia accuratissima e irreprensibile. «Di troppo zelo non è mai morto nessuno. Di superficialità molti». Seconda: attenersi rigorosamente al mansionario, «per fare il meno possibile». Il mansionario è «un rebus scritto in burocratese stretto», enigmatico come il responso della Sibilla cumana. Terza: copiare, perché chi copia non sbaglia mai e non si assume responsabilità (c’è sempre un precedente che aiuta e si può allegare). Quarta: nel dubbio, non fare perché «chi non fa non sbaglia» e non si assume responsabilità. Quinta: se proprio non si può evitare di affrontare una questione, convocare una riunione: consente di guadagnare tempo (convocazioni, conferme, rinvii). Indispensabile che i convocati siano almeno dieci, altrimenti la riunione potrebbe rivelarsi decisiva. Sesta: mettere da parte, sul ripiano più nascosto della stanza, le pratiche più difficili. Sono quelle legate a emergenze di attualità, sotto la luce dell’opinione pubblica. Apparentemente vanno risolte con priorità, in realtà «si fanno da sole». Troppe variabili, troppe complicazioni: meglio lasciarle lì. Dopo un paio di settimane l’attenzione scemerà e nessun superiore chiederà conto della mancata soluzione. Settima: non archiviare ordinatamente le carte più importanti, in modo che non siano rintracciabili da chiunque. Il funzionario perspicace aumenterà così il suo potere, rendendosi indispensabile. Ottava: «non regalare mai un minuto», anzi capitalizzare gli straordinari e i permessi. Il conto è semplice: «ai 365 giorni del calendario vanno sottratti 52 sabati, 52 domeniche, 30 giorni di ferie e un’ulteriore quindicina tra malattie, cure specialistiche, riposi compensativi, permessi sindacali, donazioni sangue, scioperi, permessi-studio, permessi familiari». Nona: non derogare ai ritmi della giornata-tipo: 8-11-13-15-16-16,12. Alle 8 lettura giornali e passaggio sui social network, caffè alle 11, pranzo alle 13, caffè alle 15, alle 16 chiusura dei fascicoli anche se incompiuti, in modo da presentarsi puntuali al tornello alle 16 e 12 minuti. «Ogni volta che il dott. Amendola rileggeva queste regole, si imbestialiva. Non si capacitava di atteggiamenti così miseri e gretti».
POST SCRIPTUM. Per un attimo la dott.ssa Martone ebbe voglia di mandare tutto e tutti a quel paese. Non valeva la pena spendere 15 ore al giorno contro quel muro di gomma. Poi... poi prese nel cassetto il modello H32-bis, che le era stato debitamente consegnato, e iniziò a compilarlo. In duplice copia e con firma debitamente autenticata».
“Non ci credo, ma è vero”, il libro di Celotto che racconta i paradossi della burocrazia, scrive Biancamaria Stanco il 3 Maggio 2016 su Cultora. Non ci credo, ma è vero – Storie di ordinaria burocrazia è il nuovo romanzo del giurista Alfonso Celotto firmato dal suo alter ego, il dott. Ciro Amendola. Dopo due romanzi che narrano le gesta e le vicissitudini del dott. Amendola negli uffici della Pubblica Amministrazione, ora è proprio il celebre direttore “a scendere in campo. È questa la grande novità” ha dichiarato Celotto. Il libro è infatti l’esordio narrativo di Ciro Amendola. Ma chi è davvero? È il direttore della Gazzetta Ufficiale Italiana, è un funzionario meticoloso, scrupoloso, maniaco dell’ordine e della precisione ossessionato dalla timbratura del cartellino. Un uomo abitudinario, perfezionista e amante del suo lavoro. E ha due anime: una svizzera, che si esplicita nella rigorosa puntualità e precisione professionale del dott. Amendola, e una più verace, un cuore partenopeo quello di Ciro amante della cucina, del buon vino e tifoso sfegatato del Napoli. Dietro il personaggio di Amendola vibra la personalità e l’esperienza di Alfonso Celotto, costituzionalista, avvocato e professore di Diritto Costituzionale a Roma Tre, ex Capo di Gabinetto e Capo dell’Ufficio legislativo dei ministri Bonino, Calderoli, Tremonti, Barca, Trigilia e Guidi. Un esperto conoscitore quindi delle leggi e della burocrazia che, indubbiamente, ha contribuito alla costruzione della figura del direttore. “Come disse Umberto Eco ‘in ogni romanzo c’è il 50% di un autore’ e in Amendola c’è un’amplificazione del personaggio che rispecchia quanto visto nella mia carriera” ha precisato Celotto. “Si scrive sempre su ciò che si conosce” ha aggiunto. “Come recita l’articolo 54 della Costituzione, Amendola è al servizio della Nazione” afferma il giurista. È un burocrate scrupoloso e molto attento che combatte con le continue violazioni della legge, la cattiva gestione della cosa pubblica e la lentezza della Pubblica Amministrazione. Nel primo capitolo decide di enucleare un decalogo delle «cattive abitudini del pubblico impiegato», un manuale di sopravvivenza improntato «non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio». 1. Tieni le carte a posto. 2. Applica con rigore il mansionario. 3. Chi copia non sbaglia. 4. Organizza riunioni con almeno 10 partecipanti. 5. Le pratiche più complesse non vanno lavorate. 6. Le carte importanti non si portano ordinatamente in archivio. 7. Non regalare mai un minuto. 8. Otto, undici, tredici, quindici. 9. Vai in ferie a giugno o a settembre. 10. Per mostrarti aggiornato usa spesso parole inglesi. Sette sono i racconti raccolti nel libro. “Sono tutte storie vere raccontate in maniera romanzata. Tutte cose verosimili” ha spiegato Celotto. Il manoscritto non va considerato un libro-denuncia del malfunzionamento del sistema burocratico italiano, per quanto rimane comunque uno specchio fedele della pessima gestione della cosa pubblica. “Non è vero, ma ci credo” – come ha affermato l’autore – è la raccolta di “racconti-verità scritti per far conoscere al lettore il settore della Pubblica Amministrazione. Una lettura leggera e semplificata. Un modo divertente per raccontare la Pubblica Amministrazione”. Celotto specifica che “il libro non vuole essere una denuncia, basta essere una macchina del fango. È un modo leggero per parlare di temi veri”. La scrittura è un’occasione per far conoscere al lettore la vita difficile di un Direttore fatta di decreti, leggi, circolari, provvedimenti, riti ministeriali e burocratici. Il direttore Amendola è convinto della necessità di riformare il sistema dell’Amministrazione Pubblica e si impegna in prima persona. È altresì convinto della difficoltà, ma da nuovo Ercole intraprende la sfida e affronta l’ennesima fatica. “Non basta una legge per cambiare il sistema, la Pubblica Amministrazione è una macchina ampia e complessa” – asserisce Celotto – “bisogna cambiare la mentalità. Si tratta di attuare un’operazione culturale”. Le parole d’ordine sono – a detta del giurista – “trasparenza” e “semplificazione”. “Serve il coraggio per rendere la macchina più veloce e funzionale” conclude Celotto. Il dott. Amendola non poteva non divenire punto di riferimento e modello di integrità morale per quanti lavorano onestamente e spingono per cambiare le cose. Forse dopo Elena Ferrante assisteremo a un nuovo caso editoriale. La differenza è che “Ciro Amendola esiste davvero, ma non potrà uscire allo scoperto. Non potrà concedersi perché deve lavorare”.
La burocrazia tra Kafka e Totò: a ruba "Non ci credo, ma è vero", scrive Affari italiani, Lunedì 4 luglio 2016. "Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia" il libricino introvabile di Alfonso Celotto è diventato un caso letterario. E' un libricino introvabile di poco più di cento pagine sui banconi di pochissime librerie, essendo pubblicato da un editore pressoché sconosciuto e privo di una rete commerciale, Historica. Ma la sua notorietà si diffonde col passaparola e il libricino va a ruba. S'intitola Non ci credo, ma è vero, storie di ordinaria burocrazia. E l'autore Ciro Amendola, non esiste. O meglio è lo pseudonimo di un tipo umano, il dott. Ciro Amendola, uno dei massimi esperti di diritto e burocrazia. Napoletano di nascita(1944), vive a Roma per necessità. Da anni fedele e scrupoloso servitore dello Stato, dal 2001 dirige la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Vive secondo immutabili ritmi svizzero-napoletani per conciliare l'impiego ministeriale con la missione esistenziale di completare la grande banca dati delle leggi d'Italia. Appassionato di cucina, vini, smorfia, scaramanzia, gioco del lotto, segue con attenzione le vicende calcistiche del Napoli. Per il suo esordio da scrittore ha scelto di descrivere i riti della vita ministeriale e della burocrazia che circondano la nostra vita di cittadini, secondo abitudini e prassi ottocentesche. L'idea è dell'autore vero, Alfonso Celotto, professore universitario di Diritto, già gran commis dello Stato (è stato capo di gabinetto di diversi ministeri, tra cui quello dello della Semplificazione, ai tempi del leghista Calderoli e del suo misterioso falò delle leggi inutili), geniale osservatore della vita dei burocrati e penna acuta ed ironica (ha al suo attivo anche per Mondadori Il dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale e per Il mio libro Il Pomodoro va rispettato), a metà tra Kafka, Totò ed Edoardo De Filippo. L'opera è un piccolo gioiellino, veloce e dilettevole a leggersi. Racconta, ad esempio, quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato. Si domanda se sia plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire le "giornate del dono". Rivela il fatto che la Guardia Forestale ha fatto causa alla Guardia di Finanza sul colore delle divise. Spiega perché ogni anno la legge Finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi. E molto altro ancora. Leggi, decreti, provvedimenti e circolari. Vini, sfogliate, ministeri e ministeriali. Il dott. Ciro Amendola si confronta non solo con il mondo del diritto e della pubblica amministrazione, ma anche con cucina, scaramanzia, napoletanità. "Poiché diritto e cucina si assomigliano", spiega Celotto alias Amendola nella videointervista ad Affaritaliani.it. "Non sono scienze, sono entrambi opinabili". E noi opiniamo.
IL MISTERO DELLE SCORRIBANDE TURCHE.
Cria il traditore, scrive Antonino Beninati su Carabinieri. Dai tesori caduti vittima della furia iconoclasta del fondamentalismo a un affresco “parlante”. Quello che, dalle pareti di una chiesa salentina, racconta una storia di straordinaria attualità: la vicenda di un foreign fighter di cinquecento anni fa. È tristemente nota la figura dei foreign fighters, uomini e donne che, dopo un processo di radicalizzazione religiosa, lasciano il proprio Paese per raggiungerne un altro nel quale, opportunamente addestrati, parteciperanno ad atti di guerra o di terrorismo che non hanno nulla a che vedere con la loro storia, la loro cultura. Individui capaci di usare l’arma del terrore anche per colpire il proprio stesso Paese, come è successo di recente a Parigi. Non si tratta, però, di un fenomeno inedito. Anche il nostro Paese, nei secoli scorsi, ha avuto dei casi di foreign fighters. Una preziosa testimonianza storica ci viene fornita in proposito dall’affresco che decora la parete sopra l’ingresso laterale della chiesa di Sant’Antonio (XII secolo), a San Pancrazio Salentino, villaggio appartenuto alla Terra d’Otranto e dall’anno 1927 comune della provincia brindisina. Quasi come una moderna illustrazione a fumetti, le scene dell’anonimo dipinto narrano del tradimento di Cria, un foreign fighter di epoca rinascimentale proveniente dal vicino comune di Avetrana, in provincia di Taranto. Il traditore, cosi viene definito nell’opera, abbracciata la fede mussulmana, si arruolò nelle milizie turche. Le cronache scritte da Girolamo Marciano di Leverano (Descrizione, origini, e successi della provincia d’Otranto) raccontano che «...San Pancrazio... soffrì le ultime sue rovine nell’anno 1547 da corsari turchi, i quali accostatisi con cinque galeotte nella marina della provincia, e presa terra in un porticello detto della Calimera (Torre Colimena), presero il castello di Veterana (Avetrana), la notte del 1° gennaio, ch’era il capo dell’anno, e sbarcarono da circa cento Turchi guidati da un certo rinnegato del detto castello chiamato Chria (Cria), il quale li menava per prendere Vetrana sua patria; ove essendo arrivati, ed inteso il suono di un taburretto, con cui facevansi mattinate, dubitando che non fosse la guardia di qualche presidio militare, passò avanti e li portò a saccheggiare questa piccola terricciuola di S. Pancrazio, avendola colta d’improvviso, e portatene tutte le genti che vi erano alla marina sopra de’ vascelli, parte ne furono allora riscattati, e parte menati in Turchia e venduti per ischiavi». Inspiegabilmente, però, Cria cadde in mano ai superstiti sanpancraziesi. Il traditore venne legato nudo ad una colonna e finito con il lancio di pietre e frecce. Oltre che per la raffigurazione dei galeoni battenti bandiera turca e per quella dei corsari lanciati al trotto, l’affresco colpisce per la presenza di alcuni dettagli di eccezionale attualità: braccia e gambe penzolanti da alberi di ulivo; corpi decapitati. Mutilazioni che richiamano in modo sinistro le efferate azioni delle odierne milizie dell’Isis. Le iscrizioni presenti sull’affresco, venuto alla luce durante i lavori di restauro della chiesa di Sant’Antonio nel 1983, datano l’episodio storico al1° gennaio 1547 e mostrano quanto sentita fosse, già allora, la questione dei foreign fighters nelle piccole realtà locali. Perché essere accusato di tradimento, in un’epoca in cui esso veniva punito con la pena capitale, poteva macchiare d’infamia un’intera comunità.
IL MISTERO DELL’INVASIONE BARBARICA DEL MERIDIONE D’ITALIA.
Illustri traditori del meridione, Crispi: l’eroe garibaldino, scrive Luigi Maganuco il 25 agosto 2018 su "Il Quotidiano di Gela. Gela. Abbiamo raccontato degli uomini del risorgimento Italiano, e con nostra grande sorpresa, abbiamo scoperto ch nessuno appartiene alla categoria degli onesti ma chi più chi meno si sono macchiati di crimini spaventosi, però nella vita hanno raggiunto posti di responsabilità invidiabili. Tra questi, visto che le nostre città sono pieni di questi uomini illustri, vogliamo ricordare il siciliano Francesco Crispi. Nasce a Ribera, provincia di Agrigento, di etnia Albanese nel 1818, non brillante avvocato a Napoli, fu prima carbonaro e mazziniano, complice di Orsini nell’attentato a Napoleone III. Al momento opportuno, trasformatosi in massone, divenne l’eminenza grigia, l’arruolatore e l’organizzatore della logica Garibaldina. Crispi si avvale delle sue originali e giovanili conoscenze mafiose, quando il 10 aprile del 1860 sbarcò segretamente a Messina, assieme a Rosolino Pilo e Giovanni Corrao per preparare quel disordine popolare che, provocando la repressione Borbonica, avrebbe giustificato la spedizione dei mille, ormai pronta. L’altro aspetto della missione segreta era contattare ed accordarsi con i capi dei picciotti di Carini, Terrasini, Montelepre, S. Cipirello, Piana degli Albanesi, Partinico e Trapani. Fu così che Crispi, che lo stesso Garibaldi diceva che “…arruolava tutti, in ispecia gli avanzi di galera…”, preparò gran parte del successo della spedizione dei mille. Una volta divenuto Primo Ministro del re Umberto I, soffocherà, usando un esercito che spara ed uccide, i Fasci Siciliani, facendo centinaia di morti e feriti tra i suoi conterranei: Crispi era stato un ex rivoluzionario, ex carbonaro, ex mazziniano, ex democratico, ex siciliano ma grande uomo di Stato per noi servili adulatori della malavita organizzata (da risorgimento o rivolgimento di Aurelio Vento). Nel 1887 diviene Presidente del Consiglio Italiano, ma nel tentativo di trasformare l’Italia in potenza coloniale, incappa nella disfatta africana di Adua, che provocò migliaia di morti in Abissinia e il fallimento provvisorio dell’avventura coloniale dell’Italia in Africa. Fu accusato di bigamia perché sessantenne sposò la chiacchierata giovane siracusana Lina Barbagallo, allora sposato con Rosa Monimasson, che fu l’unica donna vestita da uomo a seguirlo tra le camicie rosse garibaldine. Così, l’armata Garibaldina dei mille al porto di partenza da Quarto presso Genova assorbiva tra le sue file di piccoli borghesi spiantati e indebitati di Bergamo, una Legione Britannica, migliaia di picciotti arruolati dall’instancabile Francesco Crispi, con il permesso ottenuto dai capizona mafiosi, conosciuti e frequentati durante la sua gioventù vissuta in Agrigento. Secondo l’autore, Aurelio Vento, che cita uno scritto ironico di Massimo D’Azeglio “…quando s’è vista un’armata sbrindellata di 60.000 uomini conquistare un regno di sei milioni con la perdita di solo otto uomini e diciotto storpiati, bisogna pensare che sotto ci sia qualcosa di non ordinario…”. Il dubbio è perfettamente legittimo perché il tradimento operato dai nostri grandi uomini è eclatante e le documentazioni venute alla luce in questi ultimi anni dimostrano chiaramente come i generali e alti comandanti borbonici, si sono venduti per trenta denari ai nostri salvatori. Questi, con l’oro rubato al banco di Napoli e al banco di Sicilia, oggi venerati e ricordati nei nostri centri abitati con strade e piazze a loro dedicate per non dimenticare, hanno corrotto parte degli ufficiali borbonici. Tratteremo questo argomento e proviamo a ricordare l’onorario pagato per tradire. Un esempio eclatante è la storia del gen. Salvatore Landi, che aveva ottenuto direttamente da Garibaldi, un pagherò di 14.000 ducati, purchè nella battaglia del 15 maggio 1860, suonasse la ritirata delle forze borboniche, per permettere ai Garibaldini di dilagare e sconfiggere l’armata borbonica. L’esito della vittoria mise in crisi il grande scrittore Cesare Abba, al seguito come reporter di guerra, che aveva inventato la famosa frase indirizzata a Nino Bixio “qui si fa l’Italia o si muore”. Ma l’anno successivo il generale si presenta al Banco di Napoli per incassare il pagherò, si accorge che era falso e valeva solo 14 ducati. Aveva tradito per 13 danari e né morì di pena. Altro grande traditore fu il gen. Ferdinando Lanza che tenne bloccati i suoi 24.000 uomini al palazzo Reale per permettere ai Garibaldini di entrare a Palermo già ingrossati dei 2.000 picciotti forniti da Francesco Crispi e arruolati nel territorio (noi gelesi abbiamo dedicato una arteria importante della nostra città per i suoi meriti) Il gen. Lanza si affrettò a firmare l’armistizio di resa alle ridicole forze garibaldine, sulla nave dell’ammiraglio inglese Mundy, fermo sulla rada con una piccola flotta militare. Il gen. Lanza così potè partecipare al furto compiuto da Garibaldi al Banco di Sicilia e incassare 600.000 ducati d’oro, per spese di guerra. La ricevuta, debitamente firmata fu consegnata a Ippolito Nievo, intendente delle finanze Garibaldine. Anche questo poeta merita una arteria importante nelle nostre città meridionali. Il 20 luglio 1860 Garibaldi arriva a Milazzo e qui il capitano Amilcare Anquissola, della corvetta “la veloce”, si consegna, senza combattere, all’ammiraglio sabaudo Persano, così la flotta militare borbonica composta da 100 vascelli 796 cannoni, si consegnò alle forze Savoiarde nel porto di Napoli. La conquista fu completata quando il criminale gen. Enrico Cialdini, il 13 gennaio 1861, rade al suolo la città di Gaeta con 160.000 cannonate. Tutti gli scrittori apologetici hanno voluto mettere in evidenza la grande armata dell’eroe dei due mondi che conquista il Regno delle Due Sicilie per la sua bravura di combattente e grande stratega militare, come l’ammiraglio Carlo Pellion di Persan ex comandante borbonico, tradisce e diventa Ammiraglio del regno Sabaudo che il 20 luglio 1866, nel corso della III guerra di indipendenza, viene sconfitto pesantemente a Lissa da pochi vascelli di legno della flotta Austriaca. Atro grande traditore il gen. Pinelli che in una nota poteva cinicamente permettersi di bandire (come asserisce lo scrittore Aurelio Vento): “sua eccellenza il Ministro della guerra si rallegra con voi del vostro slancio e delle eroiche vostre gesta. Ufficiali e soldati! Voi molto operaste ma nulla è fatto quando qualcosa rimane a fare. Ancora ladroni si annidano tra i monti, correte e snidateli e siate inesorabili come il destino. Contro tali nemici la pietà è delitto! Noi li annienteremo e purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immonda bava”. Altra nota degna di rilievo, riguarda i fatti di Casalduni e Pontelandolfo, dove i soldati nordisti e sabaudi fecero stragi, saccheggi e stupri senza alcun processo e uccisero quattrocento persone per quaranta soldati nordisti. La stessa identica proporzione l’applicarono nel 1944 i soldati nazisti uccidendo trecento civili per trenta militari nazisti uccisi in via Rasella a Roma. E’ da mettere in evidenza l’onestà dei nazisti che non distrussero il quartiere di via Rasella a Roma, come fecero i piemontesi che saccheggiarono due centri di circa ottomila abitanti. Secondo i pennivendoli ufficiali, il massacro delle fosse Ardeatine non fu compiuto per vendetta dell’attentato di via Rasella ma per volontà del regime nazista. Così i partigiani che compirono l’attentato poterono continuare ad uccidere. A che serve ricordare questi epistemi storici? A chi servono? Sicuramente a nessuno legato ai colonizzatori nordisti o ai fanatici attuali al servizio della massoneria dominante. Hanno una enorme importanza per i meridionali onesti che tengono alla dignità e alla loro storia di uomini liberi e pensanti.
IL MISTERO DELLA MORTE DI MUSSOLINI.
Petacco, il revisionista che faceva capire a tutti i problemi della Storia. Giornalista e saggista, indagò persone e fatti «scomodi» senza guardare alle ideologie, scrive Paolo Giordano, Mercoledì 04/04/2018, su "Il Giornale". Se ne è andato d'improvviso, Arrigo Petacco, come d'improvviso gli venivano le idee per i suoi libri o per i suoi programmi di divulgazione storica. Chiamava l'editore, spesso la Mondadori, e proponeva argomenti che, specialmente negli anni Settanta e Ottanta, mettevano i brividi perché erano controcorrente come il (bello) Dal Gran Consiglio al Gran Sasso, una storia da rifare scritto con Sergio Zavoli nel 1973 oppure Dear Benito, caro Winston. Verità e misteri del carteggio Churchill Mussolini (Mondadori, 1985). Era, questo spezzino di Castelnuovo Magra, un giornalista tutto d'un pezzo che poi è diventato saggista e sceneggiatore, iniziando al Lavoro di Genova con la direzione di Sandro Pertini, facendo l'inviato speciale e infine dirigendo pure La Nazione di Firenze tra il 1986 e il 1987 e il mensile Storia Illustrata, che diventò in qualche modo la palestra nel quale esercitare la sua vocazione. Arrigo Petacco era un divulgatore e lo confermò anche in tv curando programmi di grande successo come Da Caporetto a Vittorio Veneto (1968) o La battaglia di Normandia (1969). Aveva la vocazione liberale di accogliere tutti i punti di vista (anche quelli contrari) e di fuggire i luoghi comuni, essendo lui di una generazione che fece i conti con quelli fascisti e quelli comunisti, praticamente il meglio (si fa per dire) del Novecento. Perciò lo attiravano le storie oblique, quelle scritte solo in parte o solo da una parte, e aveva la bella voglia, oltre che la chiarezza, di raccontare da capo a fondo. In qualche modo, il suo era un impeto televisivo, quasi da Quark, che lo portò a raccontare, tanto per dire, la figura di Joe Petrosino, l'ufficiale italoamericano che combattè contro la mafia (sul quale fu girato anche uno sceneggiato Rai di buon successo) o Il prefetto di ferro. L'uomo di Mussolini che mise in ginocchio la mafia, che ispirò il film di Squitieri del 1977. Insomma, navigava libero e così è rimasto fino all'ultimo sia nelle sue lucide apparizioni televisive (ad esempio a Porta a Porta) che nei dialoghi con gli amici, ai quali ha dispensato ilarità fino all'ultimo nonostante i malanni sempre più opprimenti. Dopotutto, basta leggere libri come Il comunista in camicia nera. Nicola Bombacci tra Lenin e Mussolini (Mondadori 1996) per rendersi conto di quanto a Petacco piacesse sparigliare le carte, indagare dove si faceva finta non fosse necessario, e poi consegnare al lettore (o telespettatore) tutti i dettagli per tirare le proprie conclusioni. Senza avere la sarcastica lucidità di Montanelli, o l'impeto romanzesco di altri scrittori di storia, Petacco si è calato nelle penombre del Novecento, specialmente quelle del Ventennio e della Seconda Guerra Mondiale, sempre con piglio garbato e volontà di ricerca. In La storia ci ha mentito. Dai misteri della borsa scomparsa di Mussolini alle «armi segrete» di Hitler, le grandi menzogne del Novecento (Mondadori, 2014), ha provato a smontare alcune leggende prima che la vulgata le consacrasse come verità storiche. Ma rimase, per carità, sempre equidistante, mai schierato, anche a costo di sopportare critiche persino esagerate (come quando affrontò il caso Matteotti in una intervista con il blog di Beppe Grillo nel 2014: «Mai creduto che Mussolini avesse ordinato il delitto»). In poche parole, dopo Montanelli e Cervi, ora con lui se ne va forse l'ultimo dei grandi divulgatori di una storia italiana che le ideologie hanno provato a scrivere a propria immagine e somiglianza, sperando di non incontrare mai giornalisti e saggisti di razza capaci di smentirle.
La congiura del silenzio, scrive il 17 marzo Alessandro Russo su "Il Giornale D'Italia". Documenti e testimonianze di settant'anni fa. Censura rossa e disinformazione. Ma i documenti parlano di una verità da riscrivere. Domenica 28 febbraio ho scritto dell'ultimo libro dello storico Roberto Festorazzi (Gli archivi del silenzio) e di come riporti alla nostra attenzione le bugie, le mistificazioni, le ricostruzioni poste in atto dalla resistenza comunista. Ho avuto la fortuna, quindi non vi riporto notizie di seconda mano, di assistere al tumulto accaduto all'Istituto storico della Resistenza di Como, dopo la lettura di un articolo che parlava del libro di Festorazzi. Ingiurie, turpiloquio e motti resistenziali sono rimbalzati nelle stanze vetuste del palazzo, anche dopo che tutto il personale si è deciso a traslocare in un'altra stanza. Rimasto da solo, continuo a consultare alcuni fondi e i documenti passano lentamente. Poi, all'improvviso, salto sulla sedia. Riprendo il fascicolo, lo ripasso bene, quindi fotografo il tutto. Memorizzo in un file le prove che le bugie dispensate per anni dalla solfa resistenziale esistono per davvero. La morale è una sola: se i partigiani sono stati capaci di mentire sulle azioni svolte dai loro stessi uomini, quanto sono allora attendibili sulle vicende che hanno insanguinato la nostra Patria dal 25 aprile 1945 in poi? Dopo aver letto “Gli archivi del silenzio” ho avvertito il bisogno di cercare alcune conferme. E sapevo anche che dovevo concentrarmi sulla figura di Mario Tonghini se volevo ottenere delle risposte alle mie domande. Queste carte sono negli archivi, le possono consultare tutti. Chissà perché restano sempre al loro posto, seppellite nei faldoni ingialliti. Allora noi le mettiamo nero su bianco, le riportiamo alla luce del sole per spiegare a chi legge quanto la macchina del fango abbia radici profonde e salde nella costruzione della nuova Repubblica. Che Mario Tonghini dovesse cadere nell'oblio era chiaro a tutti. Non se ne doveva parlare, bisognava anzi escluderlo dalla memoria che si andava costruendo in quegli anni. Figuriamoci cosa deve aver pensato Amos Santi “Aramis” quando si è trovato fra le mani la lettera del Colonnello Umberto Morandi “Lario”. In data 5 novembre 1946 il Vice segretario provinciale Amos Santi scrive infatti: “In riferimento suo foglio n.2528 di prot. SC del 2 corr. Nello scorrere i nominativi dei partigiani per i quali sono state iniziate le pratiche per il conferimento di ricompensa al valore, abbiamo trovato fra di essi, e precisamente all'ultimo foglio, il nome del partigiano TONGHINI MARIO. Le saremmo grati se volesse gentilmente farci invio di una copia della motivazione, mentre nel contempo Le siamo a precisare che qualora si procedesse alla conferma di tale ricompensa, si incorrerebbe in un errore grossolano con grave scapito non solo dell'A.N.P.I. Provinciale ma anche dell'operato della Signoria Vostra”. Il Colonnello Morandi risponde in data 12 novembre 1946, spiegando che la proposta di medaglia d'argento al valore nei riguardi di Tonghini Mario era stata avanzata il 12 luglio 1945 dal Comandante della Piazza di Como e della Brigata Perretta Gementi Oreste “Riccardo” con la seguente motivazione: “In furiosi combattimenti conduceva i propri uomini alla conquista delle posizioni. Dopo lunghe ore di combattimento riusciva a sbaragliare le forze avversarie. Partigiano di purissima fede, col suo coraggio e disprezzo della vita fu sempre esempio a tutti i componenti il Settore di Cantù”. Morandi continua specificando che la pratica di rinnovazione è stata inviata al Colonnello Manfredi in data 17 ottobre, quindi chiede i motivi “che ora si opporrebbero alla ripresa in esame della proposta stessa”. Il 19 novembre 1946 Amos Santi risponde così: “Abbiamo preso buona nota di quanto comunicato col foglio suddetto nonché del contenuto della lettera del Colonn. Manfredi, dalla quale risulterebbe che il Tonghini non ha partecipato al combattimento di Vighizzolo di cui è fatto cenno nella motivazione del Comandante Gementi e che inoltre, in tale occasione, il Tonghini non ha dimostrato per nulla di essere un uomo coraggioso. Ciò è stato garantito dal comandante del settore di Cantù, Gaffuri Dino “Walter” nonché da altri comandanti del settore stesso. Egli, per primo, non intende approvare in nessun modo la proposta di ricompensa. Di tutto quanto sopra il Colonn. Manfredi ha già reso edotto il comandante Gementi e quest'ANPI rimane sempre in attesa di una visita dello stesso non appena le condizioni di salute glielo permetteranno, per poter parlare a viva voce”. Siccome amo la verità, non aspetto molto e parlo io a viva voce con il signor Mario Tonghini, giusto settant'anni dopo quelle missive. “Non ne sapevo nulla. È una novità anche per me. Le assicuro che Santi ha mentito. Aveva tutto l'interesse per escludere me e il Comandante Gementi. Quello era uno che faceva la resistenza per interesse suo e la faceva con la Svizzera sempre alle spalle”. Tonghini resta un attimo di silenzio, come a voler riprendere il filo dei ricordi poi continua sicuro: “Non solo ho combattuto a Vighizzolo, ma sono stato io a condurre l'insurrezione in quei giorni, come comandante. L'appuntamento era alle nove di mattina con gli altri gruppi che sono poi confluiti sul luogo. E le dico un'altra cosa. Io e Gaffuri Dino “Walter” eravamo molto uniti, tanto legati, anche dalla parentela (era un secondo cugino ndr.) e smentisco assolutamente che possa aver detto quelle cose al Santi. Quel Santi era una figura pessima, uno che aveva il suo tornaconto, come le ho detto”. Già, quell'Amos Santi, appartenuto alla “Tomasic”, sempre pronto a riparare in Svizzera quando la situazione si faceva critica, non è proprio il ritratto dell'onestà. È piuttosto una di quelle anime luride che hanno mangiato al tavolo della Resistenza di marca comunista. I dubbi allora crescono, le domande si fanno pressanti e la ricerca dei documenti ancora più necessaria. Di una cosa sono però sicuro: piano piano, chi aspetta seduto in riva al fiume, vede affiorare alcune verità. Un comunista lo descrive come un "elemento di un'ignoranza esemplare, senza scrupoli".
Chi è Amos Santi. Non cada mai il silenzio sulla memoria calpestata, per difendere il ricordo dall'oblio del tempo. Amos Santi, classe 1921, arrivato da Milano si unisce al distaccamento “Tomasic” sulla linea di confine fra Como e la Svizzera. Alto, longilineo, abbastanza magro, porta barbetta e baffi a pizzo. Della linea del fronte apprezza da subito le vie di fuga, capaci di portarlo in territorio svizzero per poter gestire in tutta comodità i suoi traffici di contrabbando.
Un membro comunista lo descrive così: “Elemento di un'ignoranza esemplare, senza scrupoli, pochissimo amante del lavoro concreto, dotato di una non comune faccia tosta. Sfrutta la sua posizione per il suo interesse personale, facendo tra l'altro mangiare alla greppia dell'Anpi provinciale tutta la famiglia” [virgolettato tratto da un documento reperito presso l'Archivio di Stato (fondo Celio) inserito nel saggio “I veleni di Dongo” II ed.1996 di Roberto Festorazzi]. Insomma, questo personaggio ha preso l'Anpi per una fonte di guadagno, piuttosto remunerativa, che gli consente una copertura per i suoi movimenti e affari con la vicina Svizzera. È un faccendiere spregiudicato che si avvale della cricca comunista che vorrebbe, invece, agire liberamente senza certi soggetti “deviati”, comunque sfuggiti al loro controllo. In questa lotta intestina si costruiscono le menzogne, si riscrivono i fatti accaduti solo qualche mese prima e ci si affida all'oblio del tempo, capace di far calare il silenzio su quella memoria calpestata. I vincitori hanno sempre meno ragioni, adesso.
I vinti, storie di sangue e di verità negate, scrive Alessandro Russo l'8 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". L'intervista a Roberto Festorazzi, autore del volume "Gli archivi del silenzio". "Fino a quando non avremo il coraggio di affrontare l’eredità di sangue della guerra civile, non potremo essere una nazione pacificata". Per essere appena uscito nelle librerie (Gli archivi del silenzio è distribuito dalla Ritter di Milano) il libro dello storico Roberto Festorazzi sta andando bene. Di questo discuto al telefono con il responsabile della Ritter, poco prima di raggiungere Festorazzi.
Lo storico mi accoglie nel suo studio, una stanza colma di libri, in una casetta avvolta dal silenzio. Pare una biblioteca e, nonostante la vicinanza della ferrovia, neppure il treno riesce a disturbare questo luogo dove si discute di storia e di vicende umane.
“Gli archivi del silenzio” è un libro-verità, capace di andare oltre l'inchiesta.
«Mi muovo, da sempre, con il bagaglio professionale e il metodo di lavoro del giornalista, tanto che mi piace autodefinirmi “cronista della storia”. Cioè, mi sforzo di compiere inchieste retrospettive sul nostro passato-che-non-passa, indagando su fenomeni e fatti che pesano come macigni sulla nostra coscienza collettiva contemporanea. Non c’è niente da fare. Fino a quando non avremo imparato a fare i conti, finalmente in modo equanime, con il fascismo, e finché non avremo il coraggio di affrontare l’eredità di sangue della guerra civile e dei crimini del dopo-Liberazione, non potremo essere una nazione pacificata».
Cosa la guida nel suo lavoro di storico?
«Per prima cosa, lo scrupolo di non lasciare nulla di intentato, affinché tutte le possibili fonti, di qualunque parte, siano acquisite e divengano, quindi, i materiali su cui possano lavorare i ricercatori e gli storici di oggi e di domani. La generazione testimone della guerra civile del 1943-45, ad esempio, sta scomparendo, e dunque bisogna fare in modo che gli ultimi superstiti di quella stagione possano essere messi nelle condizioni di parlare. Perché, altrimenti, tra dieci o vent’anni, potremo pentirci di aver lasciato morire, nel silenzio, personaggi che avrebbero dovuto essere ascoltati. L’appello al “chi sa, parli”, che tante volte è stato lanciato, in passato, ha senso se vi è qualcuno che sappia raccogliere le voci degli ultimi testimoni diretti».
Che senso ha, allora, la sua posizione? Lei è sicuramente uno storico non allineato.
«Ho anch’io le mie visioni culturali, ma mi sforzo di essere intellettualmente onesto, nei miei studi. L’obiettività, in assoluto, non esiste, perché ciascuno di noi, anche soltanto nella scelta degli argomenti che tratta, è condizionato dai suoi valori. Senza contare che le nostre esperienze, le nostre letture, perfino le nostre ascendenze familiari, ci condizionano ad ogni passo. Altro conto è invece lo sforzo dell’obiettività. Ecco, io mi sforzo di tendere alla neutralità. Vorrei che il mio lettore ideale, quando prende in mano un mio libro, o legga un mio articolo, abbia la certezza che non lo voglio fregare, alterando scientemente i fatti, manipolando i documenti, o cercando di dimostrare una tesi a costo di fare violenza alle evidenze empiriche. Non mi importa nulla se perdo per strada qualche lettore amante delle dietrologie. Io devo porre tutte le mie energie intellettuali e morali al servizio di una ricostruzione dei fatti, che resti il più possibile fedele ai fatti stessi, senza trattare da minus habens chi ha la pazienza di seguirmi. Le lancette della storia segnalano che siamo nel 2016. Non è più tempo né di censure né di narrazioni edulcorate. Se poi, lei, per “non allineato”, intende non incline al politicamente corretto, sono disposto a sottoscrivere».
Nel libro, in base alle testimonianze, si esclude che l'uccisione di Mussolini sia avvenuta al mattino come, invece, sostiene il teorema Alessiani.
«Non da oggi mi colloco tra coloro che si dichiarano scettici a proposito delle ricostruzioni che anticipano l’esecuzione del Duce al mattino, e in altro luogo rispetto alla cosiddetta “versione ufficiale”. La “versione ufficiale”, è vero, non convince: ma, a mio avviso, le ipotesi alternative, per un verso o per un altro, mancano di sufficienti e definitive valenze probatorie. Mi rendo conto che qualcuno resterà deluso da quest’affermazione, ma non posso avallare scenari che non siano fondati su più che convincenti elementi di prova che finora non ho visto emergere».
Non mancano appelli riguardo la raccolta fondi per sostenere gli Istituti storici della Resistenza. La sua posizione in merito?
«L’ho scritto nel mio libro. Fino a quando gli Istituti storici della Resistenza non smetteranno di agire da organismi di parte, rifiutandosi di ammettere alla consultazione dei propri archivi gli studiosi che non si ispirano alle mitologie partigiane, non appare giustificato che questi enti ricevano denari pubblici».
Che grado di attendibilità hanno questi Istituti?
«Purtroppo, molto relativa. Le loro pubblicazioni sono viziate da ideologismo, come ho cercato di dimostrare, con molti esempi, ne Gli archivi del silenzio.
Che idea si è fatto, in particolare, di quello comasco?
«L’Istituto lariano riassume bene i difetti dell’intero sistema di elaborazione della memoria resistenziale. È espressione del panorama politico-culturale di riferimento dell’Anpi, che non è una associazione fondata sulla tolleranza e sul rispetto delle diverse idee, ma espressione di una vecchia retroguardia che ha profittato per decenni di una rendita di posizione».
“Storia bugiarda” è uno dei capitoli dove spiega come siano stati costruiti a tavolino dei documenti. Modo per rafforzare i luoghi comuni, oppure c'è dell'altro?
«Invito i lettori del Giornale d’Italia ad andare a verificare, di persona, se nel libro vi siano delle illazioni, o, se invece, tutto sia dimostrato con ampia produzione di documenti. Ho parlato di una vera e propria “fabbrica del falso” che, su direttive esplicite del Partito comunista il quale aveva la necessità di legittimarsi come forza democratica, ha costruito una narrazione artificiosa e posticcia delle vicende resistenziali».
Lei ha molto coraggio. Sfido qualcuno a smentire l'affermazione. Come ha coinvolto l'ex partigiano Mario Tonghini?
«È stato Tonghini a venirmi a cercare, attraverso un mio caro amico medico di Como. Era rimasto colpito da un mio vecchio libro, intitolato La Gladio Rossa e l’oro di Dongo, e mi ha offerto sia la sua testimonianza sia un intero archivio di documenti. Potevo respingere questa mano tesa?».
I dieci misteri di Mussolini. La Marcia del '22, il delitto Matteotti, gli attentati, la guerra, il Gran Consiglio, il Gran Sasso, il carteggio, l'oro di Dongo, scrive Emma Moriconi il 22 settembre 2015 su "Il Giornale D'Italia". Lo speciale di History sulle vicende rimaste insolute: Luciano Garibaldi affronta lo spinoso tema della morte del Duce. Dieci domande che sono rimaste senza risposta ancora oggi, dopo oltre 70 anni dalla morte del Duce: è il contenuto dello speciale di History in edicola questo mese. La prima domanda è relativa alla Marcia su Roma: "Perché non fu fermata dall'esercito?" Per ogni quesito la Rivista prende a riferimento lavori di studiosi ed esperti che hanno approfondito nel tempo le relative tematiche e per la Marcia su Roma si affida a Aldo A. Mola, autore di "Mussolini a pieni voti? Da Facta al Duce. Inediti sulla crisi del 1922", edizioni Il Capricorno. Viene riproposto così il riepilogo dello studioso, e della Marcia su Roma abbiamo parlato a lungo, anche noi riepilogando ogni sua fase. Di certo lo speciale è estremamente interessante perché riesce a focalizzare i dieci punti in dieci brevi interventi, dunque di lettura immediata e quindi agevolmente consultabile anche per chi esperto non è. La seconda domanda: "Perché venne assassinato Matteotti?". Per questo argomento viene tirato in ballo il lavoro di Mauro Canali "Il delitto Matteotti", edizioni Il Mulino, che però suppone alla base della sua morte questioni affaristiche legate ad un'azienda petrolifera, ed individuando in Mussolini il mandante dell'omicidio. Abbiamo già in passato, e abbondantemente, confutato questa ipotesi. La terza domanda: "Chi ha armato gli attentatori di Mussolini?". Sull'argomento viene preso uno stralcio del volume "Il golpe inglese" e del libro "Le carte segrete del Duce", entrambi di Giovanni Fasanella, edizioni rispettivamente Chiarelettere e Mondadori. E qui, come accade molto spesso, si commette l'errore di chi compie valutazioni non supportate da fatti: secondo Fasanella infatti la polizia fascista avrebbe atteso fino all'ultimo momento prima di sventare gli attentati (anche di questi abbiamo parlato a lungo) a fini propagandistici. Sarebbe stata una cosa logica mettere a rischio la vita del Duce per "fini propagandistici". E su cosa si basa questa constatazione? Altra ipotesi che Fasanella compie è quella di questioni interne al partito fascista. A questa sinfonia siamo abituati, e ne abbiamo avuto abbastanza anche negli anni di piombo: quando a morire erano i giovani di destra, l'ipotesi era sempre quella della faida interna... addirittura arriva a supporre che Zamboni sia stato linciato "per evitare che parlasse". E la sua lista di complotti arriva persino a Italo Balbo, per il quale suppone un attentato in piena regola. Alla fine della disamina ammette però che dietro agli attentati a Mussolini potrebbe esserci un "filo massonico" a legarli insieme. In realtà potrebbero essere semplicemente ciò che sono: attentati di singoli o gruppetti contro un Capo per certi aspetti poco incline a piegare la schiena. Proseguiamo con la lista delle domande, la quarta: "Perché il Duce decise di entrare in guerra?". Per questo tema interviene Paolo Simoncelli, professore di Storia Moderna all'Università La Sapienza di Roma. Un intervento breve ma esauriente, oltre che interessante perché mette sul piatto altre questioni, anch'esse rimaste ancora misteriose, al quale si potrebbe aggiungere qualcosa: per esempio quanto Mussolini stesso disse ad un giornalista pochi giorni prima di morire. Altro argomento da noi già eviscerato a fondo in passato. Ad occuparsene è Francesco Perfetti, professore di Storia Contemporanea presso l'Università LUISS Guido Carli di Roma, il quale fa il punto sul tema in maniera sintetica ma esaustiva, rilevando come il Duce non ostacolò Dino Grandi nella presentazione dell'Ordine del Giorno, del, quale peraltro era perfettamente a conoscenza. Anche qui altre domande si aggiungono a quella principale, e anche qui l'argomento è stato da noi trattato più volte e in maniera abbastanza completa. La sesta domanda va a toccare un momento storico che abbiamo di recente trattato con una certa frequenza: la liberazione del Duce dal Gran Sasso. Su questo a parlare è Vincenzo Di Michele, autore di "Mussolini finto prigioniero al Gran Sasso" e "L'ultimo segreto di Mussolini", entrambi oggetto di nostra recentissima ed approfondita attenzione. Proseguendo eccoci giunti alla corrispondenza con Churchill. A parlarne è Roberto Festorazzi in un'intervista in cui spiega la "desiderabilità" da parte dell'Inghilterra all'alleanza Italia-Germania. Tema scottantissimo del quale abbiamo riferito più volte e che di recente è tornato alla ribalta nella diatriba tra chi sostiene che non esista e chi continua ad asserire che invece il carteggio c'è, eccome. Altra questione spinosa è quella dell'oro di Dongo, della quale si occupa lo storico Gianni Oliva, autore de "Il tesoro dei vinti. Il mistero dell'oro di Dongo", edizioni Mondadori. Anche lui, come gli altri, è sintetico ma estremamente esplicativo, spiegando come quei beni andarono al PCI e facendo riferimento anche agli omicidi legati a quella vicenda, come quelli di Gianna e Neri. E anche di questo abbiamo dato ampio resoconto anche grazie al lavoro di Servello e Garibaldi "Perché uccisero Mussolini e Claretta, la verità negli archivi del PCI". E a proposito di Luciano Garibaldi, è proprio lui ad affrontare il nono punto: "Dove e come è stato davvero ucciso Mussolini?". Del minuzioso lavoro di Luciano Garibaldi abbiamo parlato spesso: i suoi studi, le sue indagini meticolose, svolte anche sui luoghi (così come quelle del compianto Giorgio Pisanò) sono senza dubbio quanto di più idoneo a dare la misura delle menzogne dette e scritte nel tempo: menzogne che ancora oggi qualcuno è disposto a difendere come verità. Ma Garibaldi parla prove alla mano, e di fronte alla scienza c'è poco da dire. Lo storico cita anche lo studio di Mario Alessiani, del quale abbiamo dato ampio resoconto ai nostri lettori. Fu ancora Garibaldi ad accompagnarci nei luoghi dell'epilogo della vicenda terrena di Mussolini: lo scorso 28 aprile realizzammo un servizio in video con i suoi preziosi interventi chiarificatori di decenni di mistificazioni. Garibaldi per History riepiloga ciò che spiegò ai nostri lettori in quella circostanza. Ultima domanda: "Furono i servizi inglesi a volerlo morto?". Ne parla Giovanni Sabbatucci, professore di Storia Contemporanea all'Università La Sapienza di Roma, il quale riferisce che "qualche coinvolgimento inglese può esserci stato" e precisando che "da un eventuale 'Processo di Norimberga' contro i fascisti qualcosa di imbarazzante contro gli inglesi sarebbe senz'altro uscito". Sull'argomento ricordiamo che Luciano Garibaldi scrisse ben vent'anni fa un volume dal titolo "La pista inglese", teorizzando appunto il coinvolgimento degli inglesi nell'assassinio di Benito Mussolini.
Cominciano a cadere i veli dai misteri di Dongo. Uno studioso "non allineato" al pensiero unico resistenziale, un prodotto editoriale che è anche un'inchiesta. Misteri sepolti da decenni di oblio: Roberto Festorazzi smonta il teorema su cui il Pci ha costruito la sua fortuna, scrive Alessandro Russo il 28 febbraio 2016 su "Il Giornale d'Italia". Roberto Festorazzi è un giornalista profondamente innamorato del suo lavoro. Per lui non esistono pause, domeniche, feste. Lo trovi sempre al lavoro. Perché, a dirla tutta, Festorazzi è uno degli storici più importanti di questi anni. E la sua figura - ha all'attivo una trentina di libri di storia - si può certamente collocare nella schiera di quegli studiosi non allineati al pensiero unico resistenziale. “Gli archivi del silenzio” è la sua ultima fatica. Ho avuto l'onore di leggerlo in anteprima, pagina dopo pagina, in attesa che esca in tutte le librerie la prossima settimana. Festorazzi non lascia nulla al caso. Si infila nelle carte, negli atti, ricerca tutte le possibili testimonianze e ci regala un libro-inchiesta davvero straordinario. Attraverso i documenti l'autore smonta il teorema su cui il Pci, e i suoi attuali eredi, hanno costruito la propria fortuna e la colossale rendita di posizione. Con “Gli archivi del silenzio” Festorazzi dimostra come documenti e testimonianze dirompenti, che consentono di fare piena luce sui delitti e misteri del dopo Dongo, siano stati “neutralizzati” dall'apparato degli Istituti storici della Resistenza. Dimostra come questi Istituti siano in realtà delle autentiche fabbriche di colossali falsificazioni. Che insomma, per anni, ci hanno raccontato bugie, costruito a tavolino interi memoriali, riscritto la storia perché fosse possibile nascondere i crimini della Resistenza rossa. Il lavoro dell'autore è stato reso possibile anche da una fonte interna al mondo partigiano: Mario Tonghini. A 93 anni è la voce della verità, capace di spiegare come il Pci ha imposto, con l'arma del terrore e della mistificazione, la propria natura illiberale. Tonghini, organizzatore dei Gap-Sap a Como, raggiunto al telefono mi confessa di essere “rimasto disgustato da quello che è successo dopo la liberazione. Non ho mai autorizzato rappresaglie e non le ho mai avvallate. Tanto che ho abbandonato la politica e mi sono dedicato all'impresa. Ho dato lavoro a tanti, sa?”. Le carte scottanti e inedite di Tonghini hanno permesso a Festorazzi di rileggere figure strettamente legate alla fine del Duce, dei partigiani che si adoperarono per la sua cattura e per la catalogazione dell'oro di Dongo. Porta nuove luci sugli avvenimenti accaduti in quei giorni di aprile del 1945. Tonghini rivela, deluso dalle illegalità commesse dai comunisti, di abbandonare la militanza partigiana: “Sono testimone del fatto che il Pci, subito dopo la Liberazione, diede ordine a tutte le formazioni garibaldine di non consegnare le armi agli Alleati, ma di nasconderle per la rivoluzione. Fu una direttiva trasmessa verbalmente. Io la ricevetti da “Remo”, Giovanni Aglietto, che aveva retto la Federazione clandestina del Pci di Como in assenza di Dante Gorreri. Le disposizioni dicevano di consegnare le armi leggere, mentre i mitragliatori dovevano essere smontati e nascosti insieme alle bombe a mano”. Racconto che illustra come il Pci stesse strutturando la sua organizzazione paramilitare “Gladio Rossa”. Festorazzi ha svolto un lavoro egregio. Anche perché sono sicuro che non gli avranno reso vita facile. E la sua denuncia, contro le opere di disinformazione messe in atto dagli Istituiti storici della Resistenza, deve trovare seguito ed essere discussa. Nelle pagine del suo libro troverete riferimenti all'Istituto di storia contemporanea “Perretta” di Como, dove Festorazzi si è rivolto per le ricerche. Vi invito a leggere con attenzione la faziosità, le imprecisioni, la mancanza di rigore scientifico, la deliberata occultazione di fondi e la mancata catalogazione di documenti da parte di questo Istituto. È proprio l'autore che ci spinge ad una riflessione, attraverso il pensiero di Gianfranco Miglio che Festorazzi ha avuto quale maestro alla Facoltà di Scienze politiche. “Credo che questi Istituti abbiano ormai fatto il loro tempo. Essi hanno rappresentato il tentativo delle sinistre di monopolizzare ideologicamente la Resistenza. Non si possono considerare Istituti scientifici, in quanto sono serviti alla sinistra per giustificare in qualche modo la pretesa che la Resistenza sia stata solo un prodotto di sinistra”. Da “Gli archivi del silenzio” di Roberto Festorazzi. Per gentile concessione dell'autore, pubblichiamo in anteprima alcuni stralci del volume. Oreste Gementi “Riccardo”, diretto superiore di Mario Tonghini “Stefano”. L'esecuzione di Mussolini e della Petacci è avvenuta in modo diverso dalla descrizione ufficiale. Gementi riferisce quanto ebbe a conoscere, dalla viva voce di due testimoni della fucilazione, avvenuta a Giulino di Mezzegra, davanti al cancello di Villa Belmonte, qualche minuto dopo le 16 del 28 Aprile 1945. Si tratta di Guiseppe Frangi “Lino” e Guglielmo Cantoni “Sandrino”, i due partigiani posti a guardia della coppia di amanti, durante la loro ultima notte trascorsa nel casolare dei contadini De Maria, a Bonzanigo di Mezzegra. Dalla relazione di Gementi: “ “Sandrino” e “Lino”, che furono i custodi della coppia tutta la notte tra il 27 e il 28 Aprile, presenti all'esecuzione, venuti al comando [del Cvl di Como] il 1° maggio [1945], mi precisarono che dopo la dichiarazione di “Valerio” “in nome del popolo italiano ecc” il mitra di “Valerio” si inceppò e “Pietro” (Michele Moretti) che si trovava al suo fianco con il mitra spianato, fece partire la scarica mortale”. A conferma dell'attendibilità di questa testimonianza esiste un prezioso documento, datato 15 maggio 1945, firmato dal comandate “Riccardo” alias Oreste Gementi. Destinatario il Partito comunista a Mosca. “Secondo gli accordi presi con la Missione militare russa, che in questi giorni ha preso contatto con il nostro Cnl, consegniamo alla stessa, per il Museo Militare di Mosca, l'arma (Mas) con la quale il partigiano “Pietro” delle formazioni garibaldine del Lario, ha giustiziato Mussolini”. Sempre da una testimonianza di Gementi che si reca a Lasnigo da Pietro Terzi “Francesco” dove Moretti è latitante. Rivolto a Moretti gli dissi che poteva stare tranquillo, perché il suo partito non lo avrebbe abbandonato, in quanto lui rappresentava una bandiera per essere stato l'esecutore di Mussolini. Ed egli annuì scrollando il capo, senza smentire. - Comandante Oreste Gementi “Riccardo” Gementi racconta come, per tutto il mese di maggio di quel 1945, avesse insistito, presso il comunista Michele Moretti, che aveva portato a Como una tranche del tesoro di Dongo (30 milioni di lire e 35,880 chili d'oro), per ottenere la ricevuta dell'avvenuta consegna. Ma non poté ricavare soddisfazione, in quanto, anziché consegnare i valori all'autorità legale, il partigiano “Pietro” li aveva fatti recapitare, per canali interni, alla direzione del suo partito. - Così l'autore riferisce il racconto di Oreste Gementi: La sera del giorno 28 Aprile, (Gementi) ebbe modo di raccogliere, insieme a “Gina”, dalla voce dell'ex prefetto, Renato Celio, il racconto delle ore in cui in Prefettura, ebbe a snodarsi quella che è stata definita la veglia funebre della Rsi: ossia la concitata discussione fra Mussolini e i suoi gerarchi, circa i possibili sbocchi del transito da Como. I contrasti più violenti furono quelli tra il Duce e il segretario del Partito fascista Repubblicano Alessandro Pavolini e il capo delle forze armate della Repubblica neofascista Rodolfo Graziani. Pavolini era fautore di una linea intransigente, con la soluzione militare del Ridotto Alpino valtellinese che avrebbe dovuto segnare le Termopili del fascismo. Graziani, al contrario, si era già smarcato dal terreno dello scontro, con una exit-strategy che lo avrebbe visto, di lì a poco, consegnarsi nelle mani degli americani, per il tramite delle Ss di frontiera di Cernobbio, un autentico avamposto della linea negoziale, farcito di doppiogiochisti. (Da “Gli archivi del silenzio” di Roberto Festorazzi).
Mi preme ringraziare Alessandro Russo per il suo egregio lavoro, e l'autore di questo libro-inchiesta, Roberto Festorazzi: è, il suo, un volume destinato a far parlare a lungo di sé. Grazie per questo contributo di verità alla nostra storia e grazie per il trattamento di favore riservato al Giornale d'Italia nel permetterci la pubblicazione di questi stralci. La prima cosa che farò al mio rientro a Roma da Imola, da dove scrivo, sarà acquistare questo volume per divorarlo. C'è un argomento che mi preme sottolineare, e mi ripropongo di parlarne con Roberto Festorazzi non appena ve ne sarà l'occasione, volentieri anche di persona. Si tratta dell'ora della morte di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Ho esaminato più volte e con estrema attenzione il Teorema Alessiani, e ne ho parlato anche sul Giornale d'Italia. Secondo gli studi scientifici di Alessiani - noto medico legale che fece questa indagine "tardiva" ma pur basata su elementi di scienza - l'ora della morte non può farsi risalire al pomeriggio del 28 aprile, ma al mattino. Il buon medico fornisce tutti gli elementi del caso e basa le sue deduzioni su calcoli scientifici difficilmente confutabili. Ne riparleremo, magari proprio con l'autore di questo libro straordinario, e potrebbe essere anzi una buona occasione per il collega Alessandro Russo per organizzare un'intervista con lo storico e scrittore sin dai prossimi giorni. Emma Moriconi.
Le menzogne sbugiardate e l'oro di Dongo, scrive Emma Moriconi il 18 gennaio 2015 su "Il Giornale d'Italia". I partigiani volevano fucilare il Duce a Milano, arrivarono tardi e trovarono il suo cadavere, insieme a quello della Petacci. Luciano Garibaldi: "Erano i valori confiscati alle famiglie degli ebrei. Mussolini intendeva consegnarli agli americani, affinché fossero restituiti ai superstiti". Prosegue il nostro speciale dedicato agli straordinari scritti di Vanni Teodorani e ci avviamo oggi alla sua conclusione. Riprendiamo dunque dove eravamo rimasti ieri, con l'intervista a Luciano Garibaldi, con il quale parliamo di cose estremamente interessanti. Ci sono molte brutte pagine della nostra storia che andrebbero riscritte ..."Quella sul processo per l'oro di Dongo, per esempio, è un'altra. Un processo che si interruppe per il 'suicidio' di un giurato e dopo che ben cinque suoi colleghi avevano dato forfait, un processo non per furto, ma per strage, a causa dei numerosi omicidi che quella vicenda si porta dietro. I partigiani Gianna e Neri, ma anche l'assassinio del collega Franco De Agazio, per esempio". Si, ne abbiamo parlato ai nostri lettori. De Agazio stava scoprendo cose che davano fastidio a qualcuno. Un 'fastidio' tale da finire assassinato. "Una lunga scia di sangue, si". Torniamo a "La pista inglese", sai che è un po' difficile trovarne copia? Quando uscì, nell'agosto 2002, fu accolto con enorme interesse tanto che ne furono pubblicate tre edizioni in pochi mesi. Lì ci sono i resoconti di otto anni di mie ricerche, a cominciare dal fonogramma inviato il 27 aprile 1945 dal Clnai al comando del Gruppo d'Armate alleato in cui venne richiesta l'immediata consegna di Mussolini, che era stato appena catturato. Si trattava dell'attuazione delle clausole dell'armistizio. Arrivò una risposta che era una menzogna: 'Non possiamo consegnarvi Mussolini perché è stato fucilato in piazzale Loreto, nello stesso punto dove erano stati fucilati i nostri compagni'. Mussolini invece era prigioniero a Dongo. Ciò che appare rilevante è il fatto che i capi partigiani avessero deciso, secondo quello che dice il fonogramma, di fucilare Mussolini nella piazza milanese, insieme ad altri quindici fascisti, giusto per raggiungere lo stesso numero dei partigiani fucilati per una rappresaglia nello stesso luogo nell'agosto precedente". E invece dovettero rivedere i loro piani ..."Certo, perché quando 'Valerio' arrivò a Dongo si accorse che qualcuno li aveva preceduti. Insomma, a piazzale Loreto, Mussolini furono costretti a portarcelo morto, insieme ai quindici, morti anche loro, fucilati sul lungolago di Dongo e poi trasportati a Milano". E poi c'è il caso della Petacci. La sua uccisione non era stata programmata. Perché Claretta finisce a piazzale Loreto? Perché Audisio l'aveva trovata cadavere, uccisa anche lei dagli assassini di Mussolini. Visto che ci siamo ... le vicende che orbitano intorno a Dongo sono tante e complesse, al punto che si è giunti a parlare di "dongologia", ad indicare una sorta di scienza diretta a studiare i fenomeni legati a quel luogo e a quei giorni. Fenomeni intorno ai quali orbitano oro e sangue. Abbiamo parlato un po' del sangue, parliamo ora del famoso oro di Dongo, altro tema spinoso che affronti nel tuo libro. Nel volume sono raccolte tantissime testimonianze, moltissime delle quali totalmente ignorate per decenni, relative proprio ai contatti tra Mussolini e gli inglesi. Faccio qualche nome, per rendere l'idea: Dino Campini, il ministro Carlo Alberto Biggini, l'ufficiale della Decima Sergio Nesi, l'attendente di Mussolini Carradori, l'ambasciatore della Rsi a Berlino Anfuso, il direttore del Corriere Amicucci, il sottosegretario alla Cultura Popolare Cucco, il sottosegretario all'Aeronautica Bonomi, il fondatore del Raggruppamento repubblicano socialista Clone, il giornalista americano Drew Pearson, il notaio Alberici, il commesso di Mussolini Quinto Navarra, il cassiere capo della polizia di Salò La Greca, Urbano Lazzaro, il partigiano noto con il nome di battaglia "Bill", autore della cattura di Mussolini ... insomma sono tantissime. E tutte concordano nel dire che il cosiddetto 'oro di Dongo' rinvenuto dai partigiani nella 'colonna Mussolini' non era il tesoro di Stato. Si trattava invece di valori confiscati alle famiglie degli ebrei arrestati dopo le leggi razziali, che Mussolini intendeva consegnare agli americani, dopo la resa in Valtellina, affinché fossero restituiti ai superstiti. Questo dimostra che quelle confische erano state fatte per il pesante obbligo derivante dall'alleanza con il Terzo Reich ... Dove finirono invece quelle ricchezze? Nelle casse del PCI ... Roba da matti ...E ti dico di più. Massimo Caprara (giornalista, storico, che fu segretario di Togliatti) ha testimoniato in un memoriale scritto appositamente per 'La pista inglese' (nel quale tra l'altro rivela come la 'versione Audisio' sia stato un 'falso deliberato') come questo tesoro di Dongo sia sempre stato per il partito un tabù, diciamo così. Ha anche ricordato come Togliatti, in un'intervista a L'Unità (che il tribunale di Padova acquisì per il processo, ma sappiamo tutti come quel processo rimase senza alcun esito) avesse dichiarato: è un'invenzione la circostanza che la colonna di Mussolini fosse carica di valuta italiana e straniera spiegando che quei beni, razziati sulla strada tra Musso e Dongo, fatti portare nel Comune di Dongo dal 'capitano Neri' e catalogati dalla 'partigiana Gianna', finirono nelle casse del partito. Fu un avvocato molto esperto a riciclare il tutto in Svizzera. Ecco cosa dice Caprara: 'Veniva ogni quindici giorni a Roma e si fermava a chiacchierare con me in attesa che Togliatti fosse libero. A ogni visita, compiva una singolare triangolazione che non poteva non incuriosirmi: dopo essere stato da noi al secondo piano, saliva al terzo dall'amministrazione e poi al quarto da Pietro Secchia. Fu quello stesso avvocato un giorno, a pranzo, a spiegarmi l'arcano: lui si stava occupando di riciclare il bottino di Dongo trasformandolo in depositi e titoli presso alcune banche svizzere, poi riutilizzabili in Italia'. Ecco, questo in estrema sintesi. Nel volume "La pista inglese" c'è tutto questo e di più". In questa sede è forse utile ricordare che due anni fa uscì, in prima edizione, il volume "Perché uccisero Mussolini e Claretta. La verità negli archivi del PCI". Di recente ne è stata pubblicata una versione aggiornata. Si tratta di un volume-inchiesta a cura ancora di Luciano Garibaldi e di Franco Servello. Ne abbiamo parlato lo scorso ottobre, il lettore lo ricorderà: un intricato dedalo di misteri e di morti sospette, di inchieste scomparse nel nulla e di oro rubato. Lo ricordiamo anche qui perché ciò che gli autori dicono nel libro è strettamente collegato al ragionamento odierno. E Teodorani ci racconta la verità. Il noto saggista, autore de "La pista inglese" aveva ragione: ecco come andarono le cose, tra gravi colpe, inadeguatezze varie e destino avverso. Riprendiamo la ricostruzione di Teodorani laddove ci siamo fermati ieri. Dopo la cattura, Mussolini fu consegnato al brigadiere della Guardia di Finanza di Germasino, Antonio Spadea. "Perché Mussolini - scrive Teodorani - fu sottratto alla sorte che lo attendeva e lasciato ghermire da diversa fine? Ho assodato, senza tema di smentite, che quel sottufficiale della Guardia di Finanza doveva consegnare il prigioniero a un tenente suo diretto superiore operante nella zona. Ma il tenente, De Laurentis, in precedenza paracadutato dal Sud, trattenuto altrove, non arrivò, o meglio arrivò tardi. Probabilmente con l'intenzione di affidare tanto prigioniero a una tutela più sicura e definitiva verso gli incombenti rossi, il brigadiere di Germasino aveva provveduto a consegnarlo al capitano alleato che operava nel settore e che per primo aveva avuto notizia dell'avvenuto fermo". Se a questo si aggiunge che "in molti casi i movimenti delle truppe alleate avvennero in ritardo sul previsto" - è sempre Teodorani a parlare - che Milano fu lasciata dalle truppe della Rsi "con inconsapevole anticipo", che il capitano Lapiello "che tanta parte aveva avuto nell'organizzare e articolare il piano di salvezza e che avrebbe potuto rappresentare una parte decisiva nella critica fase esecutiva", era rimasto bloccato lungo la strada a causa di un incidente di macchina sulla Roma-Napoli, ben si comprende come, oltre alla disorganizzazione americana, alla perfetta macchina inglese, alla malafede tedesca, siano entrate in gioco anche questioni addebitabili ad uno strano e macabro intervento del Fato. Insomma, per una serie di ragioni concatenate che abbiamo appena tratteggiato seppure per sommi capi, Mussolini viene consegnato alla persona sbagliata. Perché il capitano a cui il Duce viene consegnato da Spadea "non apparteneva al Secret Service americano", ma al servizio informativo di altra potenza", che prese Mussolini in consegna e lo trasferì "a nuova sede, sottraendolo al controllo della Guardia di Finanza e, quindi, degli americani, e, quando, ore dopo, arrivarono con malcelata fretta (forse sapevano?) i comunisti di Audisio, di cui egli aveva il dovere di impedire ogni movimento, non trovò di meglio che allontanarsi senza proferire sillaba". Ecco dunque la verità. E Teodorani cita proprio i documenti di cui parlavamo ieri con Garibaldi: il decreto luogotenenziale del 22 aprile 1945 n. 2, un mandato di cattura dell'Alto Commissario aggiunto per le Sanzioni contro il fascismo del 26 agosto 1944 e la clausola 29 del lungo armistizio, oltre al "solenne impegno del 27 aprile concluso con noi al quale, non si può dire quanta con quanta buona fede, avevano aderito anche il CLNAI e il comando del CVL, nei suoi organi rappresentati in Como". E Teodorani aggiunge: "Ma nulla valse contro le precise disposizioni del diplomatico sovietico Bogomoloff che allora dirigeva da Roma tutto il movimento, come tecnico specializzato". Insomma, un assassinio commesso contravvenendo a precisi ordini. Questo fu. Naturalmente per certi omicidi non esiste alcun processo.
Dongo: oro e sangue, scrive Emma Moriconi il 23 ottobre 2014 su "Il Giornale d'Italia". Servello e Garibaldi scavano tra le carte e trovano le prove di un patto tra la DC e i comunisti per coprire i responsabili del furto e degli omicidi. Con quei valori il Pci comprò anche Botteghe Oscure e la tipografia per stampare l’Unità, e ci pagò le campagne elettorali. Nella scorsa puntata di questo piccolo speciale dedicato ai misteri delle ultime ore di Mussolini abbiamo parlato di Angelo Zanessi, che riferì in un memoriale di essere entrato in possesso di materiale contenuto nelle borse che il Duce portava con sé nel suo ultimo viaggio. A questo proposito è di assoluta rilevanza un documentario: “Mussolini: Marcia, Morte, Misteri”, La Grande Storia, di Enzo Antonio Cicchino. In questa fase ci occuperemo della seconda e della terza parte, lasciando la prima al nostro speciale del prossimo martedì, dedicato alla Marcia su Roma. Il documentario presenta immagini in parte inedite del periodo ed ha il pregio di riuscire a trascinare indietro nel tempo lo spettatore. Molti aspetti andrebbero eviscerati, alcuni anche contestati, ma di certo ci sono verità che fanno accapponare la pelle. Ciò che interessa in questa sede è ciò che emerge circa l’ “oro di Dongo”, riservandoci di tornare su altri passaggi chiave della vicenda in altra sede. Gioielli, soldi contanti, oro. Valori per i quali tante persone sono morte, come i partigiani Neri e Gianna, di cui abbiamo parlato di recente, come molti testimoni “scomodi” di quelle ore. Una lunga, lunghissima scia di sangue. Aprile 1957: dopo un’istruttoria di 12 anni sono imputati 37 partigiani, quasi tutti comunisti, che devono spiegare dove sono finiti tutti quei beni, “per un valore che oggi ammonterebbe a circa 600 milioni di euro” dice il documentario. Che specifica che parte di questo tesoro sarebbe andato a coprire le spese del PCI, per l’acquisto dell’immobile in via delle Botteghe Oscure, della tipografia per stampare l’Unità e per finanziare le campagne elettorali nel dopoguerra”. Il processo va avanti 4 mesi, poi la macchina si ferma a causa della morte di un giudice, bisogna quindi rinviarlo a nuovo ruolo. Non se ne farà più nulla: nel frattempo sono arrivate prescrizioni e amnistie, così abdica la giustizia italiana. Occorre, a questo punto, prendere in considerazione un altro speciale: ancora quello di Storia in Rete dello scorso aprile. “Una catena di morti che attende giustizia”: così titola Averaldo Costa dalle pagine della rivista. Costa racconta i contenuti del volume-inchiesta di Servello e Garibaldi dal titolo “Perché uccisero Mussolini e Claretta. La verità negli archivi del PCI”. Il libro, uscito in prima edizione due anni fa (più o meno la stessa epoca del documentario di Cicchino) presenta nella sua seconda edizione una serie di nuovi colpi di scena, che gli autori raccontano dopo aver analizzato documenti inediti rintracciati presso l’Archivio Storico del Tribunale Supremo Militare e presso l’Archivio di Stato. Gli storici avrebbero rinvenuto le prove “delle manovre poste in atto per neutralizzare l’azione del generale Leone Zingales, che stava per giungere alla verità, e le prove degli accordi sotterranei tra DC e PCI per mettere una pietra tombale sui risultati dell’indagine di Ciro Verdiani, l’ispettore di Pubblica Sicurezza che aveva ricostruito il furto, ad opera di funzionari del PCI, di ingenti valori tutti di spettanza dello Stato”. Verdiani aveva tirato fuori le prove per affermare, insomma, che il “tesoro di Dongo” era finito nelle mani del PCI, il quale si era occupato di proteggere i colpevoli sia del furto che degli omicidi legati proprio al tesoro. Dicevamo dei partigiani Gianna e Neri: non furono le sole vittime. Verdiani scrisse infatti di “una minaccia di morte incombente su chiunque troppo sappia o voglia sapere, o dica, sulla destinazione e il possesso del cosiddetto ‘oro del Duce’”. Secondo le prove accumulate da Verdiani, autori materiali delle uccisioni furono Leopoldo Cassinelli (Lince) e Maurizio Bernasconi (Maurizio). Il mandante: Luigi Longo. Gli autori pubblicano il “rapporto riservato” di Verdiani: crolla finalmente – e definitivamente - quel castello di carte costruito sul sangue e sulla menzogna. DC e PCI fecero un patto: la prima avrebbe insabbiato tutto e il secondo avrebbe frenato le frange estremiste pronte alla rivoluzione. E se qualcuno avesse insistito, il PCI avrebbe provveduto a sistemare le cose come aveva sempre fatto: soffocandole nel sangue. È ciò che accadde a Franco De Agazio, fondatore e direttore del settimanale Il Meridiano d’Italia: assassinato il 14 marzo ‘47 dalla Volante Rossa. Il nipote, Franco Servello, coautore del libro-inchiesta in argomento – che ne prese il posto - subì numerosi attentati. Ecco dunque un altro personaggio che si affaccia sulla scena: Leone Zingales, un magistrato militare che voleva far luce sul mistero del “tesoro di Dongo” e assicurare alla giustizia i responsabili del furto e degli omicidi. Come rilevano Servello e Garibaldi, “se al generale Zingales fosse stato consentito di proseguire il suo lavoro di operatore di giustizia, egli avrebbe finito con l’aprire un’indagine anche sulle fucilazioni di Dongo, dato che erano state eseguite dai partigiani senza che fosse stata pronunciata alcuna sentenza di morte da nessun tribunale autorizzato. Infatti anche la postuma, e ridicola, rivendicazione stilata il 29 aprile 1945 dal CLNAI di Milano, non poteva avere, né avrà mai, il valore di una sentenza legittima”. L’argomento non è certo esaurito qui, ne parleremo ancora nella prossima puntata. Ma occorre fermarsi un momento per fare un riflessione: queste carte vengono fuori oggi, 70 anni dopo, perché coperte dal segreto di Stato. Quello stesso Stato che, rimuovendo un generale dal suo incarico, ha permesso – dolosamente - di lasciare impunito più di un delitto.
Fu Churchill a far ammazzare Mussolini. L'intervista: "Il Duce fu ucciso dagli inglesi per ordine esplicito del premier britannico" scrive Emma Moriconi il 17 gennaio 2015 su "Il Giornale D'Italia". Confermata la tesi di Luciano Garibaldi che vent'anni fa, per primo, ipotizzò la "pista inglese". Eccoci dunque giunti, nel nostro speciale dedicato ai diari di Vanni Teodorani, all'argomento da cui eravamo partiti all'inizio: la cosiddetta "pista inglese". Che vent'anni fa ipotizzò Luciano Garibaldi e che oggi trova una straordinaria conferma proprio in quelle carte che il fidato collaboratore del Duce scrisse immediatamente dopo i sanguinosi fatti dell'aprile 1945. Era infatti il 18 febbraio 1994 quando quattro articoli a firma del noto saggista venivano pubblicati su "La Notte" e la cui terza puntata recava il titolo: "Clara, Benito e i sicari di Londra". Una lunga e complessa inchiesta, quella di Garibaldi, che veniva ripresa il 2 marzo seguente: il settimanale "Noi" della Mondadori dedicava quattro pagine all'intuizione più ardita della storia con il titolo "Gli inglesi uccisero Mussolini". Un anno dopo usciva il libro-intervista di Chessa a Renzo De Felice. In quelle pagine, però, il lavoro dello storico non veniva neppure citato. Poco male, la paternità dell'intuizione è inequivocabile. Nel 2002 la Ares pubblicava "La pista inglese", oggi di difficile reperimento, mentre nel 2004 la Enigma Books, di New York, pubblicava "Mussolini: the secrets of his death. Did Winston Churchill order Mussolini's execution?". Ancora nel 2004, Peter Tompkins e sua moglie, la regista Maria Luisa Forenza, mandavano in onda su rai Tre il documentario "Mussolini: l'ultima verità": si, proprio quella "pista inglese" teorizzata da Garibaldi. Ma chi era Peter Tompkins? Era, nel 1945, un giovanotto di 24 anni che all'epoca comandava l'OSS, l'Office of Strategic Services, la futura CIA. Costui, nel 1991, aveva pubblicato il volume "Dalle carte segrete del Duce" e riconosceva che "Luciano Garibaldi è stato il primo ad avere avanzato, sulla stampa italiana, l'ipotesi della pista inglese". Il documentario di Rai Tre fece discutere non poco, com'è facilmente intuibile: esso contribuiva infatti a far crollare il castello di carte che era stato (a ben vedere poco abilmente, in fondo) costruito ad arte. Abbiamo parlato a lungo (e ancora non abbastanza, però) delle menzogne che sono state dette (e, ahimé, scritte) sulla morte del Duce. Nulla era stato raccontato come era andato veramente: falso l'orario della morte, falso il luogo, false le circostanze, falsi gli esecutori. E questo è ormai assodato da tempo. Ma che fossero stati gli inglesi a commissionare l'assassinio di Mussolini era sembrato all'epoca una specie di eresia. E invece le cose erano andate proprio così, le carte di Teodorani mettono un punto fermo su questa vicenda. Ma andiamo con ordine. Abbiamo raggiunto al telefono Luciano Garibaldi, innanzitutto per rendergli il giusto merito circa le sue straordinarie doti di "investigatore della storia", e poi naturalmente per farci raccontare la sua lunga inchiesta. Garibaldi è cordiale, affabile: in men che non si dica passiamo dal "lei" al "tu". Insomma, avevi proprio ragione ... la "Pista inglese" era quella giusta. Raccontaci. Si, anche Tompkins, il cui lavoro è basato essenzialmente sul racconto di Bruno Giovanni Lonati, ex partigiano, la confermò nel documentario di Rai Tre. Benito Mussolini e Claretta Petacci furono uccisi non dai partigiani comunisti del Clnai, solennemente 'autorizzati' dal governo italiano, ma da un gruppo di uomini al servizio di Churchill. Comandati da un ufficiale dei servizi segreti inglesi, e per ordine esplicito del premier britannico. Il documentario metteva in luce anche come la soppressione di Mussolini fosse avvenuta nella mattinata e non nel pomeriggio, come la 'vulgata' volle far credere. La testimonianza del partigiano Roberto Remund, a questo proposito, è fondamentale: quando andò a sollevare il cadavere di Mussolini per issarlo sul camion che stava trasportando a Milano i fucilati di Dongo si ritrovò tra le mani un corpo già rigido, cosa impossibile se la morte fosse sopravvenuta solo un'ora prima. E poi moltissime prove sono giunte a mettere la parola fine a quella versione, ormai definitivamente sbugiardata". Si, ne abbiamo ripercorso anche noi le contraddizioni, e abbiamo fatto alcune riflessioni, una su tutte: perché tutte quelle menzogne? "Esattamente. Perché mentire? Perché non portare Mussolini vivo sulla piazza di Dongo e fucilarlo assieme agli altri quindici? O meglio: perché non portare tutti vivi a Milano per essere qui fucilati a piazzale Loreto? E infine: perché uccidere la Petacci? Ma basterebbe guardare le versioni di Audisio, di Lampredi e di Moretti ... sono tutte diverse l'una dall'altra. Audisio scrisse che Mussolini, di fronte al mitra, sbavava dal terrore e balbettava «Ma..., ma..., signor colonnello...». Lampredi invece affermò che Mussolini si aprì la giacca e gridò, virilmente: «Sparate al petto!». Moretti rivelò a Giorgio Cavalleri (scrittore e storico comasco assolutamente al di sopra di ogni sospetto di parzialità politica) che, prima di cadere sotto la raffica, il Duce gridò: «Viva l'Italia!». Potrei continuare, di contraddizioni come queste ne ho trovate a valanga e sono tutte elencate nel mio libro. Direi che le cose sono ormai chiare: Mussolini e la Petacci sono stati ammazzati per ordine di Londra, e non tanto per il carteggio Mussolini-Churchill, ormai non più in loro possesso, ma perché non potessero parlare. Churchill aveva molte cose da nascondere. Ma non la sua corrispondenza con il Duce del 1940, bensì il tentativo, posto in atto nel 1944, di spingere Hitler a cessare la resistenza in Occidente per rivolgersi tutti assieme contro il pericolo rosso, l'Armata di Stalin che, inesorabile, procedeva verso il centro e l'ovest dell'Europa. Un progetto disonorevole nei confronti di una potenza alleata i cui soldati erano morti (e continuavano a morire) a milioni, e che, se reso pubblico al mondo, avrebbe causato un vulnus irreparabile al prestigio della Gran Bretagna". Ecco la conferma negli scritti di Teodorani. Un piano saltato per l'incapacità di alcuni, l'estrema scaltrezza di altri, la malafede di altri ancora, e una buona dose di destino avverso. "Oggi finalmente posso sciogliere ogni dubbio e riconoscere la lealtà di chi fu leale, anche se questo aggraverà la responsabilità di altri". Comincia così Vanni Teodorani a svelare quei segreti rimasti nel cassetto per tanti anni. In maniera chiara ed incontrovertibile spiega così il piano degli USA, che "prevedeva [...] la sparizione, pressoché misteriosa, di Mussolini". Il Duce, secondo il piano, doveva essere consegnato "ad un organo collettore superiore, un ufficiale di collegamento americano, che avrebbe dovuto immediatamente avviarlo ad un determinato campo di aviazione, da dove sarebbe subito stato imbarcato per la Sardegna". La missione era segretissima, com'è facilmente immaginabile. Nemmeno i reparti americani non direttamente coinvolti nella missione dovevano saperne alcunché. "Tutta l'operazione - scrive ancora Teodorani - si basava sui servizi segreti americani operanti nella RSI e, per una doverosa e indispensabile articolazione capillare, sui presidi e le stazioni della Guardia di Finanza". A fare da coordinatore tra Guardia di Finanza e americani, il nucleo speciale della Guardia di Finanza operante con il CIC e il suo comandante Emilio Lapiello. Un piano che sembra perfetto, ma che non riesce. Un po' a causa dell'incapacità di qualcuno, un po' per la malafede di qualcun altro, ancora per gli strani scherzi che il destino a volte gioca alle persone. Certo è davvero curioso che gli inglesi siano stati più abili degli americani. "Si, sono stati più abili", ci conferma ancora Luciano Garibaldi nella lunga intervista che ci ha concesso e sulla quale torneremo ancora domani. "Gli americani non avevano grandi agenti, basti vedere che Peter Tompkins, di cui parlavamo prima, era un giovane di 24 anni e comandava l'Oss ... si, gli inglesi erano decisamente più preparati ed abili". E questo per ciò che riguarda l'incapacità di qualcuno. Per quanto invece attiene alla malafede di altri, non si capisce perché Wolff non abbia messo a parte Mussolini di ciò che si preparava all'orizzonte. Tra parentesi, le rivelazioni di Teodorani spiegano anche lo strano contegno di Flamminger a Musso in quel 27 aprile, quando se ne andò a parlamentare con i partigiani e tornò dopo sei ore. Spiega dunque perché le mitragliatrici tedesche quel giorno non sbaragliarono in un istante i quattro partigiani accampati a Musso. "I tedeschi hanno tradito Mussolini - dice ancora Luciano Garibaldi, e conforta così tristemente ciò che scrivevamo appena un mese fa - Wolff aveva preso accordi ben precisi, per questo fu salvato da Norimberga". Ancora c'è molto da dire, ma la carta non è infinita e dunque diamo appuntamento ai nostri lettori a domani, quando tireremo le somme di questa brutta vicenda che però, finalmente, fa chiarezza su questa buia pagina della nostra storia.
Carteggio Mussolini-Churchill, ancora un gran dibattere, scrive Emma Moriconi il 14 aprile 2015 su "Il Giornale D'Italia". Misteri di settant'anni fa. Lo storico Luciano Garibaldi risponde a Mieli e Franzinelli: "Il Corriere si sbaglia". Sono passati 70 anni e ancora se ne parla vivacemente. Ci riferiamo alla vicenda del carteggio tra Benito Mussolini e Winston Churchill su cui è appuntata l'attenzione degli storici ormai da decenni. Di recente Mimmo Franzinelli ha pubblicato un volume dal titolo "L'arma segreta del Duce. La vera storia del Carteggio Chirchill-Mussolini", Rizzoli editore, secondo cui lo scambio di lettere segrete tra i due non vi fu mai. Tesi a cui sembra aderire anche Paolo Mieli attraverso un suo intervento sul Corriere della Sera. Gli storici sul tema sono divisi: di idea opposta sono personalità come Fabio Andriola ("Carteggio segreto Churchill-Mussolini"), Arrigo Petacco ("Dear Benito, Caro Winston"), Ubaldo Giuliani-Balestrino ("Il Carteggio Churchill-Mussolini alla luce del processo Guareschi"), Luciano Garibaldi che nel suo "La pista inglese (Mussolini: the secrets of his death nell'edizione americana del 2004) sostiene che "non fu certo per quel vero o presunto carteggio che il premier britannico ordinò la soppressione del Duce e della sua amante e confidente Claretta Petacci impedendo che potessero essere dopo il loro arresto" e specifica che "erano infatti ben altri i documenti, le carte, le testimonianze che confermano la 'pista inglese' nell'omicidio di Mussolini e di Claretta". Ed è proprio Garibaldi a rispondere, dalle colonne del Sussidiario, al Corriere. Parte spiegando come "nel suo fondamentale studio, Fabio Andriola ricorda che il 10 maggio 1945 Churchill chiese al feldmaresciallo Alexander che venisse ordinata un'inchiesta sulla morte di Mussolini e, in particolare, sul perché fosse stata uccisa anche la Petacci". Poi lo storico argomenta come il Clnai "si era appena assunta la responsabilità di quella esecuzione capitale" specificando che esso agiva in nome e per conto del Governo Bonomi, del Governo del Luogotenente Umberto di Savoia". Insomma, continua Garibaldi, "l'onta di quell' 'atto di giustizia', o di quel duplice assassinio, a seconda dei punti di vista, ricadeva sul debole Governo, sul debole sovrano di Roma", dunque "chi avrebbe potuto sospettare della lealtà britannica? Tanto valeva indossare i panni di un cavaliere della tavola rotonda". Lo storico ripercorre quindi come addivenne alla consapevolezza che dietro l'assassinio di Mussolini e di Claretta ci fossero gli inglesi, partendo dall'ipotesi avanzata da Vanni Teodorani (il lettore che ci segue sa bene di chi parliamo) sulla rivista "Asso di Bastoni", ipotesi a cui Garibaldi aderì da subito e alla quale dedicò gli studi di tutta la sua vita, argomentando con precisione ogni tesi sostenuta nel suo "La pista inglese", poi confermata ancora dallo stesso Teodorani di recente grazie alla pubblicazione dei suoi "diari", ai quali abbiamo dedicato un lungo speciale. Garibaldi quindi riferisce di come Churchill non prese in molta considerazione lo scritto di Teodorani, mentre reagì con una secca smentita ad un'inchiesta pubblicata dal nostro Giornale d'Italia nel marzo del '47: in quell'occasione negò con forza di aver mai scritto lettere a Mussolini facendo eccezione naturalmente per quelle pubblicate nei suoi libri "e risalenti agli anni in cui era un ben pagato collaboratore del Popolo d'Italia". Gli organi di stampa italiani ripresero la notizia e Churchill, nel '51, diramò un comunicato simile per frenare la polemica. In realtà, continua Garibaldi, nella misteriosa cartella del Duce non c'erano lettere autografe dei due statisti, ma "relazioni dettagliate dei contatti segreti che continuarono ad effettuarsi durante il periodo della RSI", contatti ricostruiti proprio da Garibaldi nel suo "Vita col Duce". Ma chi prese l'iniziativa di avviare questi contatti? Garibaldi continua: "Secondo Fabio Andriola, 'nel 1944 due elementi potevano indurre Mussolini e Churchill a riaprire il canale del dialogo: da un lato, il prorompere dell'Armata Rossa in Europa e la necessità di fare argine al nuovo imperialismo sovietico; dall'altro, l'estrema debolezza politica e militare di Mussolini potrebbero avere indotto quest'ultimo a fare pesanti pressioni sul premier inglese, ricattabile per le proprie proposte di qualche anno prima, per ottenere condizioni di pace non umilianti'. Dunque, l'iniziativa potrebbe essere partita da Mussolini". In quest'ottica assume rilievo anche un'altra ipotesi di Andriola, quella relativa al 25 luglio secondo la quale l'OdG che sfiduciò il Duce non fu da lui molto osteggiato perché aveva in mente una certa strategia. D'altra parte, dice ancora Garibaldi, potrebbe essere stato Churchill ad avviare la cosa "nel tentativo di porre un freno all'avanzata dell'Armata Rossa". In poche parole, il Duce poteva riuscire (ed era il solo a poterne avere qualche speranza) a convincere il Fuhrer a cessare la resistenza in Occidente. Le prove? Secondo Garibaldi sono nelle registrazioni telefoniche dei colloqui tra Benito e Claretta, pubblicate da Ricciotti Lazzero in "Il sacco d'Italia". Ed ecco ciò che premeva a Churchill: che non si venisse mai a sapere "che aveva tramato contro Stalin e la Russia, cioè che aveva cercato di pugnalare alla schiena l'Armata Rossa i cui combattenti morivano a decine di migliaia pur di sconfiggere Hitler". Non solo: Garibaldi parla di un libro che uscirà a breve dal titolo "Guareschi era innocente: ecco le prove", ancora di Ubaldo Giuliani-Balestrino. Egli nel volume sopra citato mostrava come "le due lettere di De Gasperi all'alto ufficiale dell'aviazione britannica per sollecitare il bombardamento della periferia e dell'acquedotto di Roma nel '44 erano vere". Prove che ribadisce anche nel nuovo lavoro. Quelle lettere furono giudicate false dal Tribunale di Roma, che condannò Guareschi per averle pubblicate sul Candido.
Mussolini-Churchill, storia (complicata) di un carteggio. Un libro di Enzo Antonio Cicchino e Roberto Colella fa il punto su una delle questioni insolute del Novecento 25 marzo 2016. Cinquant'anni di ricerche e di testimonianze, tra vecchie carte e strani segreti: un'indagine storica dettagliata e appassionante. Si chiama "Mussolini-Churchill, il carteggio - Indagine su uno dei grandi misteri del Novecento", ed è un libro scritto a quattro mani da Enzo Antonio Cicchino e Roberto Colella, edito dalla Mursia. Un lavoro accurato e preciso che ripercorre cinquant'anni di vicende sulle quali ancora resiste un fitto mistero. È storia, prima di tutto, perché parliamo di una indagine rigorosissima su un caso epocale: il famoso carteggio tra Mussolini e Churchill è esistito? E di cosa parliamo esattamente? Di certo è uno dei temi più dibattuti degli ultimi settant'anni e la ragione di tanta attenzione è data dal fatto che si tratta di questioni importanti per la storia del nostro Paese ma che coinvolge, ovviamente, anche altre realtà internazionali, prima tra tutte l'Inghilterra. Ma il libro che proponiamo ai nostri lettori non è solo questo: è anche un avvincente viaggio nei meccanismi intricatissimi di mezzo secolo, che attrae e cattura l'attenzione perché sembra un complicatissimo giallo letterario: un giallo lo è di certo, e non solo letterario. Ma la bellezza, la forza di questo volume sta in due fattori: il primo, come dicevamo, l'indagine storica accurata capace di mettere in luce anche moltissime contraddizioni; il secondo è appunto il dato letterario: è un libro che divori, nonostante la complessità delle vicende che va a esaminare, ingarbugliate, intricatissime, perché possiede il ritmo di un libro d'avventura, che a tratti assume le caratteristiche di un thriller. Si, perché è un susseguirsi di colpi di scena, sapientemente messi in fila dagli autori, tra personaggi i cui caratteri sono messi in evidenza quasi fossero protagonisti di una piece teatrale, al punto che sembra di vederseli scorrere sotto gli occhi, uno ad uno. Personaggi che troppo spesso i libri di storia tralasciano e che furono protagonisti proprio di quelle ore di fine aprile 1945 e, rievocati dalla penna degli autori, tornano a fornire un contributo per la realizzazione di un quadro completo e di un'atmosfera, quella atroce di quei giorni di sangue appunto, così lontani da noi eppure così ancora vicini, troppo spesso trattati - storicamente parlando - in maniera inadeguata, viziata direi. Ci sono le emozioni, per esempio: la sensazione che tutto era perduto, quella sorta di rassegnazione triste che contrassegnò la fine di una lunga e complessa pagina di storia italiana. Cicchino e Colella spiegano al lettore le ipotesi che nel tempo sono state fatte circa la fine di quelle carte, presentano i personaggi, raccontano la complicata vicenda di queste carte misteriose e riferiscono cose che fanno riflettere. Denunciano, gli autori, tutto ciò che non torna, lo fanno sinceramente e spassionatamente, ma con determinazione, in omaggio a una esigenza quanto mai attuale di verità: una verità che prima o poi, forse, verrà alla luce: ma questo potrà accadere solo quando la storia e la politica avranno preso le rispettive corrette strade, che sono necessariamente separate quando la distanza di tempo dagli eventi di cui si parla è tale e tanta. Finché la politica e la storia viaggeranno sulla stessa strada sarà difficile tirar fuori il coniglio dal cilindro. Anche perché i conigli, si sa, scappano...
La morte di Mussolini, la pista inglese e quella americana, scrive Emma Moriconi il 25 agosto 2016 su "Il Giornale D'Italia". La storia attraverso i documenti. Una conversazione molto istruttiva con Luciano Garibaldi sul recente speciale di Storia in Rete. "Ma perché al cancello di Villa Belmonte e senza testimoni? I gerarchi li fucilarono a Dongo in piazza, e lì anzi radunarono la gente per farglieli vedere, qui invece bloccarono le strade, per non far vedere niente a nessuno. Che bisogno c'era dalla casa di venire qui? Perché non fare venti metri, visto che non c'era nessuno e bastava chiudere due stradine? Perché? Per andare lontano da là. Ho sempre chiesto al Pisanò: a chi volevano far vedere la scena? Perché fare un chilometro e venire fin qua? Forse una ragione ci potrebbe essere. Non è ancora stato pubblicato un lavoro di due ricercatori svizzeri dilettanti. Essi sono entrati nell'archivio della CIA e hanno trovato una foto scattata quel giorno lì. Sulla foto ci sono i tre partigiani insieme a un personaggio molto distinto, alle loro spalle si vede una macchina con la targa consolare della Svizzera. Con la targa sono risaliti al personaggio che aveva la macchina: era un colonnello americano mandato a Lugano come civile, e aveva l'incarico di distribuire gli aiuti ai partigiani. Quel giorno lì era qui. Se è venuto è perché voleva vedere se era stato fatto quello che si doveva fare. Perché a quanto pare sia gli americani che gli inglesi avevano interesse che il Duce finisse lì, e per fargli vedere la scena più solenne li portarono lì". Ricordate questo stralcio? Sono parole di don Luigi Barindelli, parroco di Mezzegra. Parole incise su di una telecamera e riportate a voi lettori, testualmente, su queste colonne, tempo fa. Si ricollegano a quanto ha pubblicato nei giorni scorsi la rivista Storia in Rete, che ci ha raccontato delle importanti ricerche di due studiosi che aprono alla possibilità di una "pista americana" sulla morte del Duce. Ne parlo con Luciano Garibaldi, che quel giorno di aprile mi portò da don Barindelli, a Mezzegra. Vorrei avere da Luciano un commento su questo speciale. Ci parlo a lungo, vi racconto cosa ci diciamo al telefono. "La presenza ad Azzano, dunque a pochi passi dal luogo dove furono assassinati Mussolini e la Petacci, e proprio in quelle drammatiche ore, di Valerian Lada Mokarski, il numero due dei servizi segreti americani in Europa, è la conferma che vi fu una sfida, tra inglesi e americani, a chi arrivava prima ad impossessarsi delle preziose carte di Mussolini a proposito delle quali il Duce aveva detto, in più di un’occasione, ai suoi più stretti collaboratori che valevano 'una guerra vinta'. Su quella sfida ho imperniato, a suo tempo, il mio libro Mussolini. The secrets of his death, pubblicato nel 2004 a New York da Enigma Books, e il cui capitolo centrale – non a caso – ha per titolo How the British beat the Americans". Ce lo ricordiamo bene - dico a Luciano - "La pista inglese"... E siamo certi di un cosa: anche gli Americani davano la caccia al Duce... "Tra le clausole del trattato di armistizio - dice lui - vi era la consegna di Mussolini vivo al comando del XV Gruppo d'Armate dipendente dal generale americano Mark Clark, che, verso la fine del mese di aprile 1945, aveva posto la sua base a Siena. Ma i servizi speciali britannici non erano d'accordo. E si mossero con straordinaria efficienza e rapidità non appena si diffuse la notizia che Mussolini, nel primo pomeriggio di venerdì 27 aprile, era stato fatto prigioniero dai partigiani della 52.a Brigata «Garibaldi» sulla piazza di Dongo". E mi viene in mente Vanni Teodorani. Lo ricordate, non è vero? Ne abbiamo parlato a lungo, anche con Luciano, su questo quotidiano. "Le conferme più importanti - dice il mio interlocutore infatti - sono le memorie di Vanni Teodorani, pubblicate nel '54 sul settimanale «Asso di Bastoni». In quell'occasione, Teodorani fu il primo in assoluto, nella storiografia sulla fine del Fascismo, ad avanzare il sospetto della mano britannica nell'uccisione del Duce: Salvatore Guastoni - scrisse Teodorani riferendosi all’agente americano dell’OSS di origini italiane - mi assicurò che Mussolini sarebbe stato accolto in onorata prigionia di guerra dalle Forze Armate degli Stati Uniti, senza essere diviso né dalla scorta, né dal seguito: chi desiderava, poteva seguirlo per servirlo in prigionia. Nessuna offesa alla sua incolumità, e soprattutto alla sua dignità, sarebbe stata, né allora né in seguito, consentita. Teodorani si riferisce al summit svoltosi nella Prefettura di Como tra esponenti della RSI e agenti americani che accompagnavano esponenti del CLN. A quel summit non partecipò alcun agente direttamente dipendente dagli inglesi. I presenti erano tutti o al servizio degli americani, o alle dipendenze del governo di Roma".
"Dalle carte segrete del Duce" e "Quaderno 1943-1945". Le testimonianze di Peter Tompkins e Vanni Teodorani. Il carteggio con Churchill resta il fulcro della vicenda più intricata che la storia del Novecento ricordi. E poi Luciano dice dell'altro: "Che la presa di possesso politica del territorio italiano fosse stata fortemente voluta, fin dall'inizio, da Churchill, lo denuncia senza remore uno dei più autorevoli agenti americani in Italia durante il secondo conflitto mondiale, Peter Tompkins che nel suo libro «Dalle carte segrete del Duce» (Marco Tropea editore, 2001) ammette senza mezzi termini: «Fu molto facile, per gli inglesi, evitare che gli americani mettessero le mani sul Duce. Furono partigiani italiani a fare tutto, ma fu un agente del servizio segreto britannico, di origine italiana, che li spronò ad agire per chiudere in fretta il capitolo Mussolini. (...) Quanto alla morte di Claretta, non ha senso se non la si mette in rapporto con la corrispondenza segreta Mussolini-Churchill: lei sapeva e perciò doveva essere tolta di mezzo»". Già, ne abbiamo parlato spesso. Si trattò di una testimonianza esplosiva. "Ma non è tutto. «Perché - si chiede ancora Tompkins - un accordo fra Churchill e Mussolini stretto durante gli incontri segreti avvenuti a Porto Ceresio e sul Lago d'Iseo doveva essere così radicalmente cancellato da imporre l'uccisione dello stesso Mussolini e di Claretta Petacci? La reputazione di Churchill sarebbe stata gravemente danneggiata se si fosse venuti a sapere che aveva complottato con il Duce del fascismo e con alcuni generali nazisti in Italia per far sì che italiani e tedeschi unissero le loro forze a quelle degli Alleati occidentali per combattere tutti insieme contro l'URSS, specie per chi sapeva che erano stati i 20 milioni di morti sovietici nella Seconda guerra mondiale a salvare l'Europa dal dominio di Hitler e dei nazisti». Ma io insisto su Teodorani: sarà che i suoi scritti mi hanno colpita profondamente... Quelle memorie, pubblicate dai figli e consegnatemi personalmente da sua figlia Anna di recente, sono una conferma della "pista inglese". "Sì - mi dice Luciano - il Quaderno 45/46, edito dalla Stilgraf di Cesena. Nei diari si legge che l’autore, a fine aprile ’45, partecipò ad una missione con lo scopo di raggiungere il Duce in fuga da Milano e consegnarlo all’OSS americano d’intesa con i servizi segreti del Regno del Sud (il SIM, Servizio Informazioni Militari)". I nostri lettori sanno bene chi è Vanni Teodorani, l'uomo che sposò Rosina Mussolini, figlia di Arnaldo, l'amato fratello di Benito: lo dico a Luciano. "Per chi non sapesse, hai voglia di riepilogare brevemente?", gli chiedo. "Vanni era nato a Torino nel 1916, divenne un apprezzato giornalista fin dalla più giovane età e sposò Rosina Mussolini. Partecipò, non ancora ventenne, alla guerra d’Africa come direttore del Corriere Eritreo e capitano di Cavalleria impegnato sul campo contro i ribelli. Assunse poi la direzione de La Prealpina di Varese, fu corrispondente di guerra nel corso del secondo conflitto mondiale (Capo Matapan ed altri storici eventi), aderì alla RSI dove assunse l’incarico di capo della segreteria militare del Duce e sottocapo di Stato Maggiore della Divisione San Marco, incaricato di numerose missioni in Italia e all’estero. Riuscito a nascondersi dopo la sconfitta del 25 aprile, tenne il diario che è stato ora pubblicato integralmente per volontà dei figli". Vanni Teodorani è certamente personaggio chiave per capire molte faccende, interloquisco con il mio amico al telefono. "Certamente - dice lui, e continua - Come ha scritto Giuseppe Parlato nell’introduzione al volume di memorie, «Teodorani aveva trattato con gli americani per la resa dei capi fascisti senza spargimenti di sangue. L’accordo, stipulato con l’agente Guastoni dell’OSS e con il comandante della Regia Marina Giovanni Dessy, prevedeva la creazione di una zona smilitarizzata di raccolta dei reparti fascisti in Val d’Intelvi». Qui i vertici di Salò avrebbero atteso gli Alleati riuscendo così a sottrarsi alle vendette comuniste. Ma il piano fallì e lo stesso Teodorani, probabilmente per una spiata, fu catturato e violentemente malmenato dai partigiani “garibaldini”, riuscendo poi fortunosamente ad evitare il plotone d’esecuzione". Più volte, si. Penso - e lo dico, a Luciano - che Vanni sia rimasto tra noi ancora per un po' perché aveva una missione da portare a termine: raccontare. Che bella figura di uomo, che dignità, che poesia nelle sue parole... Chi non ha ancora letto quel diario lo faccia. È una testimonianza di storia ma anche di amore. Una lunga e misteriosa serie di eventi sui quali bisogna fare chiarezza. Mussolini e i Caduti del Nord furono vittime delle discordie tra gli Alleati "Occidentali contro Sovietici, ma soprattutto Inglesi contro Americani", dice lo storico. "Riepiloghiamo insieme la rivelazione dei diari di Teodorani?", chiedo a Luciano. "Ne abbiamo già scritto", mi dice lui. Ma io insisto, perché oggi, dopo lo speciale di Storia in Rete, abbiamo qualche elemento di riflessione in più. Luciano mi accontenta: "Oggi finalmente - si legge nel «Quaderno» di Teodorani - posso sciogliere ogni dubbio. Mussolini, e tutti i Caduti del Nord, sono morti vittime, più che altro, delle discordie fra gli Alleati: occidentali contro sovietici, ma soprattutto inglesi contro americani. Il piano segreto USA per il recupero di Mussolini si innestava nella più vasta intesa imperniata sulle trattative di Wolff che prevedevano la regolare occupazione delle città abbandonate dalle truppe germaniche, senza consentire sedizioni di piazza. Tutto non funzionò sia per le intemperanze dei comunisti, e dei CLN da essi dominati, sia per l’equivoco contegno di Wolff che gettò disordine e scompiglio nelle nostre file. Saltarono così date e sincronia. Per esempio Milano, che doveva essere presa in consegna dagli americani il giorno 28 aprile, fu evacuata la notte del 26, e quando gli americani arrivarono, non fu più possibile rispettare il piano precedente, a tutto vantaggio dei bolscevichi». Più avanti, nel brano che ha per titolo «Il piano americano sul Duce», Teodorani scrive: «Il piano USA, tenuto gelosamente segreto, prevedeva, con strana analogia con quanto era successo il 25 luglio 1943, la sparizione pressoché misteriosa di Mussolini. Ne era responsabile direttamente il colonnello Snowden, del Counter Intelligence Corps (CIC) dell’esercito americano. […] Egli avrebbe dovuto immediatamente avviarlo a un determinato campo di aviazione da dove sarebbe subito stato imbarcato per la Sardegna, con un volo sul tipo di quello del Gran Sasso. Nessuna notizia sarebbe stata diramata, di modo che il Governo di Roma, gli Alleati e le stesse autorità americane non interessate al piano non avrebbero, per il momento, saputo niente. Tutta l’operazione si basava sui servizi segreti americani operanti nella RSI e sulla Guardia di Finanza. […] Al Nord con i gladi, al Sud con le stellette, la Guardia di Finanza costituì sempre un organismo unico ed era perciò perfettamente normale che, nel mare magnum generale, si pensasse ad essa come a qualcosa di efficiente e fidato. Il compito di coordinamento generale tra Guardia di Finanza e americani, al fine di garantire un perfetto collegamento indispensabile alla buona riuscita di un piano così complesso, fu assunto dal nucleo speciale della GdF operante con il CIC, e personalmente dal suo comandante Emilio Lapiello». Invito Luciano a proseguire. "Ma non ti stanchi mai?", mi chiede. "No, certo che no", gli rispondo, figuriamoci. "Ancora Teodorani: «Quando il nucleo del CIC che doveva compiere la missione partì per il Nord, il capitano della GdF Emilio Lapiello, che tanta parte aveva avuto nell’organizzare e articolare il piano di salvezza del Duce e che avrebbe dovuto ricoprire una parte decisiva nella fase esecutiva, non poté partire con gli altri per un incidente stradale occorsogli sulla Roma-Napoli, che lo pose fuori servizio proprio nel momento cruciale. Si interruppero così i contatti diretti tra il CIC e la Finanza operante al Nord". Chi causò l'incidente resta un mistero. Comunque, un classico, nelle storie dei servizi segreti. Ma continuiamo a leggere il racconto di Teodorani: «Come è noto i partigiani di Dongo (“Bill” e “Pedro, n.d.r.), fermato il Duce, lo rimisero al più presto al brigadiere della Guardia di Finanza di Germasino, Antonio Spadea. Cosa successe, da quel momento? […] Ho assodato, senza tema di smentite, che quel sottufficiale della GdF doveva consegnare il prigioniero ad un tenente suo diretto superiore operante in quella zona. Ma il tenente, De Laurentis, in precedenza paracadutato dal Sud, non arrivò, o meglio, arrivò tardi. Nel frattempo, con l’intenzione di affidare tanto prigioniero ad una tutela più sicura e definitiva verso gli incombenti rossi, il brigadiere di Germasino aveva provveduto a consegnarlo al capitano Alleato che operava nel settore e che per primo aveva avuto notizia dell’avvenuta cattura». Una fotografia con i due corpi, davanti al cancello di Villa Belmonte, e nemmeno una goccia di sangue a terra. Alessiani aveva ragione. Semmai servisse, ecco l'ennesima prova concreta e incontrovertibile che la morte del Duce e della Petacci risale a molte ore prima di quanto si è detto per decenni. "Ma parliamo dell'identità di quel capitano", insisto con Luciano. Sono un pochino pressante, lo ammetto. Ma lo ascolterei per ore. "Teodorani - mi dice - ha inserito nel suo diario un titolo che parla da solo («Bogomoloff e Albione imposero l’assassinio») e ha scritto un memoriale che è uno straordinario documento storico e una clamorosa prova definitiva della validità della “pista inglese”. Leggiamo: «Quel capitano, però, non apparteneva al Secret Service americano, ma al servizio informativo britannico. L’errore del brigadiere era da prevedersi, giacché, per un normale sottufficiale della Finanza, gli Alleati erano un tutto: le stesse caratteristiche, gli abiti borghesi, l’accento inglese contribuivano ad alimentare una simile confusione. L’ufficiale in oggetto, preso in consegna il prigioniero, lo trasferì a nuova sede, sottraendolo al controllo della Guardia di Finanza, e quindi degli americani, e quando, con malcelata fretta (forse sapevano?) arrivarono i comunisti di Walter Audisio, di cui egli avrebbe avuto il dovere di impedire ogni movimento, non trovò di meglio che allontanarsi senza profferire sillaba. Quello che poi successe al Duce è noto, anche se vi sono ancora perplessità sul nome dell’effettivo esecutore materiale». Quanto al Bogomoloff nominato nel titolo, trattasi del diplomatico sovietico che da Roma impartiva le disposizioni di Mosca a Togliatti, capo del Partito Comunista Italiano. Il quale, non a caso, nel discorso alla radio del 26 aprile, diede per scontata l’uccisione di Mussolini previa semplice identificazione. Non c’è dubbio. Vanni Teodorani aveva perfettamente intuito la verità: un accordo inconfessabile tra i comunisti e i servizi segreti inglesi per far tacere per sempre Mussolini, ma anche Caretta Petacci, al corrente di tutti i suoi segreti. Tutta da leggere la conclusione scritta da Teodorani nel suo diario: «Ancora una volta, come in Spagna, come in Etiopia, dove il dirigente comunista Barontini organizzava bande ribelli contro di noi, l’Imperialismo inglese e il Komintern avevano agito in perfetta intesa, e gli sconfitti, eccezionale nuovissima alleanza, erano stati, insieme, gli italiani e gli americani». Decido che per oggi basta così. Luciano sa, però, che tornerò a far squillare il suo telefono per parlare ancora con lui. Gli dico un'ultima cosa, che credo sia fondamentale per tirare le somme. "Luciano, sai cosa penso? Che al di là di tutto abbiamo una prova, ancora una prova - semmai ve ne fosse bisogno - che il buon Aldo Alessiani aveva ragione". "Ma noi lo sapevamo già", mi dice lui. "Certo che si - gli rispondo -. Ma una foto che ritrae i corpi di Mussolini e della Petacci davanti al cancello di villa Belmonte senza una goccia di sangue a terra è definitiva, sarà il caso che la storiografia ufficiale ne prenda atto". Possiamo gettare nel secchio i libri di storia scritti fino ad ora, insomma. Qualcuno dovrà mettersi in testa che bisognerà riscriverli daccapo. E non solo per "correggere" l'ora e il luogo della morte di Benito Mussolini.
Piazzale Loreto, ecco la protostrage. Tratto dal volume "Mussolini, sangue a Piazzale Loreto", Herald Editore, scrive Luciano Garibaldi l'11 novembre 2016 su "Il Giornale D'Italia. L'orribile pagina scritta nell'aprile 1945 ha origine da un delitto commesso in quello stesso luogo. Il brano che segue è un estratto dal volume "Mussolini, sangue a Piazzale Loreto", di Luciano Garibaldi e Emma Moriconi, Herald Editore. Parliamo dei noti fatti risalenti all'aprile 1945, quando Mussolini, la Petacci e i Fascisti fucilati a Dongo vennero oltraggiati nella piazza milanese, un luogo simbolo perché proprio lì erano stati uccisi quindici partigiani a seguito di una rappresaglia. Quindici, come quelli fucilati a Dongo. E questa è storia nota. Ciò che è meno noto è perché i quindici partigiani vennero uccisi, è quella che Garibaldi definisce la "protostrage". Il libro, inoltre, è ricchissimo di fotografie inedite di quel giorno. Di seguito, dunque, un estratto dal volume, uscito lo scorso 29 luglio, è oggi disponibile e costituisce un contributo di verità su una pagina orribile della nostra storia. "Milano, 8 agosto 1944, attorno alle ore 8, viale Abruzzi, angolo piazzale Loreto: una terrificante esplosione devasta un camion tedesco dinnanzi al quale, controllati da alcuni militari della Wehrmacht, si affollano diecine di civili (padri, mamme, nonni, bambini) accorsi, come ogni mattina, per fare provvista di latte che un anziano e bonario sottufficiale tedesco da tempo distribuisce gratuitamente assieme a viveri e generi di prima necessità. Sul selciato si accasciano nove morti e un numero imprecisato di feriti, sei dei quali moriranno nei giorni seguenti. La verità storica su quella carneficina, su chi collocò l’ordigno, su chi decise quell’operazione, non è stata mai raggiunta. Sono state pubblicate diecine di ricostruzioni nessuna delle quali rafforzata da convincenti riscontri fattuali. Soltanto ipotesi, nettamente contrastanti l’una con l’altra, e viziate da evidenti pregiudizi politici: bomba comunista secondo gli storici «di destra»; bomba fascista secondo gli storici «di sinistra», anche se, francamente, è un po’ arduo dar credito a questa seconda ipotesi. Peraltro, la consultazione dei giornali dell’epoca non aiuta ad uscire dalle contraddizioni perché le notizie erano frammentarie e sommarie onde non esasperare più di tanto l’opinione pubblica. Migliore risultato non è possibile raggiungere confrontando i molti libri di storia che riferiscono quell’episodio. Tra le ricostruzioni reperibili sulla rete, abbiamo scelto quella riportata nel sito dell’Unione Nazionale Combattenti della RSI di Milano. La bomba gappista (da GAP, Gruppi di Azione Patriottica), era esplosa tra la folla compiendo una strage che era costata la vita a cinque soldati tedeschi e tredici civili italiani fra i quali una donna e tre bambini, rispettivamente di tredici, dodici e cinque anni. Ecco i nomi dei civili italiani che morirono sul colpo nell'attentato gappista o nei giorni successivi, tutti per "ferite multiple da scoppio di ordigno esplosivo": Giuseppe Giudici, 59 anni; Enrico Masnata, 21 anni; Gianfranco Moro, 21 anni; Giuseppe Zanicotti, 27 anni; Amelia Berlese, 49 anni; Ettore Brambilla, 46 anni; Primo Brioschi, 12 anni; Antonio Beltramini, 55 anni; Fino Re, 32 anni; Edoardo Zanini, 30 anni; Gianstefano Zatti, 5 anni; Gianfranco Bargigli, 13 anni; Giovanni Maggioli, 16 anni. Rimasero inoltre feriti più o meno gravemente: Giorgio Terrana, Letizia Busia, Luigi Catoldi, Maria Ferrari, Ferruccio De Ponti, Luigi Signorini, Alvaro Clerici, Emilio Bodinella, Antonio Moro, Francesco Echinuli, Giuseppe Formora, Gaetano Sperola e Riccardo Milanesi. Dei cinque soldati tedeschi uccisi, i cui nomi non furono annotati nei registri civili italiani, è rimasta memoria solo di un maresciallo di nome Karl, che per la sua mole era stato soprannominato dai milanesi di Porta Venezia "el Carlùn" (il Carlone). Il braccio di ferro tra le autorità fasciste, contrarie alla rappresaglia, e i Tedeschi. E Mussolini tentò di evitare il massacro. La prova è negli atti del processo politico subito nel dopoguerra da Vincenzo Costa. Lo storico Franco Bandini, tra i massimi storici del fascismo, così lo descrisse in un articolo pubblicato su «Il Giornale» il 1° settembre 1996: «Questo anziano maresciallo tedesco, tanto apprezzato e ben voluto, si era guadagnato quel bonario nomignolo non tanto perché era addetto alla distribuzione dei viveri alla popolazione milanese, ma perché, spinto esclusivamente dal senso di umanità, quando poteva (ciò significa a titolo personale) con un piccolo camion faceva il giro delle campagne limitrofe alla città e si riforniva di un po’ di latte; finito il giro di raccolta, rientrava in città, parcheggiava, come sempre, all’angolo fra piazzale Loreto e viale Abruzzi e qui veniva subito attorniato da padri e madri che si dividevano quel latte con quella fratellanza che proviene dalla comune disgrazia». Ma riprendiamo la lettura dal sito dell’UNCRSI: Quel nomignolo, Karl, maresciallo di fureria, se l'era guadagnato fermandosi ogni mattina, all'angolo fra viale Abruzzi e piazzale Loreto, con il suo camion per distribuire alla popolazione verdura, patate e frutta che la "Staffen Propaganda” acquistava al mercato di Porta Vittoria, aggiungeva agli avanzi delle mense militari e regalava ai milanesi, tutti, a quell'epoca, dannatamente a corto di viveri. Un'operazione di "public relations", si direbbe oggi, intrapresa dalle Forze Armate tedesche nei confronti dei civili e che, dati i tempi di fame, aveva riscosso un successo immediato. Troppo, per la sensibilità antifascista dei Gap di Milano. Il risultato fu che, la mattina dell'8 agosto 1944, i terroristi del Partito comunista si mescolarono alla piccola folla che si accalcava come di consueto davanti alle ceste del "Carlùn" e infilarono in una di queste la bomba ad alto potenziale che, poco dopo, avrebbe seminato la strage indiscriminata: 18 morti e 13 feriti, quasi tutti poveracci milanesi. Diciotto morti e tredici feriti innocenti, tutti assolutamente dimenticati, abrogati, cancellati dalla memoria storica, politica e giudiziaria italiana. Come se fossero indegni di ricordo, di pietà, di giustizia. Figuriamoci se qualcuno ricorda ciò che accadde fra il massacro e la rappresaglia. Eppure, in quelle ore disperate, mentre la gestione dei rapporti fra militari tedeschi e popolazione passava dalle "public relations" della “Staffen Propaganda” alla Gestapo del capitano Theodor Saevecke, si impegnò un braccio di ferro durissimo fra le autorità fasciste, contrarie alla ritorsione, e i militari tedeschi inferociti, che non volevano sentire ragione. Si oppose il prefetto Piero Parini, che arrivò a minacciare le dimissioni; si oppose il federale Vincenzo Costa; si oppose Mussolini, intervenendo direttamente sul maresciallo Kesselring e su Hitler. La prova è, tra l'altro, negli atti del processo politico subito nel dopoguerra da Vincenzo Costa il quale, nel suo diario ("Ultimo federale", Il Mulino, 1997) ricorda: «Alle 14 (del 9 agosto, ndr) mi trovavo nell'ufficio del Capo della Provincia quando arrivò una nuova telefonata del Duce. Abbassato il ricevitore, Parini mi permise di ascoltare la voce inconfondibile del capo: «Il maresciallo Kesserling ha le sue valide ragioni. Ogni giorno nel Nord soldati o ufficiali tedeschi vengono proditoriamente assassinati... Ha deciso di attuare la rappresaglia. Ma sono riuscito a ridurre a dieci le vittime... Ho interessato il Führer…Spero ancora». Proprio mentre le autorità fasciste e i militari tedeschi si contendevano le vite degli ostaggi appese a un filo, i gappisti milanesi colpirono di nuovo. Anche questo è stato dimenticato. Alle 13 del 9 agosto 1944 un terrorista in bicicletta, armato di pistola, fulminò con un colpo alla nuca, davanti alla porta di casa, in via Juvara 3, il capitano della Milizia Ferroviaria Marcello Mariani, sposato con quattro figli. Mentre l'uomo agonizzava nel suo sangue, un secondo gappista, di copertura, ferì a revolverate Luigi Leoni, della Brigata Nera "Aldo Resega", che era sopraggiunto e si era gettato all'inseguimento del primo. L'uccisione di Mariani fu il fatto che decise la sorte dei quindici sventurati rinchiusi a San Vittore. [...]".
La “Tragica alba” di Mussolini. Dongo, ultimo atto: un premio letterario svela un film che si credeva perduto, scrive Alessandro Russo il 4 settembre 2016 su "Il Giornale d'Italia". L'associazione Artelario.it promuove cultura e dibattito sul Ventennio. Villa Vigoni a Loveno di Menaggio ospiterà il VI Premio letterario “Il ventennio... come eravamo. Gli ultimi giorni di Mussolini sul lago”. Iniziativa organizzata dall'associazione Artelario.it, guidata da Emanuele Pitto, per domenica 18 settembre. Nello stesso giorno saranno presentati i libri “Eravamo in bianco e nero” di Enzo Pifferi e Giuseppe Guin, “Gli archivi del silenzio” dello scrittore e storico comasco Roberto Festorazzi, “Fascisti” del giornalista Giordano Bruno Guerri. La presentazione della manifestazione avverrà sabato 17 settembre a Palazzo Manzi, luogo simbolo di Dongo, che custodì gli ultimi istanti di vita degli uomini della Rsi. La costruzione si affaccia proprio sul lago e sul vecchio molo del lago di Como. E lo fa dalla piazza principale, in modo sobrio e semplice, perfettamente rispondente ai dettami dello stile neoclassico. La curiosità è rivolta anche alla serata del 18 settembre, quando verrà infatti proiettato il cortometraggio di Vittorio Crucillà “Tragica alba a Dongo”. Documento davvero eccezionale poiché gli interpreti sono gli stessi testimoni oculari di quell'episodio storico. Tra loro sono presenti anche i coniugi De Maria, i contadini presso i quali il Duce del Fascismo passò le ultime ore della sua vita insieme a Claretta Petacci. Restaurato dal Museo del Cinema di Torino, il cortometraggio può finalmente svelare il suo valore artistico e storico. Girato nel 1950, cioè ad appena cinque anni dalla fine del Fascismo, il film racconta le ultime ore di Benito Mussolini: dall'arresto a Dongo alla notte passata con Claretta Petacci, fino all'isolamento e alla successiva fucilazione. Il lavoro di Vittorio Crucillà venne però subito censurato per volere di Andreotti. Tanto da subire l'oblio per sessantasei anni, finendo nei luoghi oscuri e dimenticati della storia del cinema. Due ex partigiani, Emilio Maschera e Ugo Zanolla, fra il 1949 e 1950, decisero di produrre un film sugli eventi che portarono alla fucilazione di Mussolini e della Petacci. Non si dimentichi che Maschera e Zanolla avevano fatto parte del PWB, cioè del “Psychological Warfare Branch”, ossia l'organo dell'apparato militare statunitense che si occupava della propaganda sui mezzi di comunicazione Italiani. Di fatto vennero soppressi tutti i giornali riconducibili alla Rsi e gli unici a poter pubblicare in materia giornalistica furono i sei partiti del CNL. I due produttori, molto improvvisati, presero contatto con i giornalisti Crucillà ed Ettore Camesasca. A loro sarebbe stata affidata la regia (Crucillà) e la sceneggiatura (Camesasca). Vittorio Crucillà avrebbe inoltre inciso la voce narrante. “Tragica alba a Dongo” è di sicuro un documento di notevole interesse. Nonostante l'ostracismo politico, il cortometraggio non ha assolutamente perso la sua valenza storica. Sarebbe un grave errore pensarlo. Così come, questa nuova presentazione pubblica, deve essere l'occasione per ripensare quei giorni anche alla luce delle successive ricerche storiche sviluppate da Giorgio Pisanò e Luciano Garibaldi. L'oggetto artistico non è qui in discussione. Piuttosto, visto che parliamo di un film neorealista, si deve ricordare come i produttori decidano di affidarsi, per i personaggi di scena, a perfetti sconosciuti, presi letteralmente dalla strada. Così ritroviamo nelle scene i coniugi De Maria, alcuni partigiani che nella realtà arrestarono Mussolini, persino uno dei soldati tedeschi che aveva tentato di nascondere il Duce. Dietro alla macchina da presa, troviamo però l'unico professionista: Duilio Chiaradia. Sarà lo stesso Chiaradia a firmare la regia del primo telegiornale nel 1954. Ben due commissioni di censura, nel 1951 e nel 1953, coordinate da Giulio Andreotti, rifiutarono il nulla osta per la proiezione pubblica del film. Motivi politici. I due produttori, comunque, non tentarono nulla per scongiurare che il film terminasse in soffitta invece che nelle sale del cinema. Ora che “Tragica alba a Dongo” è stato ritrovato, proprio in una soffitta, e restaurato, l'associazione Artelario.it lo porta all'attenzione del pubblico moderno, che sarà di certo composto anche da giornalisti, storici, ricercatori e archivisti.
"Questo lavoro serva alla Storia, quando e come essa vorrà", scrive Emma Moriconi il 24 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia".. Misteri e contraddizioni nella "vulgata", più volte sbugiardata, sulla morte di Benito Mussolini. 28 aprile 1945: concludiamo oggi il nostro speciale dedicato al meticoloso lavoro di Aldo Alessiani. Giungiamo così al termine di questa indagine che ha visto il lavoro accurato e approfondito di Aldo Alessiani quale protagonista di un lungo e complesso speciale, che abbiamo voluto proporre per tentare di trovare qualche elemento di verità in una vicenda annosa, complessa e estremamente misteriosa: tantissimi sono i misteri che ancora sopravvivono, ma qualche elemento di verità Alessiani lo ha certamente portato con il suo lavoro. Per chiudere, ma solo per ora perché sarà necessario tornare sul tema, perché nel frattempo le nostre ricerche continuano, vorremmo raccontare al lettore ciò che scrive Alessiani a commento di questa sua fatica. Insomma vorremmo "tirare le somme" insieme a lui, e con l'occasione ringraziarlo per quello che ha voluto fare, per il contributo importante che ha inteso offrire alla storia. Con il solo rammarico che a lui, ad Aldo Alessiani, non possiamo dirlo di persona. Ma l'opera degli uomini travalica le loro stesse vite, Alessiani lo aveva previsto: aveva previsto, cioè, che di tempo ce ne sarebbe voluto moltissimo, prima che questo grande lavoro trovasse la luce e la giusta collocazione. E dunque l'appello che ci sentiamo di fare oggi è che anche la storiografia ufficiale voglia presto prendere questo esame in considerazione, anche per dibatterne qualora lo si ritenesse necessario, ma come scrisse il buon medico a Luciano Garibaldi, "non è una 'teoria'; significherebbe insozzarlo, annichilirlo a priori o per stupidità o per saccenteria". Un lavoro che non merita questo, sicuramente. Ecco cosa scrive Alessiani, in prossimità delle conclusioni: "Questo lavoro è alla fine; porta alla conclusione della pensabilità di un evento tutto diverso da quanto e come lo si è voluto esporre. Se ha centrato la verità, almeno nelle sue più essenziali tessere di paziente e faticoso mosaico che ha esagito attese, umiliazioni, delusioni, serva alla Storia quando e come essa vorrà". È davvero da sottolineare questo passo. Alessiani scrive "Storia" con la lettera maiuscola, e ne parla come se fosse una entità a sé, autonoma dalle emotività dell'uomo, dalle piccole cose terrene, dalle miserie umane, da ciò che è mortale. La Storia quale entità immortale, eterna, e superiore, che da sola deciderà "quando e come" giovarsi di questo contributo sincero e meticoloso che uno specialista ha voluto donarle. Sarebbe così, se appunto le miserie umane non ci mettessero lo zampino. Ma proseguiamo: "Indubbiamente - scrive ancora Alessiani - qualcosa da tenere assolutamente nascosto in quella notte del 28/04/45 in una casa non lontana dal lago di Como, accadde; seguì il tutto una trista scia di morti. Si fece moltissimo per far sì che tutto rendesse verosimile una esecuzione capitale, per tacere che qualcosa di non convenientemente raccontabile, forse improvviso o addirittura inatteso, perché non voluto, era purtroppo avvenuto. Non sta a me medico, pensare alle circostanze causali; senza dubbio prima di uccidere ci fu una attesa, un dialogo concitato forse. Non si è trattato del precipitarsi in una stanza di una casa rurale sparando all'impazzata già sulla soglia; il tentativo di disarmo operato lo esclude. Lo spazio del vano in cui il dramma si consumò, era ristretto anche perché in parte occupato da un letto matrimoniale; quindi il tutto può essere avvenuto in parte sul pavimento della stanza, sul letto medesimo se non addirittura sul pianerottolo immediatamente antistante. La vestizione dei cadaveri rimasti colà nella loro scomposta impudicizia, fu senz'altro laboriosa per l'essere sopraggiunto il rigor fino alla completezza, verosimilmente abbandonati dopo quel fuggi-fuggi generale che pervase coloro che furono partecipi o attori di qualcosa di inusitato e sconvolgente. Non si ebbe nemmeno il coraggio di ricomporre quegli indumenti intimi di cui i due deceduti erano soltanto ricoperti nel momento dell'evento. Ci si affidò più a quelli di vestizione che erano reperibili cercando di porli addosso nel modo migliore e più facile per chi non è aduso alla vestizione dei morti, quando specialmente questi diventano delle lignee statuarità. Si tentò di tutto per creare una sceneggiatura d'emergenza fino allo sparare sulla nuca del Mussolini molto tempo dopo la sua morte, nell'intento di creare quella pedissequa tradizionalità del colpo di grazia misconoscendo che in fase d'autopsia si sarebbe apprezzata la lesione non successa in vita. Se è vero - aggiunge poi tentando una ricostruzione questa volta non suffragata da elementi scientifici, e si tratta infatti di una supposizione che però vale la pena di riferire al lettore - si crearono addirittura due sosia perché inducessero i curiosi a far testimonianza di due sopravvivenze non più tali da molte ore. Lo stesso medico-settore volle ribadire per i dubbiosi che quanto aveva verbalizzato, apparteneva a una sentenza portata a compimento secondo la ritualità più tramandata, immaginando a contro-prova addirittura l'esecutando che alza il braccio destro in un istintivo modo di riparo, concretizzando così un colpo per proiettile in una impossibile direttrice trapassante, dimenticando l'inizio nel tempo della esperienza autoptica e non più illustrando la lesione al fianco destro in precedenza verbalizzata. Una autopsia - aggiunge - che sembra voluta ai fini di una ostinata dimostrazione che quanto s'era narrato era perfettamente vero. Forse far tutto questo era necessario; il disagio restava per la morte della donna, in un primo tempo condannata a morte per iscritto unitamente al suo compagno in un elenco limitato ai due e più tardi data per deceduta in un isterico intervento, intercettando così qualcosa di letalmente determinante e non per lei". Dagli appunti di Luciano Garibaldi, che ha dedicato tutta la sua vita nell'esame di quanto accadde in quei giorni di sangue. Settant'anni di bugie. Quella "ridicola e imbarazzante rivendicazione postuma, concepita, sottoscritta e diramata alla stampa il 29 aprile". Quanto a quest'ultimo tema ci preme qui semplicemente ricordare al lettore le deduzioni di Luciano Garibaldi che, teorizzando la pista inglese, disse qualcosa di molto interessante. Il lettore ricorderà che Il Giornale d'Italia ha con Luciano Garibaldi un rapporto che potremmo definire "privilegiato", avendone seguito in più occasioni le deduzioni, e avendo, con grande piacere, ospitato la sua firma su queste colonne. Questo ci consente di disporre di suoi "appunti", gentilmente concessi dallo stesso storico e saggista alla testata. Ce n'è uno che è relativo proprio al tema della "lista" dei "condannati a morte". Leggiamo insieme: "Nel libro di Urbano Lazzaro ('Bill') dal titolo 'Dongo, mezzo secolo di menzogne' c'è una quasi cinematografica testimonianza di prima mano su come si giunse, nel primo pomeriggio del 28 aprile 1945, nello stanzone al piano terreno del Comune di Dongo, a decidere le fucilazioni che da lì a poco sarebbero state eseguite sul marciapiede del lungolago. Leggiamo: 'Pedro si rivolse a Valerio e gli disse (...) che all'esecuzione non un solo garibaldino della 52.a avrebbe preso parte. Valerio ascoltava attentamente Pedro e il suo volto veniva, man mano che Pedro parlava, assumendo un'espressione contrariata e adirata. 'Va bene!', rispose con ira. 'Guardiamo ora questo elenco dei prigionieri!'. Lesse forte: 'Benito Mussolini!' e aggiunse subito: 'A morte!' e tracciò una croce accanto al nome di Mussolini. Pedro e Guido tacevano. C'era nell'ufficio un senso di soffocamento, come se l'aria fosse divenuta irrespirabile. Valerio continuò: 'Clara Petacci: a morte!'. Ma nell'elenco dei 31 prigionieri datomi la sera prima da Pietro e che io restituii a Pedro quando egli tornò da solo a Dongo la mattina del 28 aprile, il nome della Petacci non c'era. Mussolini era il 30° della lista. Se è accettabile che il 'colonnello Valerio' abbia letto per primo il nome di Mussolini, segnando una crocetta accanto a quel nome, non altrettanto poteva fare con il nome di Claretta Petacci, perché non compariva in quell'elenco'. Questa testimonianza - annota Garibaldi - stranamente sfuggita ad oggi agli storici, di uno dei principali attori del dramma, è di per sé bastevole a provare che il 'colonnello Valerio' sapeva già che Claretta era morta, sapeva che si sarebbe dovuto addossare la responsabilità della sua morte, sapeva che avrebbe dovuto mentire per il resto dei suoi giorni". E poi Garibaldi continua: "Ma quale 'condanna a morte'? L'ordine di fucilare Mussolini e i suoi ministri non esisteva. Il Clnai, rappresentante legittimo del governo Bonomi nell'Italia del Nord, non aveva emesso alcuna condanna a morte, che peraltro non era di sua competenza, né tantomeno alcun ordine di esecuzione. Il Clnai era tenuto a osservare il DDL (Decreto legislativo luogotenenziale) n. 142 del 22 aprile 1945, che riguardava ' i delitti commessi da Mussolini e dai ministri fascisti' e istituiva, per giudicarli, le CAS (Corti d'Assise Straordinarie). Perché il Clnai avrebbe dovuto agire illegalmente? Per ribellione al governo del Luogotenente? Non esisteva la benché minima ragione per farlo. È che, di fronte al fatto compiuto, cioè all'avvenuta uccisione di Mussolini e di Claretta Petacci a opera dei servizi britannici, previi frenetici e convulsi accordi con Roma, il Clnai fu costretto a farfugliare la ridicola e imbarazzante rivendicazione postuma, concepita, sottoscritta e diramata alla stampa il 29 aprile. Questa: 'Il Clnai dichiara che la fucilazione di Mussolini e complici, da esso ordinata, è la conclusione necessaria di una fase storica che lascia il nostro Paese ancora coperto di macerie materiali e morali. Eccetera eccetera'". Le bugie, però, hanno le gambe corte. Ciò che stupisce di più è il fatto che per lungo tempo la versione diramata dal Pci, da Audisio, da l'Unità, abbia avuto presa sugli Italiani: possibile che quelle macroscopiche contraddizioni, palesi, evidentissime, non siano state immediatamente evidenziate? Malafede o pigrizia, probabilmente. Anzi, più probabilmente entrambe.
28 aprile 1945: documenti e testimonianze a confronto. Ancora troppi sono i misteri che restano su quelle ore, e molti di essi non saranno mai svelati, scrive Emma Moriconi il 19 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Esaminiamo, insieme al Teorema Alessiani, l'esame di Franco Bandini e l'indagine commissionata a Pierucci da Pisanò. "Che nell'abbigliamento di Mussolini e della Petacci ci fosse qualcosa di strano lo aveva rilevato anche il già citato storico Franco Bandini che aveva notato sia che il cappotto di Mussolini non recava alcun foro di proiettile, sia che uno stivale era stato faticosamente reinfilato; sia, infine, il dettaglio della mancanza delle mutandine della Petacci - dice ancora Ezio Praturlon sul Giornale d'Italia del 26 aprile 1988 -. Ma stranamente Bandini, così attento e preciso su una enorme quantità di particolari di questa vicenda, per questi tre fatti si accontenta di una spiegazione frettolosa e non convincente. Ma se si torna alla ricostruzione di Alessiani, ed al fatto che gli uccisori non furono probabilmente i partigiani che avevano in custodia i prigionieri, e che quindi solo qualche ora dopo (quando era ormai sopravvenuta la rigidità cadaverica) era sorto il problema di rivestire i corpi, allora tutte le tessere del mosaico trovano una collocazione ragionevole. Ai due corpi ormai rigidi vennero infilati i capi più 'facili' da mettere. La camicia nera ed i pantaloni a Mussolini; ma non la giacca, troppo difficile, anzi impossibile da infilare a un cadavere irrigidito. Per nascondere la mancanza della giacca gli venne infilato un cappotto con maniche 'raglan'. Che mai aveva fatto parte della divisa di Mussolini: ma non fu certo cosa facile infilare quel cappotto, anche se il tipo di manica rese possibile quello che con la giacca era stato impossibile. Di certo il cappotto non reca fori di proiettili. Ma, come si può constatare dalle foto di piazzale Loreto, non appaiono fori neppure su pantaloni o sulla cinta, malgrado che il primo colpo avesse raggiunto parti del corpo che dalle foto di piazzale Loreto appaiono coperte dai pantaloni. Infine, il mistero dello stivale. Secondo Bandini, Mussolini e la Petacci erano stati falciati da raffiche di mitra sparate da due uomini che avevano aperto il fuoco stando uno alla destra, l'altro alla sinistra dei condannati (tra l'altro, secondo Bandini, Mussolini fu stroncato da sette colpi di mitra cecoslovacco, mentre dalla autopsia i colpi di fucile automatico, quattro in tutto, risultano aver prodotto ferite secondarie, essendo invece mortali due dei cinque colpi sparati da una pistola Beretta cal. 9). Dopo l'uccisione, avvenuta - secondo Bandini - in una piazzetta, nel trascinare i corpi verso un'auto Mussolini avrebbe perso uno stivale. Ma Alessiani, dallo stivale trae invece un ulteriore conforto per la sua ricostruzione. Dopo la morte i piedi si distendono da soli, e non è quindi difficile, neppure in stato di rigidità, infilare uno stivale a un cadavere. Ma a Mussolini, che nella prima guerra mondiale aveva riportato delle ferite a un piede, soltanto una delle estremità si distese: l'altra rimase bloccata ad angolo retto. Si spiega così come uno degli stivali appaia infilato normalmente, mentre l'altro - esaminato ingrandendo molte volte le foto di piazzale Loreto - risulta infilato, si, ma con tutto il lato chiaramente aperto lungo la cucitura: la cosa si spiega soltanto con la necessità di far apparire vestito un uomo che vestito non era quando era stato ucciso, ed al quale vennero infilati con grandi sforzi quegli indumenti 'minimi' che doveva avere in caso di una 'esecuzione' regolare". Prima di passare a esaminare la vicenda di Clara Petacci, vorrei soffermarmi ancora un po' su Mussolini. Chiedo al lettore di fare mente locale su quanto abbiamo esposto fino a questo momento e mi chiedo, per esempio, dove è finito il proiettile esploso, dal basso verso l'alto, sotto il mento, del quale non risulta in autopsia foro di uscita. A questo proposito leggiamo cosa dice il professor Giovanni Pierucci in risposta ai quesiti posti da Giorgio Pisanò e da noi esposti nello speciale di due anni fa su queste colonne: "Il verbale d'autopsia non documenta foro d'uscita per il colpo che attinse la regione sopraioidea: il proiettile potrebbe dunque essere 'ritenuto' nei resti (non risulta che il cadavere sia stato mai sottoposto ad esame radiografico)". A queste considerazioni vorrei aggiungerne altre. Per esempio, non risulta neppure che il proiettile sia stato "cercato". Insomma, se non c'è foro di uscita esso è stato trattenuto nella cavità cranica, cavità che è stata accuratamente esaminata alla ricerca di chissà quale "disturbo", al punto che un frammento venne persino consegnato agli Americani affinché pure loro potessero approntare i loro studi sul cervello più straordinario che la storia d'Italia abbia mai avuto. Il cervello venne asportato e posizionato in una teca a parte, teca che poi venne consegnata alla povera Rachele nel 1957. Dunque perché non si cercò il proiettile? Poteva essere rimasto nella materia cerebrale o, più probabilmente, si sarebbe dovuto trovare incastonato nelle ossa, la cui durezza avrebbe potuto fermarlo e trattenerlo. La determinazione della traiettoria di un proiettile all'interno di un corpo è materia troppo complessa, ci limiteremo qui dunque al nostro caso specifico, cioè al proiettile che, nel suo percorso intrasomatico (cioè nel percorso che segue all'interno del corpo), riduce fino a perdere la sua capacità perforante, per cui resta trattenuto all'interno del corpo stesso. In questo caso il proiettile ha due possibili vie: o rimane trattenuto in una sorta di nicchia, oppure risulta libero, per cui potrebbe trovarsi spostato dal punto in cui è terminato il tramite. Nel caso di questo colpo, sappiamo che entra da sotto il mento e già dalla forma del foro di ingresso si può orientativamente determinare in quale direzione sia andato: nel nostro caso verso l'alto, e altro purtroppo non possiamo sapere. Quindi o è rimasto in una "nicchia" che esso stesso ha formato entrando, oppure è finito nel cervello. Sarebbe bastato, in sede autoptica, esaminare precisamente il tramite servendosi degli opportuni strumenti. Questo dato non cambia, certo, la consistenza delle cose, però denota, ancora una volta semmai ve ne fosse ancora bisogno, come venne gestita la cosa.
Mussolini fu ucciso nella notte, al massimo all'alba del 28 aprile, scrive Emma Moriconi il 9 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". La scienza non mente, e l'analisi medico-legale di Aldo Alessiani va posta all'attenzione della storia. Il rigor mortis, la dinamica dei fori dei proiettili: ecco lo studio di uno scienziato e le prove di ciò che afferma. Abbiamo cominciato a parlare, qualche giorno fa, del dossier Alessiani, documento di estremo interesse per chi si dimena tra i misteri di quell'aprile del 1945 quando Benito Mussolini venne assassinato insieme a Claretta Petacci. Abbiamo già visto come l'epoca della morte sia da farsi risalire al mattino, e non al pomeriggio come all'epoca si tentò di far credere, e abbiamo anche visto come Alessiani abbia basato questa sua affermazione su dati scientifici fondati sui tempi (certi, è scienza) del rigor mortis. Vi sono poi altri elementi che mettono in discussione la versione data all'epoca: l'integrità, per esempio, degli indumenti che il Duce indossava a piazzale Loreto. Non vi sono fori nel cappotto, non vi sono sulla maglia intima né sui pantaloni. Inoltre lo stivale destro ha la cerniera rotta sin da prima dell'appendimento, "come se - dice la dottoressa Conti, collaboratrice di Luciano Garibaldi - già in preda alla rigidità cadaverica, lo avessero calzato a forza incontrando resistenza per una postura viziata del piede", appunto a causa della rigidità. Dunque le due deduzioni che scaturiscono inevitabilmente: uno, che Mussolini è morto prima del pomeriggio del 28 aprile (e Alessiani, sempre poggiando ciò che dice sulla scienza, individua il momento nella notte o all'alba del 28); due, che quando è morto era privo di indumenti. L'indagine continua quindi con l'esame dei nove colpi d'arma da fuoco che sull'autopsia sono verbalizzati come "colpi vitali". Per "colpi vitali" si intendono i colpi inferti quando il soggetto era in vita. La scienza è cosa esatta, e la medicina legale è infatti in grado di definire con precisione se un colpo è stato inferto in vita o post mortem. L'esame delle lesioni su un corpo dice tante cose, bisogna solo sapere come queste lesioni si interpretano, le regole sono certe, non siamo nell'ambito delle ipotesi. I nove colpi, così come sono ben visibili nelle molte foto di quelle ore, escludono la dinamica della fucilazione e fanno invece propendere per la dinamica della colluttazione. Si tratta di esaminare foro di entrata, foro di uscita e tramite, cioè il tragitto che il proiettile compie nel corpo. I colpi provengono da due armi diverse: nella foto che proponiamo al lettore (e che ci proviene dalla documentazione fornita da Alessiani a Luciano Garibaldi), si possono evidenziare i nove colpi "vitali", numerati: 1, 2, 3, 4 e 5 sono stati sparati da pistola, a distanza ravvicinata, presentano orletto escoriativo emorragico e affumicatura. La presenza dell'orletto escoriativo emorragico e della affumicatura lasciano comprendere senza ombra di dubbio che sono stati esplosi sul corpo privo di indumenti. Se infatti Mussolini avesse indossato un indumento, esso indumento avrebbe trattenuto l'affumicatura, che dunque non sarebbe presente sulla pelle. La lesione si presenterebbe diversa da quella che si può osservare sulle foto esaminate da Alessiani e che il lettore può facilmente reperire anche in rete. Noi abbiamo scelto di non pubblicare mai quelle immagini, esse sono destinate infatti ai libri e alle riviste specializzate: lì sono necessarie per la comprensione anche scientifica di come sono andate le cose, libri e riviste specializzate forniscono lo spazio necessario per un esame completo della vicenda, spazio che qui non abbiamo per ovvie ragioni di struttura. La decisione di non pubblicarle su questo organo di stampa (il lettore non trova infatti qui le immagini di piazzale Loreto), che è un quotidiano, deriva da una precisa scelta di rispetto per quelle persone orrendamente trucidate dopo morte in un piazzale di Milano. I colpi contrassegnati invece con i numeri 6, 7, 8 e 9 sono stati sparati da mitraglietta automatica, a distanza ravvicinata. Infatti se fossero stati sparati da una distanza maggiore sarebbero più distanti l'uno dall'altro, perché i proiettili sventagliando divaricano. Altri dati che possiamo rinvenire dai fori sono i seguenti: il tramite del foro 4 è verticale, dal basso verso l'alto, e uscendo ha sfondato la teca cranica; se si osservano le immagini di Mussolini sul tavolo autoptico si può vedere che anche se il corpo è stato lavato, presenta il "tatuaggio" tipico dei colpi a bruciapelo: parliamo del foro che abbiamo contrassegnato con il numero 5. Quando si presenta il "tatuaggio" significa che il colpo ha raggiunto il corpo senza elementi ostativi tra il proiettile e il corpo stesso, e a bruciapelo, appunto. In buona sostanza non vi erano ostacoli intercettanti, cioè il corpo era privo di vestiti. Viceversa, il foro numero 1 non presenta segno di affumicatura, nessun "tatuaggio": evidentemente indossava le mutande di flanella. E infatti osservando le foto di piazzale Loreto, queste mutande sono ben visibili nella parte in cui fuoriescono dai pantaloni, all'altezza della vita, e si presentano fortemente stropicciate, come se qualcuno avesse trascinato il corpo tirandolo proprio dalle mutande di flanella. Per oggi siamo costretti a fermarci qui, lo spazio a nostra disposizione è terminato. Ma domani proseguiremo nella nostra indagine, perché è giusto e sacrosanto che i lettori sappiano che c'è stato un uomo, che si chiamava Aldo Alessiani, che ha dedicato anni della sua vita alla ricerca di una verità evidentemente ancora scomoda, ma che deve emergere, che deve essere raccontata. Una verità basata non su ipotesi o fantasiose congetture ma su dati scientifici inequivocabili.
Aprile 1945, quei "medici da copertina" che fecero malissimo il loro lavoro, scrive Emma Moriconi il 12 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Un esame autoptico condotto pessimamente: fu incompetenza o malafede? Sorridenti in posa davanti ai fotografi: ma la medicina legale ha delle regole ben precise, che andavano rispettate. Riprendiamo il nostro speciale dedicato al lavoro del dott. Aldo Alessiani sulla morte di Benito Mussolini, e prima di tornare a quanto riferisce Praturlon sul nostro Giornale d'Italia dell'aprile 1988, ci sembra di interesse essenziale quanto dice Aldo Alessiani nel suo "Teorema" relativamente all'ormai noto verbale autoptico 7241, e innanzitutto bisogna dire che un verbale autoptico è un documento di importanza notevole, perché deve servire a determinare alcune cose, per esempio l'ora del decesso, le sue modalità, deve tentare di ricostruire la dinamica della morte, insomma serve proprio a chiarire, questo è il suo scopo. In secondo luogo poi può esserci un'indagine medico legale a più ampio raggio, che può anche esulare dalla fattispecie, ma detta fattispecie è sicuramente essenziale. Voglio dire: un'autopsia non si fa per semplice curiosità, o per dare spettacolo... e invece sembra proprio che quella effettuata in quel 30 di aprile del 1945 fosse più indirizzata a fare show che a scoprire le cause e le modalità di quella morte. O, forse, c'erano cose che non si sarebbero dovute proprio scoprire...Il lettore ragioni con me: ma è mai possibile che un esame autoptico sul corpo di Benito Mussolini, per l'importanza che il personaggio aveva, per il momento storico in cui ci si trovava, con tutto il clamore di carattere internazionale che vi ruotava attorno, si potesse condurre malamente? Quello che è accaduto in quella sala settoria in quella mattina di aprile è qualcosa di assolutamente scandaloso. Vediamo cosa dice Aldo Alessiani nel merito: "Il Medico Settore, allora aiuto del titolare dell'Istituto Universitario, descrive la salma del Mussolini come 'preparata' sul tavolo anatomico. L'occhio del profano scorrerebbe lo scritto senza soffermarvisi. [...] l'operatore-settore, prima dell'intervento, dovrebbe descrivere il cadavere così come gli si presenta, lordo, ignudo, vestito, scomposto; elementi preziosi potrebbero esistere in una muta narrazione di vicissitudini emergenti per tempi, luoghi, modalità, azioni, occasionalità, corrispondenze particolarmente esistenti o non con quel che si constaterà in fase settoria (artefatti simulanti o dissimulanti). Le gore ematiche appartengono a tale fase (manomissioni, spostamenti, posizioni); l'ho già detto. Non farlo ed agire su una salma già preparata vuol dire aver commesso una grave incompletezza per nulla giovevole ai fini della indagine più importante: la modalità della morte". Ciò di cui parla Alessiani è fondamentale. Parliamo di un "esame esterno" del cadavere, assolutamente necessario prima di procedere a quello "interno". "Esame esterno" che, però, non viene eseguito come si dovrebbe. Sotto la dicitura "ispezione esterna", infatti, vengono descritti i fori dei proiettili. Non una parola sulle gore ematiche. È l'abc della medicina legale. Tenterò di parlare al lettore in termini comprensibili anche per chi non abbia i rudimenti della medicina legale. Siccome non possiamo tutti sapere tutto, e siccome ritengo essenziale che chi legge debba essere messo in condizione di comprendere tutto ciò che scriviamo, è necessario esporre con chiarezza e semplicità quello che si vuole dire. Le "gore ematiche" sono tracce di sangue: il loro esame è essenziale e anzi esso deve essere effettuato prima di procedere a qualsiasi altra indagine. A maggior ragione nel caso di Mussolini (ma questo vale anche per la Petacci e per gli altri cadaveri di piazzale Loreto), il sangue ha fatto vari e complicati giri, post mortem... dopo l'omicidio, infatti, e fino all'arrivo a piazzale Loreto i corpi hanno subito numerosi (e ben strani) spostamenti, e poi a piazzale Loreto sappiamo bene che le posizioni dei detti corpi variarono notevolmente: distesi sul selciato prima, sollevati poi, quindi appesi a testa in giù, infine "disappesi", poi trasportati. Insomma non solo bisognava esaminare esternamente il corpo, bisognava farlo anche con estrema precisione e puntualità, a maggior ragione, ancora, se consideriamo che quei corpi vennero lavati con un idrante... e invece cosa troviamo scritto nel verbale 7241? Che la salma di Mussolini è "preparata sul tavolo anatomico"! Allora: piazzale Loreto fu un orrore devastante per la nostra storia e per l'essenza stessa dell'umanità. Fermo questo, che è del tutto evidente, passiamo oltre e andiamo a occuparci soltanto di quello che dovrebbe essere il dovere di un medico legale che si accinge a effettuare un esame su un corpo che arriva in obitorio per "morte violenta". La medicina legale ha delle regole ben precise, ciò che si fa senza ottemperare a quelle regole è per incompetenza, per malafede, per corruzione. Non vi sono alternative. Non sta a me dire quale di queste opzioni si sia verificata il 30 aprile del 1945, di certo sta a me e a tutte le persone di animo puro e innamorate della verità, presa visione del detto verbale, dire che quelle regole non vennero rispettate. E questo è di una gravità inaudita: perché qui non c'è la scusante della sommossa popolare, della folla incontrollata, dell'impossibilità fattiva di far fronte a una situazione di emergenza! Qui nella migliore delle ipotesi c'è colpa grave, nella peggiore c'è addirittura il dolo. I medici che quel giorno eseguirono quell'esame autoptico ebbero bene il tempo di mettersi in posa per farsi scattare interessanti fotografie, belli e sorridenti, felici - sembrerebbe - di essere testimoni di tanta parte della storia d'Italia. Ebbero bene il tempo di mettere fotografi e giornalisti a proprio agio per tentare di trovare l'inquadratura più macabra... dovreste vederli, sorridenti davanti al flash, su quelle foto che non pubblicheremo mai su questo quotidiano... ebbene sono passati settantuno anni da quell'orrore, oggi è giunto il momento che venga messa a nudo questa incompetenza, o questa malafede: i sorrisi davanti alle macchine fotografiche non possono e non debbono oscurare il fatto che fecero - quei "medici da copertina" - male, malissimo il loro lavoro. Come il lettore facilmente comprende, dobbiamo fermarci qui per oggi e darci appuntamento a martedì prossimo per proseguire con questa indagine, che sarà lunga ma necessaria. In fondo, non sarà nemmeno "troppo" lunga: se pensiamo che veniamo da sette decenni di bugie, cosa saranno mai dieci, venti, cento puntate su un quotidiano? ...
Il dossier Alessiani, l'esclusiva del Giornale d'Italia del 1988. Il nostro quotidiano, ventotto anni fa, pubblicava lo straordinario studio del medico legale che gettava una nuova luce sull'omicidio più discusso del Novecento, scrive Emma Moriconi il 10 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Grazie alla scienza, anche dopo tanti anni, tutte le menzogne possono essere sbugiardate. Proseguendo nel discorso avviato qualche giorno fa e per completare l'argomento di cui si parlava nell'edizione di ieri, tornando al tema del rigor mortis, ancora, l'autopsia sul corpo di Benito Mussolini viene eseguita alle 7,30 del mattino del 30 aprile: i corpi presentano - come dicevamo - un rilasciamento del rigor nella muscolatura del capo - che infatti deve essere sorretto, come si vede chiaramente nelle foto che hanno fatto il giro del mondo - e nelle braccia, che penzolano. Ecco che Alessiani dunque si chiede perché, nonostante l'evidenza, Cattabeni (relatore dell'autopsia sul corpo di Mussolini) dichiara in sede autoptica che la rigidità è ancora presente? E siccome venne impedita l'autopsia sul corpo della Petacci, sarà legittimo o no ipotizzare che qualcuno abbia "consigliato" Cattabeni di scrivere una cosa piuttosto che un'altra? Sarà legittimo o no porre qualche dubbio, basato su principi scientifici, su quel che accadde quel giorno, e sulle persone coinvolte? Anche perché, guarda caso, nel 1957 venne effettuata un'autopsia sul corpo della Petacci - e naturalmente molti dati che nell'immediatezza sarebbero potuti emergere sono perduti per sempre (del resto, era quello che volevano, no?) - e sul suo corpo vennero rinvenuti due proiettili calibro 9: una Colt calibro 9, un'arma che i "giustizieri" di Dongo non possedevano ma che - guarda caso - era in possesso degli ufficiali britannici. Andiamo ora a raccontare ai nostri lettori come questo quotidiano, nell'edizione del 24 aprile 1988, pubblicava - a cura di Ezio Praturlon - in esclusiva la testimonianza scientifica di Aldo Alessiani, che titolava "Mussolini fu ucciso a letto", nell'occhiello: "Nuova luce sull' 'esecuzione' del capo del fascismo" e nel sommario: "Destatosi davanti alle armi puntate, lottò con l'uomo che stava per ucciderlo: raggiunto da alcuni colpi periferici che lo indebolirono, fu poi finito con due colpi di pistola al petto e sotto il mento. Il dottor Aldo Alessiani, medico legale della magistratura romana, attraverso i documenti ufficiali è riuscito a ricostruire minuto per minuto, quasi gesto per gesto, gli eventi di quel 28 aprile di quarantatre anni fa". E poi il pezzo, del quale riportiamo qualche stralcio: "Mussolini fu ucciso all'alba del 28 aprile 1945, almeno dieci ore prima dell'ora 'ufficiale' della sua 'esecuzione'. La sua morte non avvenne a seguito di una più o meno regolare fucilazione dove il capo del fascismo e Claretta Petacci sarebbero stati appoggiati ad un muretto; Mussolini morì invece sdraiato, probabilmente sul letto dove aveva trascorso la sua ultima notte nel casale De Maria, lottando efficacemente con l'uomo che era entrato in quella camera sul finire della notte per eliminarlo senza tante formalità. Claretta Petacci fu probabilmente uccisa perché tentò forse di aiutarlo in quella lotta mortale. Tutto questo è il frutto di una ricostruzione storico-scientifica dovuta ad un medico legale romano, Aldo Alessiani. Per rivedere quei fatti, facciamo un salto indietro nel tempo. 28 aprile 1945. Sono passate da poco le sedici quando un gruppetto di persone scende lungo la strada che attraversa l'abitato di Bonzanigo. Al centro un uomo ed una donna: lui ha un cappello in testa e si stringe a lei. 'Mussolini e la Petacci', si dirà poi. Intorno a loro pochi uomini armati. Il gruppo viene da un grande casolare dove Mussolini e la giovane donna hanno trascorso la loro ultima notte. Scendono lungo la strada e scompaiono presto alla vista degli abitanti. Giunti a Giulino di Mezzegra, il gruppo si ferma: Mussolini e la Petacci vengono spinti verso un muretto accanto al cancello di una villa. L'uomo prescelto per eseguire la sentenza di morte emessa dal Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia comunica al capo del fascismo la sua condanna e invita la Petacci ad allontanarsi; ma lei rifiuta e si stringe anzi all'uomo del quale vuole condividere la morte, dopo averne in parte diviso la vita. A quel punto il 'giustiziere spara': anche in paese si sentono distintamente quattro raffiche di mitra. I proiettili raggiungono lui e lei al petto, come accade in una esecuzione in piena regola. I corpi senza vita cadono al suolo; vengono poi raccolti e portati a Milano dove vengono gettati sopra ai cadaveri dei quindici gerarchi fucilati a Dongo e portati in piazzale Loreto per pareggiare il conto con i quindici partigiani che, proprio in quella piazza, erano stati fucilati dagli uomini della legione 'Ettore Muti'. Anche il corpo di Marcello Petacci, fratello di Claretta, si aggiunge al funereo mucchio. Più tardi verrà condotto sul posto Achille Starace, ex segretario del Pnf, che farà il suo ultimo saluto romano verso Mussolini prima di venire fucilato. [...] Questa è la versione finora accreditata sulle circostanze della morte di Mussolini e di Claretta Petacci. Quale esecutore fu indicato (e se ne assunse pubblicamente la responsabilità) il 'colonnello Valerio', partigiano divenuto poi parlamentare del Pci con il suo vero nome: Walter Audisio. Ma qualche anno fa alcuni dubbi vennero sollevati sulla vicenda, e in particolare sul nome del 'giustiziere': non sarebbe stato Audisio, si disse, ma Luigi Longo, a quell'epoca uno dei cinque capi del ClnAI, ed in seguito segretario generale del Pci, prima di lasciare il posto a Berlinguer. Tutto questo è falso. A quarantatre anni di distanza da quel girono, mentre i protagonisti di quell'episodio sono tutti morti (non solo Mussolini e la Petacci, ma anche Longo, Audisio e i partigiani 'Gianna' e 'Neri' che 'recitarono' la parte dei due condannati che attraversarono il paese), uno studioso ha ricostruito in maniera dettagliata e scientificamente inoppugnabile la reale sequenza dei fatti che con pazienza da certosino e con intuito da Nero Wolfe, il dottor Aldo Alessiani, medico-legale della magistratura romana, ha elaborato in lunghi anni attraverso la consultazione di tutto il materiale esistente: dal referto dell'autopsia di Mussolini a tutte le fotografie eseguite in quei giorni, ed a tutto quanto è stato scritto sull'episodio. Il risultato, come si è detto, è inoppugnabile ed in sintesi è questo: Mussolini non fu ucciso nel posto indicato, né nell'ora indicata, né dalle persone indicate. Mussolini morì invece mentre ancora si trovava sul letto in una stanza del casolare dove era tenuto prigioniero, verso le cinque e trenta del mattino del ventotto aprile; morì lottando con l'uomo che si era recato ad ucciderlo, e che non poteva essere né Audisio né Longo, che a quell'ora ancora non erano arrivati sul posto. Impossibile dire chi fu realmente l'esecutore: su questo punto sono possibili soltanto due ipotesi". E, con rammarico, per oggi ci fermiamo qui. Del resto quando si trattano questioni così complesse lo spazio di cui necessiteremmo non può certo essere rinchiuso in una sola pagina. Ci torneremo quindi domani, e poi dopodomani, e eventualmente ancora il giorno successivo, finché non avremo esposto al lettore tutti i preziosi elementi in nostro possesso, che ci derivano dagli approfonditi studi di Aldo Alessiani.
La morte del Duce, la scienza può aiutarci a capire la verità. Prosegue il nostro esame del "Teorema Alessiani", scrive Emma Moriconi il 15 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". L'articolo di Cattabeni su "Clinica Nuova" dell'agosto 1945 e le contraddizioni di un'indagine priva di metodo. Restiamo ancora sul lavoro di Aldo Alessiani relativo alle sue indagini sulla morte di Benito Mussolini. Troppe sono le cose che non vanno e che non tornano quanto a come venne gestita la faccenda nell'aprile del 1945: il lettore dovrà, qualora non ne fosse a conoscenza, anche sapere che nella rivista "Clinica nuova" del 15 luglio - 1 agosto 1945 il professor Mario Cattabeni scrisse un articolo dal titolo "Rendiconto di una necroscopia d'eccezione" nel quale dice che prende la parola sul caso "autopsia di Mussolini" perché "la notizia che presso l'Istituto di Medicina Legale [...] è stato possibile condurre un'indagine anatomopatologica e medico-legale sulla salma di Benito Mussolini ha destato vivissima curiosità oltre che nel mondo medico, tra i profani", curiosità dettata - dice il medico - dal fatto che ci si aspettava che essa indagine chiarisse gli aspetti relativi alla morte ma anche quelli relativi alla complessa personalità del Duce. Ammette che l'autopsia è stata condotta in condizioni di eccezionalità: "poco tempo prima di una affrettata inumazione - dice -, in una sala anatomica dove facevano irruzione ogni tanto, per l'assenza di un servizio armato d'ordine pubblico, giornalisti, partigiani e popolo". Dice poi che "non è stata una indagine di tipo antropologico giudicata irrilevante, ma, più propriamente, un riscontro medico-legale e diagnostico diretto a cerziorare, per ogni eventualità, le modalità lesive pre- e post-mortali, reperti anatomopatologici riferibili a stati morbosi pregressi o in atto, con particolare riguardo al sistema nervoso, ed eventuali contrassegni per una sicura identificazione". Dice anche che "è stato redatto un verbale specialmente dettagliato per quanto riguarda le lesioni di tipo pre- e post-mortale, rilevabili all'esame esterno ed alla dissezione": abbiamo visto nelle precedenti puntate di questo speciale come questo invece non sia avvenuto e viene da chiedersi perché il medico ci tenga tanto a fare questa precisazione nell'estate del 1945, su una rivista specializzata, incastrando un articolo in una miscellanea di articoli di clinica chirurgica. Se lo chiedeva anche il buon Aldo Alessiani nel suo "Teorema": "[...] il Medico settore - scrisse Alessiani - volle rincalzare che l'autopsia era stata più che bastevole per testimoniare l'esecuzione avvenuta e narrata nella conferma delle rivelazioni fatte a pubblico dominio. In altri termini una puntualizzazione non essendosi inizialmente espresso in un supporto tecnico confermante". Ci sono poi alcune cose che suscitano quantomeno qualche perplessità in termini umani oltre che di diritto. Al termine dell'articolo Cattabeni dice: "Ho ritenuto opportuno fissare senza alcun commento questi appunti essenziali [...] per soddisfare un legittimo senso di curiosità umana e professionale nel pubblico medico, che più di ogni altro aveva diritto di esserne informato". No. Chi aveva "più di ogni altro" diritto di esserne informato era semmai la sua famiglia, sua moglie, i suoi figli. E invece Rachele seppe tutto dai giornali, il lettore può immaginare con quale "delicatezza". Annota ancora Alessiani come Cattabeni sorvola, nell'articolo, sull'ora dell'esecuzione, "così come aveva fatto quattro mesi prima omettendo l'ora d'inizio dell'autopsia nel preambolo tecnico del verbale 7241". Un’altra cosa che proprio non si riesce a capire, e che infatti Alessaini sottolinea, è perché nel Verbale 7241 non c'è alcun riferimento alle ipostasi presenti sul corpo. Le ipostasi sono "macchie da stasi colorativa", per essere chiari e far capire a chi legge di cosa parliamo sarà utile spiegare brevemente di quale fenomeno parliamo. Si tratta di macchie di colore violacee, bluastre o color vinaccio, livifo, che si formano sulla cute o anche sugli organi interni: in base all'esame di esse si può addivenire a scoprire l'ora del decesso perché esse, con il trascorrere delle ore, modificano il loro aspetto. Non solo: in base al loro esame si possono capire le posizioni che il corpo ha assunto dopo il decesso. Si formano perche il sangue cadaverico, non essendo più in circolo, va a depositarsi nelle zone declivi del corpo. Spiegare il fenomeno ipostatico in maniera approfondita ci prenderebbe troppo spazio, ma già da queste poche (ma essenziali) informazioni il lettore può rendersi agevolmente conto dell'importanza di questo tipo di esame per la determinazione delle dinamiche della morte e delle vicende del cadavere dopo la morte. Ebbene questo è un altro dato che nell'autopsia in oggetto manca del tutto. Così argomenta la cosa Alessiani: "Si poteva fare un accenno, per una migliore puntualizzazione alle macchie da stasi colorativa (ipostasi) altro fenomeno consecutivo che bella loro fissità belle parti corporee a contatto con le superfici corporee dovevano pur esserci e stabili dopo la quindicesima ora dal decesso. Non apprezzamento nel merito". Così oggi abbiamo aggiunto altri elementi di cognizione a quelli già espressi nei giorni scorsi. C'è però ancora molto da dire, e il lettore avrà la pazienza - ci auguriamo - di seguirci nei prossimi giorni ancora, per avere in tal modo tutte le informazioni utili per comprendere la ragione della nostra insistenza su un'indagine essenziale, che la storia e - ahimè - la scienza non hanno sinora tenuta nella debita considerazione.
I fori di proiettile e quello che non torna nella "vulgata" sulla morte del Duce, scrive Emma Moriconi il 16 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Il "Teorema Alessiani", un'indagine troppo a lungo trascurata. La dinamica raccontata non può essere quella vera: ecco le prove scientifiche che dimostrano decenni di menzogne. "Mettiamoci nei panni del Medico Settore: se avesse denunciato l'effettivo orario delle 7,30 (alias 6,30), la seppure iniziale risoluzione della mandibola avrebbe condotto ad un calcolo retrogrado di 48 ore di rigor più, quanto meno, un'altra ora per il rilasciamento: totale 49. Il decesso (già lo dissi) si riconduce alle 6,30 (5,30 ora legale); ecco perché sorvola sul trattar dell'ora della morte anche nella monografia illustrata dell'agosto '45. Resta tuttavia una carenza non veniale per un medico-legale il non esprimersi sull'ora del decesso quantunque presuntiva; volerne giustificare l'omissione diventa tentativo non onesto di facilissima identificazione intenzionale". È ancora uno stralcio dal "Teorema Alessiani" che chiarisce come è tecnicamente, scientificamente impossibile far risalire la morte del Duce al pomeriggio del 28 aprile 1945. E poi c'è la malafede, perché non viene formulata dal medico che effettuò l'autopsia alcuna ipotesi sull'ora presunta della morte, il che non può e non deve succedere. E poi: se di esecuzione capitale si trattasse, noi avremmo sul corpo i fori dei proiettili in linea più o meno retta sul torace, con colui che spara posizionato di fronte a colui che viene ucciso. Il tramite dei proiettili attraverso il corpo avrebbe una direzione più o meno lineare. E invece i proiettili fanno invero strani movimenti. Naturalmente in questo caso parliamo di quelli esplosi contro di lui quando Mussolini era in vita, esulano dunque da questo esame quelli esplosi contro il suo corpo già morto, a piazzale Loreto per esempio, quando vennero esplosi colpi persino sui cadaveri. Cerchiamo di superare l'orrore che questa scena suscita, ci dobbiamo sforzare di essere lucidi e di non farci prendere dall'emotività, che pure sarebbe comprensibile. Ragioniamo dunque solo in termini scientifici. Vediamo. I colpi in questione sono nove. Il lettore stia bene attento a come si trovano posizionati sul corpo del Duce. Un colpo ha il foro di entrata sul fianco destro, "fuoriesce - dice Alessiani - dalla parte supero-esterna del gluteo omolaterale, in modo tangenziale assumendo su sagoma umana verticale, un angolo di 45 gradi". Un altro colpo possiamo vederlo sul margine esterno dell'avambraccio destro, angolazione minima. Il terzo è all'altezza della clavicola destra, sopra, nella parte carnosa che si trova proprio sopra la clavicola: "180 gradi - precisa Alessiani - su sagoma eretta". Un quarto foro lo troviamo sotto il mento, parte destra: la sua direttrice è dal basso verso l'alto; il proiettile non uscì, dunque non vi è foro di uscita rimanendo la pallottola all'interno del cranio: "Novanta gradi perfetti su sagoma eretta", precisa Alessiani. Il quinto colpo è in entrata sul margine destro dello sterno, all'altezza del secondo spazio intercostale, con percorso obliquo e foro di uscita sul dorso, "45 gradi sul piano intra-toracico". È questo il proiettile che ruppe l'aorta. Ancora, all'altezza della spalla sinistra si possono notare quattro colpi d'arma da fuoco piuttosto ravvicinati: Alessiani ne riproduce, sui suoi disegni, una distanza più regolare di quanto appaia in realtà sulle foto. Questa imprecisione tuttavia non diminuisce di un millimetro la valenza dell'esame che il medico ne fornisce. Alessiani dice che il disegno che ne risulta ricorda "un quattro di quadri coricato", i realtà i quattro fori non sono a distanza così precisa tra loro, in ogni caso parliamo di quattro fori di entrata ai quali corrispondono i quattro di uscita sul dorso abbastanza in linea. Nove fori, nove colpi inferti in vita. Posizionati in maniera disparata l'uno dall'altro salvo per i quattro alla clavicola. Un'esecuzione prevede una dinamica del tutto diversa da quella prospettata dall'esame qui riferito. Alessiani parla di "polispazialità per angolazioni che testimoniano una chiarissima polispazialità per angolazioni da inclinazioni diverse per armi sparanti come se il bersaglio fosse estremamente mobile in tempi successivi brevissimi". E poi c'è quel colpo sotto il mento. Se il bersaglio fosse in piedi di fronte a chi spara, se fossimo di fronte a una "esecuzione", come potrebbe andare, un proiettile, a colpire la parte sottostante del mento? Vediamo ancora Alessiani: "Il colpo sotto il mento, in piena verticalità di tramite, esclude il bersaglio all'impiedi, quello al fianco, che simula addirittura un colpo sparato dall'alto, una orizzontalità dell'arma. La soluzione è quella di una colluttazione con tentativo di disarmo del soccombente, iniziale". Il medico si dilunga poi in tecnicismi che, per quanto utili, è impossibile dettagliare qui. Diremo dunque, sintetizzando, che ricostruisce una dinamica di colluttazione, di contrasto, che - come abbiamo sommariamente visto fin qui - ben spiegherebbe i fori di cui abbiamo parlato. Di certo è del tutto da escludere, in ogni caso, la possibilità di una "esecuzione" così come ce l'hanno propinata per decenni. I proiettili inoltre, lo abbiamo accennato in una precedente puntata di questo speciale, non sono tutti appartenenti alla stessa arma. I quattro colpi alla clavicola vennero sparati da una mitraglietta, al contrario degli altri esplosi invece da una pistola. Dice Alessiani che essi "sono senz'altro di raffica a bruciapelo" e aggiunge: "è caratteristica delle mitragliette la distanzialità dei loro effetti già nel modesto allontanarsi del bersaglio. Potrebbero essere stati esplosi da persona intervenuta a dar manforte allo sparatore di pistla e che per non colpirlo ha indirizzato la raffica sulla spalla sinistra del soccombente, unica regione di questi, ancora scoperta durante la colluttazione oppure per altre contingenze che fanno presupporre nella fattispecie la presenza e l'intervento di una quarta persona (C. Petacci), ragione volontaria o involontaria deviante l'arma in eccentricità". È chiaro che - e lo dice lo stesso Alessiani - quanto a ciò che accadde e alle esatte modalità della colluttazione, siamo nel campo delle possibilità/probabilità. Ma sulle vicende sopra esposte si è nell'ambito dell'analisi scientifica, e non si può sostenere il contrario di ciò che dicono le prove. Contraddizioni e bugie, esami condotti male e resoconti superficiali: per rendere ancora più difficile la ricerca della verità. E anche le foto dell'epoca raccontano un'altra storia. Gli abiti intatti, il mancato esame della salma prima della preparazione sul tavolo settorio: troppe stranezze aleggiano su quel giorno di aprile. "Fermarsi solo sull'apprezzamento della polispazialità dei colpi d'arma da fuoco inferti al Mussolini e dunque non conformi a una esecuzione capitale è ingiusto verso di me e quest'opera; andiamo dunque ad indagare altre componenti dimostrative; le più importanti". Al fine di rendere più precisamente possibile al lettore i contenuti della sua indagine, Alessiani riferisce anche elementi utili circa la polvere da sparo, facendo anche le opportune distinzioni del caso tra vari tipi di polveri. Qui dobbiamo accelerare, però, e dunque siamo costretti, almeno per ora, a sorvolare anche su quanto riferisce Alessiani riguardo a Claretta Petacci, sul corpo della quale come sappiamo non venne effettuato alcun esame nell'aprile del 1945. Ne parleremo nella prossima puntata. Stringendo, Alessiani ripercorre le vicende dei corpi basandosi sulle foto successive alla morte, dunque quelle di piazzale Loreto e poi dell'obitorio, rilevando - come abbiamo avuto modo di dire - che gli abiti di Mussolini sono intatti, non presentano fori, e che dunque probabilmente è stato rivestito dopo la morte. Il lettore ricorderà la faccenda dello stivale rotto, probabilmente calzato a forza con il rigor già in corso. Ne parlammo anche quando trattammo l'eloquente lavoro di indagine di Giorgio Pisanò, nell'aprile del 2014. Così come abbiamo già riferito circa il "tatuaggio" prodotto dalla polvere da sparo sul corpo in caso di esplosione ravvicinata. A questo proposito, Alessiani nel prosieguo del suo lavoro spiega con precisione e in maniera estremamente tecnica il comportamento dell'alone escoriativo emorragico, dell'ustione, del tatuaggio, dell'affumicatura e così via, cosa non riproponibile qui non avendo a disposizione lo spazio di un manuale di medicina legale. Possiamo però riferire come ancora una volta il medico torna su un tema essenziale, denunciando che "non esiste la descrizione dello status del cadavere quale ispezione pre-autoptica, che avrebbe dovuto descrivere anche i vestimenti nelle loro alterazioni tissutali". Ne abbiamo già parlato, una faccenda gravissima. Nella prossima puntata di questo speciale tenteremo di chiudere - almeno per il momento, ma questa storia è talmente brutta e complicata che difficilmente si riuscirà mai a metterci la parola fine - questo speciale sul lavoro di Aldo Alessiani e andremo a vedere anche le deduzioni del medico sulla vicenda della Petacci. Poi esamineremo altri documenti, renderemo ancora altre testimonianze, faremo altre considerazioni. La verità esatta di come andarono le cose in quel giorno del 28 aprile del 1945 forse non sapremo mai, troppe le contraddizioni, spesso forse orchestrate proprio per confondere le acque e rendere sempre più difficile la ricerca della verità. Ma almeno sapremo come di sicuro non può essere andata.
Scienza e testimonianze, alla ricerca della verità, scrive Emma Moriconi il 18 marzo 2016 su "Il Giornale D'Italia". Prosegue il nostro speciale sul Teorema Alessiani. Gli abiti di Mussolini erano integri, i proiettili furono esplosi a bruciapelo: le troppe menzogne sulla morte del Duce, che vanno sbugiardate. Abbiamo esaminato nei giorni scorsi il lavoro del dottor Aldo Alessiani sui documenti relativi alla morte di Benito Mussolini e abbiamo visto come il coscienzioso medico riesca, basandosi su prove scientifiche, a dimostrare che la morte del Duce non può essere avvenuta nel pomeriggio del 28 aprile come si è tentato di far credere (tentando di avvalorare la cosa persino con un lungometraggio uscito negli anni Settanta, quando qualche curioso cominciava a farsi qualche domanda), ma molte ore prima. Abbiamo tentato di spiegare il tutto ai nostri lettori evitando tecnicismi che avrebbero probabilmente reso la comprensione più difficile, e sempre allo stesso fine proseguiamo oggi il nostro esame e andiamo a vedere, cercando di tirare le somme, come sia del tutto evidente - oltre a quanto abbiamo spiegato finora - che se l'alone di affumicatura del colpo sparato si può rintracciare sulla cute, essa doveva essere in quel momento priva di indumenti. Se gli indumenti fossero stati presenti, infatti, avrebbero intercettato l'alone, che sulla cute dunque non sarebbe visibile. In sede autoptica, infatti, manca un esame sia degli abiti che Mussolini indossava a piazzale Loreto (ricordate? La salma era stata "preparata" sul tavolo anatomico) sia della stessa cute: non vi è parola circa l'aspetto della cute in prossimità dei fori di proiettile. Abbiamo anche visto come Alessiani, esaminando le foto di piazzale Loreto e dei corpi in obitorio, rilevi l'integrità degli indumenti indossati dal Duce: non un foro di proiettile appare sul cappotto, né sulla camicia, né sulla maglia. Mussolini insomma non aveva abiti indosso quando venne ucciso, gli indumenti (integri) sono dunque stati messi sul corpo dopo la morte e il fatto che uno stivale sia lacerato fa propendere per una vestizione a rigor iniziato (anche il buon Pisanò arrivò a questa deduzione, il lettore ricorderà il nostro speciale di due anni fa sul tema). Andiamo ora a vedere cosa scriveva Il Giornale d'Italia nell'esclusiva già citata dell'aprile 1988. I documenti su cui il collega Ezio Praturlon sono gli stessi di cui disponiamo noi oggi, ma lui ebbe l'occasione di parlare direttamente con Alessiani, dunque può essere interessante riferirne al lettore. Era il 26 aprile, e il nostro quotidiano titolava: "Gli abiti di Mussolini non avevano fori di proiettili", e nel sommario scriveva: "Anche le foto parlano per chi sa interpretarle: e quelle dei giorni 28-30 aprile 1945 dicono che Mussolini fu raggiunto dai colpi mortali mentre era spogliato, verosimilmente a letto. La morte di Claretta non è ricostruibile perché non fu fatta l'autopsia, ma si può ipotizzare realisticamente. Il grande interrogativo che dura ancora". Già, il "grande interrogativo" che nel 1988 durava ancora e che oggi, quasi trent'anni dopo le indagini di Alessiani, non arriva ancora ad essere svelato. A questo proposito vale la pena di sottolineare come, nel tempo, si sia parlato di "scoop" derivanti da testimonianze di vario genere, più o meno affidabili, più o meno credibili, più o meno intellettualmente oneste. Il problema quando si indaga su un cosiddetto "cold case", è che moltissime prove sono ormai deteriorate, inservibili, o addirittura evidentemente svanite. Quanto alle testimonianze, bisognerebbe aprire un capitolo a parte per spiegare quanto esse siano suscettibili di una lunghissima serie di variabili. È tema prettamente criminologico, e questo è un altro campo sul quale ragionare che ci prenderebbe molto spazio qualora volessimo rendere un servizio preciso a chi legge. Ma questo non è un manuale di criminologia, dunque nostro malgrado anche qui dovremo operare di sintesi. Nelle testimonianze influiscono vari fattori: l'attendibilità del testimone, prima di tutto, che varia a seconda di una lunga serie di circostanze afferenti principalmente - per quanto ci interessa in questa sede - al tempo trascorso, alle condizioni emotive/ambientali/sociali del testimone nel momento in cui i fatti vengono da lui recepiti, la buona o mala fede. Il tema non si esaurisce certo in queste variabili, ma esse sono certamente da tenere in considerazione per quanto attiene al nostro tema odierno. Ed ecco perché, invece, il lavoro di Alessiani è estremamente interessante: proprio perché non sottostà a queste variabili, essendo piuttosto basato interamente su prove scientifiche. Ecco perché ritengo (e insisto) che certe indagini siano più affidabili di altre. Ciononostante, non possiamo certo snobbare le testimonianze, e ci mancherebbe altro. Dico solo che è necessario esaminarle tenendo ben presente che sono soggiogate alle variabili di cui parlavamo prima. Torniamo dunque, con queste premesse, all'articolo del nostro quotidiano di quell'aprile del 1988, che dice: "Sulla sorte di 'Neri' (Luigi Canali) e 'Gianna' (Giuseppina Tuissi) sono già state pubblicate varie cose, ma la ricostruzione più attenta e particolareggiata appare quella dello storico Franco Bandini; il quale, del resto, ha anche fatto una ricostruzione quanto mai dettagliata di tutto il contorno della esecuzione di Mussolini, ivi compreso il fatto che non fu certamente fucilato né nel luogo né all'ora indicati dalla versione ufficiale. Proprio a lui si deve la scoperta, tra l'altro, di un'importante testimonianza, quella di Angelo De Angelis che aiutò a caricare su un camion i corpi di Mussolini e della Petacci raccogliendoli davanti al cancello della finta esecuzione; De Angelis si accorse del fatto che inspiegabilmente i due corpi erano già in stato di rigidità cadaverica, benché fossero trascorsi solo pochi minuti dall'asserita fucilazione, e che per terra non c'erano tracce di sangue". Se Mussolini e la Petacci fossero stati uccisi in casa, si spiegherebbe anche perché il fotografo di Mezzegra venne tenuto fuori per giorni. Lo storico e il medico legale, lavorare insieme per porre dei punti fermi. Perciò Luciano Garibaldi si affidò alla collaborazione della dottoressa Conti: una squadra di professionisti al servizio della Storia. "In realtà - continua Praturlon -, come affermano sia Franco Bandini che Aldo Alessiani, i due erano già morti da alcune ore, e questo spiega la rigidità cadaverica che giustamente sorprese il testimone. Ma Bandini colloca la morte di Mussolini verso mezzogiorno, mentre come abbiamo visto, e come si cercherà di provare su base scientifica, Alessiani la colloca intorno alle 5,30, sempre del 28 aprile. Su un altro punto coincidono le due ricostruzioni - quella dello storico e quella del medico legale - ed è sull'ora dell'autopsia: all'incirca le 7 del mattino del 30 aprile. Ma lo storico, pur avendo fatto un accuratissimo lavoro di ricerca e di ricostruzione di tutte le vicende ed i personaggi di quelle giornate, comprensibilmente non seppe 'leggere' (inteso in chiave scientifica) il referto dell'autopsia. Perché una volta chiarito che l'autopsia iniziò verso le sette del mattino del 30 aprile, e che dal referto si apprende che il 'rigor mortis' iniziava a scomparire (il collo ed il mento avevano iniziato a rilasciarsi) non si poteva che giungere a una conclusione: Mussolini era morto nelle primissime ore del giorno 28. La rigidità cadaverica dura infatti, come minimo, quarantotto ore: essendo già iniziato il rilasciamento, la morte non poteva che risalire alle primissime ore del 28". Questo passo dell'articolo di Praturlon la dice lunga sull'importanza, per lo storico, di affidarsi in determinate circostanze al lavoro di altri professionisti: in questo caso di un medico legale, o quantomeno di un medico. Ed è per questo che Luciano Garibaldi, quando si trovò tra le mani il lavoro immenso di Alessiani, lo esaminò insieme alla dottoressa Conti. Uno storico e un medico, insieme, al lavoro su uno dei casi più intricati della nostra storia: è il metodo giusto per arrivare a conclusioni certe. Non si saprà mai tutto, ne siamo consapevoli, ma alcuni punti fermi si possono porre, e questo è già un passo in avanti verso la verità. Andiamo avanti con il pezzo di Praturlon: "Abbiamo già rilevato che i colpi, per la loro diversa e singolare angolatura, si spiegano soltanto con una colluttazione in posizione orizzontale (sul letto o sul pavimento). Ma risalendo all'ora della morte si giunge alla conclusione che Mussolini e Claretta a quell'ora antelucana stavano riposando, e perciò erano almeno in parte spogliati. Non disponendo di pigiami o altri indumenti notturni, si erano quanto meno 'alleggeriti': probabilmente Claretta era in sottoveste e Mussolini era in maglietta e mutande. Troppo tardi, quando già era cominciato il rigor mortis, qualcuno pensò che non si poteva far passare per una regolare 'esecuzione' l'uccisione di due persone se i corpi fossero apparsi spogliati. Ed allora cominciò un nuovo capitolo di quel 28 aprile". Mi fermerei per ora qui, e darei appuntamento al lettore alla prossima puntata, non prima però di rilevare ancora una cosa che mi sembra rilevante. Ricordate cosa ci disse don Luigi Barindelli, parroco di Mezzegra, l'anno scorso? Ci riferì la testimonianza del fotografo del posto che cercò di entrare in casa De Maria dopo aver saputo che Mussolini e la Petacci erano stati uccisi, ma che non lo fecero entrare se non dopo alcuni giorni. Il buon Sacerdote si chiedeva perché? E ipotizzava che quei giorni erano serviti per ripulire, sistemare, realizzare quella "scenografia" che poi finì sulle "cartoline ricordo", macabro souvenir di quelle terre in riva al lago. Le testimonianze, dicevamo, vanno prese "con le molle", mentre la scienza non si può discutere. Qui abbiamo un caso particolare: la scienza (che non si può discutere) arriva a certe determinazioni che vengono suffragate da certe testimonianze. Non si può non tenerne conto.
Resoconto dall'obitorio. Concludiamo il nostro speciale sul documento di Bruno Romani, scrive Emma Moriconi il 4 aprile 2016 su "Il Giornale D'Italia". "Bisognava fare tutto da soli: rimuovere i corpi, scoprire alla luce i volti, scrivere su dei lembi di carta i nomi, le generalità, gli indirizzi". Riprendiamo tra le mani il resoconto di Bruno Romani, e chiudiamo finalmente questa sequela di speciali dedicati alle pagine più buie della nostra storia. Siamo ancora all'obitorio di Milano, è il 30 aprile del 1945. Il cronista a seguire racconta ancora di come parenti, amici o semplici curiosi si aggirassero tra quei corpi impacciati nel tentativo di non calpestarli, alla ricerca dei propri cari. "Ed ogni volta che uno di essi veniva riconosciuto, si verificavano le stesse scene: si levavano striduli lamenti, preghiere recitate ad alta voce, ed anche imprecazioni e maledizioni. Bisognava fare tutto da soli - documenta ancora Romani -: rimuovere i corpi, scoprire alla luce i volti, scrivere su dei lembi di carta i nomi, le generalità, gli indirizzi. Perché, di custodi e becchini neppure l'ombra". Anche Romani e i suoi cercano: cercano di riconoscere, nel mucchio, i volti di Mussolini, di Claretta e dei gerarchi. "'Guarda' disse Gino indicando col dito un morto che portava una benda nera su di un occhio 'Questo è Barracu. E questo qui accanto è Alessandro Pavolini'. Erano entrambi facilmente riconoscibili. I loro volti ed i loro corpi erano ancora intatti". Questo passaggio è in nettissima contraddizione con quanto riferisce l'estratto pubblicato su Risorgimento Liberale, che invece dice: "I corpi sono distesi a terra. In un corridoio giacciono molti cadaveri allineati. Apre la fila Pavolini, quasi irriconoscibile; a torso nudo, indossa i pantaloni cachi e gli stivaloni neri". Quale delle due versioni è dunque quella corrispondente ai fatti? Pavolini era "facilmente riconoscibile" come dice nella versione integrale del resoconto, o "quasi irriconoscibile", come dice Risorgimento Liberale? Prosegue poi riferendo l'atmosfera del luogo: insieme ai suoi collaboratori Romani sale al primo piano dove è in corso l'autopsia sul corpo del Duce. Racconta di una stanza "gremita di medici, di ufficiali americani, di fotografi", alcuni di questi ultimi cercano di posizionarsi in modo da scattare foto "buone" e quindi "si erano arrampicati sugli alti davanzali delle finestre". Quindi spiega che l'esame autoptico si è appena concluso, un medico militare americano ricuce il cranio. Oltre che per il normale esame dell'encefalo, infatti, c'è stata anche l'asportazione di un pezzetto di materia cerebrale richiesta dagli Americani al fine di condurvi esami approfonditi in patria. Quel pezzetto di cervello, dopo l'esame, verrà dimenticato in qualche angolo e verrà restituito a Donna Rachele molti anni più tardi, dentro un pezzetto di cellophane, a sua volta rinchiuso dentro una busta da lettere. Per tornare a quel giorno in obitorio, Romani riferisce che "il chirurgo, prima di ricucire la ferita, aveva riempito il vuoto con stracci e segatura [...] ad ogni movimento - aggiunge -, ad ogni urto, il testone ballonzolava come una maschera del carnevale di Nizza". Questo è uno di quei casi che possono far rabbrividire, ma si tratta di una prassi diffusa. Cioè, quando gli organi devono essere esaminati, essi vengono asportati e al loro posto vengono posizionati materiali di riempimento. È triste, può suscitare orrore, ma è così. Resta il dato - scientifico - che se la testa "ballonzolava", il rigor doveva essere cessato. Il che dimostra che le deduzioni di Mario Alessiani circa l'epoca della morte (che il professore collocava al mattino del 28 aprile, e non certo alle 16,30 del pomeriggio come era andato raccontando Audisio e come poi la "vulgata" tentò di asseverare) erano corrette e che la fucilazione davanti al cancello di Villa Belmonte a Giulino di Mezzegra era solo una messinscena. Riferisce ancora Romani che l'aspetto del cadavere era marmoreo, e spiega che non si era formata alcuna macchia di sangue sul tavolo né la segatura sparsa a terra ne era impregnata, e attribuisce questo dato alla notevole dispersione di sangue avvenuta a piazzale Loreto. Dopo la ricucitura del cranio, Romani riferisce di un omino (un antropologo) che con un metro arrotolato in mano comincia a misurare tutte le parti del corpo di Mussolini. L'uomo spiega che è sua intenzione ricostruire la personalità del Duce attraverso i suoi dati antropometrici. Riferisce di averli trovati del tutto "normali", come "normali" erano stati i dati rilevati dall'autopsia. Nessuna malattia, nessuna traccia di malattie veneree, nessuna traccia di ulcera, niente di niente. Insomma, era un uomo "normale"... chissà cosa si aspettavano di trovare, di "non normale"... Ma un dato interessante, che riferisce ancora Romani, è che questo antropologo fa il suo comodo, prende le sue misure, volta e rivolta il corpo di Mussolini e nessuno bada a lui. Un inserviente osserva la testa, "era davvero una bella testa", dice. Dunque, abbiamo parlato prima di "servizio", riferendoci a quello che i medici offrono alla collettività, andando ad indagare sulle cause della morte per capire cosa sia successo davvero, eccetera. Abbiamo anche parlato di deontologia professionale e di "rispetto". Trasformare una sala settoria in un set cinematografico non è "rispetto". Posare con un bel sorriso stampato sulle labbra, neanche si fosse al circo o al parco giochi, non è "rispetto". E questo a prescindere dal "proprietario" del corpo che si trova sul tavolo settorio. Certo, può succedere che sia necessario documentare, anche con fotografie o filmati, un determinato esame: si fa spesso, in genere se ne occupa la scientifica, o comunque personale idoneo. Si fa con pacatezza, con rispetto, con un atteggiamento idoneo al luogo in cui si è e alla situazione in cui ci si viene a trovare. "Fosse stato un morto qualunque - commenta "Gino" con Romani - si sarebbe gridato allo scandalo e alla profanazione. Ma era Mussolini, e si frugava, con curiosità morbosa, nel suo cervello, nel suo intestino, perfino nel suo sesso, alla ricerca del segreto di venti anni di storia e dittatura". Ancora troppi misteri aleggiano su quei giorni e su quegli eventi. Un esame necroscopico condotto in pessime condizioni. Mussolini, Claretta, Starace: mancò il rispetto per i morti, e anche la deontologia professionale. Altra questione, poi, è quella relativa ai criteri con cui occorre procedere a certi esami. Un'indagine tanatologica, per essere affidabile, prevede un certo protocollo, concentrazione, ordine, metodo. Prima di tutto, esaminare corpi che sono stati - dopo morti - oggetto di sevizie di ogni genere, appesi per i piedi per ore, quindi tirati giù, lavati con gli estintori, poi caricati come sacchi su un camion e infine sbattuti in uno stanzone prima di essere portati sul tavolo settorio, non è esattamente la più agevole delle operazioni. Condurre un esame necroscopico, esterno e poi interno, presuppone molta attenzione già in condizioni standard, figuriamoci in un caso come questo. È evidente che sarebbe stato necessario operare un accuratissimo esame esterno prima di tutto, per stabilire intanto quali colpi potessero essere inquadrati come inferti in vita e quali, invece, post mortem. Il referto dell'esame autoptico sul corpo di Mussolini - ne abbiamo parlato spesso - è estremamente carente in questo senso. È estremamente carente in tutto, a dire il vero. Bene, benissimo fece Mario Alessiani a condurre la "sua" indagine. Ma completiamo il nostro ragionamento sulla testimonianza di Bruno Romani, il quale dopo aver lasciato la stanza in cui era stata completata l'autopsia su Mussolini si sposta in un altro stanzone "sulla sinistra del pianerottolo", dove un operaio sta inchiodando alcune casse di legno. In una vi trova adagiato il corpo di Achille Starace, sul quale volto non vede espressione "di dolore o di terrore". Romani legge sul suo viso un'espressione "di arroganza e di sfida". Io non ho visto dal vero il volto di Achille Starace, per ovvie ragioni prima di tutto anagrafiche. Però ho potuto vedere le foto, e non vi ho trovato arroganza né sfida. Vi ho trovato invece un'inaspettata espressione di rassegnazione bonaria. Impressioni. Accanto alla bara di Starace c'è quella di Claretta, con il corpo "ricoperto di lividi", il collo "gonfio". Un inserviente - racconta ancora Romani - con una sigaretta penzolante dalle labbra e vestito di abiti consunti si avvicina al corpo, si inginocchia accanto alla bara, "sollevò il corpo della Petacci afferrandola per le ascelle, appoggiò la testa della morta sulle proprie ginocchia, e rimase immobile in quella posizione per alcuni secondi, quasi dovesse posare davanti a un fotografo. Poi, dopo averci strizzato furbescamente l'occhio, frugò nelle tasche dei pantaloni e ne trasse fuori una lametta Gilette con la quale tagliò, all'altezza dello sterno, il reggipetto. Il seno della donna, di una perfezione scultorea, esplose nella sua nudità. L'inserviente prese uno dei seni nel cavo della mano, fece il gesto di soppesarlo, e quindi disse, guardandosi all'interno: 'è ancora bello duro!'. Un ghigno gli serrò le labbra". Poi il tizio si guarda intorno, come per capire le reazioni al suo gesto, del quale evidentemente va molto fiero. Nessuno reagisce, però. Avevamo parlato di "rispetto" e di "deontologia". Nel pezzo apparso su Risorgimento Liberale c'è anche la lista dei medici che avevano eseguito l'autopsia: Caio Mario Cattabeni, Enea Scolari, Emanuele Dabindo. Il tecnico necroscopico è Pietro Loso. I corpi di Mussolini, di Claretta e di Starace vengono, alla fine, depositati nelle bare di legno, ciascuna di esse - riferisce ancora Romani - riporta sopra un numero. Quella del Duce ha il 167, quella della Petacci il 166, quella di Starace il 165. Il nostro pietoso viaggio in quell'aprile del 1945 per ora finisce qui. Ma il lettore ricorderà quanti misteri ancora aleggiano su molte di quelle vicende. Non si finisce mai di scrivere la storia, e il tempo ci consegnerà ancora elementi utili a capire, per sapere la verità. L'Istituto di Medicina Legale di via Ponzio, dove si svolse l'autopsia di Mussolini, fu voluto proprio dal Fascismo. L'obitorio di Milano e quelle strane trame del destino. Il primo Direttore fu quell'Antonio Cazzaniga che delegò al suo "secondo" l'esame necroscopico sulla salma. Abbiamo accennato, nei giorni scorsi, al fatto che l'Istituto di Medicina Legale di Milano - dove vennero portati i corpi di Benito Mussolini, Claretta Petacci, Achille Starace, dei fascisti uccisi a Dongo e di moltissime persone, tra militari e civili, che vennero massacrate in quei giorni di guerra civile - è stato fondato durante il Fascismo. L'Università degli Studi di Milano venne infatti fondata nel 1924. Suo primo Magnifico Rettore fu il Sen. Prof. Luigi Mangiagalli, che si occupò delle discipline medico-legali e affidò all'ing. Prof. Umberto Massari lo studio del progetto dell'Istituto di Medicina Legale. Pensate che nella Rivista mensile del comune di Milano, stampata presso la Tipografia del Popolo d'Italia, nel 1934 si scriveva che, a quanto riferiva la Commissione di esperti affidataria del progetto per il nuovo obitorio, "Così come è concepito, l'edificio corrisponde a tutte le esigenze pratiche dei servizi, non solo, ma anche a quelle dell'igiene e del decoro". Un decoro che però si perse in quell'aprile del 1945, e ne abbiamo parlato a lungo. Un lungo elenco di "cose da fare" caratterizzava i compiti del personale dell'obitorio stesso, com'è logico che sia, tra cui - ovviamente - "espletamento di indagini complementari di quelle necroscopiche a fini giudiziari". È interessante curiosare tra le carte che raccontano lo spirito con cui venne edificato e organizzato quell'obitorio: spirito che è comune a ogni struttura di questo tipo. Ma in questo caso fa un certo effetto, perché sappiamo cosa accadde lì dentro in quel 30 aprile del 1945 e sembra un curioso e crudele scherzo del destino che proprio lì si sia così tanto mancato di rispetto al corpo dell'uomo che volle quella struttura, struttura che fu edificata e organizzata proprio grazie a lui. Leggere che come area fu scelta quella compresa tra le vie Mangiagalli, Ponzio e piazzale Gorini perché all'epoca era lontana da edifici civili e da aree di traffico urbano, tale dunque da "consentire all'Obitorio quell'atmosfera di austero raccoglimento che particolarmente si intona alla sua specifica funzione". Non solo: "la disposizione dell'area e la sua ampiezza consentono una sistemazione tale da occultare al pubblico della strada il carico e lo scarico delle salme [...] e tutto quando d'altro potrebbe richiamare l'attenzione della gente sulle 'operazioni' connesse all'istituzione". Queste informazioni sono facilmente reperibili sul sito web dedicato alla struttura, che fa un profilo storico dell'Istituto. Un settore della struttura venne destinata proprio al Nuovo Obitorio Comunale, distribuito in due piani: uno al pianterreno e l'altro in un sotterraneo. L'Italia fascista aveva voluto quella struttura. E ora quegli uomini che l'avevano sostenuta transitavano - cadaveri - vilipesi, offesi, maltrattati. L'obitorio venne inaugurato nel 1934. Riferisce il sito, citando uno scritto di Galassi della Regia Università di Milano, Istituto di Medicina Legale, in Acta Medica Italica, VI, 1937: "L’obitorio (ex Morgue) è diviso in tre riparti. Nella sua prima sezione comprende: una sala destinata ad accogliere i dolenti per le ore d’attesa; un locale per la formazione dei cortei funebri; la cappella per la celebrazione delle funzioni religiose di rito; una sala per l’esposizione delle salme, allo scopo di rendere possibili i necessari riconoscimenti; e, infine, un locale adibito a servizi di pronto soccorso che possono essere resi indispensabili nel caso che qualcuno dei dolenti, invitato a riconoscere un suo caro esposto, cogliesse malore. La Sezione si completa con un ufficio che ha l’incarico di provvedere alla registrazione delle salme. La seconda Sezione è destinata alla raccolta delle salme per le osservazioni e per la regolamentare giacenza di 24 o 48 ore, al fine di accertare il decesso o eventuali altri elementi che interessano in modo particolare l’autorità inquirente. Ci sono qui due grandi camerate nelle quali vengono deposte le salme: gli uomini separati dalle donne. Su un fianco dei due cameroni vi è un locale dove è sistemato il dormitorio dei custodi i quali debbono, per disposizione di legge, costantemente rimanere nei pressi del locale di osservazione. Nella terza Sezione infine si aprono le sale per le necroscopie. Sono due, separate da una terza riservata al giudice, incaricato di sorvegliare le operazioni del perito settore e ai testimoni. Da questa sala il magistrato e i testi possono appieno seguire gli atti del perito in quanto le pareti di essa sono a vetri trasparenti. Su un fianco delle tre sale una quarta se ne apre ch’è adibita ai servizi fotografici e che comprende anche l’indispensabile camera oscura per lo sviluppo delle pellicole. Tutti i locali sunnominati sono disimpegnanti da luminosi corridoi ai quali si accede direttamente da un ingresso posto sotto una galleria coperta che serve alla sosta dei carri funebri. Con la stessa galleria comunicano direttamente la cappella e la sala dei dolenti le quali, pur fronteggiando coi loro accessi l’ingresso dell’obitorio, ne sono del tutto separate in modo da evitare che il pubblico che segue i funerali sconfini nell’ambito degli altri servizi. E veniamo al sotterraneo dove troviamo in primo luogo il locale delle macchine che alimentano l’impianto frigorifero che serve ben trenta celle di congelamento. A fianco di esso, sono altri tre locali “freddi” dove le salme vengono portate allorché è necessario ch’esse vengano conservate per un tempo indefinito. Seguono locali per il lavaggio delle salme ed un archivio, dove cioè verranno raccolti indumenti e oggetti repertati dai cadaveri. Infine, c’è il locale che disimpegna il servizio refettorio per il complesso degli inservienti. Benissimo organizzato risulta pure il movimento dei “soggetti” dai locali sotterranei i cadaveri vengono portati al pianterreno a messo di montacarichi e passati nelle celle frigorifere. Da queste vengono poi traslati nelle camere di riconoscimento ove sono immessi in speciali casse rivestite di vetro. Il che permette ai visitatori interessati la più perfetta delle visibilità e, conseguentemente, facilita nel modo più assoluto i “riconoscimenti”. 30 aprile 1945: qualche osservazione a posteriori. Per i fotografi era predisposta una apposita stanza...Perché dunque durante l'esame sul corpo del Duce li vediamo ammassati nella sala settoria? Come si può vedere, tutto venne impostato rigorosamente. Ciò che vorremmo sottolineare è un passaggio specifico: "Su un fianco delle tre sale una quarta se ne apre ch’è adibita ai servizi fotografici e che comprende anche l’indispensabile camera oscura per lo sviluppo delle pellicole". Insomma l'obitorio consta, tra le altre cose, anche di una stanza apposita per i servizi fotografici. Dunque perché nelle immagini che ci riportano le cronache dell'epoca (e dal resoconto di Bruno Romani che abbiamo terminato ieri di riferire ai nostri lettori) vediamo fotografi ammassati nella stessa sala settoria in cui venne esaminato il corpo di Mussolini? Certo oggi, settantuno anni dopo, è inutile andare a cercare responsabilità di qualunque genere... ma qualche domanda, qualche perplessità va quantomeno rilevata. Perché è importante che gli Italiani si rendano conto di come fu gestita quella faccenda: e quel che accadde è grave, gravissimo. Qualche piccola annotazione ancora. Dice ancora il documento: "Bene alloggiato risulta il personale dell’istituzione: fra l’altro si è avuta un’ottima idea quando si è pensato di alloggiare il custode in quei quattro bei locali ricavati in un sopraelevato: la villetta sul tetto …. Non manca, infine, nota di grazia e di vita nel bel giardinetto, una civettuola zona sistemata a verde, copiosamente alberata e fiorita". Giusto per sottolineare un aspetto del Fascismo spesso dimenticato, che consiste nel criterio che veniva utilizzato molto spesso: lo abbiamo già visto in molti casi, per esempio il lettore ricorderà quello delle fabbriche Caproni a Predappio. Il personale, i dipendenti, cioè, venivano alloggiati direttamente sul posto di lavoro: era lo Stato a mettere a disposizione i locali abitativi, ed erano sempre belle strutture, comode e rifinite. Chiedersi perché queste cosine non vengano raccontate sui libri di scuola è d'obbligo. Altro dettaglio non insignificante: il primo direttore dell'istituto fu il professor Antonio Cazzaniga, a cui succederà il prof. Caio Mario Cattabeni. Due nomi che al lettore dovrebbero ricordare qualcosa: quando venne effettuata l'autopsia di Benito Mussolini, titolare della direzione era proprio Cazzaniga, che però non eseguì personalmente l'esame, affidando la salma nelle mani del suo "secondo", Cattabeni appunto. Perché? Perché un titolare dovrebbe lasciare ad altri un esame di questo rilievo? Tanto più se parliamo di un insigne professionista, autore - tra l'altro, e guarda un po' - di un'opera dal titolo "I problemi cronologici in medicina legale", uscito nel 1948.
Cattabeni, dal canto suo, divenne direttore dell'Istituto nel 1955. Forse Cazzaniga non se la sentì di dover sottostare a certi diktat. Forse ebbe lo scrupolo di non rendersi corresponsabile di ciò che sapeva sarebbe accaduto proprio relativamente al corpo dell'uomo che lo aveva messo a capo, anni prima, di quella struttura.
IL MISTERO DELLE FOIBE.
Settant'anni di omertà, ora spunta un'altra foiba. Lo rivela un documento "dimenticato" negli archivi del Ministero degli Esteri. Nella fossa in provincia di Udine 200-800 corpi, sembra vittime di partigiani rossi, scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Una nuova foiba sembra tornare alla luce dagli orrori del passato, il giorno del Ricordo del dramma degli esuli istriani, fiumani e dalmati. La fossa comune non si troverebbe nell'ex Jugoslavia, ma in provincia di Udine. Le Foibe scordate dentro un cassetto. I responsabili del massacro, nascosto per 70 anni, sarebbero i partigiani comunisti della divisione Garibaldi-Natisone, che nel 1945 erano agli ordini del IX Corpus jugoslavo del maresciallo Tito. Le vittime nella fossa comune sarebbero fra 200 ed 800. I carabinieri sono stati informati. Ieri, Giorno del ricordo dell'esodo e delle foibe, Luca Urizio, presidente della Lega nazionale di Gorizia, ha reso pubblico un documento «dimenticato» negli archivi del Ministero degli Esteri, che rivela il punto esatto della strage ancora da confermare. Il 30 ottobre 1945 arrivò a Roma un rapporto dell'Ufficio informazioni, gruppo speciale. «La foiba e la fossa comune esistente nella zona di Rosazzo (provincia di Udine, ndr) è ubicata precisamente nella zona chiamata ... (il nome del posto è cancellato per mantenere il riserbo)». L'informativa fa parte delle notizie segrete «Ermete» e riporta che «secondo quanto afferma la popolazione dovrebbero essere sepolti da 200 a 800 cadaveri facilmente individuabili perché interrati a poca profondità». L'Ufficio informazioni indica anche i presunti mandanti: «Il responsabile di detto massacro della popolazione è ritenuto il comandante della divisione Garibaldi-Natisone Sasso coadiuvato dal commissario politico Vanni». L'informativa segreta è rimasta sepolta in archivio fino allo scorso anno, quando l'ha trovata Urizio, che a Roma voleva fare luce sui deportati dei titini da Gorizia nel 1945. «Sasso» è il nome di battaglia di Mario Fantini e «Vanni» quello di Giovanni Padoan, noti fazzoletti rossi della Resistenza passati a miglior vita. Nel documento si indica anche un testimone: «Per avere chiarimenti e indicazioni necessarie per la identificazione occorre interrogare un certo Dante Donato ex comandante Osovano da Premariacco». I partigiani della brigata Osoppo erano stati massacrati dai garibaldini a Porzus nel febbraio 1945 perché si opponevano all'espansionismo titino. «La fossa non è lontana da Bosco di Romagno dove vennero trucidati parte degli osovani - rivela Urizio -. I carabinieri hanno chiesto di non rivelare la località esatta. Sopra i corpi potrebbero esserci delle armi abbandonate». Un altro documento recuperato a Roma del prefetto di Udine, Vittadini, l'11 giugno 1945, conferma che ai garibaldini «sarebbero stati anche di recente consegnati mitra russi con forte munizionamento e con l'ordine di tenersi pronti nel caso che da parte di Tito venisse ordinata un'azione di forza». Urizio ipotizza con il Giornale che «nella fossa comune potrebbero esserci civili e militari sia italiani che tedeschi. Un paese intero era a conoscenza della strage, reato che non va in prescrizione. Spero che dopo 70 anni cada finalmente il velo d'omertà». Agli inizi degli anni Novanta, dopo mezzo secolo di silenzio, i carabinieri avrebbero cominciato a ricevere vaghe informazioni sul massacro, ma la fossa non è mai stata trovata. Sembra che esista anche una confessione postuma di chi sapeva o ha partecipato alla strage. La Lega nazionale, che storicamente si batte per l'italianità, chiede di fare piena luce. Dagli archivi ministeriali romani sono saltate fuori anche le liste con nomi, cognomi e date di sparizione dei deportati dai partigiani titini nel 1945 a guerra finita. «Gli elenchi allegati si riferiscono a n. 1203 persone scomparse di Gorizia () Si ignora se dette persone siano state deportate in Jugoslavia dai partigiani di Tito o uccise e gettate nelle foibe» riporta un documento del 1° ottobre '45 dello Stato maggiore dell'esercito. «Li stiamo confrontando con le liste di quelli che sono rientrati - spiega Urizio -. A Gorizia non sono tornati in 750-800. L'obiettivo è trovare dove sono finiti per permettere ai familiari di pregare o porgere un fiore». A Gorizia esiste già un monumento dedicato a 665 scomparsi. L'iniziativa bipartisan è stata sostenuta dal comune isontino e dal senatore dem Alessandro Maran. Fra i documenti recuperati a Roma colpisce la lettera del Cln di Gradisca d'Isonzo al presidente del Consiglio, Alcide de Gasperi, del 7 giugno 1946. «L'unione italo-slava di questa zona, che si autodefinisce antifascista non è in sostanza che la continuazione del fascismo in funzione panslavista», scrive G. Francolini seguito da altre firme. «Questi signori, che amano auto definirsi il popolo non rappresentano che se stessi e quella piccola frazione eterogenea la cui unica forza di coesione si manifesta nell'odio contro il popolo italiano».
«Così sabotano il mio film sulla strage più feroce commessa dai partigiani», scrive "Il Giornale" Domenica 11/11/2012. Della maestra elementare, Corinna Doardo, 39 anni, vedova di un sarto, che aveva insegnato a leggere e a scrivere a uno stuolo di bambini, ha scritto Giampaolo Pansa ne Il sangue dei vinti: «Andarono a prenderla a casa, la portarono dentro il municipio e la raparono a zero. La punizione sembrava finita lì e invece il peggio doveva ancora venire. Le misero dei fiori in mano e una coroncina di fiori sulla testa ormai pelata e la costrinsero a camminare per la via centrale di Codevigo, fra un mare di gente che la scherniva e la insultava. Alla fine di questo tormento, la spinsero in un viottolo fra i campi. E la uccisero, qualcuno dice con una raffica di mitra, altri pestandola a morte sulla testa con i calci dei fucili». Del figlio del podestà, Ludovico Bubola, detto Mario, ha riferito Antonio Serena ne I giorni di Caino: «I barbari venuti a liberare il Veneto cominciano a segargli il collo con del filo spinato, finché la vittima sviene. Allora provvedono a farlo rinvenire gettandogli in faccia dei secchi d'acqua fredda. Ma il martire non cede e grida ancora la sua fede in faccia ai carnefici. Allora provvedono a tagliargli la lingua che gli viene poi infilata nel taschino della giacca. Quindi, quando la vittima ormai agonizza, gli recidono i testicoli e glieli mettono in bocca. Verrà poi sepolto in un campo d'erba medica nei pressi, sotto pochi centimetri di terra». Di Farinacci Fontana, che aveva appena 18 anni ed era infantilmente orgoglioso della sua fede nel Duce, compendiata fin dalla nascita in quell'assurdo nome di battesimo mutuato dal cognome di un gerarca fascista, vorrebbe parlare il regista Antonello Belluco ne Il segreto. Ma un conto è leggere certe cose sui libri degli storici revisionisti, un altro conto è guardarle al cinema, e Il segreto è appunto un film. Che nessuno deve vedere, anzi che non si deve nemmeno girare, perché è ambientato sullo sfondo dell'eccidio di Codevigo, il più cruento, insieme con quello della cartiera di Mignagola nel Trevigiano, compiuto dai partigiani in un'unica località a guerra già finita, a Liberazione già avvenuta, ad armi già deposte, in un arco temporale che va dal 29 aprile al 15 maggio, forse anche dopo, nessuno può dirlo con precisione. Così come nessuno ha mai stabilito la contabilità esatta della mattanza: c'è chi parla di 136 vittime, chi di 168 e chi di 365, come i giorni di quell'atroce 1945.
Secondo il cardiologo Luigi Masiero i giustiziati furono non meno di 600, ma il calcolo potrebbe essere inficiato dal fatto che il medico era stato, come quasi tutti, camicia nera. Un documento dell'arcidiocesi di Ravenna-Cervia ipotizza addirittura la cifra di 900 morti. Don Umberto Zavattiero, a quel tempo prevosto di Codevigo, annota nel chronicon parrocchiale: «30 aprile. Previo giudizio sommario fu uccisa la maestra Corinna Doardo. Nella prima quindicina di maggio vi fu nelle ore notturne una strage di fascisti importati da fuori, particolarmente da Ravenna. Vi furono circa 130 morti. Venivano seppelliti dagli stessi partigiani di qua e di là per i campi, come le zucche. Altri cadaveri provenienti da altri paesi furono visti passare per il fiume e andare al mare». In questa macabra ridda, diventa una certezza un titolo a tre colonne uscito sul Gazzettino soltanto 17 anni dopo, il 28 marzo 1962: «Esumate un centinaio di salme e raccolte in un piccolo ossario». È la prima cappellina sulla sinistra, nel cimitero di questo paese della Bassa padovana. Mezzo secolo fa vi furono tumulati i resti di 114 dei fascisti trucidati. Un'ottantina di loro hanno un volto negli ovali di ceramica. Tanti cognomi scolpiti sulla lapide e una postilla finale: «N. 12 ignoti». Belluco è un padovano di 56 anni, laureato in scienze politiche. Ha lavorato in Rai dal 1983 come programmista e regista per Radio 2 e Rai 3, prima a Venezia e poi a Roma. «Sono entrato grazie a un'unica referenza: l'aver vinto il premio Cento città, indetto dalla casa discografica Rca, che l'anno prima era andato al dj Claudio Cecchetto. In mensa mi chiedevano: “Tu da chi sei raccomandato?”. Tutti avevano un padrino». Nel 1987 lo convoca Antonio Bruni, dirigente della Tv di Stato: «Qua dentro, senza un partito alle spalle, non puoi far carriera. Meglio se ti cerchi un lavoro fuori». Belluco ascolta il consiglio. Si mette a girare spot e filmati per Lotto, Safilo, Acqua Vera, Lavazza, Pubblicità Progresso. Produce audiovisivi per Il Messaggero di Sant'